Cultura | La capitale di un movimento giovanile I «favolosi» anni Sessanta nel ricordo dei protagonisti di quella stagione da Caterina Caselli e Maurizio Vandelli a Shel Shapiro Quando Modena era tutta Non solo i Nomadi o l’Equipe 84. Nel libro «Avanzi di balera» Massimo Masini ha censito oltre 120 gruppi musicali attivi tra il 1960 e il 1975. Modena è stata una piccola Liverpool, ricca di fermento e all’avanguardia nelle tendenze. E la città sta scoprendo l’orgoglio per un «prodotto tipico» di cinquant’anni fa che ancora si fa ricordare «Quando incidemmo i primi dischi, noi continuammo a vivere sotto la Ghirlandina», confessa Maurizio Vandelli, leader dell’Equipe 84. «Abbiamo lasciato Modena molto più avanti. Era comodissimo stare a casa e fare i bamboccioni, avendo intrapreso la strada rischiosa. Tenevamo un piede nel sicuro e un piede nell’incerto» Equipe 84, 1963 Quel periodo si ricorda con tanto affetto perché «quelle canzoni hanno ancora una freschezza che gli anni non hanno nascosto», commenta Caterina Caselli. «In Italia e nel mondo c’era un mercato discografico in ascesa. Oggi è tutto il contrario. Allora si investiva su nuove proposte, anche perché un successo ti ripagava degli errori, oggi invece il successo fa fatica a remunerare se stesso» Caterina Caselli, 1966 di Stefano Marchetti 84 OUTLOOK OUTLOOK 85 Cultura | La capitale di un movimento giovanile Il 22 novembre 1963, il fatidico giorno dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, all’Eden di Modena debuttarono i Sei Nomadi (gli ex Monelli) il gruppo di Beppe Carletti e Leo Manfredini, con Augusto Daolio e Franco Midili. Beppe e Leo erano amici d’infanzia e avevano iniziato a suonare alla scuola di musica del maestro Odoardo Mozzarini a Novi I Nomadi, 1963 Per Shel Shapiro «quel tempo è la fotografia di quando c’era ancora l’innocenza e la purezza, che la tv e tanti altri strumenti fanno di tutto per distruggere. Allora se volevi comunicare con il mondo dovevi passare attraverso la musica: bisognava fare le cose. Oggi invece c’è chi pensa per te, chi le fa per te, e tu parti sempre guardando le emozioni degli altri. Siamo diventati dei voyeur» I Rokes, 1967 86 OUTLOOK N oi abbiamo in mente loro: Maurizio, Caterina, Beppe, Pier, Dodo, Johnny, i giovani che nel cuore degli anni Sessanta, forse senza accorgersene, hanno fatto una rivoluzione. Niente a che vedere con il ’68: tutto sommato, quello era ancora lontano. La loro fu una rivoluzione in musica, la grande svolta beat. «Non c’è dubbio, Modena è stata la prima città beat in Italia», sentenzia Renzo Arbore, uno che se ne intende. «Anche noi che abitavamo più a sud abbiamo sempre pensato che questa città fosse all’avanguardia: i ragazzi erano sempre molto vispi. E per questo non ci meravigliammo affatto quando vedemmo che Modena fu la prima a entusiasmarsi per il vento nuovo che stava arrivando nella musica». Sono trascorsi praticamente cinquant’anni da allora (eh già, il calendario corre), eppure oggi più che mai si guarda con interesse alla riscoperta di quel fenomeno che fu anche di costume: in questa città fra la via Emilia e il West ora è nata una nuova voglia di beat «perché Modena sente con orgoglio che è parte della sua identità, come il bel canto, le auto sportive o il Romanico», dice Roberto Alperoli, assessore comunale alla cultura e «motore» di molte iniziative che ci hanno fatto ritrovare il ritmo di una dolce vita. Gli anni Cinquanta erano alle spalle: anche Modena, dopo la fatica della ricostruzione, cominciava ad assaporare un nuovo benessere. E la voglia di fare musica. «C’erano già varie orchestre da ballo, e c’era soprattutto una concentrazione di locali e di balere che non si trovava altrove. Quando arrivò la nuova onda sonora, scattò un nuovo protagonismo giovanile: e tanti cominciarono a “saltare” sul palco, anche se non erano musicisti completi», fa notare Massimo Masini, appassionato cultore di quel periodo nonché collezionista di memorabilia dei Beatles. Per lui, davvero, Modena è stata una piccola Liverpool. Nel suo volume «Avanzi di balera», pubblicato da Anniversary Books, ha censito pazientemente (e in rigoroso ordine «alfaBeatico») decine e decine di gruppi musicali nati a Modena e provincia fra il 1960 e il 1975, «ovvero dal momento del concepimento e della gestazione della musica beat, fino alla traumatica defenestrazione della musica dal vivo dai locali da ballo con l’avvento delle discoteche e dei disc jockey». Masini ha contato almeno 120 complessi, «ma probabilmente erano almeno una ventina di più». Tutti hanno avuto il loro quarto d’ora di celebrità: alcuni, come l’Equipe 84 o i Nomadi, sono diventati leggendari. «C’erano già varie orchestre da ballo e c’era soprattutto una concentrazione di locali e di balere che non si trovava altrove», fa notare Massimo Masini, cultore del beat, con due libri all’attivo «Avanzi di Balera» e «Seduto in quel caffè…». «Quando arrivò la nuova onda sonora scattò un nuovo protagonismo giovanile. In tanti cominciarono a "saltare" sul palco anche se non erano grandi musicisti» Il beat vero e proprio ha avuto il suo cuore fra il ’63 e il ’67. «In quel periodo c’era veramente grande fermento. Eravamo tutti molto giovani, con un orecchio puntato verso Londra e l’altro nella nostra realtà», ci racconta Caterina Caselli, testimone e testimonial d’eccezione, quel casco d’oro che da Sassuolo ha conquistato l’Italia e che oggi, come manager della Sugar Music,è imprenditrice ed eccellente talent scout. «Modena è stata sempre una realtà molto generosa e attenta nei confronti della musica: la possibilità di esprimersi sul palco, nei locali, dava a tutti i musicisti un’occasione di confronto con il pubblico. Era un grande aiuto. Avevamo voglia di musica, e voglia di fare musica. Qui a Modena eravamo molto in sintonia con quello che accadeva a Londra, molto più di quanto non lo fossero, per esempio, a Bologna. E non solo nella musica. Io ero giovanissima e litigavo con mia mamma che voleva indossassi una bella gonna, mentre a me piacevano i pantaloni a zampa d’elefante: “Non ti azzardare a uscire così”, mi diceva. Poi, quando andai in Carnaby Street, mi accorsi che in realtà io vestivo come loro». In questa città dove una volta c’erano i canali, scorreva un fiume di musica: c’erano le feste studentesche al Circolo della Stampa o all’Eden, mentre al Sacro Cuore e alla Domus, l’attuale teatro Michelangelo, un infaticabile Corrado Bacchelli aveva dato vita alle sfide musicali studentesche di «Tutti contro Tutti» dove si esibiva anche un certo Francesco Guccini, e pochi chilometri più in là, a Sassuolo, il maestro Ivo Callegari (che scoprì il talento di Caterina) mandava i suoi allievi alla ribalta, riproducendo le gare di una trasmissione radiofonica di successo, il «Buttafuori». «Io ero la più scatenata, cantavo “Tintarella di luna” di Mina e “Il tuo bacio è come un rock” di Celentano», aggiunge Caterina. «E da quel momento il maestro Callegari mi fece entrare nella sua orchestra». N el frattempo, al bar Grand’Italia in largo Porta Bologna, a due passi dal teatro Storchi, si incontravano i giovanotti più creativi, fra cui anche Franco Bonvicini detto Bonvi, Guccini e Pier Farri, Victor Sogliani, e Maurizio Vandelli che sarebbe poi diventato il volto dell’Equipe 84: «Quella era una Modena in attesa di eventi», sorride lui ripensando a quegli anni. «Ci trovavamo al Grand’Italia più che altro per trovare la maniera per “fregare” la vita, cercavamo idee per non metterci dietro a uno sportello OUTLOOK 87 Cultura | Immagini dal mondo «Nei primissimi anni Sessanta», rievoca Massimo Masini, «la musica da ballo erano il rock’n’roll o l’hully gully (italianizzato in alligalli). Oppure si proponevano i pezzi d’atmosfera alla Perez Prado. La vera svolta fu nel 1963, quando arrivò in Italia "Please please me" dei Beatles, e allora cominciò davvero il beat nel nostro Paese» Il gruppo Jerry Capistrano, 1973 Nel grande jukebox di Modena dal 1965 fiorì anche un gruppo beat tutto al femminile. Erano Le Scimmie, cinque ragazze allieve della scuola di musica del maestro Antonio Bononcini. «Volevamo creare un complesso», racconta Nara Gavioli, bassista del gruppo. «anche se al nostro maestro non piaceva che facessimo le canzoni dei Beatles o dei Rolling Stones». Il loro successo fu strepitoso e per quasi dieci anni le portò in giro per l’Italia Le Scimmie, 1969 88 OUTLOOK a fare gli impiegati. Volevamo una soluzione creativa che ci portasse da qualche parte. Certo, a quel caffè succedeva di tutto: lì c’era la sfilata dei modelli, c’erano le idee che venivano fuori, e la musica era sempre al centro della situazione. Abbiamo cominciato così, con una musica molto semplice, poco impegnata ma tanto divertente. E abbiamo creato la storia italiana del beat». S eduto a quel caffè c’era anche Carlo Savigni, che amava le ragazze, i Ray Ban Shooting e le auto d’epoca, e soprattutto amava scattare fotografie, anche quelle che sono poi divenute il ritratto della favolosa stagione beat: «Modena era davvero una piccola città, bastardo posto, come cantò Guccini», confida. «Certo, il Grand’Italia era un punto d’incontro, un po’ come avviene oggi per alcuni locali che sono un riferimento per i giovani, come mia figlia. Là si incontravano ragazzi che non sapevano cosa sarebbe successo. Hanno semplicemente seguito la loro strada». Sì, perché in effetti allora non si rincorreva l’impegno politico, non c’erano velleità di lanciare chissà quali messaggi. Lo ha dipinto con grande efficacia Edmondo Berselli, in una pagina di «Quel gran pezzo dell’Emilia» che si fa rileggere con emozione: nella nostra regione «c’erano decine di luoghi di raccolta in cui convergevano estremisti, sperimentatori, cazzeggiatori, nonché grandissimi viaggiatori, oltre a talenti indecifrabili ed eccentrici senza appello. Tutta gente che era vergine di politica perché la politica da queste parti era il Partito Comunista, cioè una presenza immanente, un elemento climatico o, come avrebbero detto i capi della cellula, un fattore strutturale. Quindi il coinvolgimento politico si poteva evitare, non ci rompete, tanto il voto lo prendete lo stesso: e dedicarsi felicemente ad altro». Nulla a che vedere pure con la beat generation d’oltreoceano: «Quella è stata tutta un’altra cosa. Il beat in Italia ha significato la nascita della cultura rock, che non è solo cultura musicale, ma cultura di vita», scandisce Shel Shapiro, voce e leader dei Rokes che nel nostro Paese vendettero la bellezza di cinque milioni di dischi. «Il beat è stato la liberazione dalla guerra, il segno della voglia di cambiare e di andare avanti rompendo tutte le vecchie regole. È venuto tutto naturale, perché il mondo stava andando in quella direzione». Nei primissimi anni Sessanta, rievoca Massimo Masini, «la musica da ballo erano il rock’n’roll o l’hully gully (italianizzato in alligalli). Oppure si proponevano i pezzi d’atmosfera alla Perez Prado. La vera svolta fu Molti cantanti esordirono con le cover, versioni italiane di brani anglosassoni o statunitensi: Caterina Caselli propose quella di «Paint it black» dei Rolling Stones, divenuta «Tutto nero» ma lo strepitoso successo del 1966 «Nessuno mi può giudicare» nacque tutto in Italia con le mitiche firme dei maestri Beretta, Del Prete, Pace e Panzeri Sopra, Caterina Caselli con Roberto Alperoli, assessore alla Cultura di Modena, e con Beppe Carletti dei Nomadi nel 1963, quando arrivò in Italia “Please please me” dei Beatles, e allora cominciò davvero il beat nel nostro Paese». Eh sì, «era venuto il momento in cui si potevano indossare le giacchettine striminzite, i pantaloni a tubo, i berrettini, le camicie eccentriche, e farsi crescere moderatamente o smodatamente i capelli», scriveva ancora Edmondo Berselli nell’introduzione del libro fotografico «Seduto in quel caffè...», curato sempre da Masini. In fondo, «noi contestavamo i genitori, ma gentilmente, mica come hanno fatto i punk», ammette Vandelli. Nel 1962 i fratelli Gianni (Johnny) e Urano Borelli fondarono i Marines, e dopo qualche mese si unì a loro anche la sorella Ambra che nel ‘63 partecipò al festival di Castrocaro, sullo stesso palco con la giovane esordiente Gigliola Cinquetti, che quel festival lo vinse con una canzone di Giorgio Gaber. E il 22 novembre 1963, sì, proprio il fatidico giorno rimasto nella storia per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, all’Eden di Modena debuttarono i Sei Nomadi (gli ex Monelli) il gruppo di Beppe Carletti e Leo Manfredini, con Augusto Daolio e Franco Midili: Beppe e Leo erano amici di infanzia, e avevano iniziato a suonare alla scuola di musica del maestro Odoardo Mozzarini a Novi. Sempre nel 1963, in dicembre, alla Grotta Azzurra di Carpi si presentò alla ribalta l’Equipe 84, con Alfio Cantarella e Victor Sogliani (che prima suonavano nei Gatti con Francesco Guccini e Franco Fini Storchi), Franco Ceccarelli e Maurizio Vandelli (dai Giovani Leoni), e la direzione artistica di Pier Farri. «Decidemmo di chiamarci Equipe perché volevamo un nome che suonasse al femminile, per essere diversi dagli altri, dai soliti gatti, topi o cani», ammicca Vandelli. «Ci sarebbe piaciuto anche “Four Seasons”, ma in italiano era “Quattro stagioni” e sapeva molto di pizza. Il numero 84 lo aggiungemmo perché speravamo che la Stock ci chiamasse a cantare in un Carosello». OUTLOOK 89 Cultura | La capitale di un movimento giovanile KREACTIVFARMCOM E In alto, Shel Shapiro. A sinistra, alcune pagine del volume «Avanzi di balera» Caterina? «Cantavo con l’orchestra Callegari, e a Scandiano vennero a trovarci Maurizio e Pier dell’Equipe 84. Mi dissero che dovevo assolutamente andare a Roma. Mi parlavano di Roma come se fosse New York. Ci preparammo per avere un repertorio più ampio, e finalmente sbarcammo nella capitale. Rimanemmo quindici giorni al Capriccio, vennero ad ascoltarmi Gino Paoli, Edoardo Vianello, gli artisti della Rca, e poi una sera arrivarono i proprietari del Piper e mi scritturarono per un mese intero. Fu là che mi scoprì Ladislao Sugar: mi disse che, ascoltando me, Celentano gli era sembrato vecchio, e mi fece un contratto con la Cgd». Molti cantanti esordirono con le cover, versioni italiane di brani anglosassoni o statunitensi: Caterina Caselli per esempio propose quella di «Paint it black» dei Rolling Stones, divenuta «Tutto nero» («Molti pensavano che fosse un brano originale e che gli Stones l’avessero presa da me», ride), ma lo strepitoso successo del 1966, «Nessuno mi può giudicare», nacque tutto in Italia, con le mitiche firme dei maestri Beretta, Del Prete, Pace e Panzeri. «L’avevano scritta per Celentano, ma lui poi decise di presentarsi a Sanremo con “Il ragazzo della via Gluck” e così la riarrangiarono per me e Gene Petney». Anche «Come potete giudicar» Focus | La top five del beat italiano a quali sono le canzoni che hanno rappresentato, meglio di altre, l’epoca beat italiana? Quali sono i brani irrinunciabili, quelli che sicuramente fanno parte della storia della musica leggera nazionale? Lo abbiamo chiesto a Massimo Masini, autore dei due volumi «Seduto a quel caffè» e «Avanzi di balera» nei quali ha rievocato gli anni del beat modenese. E lui ha stilato un ideale poker d’assi, anzi una cinquina di pezzi che ognuno dovrebbe avere nella propria discoteca personale o magari nell’IPod. Da non mancare è «Io ho in mente te» M Una piccola innovazione può diventare un grande valore. Proteggila "REVETTIPERINVENZIONEs-ODELLIDIUTILITÌs$ISEGNIEMODELLIs-ARCHIs$IRITTODAUTOREs6ARIETÌ6EGETALI 4OPOGRAlEELETTRONICHEs#ONSULENZETECNICOLEGALIs2ICERCHEESORVEGLIANZE #ONSULENZEDILIBERAREALIZZAZIONEs6ALUTAZIONIBENIINTANGIBILI 6)#%.:!-/$%.!"2%3#)!0!$/6!0!,%2-/ -/$%.! 6IA:UCCHI! -ODENA 4EL 4EL &AX MODENA MAROSCIAIT Maroscia & Associati #ONSULENTIINPROPRIETÌINDUSTRIALEEINTELLETTUALE WWWMAROSCIAIT 6)#%.:! #ONTRÌ0ORTI 6ICENZA 4EL &AX &AX INFO MAROSCIAIT dell’Equipe 84, versione italiana di «You were on my mind» di Barry McGuire e dei We Five, «per il suo ritmo martellante e quel "wo wo" liberatorio», spiega Masini. E poi mettiamo una coppia di brani, «Che colpa abbiamo noi» dei Rokes (versione italiana di «Cheryl’s going home» di Bob Lind, con testo italiano di Mogol) e «Come potete giudicar» dei Nomadi, da «The revolution kind» di Sonny Bono: «Entrambe queste canzoni esprimono contenuti molto chiari, sono come una "lettera aperta" verso la società». In questa hit parade degli anni Sessanta, non può mancare «Nessuno mi può giudicare» di Caterina Caselli, «per la "scandalosa" rivendicazione proto-femminista del testo», sottolinea Masini. E per suggellare questo viaggio nella memoria, mettiamo anche «Bandiera gialla» di Gianni Pettenati, versione italiana di «Pied piper», «soprattutto perché, con l’omonima trasmissione, incarnò un vero e proprio richiamo a mettersi religiosamente all’ascolto delle novità beat proposte da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni». Renzo Arbore OUTLOOK 91 Cultura dei Nomadi, considerata la canzonesimbolo del beat italiano, riprendeva un brano di Sonny Bono, «The Revolution Kind», pur con un testo completamente adattato da Dodo Veroli, e «Io ho in mente te», hit dell’Equipe, nasceva da un brano d’importazione, «You were on my mind» di Barry McGuire e dei We Five. Modena comunque accompagnò sempre la vita dei suoi talenti: «Quando incidemmo i primi dischi, noi continuammo a vivere sotto la Ghirlandina. Abbiamo lasciato Modena molto più avanti», sussurra il leader dell’Equipe. «Era comodissimo stare a casa e fare i bamboccioni, avendo intrapreso la strada rischiosa. Tenevamo un piede nel sicuro e un piede nell’incerto». Fu grande, si disse, la rivalità con i Rokes: «Ma no, era tutta una costruzione dei giornali», si schermisce Shel Shapiro. «Sinceramente noi non vivevamo temendo l’Equipe 84. La necessità di creare degli avversari, in tutti i campi, è una cosa particolarmente italiana». LA SERENITÀ SI COSTRUISCE GIORNO PER GIORNO con MODENASSISTENZA MODENASSISTENZA SERVIZI PRIVATI DI ASSISTENZA DOMICILIARE A CASA E IN STRUTTURE OSPEDALIERE PER ANZIANI, HANDICAPPATI, MALATI, DISABILI E PERSONE NON AUTOSUFFICIENTI le bamboline, non a caso avevamo deciso di chiamarci Scimmie. Però non ci siamo mai sentite delle rivoluzionarie. Anzi, i genitori ci hanno aiutato e sostenuto, e agli inizi, siccome avevamo quindici o sedici anni, qualche adulto veniva sempre con noi». Già nel 1967 il beat italiano cominciò a prendere una nuova strada: i ragazzi con i pantaloni a tubo stavano per lasciare il posto ai figli dei fiori. L’Equipe 84 si affidò alla magica coppia Mogol-Battisti che scrisse la famosa «29 settembre», «il brano che secondo me ha chiuso l’epoca beat», dice Vandelli. Una canzone, una data che il Comune di Modena ha acchiappato per farla diventare il simbolo di un nuovo sentimento beat, che si rinnova ogni anno con un grande happening in piazza Grande e in tutto il centro cittadino. Non un semplice revival, quanto piuttosto la capacità di ritrovare un genius loci. «Non ci siamo inventati nulla», spiega l’assessore Alperoli. «Questa è una storia non sufficientemente illuminata, e che invece può far dialogare le generazioni. Una storia utile che può costituire una spinta propulsiva anche per chi oggi fa musica, come i trecento gruppi che gravitano attorno al Centro musica: realmente, in quegli anni, oltre alla nascita di nuove realtà economiche come il Villaggio Artigiano, o di servizi d’eccellenza come gli asili, Modena ebbe la Scrive Edmondo Berselli nel suo libro «Quel Gran Pezzo dell’Emilia»: «C’erano decine di luoghi di raccolta in cui convergevano estremisti, sperimentatori, cazzeggiatori, nonché grandissimi viaggiatori, oltre a talenti indecifrabili ed eccentrici senza appello. Tutta gente che era vergine di politica perché la politica da queste parti era il Partito Comunista, cioè una presenza immanente, un fattore strutturale. Quindi il coinvolgimento politico si poteva evitare, non ci rompete, tanto il voto lo prendete lo stesso: e dedicarsi felicemente ad altro» capacità di esprimere una dimensione creativa che è giusto valorizzare». Non si vuole fare il monumento al beat, e forse non sarebbe neanche giusto chiuderlo in un classico museo. Nel libro dei desideri (risorse permettendo) c’è l’ipotesi di creare una «Beat House», un luogo che potrebbe custodire foto e memorabilia, ma dovrebbe anche diventare un punto di incontro, un palcoscenico e una sala prove. E nel grande jukebox di Modena dal 1965 fiorì anche un gruppo beat tutto declinato al femminile, le scatenatissime Scimmie, cinque ragazze allieve della scuola di musica del maestro Antonio Bononcini. «Certamente anche noi avvertivamo il fermento che percorreva tutta Modena, e che si sentiva anche nei tanti negozi di strumenti musicali che esistevano allora in città», racconta Nara Gavioli, bassista del gruppo. «Non volevamo creare un’orchestra, ma un complesso, anche se al nostro maestro non piaceva che facessimo le canzoni dei Beatles o dei Rolling Stones». Il loro successo fu strepitoso, e per quasi dieci anni le portò in giro per l’Italia, per lunghe tournée, perfino al meridione e nelle basi Nato. «Eravamo piene di entusiasmo, energiche, e non ci tenevamo a essere del- A sinistra, le componenti del gruppo beat Le scimmie riunite in occasione della presentazione del libro di Masini qualche mese fa. Sopra, la copertina di una hit del 1967 di «Johnny e i Marines» MODENA - VIALE V. REITER, 38 - 059.221122 - CARPI - 059.654688 OUTLOOK 93 la P Posta osta testimone della nostra Storia Cultura I nsomma, è stata una bella storia. «Di più: una storia grandiosa!», esclama Vandelli. «È stato come trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ed essere toccati da una fatina. Conosco talenti spaventosi che purtroppo non sono riusciti a fare nulla». «Se eri di Modena, allora avevi una marcia in più, quasi ti sembrava di avere più possibilità», prosegue Massimo Masini. Ma perché si ricorda quel periodo con tanto affetto? «Quelle canzoni hanno ancora una freschezza che gli anni non hanno nascosto: vuol dire che quel tempo e quel lavoro sono stati spesi bene», commenta Caterina Caselli. «Era bello perché si rischiava con semplicità, non c’era il timore di sbagliare, si faceva e basta. In Italia e nel mondo c’era un mercato discografico in ascesa che poi è diventato davvero imponente. Oggi è tutto il contrario. Allora si investiva su nuove proposte, anche perché un successo ti ripagava degli errori, oggi invece il successo fa fatica a remunerare se stesso. Noi stessi appena dieci anni fa lanciavamo dieci nuovi progetti ogni anno: oggi invece ne facciamo uno solo». Shel Shapiro ci mette un tocco di poesia: «Quel tempo è la fotografia di quando c’era ancora l’innocenza e ancora, in qualche modo, la purezza. La tv e tanti altri strumenti fanno di tutto per distruggere qualsiasi forma di innocenza. Allora c’erano la radio, il cinema il sabato sera e poco altro, e se volevi comunicare con il mondo dovevi passare attraverso la musica: bisognava fare le cose, oggi invece c’è chi pensa per te, chi le fa per te, e tu parti sempre guardando le emozioni degli altri. Siamo diventati dei voyeur». Comunque è bello ricordare: «Sì, sì. Adesso è tutta una celebrazione, però allora ci prendevano in giro», dice Carlo Savigni con il suo inconfondibile tocco caustico. «Quante volte la gente ci insultava perché avevamo i capelli lunghi. La frase più carina era “Caplòun, tòset!” (“cappellone, tosati!”) che ci urlavano per la strada. E adesso ci vengono a cercare. C’è da morire dal ridere». proposte investimento XQQXRYRPRGRGLLQYHVWLUH XQQXRYRPRGRGLLQYHVWLUH ECCEZIONALE E RARO INSIEME la posta viaggiata sulla luna “LA COLLEZIONE APOLLO” dalla numero XI alla XVI A S TA P U B B L I CA FILATELIA FILATELIA • S STORIA TORIA P POSTALE OSTALE • C CARTOLINE ARTOLINE • L LETTERATURA ETTERATURA 14 APRILE 2012 • RICHIEDETE IL NOSTRO CATALOGO GRATUITO le nostre aste sono senza spese di commissione per chi acquista • YYLD0%XRQDUURWL9LJQROD02WHOID[LQIR#YDFFDULLWZZZILODWHOLDYDFFDULLW LD0%XRQDUURWL9LJQROD02WHOID[LQIR#YDFFDULLW ZZZILODWHOLDYDFFDULLW