1 Mario Desiderio Elettronica per tutti Dal diodo LED ai Microchips Dall’atomo ai pannelli solari Parte Prima Elettronica analogica 1 2 Prefazione Perché Non c’è quasi mai un motivo solo che spinge ognuno di noi a scrivere. I motivi sono sempre tanti e convergono in un particolare momento che fa scattare la molla della scrittura. Io covavo da tempo il desiderio di scrivere ma rimandavo sempre per pigrizia fino a quando una dottoressa farmacista mi chiese di spiegarle come funziona un Microchip. Le risposi che mi ci voleva un libro e forse più per arrivarci; e lei candidamente : lo scriva. Era Settembre del 2011 e mi ricordai che facevo le nozze d’oro con l’Elettronica: nel 1961, a sedici anni, iniziavo il triennio di specializzazione Elettronica e Telecomunicazioni presso l’Istituto tecnico statale Archimede di Catania, assieme a mio fratello Aldo con il quale abbiamo proseguito insieme fino al giorno della Laurea in Fisica (Novembre 1968) Iniziavo una passione per la Fisica e l’Elettronica, che sono le madri delle Telecomunicazioni, dell’Informatica e di tutte le Scienze e Tecnologie moderne, che continua oggi con immutato, anzi maggiore, impegno. Ma questo non è che l’ultimo dei motivi che mi ha indotto a scrivere. Era già chiaro e definito che io avevo disposizioni tecnicopratiche mentre Aldo era già teorico-riflessivo : a sedici anni costruii con successo le prime radio ed il mio primo trasmettitore ad una valvola in AM (modulazione di ampiezza, la FM non era ancora diffusa). Ma in preparazione all’esame di maturità, con Aldo scrivevamo i primi appunti di Elettronica, poi diventati dispense per studenti negli anni del corso di laurea. Nella mia prima esperienza lavorativa presso la fabbrica di componenti elettronici STMicroelectronics, allora ATES poi SGS, (Gennaio 1969-Dicembre 1982), oltre le mie normali mansioni tecniche, sin dall’inizio fui incaricato di addestrare i diplomati e laureati neo assunti e per facilitare le cose scrissi dei semplici manuali di Elettronica e Tecnologia. 3 Nel 1975 la STM mi diede incarico di fare corsi di riconversione per personale in cassa integrazione presso l’ente ECAP ed assieme a mio fratello Aldo scrivemmo due testi di Elettrotecnica ed Elettronica. Nel 1982 lasciai la STM ed iniziai la mia carriera di insegnante di Elettronica, Informatica e Sistemi automatici; anche se appena laureato, contemporaneamente al lavoro presso STM, avevo insegnato Fisica ai corsi serali ed Elettrotecnica in un Istituto tecnico. Appena iniziata l’attività didattica, mi accorsi subito che i libri di testo non erano scritti per gli allievi ma erano, e sono, sfoggio di cultura da parte di chi scrive. Fui tentato più volte di scrivere un libro di testo, incoraggiato da diversi rappresentanti di case editrici, ma iniziai e lasciai incompiuti diversi lavori, rendendomi conto che andavo controcorrente e mi limitai a redigere dispense per gli allievi. Quando nel Maggio 2000 fui operato al cuore ( 5 by-pass) durante la degenza in casa passavo intere notti insonni per gli effetti post operatori e per gli psicofarmaci (avevo una iperattività). In una notte scrissi il piano dell’opera e gli indici di tre libri di testo e 7 capitoli interi, ma questa iperattività non durò a lungo…… e non riuscii più a riprendere quanto avevo scritto. Adesso, nella condizione di pensionato e nonno, ho molto tempo libero e, dopo tutto quello che scrive Aldo, sarebbe assurdo e fuori luogo scrivere libri di testo, oltretutto ho già detto che ero e sono tuttora controcorrente, libero pensatore, rispetto ai canoni presenti nell’editoria scolastica. Ho sempre preferito e preferisco scrivere per divulgare, per arrivare veramente a chi legge…………E comunque scrivo perché mi fa sicuramente bene, scrivo per dimenticare, scrivo per non dimenticare. Per chi Come dice il titolo, per tutti. Per tutti quelli che vogliono avere la curiosità di saperne di più. Ma lo confesso: Scrivo per i miei splendidi nipotini. Perché abbiano di me anche un ricordo indelebile di ciò di cui mi sono occupato per una vita. E perchè no? Mi piacerebbe quanto prima insegnare loro queste cose. Naturalmente è impossibile scrivere proprio per tutti, spiegare di presenza è più facile perché c’è interazione docente-discente. Nei corsi serali ho spiegato la programmazione dei computers ed il funzionamento di una radio FM a semplici lavoratori con la terza media, in un anno di lezioni. Ma era gente adulta con una forte motivazione ad imparare. Con un allievo davanti tutto viene adattato alla sua preparazione ed alla sua sensibilità di ricevere. Scrivere per tanti, soprattutto se eterogenei, è difficile; spero e mi sforzo di farlo per quanti più è possibile. E comunque scrivo anche per me stesso, perché mi fa bene ed ogni tanto un po’ di sano egoismo non guasta, quando si è passata una vita per il prossimo. 4 A chi Dedico questo mio scritto a tutti quelli che mi hanno stimato come insegnante e mi hanno voluto bene come persona. Ma lo dedico principalmente alle persone a me più care che sono tutti i miei familiari. Sarò inconsueto, ma io comincio dai miei nonni, paterni e materni, perché essi sono i primi che ti danno un esempio di vita quando ancora i genitori sono indaffarati con il lavoro e con le apprensioni per il quotidiano. I miei genitori che mi hanno dato una educazione ed una formazione eccellente, soprattutto con il loro esempio. I miei figli Fabio e Daniele che mi hanno sempre stimato e mi hanno dato tante gioie e soddisfazioni. Mia moglie Lucia che ha sopportato per 43 anni tutti i miei difetti e le mie stravaganze, anche quando ho tolto spazio alle cose coniugali . Mio fratello gemello Aldo per tutto quello che ci siamo scambiati per una vita. Ma non posso negare che, sin da quando ho iniziato a scrivere, non ho potuto fare a meno di pensare ai miei adorati nipotini, perché loro sono parte di noi stessi, sono la nostra continuità, sono il futuro ed è bello, naturale e legittimo lasciare qualcosa a loro, a prescindere dal contenuto. Magari in ciò c’è un pizzico di vanità, ma prevalgono ragioni del cuore più che della ragione. E comunque…….. lo dedico pure a me stesso. Mascalucia 8 Settembre 2011 Mario Desiderio 5 Prefazione alla prima edizione Non ho impiegato due anni a scrivere questa prima parte. Ci sono state tante pause di riflessione e tanti ripensamenti. Ho avuto attimi di sconforto, ho attraversato momenti in cui avrei voluto buttare tutto in aria. Poi ripensandoci mi son detto che dovevo scrivere comunque, anche se ci avessi impiegato dieci anni. Nei momenti di riflessione ho constatato che, a mano a mano che procedevo, la caratteristica di essere una lettura per tutti veniva sempre meno; perché non è per niente facile, anzi; mi sono sforzato di essere il più chiaro possibile, ho cercato di ridurre al minimo le formule matematiche, ma non ho potuto rinunciare all’uso dei diagrammi che, a mio parere, sono un ausilio didattico irrinunciabile oltre che utile. Ho fatto largo uso di immagini perché le ritengo altamente espressive, alcune figure le ho realizzate personalmente a mano, con tutte le conseguenze evidenti, ma ciò è stato dettato dal fatto che ancora oggi “ sento “ di essere alla lavagna. Alla fine ho concluso che non è un libro, sono i miei ricordi, la mia memoria e, proprio per questo, dovevo continuare e siccome mi accorgevo che andavo avanti e ritornavo indietro a modificare, decisi di dividere quello che volevo scrivere in parti così intanto divisi in “Elettronica analogica ed “Elettronica digitale” , poi mi imposi di non poter scrivere tutto e subito e cominciai a scrivere di getto. Ripeto che non è un libro bensì appunti di Elettronica per chi ha la curiosità di saperne qualcosa. C’è sempre tempo per approfondire. Questa prima parte non esaurisce l’Elettronica analogica : mi sono fermato ai concetti fondamentali, le innumerevoli applicazioni le vedremo successivamente; il prossimo scritto tratterà l’Elettronica digitale e poi scriverò le parti applicative finchè ce la farò e sarò incoraggiato. Sarò grato a tutti quei lettori che mi forniranno critiche e consigli per migliorare la comprensione. Buona lettura e non scoraggiatevi. Chi mi conosce può contattarmi, sarò lieto di accogliere tutte le impressioni ed i suggerimenti. Mascalucia 25 Settembre 2013 Mario Desiderio 6 Scaletta degli argomenti: 1. COSA SONO I MICROCHIPS 2. STRUTTURA DELLA MATERIA 3. TAVOLA DI MENDELEEV 4. NUMERI QUANTICI 5. GAS NOBILI, ALCALINI 6. CONDUTTORI, ISOLANTI, SEMICONDUTTORI 7. RAME, ARGENTO, ORO 8. CARBONE, SILICIO, GERMANIO 9. ELEMENTI DEL TERZO E QUINTO GRUPPO 10. CORRENTI ELETTRICHE, LEGGI DI OHM, POTENZA, ENERGIA 11. SEMICONDUTTORI 12. GERMANIO,SILICIO,ANTIMONIURO DI INDIO,ARSENIURO GALLIO 13. DOPING, TIPO N E TIPO P 14. GIUNZIONE PN, DIODO 15. COS’E’, COME FUNZIONA, A CHE SERVE 16. CARATTERISTICHE ELETTRICHE 17. VARI TIPI DI DIODO 18. APPLICAZIONI 19. DAL DIODO AL TRANSISTOR AI CIRCUITI INTEGRATI 20. TECNOLOGIE COSTRUTTIVE PER DIODI E BJT AL SILICIO PARTE SECONDA 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. LOGICA BINARIA CIRCUITI LOGICI ELETTRONICA ANALOGICA E DIGITALE CIRCUITI INTEGRATI E TECNOLOGIE COSTRUTTIVE SISTEMI DI ELABORAZIONE DATI LINGUAGGI DI PROGRAMMAZIONE HARDWARE E SOFTWARE DI UN PERSONAL COMPUTER MICROPROCESSORI LINGUAGGIO DI PROGRAMMAZIONE ASSEMBLY COMPUTERS E MICROCHIPS (*) Non è un indice ma solo una traccia degli argomenti da trattare 7 INDICE PARTE PRIMA ELETTRONICA ANALOGICA Capitolo primo : Struttura della materia 9 1.1 Cosa sono i Microchips 1.2 Il Silicio e gli elementi in natura 1.3 I metalli e la conduzione elettrica 10 20 27 Capitolo secondo : Semiconduttori 27 2.1 I Semiconduttori 2.2 Il Doping 30 40 Capitolo terzo : Il diodo a giunzione 45 3.1 La giunzione PN 3.2 Giunzione PN polarizzata direttamente 3.3 Giunzione PN polarizzata inversamente 3.4 Il diodo a semiconduttore 3.5 Caratteristiche elettriche del diodo 48 51 52 53 58 Capitolo quarto : Applicazioni del diodo 63 4.1 Il diodo raddrizzatore 4.2 Il diodo rivelatore 4.3 Il diodo come cella fotovoltaica 4.4 Il LED 4.5 LCD , Cristalli liquidi 4.6 LASER 66 70 Capitolo quinto : Il transistore 122 5.1 Bipolar junction transistor (BJT) 5.2 Circuito di polarizzazione di un BJT 5.3 Il transistore come amplificatore 123 129 132 8 PARTE SECONDA ELETTRONICA DIGITALE Capitolo primo : Sistemi di numerazione Capitolo secondo : Logica binaria, Algebra di Boole Capitolo terzo : Circuiti elettronici logici Capitolo quarto : Reti combinatorie logiche ed aritmetiche Capitolo quinto : Memorie elettroniche Capitolo sesto : Microprocessori Capitolo settimo : Programmazione in Assembly Capitolo ottavo : Programmazione ad alto livello Capitolo nono : Calcolatori elettronici Capitolo decimo : Applicazioni 9 CAPITOLO PRIMO STRUTTURA DELLA MATERIA 10 1.1 Cosa sono i microchips Partiamo dunque dalla fine, perché è qui che dovremo arrivare. Microchip è parola composta da micro cioè piccolissimo, microscopico e “chip” che letteralmente vuol dire scheggia, frammento, blocchetto, parallelepipedo, così si chiamarono i primi dispositivi elettronici perché erano “pezzi” di Silicio. Ma “micro” si riferisce alla parola, a sua volta composta, “microprocessor” (microprocessore) derivante dal verbo to process che vuol dire “elaborare”, quindi microelaboratore e pertanto microchip è “chip che contiene un microelaboratore”. Oggi con il termine microchip si intende un dispositivo elettronico-informatico capace di controllare una specifica funzione. Lo troviamo nella tessera sanitaria, nella carta bancomat, in tutte le card di accesso, nella piastrina di riconoscimento del nostro cane, microchip è anche il microprocessore Intel, AMD, Motorola, che caratterizza prioritariamente un personal computer, un notebook, un netbook etc. La prima volta che incontrai il termine chip fu giocando a poker, rappresenta la minima posta. Poi lo incontrai studiando Elettronica e Tecnologie : vengono così definiti tutti i componenti elettronici a stato solido della generazione successiva a quella delle “valvole” o “tubi termoionici” : sono “pezzi” di materiale semiconduttore* opportunamente lavorati e trattati con tecniche chimico-fisiche e tecnologie microscopiche, che assolvono a diverse funzioni nei circuiti elettronici, dal semplice led alle memorie per macchine fotografiche, alle pen-drive, etc. Se si ha la possibilità di avere un led a luce bianca, si riesce a intravedere all’interno questo “chip” di mezzo millimetro di lato e spesso 0.2 mm (vedi figura 1 a pag.15 dove il chip non è quello indicato, che è un pin di connessione, ma il quadratino piccolo al centro)). I chips a semiconduttore si diffondono alla fine degli anni 50 con le prime radioline a “transistor” e sono costituiti da un pezzo di Germanio o Silicio (opportunamente trattati). Dopo averli studiati, i chips (così si chiamavano i primi) li conobbi entrando a lavorare, dopo la laurea (1968), in STmicroelectronics che allora si chiamava ATES (Aziende Tecniche Elettroniche del Sud) ma era già all’avanguardia della industria elettronica avanzata. Dal 68 all’82 ho avuto la fortuna di lavorare direttamente sulle tecnologie avanzate assistendo ad una fantastica evoluzione dai singoli dispositivi al Germanio ed al Silicio fino ai circuiti integrati ed alle prime schede nanocomputer basate sul microprocessore Z80. Vogliamo qui ricordare che i componenti elettronici a semiconduttore si dividono, normalmente, in componenti discreti e componenti integrati, dove discreto è sinonimo di singolo es. un diodo o un transistor, integrato è un chip che contiene più componenti che formano un circuito funzionale. 11 I circuiti integrati si sono evoluti di pari passo con l’evoluzione della tecnologia costruttiva che si è progressivamente miniaturizzata fino al punto che in un singolo chip di Silicio di mezzo centimetro di lato possono essere integrati un milione di componenti circuitali che formano un microelaboratore (fig. 2 e fig. 4). Fig. 1 Diodi LED fig. 2 Microchips: due Memorie elettroniche 12 Fig. 2b : visione esterna di schede a microchips : sotto i contatti dorati è “annegato” il microchip (*) Abbiamo usato per la prima volta il termine semiconduttore che vedremo in modo più approfondito nei prossimi paragrafi. Per ora ci basti sapere che con tale denominazione si intendono quegli elementi che non si comportano come conduttori di elettricità come i metalli ma non sono non-conduttori come gli isolanti. Non è che hanno un comportamento intermedio, piuttosto diremo che allo stato naturale sono isolanti ma “sotto determinate condizioni” conducono elettricità anche se in modo inferiore ai metalli. E’ questa loro caratteristica variabile che ne determina una potente capacità di controllo nei riguardi della corrente ed è da questa proprietà che scaturisce, come vedremo, il loro eccezionale impiego in tutte le applicazioni elettroniche, informatiche e telematiche. I semiconduttori più conosciuti ed usati sono Germanio e Silicio ma quest’ultimo è oggi il più usato industrialmente, il riferimento ad entrambi è utile perché dal confronto tra i due si comprendono meglio le caratteristiche dei semiconduttori. Fig 2c Processore Intel Pentium, al centro il microchip che è un circuito integrato a grande scala di integrazione contenendo milioni di componenti in un centimetro quadrato. Viene ottenuto con sofisticate tecniche chimico-fisiche e fotolitografiche a livello microscopico. Intorno al microchip sono visibili i terminali di connessione ad una scheda madre di un Personal Computer: sono 272 e sono dorati per minimizzare le perdite. 13 In figura 1 di pagina 15 è mostrato, a sinistra, lo schema di un Led (Light emission diode) che è pertanto un diodo ad emissione di luce; sulla destra tre led che emettono luce verde, gialla e rossa. Anche la parola diodo (così come chip) è alquanto generica perché indica un oggetto a due componenti in senso lato, in figura Anodo e Catodo che evidenziano solo, di questi ultimi, i terminali metallici esterni di connessione ai circuiti. Nella stessa figura l’indicazione di “chip semiconductor” non è precisa poiché il chip vero e proprio è più interno e più piccolo. Il led è una spia luminosa ed è costituito da un piccolissimo blocchetto di silicio trattato tecnologicamente in due modalità diverse (vedremo in seguito i dettagli). I vari tipi di diodo si differenziano per la tecnologia e per la funzione che svolgono. Il diodo, che inizialmente era una valvola termoelettronica (tubo sottovuoto), fu seguito dal “triodo” ( 3 componenti), dal “tetrodo (4 componenti) e dal pentodo ( 5 componenti), tutti componenti sottovuoto. Negli anni cinquanta subentrano i componenti detti “ a stato solido “ (per differenziarli dalle valvole che erano di vetro) costituiti da semiconduttori. Storicamente il primo diodo funzionale è stato impiegato da Marconi, inventore delle trasmissioni radio, nel primo ricevitore lo chiamò “detector” (rivelatore) perché estraeva l’informazione da un’onda elettromagnetica portante ed era costituito da due componenti : un metallo ed un minerale chiamato “Galena” che aveva proprietà simili ai semiconduttori. Tornando al diodo led, oggi le sue applicazioni si sono estese ed attualmente viene impiegato diffusamente in vari tipi di lampade per illuminazione, ma soprattutto è entrato nella tecnologia degli schermi televisivi e dei computer migliorando la definizione delle immagini. Oggi vi sono numerosi tipi di diodi che si differenziano per la tecnologia costruttiva, per la funzione che svolgono, per la potenza elettrica che li coinvolge, ma tutti hanno in comune che sono costituiti partendo da uno stesso materiale semiconduttore che è il Silicio. Ne vedremo progressivamente le proprietà e le tecniche di impiego. 14 Fig. 3 Un transistor di potenza al Silicio, al centro il chip con i fili di connessione (leads) dal diametro di 50 micron. 15 Fig. 4 Un circuito integrato. Dimensioni 1 mm x 1.5 mm Ricapitolando, microchip è di per sé un termine generico che indica un dispositivo elettronico miniaturizzato, di solito un circuito integrato che assolve ad una particolare funzione, può presentarsi in diverse forme a seconda il particolare uso, come quello che viene introdotto per via sottocutanea nei cani per identificarli, oppure nelle carte bancomat o carte di credito, nelle card di accesso; si parla di uno speciale microchip da inserire all’interno del corpo umano per controllare tumori, si parla di microchip nei neonati per controlli anagrafici, si vedranno applicazioni nei campi più disparati. Ma microchip è anche all’interno di cellulari di nuova generazione, come i-phone, Blackberry ed altri. Microchip è comunque genericamente un circuito elettronico integrato, è anche il microprocessore Intel, AMD, Motorola, che è il cuore di tutti i personal computer e che ha raggiunto una potenza di calcolo incredibile per cui ha raggiunto dimensioni notevoli fino ad un centimetro di lato, ma la caratteristica microscopica è rappresentata dalle dimensioni sempre più piccole dei componenti integrati che ormai sono in numero superiore al milione all’interno di un chip. Uno dei parametri significativi del livello di miniaturizzazione è rappresentato dalle dimensioni della larghezza delle piste di collegamento tra i componenti, che oggi ha raggiunto valori del decimo di micron. L’elemento comune a tutti i microchip è che sono fatti di Silicio. 16 1.2 Il Silicio e gli elementi in natura Il Silicio, che è il materiale di cui sono composti tutti i componenti elettronici, è un componente abbondantemente presente sulla terra, lo contiene la normale sabbia delle spiagge e la lava vulcanica (il Creatore è stato magnanimo), dalla silice si ricava il vetro. Ha sostituito completamente da diversi decenni il Germanio (anch’esso semiconduttore) che fu per primo usato. In California c’è una vallata , nell’entroterra di Los Angeles, dove sono concentrate le più importanti fabbriche di elettronica e informatica: questa vallata è denominata “Silicon Valley”. Per analogia, il sito in cui risiede la fabbrica STMicroelectronics, che oggi conta 5000 dipendenti, nella zona industriale di Catania, è denominata “Etna Valley”. Per comprendere le proprietà dei semiconduttori è opportuno rivedere le caratteristiche dei conduttori e degli isolanti e ciò lo faremo con l’aiuto della tavola periodica degli elementi elaborata dal chimico Mendeleev (fig. 5). Fig.5 Tavola periodica di Mendeleev 17 Ma forse è meglio riprendere dall’inizio. Scomponendo la materia si arriva agli atomi che sono le particelle più piccole indivisibili che mantengono inalterate le caratteristiche di un elemento. Atomo è appunto parola che deriva dal greco “a-tomos” e vuol dire non divisibile. In realtà l’atomo a sua volta può dividersi in ulteriori piccole particelle ma così si perde l’identità caratteristica. Mentre ogni atomo ha una sua individualità unica, le particelle che lo compongono sono uguali in tutti gli atomi. La struttura dell’atomo è simile al sistema planetario del sole e dei pianeti che vi ruotano attorno(fig.6). Esso è formato da un nucleo attorno a cui ruotano particelle di carica negativa detti elettroni. All’interno del nucleo vi sono particelle con carica positiva detti “protoni” e particelle neutre dette “neutroni. I protoni sono in numero pari a quello degli elettroni cosicché tutti gli atomi, allo stato naturale, sono elettricamente neutri, cioè privi di carica elettrica. Fig.6 rappresentazione dell’atomo All’epoca del chimico Mendeleev (1869) non si conoscevano tutti gli atomi che conosciamo oggi, un buon numero fu scoperto in seguito. Nella metà del novecento si era arrivati a 92, ognuno con un numero diverso di elettroni ruotanti. Il primo elemento è l’Idrogeno che ha un solo elettrone attorno al nucleo, l’ultimo elemento è l’Uranio che ha 92 elettroni. In seguito furono scoperti altri elementi in natura, che furono chiamati transuranici in quanto hanno un numero di elettroni maggiore di quanti ne abbia l’Uranio. Oggi si conoscono circa 111 atomi diversi anche se alcuni sono rarissimi ed altri sono stati riprodotti solo in laboratorio. Tornando alla struttura dell’atomo: la figura 6 è molto schematica, le orbite sono ellittiche ed hanno raggi progressivamente crescenti in modo esponenziale nel senso che se la prima orbita ha raggio R la seconda avrà raggio R al quadrato, la terza R al cubo e così via; questo è molto importante, come vedremo, ai fini delle caratteristiche elettriche. La Fisica quantistica, che si sviluppa nei primi trenta anni del novecento, ha dato un notevole contributo all’interpretazione del modello atomico. Le orbite degli elettroni sono caratterizzate da un livello energetico secondo precise regole 18 secondo le quali nella prima orbita (K) possono starci al massimo 2 elettroni, nella seconda (L) 8, nella terza (M) 18, nella quarta (N) 32 e così via. Ogni atomo è distinto da tutti gli altri per la conformazione del nucleo e per il numero di elettroni orbitanti. Dal numero e dalla distribuzione degli elettroni nelle varie orbite dipendono le caratteristiche chimico-fisiche degli elementi, soprattutto dagli elettroni nell’ultima orbita, che sono quelli più distanti dal nucleo quindi meno legati e conseguentemente sono quelli che partecipano ai processi chimico-fisici. La figura 7a mostra la rappresentazione del modello di un atomo con 4 elettroni, 2 nella prima orbita e 2 nella seconda; chiaramente il disegno non è in scala: il raggio della seconda orbita è molto più distante dal nucleo di quanto può apparire nel disegno per esigenze di spazio poichè segue una legge esponenziale, cioè se R è il raggio della prima orbita il raggio della seconda è R² , quello della terza R³ , e ciò vale anche per le successive orbite; immaginiamo quanto lontani dal nucleo siano realmente elettroni in orbite come la sesta o la settima: si dice infatti che un atomo è praticamente “vuoto”. Se si considera che la forza di attrazione, che il nucleo atomico esercita sugli elettroni, diminuisce all’aumentare della distanza reciproca, si comprende come gli elettroni più periferici hanno una elevata probabilità di abbandonare l’atomo di appartenenza sotto opportune condizioni, che possono essere rappresentate da una qualsiasi forma di energia, come l’energia termica oppure l’energia luminosa. Di ciò ce ne ricorderemo in seguito perché la maggior parte dei fenomeni elettrici ed elettronici derivano dalle vicende relative agli elettroni che ruotano attorno ai nuclei atomici. Ricordiamoci che elettronica (ma anche elettricità) deriva da elettrone, che a sua volta deriva dal greco “ electron “ che significa “ambra “, poiché strofinando l’ambra fu osservato dai greci il primo fenomeno di attrazione elettrostatica tra due corpi. Per esigenze di rappresentazione è conveniente disegnare l’atomo in una visione bidimensionale e con le orbite circolari anziché ellittiche, come in fig. 7b dove è mostrato l’atomo di sodio (11 elettroni). Come accennato, la Fisica quantistica ha dato spiegazioni precise sulla conformazione atomica, sulla energia degli elettroni in base all’orbita di appartenenza. Alla base della moderna teoria atomica vi sono la “quantizzazione “ dell’energia, il Principio di indeterminazione di Heisenberg , il Principio di esclusione di Pauli. Essendo argomenti alquanto ostici, vi ritorneremo in seguito magari in una appendice solo per chi volesse approfondire; per ora sarà sufficiente la descrizione dell’atomo utilizzando una rappresentazione bidimensionale come in figura 7b, in cui è mostrato un atomo di sodio con 11 elettroni orbitanti , 2 nella prima orbita, 8 nella seconda ed uno solo nella terza. L’importante è ricordarsi sempre le reali distanze nucleo-orbite. 19 Fig.7a Fig. 7b Fig. 7c Gli atomi che hanno tutte le loro orbite complete di elettroni al massimo consentito sono chimicamente molto stabili, sono dei gas e sono rappresentati nella colonna più a destra nella tavola periodica degli elementi. In ordine sono: l’Elio (He) con 2 elettroni nella prima orbita, il Neon (Ne) con 2 elettroni nella prima orbita ed 8 nella seconda, l’ Argon (Ar) con le prime due orbite piene ed 8 elettroni nella terza orbita, il Kripton (Kr) con tre orbite piene e 8 elettroni nella quarta, lo Xenon (Xe, numero atomico 54) con quattro orbite piene e 8 elettroni nella quinta orbita, infine il Radon (Rn, numero atomico 86) con cinque orbite 20 piene e 8 nella sesta orbita. Avendo strutture orbitali complete, i suddetti gas sono denominati “gas nobili” in quanto si combinano difficilmente con altri elementi. Ricapitolando: Elio (He) 2 elettroni, configurazione : 2 Neon (Ne) 10 elettroni : 2,8 Argon (Ar) 18 elettroni : 2,8,8 Kripton (Kr) 36 elettroni : 2,8,18,8 Xenon (Xe) 54 elettroni : 2,8,18,18,8 Radon (Rn) 86 elettroni : 2,8,18,32,18,8 L’ultima orbita non è completa in senso assoluto, ma ne contiene 8 che comunque è una configurazione stabile tanto che in Chimica è chiamata “ottetto” . La tavola periodica degli elementi è chiamata così in quanto questi ultimi sono disposti in ordine crescente di numero atomico (che è il numero di elettroni attorno al nucleo) e sono “incredibilmente” disposti in colonne omogenee (gruppi) ed in righe omogenee (periodi) in cui le proprietà chimicofisiche degli atomi si ripetono periodicamente. Gli elementi di una stessa colonna hanno la medesima configurazione dell’ultima o delle ultime orbite elettroniche, gli atomi corrispondenti hanno proprietà simili e chimicamente hanno la stessa valenza . Abbiamo visto i gas nobili (ultima colonna) che hanno tutti 8 elettroni nell’ultima orbita ed hanno tutti difficoltà a combinarsi con altri elementi. Questa difficoltà deriva dal fatto che nelle reazioni chimiche avviene un passaggio di elettroni da un atomo all’altro in modo da raggiungere una configurazione stabile, per cui chi ha un solo elettrone nell’ultima orbita (oppure 5) tende a perderlo, mentre chi ne ha 3 oppure 7 tende ad acquistarlo. Gli elementi di una stessa riga iniziano con un atomo che ha un elettrone nell’orbita “n” dove n è la riga progressiva e proseguono aumentando di uno il numero atomico (numero di elettroni). Ad esempio il Sodio (Na) che è nella terza riga ha un elettrone esterno nella terza orbita, mentre il Cesio (Cs) che è nella sesta riga ha un elettrone nella sesta orbita. Sembra che ci sia un “ordine” , quasi un’armonia nella disposizione degli elementi, tanto è vero che alcuni di essi al tempo di Mendeleev non erano conosciuti ma ne era stata prevista l’esistenza perché c’erano delle caselle vuote nella periodicità della tavola. In seguito, tutti gli elementi mancanti sono stati scoperti o riprodotti in laboratorio. Ritorniamo alla tavola periodica; abbiamo detto che le colonne rappresentano gruppi omogenei. 21 22 Fig.8 Tavola periodica degli elementi. Si notano in giallo gli elementi solidi, in rosa quelli in forma di gas, in blu i liquidi ed in verde gli elementi artificiali riprodotti in laboratorio artificialmente. 23 I gruppi verticali si possono ancora suddividere in sottogruppi: dall’uno al sette sono raggruppati elementi che hanno da uno a sette elettroni nell’ultima orbita. Le stesse caratteristiche si trovano nei sottogruppi dall’11 al 18. Il primo gruppo (escluso l’Idrogeno) comprende i metalli alcalini. Il secondo gruppo comprende metalli alcalino-terrosi. Dal terzo al dodicesimo gruppo vi sono metalli ed elementi di transizione. Il tredicesimo ed il quattordicesimo gruppo (sottogruppi IIIA e IVA) sono metalloidi. Il quindicesimo ed il sedicesimo sono non-metalli. Il diciassettesimo gruppo rappresenta gli “Alogeni”, dal greco alosgenos che significa generatore di Sali, (Fluoro, Cloro, Iodio e Bromo). Infine il diciottesimo gruppo (sottogruppo VIIIA) comprende i gas nobili già descritti. Descriviamo le caratteristiche degli elementi del primo gruppo (escluso l’Idrogeno): Essi sono denominati metalli alcalini, tale nome deriva dall’arabo al-qali che vuol dire potassa, e sono Litio, Sodio, Potassio, Rubidio, Cesio e Francio. Sono caratterizzati dal fatto che ognuno di essi possiede un elettrone in più rispetto al gas nobile che lo precede come numero atomico e questo elettrone, essendo unico nell’orbita, riveste un ruolo importante ai fini delle proprietà chimiche e fisiche. Questi elementi sono “monovalenti”, quando perdono il loro elettrone esterno (ed è facile perché è lontano dal nucleo, quindi poco legato, ed è solitario) diventano carichi positivamente in quanto il numero totale dei protoni positivi nel nucleo non è più bilanciato da un egual numero di elettroni periferici negativi. Si dice che quando un atomo perde un elettrone diventa uno “Ione” positivo, se dovesse acquistarlo diventerebbe uno “Ione “ negativo. Le configurazioni elettroniche degli elementi alcalini sono così riassunte: Litio (Li) elettroni 3, configurazione : 2,1 (2 nella prima, 1 nella seconda orbita) Sodio (Na) elettroni 11, configurazione orbitale : 2, 8, 1 Potassio (K) elettroni 19, configurazione orbitale : 2, 8, 8, 1 Rubidio (Rb) elettroni 37, configurazione orbitale : 2, 8, 18, 8, 1 Cesio (Cs) elettroni 55, configurazione orbitale : 2, 8, 18, 18, 8, 1 Francio (Fr) elettroni 87, configurazione orbitale : 2, 8, 18, 32, 18, 8, 1 Pertanto il Litio ha un elettrone in più dell’Elio, il Sodio ha un elettrone in più del Neon, il Potassio(K, dal latino Kalium) uno in più dell’Argon, il Rubidio uno in più del Kripton, il Cesio uno in più dello Xenon, il Francio uno in più del Radon, quindi possiamo descriverli così: Li = (He) + 1 elettrone Na = (Ne) + 1 elettrone K = (Ar) + 1 elettrone Rb = (Kr) + 1 elettrone Cs = (Xe) + 1 elettrone Fr = (Ra) + 1 elettrone 24 In questi atomi alcalini le orbite complete non svolgono alcun ruolo dal punto di vista chimico-fisico in quanto sono estremamente stabili, l’unico componente che partecipa ai processi è l’elettrone esterno. 1.3 I metalli e la conduzione elettrica. E passiamo ora ad un gruppo molto importante, il gruppo 11 (sottogruppo IB) comprendente Rame, Argento ed Oro che sono i metalli conduttori di elettricità per antonomasia. La loro configurazione elettronica è così riassunta: Rame (Cu) = 29 elettroni , struttura 2, 8, 18, 1 Argento (Ag) = 47 elettroni , struttura 2, 8, 18, 18, 1 Oro (Au) = 79 elettroni , struttura 2, 8, 18, 32, 18, 1 ( * ) (la denominazione del rame deriva dal latino Cuprum perché i Romani lo estraevano dall’isola di Cipro, quella dell’oro deriva dal latino Aurum) Come si vede, tutti e tre hanno una struttura simile tra di loro e simile agli alcalini: hanno un certo numero di orbite complete e poi un solo elettrone nell’ultima orbita, chimicamente sono monovalenti (valenza uno) cioè partecipano alle reazioni chimiche scambiando un solo elettrone (quello esterno). Quei 18 elettroni nella penultima orbita danno notevole stabilità assieme ai precedenti strati elettronici altrettanto completi. L’elettrone esterno è isolato, è distante dal nucleo per cui è debolmente “legato” ad esso anche perché è in qualche modo “schermato” dagli strati elettronici negativi. Ebbene in questi metalli avviene che basta una pur debole energia come la temperatura ambiente e l’elettrone esterno si stacca dall’atomo di appartenenza, abbandona la sua orbita, diventa “libero” e si muove liberamente nella struttura del metallo. Gli atomi di questi metalli sono organizzati secondo una struttura cubica, occupano cioè gli spigoli di un cubo. Questo tipo di struttura è molto regolare e conferisce solidità e stabilità. Immaginiamo quindi un elettrone “libero” per ogni atomo, avremo un numero estremamente grande di elettroni “liberi” che si muovono liberamente all’interno del metallo costituendo come una nuvola elettronica, come un gas elettronico. Un pezzo di Rame (oppure di Argento o Oro) lo si deve immaginare come una rete infinita di atomi disposti in modo regolare secondo gli spigoli di un cubo e poi un gas di elettroni che si muove liberamente. Questa caratteristica è riscontrata solo nei metalli. Ebbene, questi elettroni liberi nei metalli, se sono sollecitati da una forma di energia si muoveranno tutti in una direzione e costituiscono la corrente elettrica. L’energia, nella sua forma più semplice, è una normale pila elettrica con i poli positivo e negativo ed il suo potenziale in Volt Un circuito elettrico semplice è costituito da una pila e da una lampadina ad essa collegata mediante fili conduttori di rame ( o altro tipo di conduttore). 25 Riassumiamo quindi : “ La corrente elettrica è un flusso ordinato di elettroni che si muovono in un metallo sotto la sollecitazione di una forza elettromotrice”; normalmente è il polo positivo che attrae gli elettroni e li fa fluire tutti insieme ordinatamente negli spazi interatomici. Vedremo in seguito le leggi che regolano il fluire di questa corrente elettrica, la cui intensità I si misura in Ampère (omaggio al grande fisico francese che ne studiò e sperimentò le caratteristiche). La corrente, nel suo fluire, incontra un ostacolo sia all’interno nei fili conduttori che in altri materiali presenti nel circuito . Questa caratteristica si chiama “resistenza” , si indica con R e si misura in “Ohm” in omaggio al fisico tedesco Georg Ohm che ne studiò e sperimentò le proprietà, ricavandone 2 leggi che fissano le relazioni tra le grandezze fisiche. L’energia potenziale elettrica, quella fornita da una pila e da tutte le altre sorgenti di energia elettrica, si indica con V e si misura in “volt” in omaggio al fisico italiano Alessandro Volta che inventò la pila elettrica. La legge che Ohm trovò sperimentalmente possiamo descriverla così : “ L’Intensità I della corrente elettrica è direttamente proporzionale al potenziale V ed è inversamente proporzionale alla resistenza R “, cioè aumentando V aumenta l’intensità I, aumentando R l’Intensità di corrente diminuisce. Chiaramente quegli elementi ( e ciò si estende anche ai composti di più atomi cioè alle molecole) che non sono come i metalli tipo rame, argento e oro, cioè non presentano una struttura atomica con un elettrone libero esterno, non sono conduttori di elettricità e sono quindi “ isolanti”. In base a quanto descritto, ci si aspetterebbe che l’oro fosse il miglior conduttore di elettricità in quanto ha un numero di elettroni orbitali maggiore dell’argento e di conseguenza l’elettrone più esterno (quello di conduzione) che diventa libero è molto distante dal nucleo e dovrebbe conferire maggiore conducibilità elettrica. Ma proprio perché l’atomo di oro ha un numero atomico elevato, il volume occupato è maggiore che nel caso dell’argento e subentra il meccanismo di urti degli elettroni con gli atomi e questi urti (che limitano la mobilità elettronica) sono maggiori nell’oro piuttosto che nell’argento perché in quest’ultimo gli spazi interatomici sono maggiori. Le caratteristiche elettriche dei materiali sono definite mediante due grandezze fisiche, la conducibilità elettrica e la resistività . Sono entrambe simili al peso specifico dei corpi. La resistività è la resistenza specifica cioè la resistenza per unità di lunghezza, di area o di volume. La conducibilità è il suo inverso, rappresentando la capacità di condurre elettricità. 26 In ordine, gli elementi che hanno migliore conducibilità sono Argento, Rame, Oro, Alluminio. Il rame è il più usato per il basso costo, l’oro viene usato in applicazioni sofisticate (laboratori spaziali) dove è importante la contaminazione e la degenerazione provocata da agenti atmosferici, dato che l’oro è il metallo nobile per eccellenza che non viene ossidato né attaccato da alcun agente esterno. 27 CAPITOLO SECONDO SEMICONDUTTORI 28 2.1. Semiconduttori Abbiamo detto sin dall’inizio che i microchips e tutti i componenti elettronici in genere sono costituiti da Silicio opportunamente trattato con procedimenti chimico-fisici e tecniche fotolitografiche di alta precisione e miniaturizzazione. Le tecnologie di produzione dei componenti elettronici, che hanno portato in 50 anni all’attuale sviluppo di tutti i dispositivi digitali, computer, telecomunicazioni e quant’altro, partono tutte dal semplice Silicio. Abbiamo visto che i materiali si comportano da conduttori di elettricità ( e questo riguarda prevalentemente i metalli che hanno un solo elettrone nell’orbita esterna)) oppure da isolanti ( e ciò riguarda quegli elementi i cui atomi hanno una struttura orbitale elettronica completa). Il Silicio non appartiene a queste due categorie, avendo un comportamento intermedio; la sua struttura orbitale è rappresentata in fig. 10 dove si notano le prime due orbite(K ed L) piene e la terza orbita contenente 4 elettroni. Per comprendere perché il Silicio ha queste peculiarità torniamo alla tavola periodica degli elementi e soffermiamoci sul sottogruppo IVB che comprende il Carbonio, il Silicio, il Germanio. Questi atomi sono chimicamente “tetravalenti”, hanno tutti e tre 4 elettroni nell’orbita esterna e la distribuzione orbitale è la seguente: Carbonio (C) : n.ro atomico : 6, orbitali : 2 elettroni K, 4 elettroni L Silicio (Si) : n.ro atomico : 14, orbitali : 2, 8, 4 Germanio (Ge) : n.ro atomico : 32, orbitali : 2, 8, 18, 4 Abbiamo già visto che la struttura orbitale più completa e compatta è quella che comprende 8 elettroni ( ricordiamoci dei gas nobili), questi 3 elementi avendone 4 nell’orbita esterna non sono certamente conduttori di elettricità. Si avvicinano un po’ agli isolanti se guardiamo alla loro struttura cristallina. Gli atomi di Silicio, così come quelli di Carbonio e Germanio, sono legati tra loro mediante un legame forte che è il legame “covalente”. Questo legame, che è uno dei più forti in natura, è detto così perché due atomi si legano mettendo in compartecipazione un elettrone ciascuno, in modo che i due elettroni ruotano attorno ad entrambi e non appartengono più ad uno dei due ma ad entrambi (fig. 11). Per chiarezza di rappresentazione, è più conveniente considerare l’atomo di Silicio come un “nocciolo” (core) compatto comprendente il nucleo e le prime due orbite che, essendo complete quindi stabili, non partecipano ai processi chimico-fisici, e mettendo in evidenza i 4 elettroni periferici che di fatto sono i soggetti . Simbolicamente in Chimica si suole rappresentare il legame 29 covalente come in fig. 12 in cui il “core” è un cerchio ed i legami covalenti sono rappresentati da linee. Silicio Germanio Fig. 10 Atomo di Silicio (a sinistra) e atomo di Germanio (a destra). Al centro il nucleo con l’indicazione della carica positiva (protoni) che bilancia la carica complessiva negativa degli elettroni. La notevole differenza del numero di orbite occupate conferisce al Germanio caratteristiche diverse, più vicine ai conduttori metallici. In figura 12 sono rappresentati solo 2 atomi di Silicio, le due linee che li collegano rappresentano il legame covalente che li unisce e che in realtà è costituito da due elettroni in compartecipazione. Le linee singole rappresentano gli altri tre elettroni esterni, che formeranno altrettanti legami covalenti con 30 atomi vicini. Infatti in una rappresentazione bidimensionale (fig. 13), vediamo come ogni atomo di Silicio sia circondato da quattro atomi con i quali forma 4 legami covalenti con ognuno dei suoi quattro elettroni esterni. Questa struttura è molto regolare, è molto stabile non essendovi possibilità dinamiche di spostamenti elettronici, i quattro elettroni esterni di ogni atomo sono rigidamente impegnati nei quattro legami covalenti. Tutto ciò conferisce uno stato chimico-fisico di una solidità fortissima. Quella mostrata in figura 13 è anche la struttura del diamante che è una delle forme in cui si presenta il Carbonio che appunto appartiene allo stesso quarto sottogruppo cui appartengono Germanio e Silicio ; ricordiamoci che il Carbonio ha numero atomico 6 pertanto ha 6 elettroni attorno al nucleo, 2 nella prima orbita, 4 nella seconda. Rispetto al Silicio, il Carbonio, avendo i 4 elettroni esterni nella seconda orbita (quindi più vicini al nucleo e pertanto maggiormente legati), ha una struttura più rigida. Viceversa il Germanio, avendo i 4 elettroni nella quarta orbita, è il meno rigido. Se ci soffermiamo sulla figura 13 e ripensiamo al meccanismo di formazione dell’elettrone libero nei metalli (Rame, Argento e Oro) in quanto unico nell’orbita esterna, da cui scaturisce il “gas di elettroni” che costituisce la corrente elettrica, appare evidente che nel Silicio, ed in generale negli elementi del quarto sottogruppo, non possono esserci elettroni liberi pertanto questi elementi, allo stato naturale, non sono conduttori di elettricità bensì sono dei 31 perfetti isolanti. Dobbiamo, però, considerare gli effetti della temperatura ambiente : Già a 20 gradi centigradi l’energia termica negli atomi provoca un aumento dell’energia cinetica degli elettroni che li fa ruotare più velocemente attorno ai nuclei. Succede allora che, statisticamente, qualche elettrone abbandona per sempre il legame covalente e si allontana dall’atomo di appartenenza (fig.15 a di pag. 36) diventando a tutti gli effetti “libero” , così come gli elettroni liberi nei metalli. Questo avviene in media in un atomo su un milione di atomi pertanto il numero di elettroni liberi che si formano per effetto della temperatura non è paragonabile a quella a quello dei metalli, ma ciò costituisce una parvenza di conduzione elettrica. Ma nel Silicio la situazione è più complessa : l’elettrone che rompe il legame covalente e diventa libero, quindi vaga nella struttura cristallina, lascia un “vuoto” ed essendo l’elettrone negativo, l’atomo da cui si è staccato non è più elettricamente neutro ma ha una carica positiva non più compensata. Diciamo che si è creata una “lacuna “ (hole) con carica positiva. In altre parole, per ogni elettrone che si libera si viene a creare un “vuoto”, un legame mancante, una carica positiva localizzata. Ma ricordiamoci che la natura tende sempre a ritornare in una situazione stabile. Allora questo “vuoto” non resiste a lungo perché è una situazione instabile, succede che uno degli elettroni nelle vicinanze ( il più “sperto”) , uno che era in procinto di lasciare il legame covalente, uno che aveva meno energia di legame, abbandona il proprio legame, la propria posizione e viene attratto irresistibilmente da quel “vuoto” legandovisi per sempre e “colmando quella lacuna”. Ma il suddetto elettrone, nel momento in cui si sposta, lascia a sua volta una lacuna nella posizione di provenienza; diciamo che la lacuna si è spostata. E allora si ricomincia perché un altro elettrone nelle vicinanze viene attratto da questa nuova lacuna , rompe il proprio legame e colma la lacuna, lasciandone a sua volta un’altra. (figg. b,c,d,e di pag.36). Questo si ripete all’infinito, per cui dal momento in cui si è rotto il primo legame per effetto della temperatura, si è creato un elettrone (negativo) libero di muoversi nel cristallo come l’elettrone di conduzione dei metalli; contemporaneamente si è creata una “lacuna” con carica eguale ed opposta (cioè positiva) che si allontana dal posto originario per successivi salti dovuti in realtà ad elettroni che colmano i vuoti. La “lacuna” pertanto non è una particella reale come l’elettrone, è appunto “un vuoto” , ma poiché in questo vuoto è localizzata una carica elettrica positiva, noi per semplicità di rappresentazione “materializziamo” questo vuoto come se fosse una particella, parlando appunto di “lacuna” (hole) “come se fosse” una particella materiale. 32 Fig. 14 Rappresentazione tridimensionale del cristallo di Silicio: nella struttura cubica, ogni atomo è circondato da 4 atomi. Per quanto sopra descritto e come mostrato nella figura 15, riassumiamo affermando che nel Silicio, a temperatura ambiente, per effetto della rottura di un certo numero di legami covalenti, si creano elettroni liberi e lacune (di carica positiva) libere che si muovono all’interno del cristallo di Silicio in modo casuale. Se si applica una sorgente di energia elettrica (es. una pila) suddette cariche si muoveranno in modo ordinato, gli elettroni verso il polo positivo e le lacune 33 verso quello negativo. Pertanto , a differenza dei metalli, in cui i portatori di carica sono esclusivamente elettroni negativi, nel Silicio si hanno due tipologie di portatori di carica di ugual valore ma di segno opposto, appunto elettroni e lacune. La conducibilità che ne consegue è nettamente minore che nei metalli dato che in questi ultimi si hanno tanti elettroni liberi quanti sono gli atomi, mentre nel Silicio gli elettroni (e di conseguenza le lacune) sono statisticamente uno per ogni milione di atomi. Inoltre notiamo che gli elettroni sono realmente liberi di muoversi, le lacune invece, essendo frutto di successivi salti, hanno una mobilità inferiore (in seguito ci ricorderemo di questa differenza). Abbiamo visto che il Silicio (così come il Germanio, molto meno il Carbonio) a temperatura ambiente non si comporta come un isolante ma presenta una conducibilità elettrica , anche se nettamente inferiore a quella dei metalli. E’ evidente che se aumentiamo la temperatura, il numero di legami covalenti che si rompono è maggiore, maggiore sarà il numero delle coppie elettrone-lacuna che si creano, maggiore sarà pertanto la conducibilità elettrica. Questa caratteristica è contraria a quella presentata dai metalli, nei quali aumentando la temperatura aumenta l’agitazione degli atomi con la conseguenza che gli elettroni si muovono meno liberamente all’interno del reticolo cristallino, per cui nei metalli aumentando la temperatura diminuisce la conducibilità elettrica. Questa proprietà del Silicio di presentare a temperatura ambiente una certa conducibilità elettrica, anche se nettamente minore di quella dei metalli, è caratteristica di tutti gli elementi del quarto sottogruppo della tavola periodica degli elementi, Carbonio, Silicio e Germanio (*) che pertanto vengono chiamati “Semiconduttori”. Ma non è soltanto per questo motivo che prendono tale denominazione e l’importanza che ne consegue. Di per sé la dipendenza della conducibilità elettrica dalla temperatura non costituisce un grosso vantaggio. I Semiconduttori sono diventati determinanti per tutte le applicazioni elettroniche per la possibilità che offrono di “controllare” in modo lineare la loro conducibilità elettrica agendo opportunamente per via chimicofisica con tecniche molto particolari ma tutto sommato abbastanza semplici. (*) Anche Stagno e Piombo fanno parte del sottogruppo IV come Silicio e Germanio ma, avendo numero atomico maggiore (ricordiamo che il numero atomico coincide con il numero di elettroni esterni, rispettivamente 50 e 82 per lo stagno ed il piombo) hanno i 4 elettroni esterni meno legati e si comportano da discreti conduttori di elettricità. Per il motivo opposto il Carbonio, avendo i 4 elettroni esterni nella seconda orbita, ha una struttura estremamente rigida che raggiunge il massimo nel Diamante 34 Fig. 15: Si rompe un legame covalente e si libera un elettrone che lascia una lacuna con carica positiva. Questa lacuna viene a sua volta colmata e così via. 35 Nella figura 15, nelle progressive fasi a), b), c), d) ed e), viene mostrato come a partire dalla rottura di un legame covalente (fig. a) un elettrone abbandona l’atomo di appartenenza e diventa a tutti gli effetti un elettrone libero così come quello dei metalli, cioè un elettrone di conduzione elettrica. Suddetto elettrone lascia un vuoto, una lacuna (hole) in cui è localizzata una carica positiva; in un tempo infinitamente piccolo un elettrone, di un legame covalente in prossimità, “sente” questo vuoto, viene attratto dalla carica positiva e lascia il legame di appartenenza andando a colmare la lacuna ripristinando il primitivo legame rottosi (figura b). Naturalmente si viene a creare una nuova lacuna ma anche questa nuova situazione dura un tempuscolo minimo perché un altro elettrone abbandona il proprio legame e viene a sua volta attratto dalla carica negativa e si sposta per formare il nuovo legame. Questo processo continua all’infinito (vedi figure c,d,e) con la risultante che dopo l’iniziale (casuale) rottura di un legame covalente si crea un elettrone libero, che vaga nel reticolo cristallino, ed una lacuna con carica positiva che si sposta (in figura verso destra) per effetto relativo dei salti elettronici. Per distinguerli, chiameremo il primo elettrone che si libera “elettrone di conduzione” , i successivi che lasciano il primitivo legame per formarne uno nuovo li chiameremo “elettroni di valenza”. Nella figura, per motivi didattici, è mostrato un meccanismo di salti degli elettroni sempre da destra verso sinistra per cui la lacuna iniziale si sposta di conseguenza da sinistra verso destra. Ciò è puramente dimostrativo, in realtà il fenomeno è casuale e può avvenire in qualsiasi direzione. Abbiamo detto in precedenza che la rottura di un legame covalente è un evento statistico, cioè casuale, e dipende dalla temperatura. Normalmente si spezza un legame ogni milione di atomi. Per avere un’idea quantitativa di tale fenomeno ricordiamo che nei metalli gli elettroni di conduzione sono uno per atomo cioè tutti gli atomi di Rame (Argento oppure Oro) liberano il proprio elettrone appartenente all’ultima orbita. Sappiamo dalla Chimica che il numero di atomi per unità di volume è il famoso “numero di Avogadro” , dal nome dello scienziato chimico-fisico torinese Lorenzo Amedeo Avogadro (1776-1856) che elaborò tale valore; tale numero si indica con nA ed è pari a 6x 10 23 , che rappresenta il numero di atomi di una sostanza in una grammomolecola o comunque numero per unità di volume. Allora la densità degli elettroni nei metalli (numero/volume), che chiameremo “n(M)” , coincide col numero di Avogadro, che è un numero con ventitre zeri. Nei semiconduttori, poiché il numero di elettroni (così come quello delle lacune) nasce dalla rottura dei legami covalente, che è un evento casuale che si verifica statisticamente uno su diversi milioni di atomi, la densità elettronica è inferiore a quella dei metalli ed è maggiore nel Germanio, avendo l’atomo relativo 4 elettroni di legame in un’orbita più esterna, cioè più distante dal nucleo di quanto non lo siano i corrispondenti 4 elettroni nel Silicio. la densità elettronica del Germanio è 2,5x 10 13, mentre quella relativa del Silicio è 36 1,5x1010 Come abbiamo già visto, questi valori sono dipendenti dalla temperatura nel senso che aumentando quest’ultima il numero di coppie. Fig.16 Il meccanismo di spostamento delle lacune mostrato nelle figure a,b,c,d,f di pagina 24, può essere meglio compreso con un esempio reale. Consideriamo una fila di poltrone di un teatro (fig. 16) e supponiamo che i posti siano tutti occupati meno uno. Quest’ultimo rappresenta quindi un “vuoto” ; se uno spettatore vicino si alza dal proprio posto e va ad occuparlo, riempie un vuoto e ne lascia un altro. Se questo procedimento si ripete con un altro spettatore ed un altro ancora e sempre così di seguito, ecco che il posto vuoto sembra muoversi quando in realtà sono gli spettatori che saltano da una poltrona all’altra. Il posto vuoto è l’immagine speculare di uno spostamento reale. Se vogliamo cogliere una prospettiva riferita ai posti vuoti, affermiamo, descrivendo questo evento, che il “vuoto” si sposta in senso relativo, ricordandoci sempre che il vuoto non è una cosa materiale ma noi, per opportunità e convenienza, descriviamo l’evento “materializzando” il posto vuoto che diventa un soggetto descrivibile. Così avviene per le lacune in un semiconduttore. 37 elettrone-lacuna cresce esponenzialmente fino a raggiungere a 700 °C il valore di 10 elevato a 18 per il Germanio e 10 alla 16 per il Silicio. Oltre i 700 gradi tale valore rimane costante e comunque è nettamente inferiore a quello dei metalli, per cui si può affermare che i semiconduttori, pur avendo un certo numero di cariche libere, sono scarsi conduttori di elettricità . Riassumendo, le densità elettroniche nei metalli e nei due principali semiconduttori Silicio e Germanio sono: n M = 6 x 10 23 n Ge = 2,5 x 10 13 n Si = 1,5 x 10 10 La caratteristica, presentata dai semiconduttori, di avere una conducibilità elettrica dipendente dalla temperatura non offre vantaggi applicativi dato che sarebbe alquanto difficoltoso controllare appunto la conduzione elettrica agendo sulla temperatura, anzi questo fenomeno risulta (come vedremo in seguito) uno svantaggio addirittura dannoso, tanto è vero che nelle apparecchiature elettroniche di una certa delicatezza, ad es. i personal computer vi sono delle ventole di raffreddamento per mantenere la temperatura al disotto di valori pericolosi. In ogni caso possiamo affermare con certezza che i semiconduttori a temperatura ambiente presentano cariche libere negative (elettroni) e cariche libere positive (lacune) e, poiché entrambe nascono da uno stesso meccanismo che è la rottura di un legame covalente per effetto dell’energia termica, queste cariche sono in egual numero. Se indichiamo con “n” la densità di elettroni liberi e con “p” la densità di lacune libere, allora sarà: n = p Teniamo presente questa relazione perché in seguito ci ritorneremo. Per comprendere il meccanismo e le tecniche mediante le quali è invece possibile controllare linearmente la conducibilità di un semiconduttore (a prescindere dalla temperatura), in modo da utilizzare in applicazioni questa pecularietà, è necessario ritornare ancora una volta alla tavola periodica degli elementi (pag. 13 ). Dalle considerazioni fatte sin qui è emerso che i sottogruppi verticali riuniscono elementi omogenei con caratteristiche comuni come la valenza chimica che poi corrisponde al numero di elettroni nell’orbita esterna. Abbiamo visto che Rame, Argento e Oro appartengono al sottogruppo 1B e sono i migliori conduttori di elettricità , Silicio e Germanio appartengono al sottogruppo IVB e si comportano da semiconduttori, i gas nobili (Elio, Neon, Argon, Kripton, Xenon, Radon) al sottogruppo VIIIB ed hanno orbite complete e compatte per cui non partecipano a processi chimico-fisici , gli alcalini (Litio, Sodio, Potassio, Rubidio, Cesio, Francio) sono monovalenti e presentano, non essendopropriamente metalli, caratteristiche di conduzione elettrica nelle soluzioni. 38 2.2 Doping Consideriamo ora gli elementi nei sottogruppi IIIB e VB che sono le colonne prima e dopo quella del Silicio. Vi troviamo elementi trivalenti (tre elettroni nell’ultima orbita) come Boro, Alluminio, Gallio, Indio, Titanio ed elementi pentavalenti ( 5 elettroni esterni) come Azoto(N), Fosforo(P), Arsenico(As), Antimonio(Sb), Bismuto. A parte l’Azoto che è un gas ed il Bismuraro, tutti questi elementi possono “combinarsi” con i semiconduttori Germanio e Silicio che sono tetravalenti ( 4 elettroni esterni); addirittura l’affinità, derivante dal fatto che differiscono per un solo elettrone esterno, è tale che gli atomi di questi elementi del terzo e quinto gruppo possono (con procedimenti chimico-fisici che vedremo in seguito) inserirsi nel reticolo cristallino dei semiconduttori. Consideriamo il Fosforo (P come phosphorus), numero atomico 15 (uno in più del Silicio) con distribuzione orbitale : 2 elettroni nella prima orbita, 8 nella seconda, 5 nella quinta. Con procedimenti chimico-fisici (che vedremo in seguito) è possibile inserire atomi di fosforo nel reticolo cristallino di un semiconduttore come il Silicio oppure il Germanio (fig. 24). Un atomo di fosforo si lega con atomi di Silicio adiacenti (le quantità sono tali che attorno a tale atomo ci sono milioni di atomi di Silicio) formando quattro legami covalenti, cioè mette in compartecipazione 4 dei suoi 5 elettroni esterni con ciascuno dei 4 atomi di Silicio che lo circondano. Fig. 26 Un atomo di fosforo nel reticolo del Silicio Il quinto elettrone risulta non legato e quindi diventa “libero” di muoversi nel cristallo di Silicio, abbandona pertanto per sempre l’atomo di appartenenza e si aggiunge agli elettroni liberi già presenti per effetto della rottura ( causa della temperatura) di alcuni legami covalenti e costituenti la densità elettronica “intrinseca” , cioè nel Silicio puro in assenza di atomi di altri elementi. Il fosforo pertanto “dona” al Silicio un elettrone libero indistinguibile da quelli già presenti per cui la conducibilità aumenta. L’atomo di fosforo perde quindi definitivamente uno dei suoi 5 elettroni esterni e diventa pertanto uno “Ione” positivo, ma è una carica elettrica fissa essendo solidamente legata al reticolo 39 cristallino. Teniamola comunque presente perché in seguito svolgerà un ruolo importante. Quanti elettroni può donare il fosforo? Tanti quanti atomi di fosforo riusciamo ad inserire nella struttura cristallina del Silicio. Lo stesso procedimento è possibile realizzarlo utilizzando, invece del fosforo, un altro atomo di elementi pentavalenti del quinto sottogruppo, cioè Arsenico oppure Antimonio. La scelta di uno piuttosto che l’altro è dettata da motivi di opportunità, di costo, oppure contingenti se si usano particolari tecniche di inserimento nel semiconduttore . Questi atomi, per la loro caratteristica di “donare” al Silicio elettroni liberi ( elettroni di conduzione) vengono chiamati “donatori” ( donors). Chiaramente il processo descritto, inserire atomi diversi nella struttura cristallina di un semiconduttore, è possibile soltanto con atomi affini( come i suddetti pentavalenti) oppure (come vedremo) con atomi di elementi trivalenti altrettanto affini (Boro, Alluminio, Gallio, Indio). Per quanto detto, è possibile aumentare la conducibilità del Silicio mediante l’inserimento di atomi pentavalenti e questo procedimento (realizzato con diverse tecniche che vedremo in seguito) viene chiamato “doping” (drogaggio) appunto perché modifica lo stato naturale del semiconduttore conferendogli caratteristiche migliori, in questo contesto la conducibilità elettrica. D’ora in poi non ci meraviglieremo se useremo la coniugazione del verbo “drogare” in tutte le sue forme, per cui il fosforo è un” drogante”, il Silicio è” drogato” con fosforo. L’uso di tale denominazione (doping) nel contesto dei semiconduttori, è nato negli anni cinquanta quando il doping con droghe assunte dall’uomo non aveva raggiunto il fenomeno degenerativo odierno. Se ora riprendiamo il valore “n” che indica la densità elettronica in un semiconduttore, specifichiamo con “ni” quella relativa al solo effetto termico chiamata “intrinseca” perché il semiconduttore è puro (non drogato), indichiamo con “ nd” il numero di cariche aggiunte per effetto del drogaggio mediante fosforo oppure altro elemento pentavalente “donatore”, dopo il drogaggio la densità elettronica sarà la somma del termine intrinseco e del termine dovuto al doping, il primo è un valore fisso (a temperatura costante) mentre il secondo è variabile a seconda dell’intensità del drogaggio. Sarà allora : n = ni + nd (1) n > p (2) L’espressione (2) indica che in un semiconduttore drogato con atomi pentavalenti la conducibilità dovuta agli elettroni è nettamente maggioritaria rispetto a quella dovuta alle lacune, in quanto il doping fornisce elettroni, tanti quanti sono gli atomi di drogante. Pertanto è chiaro adesso come controllando la quantità di fosforo iniettato nel Silicio si possa controllare la conducibilità elettrica e poiché i portatori di 40 carica sono gli elettroni (vedremo che è possibile una conducibilità per lacune) il semiconduttore drogato con fosforo si dice “tipo N”. Consideriamo ora gli atomi del sottogruppo IIIB della tavola periodica degli elementi : Boro, Alluminio, Gallio, Indio. Sono trivalenti, pertanto presentano 3 elettroni nell’orbita esterna. Prendiamo il Boro, numero atomico 5 con 2 elettroni nella prima orbita e 3 nella seconda. Se “droghiamo” il Silicio con atomi di Boro, questi (così come il fosforo) si inseriranno nel reticolo cristallino del Silicio formando legami covalenti (fig. 27 ). Però il Boro ha soltanto 3 elettroni disponibili per cui forma 3 legami covalenti e gli resta un vuoto in cui è localizzata una carica negativa poiché manca complessivamente un elettrone, si è creata una lacuna così come si crea quando, per effetto termico, si rompe un legame covalente ed un elettrone “scappa” dal suo posto. Ma, come abbiamo visto nel caso del Silicio intrinseco, questa lacuna dura un battito di ciglio perché il solito elettrone “sperto” nelle vicinanze, quello che era sul punto di abbandonare il legame covalente, sente l’attrazione di questa lacuna positiva e irresistibile lascia il suo posto e colma la lacuna creata dall’atomo di Boro (fig.28 ). Fig.27 (1) Sono le prime formule che scrivo ma le espressioni matematiche non mi sembrano micidiali. Una espressione di primo grado ed una semplice disequazione. Chi ha studiato Fisica avrà notato come a pag. 16, elegantemente, ho saltato la famosa legge di Ohm. Tutto procede come abbiamo visto a pagina 36 figure a,b,c,d,f, cioè ogni lacuna che si forma viene immediatamente colmata da un elettrone e così, con 41 successivi salti elettronici in una direzione, la lacuna “si sposta” in direzione opposta e si va ad aggiungere alle lacune libere create per effetto termico. Fig. 28 Così come il fosforo, anche l’atomo di Boro diventa uno Ione, cioè un atomo non più elettricamente neutro, ma avendo acquistato un elettrone (quello che colma la prima lacuna formatasi perché il Boro ha soltanto 3 elettroni disponibili, si crea uno Ione negativo, mentre il fosforo diventa Ione positivo in quanto perde il suo quinto elettrone che non può legarsi nella struttura covalente con il Silicio. L’atomo di Boro costituisce una carica elettrica fissa poiché è fortemente legata nella struttura covalente. Il Boro, così come gli altri elementi del sottogruppo IIIB, si chiama drogante “accettore” perché acquista un elettrone per completare i 4 legami covalenti con 4 atomi di Silicio. Per quanto descritto, drogando il Silicio con atomi trivalenti (“accettori”) come il Boro, si producono lacune (positive) in numero pari alla quantità di atomi droganti; queste lacune si aggiungono a quelle prodotte nel semiconduttore intrinseco per effetto della temperatura diventando “maggioritarie” rispetto agli elettroni (cariche negative) che pertanto diventano “minoritari”. Il Silicio drogato con Boro diventa “tipo P “ poiché le cariche maggioritarie sono lacune positive e valgono le seguenti relazioni : p = p(i) + p(a) (3) p > n (4) In queste espressioni p è la densità complessiva delle lacune, n è la densità degli elettroni, p(i) è il contributo di lacune intrinseche, p(a) sono lacune dovute al drogaggio. Prima di proseguire, ricapitoliamo quanto abbiamo descritto : I semiconduttori come Germanio e Silicio sono elementi che, allo stato naturale, cioè puri e privi di elementi estranei, dal punto di vista della conducibilità elettrica si comportano in maniera intermedia tra conduttori metallici e gli isolanti. Però a temperatura ambiente, per effetto della rottura di un certo numero di legami covalenti, si creano coppie di elettroni (negativi) e lacune 42 (positive) in egual numero che cresce all’aumentare della temperatura stessa. Queste cariche consentono una minima conducibilità nettamente inferiore a quella dei metalli. E’ invece possibile “drogare” i semiconduttori iniettando al loro interno (con sofisticate tecniche che vedremo in seguito) atomi di elementi trivalenti o pentavalenti quali Boro, Fosforo, Alluminio, Arsenico, Gallio, Antimonio. Gli elementi pentavalenti, es. fosforo, si inseriscono nel Silicio formando legami covalenti e liberando il loro quinto elettrone pertanto aumentano la conducibilità elettronica, che viene controllata dosando la quantità di drogante. Contemporaneamente ogni atomo di fosforo, avendo perso il suo quinto elettrone, diventa uno Ione positivo. Il Silicio così drogato si chiama di “tipo N” avendo pertanto cariche negative in maggioranza. Se invece si droga con elementi trivalenti (Boro etc.), allora il Silicio deve fornire elettroni per colmare una lacuna per ogni atomo di Boro che ne ha solo 3 e deve formare 4 legami covalenti con 4 atomi di Silicio che lo circondano. Abbiamo visto che così si creano lacune positive in numero pari agli atomi droganti e contemporaneamente ioni Boro negativi. Il Silicio drogato con Boro si indica “tipo P ” . . In un semiconduttore drogato di tipo N vi sono in maggioranza cariche negative libere (elettroni) rappresentate da cerchietti. La loro densità si può controllare facilmente dosando il processo di doping che inietta atomi di drogante (nell’esempio fosforo). Vi sono cariche fisse positive (quadratini) dovute a ioni fosforo. Nel Silicio drogato di tipo P le cariche maggioritarie libere sono lacune positive, la cui densità si controlla dosando il doping con atomi di Boro. Questi diventano cariche fisse negative. Non dimentichiamo che nel tipo N vi sono pochissime ma non trascurabili lacune intrinseche (triangolino) che nascono per effetto termico e sono preesistenti al drogaggio; sono dette cariche minoritarie libere. Nel tipo P vi saranno elettroni liberi intrinseci, della stessa natura termica, che sono cariche minoritarie. In seguito queste cariche minoritarie faranno la loro parte, purtroppo in senso negativo per cui dovranno essere sempre sotto controllo. Sarà questo il motivo per cui si deve tenere sempre bassa la temperatura, dato che se aumenta questa aumentano le cariche minoritarie e queste, vedremo, danno fastidio perché costituiscono comunque un elemento incontrollabile che può portare ad episodi negativi irreversibili. Fig. 29. 43 Bene, facciamo ora una pausa di riflessione prima di proseguire per arrivare a comprendere il primo concetto basilare che è il funzionamento di un diodo al Silicio che rappresenta il mattone di tutto l’impianto dell’Elettronica che a sua volta è alla base di tutte le tecnologie moderne quali l’Informatica, le Telecomunicazioni, le imprese spaziali etc. Abbiamo imparato concetti fondamentali, digeriamoli bene perché c’è ancora tanta strada da percorrere, rivediamoli velocemente attraverso i nuovi termini che abbiamo conosciuto e con cui dobbiamo familiarizzare; se qualche parola ci richiama un argomento non chiaro, torniamoci indietro e cerchiamo di decifrarlo meglio: Chip, microchip, Led, diodo, circuito integrato, Silicio, Tavola periodica degli elementi, atomo, elettrone, orbite, energia, metalli, elettroni liberi, conduttori, isolanti, semiconduttori, elettricità, potenziale elettrico, resistenza, corrente elettrica, circuito elettrico, energia termica, elettroni e lacune nel silicio intrinseco, legami covalenti, drogaggio, atomi donatori, atomi accettori, ioni positivi e negativi, cariche maggioritarie e minoritarie, conducibilità, resistività. Alcuni dei concetti esposti, come conducibilità e resistività, saranno comunque ripresi nel seguito e diventeranno sempre più familiari e comprensibili. Ricordiamo ancora, come abbiamo già accennato, che la conducibilità elettrica (esiste anche la conducibilità termica), che è paragonabile al peso specifico, rappresenta la conduzione per unità di lunghezza (riferendosi ai fili di metallo). Il valore dipende dalla struttura atomica ed in particolare dal numero di elettroni orbitanti attorno al nucleo ma la condizione indispensabile è quella che ci sia un solo elettrone nell’ultima orbita che diviene libero di muoversi, come avviene, abbiamo visto nei paragrafi precedenti, nei metalli come argento, oro, rame. La resistività (resistenza specifica), invece, è una grandezza legata alla capacità dei corpi di opporsi al passaggio della corrente elettrica, quindi denota la proprietà di essere buoni “isolanti”. I materiali buoni isolanti sono quelli i cui atomi hanno orbite elettroniche piene e compatte per cui non vi è possibilità di elettroni liberi, che sono quelli che costituiscono la corrente nei fili conduttori. Alle due categorie descritte, conduttori e isolanti che hanno proprietà opposte, si è aggiunta successivamente una terza categoria denominata “semiconduttori” che ha proprietà intermedie ma straordinariamente versatili, a tal punto che partendo dal Germanio e dal Silicio, che sono i semiconduttori più usati e diffusi, è stato possibile sviluppare tutta l’Elettronica moderna fino alle attuali tecnologie informatiche e telematiche. I processori, cuore dei dispositivi come telefonini, smartphone, Tablet, Computer portatili, grossi Computer, sono appunto realizzati partendo dal Silicio. 44 Adesso digeriamo questa prima parte e prepariamoci a sempre più complessi argomenti che ci dovranno portare lontano. La strada è lunga e aspra ma non impossibile. 45 CAPITOLO TERZO IL DIODO A GIUNZIONE 46 3.1 La giunzione P-N In figura 29 (pagina 44) abbiamo sintetizzato lo stato relativo a due situazioni in cui il Silicio è drogato con boro oppure con fosforo e diventa rispettivamente tipo P e tipo N. Nel primo caso si ha una maggioranza di cariche libere positive (lacune in cerchietti) ed una minoranza di cariche libere negative (elettroni in triangolini). Vi sono poi cariche “fisse” negative costituite da ioni Boro (quadratini). Nel secondo caso (tipo N) si ha una maggioranza di cariche libere negative (elettroni in cerchietti), una minoranza di cariche libere positive (lacune in triangolini) e cariche fisse costituite da ioni fosforo (quadratini). Uniamo adesso queste due zone tipo N e tipo P insieme (fig. 30) per formare quella che si chiama “giunzione P-N “ (vedremo in seguito le tecniche per formare una tale giunzione) e supponiamo che abbiano uguale densità di doping per cui vi è una distribuzione uniforme di cariche elettriche (in seguito vedremo che in alcuni casi può non essere conveniente che sia così) Figura 30. Giunzione P-N Sappiamo che cariche elettriche di segno opposto si attraggono mentre cariche elettriche dello stesso segno si respingono. Allora nella giunzione gli elettroni maggioritari della zona N vengono attratti dalle lacune maggioritarie della zona P (entrambi in cerchietti) e si muovono per incontrarsi. Anche le cariche minoritarie (elettroni nella zona P e lacune nella zona N, in triangolino) potrebbero attrarsi ma sono in numero esiguo e non riescono ad attraversare la giunzione. Invece gli elettroni maggioritari della zona N attraversano la 47 giunzione e vengono attratti irresistibilmente dalle lacune della zona P (ricordiamoci che gli elettroni hanno una mobilità maggiore delle lacune). Che succede quando un elettrone incontra una lacuna? Ricordiamoci che la lacuna è un vuoto, è un legame covalente mancante, è una carica positiva in quanto un elettrone ha lasciato quel posto. Bene, l’elettrone attratto colma questo vuoto, ripristina il legame covalente e non si muove più. L’elettrone e la lacuna, nel momento in cui riformano un legame, non esistono più come entità singole, perdono la loro libertà, si dice in gergo che si sono “ricombinati”. Fig. 31. Zona di svuotamento ( depletion layer ) Queste ricombinazioni però non durano a lungo. Quando gli elettroni e le lacune che si trovavano in prossimità della giunzione si sono ricombinati, ulteriori elettroni, diciamo dalle retrovie, non riescono più ad attraversare la giunzione poiché, essendosi ricombinati elettroni e lacune non vi sono più cariche libere e si evidenziano (fig. 31) gli ioni fissi (quadratini). Adesso gli elettroni vengono respinti dagli ioni negativi della zona P, così pure le lacune vengono respinte dagli ioni positivi della zona N. Il movimento di cariche libere si ferma, si viene a creare una zona, in prossimità della giunzione, priva di cariche libere ma con una distribuzione di cariche fisse ( ioni ) che impedisce un ulteriore passaggio di elettroni e lacune. Q uesta zona si chiama “depletion layer “ che significa zona di svuotamento e che tutti gli elettroni e le lacune di questa porzione di giunzione si sono ricombinati e rimangono solo le cariche fisse. A tutti gli effetti la “depletion layer “ formatasi è una porzione isolante, non avendo appunto cariche libere e di ciò ce ne ricorderemo in seguito). In figura 31 non sono rispettate le 48 proporzioni; la depletion layer è larga circa un micron ( un millesimo di millimetro). Notiamo inoltre che lo spiegamento di ioni fissi rappresenta una barriera di potenziale per le cariche libere che volessero attraversare la giunzione e ricombinarsi. Gli elettroni “vedono” (sarebbe più corretto “sentono”, ma mi piace qui dare vista agli elettroni) una barriera di ioni negativi e le lacune “vedono” una barriera di ioni positivi. Questa barriera è quantificata e vale 0,6 volt per il Silicio, 0,2 volt per il Germanio (il valore più basso deriva dal fatto che il Germanio ha un numero atomico maggiore quindi i suoi 4 elettroni più lontani dal nucleo, pertanto meno legati, di conseguenza minore è l’energia in gioco). Per quanto descritto, la situazione si blocca in quella rappresentata in figura 31 : dopo un iniziale movimento di elettroni verso la zona P e delle lacune verso la zona N, spinti da attrazione reciproca, la zona attorno alla giunzione si svuota di cariche libere perché lacune ed elettroni si neutralizzano incontrandosi e formando un legame covalente. Le cariche libere di retrovia non possono più attraversare la giunzione perché sono respinte dal potenziale elettrico generato da ioni positivi e negativi. Nasce una depletion layer priva di cariche libere e tutto si stabilizza così e, come deriva da un principio di Dinamica, rimane nel suo stato di quiete fino a che non interviene una causa esterna capace di modificarne lo stato. Una possibile causa esterna può essere energia elettrica , energia luminosa o energia termica, sufficienti per far superare la “barriera di potenziale” prodotta dagli ioni nella depletion layer. Come vedremo, fornendo energia elettrica nasce il diodo a giunzione con numerose applicazioni elettroniche, fra le quali abbiamo citato il Led. Fornendo energia luminosa nascono il fotodiodo, le cellule fotoelettriche e le batterie solari. Non dimentichiamo che la giunzione nel suo complesso rimane un sistema elettricamente neutro, vi sono peraltro delle cariche distribuite e differenziate che però tra di loro sono bilanciate. Nella zona tipo N vi è un eccesso di elettroni (maggioritari), una minima parte di essi è dovuta all’energia termica che già a temperatura ambiente crea coppie elettrone-lacuna. La maggioranza sono derivati dal drogaggio con fosforo e sono appunto bilanciati da ioni fosforo P + fissi. Analogamente nella zona P vi è un eccesso di lacune (positive e maggioritarie) di cui una minima parte è dovuta alla temperatura, la maggioranza è dovuta al drogaggio con Boro ed è bilanciata da ioni negativi B -. 49 3.2 Giunzione PN polarizzata direttamente Consideriamo ora una giunzione al Silicio come quella vista in figura 31 ed applichiamole una forza elettro motrice (f.e.m.) dall’esterno, figura 32, che sia superiore alla barriera di potenziale (o,6 volt) che si è creata nella depletion layer. Inizialmente colleghiamo il polo positivo della batteria al lato della giunzione tipo P e quindi il lato negativo alla zona tipo N. In sostanza stiamo fornendo energia elettrica alle cariche libere in quantità sufficiente a superare il muro di potenziale della barriera di ioni. Bene, succede proprio che Fig. 32 Giunzione P-N polarizzata direttamente tutti gli elettroni maggioritari della zona N sono attratti dal polo positivo della batteria ed essendo il potenziale di quest’ultima superiore alla barriera di potenziale costituita da ioni negativi, gli elettroni scavalcano il muro della depletion layer e proseguono verso il positivo della batteria esterna. Lo stesso accade per le lacune maggioritarie della zona drogata P. Esse vengono attratte 50 dal polo negativo della batteria ed avendo energia sufficiente scavalcano anch’esse il muro della barriera di potenziale costituita da ioni positivi. In sostanza gli elettroni vanno dalla zona N alla zona P scavalcando la depletion layer, proseguono verso il polo positivo e poi, sospinti dalla batteria, ritornano dal circuito dentro la zona N e così via circolano costituendo una corrente elettrica misurata dall’amperometro A inserito nel circuito. Il flusso di elettroni circola pertanto in senso orario. Per motivi storici, il verso della corrente, per convenzione, va dal positivo della batteria esternamente fino al polo negativo, quindi in senso antiorario. Ciò non è un problema perché sono solo convenzioni estetiche, l’importante è sapere cosa avviene realmente. Lo stesso fenomeno descritto accade per le lacune che si muovono in senso inverso a quello degli elettroni. Alle cariche maggioritarie occorre aggiungere le cariche minoritarie (triangolini) che sentono anch’esse l’attrazione della forza elettro motrice esterna. Naturalmente c’è l’imprevisto : la maggioranza degli elettroni che scavalcano la depletion layer proseguono verso il polo positivo della batteria e circolano nel circuito in senso orario attratti dal positivo e risospinti nella zona N dal polo negativo. Ma il loro cammino non è tutto liscio : bisogna considerare che nel loro movimento sono soggetti ad urti con atomi di Silicio e con gli Ioni Boro negativi che ne abbassano la velocità. Ciò costituisce una vera e propria “resistenza” al loro passaggio e ne scaturisce una limitazione nel valore della corrente che circola nel circuito. Inoltre dobbiamo considerare il fenomeno della “ricombinazione” cui abbiamo già accennato : gli elettroni e le lacune si attraggono irresistibilmente e la probabilità che un elettrone colmi una lacuna non è trascurabile e quando ciò avviene, come abbiamo già descritto, entrambi scompaiono come entità singole perché formano un legame covalente e ciò è irreversibile; ne deriva che la corrente elettrica subisce una ulteriore diminuizione. La probabilità che un elettrone colmi una lacuna dipende dalla sua velocità : maggiore è questa, minore è la probabilità che l’elettrone si fermi ad unirsi ad una lacuna, viceversa se l’elettrone è lento è più probabile che si ricombini con una lacuna. La velocità degli elettroni a sua volta dipende dalla forza elettromotrice che li sospinge, pertanto ne deriva quanto era prevedibile : Se il potenziale esterno della batteria si mantiene su valori inferiori alla barriera di potenziale della depletion layer, gli elettroni e le lacune non hanno energia sufficiente a scavalcare, rispettivamente, il muro di Ioni Boro (negativi) e Ioni fosforo (positivi). Appena il potenziale esterno supera la soglia della barriera di potenziale, le cariche libere superano la barriera e circola una corrente che è direttamente proporzionale al valore della f.e.m esterna, così come avviene in un normale circuito elettrico con elementi conduttori di elettricità. 51 Nella giunzione a semiconduttore che stiamo descrivendo subentra un ulteriore fenomeno che differenzia quanto succede nei conduttori : aumentando il potenziale della batteria, si raggiunge un valore di saturazione per cui la corrente assume un valore costante; ciò avviene perché la quantità di cariche libere è limitata e tutti gli elettroni e le lacune attraversano la giunzione, aumentano sì la loro velocità ma la loro quantità è limitata dalla dose di drogaggio operato con Boro e Fosforo. In altre parole, al disotto della soglia della barriera di potenziale elettroni e lacune non riescono a superarla; superando la soglia di poco, elettroni e lacune oltrepassano la barriera ma siccome la loro energia è debole, la loro velocità bassa determina un notevole numero di ricombinazioni e urti con atomi e Ioni per cui la corrente si mantiene bassa. Aumentando il potenziale esterno, aumenta l’energia degli elettroni e delle lacune, aumenta la loro velocità, aumenta il numero di cariche che supera la barriera ed evita urti e ricombinazioni, aumenta la corrente elettrica misurata dall’amperometro, fino ad un valore limite di saturazione per cui tutte le cariche disponibili concorrono a formare la corrente e ciò è limitato dalla quantità di drogaggio delle zone N e P. Il tipo di polarizzazione descritto e rappresentato in figura 32, in cui è evidenziato che si applica il potenziale positivo alla zona P e quello negativo alla zona N, dato che permette il passaggio di corrente, è detto “polarizzazione diretta” (forward) in contrapposizione a quello che si ottiene invertendo la polarità della batteria (vedremo tra poco) che è denominata “polarizzazione inversa” (reverse). Quando si raggiunge la massima corrente possibile, l’unico modo per aumentarla è aumentare la temperatura (aumentando così la creazione di coppie elettrone-lacuna), ma ciò è incontrollabile, oppure si aumenta la dose del drogaggio cosicchè aumenta la densità di cariche maggioritarie. C’è un altro particolare che dobbiamo segnalare rispetto alla situazione circuitale di figura 32 cioè in caso di polarizzazione diretta e che non abbiamo precisato per opportunità di disegno : Il polo positivo attrae gli elettroni maggioritari della zona N e fa scavalcare loro la barriera di potenziale; peraltro gli stessi elettroni sono spinti verso la giunzione dal polo negativo. Analogamente, invertendo i segni, anche le lacune sono spinte a scavalcare la giunzione. Si ha quindi come una “espansione” di entrambe le cariche verso il centro e ciò determina un restringimento della depletion layer che favorisce il passaggio di elettroni e lacune (figura 33). Vedremo che invertendo la polarità la depletion layer si allarga. Si verifica sperimentalmente che la larghezza della depletion layer è funzione direttamente proporzionale al potenziale esterno della batteria e ciò viene sfruttato per realizzare dispositivi che variano la propria capacità elettrostatica in funzione della differenza di potenziale elettrico applicata. Questi 52 dispositivi si chiamano “varicap” e sono quelli che azioniamo quando ci sintonizziamo su una emittente FM nelle nostre autoradio. Questo è possibile perché la giunzione può essere considerata un condensatore in cui le due zone N e P sono le armature e la depletion layer è l’isolante; sappiamo dalla Fisica che in un condensatore la capacità è inversamente proporzionale alla distanza tra le armature quindi allo spessore dell’isolante interposto. Abbiamo appena visto che polarizzando in modo “diretto” una giunzione P-N la larghezza della depletion layer (che è un isolante essendo privo di cariche libere) diminuisce all’aumentare il potenziale esterno. Fig. 33: restringimento della depletion layer 53 3.3 Giunzione polarizzata inversamente Consideriamo adesso una giunzione polarizzata inversamente (fig. 34) quindi, al contrario di quella descritta nel paragrafo precedente, colleghiamo il polo positivo della batteria alla zona tipo N e quello negativo alla zona tipo P. In questo contesto, gli elettroni maggioritari della zona N vengono attratti dal polo positivo e si dirigono verso l’esterno in direzione opposta alla giunzione. Così pure le lacune della zona P vengono attratte dal polo negativo e si dirigono verso l’esterno. Questo movimento divaricante delle cariche libere provoca un allargamento della zona dove sono isolati ioni fosforo e ioni boro cioè un allargamento della depletion layer con conseguente aumento della barriera di potenziale e ciò rende difficile il passaggio di cariche attraverso la giunzione. In sostanza gli elettroni e le lacune “vedono” un muro invalicabile di ioni con la conseguenza che l’amperometro non segna alcun passaggio di corrente. Ecco che adesso vengono alla ribalta le cariche minoritarie (triangolini). Ricordiamoci che queste cariche (lacune nella zona N ed elettroni in quella P) nascono dall’energia termica a temperatura ambiente a prescindere dal drogaggio. Se si osserva attentamente la figura, si vede come per le cariche minoritarie la polarizzazione è “diretta” per cui gli elettroni minoritari della zona P sono attratti dal polo positivo così come le lacune della zona N sono attratte dal polo negativo della batteria. Ma abbiamo appena detto che la barriera di potenziale si è allargata, inoltre le cariche minoritarie sono veramente pochissime. Ne risulta che il numero di esse che riesce a passare la barriera è talmente basso che l’amperometro non segna nulla e noi concludiamo che una giunzione polarizzata inversamente non consente il passaggio di corrente. Ma siccome vogliamo essere precisi, cambiamo strumento e ne mettiamo uno più sensibile ed ecco che viene segnalata una infima corrente (inversa a quella del paragrafo precedente) dell’ordine del miliardesimo di ampere. Questa corrente non dipende dal potenziale esterno, anche all’aumentare di questo rimane costante, perché appunto più di quelle poche cariche minoritarie non c’è altro. Invece è sensibile alla temperatura nel senso che aumentando questa aumenta il numero di coppie elettrone-lacuna e di conseguenza aumentano le cariche minoritarie. Questa corrente viene chiamata “ corrente inversa “ con simbolo IR, dove la R sta per “reverse”. E’ una corrente che bisogna tenere sempre sotto controllo data la sua dipendenza dalla temperatura. 54 Fig. 34 Giunzione polarizzata inversamente 3.4 Il diodo a semiconduttore Per quanto descritto, possiamo affermare che, a meno di una trascurabile infinitesima corrente, a tutti gli effetti invisibile, una giunzione PN polarizzata inversamente non consente alcun passaggio di corrente. Questa giunzione a semiconduttore prende il nome di diodo in quanto ha due elementi costitutivi (la zona P e la zona N) e di conseguenza due terminali di connessione ad un circuito esterno. Può essere al Germanio oppure al Silicio oppure con altro tipo di semiconduttore più raro e più costoso; oggi la maggioranza dei diodi è al Silicio. La caratteristica in comune è che un diodo è un conduttore unidirezionale nel senso che consente il passaggio di corrente solo in una direzione e con una data polarizzazione. I due terminali del diodo, per tradizione storica, vengono chiamati “Anodo” il terminale collegato al positivo nella polarizzazione diretta, “Catodo” (Katode, da cui la K) quello collegato al negativo sempre nella polarizzazione diretta. Questa denominazione viene mantenuta derivandola 55 dalle vecchie valvole poiché nel diodo a vuoto i due elettrodi erano chiamati appunto anodo e catodo, che poi anche questa a sua volta è una derivazione proveniente dalle soluzioni elettrolitiche nelle quali l’anodo è l’elettrodo positivo ed il catodo quello negativo. Il diodo, di qualunque tipo sia, ha il seguente simbolo universale : Fig. 35: simbolo del diodo La freccia indica il verso (convenzionale) della corrente. Per sapere come polarizzare il diodo inserito in un circuito si ricorre a convenzioni : a volte i terminali sono uno lungo, anodo, ed uno corto, catodo (come nei Led), oppure c’è esternamente al corpo del diodo una striscia che corrisponde al catodo. Il diodo a semiconduttore ha un numero elevato di applicazioni in tutti i campi : Elettrotecnica, Elettronica, Informatica, Telecomunicazioni, applicazioni spaziali; a seconda dell’applicazione particolare è costruito tecnologicamente in modo diverso e si presenta in tante versioni anche esternamente. In linea di massima le dimensioni corrispondono alla “Potenza” dissipata, quindi alla corrente elettrica che un diodo può sopportare. 56 Fig.36° : collegamenti elettrici diodo-lampadina-pila fig. 36b : diodi commerciali 57 In figura 36a è riportato uno schema elementare di connessione di un diodo con una batteria ed una lampadina. E’ mostrato come l’inserimento del diodo, che abbiamo visto essere un componente unidirezionale, consente il passaggio di corrente solo e soltanto se la polarità della batteria è in un certo senso e non nell’altro. Approfittiamo di questo esempio per ricordare che un circuito elettrico o elettronico è sinteticamente composto sempre da una sorgente di energia elettrica (chiamata anche forza elettromotrice (f.e.m.) e da un utilizzatore di tale forza (esempio la lampadina); a volte l’utilizzatore è chiamato “carico”(load) ed è schematizzato genericamente con il simbolo della resistenza : fig. 37: G è un generico generatore di f.e.m. Naturalmente f.e.m. e resistenza sono collegati da fili conduttori che si possono considerare di resistenza trascurabile. Ricordiamo che in circuito elettrico le grandezze in gioco sono : La forza elettro motrice, detta anche “differenza di potenziale”, misurata in Volt La resistenza al passaggio della corrente, indicata con R e misurata in Ohm. L’intensità di corrente, indicata con I e misurata in Ampère. Queste tre grandezze fisiche sono legate tra di loro dalla famosa legge, scoperta sperimentalmente dal fisico tedesco Georg Ohm e che da lui prende il nome: I = V/ R Questa, secondo me, è la legge più importante dei circuiti elettrici , malgrado la sua estrema semplicità. Non c’è cosa che si muova in Elettrotecnica, Elettronica, Informatica, Telecomunicazioni, che non sia regolata dalla legge di Ohm. Non bisogna temere le espressioni matematiche, sono più semplici di quanto non si creda, bisogna interpretarle in modo corretto e poi sono efficaci, essenziali ed esplicative. L’importante è non abusarne. Gli antichi dicevano “in medio stat virtus” , i saggi siculi avevano coniato l’equivalente proverbio : “ u suverchiu è comu u mancanti “. La legge di Ohm ci dice che l’intensità I(Ampère) della corrente elettrica in un circuito “dipende” dal potenziale elettrico V(volt) e dalla resistenza elettrica R(Ohm) nel senso che essa aumenta se aumenta il potenziale viceversa diminuisce se aumenta la 58 resistenza e ciò è abbastanza intuitivo poiché la corrente è l’effetto, il potenziale è la causa, la resistenza è l’ostacolo che si interpone. Ricordiamo che sono sinonimi : f.e.m., potenziale elettrico, differenza di potenziale (d.d.p.), tensione, ognuno di questi termini differisce di poco dall’altro (chiariremo in seguito). Se questa dipendenza la consideriamo da un punto di vista funzionale e la portiamo in forma di diagramma cartesiano dove in ordinata avremo la variabile dipendente I, in ascissa la variabile indipendente V e la resistenza funge da parametro costante, la legge di Ohm è una semplice espressione di primo grado lineare del tipo y= mx che è una retta passante per l’origine degli assi ed “m” rappresenta il parametro costante che graficamente si esplicita con la pendenza della retta, che nel nostro caso è 1/R, cioè minore è la resistenza maggiore è la pendenza. Fig. 38 Quanto detto è evidenziato nel grafico di figura 38, in cui si è fatta l’ipotesi di due diverse resistenze; il grafico corrispondente a quella minore (R1) è rappresentato da una retta vicina all’asse delle ordinate, mentre quello corrispondente alla maggiore (R2) è rappresentato da una retta vicina all’asse delle ascisse. Per uno stesso valore costante del potenziale V 0, ad una minore resistenza (R1) corrisponde una maggiore corrente I1 e viceversa ad un maggior valore di resistenza (R2) corrisponde un minor valore di corrente I2 . Il diagramma di figura 38 va interpretato in modo completo comprendendo anche i due semiassi negativi: significa che invertendo la polarità del generatore la corrente circola in senso inverso. 59 3.5 Caratteristiche elettriche del diodo Vedremo adesso come il diodo al Silicio, oltre le caratteristiche già viste, presenta la peculiarità di non obbedire alla legge di Ohm non presentando un diagramma Corrente-Tensione lineare. Per ricavare il comportamento di un diodo al Silicio come l’andamento della corrente che circola in funzione del potenziale applicato si utilizza un circuito sperimentale come quello di figura 39. E’ presente un generatore di f.e.m. continua “G” il cui valore si può variare (a ciò si riferisce la freccia) da zero, linearmente, fino al valore desiderato. Ai capi del diodo è applicato un voltmetro che ci indica il potenziale applicato, in serie al circuito è inserito un amperometro che misura l’intensità di corrente; ricordiamo che in un circuito con elementi in serie la corrente è la stessa in tutti i punti dello stesso circuito. Prepariamo un diagramma cartesiano in cui in ascisse riportiamo il potenziale VD applicato al diodo (letto nel voltmetro) ed in ordinate riportiamo la corrente I D misurata (letta nell’amperometro). Partendo da zero, diamo progressivamente tensione al diodo ed in corrispondenza leggiamo i valori di corrente. Come abbiamo ampiamente descritto nel paragrafo 6 (giunzione polarizzata direttamente), finchè non si raggiungono 0,6 volt non circola alcuna corrente. Superato questo valore, che chiameremo “tensione di soglia” (in inglese V T dove T sta per threshold = soglia), che corrisponde alla barriera di potenziale della depletion layer che si oppone al passaggio degli elettroni, si osserva un passaggio di corrente che, inizialmente in modo esponenziale e poi linearmente, aumenta all’aumentare del potenziale applicato al diodo (figura 39b). Ciò corrisponde al fatto che, superando di poco 0,6 volt, soltanto una parte degli elettroni supera la barriera di potenziale. Questi aumentano a mano a mano che il potenziale aumenta. Aumentando però ancora il potenziale applicato, la corrente non aumenta più raggiungendo un valore di saturazione. Tutti gli elettroni disponibili nella giunzione hanno attraversato la barriera di potenziale. Si vede nel diagramma 60 come l’andamento “Corrente- tensione” in un diodo è diverso da quello che si ricava per una resistenza, che obbedisce alla legge di Ohm, che è una funzione lineare. Questo diagramma prende il nome di “ Curva caratteristica “ di un diodo al Silicio polarizzato direttamente. Analogamente si può ricavare la curva caratteristica di un diodo in polarizzazione inversa semplicemente invertendo la polarità del generatore di figura 39 ed inserendo un Amperometro più sensibile, capace di rivelare correnti dell’ordine del “nanoampere” cioè millesimi di milionesimi di Ampère. In figura 40a è appunto riportato lo schema elettrico del circuito usato per ricavare sperimentalmente la seconda curva caratteristica del diodo. Il procedimento è analogo a quello precedente : si dà progressivamente potenziale (volt) al diodo e si rileva cosa segna l’amperometro. Per quello che si è descritto nel paragrafo relativo alla giunzione polarizzata inversamente, non passa corrente a meno di quella minima dovuta alle cariche minoritarie che è dell’ordine di nanoampère. Questa corrente aumenta solo inizialmente e poi rimane costante anche se viene aumentato di molto il potenziale applicato. Questo andamento è mostrato nel diagramma 40b : si noti che ci si riferisce ora ai due semiassi negativi della corrente e della tensione; inoltre le scale di riferimento sono diverse da quelle di figura 39b in quanto adesso, come già rimarcato, la corrente è dell’ordine di nanoampère ed il potenziale è alcune diecine di volt (i valori dipendono dal tipo particolare di diodo). Quello che si osserva è che ad un certo punto la corrente aumenta bruscamente come in un cortocircuito, la caratteristica varia ad angolo retto. Succede che aumentando il potenziale la corrente non aumenta perché le cariche minoritarie sono in numero limitato, ma aumenta la loro velocità fino ad un punto tale che l’energia cinetica delle cariche è tale che queste rompono i legami covalenti degli atomi di Silicio creando coppie elettroni-lacune e ciò determina una reazione a catena, una rottura a valanga (Breakdown) fino al cortocircuito. Il valore di potenziale elettrico per cui ciò avviene si chiama Tensione di rottura 61 o di breakdown Vbr . E’ un valore limite da non superare poiché se il diodo sta anche una trentina di secondi nello stato di Breakdown la corrente elevata che si origina determina surriscaldamento e poi distruzione del dispositivo. La permanenza in Breakdown è consentita soltanto per pochi attimi. Fig. 41 Curve caratteristiche del diodo al Silicio In figura 41 sono mostrate le curve caratteristiche complete di un diodo. Si noti come la scala dei volt sia differente: a destra (polarizzazione diretta) tutto si conclude nell’arco di un volt e mezzo; a sinistra (polarizzazione inversa) si arriva fino a 50 volt nell’intorno della tensione di Breakdown V BR e questo valore può raggiungere anche gli 800 volt. Anche la scala delle correnti è diversa: in diretta i valori sono espressi in Ampère oppure in milliAmpère (millesimi di Ampère) , mentre in inversa la corrente è espressa in nanoAmpère (milionesimi di milliAmpère). I punti significativi del grafico sono (in diretta) la tensione di soglia VT che è il valore a cui il diodo comincia a condurre ed il valore I max che rappresenta la massima corrente sopportabile dal diodo. Nei diodi commerciali viene riportata la potenza massima in Watt (ricordiamo che P = V I ). In inversa invece i valori significativi sono la corrente reverse I R che deve essere quanto più piccola possibile in modo da potersi considerare trascurabile, la tensione di Breakdown 62 VBR che rappresenta un valore limite oltre il quale il diodo può distruggersi, pertanto deve essere quanto più possibile alta. Queste curve caratteristiche vengono riportate nei manuali tecnici delle varie ditte costruttrici di semiconduttori, assieme ad altre notizie operative. In figura 42 è invece rappresentata una curva caratteristica ideale di un diodo in cui i valori sono più marcati, la corrente al disotto di V T può considerarsi nulla, la caratteristica diretta è rettilinea e non comprende la corrente massima (che non è conveniente raggiungere poiché il diodo si surriscalda), in inversa si considera zero la IR, il ginocchio in corrispondenza a VBR è netto. Pur essendo quella riportata una caratteristica ideale, nella maggior parte delle applicazioni di un diodo, è consentito farvi riferimento per semplicità descrittive ed operative. Possiamo concludere affermando che un diodo a semiconduttore (nella maggior parte dei casi al Silicio) è un componente elettronico a due componenti (le due zone drogate tipo N e tipo P) e quindi a due terminali di connessione. E’ un componente non lineare in quanto obbedisce alla legge di Ohm soltanto in una parte delle sue caratteristiche ( la diretta dopo V T e prima di Imax), inoltre è un componente “unidirezionale” cioè conduce la corrente elettrica soltanto in una direzione quando si rispetta la polarità diretta. Invertendo la polarità si può affermare che non conduce affatto (anche se una labile corrente inversa è presente). Questa sua ultima peculiarietà è quella maggiormente sfruttata nelle numerose applicazioni elettroniche in cui è impiegato. Fig. 42 Caratteristiche ideali del diodo 63 CAPITOLO QUARTO APPLICAZIONI DEL DIODO 64 4.1 Il diodo come “ raddrizzatore “ Descriveremo ora soltanto due delle tantissime applicazioni di un diodo, quelle che si possono ritenere le più importanti, le più usate, le più significative. La prima è quella in cui il diodo ha la funzione di “raddrizzatore” o “rettificatore”. Capiremo subito il perché di questa denominazione. Dobbiamo ricordare che la corrente elettrica esiste in due tipologie diverse: la corrente continua (direct current, d.c.) e la corrente alternata (alternative current, a.c.). La prima è quella fornita dalle pile e dalle batterie delle auto che forniscono un valore di tensione e corrente “costante” ed hanno un polo positivo ed un polo negativo. In un grafico corrente-tempo e tensione-tempo, l’andamento è quello di figura 43 Fig. 43 La corrente alternata, invece, come si evince dall’aggettivo, non ha valori costanti ma la corrente e la tensione variano nel tempo “alternando” valori positivi e negativi secondo una sinusoide (figura 44). Questo tipo di corrente è generata nelle centrali elettriche, può essere trasformata modificando i valori di tensione e corrente, è quella che abbiamo nelle case (220 volt, 50 Hertz), pertanto è la più diffusa. Del resto, capita spesso di dover passare dalla tensione “alternata” (disponibile nelle comuni prese di corrente casalinghe) a quella “continua” necessaria ad alimentare la maggior parte delle apparecchiature elettroniche portatili. Fig. 44 (*) Hertz è l’unità di misura della frequenza, che è il numero di cicli al secondo. Quante volte usiamo un caricabatteria per ricaricare il telefonino oppure le batterie di una macchina fotografica, o ancora quelle di un lettore MP3? In questo caso ci colleghiamo sempre ad una presa di corrente che abbiamo a casa 65 (o in altro posto fuori di casa) nell’impianto luce che ci fornisce tensione alternata a 220 volt-50 Hertz (fig.44). Ricordiamoci che le batterie forniscono tensione continua a basso valore (da 1,5volt a 12 volt) quindi il caricabatteria, nello svolgere il compito di “caricare” deve “convertire” da alternata a continua ed abbassarla di valore. Ebbene, in questo processo svolge un ruolo determinante il diodo al Silicio. Ricordiamoci la caratteristica “unidirezionale “ del diodo e consideriamo il semplice circuito di figura 45 : fig. 45 Nella figura, G rappresenta una generica sorgente di tensione alternata, in serie si inserisce un diodo, un resistore R (ha la funzione di limitare la corrente) ed un amperometro A. In figura 46° è riportata la forma d’onda della tensione applicata al diodo: durante la prima semionda l’anodo è positivo, il diodo, essendo polarizzato direttamente, conduce corrente il cui valore è determinato dalla legge di Ohm ed è misurato dall’amperometro. Durante la seconda semionda la tensione si inverte e all’anodo è applicato un valore negativo (polarizzazione inversa) per cui il diodo non conduce. L’andamento della corrente è quello mostrato in figura 46b in cui si osservano solo impulsi positivi. Non è ancora una corrente continua ma non è più alternata bensì unidirezionale. Fig. 46a Fig.46b 66 Fig. 47 Per migliorare la forma d’onda della corrente si inserisce nel circuito un condensatore C in parallelo alla resistenza R. Sappiamo dalla Fisica che un condensatore si carica ed assume ai suoi capi un potenziale V c in funzione della sua capacità, in modo proporzionale alla corrente. Il condensatore si carica seguendo il fronte d’onda di salita (fig.48); quando la corrente raggiunge il massimo della semionda e ridiscende, il condensatore mantiene la carica di picco raggiunta e si scarica lentamente (dipende dal prodotto RC) fino a che non sopraggiunge un successivo fronte d’onda di salita per cui si ricarica fino al valore di picco per poi ripetere scarica lenta e ricarica per le successive onde di corrente. Mano a mano che il condensatore si carica, le sue scariche sono via via a valori più alti finchè, nel tempo, il suo potenziale di carica è quasi una retta, diciamo che è una “spezzata”, e somiglia (con buona approssimazione) ad una tensione continua. Fig 48 Per migliorare la forma d’onda, si modifica il circuito di fig. 47 introducendo un altro diodo che si alterna, nella conduzione, con l’altro in modo che non si hanno impulsi di corrente intervallati da semiperiodi vuoti ma una serie ininterrotta di impulsi contigui come mostrato in figura 49. Se ne deduce che la carica (e conseguente scarica) del condensatore avviene in tempi più ravvicinati e la forma d’onda, a regime, del potenziale Vc ai capi del condensatore è sempre meno una spezzata e sempre più assimilabile ad una tensione continua. Il circuito di fig. 47, che per la precisione deve comprendere un trasformatore che abbassa la tensione da 220 volt a valori più bassi 67 (dell’ordine di 3-12 volt), prende il nome di “Raddrizzatore ad una semionda”, dove raddrizzatore significa passaggio da alternata a continua ed una semionda è quella che carica il condensatore. Il circuito con due diodi, relativo alla forma d’onda di figura 49, si chiama “Raddrizzatore a due semionde”. Per migliorare ulteriormente la forma d’onda della tensione disponibile ai capi del condensatore si utilizza un circuito più complesso che impiega quattro diodi opportunamente collegati in modo che la corrente di carica del condensatore contiene impulsi sfasati di un quarto di periodo come in figura 50. Essendo i picchi più riavvicinati, la tensione ai capi del condensatore è ancora più vicina ad una tensione continua. Questo tipo di raddrizzatore, che oggi è il più usato, si definisce “a quattro semionde” oppure “raddrizzatore a ponte”. I comuni caricabatteria che usiamo quotidianamente per caricare le batterie dei telefonini sono di questo tipo : un semplice trasformatorino per abbassare la tensione da 220 volt a quello desiderato ed un raddrizzatore a ponte. 68 4.2 Il diodo “rivelatore” (demodulatore) Per descrivere questa particolare applicazione dobbiamo partire da lontano e cioè soffermarci su come viaggia una generica informazione via radio, che è una tecnica, con le dovute innovazioni, sostanzialmente simile a quella sperimentata dal grande Fisico Guglielmo Marconi. Una generica informazione è costituita da un segnale audio (suoni) oppure da un segnale video (immagini). Entrambi sono onde a bassa frequenza. Per poterli trasmettere, occorre associarli ad un’onda elettromagnetica ad alta frequenza che è capace di propagarsi nello spazio né più né meno come ci arriva la luce dal Sole e come ci arrivano i segnali cosmici dall’Universo. Le onde elettromagnetiche differiscono per la frequenza ed in base a quest’ultima differiscono le modalità di propagazione. Le onde relative alle trasmissioni radio in FM (Frequenz Modulation) hanno una frequenza intorno ai 100 MegaHertz ( 1 Mega = 1 milione). Quelle relative alle trasmissioni televisive via satellite hanno una frequenza intorno a 10 GigaHertz ( 1 Giga = 1000 Mega). Le onde relative alle obsolete trasmissioni radio in AM (Amplitude Modulation) hanno una frequenza intorno ad 1 MegaHertz. Ma il principio su cui si basano le trasmissioni è lo stesso, per cui prendiamo come riferimento le più semplici per convenienza didattica. Supponiamo di voler trasmettere un semplice segnale come una nota musicale, per esempio un LA (per intenderci è la nota su cui ci si accorda ed è emessa da un diapason) : è un’onda acustica con frequenza pari a 440 Hertz. Trasformiamola in un segnale elettrico analogo, cioè avente la stessa forma, mediante un microfono. La forma d’onda è una sinusoide pura come mostrato in figura 51a. In figura 51b è invece mostrata un’onda ad alta frequenza dell’ordine di 1 MegaHertz; nella figura non è rispettata al 100% la scala delle frequenze per esigenze di spazio, però è chiara la differenza tra il segnale acustico ed il segnale ad alta frequenza. Quest’ultimo ha la proprietà di potersi propagare nello spazio, pertanto il problema si risolve cercando di associare ad esso l’informazione che si desidera trasmettere. Il meccanismo per cui si procede a questa associazione, quella cioè per cui un’onda “porta” con sé una informazione, prende il nome di “modulazione” e si può operare in diversi modi, nei quali il segnale che rappresenta l’informazione “modula” cioè modifica un parametro dell’onda “portante” ed in qualche modo ne resta legato. A seconda del particolare procedimento mediante il quale avviene l’associazione informazione-onda portante, vi sono diverse tipologie di tecniche di modulazione. Nell’esempio di figura 51 il parametro modificato è l’ampiezza pertanto il processo viene chiamato “modulazione di ampiezza” (Amplitude Modulation da cui AM). 69 Riprendiamo: in a) è mostrato il segnale “modulante” che rappresenta l’informazione da trasmettere, nell’esempio una nota acustica a 440 Hertz, segnale audio di bassa frequenza. In b) è rappresentata l’onda portante ad alta frequenza (1 MHz). In c) è mostrato l’effetto della modulazione : l’ampiezza dell’onda modulata è modificata in modo che “riporta” fedelmente l’informazione del segnale di bassa frequenza. L’inviluppo dei valori di picco del segnale modulato riproduce il segnale modulante, in definitiva il segnale risultante “contiene “ l’informazione nella variazione di un suo parametro, in questo caso l’ampiezza. Così l’informazione è associata all’onda portante. 70 Il segnale di figura 51c è un’onda ad alta frequenza modulata in ampiezza da un segnale di bassa frequenza (nota musicale fig.51°) che rappresenta l’informazione. Questo segnale viene trasmesso come onda elettromagnetica e si propaga nello spazio. Quando viene captato dalle antenne delle radio riceventi, occorre estrarre da esso la parte che costituisce l’informazione cioè la parte di bassa frequenza e questo procedimento è chiamato “demodulazione” perché è l’operazione opposta alla modulazione : quest’ultima aveva associato onda portante e onda modulante (figg.51a,b,c) mentre la demodulazione separa queste due componenti per estrarre la parte che interessa (bassa frequenza). Proprio questa operazione di tirar fuori l’informazione, la demodulazione viene anche chiamata “rivelazione” perché permette di rivelare la bassa frequenza “insita “, nascosta nel segnale ad alta frequenza. Il circuito che consente le operazioni descritte è quello di figura 52, dove appunto il diodo ha la funzione di “rivelatore”. La configurazione è abbastanza simile a quella del diodo raddrizzatore; sono diversi, peraltro, i valori di corrente e di tensione in gioco: nel raddrizzatore si parla di correnti e tensioni più alte (220 volt, diversi ampère), nel rivelatore il segnale è relativo a stadi di circuito subito dopo l’antenna ricevente ed i valori di corrente e di tensione sono decisamente minori. Nel circuito di figura 52 il diodo, la resistenza ed il condensatore C1 hanno la stessa funzione che nel circuito raddrizzatore, quella di eliminare la componente negativa del segnale e di fornire una tensione di carica del condensatore al massimo dei valori di picco, questo è evidenziato nei diagrammi di figura 53. Ricordiamo che ciò è possibile grazie alla proprietà del diodo di essere “unidirezionale” nel senso di consentire il passaggio di corrente solo con una determinata polarità. Il segnale disponibile ai capi di C1 è quello di figura 54a : esso può considerarsi la somma algebrica di una componente costante pari a V0 e di una componente variabile alternata. Se sottraiamo dal segnale la componente V0, si avrà il segnale di figura 54b che è un’onda sinusoidale pura, che riproduce l’inviluppo dei picchi del segnale di figura 53 ed è pertanto “rivelata” l’informazione nascosta nell’onda modulata in ampiezza captata dall’antenna. Questa “sottrazione” viene realizzata dal condensatore C2, in quanto, com’è noto dalla Fisica, un 71 condensatore lascia passare una corrente variabile mentre blocca una corrente costante. Riepiloghiamo riferendoci al circuito di figura 52 ed ai diagrammi delle figure 51c , 53 e 54 : All’ingresso del circuito è presente un segnale Vi che rappresenta un segnale ad alta frequenza modulato in ampiezza così come può essere captato da un’antenna di una radio ricevente ed è schematizzato in figura 51c di pagina ** . Il diodo elimina tutta la componente negativa ed il segnale diventa quello di figura 53. La resistenza ed il condensatore C1 realizzano un circuito di carica-scarica fornendo il potenziale di figura 54b. Il condensatore C2 blocca la componente V0 ed il segnale di uscita Vu è quello di figura 54b. 72 4.3 Il diodo come cella fotovoltaica (batteria solare) Oggi è abbastanza frequente vedere pannelli solari sui tetti delle case (fig. 55). Ci sono anche pannelli solari cosiddetti “termici”, quelli cioè che trasformano l’energia del sole in acqua calda. Noi ci occuperemo di quelli che producono energia elettrica, tecnicamente “pannelli fotovoltaici” perché, incredibile ma vero, questi sono costituiti da centinaia e migliaia di “diodi al Silicio” collegati opportunamente tra loro. Fig. 55 I Pannelli fotovoltaici al Silicio convertono semplicemente e direttamente l’energia del Sole in energia elettrica disponibile. Negli ultimi 10 anni hanno avuto uno sviluppo notevole, grazie anche a incentivi statali (ma che provengono da maggiorazioni sulle bollette elettriche) che danno un contributo dipendente dalla potenza dell’impianto istallato e dalla potenza prodotta ed inoltre consentono di “vendere” all’Enel, l’energia prodotta e non utilizzata. Naturalmente l’utilizzazione dei pannelli fotovoltaici ha subito un incremento elevato poiché il progresso delle tecnologie costruttive e del trattamento del 73 Silicio ha avuto un grande sviluppo in tutto il mondo migliorando la qualità e riducendo i costi. Inoltre è indubbio che trattasi di energia pulita e disponibile. 74 I pannelli fotovoltaici al Silicio hanno cominciato ad essere usati in modo sistematico alla fine degli anni cinquanta in corrispondenza dell’inizio dell’era spaziale, poiché sono un’ottima fonte di energia elettrica per tutti i satelliti artificiali che ruotano attorno alla terra, sono oltre l’atmosfera terrestre e quindi colpiti dal Sole direttamente. Tutti i satelliti artificiali sono dotati come di grandi ali su cui sono disposti i pannelli fotovoltaici e queste ali vengono ruotate per essere colpite sempre in modo perpendicolare dai raggi solari. Successivamente i pannelli fotovoltaici cominciarono ad estendersi come sorgenti di alimentazione per piccole utenze in zone isolate dove non arrivava la rete di distribuzione di energia elettrica (isole, zone montagnose, etc.). Fig. 56. Uno dei primi pannelli fotovoltaici, 1957 In figura 56 è riportato un pannello fotovoltaico impiegato dalla Bell Telephone nel 1957 per alimentare un ripetitore telefonico. Era costituito da 432 fette di Silicio (ognuna costituisce un diodo). Ogni fetta circolare ha il diametro di 5 centimetri e lo spessore di mezzo millimetro. Le fette sono collegate in modo serie-parallelo così da fornire una tensione di 22,5 volt ed una corrente di 0,5 Ampère. Il progresso e la riduzione dei costi hanno portato negli ultimi venti anni una diffusione rapida dei pannelli fotovoltaici fino all’impiego sui tetti delle case per sostenere il consumo domestico di energia elettrica, anche le imprese commerciali ed industriali hanno iniziato a dotarsi di questo tipo di produzione di energia alternativa e pulita (non inquinante). Il passo successivo è stato quello di costruire Centrali elettriche fotovoltaiche per la produzione e distribuzione di energia elettrica. Oggi in Italia vi sono 75 diverse Centrali, la più grande è a Montalto di Castro (Lazio) proprio nel sito dove doveva sorgere una centrale nucleare, la sua potenza è di 84 Mega Watt ed è la seconda al mondo. Complessivamente, nel 2011, l’Italia ha raggiunto la Germania con 12 GigaWatt prodotti con il fotovoltaico ( 1 Giga = 1000 Mega). Nel 2012 siamo a 15 GigaWatt. Le altre più importanti sono a Manfredonia in Puglia (9 Mega Watt), a Serre in Campania ( 4 Mega Watt, quando fu costruita nel 2002 era la centrale con maggiore energia prodotta al mondo) e ad Adrano (Sicilia, 7 Mega Watt, fig. 57)) dove sorgeva dal 1981 al 1996 la centrale a specchi chiamata “Eurelios”. Fig. 57 La nuova centrale fotovoltaica di Adrano La centrale solare ad Adrano fu finanziata dall’Europa a scopo sperimentale ed era basata sul principio degli specchi ustori di Archimede che 2000 anni fa aveva intuito la grande energia del Sole. Un grande campo di specchi su una superficie di 10.000 metri quadri concentrava l’energia del Sole su una grande caldaia in cima ad una torre. Il calore accumulato, sotto forma di vapore, azionava le turbine per produrre energia elettrica. La centrale di Adrano fu smantellata non perché non fosse efficiente ma perché il finanziamento europeo era a tempo determinato, in ogni caso gli impianti fotovoltaici cominciavano a prendere sviluppo e comunque la sperimentazione dell’impianto solare ha costituito esperienza nelle conoscenze riguardanti l’andamento e le caratteristiche dell’insolazione giornaliera e stagionale, nonchè le tecniche di inseguimento del Sole. 76 Infatti il campo di specchi che rifletteva i raggi solari in un unico punto (la caldaia ) era costituito da singoli moduli che inseguivano il Sole mediante un apposito software predisposto in base alla latitudine, alla stagione (altezza del Sole) ed allo scorrere del giorno dall’alba al tramonto. Nella figura di pag.59 sono riportati i valori di radiazione solare in Italia. Si noti come nel Sud, in particolare in Sicilia, i valori sono nettamente superiori. Ciò dovrebbe indurre i governanti a promuovere informazione ed incentivi per la istallazione di impianti fotovoltaici. Fig. 57 Un modulo fotovoltaico che insegue il Sole, Gerbini (CT) Oggi la ricerca ha sviluppato moduli fotovoltaici (fig. 57) costituiti da 30 pannelli collegati in serie-parallelo. Ogni pannello produce 250 Watt, è costituito da 66 fette di Silicio, ogni fetta rappresenta un diodo e fornisce 0,5 volt e 0,5 Ampère. Il modulo, che produce 7,5 KiloWatt, è supportato da un traliccio che può ruotare attorno ad un asse verticale e attorno ad un asse orizzontale. Mediante sensori fotoelettrici, il modulo “insegue” il Sole utilizzando due motori passo-passo e si mantiene sempre perpendicolare ai raggi solari. Bisogna 77 considerare che in tal modo il modulo segue il Sole dall’alba al tramonto ed inoltre l’altezza del Sole dipende dalla latitudine del luogo dove sono installati i pannelli fotovoltaici e dalla stagione, essendo massima il 21 Giugno (solstizio d’estate), minima il 21 Dicembre (solstizio d’inverno), intermedia il 21 Marzo (equinozio di primavera)ed il 21 Settembre (equinozio d’autunno). Fig. 58 Pannelli fotovoltaici In figura 58 sono mostrati da vicino pannelli fotovoltaici che raggruppano 72 fette di Silicio (originariamente circolari e poi smussate per ottimizzare lo spazio occupato). Le strisce verticali costituiscono i contatti metallici argentati della parte superiore delle fette, l’altro contatto è sul retro. I pannelli sono rivestiti di vetro protettivo (possono resistere alla grandine) e di materiale antiriflettente per favorire il massimo assorbimento dei raggi solari. Purtroppo, per diverse cause che vedremo, soltanto un quinto dei raggi incidenti viene convertito in energia elettrica; si definisce “efficienza di conversione” il rapporto tra energia solare incidente ed energia elettrica prodotta. Oggi i migliori pannelli fotovoltaici hanno un’efficienza del 18%, ma si consideri che 10 anni fa questa era la metà, ci sono premesse per sperare che vada sempre aumentando con nuove tecnologie. 78 Fig. 58 a: Impianto fotovoltaico su tettoia 79 Fig. 58b: Impianto fotovoltaico su tetto a falda triangolare. 80 Fig. 58c: Impianto fotovoltaico su tetto piano. 81 Fig. 58d: Pannelli fotovoltaici su serre agricole. 82 Fig. 58e : Pannelli fotovoltaici su tetto 83 Fig.58f : Pannelli fotovoltaici e pannelli fototermici. Fig. 58g: Pannelli fotovoltaici su 3 falde. 84 Fig. Pannelli fotovoltaici su pensiline parcheggio. 85 Abbiamo detto che ogni cella di un pannello fotovoltaico è una fetta di Silicio che funziona da diodo ed è pertanto una giunzione PN. Come si vede nella figura 59, una sezione trasversale della fetta, la parte superiore di tipo N viene colpita dai raggi solari che penetrando all’interno provocano la rottura dei legami chimici covalenti generando coppie elettrone-lacuna Come vedremo in seguito, queste cariche elettriche porteranno alla produzione di energia elettrica disponibile secondo un meccanismo che va sotto il nome di “effetto fotovoltaico”. Fig. 59: Sezione di una fetta di Silicio come “cella fotovoltaica” L’effetto fotovoltaico, come si evince dall’etimologia “photos” = luce e volt = potenziale elettrico, consiste appunto nella conversione di energia luminosa in energia elettrica. Questo processo fa parte di un fenomeno più generale che è l’effetto fotoelettrico che si manifesta in tre modi diversi: 1) Effetto fotoconduttivo 2) Effetto fotovoltaico 3) Emissione fotoelettronica Questi tre processi sono accomunati dal fatto che la luce provoca corrente elettrica in modalità differenziate. Esiste il fenomeno opposto in cui la corrente elettrica produce luce, anche qui in modo differenziato, secondo tante possibilità, le più diffuse sono : 1) LED (Light emitting diode) 2) LCD (Liquid cristall display) 3) LASER (Light amplification stimulated emission radiation) 86 1.Emissione fotoelettronica L’emissione fotoelettronica è un fenomeno per cui le onde luminose colpendo particolari sostanze provocano l’emissione di elettroni. Se ciò avviene in un bulbo sottovuoto spinto (per evitare collisioni degli elettroni con atomi e molecole presenti nell’aria), è possibile raccogliere gli elettroni (negativi) mediante un potenziale positivo e costituire pertanto una corrente elettrica la cui intensità dipende dalla luce e dal materiale fotosensibile. Questo è il principio di funzionamento delle cellule fotoelettriche. Fig. 60 In figura 60a è riportato uno schema semplificato del funzionamento di una cellula fotoelettrica che comprende un catodo che è un elettrodo metallico ricoperto di materiale fotosensibile, un anodo che è una placca metallica a cui è applicato un potenziale positivo (variabile) mediante una batteria ed un partitore resistivo. La luce colpisce il catodo che emette elettroni, questi vengono raccolti dall’anodo e la conseguente corrente è misurata dall’amperometro A. Il voltmetro misura il potenziale elettrico Vak, applicato tra anodo e catodo, e variabile mediante il “potenziometro”. Con il circuito di figura 60a è possibile ricavare sperimentalmente l’andamento della corrente in funzione del potenziale (fig.60c). per diversi valori di “frequenze luminose” f 1, 87 f2, f3. Ricordiamo che secondo la Fisica quantistica la luce è un’onda elettromagnetica e copre un range di frequenze delimitate dagli “Infrarossi” e dagli “Ultravioletti” e può considerarsi costituita da “fotoni” con energia pari a “ hf “ dove h è la costante di Plank, che caratterizza tutta la quantistica. E’ stato il Fisico tedesco Heinrich Hertz a scoprire l’effetto fotoelettronico nel 1887 ma egli stesso non comprese il meccanismo esatto della emissione. Hertz è rimasto famoso per i suoi studi sulle onde elettromagnetiche e fu il primo ad intuire che quest’ultime si propagavano con la velocità della luce. Ma ci volle poi il genio italico di Marconi per inventare la Radio. Successivamente ad Hertz, diversi scienziati fra cui Augusto Righi, docente di Fisica all’Università di Bologna, del quale Marconi fu allievo, fecero diverse indagini sperimentali dalle quali emerse che si trattava di corpuscoli carichi negativamente emessi da particolari metalli colpiti da una radiazione elettromagnetica qual è la luce. Nel 1896 il Fisico inglese J.J. Thomson scoprì che i corpuscoli negativi erano elettroni appartenenti ad atomi metallici ed alcalini. Nel 1902 il Fisico tedesco Philip Lenard scoprì che le energie degli elettroni emessi erano indipendenti dall’intensità della radiazione incidente ma dipendevano invece dalla frequenza dell’onda elettromagnetica, senza peraltro capirne la causa. A questo punto entra in scena Albert Einstein. Egli studia a fondo l’effetto fotoelettrico e pubblica un lavoro negli “Annalen der Phisik “ nel 1905, che gli valse il premio Nobel per la Fisica. Einstein affermò che l’Energia degli elettroni emessi da un catodo fotosensibile dipende in modo direttamente proporzionale dalla frequenza dell’onda luminosa incidente e non dall’intensità della stessa. Questo è schematizzato nel diagramma di figura 60b in cui in ordinate c’è l’energia degli elettroni emessi dal catodo; f s è la soglia minima di frequenza della luce capace di produrre emissione di elettroni. Einstein dimostrò pertanto che il numero di elettroni emessi è proporzionale all’intensità della radiazione incidente, mentre l’energia degli stessi è proporzionale alla frequenza della radiazione; c’è però una frequenza di soglia aldisotto della quale non c’è emissione e questo è una caratteristica dei singoli materiali perché è proprio la particolare struttura atomica ed il legame che hanno gli elettroni verso il nucleo che può consentire la fuoriuscita di elettroni da un atomo. I materiali fotosensibili sono i metalli e gli alcalini (rivedere la tavola periodica degli elementi: Argento, Oro, Rame, Litio, Sodio, Potassio, Rubidio, Cesio, Francio) perché entrambi ( metalli ed alcalini) hanno un elettrone esterno (ultima orbita) poco legato al nucleo. Il Francio è rarissimo ed è pericolosamente radioattivo, per cui viene usato per le cellule fotoelettriche il Cesio in combinazione all’Argento. Nella figura 60c le curve di dipendenza dell’intensità di corrente dal potenziale elettrico tra anodo e catodo partono da un valore di soglia negativo Vs e ciò significa che anche per valori negativi 88 (piccoli) gli elettroni emessi dal catodo per effetto della luce hanno una sufficiente energia cinetica per raggiungere l’anodo. E’ opportuno adesso aprire una parentesi per comprendere meglio il concetto di onda, di frequenza, di luce e tutto ciò che è connesso con queste voci. Abbiamo incontrato per la prima volta l’onda a pagina 51 quando si è parlato della corrente elettrica “alternata” per uso domestico. Per “onda “ si intende una grandezza fisica che varia nel tempo assumendo sia valori positivi che negativi. Una grandezza che non varia nel tempo si chiama “continua” o “costante” (Figura 61a). Una grandezza non costante si dice “variabile “ (fig. 61b) : se passa alternativamente da valori positivi a valori negativi (passando dallo zero) si dice “alternata” (fig. 61c) . Se i valori si alternano assumendo stesse posizioni “periodicamente” la grandezza diventa “periodica” (fig. 61d) . Non è detto che una grandezza periodica debba essere anche alternata : pensiamo ad una serie di impulsi solo positivi (oppure solo negativi) ma perfettamente periodici (fig. 61e). La forma d’onda più pura sia graficamente che matematicamente è sicuramente la sinusoide (figura 51a di pagina 55, figura 62a) abbastanza conosciuta per chi ha studiato trigonometria. Per chi non ricordasse, diciamo che la sinusoide si può generare facendo oscillare un pendolo con una punta tracciante su un foglio che si muove di moto uniforme: la combinazione dell’oscillazione e del movimento rettilineo è appunto una sinusoide. 89 90 Una maniera più precisa per generare una sinusoide è quella di considerare il raggio di un cerchio: riferendoci alla figura 62b, facciamo ruotare il raggio in senso antiorario e consideriamo la sua proiezione su un asse verticale: riportiamo, in un diagramma, sull’asse verticale suddetta proiezione e sull’asse orizzontale l’angolo alfa descritto dal raggio ruotante (oppure il tempo t ). Il raggio, anzi la sua proiezione, raggiunge il suo valore massimo quando, ruotando nel primo quadrante, compie un quarto di giro e l’angolo alfa è pari a 90°, poi diminuisce fino a zero in corrispondenza dell’angolo pari a 180° (mezzo giro. Continuando a ruotare, terzo quadrante da 180 a 270 gradi, la proiezione del raggio su un asse verticale assume valori negativi e raggiunge il massimo negativo a tre quarti di giro (270°). L’ultima rotazione investe il quarto quadrante da 270 a 360 gradi e la proiezione del raggio ritorna a zero. Riportando in un diagramma (fig. 62b) il valore punto a punto della proiezione 91 del raggio, in ordinate, e mettendo in ascisse i corrispondenti valori dell’angolo alfa oppure del tempo relativo alla velocità di rotazione, viene fuori la nota figura della sinusoide che è una forma perfettamente simmetrica. All’angolo di 360 gradi corrisponde un arco di 2π , così all’angolo di 180° corrisponde un arco pari a π e così via. Questa unità di misura particolare per valutare gli angoli si chiama “radiante” . Come si vede chiaramente in figura 62b, quando il raggio compie un giro e prosegue a ruotare, la sua proiezione riprende esattamente i valori assunti al primo giro e ciò significa che la sinusoide si ripete periodicamente. Il periodo è definito come il tempo impiegato a compiere un giro, un ciclo, un’onda completa e viene indicato con il termine “ T “ . Si definisce “frequenza “ il numero di cicli, ovvero il numero di onde , ovvero il numero di periodi in un secondo, quindi deriva che f = 1/T cioè quanti periodi ci stanno in un secondo. La frequenza si misura in cicli/secondo, standard internazionale “ Hertz “. Vi sono poi i multipli : kilohertz = 1000 Hz, Megahertz = 1 Milione di Hz, Gigahertz = 1000 MegaHertz. Dalle figure 62 possiamo notare che una grandezza sinusoidale è caratterizzata dalla sua ampiezza, riportata nell’asse verticale delle ordinate, e dalla sua “frequenza” che è deducibile misurando il periodo direttamente nell’asse orizzontale delle ascisse in cui è marcato il tempo. Poiché l’onda sinusoidale è tracciata a partire da un raggio ruotante, in ascisse può essere riportato l’angolo alfa in gradi oppure in radianti. Quando trattiamo un’onda che si propaga nello spazio, come la luce oppure le onde elettromagnetiche in generale, allora la variabile in ascisse è appunto lo spazio ed in corrispondenza al “periodo T, cioè la porzione di un ciclo intero, si fa corrispondere la “lunghezza d’onda “ che si indica con la lettera elle minuscola dell’alfabeto greco cioè λ (lambda, figura 63). Ciò vale soprattutto a frequenze altissime dove la lunghezza d’onda è più significativa (come nel caso della luce). Fig. 63: Sinusoide e lunghezza d’onda 92 Proviamo ora a trovare la relazione tra frequenza e lunghezza d’onda, ricordando che la frequenza, che si misura in “Hertz”, è pari al numero di cicli (onde) al secondo, quindi è legata al tempo, infatti il suo inverso è il periodo T, che si misura in secondi (spesso in sottomultipli) e rappresenta il tempo relativo ad un’onda intera. La lunghezza d’onda è uno spazio quindi si misura in metri (nei vari sottomultipli). La grandezza fisica che unisce spazio e tempo è la velocità secondo la famosissima relazione (4.1.1) v = s/t e siccome la luce, i raggi cosmici, i raggi X, tutti i segnali radio/televisivi, sono onde elettromagnetiche che differiscono per la frequenza, ma si propagano nello spazio con la velocità della luce che si indica con “c” ed è una costante universale il cui valore è pari a 300.000 chilometri al secondo cioè 300 milioni di metri al secondo, in notazione scientifica : 300 x 10 6 metri/secondo, allora nella formula (1) al posto della velocità generica v metteremo la velocità della luce c , al posto dello spazio metteremo la lunghezza d’onda λ e al posto del tempo il periodo T , pertanto : c = λ/T = λ f λ = c/f e f = c/λ (4.1.2) da cui : (4.1.3) Per avere un’idea dell’ordine di grandezza delle frequenze e lunghezze d’onda in gioco citiamo alcuni esempi, da cui apparirà chiaro quando conviene, per opportunità, parlare di MegaHertz e quando invece è più comodo parlare di lunghezza d’onda, restando pacifico che le due grandezze sono legate dalle relazioni (3). Una delle cose più comuni e frequenti che ci capita giornalmente di fare è ascoltare le stazioni radio FM nella gamma 88 MHz – 108 MHz ; è comodo riferirsi alle frequenze anche con i decimali, ed infatti ci siamo abituati. Se vogliamo calcolare la lunghezza d’onda, riprendiamo la prima delle formule (3) e consideriamo una frequenza media di 100 MHz : 300 x 106 m/sec λ = ------------------------ = 3 m (4) 100 x 106 Hertz Questo valore di lunghezza d’onda è utile ai tecnici in Telecomunicazioni in quanto un’antenna per ricevere bene un Segnale radio o video deve avere dimensioni multiple o sottomultiple della lunghezza d’onda relativa, che potrà essere un’onda intera, mezza lunghezza d’onda oppure anche un quarto di lunghezza d’onda, il che significa 3 metri, 1,50 mt oppure 75cm. Come secondo esempio consideriamo un segnale televisivo VHF relativo a RAI UNO che ha una frequenza di 300 MHz. Utilizzando la (4) e semplificando il fattore comune 106 si ottiene λ = 1 metro Salendo di frequenza, i canali UHF, TV locali e private, sono intorno ai 900 MHz ed applicando sempre la formula (4) si ottiene: λ = 33 cm 93 Da queste formule si intuiscono le dimensioni delle antenne televisive. Le cose cambiano di molto se consideriamo i segnali della TV via satellite che sono intorno ai 10 GigaHertz ( 1 Giga = 1000 Mega). Per queste frequenze sarà: λ = 3 cm La luce è un’onda elettromagnetica la cui frequenza è molto ma molto più alta delle frequenze satellitari che sono le massime gestite dalle attuali tecnologie. E’ talmente alta che si preferisce riferirsi alla lunghezza d’onda. Consideriamo che la luce è formata da una gamma di colori che va dal violetto al rosso passando dal giallo, verde e blu. Ogni colore ha una sua frequenza, i valori di lunghezza d’onda vanno da 0,4 micrometri per il violetto ai 0,76 μm per il rosso. Ricordiamo che 1 micron (1 μm) è pari ad un milionesimo di metro, quindi un millesimo di millimetro, in notazione scientifica : 1 μm = 1/1.000.000 = 1/ 106 = 10-6 metri = 10-3 mm Si usano anche ulteriori sottomultipli come il “nanometro” (nm) pari ad un millesimo di micron quindi ad un milionesimo di millimetro : 1 nm = 10-9 metri = 10-6 mm = 10-3 micron E c’è ancora un altro sottomultiplo , l’ “Angstrom” (Ẳ) pari ad un decimo di nanometro quindi 10-10 metri . Allora la lunghezza d’onda del Violetto risulta 0,4 micron oppure 400 nanometri oppure 4000 Angstrom, mentre quella del rosso sarà 0,76 μ , 760 nanometri oppure 7600 Angstrom. Poiché la frequenza è l’inverso della lunghezza d’onda, se ne deduce che la frequenza del Rosso è inferiore a quella del Violetto. Esiste peraltro una gamma di frequenze “ inferiori” alla soglia del Rosso (quindi di lunghezza d’onda maggiori di 7600 Angstrom) che l’occhio umano non percepisce e che prende il nome di “Infrarossi” (infrared, IR) così come c’è una gamma di frequenze oltre il Violetto chiamate “Ultravioletti” (ultraviolet, UV, lunghezze d’onda inferiori a 4000 Angstrom), sempre non percepibili dall’occhio umano. Ancora oltre i raggi ultravioletti, cioè a frequenze maggiori, e quindi lunghezze d’onda minori, vi sono i Raggi X, seguiti dalle radiazioni nucleari (raggi gamma) e dai raggi cosmici. Per avere un’idea del valore delle frequenze relative alla luce possiamo utilizzare la seconda delle formule (3) f= c/ λ 300 x 106 300 x 1013 = -------------- = --------------- = 750x 106 x 106 = 750 milioni di MHz 0,4 x 10-6 4 (*) Si comprende adesso il motivo per cui, per la luce, si considerano le lunghezze d’onda invece delle frequenza. 94 Fig.64a : Lunghezze d’onda e frequenze dalla radio ai raggi gamma Fig. 64b : Spettro di lunghezze d’onda luce visibile e infrarossi 95 2. Effetto fotoconduttivo Con questa denominazione si intende il meccanismo, solitamente nei semiconduttori, per cui un materiale colpito dalla luce varia la sua conducibilità nel senso che aumenta la corrente che lo attraversa. Il primo esempio di tale fenomeno fu osservato nel 1873 (!) dal fisico W.Smith che lo sperimentò utilizzando una barretta di Selenio (figura 64a) inserita in un circuito serie comprendente una batteria, la barretta ed un amperometro. a) b) Fig. 65 Per evidenziare l’effetto della luce, si riporta in un diagramma (fig. 64b) l’andamento dell’intensità di corrente elettrica I (misurata dall’amperometro) in funzione del tempo. Quando non c’è luce la corrente si mantiene molto bassa, appena il Selenio viene illuminato la corrente elettrica sale bruscamente per poi ritornare al valore iniziale riscontrato in assenza di luce. Quanto descritto si verifica in tutti gli elementi classificati come semiconduttori e la spiegazione di questa dipendenza della conducibilità dalla radiazione luminosa si può ritrovare ricordando la struttura cristallina dei semiconduttori ed il meccanismo relativo alla conduzione elettrica descritta per il Silicio nel capitolo secondo. Abbiamo visto (capitolo secondo, paragrafo primo) che il Silicio, il più usato dei semiconduttori, non tanto perché il migliore ma in quanto il più abbondante in natura, presente nella sabbia e nella lava, ha una struttura chimica formata da legami covalenti che rompendosi liberano elettroni negativi e lacune positive (vedi pagina 26 figura 15) che gli conferiscono una certa conducibilità elettrica anche se non paragonabile a quella dei conduttori metallici. Nel secondo paragrafo del capitolo secondo, abbiamo visto che la conducibilità dei semiconduttori può essere aumentata mediante il “doping” che è un processo controllabile. Del resto la conducibilità aumenta anche per effetto della temperatura, perché l’energia termica rompe i legami covalenti, ma la temperatura non è un evento controllabile anzi di solito provoca danni. 96 Ebbene, la luce si comporta né più né meno come la temperatura cioè, essendo energia, rompe i legami covalenti creando coppie elettrone-lacuna e pertanto aumenta la conducibilità; così si spiega l’effetto fotoconduttivo mostrato in figura 64. Però esiste una soglia minima di energia luminosa necessaria e sufficiente a rompere i legami chimici (ciò è differente da materiale a materiale) e poiché c’è una relazione tra energia e frequenza di una generica radiazione che è l’espressione cardine della Fisica quantistica E = hf (4.2.1) ad una energia minima corrisponde una soglia di frequenza minima. Dalle relazioni (4.1.1) e (4.1.2) di pagina 78 si deduce la relazione tra frequenza e lunghezza d’onda, quindi ad una soglia di frequenza corrisponde una soglia di lunghezza d’onda ma in senso inverso cioè l’effetto fotoconduttivo si verifica al di sotto di una lunghezza d’onda che per il Silicio è 1,13 micron mentre per il Germanio la soglia è 1,73 micron. Ricordiamo che lo spettro luminoso cui è sensibile l’occhio umano va da 0,4 micron a 0,76 micron. Per quanto detto, gli elementi fotoconduttivi dal punto di vista elettrico presentano una resistenza ohmica variabile al variare dell’intensità luminosa che li colpisce e con essi è possibile realizzare dispositivi elettronici chiamati “fotoresistori”. Attualmente si preferisce utilizzare come elemento fotosensibile un composto del tipo “Solfuro di Cadmio” (CdS) che si comporta come semiconduttore ed ha una sensibilità spettrale alla luce migliore del Germanio e del Silicio. Quando sono illuminati, i fotoresistori al CdS presentano una resistenza elettrica di una decina di ohm, mentre al buio la resistenza sale a valori di Megaohm. Vengono impiegati come interruttori “crepuscolari” per attivare lampade quando al tramonto la luminosità si abbassa. Ricordando che i raggi infrarossi si estendono da 0,76 micron a 3 micron di lunghezza d’onda, utilizzando particolari sostanze sensibili in questo intervallo si realizzano fotoresistori che utilizzando appunto l’effetto fotoconduttivo vengono impiegati come “rivelatori” di raggi infrarossi. Il materiale attualmente più impiegato è l’antimoniuro di indio (InSb). Dalla tavola periodica degli elementi di pagina vediamo che l’antimonio ha una configurazione elettronica con 5 elettroni esterni, mentre l’indio ne ha una con 3 elettroni esterni. Combinandosi insieme in un composto omogeneo, formano una struttura cristallina con legami covalenti come quelli del Silicio, pertanto l’antimoniuro di indio si comporta come un semiconduttore ed è quindi “fotoconduttivo” . 97 Fig. 66 Celle fotoconduttive (fotoresistenze) 98 3. Effetto fotovoltaico Nel 1839 (!) il fisico Henri Becquerel fece un esperimento in cui uno dei due elettrodi (ricoperto da una particolare sostanza fotosensibile), immersi in una soluzione elettrolitica, veniva colpito da luce (figura 67). Tra i due elettrodi era inserito un voltmetro che segnalava generazione di una forza elettromotrice (fem) dell’ordine di 0,5 volt; questo fenomeno fu chiamato “ photo emf” (electro motrice force) , per noi “effetto fotovoltaico”. Fig. 67 La prima osservazione dell’effetto fotovoltaico tra Selenio (semiconduttore) ed un metallo risale al 1877 da parte dei fisici G.Adams e R.Day. La struttura era simile a quella rappresentata in figura 68, ed era realizzata depositando un sottilissimo foglio d’oro su uno strato di Selenio a sua volta posto sopra una piastrina di rame (il contatto metallo-semiconduttore funziona da diodo). Fig. 68: Cella fotovoltaica al Selenio 99 Nel 1883 il Fisico Charles Fritz produsse in laboratorio una cella fotovoltaica a base di Selenio. Aveva una superficie di 30 cm 2 ed un rendimento di conversione del 2%. in cui il Selenio ha come base di contatto elettrico un blocco di Rame mentre la superficie esposta alla luce è rivestita da un sottilissimo strato metallico trasparente che realizza il secondo contatto elettrico; è inserito un voltmetro che misura il potenziale fotovoltaico generato. Nel diagramma di figura 69b è riportato l’andamento del potenziale fotovoltaico rilevato dal voltmetro in assenza di luce ed in presenza di luce. Fig. 69a Fig. 69b Soltanto nel 1931 il fisico tedesco L. Bergmann riprese gli esperimenti sulle celle fotovoltaiche al Selenio che si evolvero sino al prototipo di figura 70. Fig. 70 : Prototipo di cella fotovoltaica al Selenio 100 Nel 1933 i fisici L.Grondhal e G.Geiger scoprirono l’effetto fotovoltaico in un diodo composto da Rame ed ossido di rame, figura 71. Nel 1936 il fisico tedesco B.Lange realizzò un tipo di cella rame-ossido di rame che aveva il contatto superiore realizzato mediante un sottile film di oro-argento. Nel 1939 i fisici C. Nix e W. Treptow mettono a punto una cella fotovoltaica a base di solfuro di Tallio che si comporta da semiconduttore Fig. 71 : Cella fotovoltaica all’ossido di Rame Nel 1954 i laboratori Bell misero a punto la prima cella fotovoltaica formata da una giunzione PN al Silicio, ancora oggi universalmente usata per realizzare pannelli fotovoltaici per generare elettricità da Sole. Nel 1957 fu sperimentata una centralina ………. Nel 1958 il satellite artificiale americano “Vanguard” fu dotato di una batteria fotovoltaica di 5mwatt che rimase in funzione per sei anni; le applicazioni ai satelliti spaziali sono state un grande incentivo per lo sviluppo delle celle fotovoltaiche. Fig: 72: Cella fotovoltaica al Silicio realizzata da Bell Telerphone 101 Per comprendere il meccanismo che genera un potenziale fotovoltaico, riprendiamo la descrizione di una giunzione PN al Silicio così come descritto nel paragrafo 1 del Capitolo 3 a pagina 38 (figura 31). Per comodità, in figura 70 è riportata appunto la giunzione con evidenziati tutti i soggetti elettrici (mobili e fissi) che sono : elettroni (negativi) liberi (cerchietti) in maggioranza nella zona N drogata con fosforo (pentavalente); lacune (positive) libere (cerchietti) in maggioranza nella zona P drogata con Boro (trivalente); Ioni fosforo positivi (quadratini) nella zona N; Ioni Boro negativi (quadratini) nella zona P. Infine vi sono anche cariche libere minoritarie (triangolini) elettroni nella zona P e lacune nella zona N. Abbiamo visto che inizialmente elettroni e lacune (liberi di muoversi) si attraggono reciprocamente e diffondendo attraverso la giunzione si incontrano e formano un legame covalente, in gergo si dice che si sono “ricombinati” , e cessano di esistere singolarmente come particelle libere. fig. 72: Giunzione PN 102 Come abbiamo ampiamente descritto nel capitolo 3, la diffusione di elettroni e lacune nei due sensi con conseguente “ricombinazione” non dura molto perché nella zona attorno alla giunzione scompaiono le cariche libere (ricombinate) e restano in evidenza soltanto le cariche fisse (Ioni positivi nella zona N e Ioni negativi nella zona P). Questa porzione suddetta viene chiamata “Depletion layer” , letteralmente “strato svuotato” riferendosi alle cariche libere elettroni e lacune, ed è larga circa mezzo micron. I due strati di ioni esercitano una importante azione elettrica : Gli elettroni che dalla zona N volessero diffondere nella zona P (attratti dalle lacune) vengono ora respinti dallo strato di Ioni negativi. Le lacune che dalla zona P che volessero diffondere nella zona N (attratte dagli elettroni) vengono ora respinte dallo strato ionico positivo. Pertanto il movimento di cariche libere cessa e la situazione viene congelata come in figura 72 fino a che non intervengono cause esterne. I due strati ionici costituiscono una vera e propria “barriera di potenziale”, nei confronti delle cariche libere elettroni e lacune, il cui valore è 0,6 volt per il Silicio. Abbiamo visto nel capitolo secondo che questa giunzione PN costituisce un Diodo nel senso che conduce corrente a seconda della polarizzazione elettrica applicata, in particolare è possibile una polarizzazione “diretta” che consente il passaggio di corrente ed una polarizzazione “inversa” per la quale il diodo non consente alcun passaggio di corrente. Ricordiamoci che il diodo al Silicio, come del resto altri tipi di diodi, ha un comportamento non lineare nella interdipendenza corrente-potenziale così come riportato nei grafici del capitolo 3, in altre parole non obbedisce alla legge di Ohm, valida per tutti i componenti elettrici, se non in un tratto molto limitato delle sue curve caratteristiche (andare a rivedere i paragrafi descrittivi del comportamento del diodo). Il diodo, inoltre, consente il passaggio di corrente solo in una direzione e questa è la proprietà più significativa che dà origine a tutte le sue applicazioni. E veniamo, appunto, all’effetto fotovoltaico che deriva dalle proprietà di una giunzione PN al Silicio e che dà origine ai pannelli solari fotovoltaici. Abbiamo rivisto come funziona tale giunzione e riprendiamo la figura 72 : ruotiamola di 90 gradi in modo che la zona N sia verso l’alto come mostrato in figura 73 (nella realtà è proprio così, con le dovute proporzioni) e sia colpita dalla luce, in gergo da fotoni che sono pacchetti di energia luminosa come fossero particelle di luce piuttosto che onde luminose. Quando la luce penetra nella giunzione, l’energia ad essa associata è sufficiente a rompere un legame covalente relativo ad atomi di Silicio creando, come abbiamo visto nel paragrafo 2 del capitolo 2, elettroni (negativi) liberi e lacune (positive) libere. Il destino di queste cariche libere dipende in modo decisivo dalla posizione in cui tali cariche libere si trovano. Dobbiamo ricordare alcuni fattori importanti: 103 Fig. 73 Effetti dell’energia luminosa sulla giunzione PN 104 1. L’energia luminosa penetra nel Silicio fino ad una certa profondità che non supera i 10 micron. 2. Ogni volta che si genera una coppia elettrone-lacuna, queste particelle cariche diffondono all’interno del cristallo ma inevitabilmente dopo un certo tempo (e quindi dopo avere percorso un certo spazio) l’elettrone incontra una lacuna ed entrambi scompaiono perché formano un legame; lo stesso avviene per la lacuna che incontra un elettrone. 3. L’elettrone ha una mobilità che è cinque volte maggiore di una lacuna poiché è realmente libero di muoversi mentre la lacuna (rivedere la figura di pagina ) si muove per salti. Questo fatto si quantifica anche inserendo un parametro che si chiama “libero cammino medio “ che appunto rappresenta lo spazio medio che percorre una carica libera prima di incontrare una particella di segno opposto con la quale si “ricombina” scomparendo come singola entità. 4. Ne consegue che il libero cammino medio degli elettroni è cinque volte superiore a quello delle lacune. Per quanto detto, l’energia luminosa crea coppie elettroni-lacune e quando ciò accade all’interno della “depletion layer” o zona di svuotamento gli strati ionici positivi e negativi esercitano una forte attrazione spingendo gli elettroni nella zona N e le lacune nella zona P, entrambe le zone si arricchiscono aumentando la loro carica elettrica complessiva con la conseguenza che ai capi della giunzione nasce una differenza di potenziale che raggiunge il valore di 0,5 volt massimo. Questo è l’effetto fotovoltaico: dalla luce nasce energia. Ma ricordiamoci della descrizione di una giunzione : Nella zona N vi sono elettroni in maggioranza e lacune in minoranza, viceversa nella zona P vi sono lacune in maggioranza ed elettroni in minoranza (rivedere la figura 72 di pagina 103 ); ribadiamo che la situazione si congela poiché per le cariche maggioritarie la barriera di potenziale (dovuta agli strati ionici positivi e negativi) esistente nella depletion layer è appunto un ostacolo a possibili movimenti. Ma per le cariche minoritarie la barriera di potenziale non è un ostacolo e possono attraversare la giunzione con una sufficiente energia. Allora quando la luce genera coppie elettrone- lacuna nella zona N sono le lacune (minoritarie) che attraversano la giunzione e vanno nella zona P aumentando la concentrazione di cariche positive. Lo stesso avviene nella zona P dove gli elettroni, generati da rotture di legame dall’energia luminosa, attraversano la giunzione e vanno nella zona N aumentando la concentrazione di cariche negative. Naturalmente ciò avviene solo per quelle cariche generate ad una distanza dalla depletion layer inferiore al “libero cammino medio” poiché quelle più lontane si ricombinano. In parole povere, in una pila è l’energia chimica che separa le cariche elettriche ai due poli generando differenza di potenziale ai capi; lo stesso avviene in un accumulatore per auto. In una giunzione al Silicio è l’energia luminosa 105 che, creando cariche elettriche per la rottura di legami chimici, separa cariche elettriche agli estremi, generando forza elettromotrice che è proporzionale all’energia luminosa ma raggiunge un massimo di 0,5 volt per questioni di equilibrio elettrostatico interno, mentre la corrente che fornisce una cella fotovoltaica a giunzione di Silicio è direttamente proporzionale alla superficie colpita dalla luce. Fig. 74 : Sezione di una fetta di Silicio che evidenzia la giunzione PN Una giunzione PN al Silicio viene realizzata partendo da una fetta circolare dal diametro di 15cm ( in figura 74 è riportata una sezione della fetta) e di spessore pari a 0,2 mm già drogata tipo P secondo le specifiche richieste di conducibilità. Si opera pertanto una diffusione di Fosforo (drogante pentavalente) a circa 1200 gradi centigradi per una profondità di 0,5 micron (questo valore è un giusto compromesso tra efficienza di assorbimento della luce e resistenza elettrica non molto elevata). La cella fotovoltaica è già funzionalmente pronta! Il resto sono accessori : Si riduce lo spessore della fetta di Silicio per diminuirne la resistenza elettrica e perché la luce non penetra a fondo. Poiché il Silicio ha un coefficiente di riflessione elevato, vi si deposita sopra un sottile strato di ossido di Titanio antiriflettente. Infine si metallizza la superficie inferiore, che è uno dei due contatti elettrici, e quella superiore mediante una griglia che fa passare la luce e costituisce il secondo contatto elettrico. In figura 75 è mostrata una ulteriore sezione di una singola porzione di fetta rappresentante una giunzione PN, mentre in figura 76 è mostrata la foto (quasi in scala) di una fetta di Silicio pronta per essere inserita in un pannello; dai quattro vertici si può dedurre che è la riduzione quadrata di un cerchio ottenuta per ragioni di montaggio in quanto le fette vengono poi montate in serie in pannelli, in numero di 60 come mostrato in figura 77 dove si vedono i pannelli a loro volta collegati modularmente secondo le esigenze 106 Fig. 75. Sezione di una cella fotovoltaica a giunzione di Silicio PN 107 Fig. 76 : Una fetta di Silicio: in evidenza la griglia dei contatti metallici 108 Fig. 76bis : Un pannello fotovoltaico montato a casa mia. 60 fette di Silicio 109 Fig. 77 : Pannelli fotovoltaici, ogni pannello 72 fette di Silicio 110 Fig. 77b : Un inseguitore solare 111 4. LED (Light Emitting Diode) I LED sono diodi ad emissione di luce. Li abbiamo visti in figura 1 di pagina 15 nel primo paragrafo del primo capitolo. Li rivediamo in figura 78 e diciamo anche che ne esistono ancora tante altre tipologie diversissime (figura 78a). Siamo abituati a vederli come indicatori in numerosissimi dispositivi (fig. 78a ) oppure negli indicatori luminosi numerici (display figura 79). Recentemente sono state sviluppate lampade a LED ed è comunissimo usare le piccole e grandi torce che hanno serie di LED (figura 79 ). Fig. 78 Tre tipi di diodi LED Fig. 78 a Diodi LED commerciali 112 I LED sono appunto dei diodi al Silicio o altro tipo di semiconduttore e pertanto per spiegarne il funzionamento riprendiamo la figura 32 di pagina 51 che appunto rappresenta una giunzione PN polarizzata direttamente. Rinfreschiamoci la memoria : Nella zona N (drogata con fosforo pentavalente) vi sono tanti elettroni (negativi) in maggioranza (cerchietti). Vi sono anche lacune (positive ) in minoranza (triangoli); entrambe queste cariche elettriche sono mobili e quindi libere di muoversi. Vi sono peraltro delle cariche fisse positive ( quadratini) che sono “ioni fosforo” che hanno perso un elettrone. Dall’altra parte della giunzione c’è la zona P drogata con Boro trivalente; qui vi sono in maggioranza lacune positive (cerchietti) , in minoranza elettroni negativi (triangolini) ed inoltre “ioni Boro” negativi . Lacune ed elettroni sono cariche libere mentre gli ioni negativi sono fissi. Abbiamo visto che se applichiamo una differenza di potenziale maggiore di 0,6 volt in modo “diretto” come nella figura riportata, elettroni e lacune si spostano dando luogo ad una corrente elettrica la cui intensità dipende dalla forza elettro motrice V (f.e.m.) applicata. Entrando in dettaglio, gli elettroni della zona N vengono attratti dal polo positivo della batteria e, dopo avere scavalcato la barriera di potenziale della depletion layer, poi proseguono per ritornare nella zona N. Le lacune della zona P vengono attratte dal polo negativo 113 Fig. 79 114 della batteria e, dopo avere attraversato la barriera di potenziale della depletion layer, vanno verso la batteria e poi ritornano nella zona P. Come abbiamo descritto nel paragrafo 3.2 del Capitolo 3, gli elettroni che si muovono nella giunzione PN , oltre a subire urti nei confronti degli atomi di Silicio ed essere respinti da ioni Boro negativi, possono anche “incontrare” una lacuna da cui sono attratti (essendo quest’ultima positiva). In fondo che cos’è una lacuna? E’ un legame covalente che si è spezzato per effetto termico, è un vuoto (hole) lasciato da un elettrone che è diventato libero, è un potenziale elettrico positivo. Esiste una buona probabilità che un elettrone mobile possa “ricombinare” quel legame covalente spezzato. Nel momento in cui elettrone e lacuna si ricombinano si riforma il legame e cessano di esistere come entità singole ed indipendenti. In parole povere “si sposano” e si uniscono per sempre formando un nuovo legame duraturo. A questo punto vediamo perché abbiamo fatto tutto questo preambolo: quando l’elettrone libero si ricombina con una lacuna, perde energia e questa viene emessa sotto forma di energia luminosa cioè “luce” . Ecco che da tutti i miliardi di ricombinazioni viene emessa luce! Ed ecco il diodo LED. Naturalmente non è così semplice. Sappiamo che la luce comprende diversi colori dal rosso al violetto. La luce è un’onda elettromagnetica che si propaga alla velocità di 300.00 km al secondo. Poi ci sono i raggi infrarossi e le radiazioni ultraviolette che noi non percepiamo. La luce emessa dal LED dipende dal materiale usato per la giunzione PN. Se è Silicio la luce emessa è blu. 115 I materiali più usati sono l’Arseniuro di Gallio ed il Fosfuro di Gallio, che danno un colore, giallo e rosso e verde. Il composto Arsenico, Fosforo e Gallio dà luce bianca. Soffermiamoci un attimo su questi elementi : Arsenico e Gallio. Rivedendo la tavola periodica degli elementi. Così come il Fosforo, già incontrato come elemento drogante per il Silicio, che è pentavalente per cui ha 5 elettroni nell’ultima orbita (uno in più del Silicio), così l’Arsenico è pentavalente. Allo stesso modo il Gallio è trivalente (3 elettroni periferici) come il Boro. La peculiarietà di Arsenico e Gallio è che oltre ad essere usati come droganti per il Silicio, se uniti in un composto come Arseniuro di Gallio si comportano come un semiconduttore e possono sostituire il Silicio nei componenti elettronici. E’ quello che si fa nella costruzione dei diodi LED dove si sfruttano le specifiche caratteristiche dell’Arsenico e del Gallio, che hanno una mobilità elettronica superiore a quella del Silicio. Tornando alla luce, anzi all’intero spettro luminoso, così come abbiamo già visto, è molto comodo ed usato il sistema di rappresentazione della gamma luminosa mediante le frequenze e le lunghezze d’onda che caratterizzano le diverse radiazioni. In figura 81 viene riportato un grafico con le diverse distribuzioni spettrali per diversi materiali usati nella costruzione di diodi LED. Si vede come il composto GaAsP dia una luce bianca mentre l’Arseniuro di Gallio (GaAs) è sugli Infrarossi. Concludiamo riflettendo che il meccanismo del LED è esattamente l’opposto di quello relativo ai diodi fotovoltaici (figura 73 di pagina 105). Nel primo caso da energia elettrica si produce la luce, nel secondo dalla luce si produce energia elettrica. Come tante cose nella vita i due fenomeni sono complementari. Non possiamo però non accennare all’ultimo impiego dei LED negli schermi televisivi, noti come “ Televisori a LED” . E’ stato molto enfatizzato per motivi commerciali, alla fine i LED VENGONO IMPIEGATI BANALMENTE COME SORGENTE LUMINOSA per retroilluminare lo schermo TV , in cui la formazione dei colori e delle immagini rimane quella classica. I LED sono utili perche hanno notevole brillanza a basso costo. Ne riparleremo. 116 Fig. 80 Indicatori a LED 117 118 5. LCD ( Liquid Cristal Display) I Display a cristalli liquidi (LCD) sono stati realizzati dopo i LED. Inizialmente furono usati come visualizzatori numerici ed alfanumerici (figura 80a); in seguito sono stati ampiamente usati negli schermi dei televisori, solo di recente soppiantati dagli schermi a LED. Il primo ad osservare il fenomeno dei cristalli liquidi fu il botanico austriaco Reinitzer nel 1888 (!). Egli notò che il composto organico “ benzoato di colesterile” si comportava in modo anomalo quando si avvicinava alla temperatura di transizione allo stato liquido: dopo avere raggiunto il punto di fusione a 145° , raggiungeva il punto di liquefazione a 179° . Nell’intervallo di queste temperature mostrava un comportamento intermedio che egli appunto chiamò cristalli liquidi. La caratteristica dell’aggregato presentava molecole molto allungate, i relativi cristalli presentavano la proprietà di riflettere selettivamente la luce. Ci sono voluti però 100 anni per arrivare ad utilizzare questi cristalli nelle tecnologie moderne. Fig. 82 Indicatori a cristalli liquidi 119 Fig. 80b Polarizzazione dei cristalli liquidi 120 6. LASER Il raggio LASER è stato sviluppato intorno agli anni 60 del secolo scorso. Il suo acronimo sta per LIGHT AMPLIFICATION by STIMULATED EMISSION of RADIATION, cioè Amplificazione di luce mediante emissione stimolata di Radiazione. Fig. 80 c 121 Fig. 80d Spettro delle Onde Elettromagnetiche da +i raggiX agli Infrarossi 122 CAPITOLO QUINTO IL TRANSISTORE 123 5.1 Bipolar junction transistor (BJT) Per quelli della mia generazione, “transistor” alla fine degli anni 50 era sinonimo di radiolina portatile, era una abbreviazione di “radio a transistor” e giustamente a livello popolare si mise enfasi sul componente più importante di quelle radio. Il transistor (in inglese l’accento è sulla prima sillaba, in italiano è tradotto “transistore”, oggi è noto come BJT, transistore a giunzione bipolare) è il successore delle storiche “valvole” che hanno segnato l’Elettronica pionieristica degli anni trenta-quaranta. Come il diodo, il transistore è un componente a semiconduttore, tendenzialmente Silicio, Germanio e composti III°-V° gruppo, e del diodo è l’evoluzione naturale. Mentre il diodo, che ha tantissime applicazioni (ne vedremo ancora), è un elemento “passivo” nel senso che modifica soltanto le forme d’onda dei segnali elettrici applicati, il transistore è un elemento “attivo” in quanto riesce ad “amplificare” un segnale restituendolo con una ampiezza maggiore, questa è una, forse la più importante, delle sue caratteristiche peculiari. Come abbiamo visto, le proprietà dei Semiconduttori furono scoperte a metà dell’Ottocento, ma si è dovuti arrivare al 1948 per inventare il primo transistor al Germanio da parte di tre scienziati americani che per questo ebbero il premio Nobel, si chiamavano Shockley, Brattain, Bardeen. La funzione principale di un transistore è quindi quella di amplificare un segnale. Per avere un’idea si pensi ad un megafono in cui un microfono converte il suono in segnale elettrico ed un amplificatore con uno o più transistori amplifica tale segnale per renderlo sufficiente a pilotare l’altoparlante che diffonde il suono. Quando parliamo di amplificatore pensiamo prevalentemente ad un riproduttore di suoni, giradischi, lettori di CD, riproduttori MP3, MP4, autoradio, etc.etc. Tutti questi dispositivi sono costituiti da transistor o dispositivi integrati che ne inglobano decine o addirittura centinaia. Ripetiamo, il transistore è un dispositivo a semiconduttore con tre terminali (il diodo ne ha due) : a due di questi si applica un segnale elettrico ed ai capi di altri due si ritrova lo stesso segnale (con identica forma) amplificato. Uno dei tre terminali è comune ad ingresso e uscita. Oggi l’accezione più diffusa è BJT che vuol dire Bipolar Junction Transistor, cioè transistore bipolare a giunzione per distinguerlo da altri tipi che sono stati creati successivamente, dove bipolare si riferisce al fatto che, come il diodo, le cariche elettriche sono di due tipi (elettroni e lacune) e la giunzione è del tipo PN sempre già vista per il diodo. In altri dispositivi equivalenti dal punto di vista funzionale ma differenti come tecnologia costruttiva, la conduzione elettrica è riferita soltanto ad un tipo di carica elettrica, gli elettroni oppure le lacune. In particolare, quanto detto si riferisce ai dispositivi “MOSFET” che vedremo nella parte dedicata alle tecnologie. L’etimologia del termine originale “transistor” deriva dall’unione di due parole: transfer e resistor cioè “trasferimento di resistenza” come si capirà nel seguito spiegandone il meccanismo di funzionamento. Cominciamo col dire che il transistore 124 è una estensione del diodo a semiconduttore in cui viene aggiunta una terza zona drogata in modo da formare una struttura sequenziale PNP oppure NPN (figura 80), quindi non una ma due giunzioni. La zona centrale viene chiamata “base”, una delle due estreme è chiamata “emettitore” (emitter), l’altra “collettore” (collector) nel senso che dalla prima partono le cariche elettriche mentre la seconda le raccoglie, tutto ciò sotto opportune polarizzazioni elettriche che vedremo. Fig: 81: schematizzazione di BJT NPN e PNP La struttura di base di un BJT è riportata in figura 80 : trattasi di un tipo denominato NPN ed un altro denominato PNP, sono equivalenti. Come abbiamo visto per il diodo, le zone N sono ricche di elettroni mentre le lacune sono minoritarie, invece le zone P sono ricche di lacune mentre gli elettroni sono minoritari. Le concentrazioni di elettroni e lacune, cioè le rispettive densità (Numero/unità di volume), dipendono unicamente dal processo di drogaggio con atomi pentavalenti e trivalenti, ciò tra l’altro, come vedremo nel capitolo dedicato alle tecnologie costruttive, è controllabile in maniera perfetta con tutte le differenti tecniche e metodi di drogaggio. Si considerano due giunzioni : una tra emettitore e base, l’altra tra base e collettore; normalmente la prima è polarizzata direttamente mentre la seconda è polarizzata inversamente; uno dei tre tra base, emettitore e collettore è in connessione 125 elettrica in comune agli altri due dando origine a tre possibili configurazioni denominate “base comune”, emettitore comune”, collettore comune”. Fig. 82 : schema base di un NPN ad emettitore comune Consideriamo prima quella ad emettitore comune, che peraltro è la più diffusa, e riferiamoci alla figura 81: tra Base ed Emettitore è inserita una batteria di valore basso (solitamente 1,5 volt) con il positivo verso la Base in modo da polarizzare direttamente la giunzione Base-Emettitore che peraltro è assimilabile ad un Diodo e, ricordandoci quanto abbiamo descritto, conduce corrente a partire da 0,6 volt per il Silicio oppure 0,2 volt per il Germanio. Collegando una batteria (3 – 15 volt) con il positivo al collettore ed il negativo all’emettitore (in comune al negativo della batteria base-emettitore), la giunzione collettore-base risulta polarizzata inversamente, infatti, pur essendo collegati al positivo sia base che collettore, la differenza di potenziale è comunque positiva rispetto al collettore che essendo tipo N risulta polarizzato inversamente ed è per questo che possiamo applicare un potenziale abbastanza alto fino a 15 volt. Oltre a considerare le polarizzazioni, bisogna considerare i movimenti che le cariche elettriche libere (elettroni e lacune) effettuano di conseguenza. Riprendiamo per l’ennesima volta (repetita juvant) la situazione delle cariche (fisse e mobili) all’interno della giunzione Emettitore-Base e BaseCollettore (figura 81), entrambe assimilabili a due diodi e quindi ricordiamoci tutto quello che abbiamo detto nei capitoli precedenti. Se consideriamo un dispositivo NPN, l’Emettitore è ricco di elettroni maggioritari e vi sono lacune minoritarie. La Base è ricca di lacune in maggioranza con elettroni minoritari. Il Collettore è come 126 l’Emettitore anche se, come vedremo, può essere opportuno, per determinate contingenze, differenziarne le densità di cariche (quindi la resistenza ohmica presentata) agendo sui processi di drogaggio. Consideriamo ora, per esigenze didattiche, separatamente la giunzione Base-Emettitore staccando il Collettore (figura 82) e poi il circuito Emettitore-Collettore staccando la Base (figura 83). fig. 83a: Base-emettitore fig. 83b: Collettore-emettitore Nel primo caso, come abbiamo già detto, Base-Emettitore costituiscono un diodo polarizzato direttamente pertanto con un potenziale VBE compreso tra 0,6 volt (soglia) ed 1,5 volt passa una corrente IB costituita da elettroni che dall’Emettitore sono attratti dal polo positivo della batteria e da lacune della Base che vengono attratti dal polo negativo. Il verso di tale corrente è quello degli elettroni ma “per convenzione” si è stabilito che la corrente va dal positivo della batteria al negativo della stessa, pertanto la corrente IB “entra” nella Base ed esce dall’Emettitore. L’andamento di tale corrente è mostrato nel diagramma di figura 84 e chiaramente è simile al diagramma di un qualsiasi diodo al Silicio. Consideriamo ora il circuito di figura 83 : la Base è staccata (open) e gli elettroni dell’Emettitore e del Collettore sono attratti dal potenziale positivo V CE quindi si stabilisce una corrente IC che parte dall’interno dell’Emettitore, attraversa la Base, attraversa il collettore e, passando per la batteria, ritorna all’Emettitore. Per convenzione questa corrente entra nel Collettore ed esce dall’Emettitore ed il suo andamento è riportato nel diagramma di figura 85 in funzione del valore di VCE. 127 Dal diagramma si vede che la corrente aumenta inizialmente, aumentando il potenziale, perché le due grandezze sono direttamente proporzionali ed è intuitivo che aumentando VCE vengono attratti una quantità crescente di elettroni, ma poi aumentando ulteriormente il potenziale la corrente rimane costante perché tutti gli elettroni disponibili sono stati coinvolti. fig. 84: IB funzione di VBE fig. 85 : IC funzione di VCE Consideriamo ora lo schema di figura 86 di pagina 110 che riprende sostanzialmente lo schema di figura 81: ricordiamo (repetita juvant) che l’Emettitore di tipo N è ricco di cariche libere negative (elettroni), la cui densità si può controllare e regolare agendo sul processo di doping, in sostanza se si vuole un Emettitore più denso di elettroni allora si diffonderanno nel Silicio una quantità sempre più grande di atomi di Fosforo ( o di altro atomo pentavalente); nel caso del BJT l’Emettitore deve essere molto ricco di elettroni perché la sua funzione è appunto quella di “emetterli”. Le due batterie che provvedono alla polarizzazione devono avere opportuni valori : quella di base (VBB) può essere di basso valore dato che la giunzione base-emettitore è polarizzata direttamente ed è quindi sufficiente un valore di tensione compreso tra la soglia (0,6 volt) necessaria a far passare corrente ed il valore massimo consentito che è circa 1,5 volt. Quella di Collettore (V CC), invece, poiché deve attrarre e raccogliere il maggior numero di elettroni (da cui il nome “Collettore”) dovrà essere quanto più alta possibile e quindi potrà raggiungere anche la decina di volt senza problemi perché la giunzione collettore-base è polarizzata inversamente ed in tale contesto si può applicare tensione fino al valore della tensione di “breakdown” (diagramma di figura a pagina ) mantenendosene comunque a 128 Fig. 86 : Meccanismo di conduzione in un BJT “ npn “ 129 distanza di sicurezza; la tensione di breakdown di un generico BJT può raggiungere 40 volt per cui la tensione della batteria VCC può essere tranquillamente 15 volt. Il meccanismo di conduzione è il seguente: gli elettroni dell’Emettitore vengono attratti dalle due batterie VBE e VCE ma, poiché quest’ultima è molto maggiore della prima, la stragrande maggioranza di essi raggiunge il Collettore (e quindi VCE) attraversando la Base, solo una minima parte raggiunge il polo positivo di VBE. Il pericolo potrebbe essere costituito dal fatto che esiste la probabilità che un elettrone, attraversando la Base di tipo P, incontri una lacuna e si ricombini “scomparendo” come carica libera (passa cioè dallo stato di elettrone di conduzione a quello di elettrone di valenza avendo formato un legame chimico covalente). Tale probabilità si rende minima costruendo tecnologicamente una Base ultrasottile tanto da avvicinare il suo spessore al libero cammino medio di un elettrone prima che incontri una lacuna, ed inoltre poco drogata (poche lacune). Se poi si considera che la depletion layer della giunzione collettore-base si allarga essendo polarizzata inversamente, si conclude che la base “effettiva” è ancora più sottile della base fisica, si può affermare che sicuramente una parte trascurabilissima di elettroni si ricombina mentre la maggior parte raggiunge il Collettore. Per quanto descritto, si stabiliscono due correnti: quella che attraversa la giunzione base-emettitore, e passa per la batteria VBE, è chiamata IB ed è dell’ordine dei microampère (1µA = un milionesimo di Ampère). Quella che parte dall’emettitore, attraversa la base e raggiunge il collettore proseguendo per la batteria VCE, è chiamata IC ed è molto maggiore di IB essendo dell’ordine dei milliampère (1mA = un millesimo di Ampère). Fig. 87 : Simboli BJT NPN e PNP Naturalmente lo schema del BJT che abbiamo usato per descriverne il funzionamento è una rappresentazione, per opportuna comodità, quanto più possibile vicina alla realtà. Negli schemi ufficiali vengono adottati i simboli riportati in figura 87 per i dispositivi NPN e PNP; il verso della freccia sull’emettitore rappresenta il verso della corrente convenzionale. 130 5.2 Circuito di polarizzazione di un BJT Per comprendere ancora meglio il funzionamento di un BJT consideriamo il circuito di figura 88. Un dispositivo NPN è polarizzato da due batterie e, mediante due resistenze RB ed RC, vengono regolate le due correnti IB e IC e di conseguenza i potenziali VCE e VBE. Le due batterie sono contrassegnate con due frecce che vogliono simbolicamente rappresentare due generatori di tensione variabile con continuità da zero ad un valore determinato. Inserendo opportunamente due amperometri in serie ai circuiti di Collettore e Base e due voltmetri che misurano VBE e VCE, è possibile ricavare le curve caratteristiche del BJT e cioè l’andamento della corrente di base IB al variare del potenziale VBE tenendo costante VCC. Quello che si ottiene è un diagramma che ricalca l’andamento caratteristico di un diodo, tale è la giunzione Base-Emettitore. fig. 88 : Circuito di base per un BJT npn Invece tenendo costante la corrente di base IB e variando la tensione della batteria VCC, si può ricavare l’andamento della corrente di collettore I C in funzione della VCE per un determinato valore di I B. Se a quest’ultima si dà inizialmente il valore zero si ottiene una curva simile a quella riportata in figura 85 di pagina 108. Successivamente si ripete la procedura fissando questa volta la I B ad un valore costante pari a 10 microampère (1 µA = un millesimo di milliampère = un milionesimo di Ampère ) e leggendo i valori di IC al variare di VCE si ottiene una curva simile alla precedente ma traslata a valori più alti di I C. 131 Proseguendo per successivi differenti valori di IB , sempre crescenti, e ripetendo la procedura descritta, si ottiene un insieme, una famiglia di curve caratteristiche riportate in figura 89. Era prevedibile che le differenti curve fossero parallele, matematicamente esse si esprimono con la relazione funzionale IC = f(VCE) per IB = costante Che appunto si legge : Corrente di collettore in funzione della tensione V CE per differenti valori costanti della corrente di base. Ricordiamo il differente ordine di grandezza tra le correnti, quella di base in microAmpère (µA, milionesimi di Ampère), quella di collettore in milliampère (mA, millesimi di Ampère). Fig. 89 Famiglia di curve IC= f(VCE) per IB= cost. Riassumiamo quanto descritto in questo capitolo dedicato al BJT : Il transistore bipolare a giunzione è un dispositivo a tre terminali corrispondenti a tre diverse zone di materiale semiconduttore (tipicamente Silicio) con drogaggio alternato : Emettitore tipo N, Base tipo P e collettore tipo N. Oppure il contrario : Emettitore tipo P, Base tipo N e Collettore tipo P. Quindi si avranno due differenti tipi di BJT (il primo tipo NPN, il secondo tipo PNP) sostanzialmente e funzionalmente equivalenti a meno di alcune caratteristiche. La loro funzionalità è espressa dal diagramma BaseEmettitore di figura 84 e da quello Collettore-Emettitore di figura 89. 113 132 5.3 Il transistore come amplificatore Un BJT ha tantissimi impieghi funzionali in Elettronica ma quello per cui è stato inventato e che rimane il più importante e significativo è senza dubbio quello di “amplificatore”. Amplificare significa aumentare ovvero elevare il livello cioè l’ampiezza di un segnale elettrico variabile nel tempo; l’esempio più semplice che si può ricordare può essere quello di un segnale elettrico fornito da un microfono: per potere pilotare adeguatamente un altoparlante (che riproduce il suono) oppure una trasmittente Radio/Video, occorre aumentare l’ampiezza del segnale quindi “amplificarlo”. Per comprendere come un BJT possa amplificare ritorniamo alle curve caratteristiche di Collettore e supponiamo di mantenere il circuito relativo a tensione costante per quanto riguarda VCE, ad esempio 10 volt, quindi graficamente (figura 90) tracciamo una retta verticale in corrispondenza di V CE = 10 volt. Fig. 90 : Determinazione grafica del guadagno di corrente Le curve caratteristiche sono tracciate sperimentalmente e sono disponibili per ogni tipo diverso di BJT nei manuali tecnici. Ora facciamo una operazione deduttiva sul diagramma, come se facessimo operazioni sperimentali sul circuito elettronico che è sempre quello di figura 88 di pagina 111. Supponiamo, sempre tenendo costante la VCE a 10 volt, di fissare la V BE in modo che la corrente di base IB al valore (peraltro scelto a piacere) di 30 microampère. A questo valore di IB corrisponde un valore di corrente di collettore IC pari a 4 milliampère. Adesso, agendo sulla VBE, portiamo la corrente di Base al valore di 40 microampère; nel 133 diagramma saliamo verticalmente sulla retta ed incontriamo la curva superiore tracciata per IB= 40 µA. A questo nuovo valore della corrente di Base corrisponde (tratteggio orizzontale) una corrente di collettore pari a 5 milliampère. Era prevedibile e non ci meravigliamo se aumentando la I B aumenta in corrispondenza la IC poiché un aumento della tensione VBE (quindi della IB) attira più cariche elettriche dall’Emettitore ma a beneficiarne maggiormente è la corrente di Collettore per la struttura particolare (sottigliezza) della Base e perché, soprattutto, la tensione di Collettore VCE è dieci volte maggiore della VBE. Del resto abbiamo già assodato che nelle condizioni circuitali descritte la corrente di Base è dell’ordine dei microAmpère (milionesimi di Ampère) mentre quella di Collettore è dell’ordine dei milliAmpère (millesimi di Ampère) cioè mille volte maggiore. Ma la cosa più significativa che si trae dal diagramma è questa : passando da una IB di 30 microAmpère ad una di 40 microAmpère, provocando cioè una “variazione” ΔIB di 10 microAmpère, si ha come conseguenza una “variazione” ΔIC di 1 milliAmpère sulla corrente di Collettore. Il rapporto ΔIC -------ΔIB ci dice “quanto” la variazione di corrente di collettore sia più grande della corrispondente variazione di corrente di Base che l’ha provocata. Essendo il rapporto tra grandezze omogenee sarà espresso da un numero puro, cioè è una grandezza “adimensionata” , così come il “rendimento” . Questo rapporto viene chiamato “Guadagno di corrente” oppure, ancora meglio, “Rapporto di amplificazione” e si indica universalmente con la lettera β. E’ evidente che, poiché ricavando la formula inversa ΔIC = β Δ IB , conoscendo il valore di β dai manuali, oppure ricavandola dai diagrammi, ad ogni variazione di corrente di Base può ricavarsi la corrispondente variazione di corrente di Collettore che è β volte maggiore. Nel caso del diagramma di figura 90 : ΔIC = 1 mA = 10 -3 Ampère β = 10 -3 ---------------- = 10 -3 x 10 5 10 x 10 -6 ΔIB = 10 µA = 10 x 10 -6 Ampère = 100 Ciò significa che il guadagno di corrente è pari a 100, quindi la variazione di corrente di collettore è cento volte quella di Base. Il guadagno di corrente è un 134 parametro che si può controllare abbastanza agevolmente nelle fasi del processo tecnologico di fabbricazione di un BJT. Il valore può arrivare anche a 1000. Oltre al guadagno di corrente β , vi sono altri parametri elettrici che caratterizzano un BJT. Vi sono quelli cosiddetti statici, cioè a riposo, (assenza di segnale) e quelli “dinamici” che invece si misurano in presenza di un segnale variabile in ingresso soprattutto in riferimento alla frequenza del segnale stesso . I più importanti, tra gli statici, sono le tensioni di Breakdown (vedere figura 41 di pagina 55 ) e le correnti inverse così come abbiamo visto per i diodi. Le prime rappresentano le massime tensioni che si possono applicare ad una giunzione polarizzata inversamente, superandole il diodo va in rottura a valanga (Breakdown) e si distrugge come un fusibile. Le seconde nascono sempre in polarizzazione inversa e sono dovute alle cariche minoritarie. Le correnti inverse sono indesiderate e dovrebbero mantenersi più basse possibili, dipendono dalla temperatura e da imperfezioni tecnologiche. Considerando le giunzioni collettore-base e base emettitore polarizzate inversamente, le tensioni di Breakdown sono BVCBO e BVEBO che si leggono “Breakdown voltage tra collettore e base con Emitter open” , cioè tensione di rottura tra collettore e base con emettitore aperto, e Breakdown voltage tra emettitore e base con Collettore open”, cioè tensione di rottura tra emettitore e base con collettore aperto. Corrispondentemente vi sono le correnti inverse ICBO ed IEBO che si leggono “ corrente tra collettore e base con Emettitore Open” e corrente tra emettitore e base con collettore Open”. In figura 91 sono riportati alcuni dei tantissimi tipi di transistori così come ci appaiono nella realtà. In seguito, nelle successive parti, descriveremo le diverse tecnologie costruttive. Quelli raffigurati sono di “stazza media” , ce ne sono di più piccoli e di più grandi (anche da 100 Watt), incapsulati in metallo ed in plastica (che è una resina epossidica). Sono ben visibili i tre terminali che corrispondono ai collegamenti di Base , Emettitore e Collettore. In figura 92 è invece riportato un prototipo del primo transistore realizzato nel 1947 utilizzando una barretta di Germanio. In figura 93 un transistore di media potenza in cassa plastica. Sono sovraimpressi il tipo KT819, il marchio di fabbrica, il mese 05 di produzione e l’anno di produzione 2010. Termina qui questa prima parte dedicata all’elettronica analogica. Seguirà la seconda parte che tratterà l’Elettronica digitale e poi ancora le parti applicative. 135 Fig. 91 : Diversi tipi di transistori 136 Fig. 92 : Ricostruzione del primo prototipo di transistore (1947) 137 Fig.93: Un transistor di media potenza in cassa plastica 138 Fig.94 : Transistore di Potenza al Silicio. I due contatti (peraltro staccati) sono Base ed Emettitore. Il collettore è costituito dalla massa del chip che è saldato al supporto metallico. 139 Bibliografia J.Millmann. Microelettronica. Mc Graw-Hill M.Phillips. Semiconductors. Mc Graw-Hill G. Lotti . Elettronica generale . Vol. I , Ed. Fermo G. Shive. Semiconduttori, Ed. Ambrosiana A. Cupido. Elettronica generale, Ed. Cupido D. Warschauer . Semiconductors and Transistors , Mc Graw Hill S.M Sze : Fisica dei dispositivi a semiconduttore, Tamburini Ed. A.S.Grove : Fisica e Tecnologia dei dispositivi a semiconduttore, Angeli ed. 140