I «favolosi» anni Sessanta nel ricordo dei protagonisti di quella

Cultura | La capitale di un movimento giovanile
I «favolosi» anni Sessanta nel ricordo dei protagonisti di quella stagione
da Caterina Caselli e Maurizio Vandelli a Shel Shapiro
Quando
Modena era
tutta
Non solo i Nomadi o l’Equipe 84. Nel libro «Avanzi di balera» Massimo Masini
ha censito oltre 120 gruppi musicali attivi tra il 1960 e il 1975.
Modena è stata una piccola Liverpool, ricca di fermento e all’avanguardia
nelle tendenze. E la città sta scoprendo l’orgoglio per un «prodotto tipico»
di cinquant’anni fa che ancora si fa ricordare
«Quando incidemmo
i primi dischi,
noi continuammo
a vivere
sotto la Ghirlandina»,
confessa Maurizio Vandelli,
leader dell’Equipe 84.
«Abbiamo lasciato
Modena molto più avanti.
Era comodissimo
stare a casa
e fare i bamboccioni,
avendo intrapreso
la strada rischiosa.
Tenevamo
un piede nel sicuro
e un piede nell’incerto»
Equipe 84, 1963
Quel periodo si ricorda
con tanto affetto
perché «quelle canzoni
hanno ancora una freschezza
che gli anni non hanno nascosto»,
commenta Caterina Caselli.
«In Italia e nel mondo
c’era un mercato discografico
in ascesa.
Oggi è tutto il contrario.
Allora si investiva
su nuove proposte,
anche perché un successo
ti ripagava degli errori,
oggi invece il successo
fa fatica a remunerare
se stesso»
Caterina Caselli, 1966
di Stefano Marchetti
84 OUTLOOK
OUTLOOK 85
Cultura | La capitale di un movimento giovanile
Il 22 novembre 1963,
il fatidico giorno
dell’assassinio
di John Fitzgerald
Kennedy,
all’Eden di Modena
debuttarono
i Sei Nomadi (gli ex
Monelli) il gruppo
di Beppe Carletti
e Leo Manfredini,
con Augusto Daolio
e Franco Midili.
Beppe e Leo erano
amici d’infanzia
e avevano iniziato
a suonare alla scuola
di musica
del maestro
Odoardo Mozzarini
a Novi
I Nomadi, 1963
Per Shel Shapiro
«quel tempo
è la fotografia di quando
c’era ancora l’innocenza
e la purezza, che la tv
e tanti altri strumenti
fanno di tutto
per distruggere.
Allora se volevi
comunicare
con il mondo
dovevi passare
attraverso la musica:
bisognava
fare le cose.
Oggi invece c’è chi pensa
per te, chi le fa per te,
e tu parti sempre
guardando le emozioni
degli altri.
Siamo diventati
dei voyeur»
I Rokes, 1967
86 OUTLOOK
N
oi abbiamo in mente loro:
Maurizio, Caterina, Beppe,
Pier, Dodo, Johnny, i giovani
che nel cuore degli anni Sessanta, forse senza accorgersene, hanno fatto una rivoluzione. Niente a che vedere
con il ’68: tutto sommato,
quello era ancora lontano. La loro fu una rivoluzione in
musica, la grande svolta beat. «Non c’è dubbio, Modena
è stata la prima città beat in Italia», sentenzia Renzo
Arbore, uno che se ne intende. «Anche noi che abitavamo più a sud abbiamo sempre pensato che questa città
fosse all’avanguardia: i ragazzi erano sempre molto
vispi. E per questo non ci meravigliammo affatto quando vedemmo che Modena fu la prima a entusiasmarsi
per il vento nuovo che stava arrivando nella musica».
Sono trascorsi praticamente cinquant’anni da allora
(eh già, il calendario corre), eppure oggi più che mai si
guarda con interesse alla riscoperta di quel fenomeno
che fu anche di costume: in questa città fra la via
Emilia e il West ora è nata una nuova voglia di beat
«perché Modena sente con orgoglio che è parte della sua
identità, come il bel canto, le auto sportive o il Romanico», dice Roberto Alperoli, assessore comunale alla cultura e «motore» di molte iniziative che ci hanno fatto
ritrovare il ritmo di una dolce vita.
Gli anni Cinquanta erano alle spalle: anche Modena, dopo la fatica della ricostruzione, cominciava ad
assaporare un nuovo benessere. E la voglia di fare
musica. «C’erano già varie orchestre da ballo, e c’era
soprattutto una concentrazione di locali e di balere che
non si trovava altrove. Quando arrivò la nuova onda
sonora, scattò un nuovo protagonismo giovanile: e
tanti cominciarono a “saltare” sul palco, anche se non
erano musicisti completi», fa notare Massimo Masini,
appassionato cultore di quel periodo nonché collezionista di memorabilia dei Beatles. Per lui, davvero,
Modena è stata una piccola Liverpool. Nel suo volume
«Avanzi di balera», pubblicato da Anniversary Books,
ha censito pazientemente (e in rigoroso ordine
«alfaBeatico») decine e decine di gruppi musicali nati a
Modena e provincia fra il 1960 e il 1975, «ovvero dal
momento del concepimento e della gestazione della
musica beat, fino alla traumatica defenestrazione
della musica dal vivo dai locali da ballo con l’avvento
delle discoteche e dei disc jockey». Masini ha contato
almeno 120 complessi, «ma probabilmente erano
almeno una ventina di più». Tutti hanno avuto il loro
quarto d’ora di celebrità: alcuni, come l’Equipe 84 o i
Nomadi, sono diventati leggendari.
«C’erano già
varie orchestre
da ballo e c’era
soprattutto una
concentrazione
di locali
e di balere
che non si trovava
altrove», fa notare
Massimo Masini,
cultore del beat,
con due libri
all’attivo
«Avanzi di Balera»
e «Seduto in quel
caffè…».
«Quando arrivò
la nuova onda
sonora
scattò un nuovo
protagonismo
giovanile.
In tanti
cominciarono
a "saltare"
sul palco
anche se
non erano
grandi musicisti»
Il beat vero e proprio ha avuto il suo cuore fra il ’63 e
il ’67. «In quel periodo c’era veramente grande fermento. Eravamo tutti molto giovani, con un orecchio puntato verso Londra e l’altro nella nostra realtà», ci racconta Caterina Caselli, testimone e testimonial d’eccezione, quel casco d’oro che da Sassuolo ha conquistato
l’Italia e che oggi, come manager della Sugar Music,è
imprenditrice ed eccellente talent scout. «Modena è
stata sempre una realtà molto generosa e attenta nei
confronti della musica: la possibilità di esprimersi sul
palco, nei locali, dava a tutti i musicisti un’occasione di
confronto con il pubblico. Era un grande aiuto. Avevamo voglia di musica, e voglia di fare musica. Qui a
Modena eravamo molto in sintonia con quello che accadeva a Londra, molto più di quanto non lo fossero, per
esempio, a Bologna. E non solo nella musica. Io ero giovanissima e litigavo con mia mamma che voleva indossassi una bella gonna, mentre a me piacevano i pantaloni a zampa d’elefante: “Non ti azzardare a uscire
così”, mi diceva. Poi, quando andai in Carnaby Street,
mi accorsi che in realtà io vestivo come loro». In questa
città dove una volta c’erano i canali, scorreva un fiume
di musica: c’erano le feste studentesche al Circolo della
Stampa o all’Eden, mentre al Sacro Cuore e alla
Domus, l’attuale teatro Michelangelo, un infaticabile
Corrado Bacchelli aveva dato vita alle sfide musicali
studentesche di «Tutti contro Tutti» dove si esibiva
anche un certo Francesco Guccini, e pochi chilometri
più in là, a Sassuolo, il maestro Ivo Callegari (che scoprì
il talento di Caterina) mandava i suoi allievi alla ribalta, riproducendo le gare di una trasmissione radiofonica di successo, il «Buttafuori». «Io ero la più scatenata,
cantavo “Tintarella di luna” di Mina e “Il tuo bacio è
come un rock” di Celentano», aggiunge Caterina. «E da
quel momento il maestro Callegari mi fece entrare
nella sua orchestra».
N
el frattempo, al bar
Grand’Italia in largo
Porta Bologna, a due
passi dal teatro Storchi,
si incontravano i giovanotti più creativi, fra cui
anche Franco Bonvicini
detto Bonvi, Guccini e
Pier Farri, Victor Sogliani, e Maurizio Vandelli che
sarebbe poi diventato il volto dell’Equipe 84: «Quella
era una Modena in attesa di eventi», sorride lui ripensando a quegli anni. «Ci trovavamo al Grand’Italia più
che altro per trovare la maniera per “fregare” la vita,
cercavamo idee per non metterci dietro a uno sportello
OUTLOOK 87
Cultura | Immagini dal mondo
«Nei primissimi anni
Sessanta», rievoca
Massimo Masini,
«la musica da ballo
erano il rock’n’roll
o l’hully gully (italianizzato
in alligalli).
Oppure si proponevano
i pezzi d’atmosfera
alla Perez Prado.
La vera svolta fu nel 1963,
quando arrivò in Italia
"Please please me"
dei Beatles, e allora
cominciò davvero
il beat nel nostro Paese»
Il gruppo Jerry Capistrano, 1973
Nel grande jukebox di Modena
dal 1965 fiorì anche un gruppo
beat tutto al femminile.
Erano Le Scimmie,
cinque ragazze allieve
della scuola di musica
del maestro
Antonio Bononcini.
«Volevamo creare
un complesso»,
racconta Nara Gavioli,
bassista del gruppo.
«anche se al nostro maestro
non piaceva che facessimo
le canzoni dei Beatles
o dei Rolling Stones».
Il loro successo fu strepitoso
e per quasi dieci anni
le portò in giro per l’Italia
Le Scimmie, 1969
88 OUTLOOK
a fare gli impiegati. Volevamo una soluzione creativa
che ci portasse da qualche parte. Certo, a quel caffè succedeva di tutto: lì c’era la sfilata dei modelli, c’erano le
idee che venivano fuori, e la musica era sempre al centro della situazione. Abbiamo cominciato così, con una
musica molto semplice, poco impegnata ma tanto divertente. E abbiamo creato la storia italiana del beat».
S
eduto a quel caffè c’era anche Carlo Savigni, che amava le ragazze, i Ray Ban Shooting e le auto
d’epoca, e soprattutto amava scattare fotografie, anche quelle che
sono poi divenute il ritratto della favolosa stagione beat: «Modena era davvero una piccola città, bastardo posto, come cantò Guccini», confida. «Certo, il Grand’Italia era un punto d’incontro, un po’ come
avviene oggi per alcuni locali che sono un riferimento
per i giovani, come mia figlia. Là si incontravano ragazzi che non sapevano cosa sarebbe successo. Hanno semplicemente seguito la loro strada». Sì, perché in effetti
allora non si rincorreva l’impegno politico, non c’erano
velleità di lanciare chissà quali messaggi. Lo ha dipinto
con grande efficacia Edmondo Berselli, in una pagina
di «Quel gran pezzo dell’Emilia» che si fa rileggere con
emozione: nella nostra regione «c’erano decine di luoghi di raccolta in cui convergevano estremisti, sperimentatori, cazzeggiatori, nonché grandissimi viaggiatori, oltre a talenti indecifrabili ed eccentrici senza appello. Tutta gente che era vergine di politica perché la
politica da queste parti era il Partito Comunista, cioè
una presenza immanente, un elemento climatico o, come avrebbero detto i capi della cellula, un fattore strutturale. Quindi il coinvolgimento politico si poteva evitare, non ci rompete, tanto il voto lo prendete lo stesso:
e dedicarsi felicemente ad altro». Nulla a che vedere
pure con la beat generation d’oltreoceano: «Quella è stata tutta un’altra cosa. Il beat in Italia ha significato la
nascita della cultura rock, che non è solo cultura musicale, ma cultura di vita», scandisce Shel Shapiro, voce
e leader dei Rokes che nel nostro Paese vendettero la
bellezza di cinque milioni di dischi. «Il beat è stato la
liberazione dalla guerra, il segno della voglia di cambiare e di andare avanti rompendo tutte le vecchie regole. È venuto tutto naturale, perché il mondo stava
andando in quella direzione».
Nei primissimi anni Sessanta, rievoca Massimo
Masini, «la musica da ballo erano il rock’n’roll o l’hully
gully (italianizzato in alligalli). Oppure si proponevano
i pezzi d’atmosfera alla Perez Prado. La vera svolta fu
Molti cantanti
esordirono
con le cover,
versioni italiane
di brani
anglosassoni
o statunitensi:
Caterina Caselli
propose quella
di «Paint it black»
dei Rolling Stones,
divenuta
«Tutto nero»
ma lo strepitoso
successo del 1966
«Nessuno mi può
giudicare»
nacque tutto
in Italia
con le mitiche firme
dei maestri Beretta,
Del Prete, Pace
e Panzeri
Sopra,
Caterina Caselli
con Roberto
Alperoli,
assessore
alla Cultura
di Modena,
e con Beppe
Carletti
dei Nomadi
nel 1963, quando arrivò in Italia “Please please me” dei
Beatles, e allora cominciò davvero il beat nel nostro
Paese». Eh sì, «era venuto il momento in cui si potevano
indossare le giacchettine striminzite, i pantaloni a tubo, i berrettini, le camicie eccentriche, e farsi crescere
moderatamente o smodatamente i capelli», scriveva
ancora Edmondo Berselli nell’introduzione del libro
fotografico «Seduto in quel caffè...», curato sempre da
Masini. In fondo, «noi contestavamo i genitori, ma gentilmente, mica come hanno fatto i punk», ammette Vandelli. Nel 1962 i fratelli Gianni (Johnny) e Urano Borelli fondarono i Marines, e dopo qualche mese si unì a
loro anche la sorella Ambra che nel ‘63 partecipò al
festival di Castrocaro, sullo stesso palco con la giovane
esordiente Gigliola Cinquetti, che quel festival lo vinse
con una canzone di Giorgio Gaber. E il 22 novembre
1963, sì, proprio il fatidico giorno rimasto nella storia
per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, all’Eden di
Modena debuttarono i Sei Nomadi (gli ex Monelli) il
gruppo di Beppe Carletti e Leo Manfredini, con Augusto Daolio e Franco Midili: Beppe e Leo erano amici di
infanzia, e avevano iniziato a suonare alla scuola di
musica del maestro Odoardo Mozzarini a Novi. Sempre
nel 1963, in dicembre, alla Grotta Azzurra di Carpi si
presentò alla ribalta l’Equipe 84, con Alfio Cantarella e
Victor Sogliani (che prima suonavano nei Gatti con Francesco Guccini e Franco Fini Storchi), Franco Ceccarelli
e Maurizio Vandelli (dai Giovani Leoni), e la direzione
artistica di Pier Farri. «Decidemmo di chiamarci Equipe perché volevamo un nome che suonasse al femminile, per essere diversi dagli altri, dai soliti gatti, topi o
cani», ammicca Vandelli. «Ci sarebbe piaciuto anche
“Four Seasons”, ma in italiano era “Quattro stagioni” e
sapeva molto di pizza. Il numero 84 lo aggiungemmo
perché speravamo che la Stock ci chiamasse a cantare
in un Carosello».
OUTLOOK 89
Cultura | La capitale di un movimento giovanile
KREACTIVFARMCOM
E
In alto, Shel Shapiro.
A sinistra,
alcune pagine
del volume
«Avanzi di balera»
Caterina? «Cantavo con l’orchestra Callegari, e a Scandiano vennero a trovarci Maurizio e Pier dell’Equipe 84.
Mi dissero che dovevo assolutamente andare a Roma. Mi
parlavano di Roma come se
fosse New York. Ci preparammo per avere un repertorio più ampio, e finalmente sbarcammo nella capitale. Rimanemmo quindici
giorni al Capriccio, vennero ad ascoltarmi Gino Paoli,
Edoardo Vianello, gli artisti della Rca, e poi una sera
arrivarono i proprietari del Piper e mi scritturarono
per un mese intero. Fu là che mi scoprì Ladislao Sugar: mi disse che, ascoltando me, Celentano gli era
sembrato vecchio, e mi fece un contratto con la Cgd».
Molti cantanti esordirono con le cover, versioni italiane di brani anglosassoni o statunitensi: Caterina
Caselli per esempio propose quella di «Paint it black»
dei Rolling Stones, divenuta «Tutto nero» («Molti pensavano che fosse un brano originale e che gli Stones
l’avessero presa da me», ride), ma lo strepitoso successo del 1966, «Nessuno mi può giudicare», nacque tutto
in Italia, con le mitiche firme dei maestri Beretta, Del
Prete, Pace e Panzeri. «L’avevano scritta per Celentano, ma lui poi decise di presentarsi a Sanremo con
“Il ragazzo della via Gluck” e così la riarrangiarono
per me e Gene Petney». Anche «Come potete giudicar»
Focus | La top five del beat italiano
a quali sono le canzoni che
hanno rappresentato,
meglio di altre, l’epoca beat italiana? Quali sono i brani irrinunciabili, quelli che sicuramente
fanno parte della storia della
musica leggera nazionale? Lo
abbiamo chiesto a Massimo
Masini, autore dei due volumi
«Seduto a quel caffè» e «Avanzi
di balera» nei quali ha rievocato
gli anni del beat modenese. E lui
ha stilato un ideale poker d’assi,
anzi una cinquina di pezzi che
ognuno dovrebbe avere nella
propria discoteca personale o
magari nell’IPod. Da non mancare è «Io ho in mente te»
M
Una piccola innovazione può diventare
un grande valore. Proteggila
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MODENA MAROSCIAIT
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6ICENZA
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INFO MAROSCIAIT
dell’Equipe 84, versione italiana
di «You were on my mind» di
Barry McGuire e dei We Five,
«per il suo ritmo martellante e
quel "wo wo" liberatorio», spiega
Masini. E poi mettiamo una coppia di brani, «Che colpa abbiamo
noi» dei Rokes (versione italiana
di «Cheryl’s going home» di Bob
Lind, con testo italiano di Mogol)
e «Come potete giudicar» dei
Nomadi, da «The revolution kind»
di Sonny Bono: «Entrambe queste canzoni esprimono contenuti
molto chiari, sono come una "lettera aperta" verso la società». In
questa hit parade degli anni
Sessanta, non può mancare
«Nessuno mi può giudicare» di
Caterina Caselli, «per la "scandalosa" rivendicazione proto-femminista del testo», sottolinea
Masini. E per suggellare questo
viaggio nella memoria, mettiamo
anche «Bandiera gialla» di Gianni
Pettenati, versione italiana di
«Pied piper», «soprattutto perché, con l’omonima trasmissione, incarnò un vero e
proprio richiamo a
mettersi religiosamente all’ascolto
delle novità beat
proposte da Renzo
Arbore e Gianni
Boncompagni».
Renzo Arbore
OUTLOOK 91
Cultura
dei Nomadi, considerata la canzonesimbolo del beat italiano, riprendeva un
brano di Sonny Bono, «The Revolution
Kind», pur con un testo completamente
adattato da Dodo Veroli, e «Io ho in mente te», hit dell’Equipe, nasceva da un
brano d’importazione, «You were on my
mind» di Barry McGuire e dei We Five.
Modena comunque accompagnò sempre
la vita dei suoi talenti: «Quando incidemmo i primi dischi, noi continuammo
a vivere sotto la Ghirlandina. Abbiamo
lasciato Modena molto più avanti», sussurra il leader dell’Equipe. «Era comodissimo stare a casa e fare i bamboccioni, avendo intrapreso la strada rischiosa. Tenevamo un piede nel sicuro e un piede nell’incerto». Fu grande, si disse, la
rivalità con i Rokes: «Ma no, era tutta
una costruzione dei giornali», si schermisce Shel Shapiro. «Sinceramente noi
non vivevamo temendo l’Equipe 84. La
necessità di creare degli avversari, in
tutti i campi, è una cosa particolarmente italiana».
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le bamboline, non a caso avevamo deciso di chiamarci
Scimmie. Però non ci siamo mai sentite delle rivoluzionarie. Anzi, i genitori ci hanno aiutato e sostenuto, e
agli inizi, siccome avevamo quindici o sedici anni, qualche adulto veniva sempre con noi».
Già nel 1967 il beat italiano cominciò a prendere
una nuova strada: i ragazzi con i pantaloni a tubo stavano per lasciare il posto ai figli dei fiori. L’Equipe 84 si
affidò alla magica coppia Mogol-Battisti che scrisse la
famosa «29 settembre», «il brano che secondo me ha
chiuso l’epoca beat», dice Vandelli. Una canzone, una
data che il Comune di Modena ha acchiappato per
farla diventare il simbolo di un nuovo sentimento beat,
che si rinnova ogni anno con un grande happening in
piazza Grande e in tutto il centro cittadino. Non un
semplice revival, quanto piuttosto la capacità di ritrovare un genius loci. «Non ci siamo inventati nulla»,
spiega l’assessore Alperoli. «Questa è una storia non
sufficientemente illuminata, e che invece può far dialogare le generazioni. Una storia utile che può costituire una spinta propulsiva anche per chi oggi fa musica,
come i trecento gruppi che gravitano attorno al Centro
musica: realmente, in quegli anni, oltre alla nascita di
nuove realtà economiche come il Villaggio Artigiano, o
di servizi d’eccellenza come gli asili, Modena ebbe la
Scrive Edmondo Berselli nel suo libro «Quel Gran Pezzo dell’Emilia»:
«C’erano decine di luoghi di raccolta in cui convergevano estremisti,
sperimentatori, cazzeggiatori, nonché grandissimi viaggiatori, oltre
a talenti indecifrabili ed eccentrici senza appello. Tutta gente che era
vergine di politica perché la politica da queste parti era il Partito
Comunista, cioè una presenza immanente, un fattore strutturale.
Quindi il coinvolgimento politico si poteva evitare, non ci rompete,
tanto il voto lo prendete lo stesso: e dedicarsi felicemente ad altro»
capacità di esprimere una dimensione creativa che è
giusto valorizzare». Non si vuole fare il monumento al
beat, e forse non sarebbe neanche giusto chiuderlo in
un classico museo. Nel libro dei desideri (risorse permettendo) c’è l’ipotesi di creare una «Beat House», un
luogo che potrebbe custodire foto e memorabilia, ma
dovrebbe anche diventare un punto di incontro, un
palcoscenico e una sala prove.
E
nel grande jukebox di Modena dal 1965
fiorì anche un
gruppo beat
tutto declinato
al femminile,
le scatenatissime Scimmie, cinque ragazze allieve
della scuola di musica del maestro Antonio Bononcini. «Certamente anche noi
avvertivamo il fermento che percorreva
tutta Modena, e che si sentiva anche nei
tanti negozi di strumenti musicali che
esistevano allora in città», racconta Nara
Gavioli, bassista del gruppo. «Non volevamo creare un’orchestra, ma un complesso, anche se al nostro maestro non
piaceva che facessimo le canzoni dei
Beatles o dei Rolling Stones». Il loro successo fu strepitoso, e per quasi dieci anni
le portò in giro per l’Italia, per lunghe
tournée, perfino al meridione e nelle basi
Nato. «Eravamo piene di entusiasmo, energiche, e non ci tenevamo a essere del-
A sinistra, le componenti
del gruppo beat Le scimmie
riunite in occasione
della presentazione del libro
di Masini qualche mese fa.
Sopra, la copertina
di una hit del 1967
di «Johnny e i Marines»
MODENA - VIALE V. REITER, 38 - 059.221122 - CARPI - 059.654688
OUTLOOK 93
la P
Posta
osta testimone
della nostra Storia
Cultura
I
nsomma, è stata una bella storia. «Di più: una storia grandiosa!», esclama Vandelli. «È
stato come trovarsi nel posto
giusto al momento giusto, ed
essere toccati da una fatina.
Conosco talenti spaventosi che purtroppo
non sono riusciti a fare nulla». «Se eri di
Modena, allora avevi una marcia in più,
quasi ti sembrava di avere più possibilità»,
prosegue Massimo Masini. Ma perché si ricorda quel periodo con tanto affetto? «Quelle canzoni hanno ancora una freschezza
che gli anni non hanno nascosto: vuol dire
che quel tempo e quel lavoro sono stati spesi bene», commenta Caterina Caselli. «Era
bello perché si rischiava con semplicità,
non c’era il timore di sbagliare, si faceva e
basta. In Italia e nel mondo c’era un mercato discografico in ascesa che poi è diventato
davvero imponente. Oggi è tutto il contrario. Allora si investiva su nuove proposte,
anche perché un successo ti ripagava degli
errori, oggi invece il successo fa fatica a remunerare se stesso. Noi stessi appena dieci anni fa lanciavamo dieci nuovi progetti
ogni anno: oggi invece ne facciamo uno
solo».
Shel Shapiro ci mette un tocco di poesia:
«Quel tempo è la fotografia di quando c’era
ancora l’innocenza e ancora, in qualche
modo, la purezza. La tv e tanti altri strumenti fanno di tutto per distruggere qualsiasi forma di innocenza. Allora c’erano la
radio, il cinema il sabato sera e poco altro,
e se volevi comunicare con il mondo dovevi
passare attraverso la musica: bisognava
fare le cose, oggi invece c’è chi pensa per te,
chi le fa per te, e tu parti sempre guardando le emozioni degli altri. Siamo diventati
dei voyeur». Comunque è bello ricordare:
«Sì, sì. Adesso è tutta una celebrazione,
però allora ci prendevano in giro», dice
Carlo Savigni con il suo inconfondibile
tocco caustico. «Quante volte la gente ci
insultava perché avevamo i capelli lunghi.
La frase più carina era “Caplòun, tòset!”
(“cappellone, tosati!”) che ci urlavano per
la strada. E adesso ci vengono a cercare.
C’è da morire dal ridere».
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