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Mario Desiderio
Elettronica per tutti
Dal diodo LED ai Microchips
Dall’atomo ai pannelli solari
Parte Prima
Elettronica analogica
1
2
Prefazione
Perché
Non c’è quasi mai un motivo solo che spinge ognuno di noi a scrivere. I motivi
sono sempre tanti e convergono in un particolare momento che fa scattare la molla
della scrittura. Io covavo da tempo il desiderio di scrivere ma rimandavo sempre
per pigrizia fino a quando una dottoressa farmacista mi chiese di spiegarle come
funziona un Microchip. Le risposi che mi ci voleva un libro e forse più per
arrivarci; e lei candidamente : lo scriva. Era Settembre del 2011 e mi ricordai che
facevo le nozze d’oro con l’Elettronica: nel 1961, a sedici anni, iniziavo il triennio
di specializzazione Elettronica e Telecomunicazioni presso l’Istituto tecnico statale
Archimede di Catania, assieme a mio fratello Aldo con il quale abbiamo proseguito
insieme fino al giorno della Laurea in Fisica (Novembre 1968) Iniziavo una
passione per la Fisica e l’Elettronica, che sono le madri delle Telecomunicazioni,
dell’Informatica e di tutte le Scienze e Tecnologie moderne, che continua oggi con
immutato, anzi maggiore, impegno. Ma questo non è che l’ultimo dei motivi che mi
ha indotto a scrivere. Era già chiaro e definito che io avevo disposizioni tecnicopratiche mentre Aldo era già teorico-riflessivo : a sedici anni costruii con successo
le prime radio ed il mio primo trasmettitore ad una valvola in AM (modulazione di
ampiezza, la FM non era ancora diffusa). Ma in preparazione all’esame di
maturità, con Aldo scrivevamo i primi appunti di Elettronica, poi diventati dispense
per studenti negli anni del corso di laurea. Nella mia prima esperienza lavorativa
presso la fabbrica di componenti elettronici STMicroelectronics, allora ATES poi
SGS, (Gennaio 1969-Dicembre 1982), oltre le mie normali mansioni tecniche, sin
dall’inizio fui incaricato di addestrare i diplomati e laureati neo assunti e per
facilitare le cose scrissi dei semplici manuali di Elettronica e Tecnologia.
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Nel 1975
la STM mi diede incarico di fare corsi di riconversione per
personale in cassa integrazione presso l’ente ECAP ed assieme a mio fratello Aldo
scrivemmo due testi di Elettrotecnica ed Elettronica. Nel 1982 lasciai la STM ed
iniziai la mia carriera di insegnante di Elettronica, Informatica e Sistemi
automatici; anche se appena laureato, contemporaneamente al lavoro presso STM,
avevo insegnato Fisica ai corsi serali ed Elettrotecnica in un Istituto tecnico.
Appena iniziata l’attività didattica, mi accorsi subito che i libri di testo non erano
scritti per gli allievi ma erano, e sono, sfoggio di cultura da parte di chi scrive.
Fui tentato più volte di scrivere un libro di testo, incoraggiato da diversi
rappresentanti di case editrici, ma iniziai e lasciai incompiuti diversi lavori,
rendendomi conto che andavo controcorrente e mi limitai a redigere dispense per
gli allievi. Quando nel Maggio 2000 fui operato al cuore ( 5 by-pass) durante la
degenza in casa passavo intere notti insonni per gli effetti post operatori e per gli
psicofarmaci (avevo una iperattività). In una notte scrissi il piano dell’opera e gli
indici di tre libri di testo e 7 capitoli interi, ma questa iperattività non durò a
lungo…… e non riuscii più a riprendere quanto avevo scritto.
Adesso, nella condizione di pensionato e nonno, ho molto tempo libero e, dopo
tutto quello che scrive Aldo, sarebbe assurdo e fuori luogo scrivere libri di testo,
oltretutto ho già detto che ero e sono tuttora controcorrente, libero pensatore,
rispetto ai canoni presenti nell’editoria scolastica. Ho sempre preferito e preferisco
scrivere per divulgare, per arrivare veramente a chi legge…………E comunque
scrivo perché mi fa sicuramente bene, scrivo per dimenticare, scrivo per non
dimenticare.
Per chi
Come dice il titolo, per tutti. Per tutti quelli che vogliono avere la curiosità di
saperne di più. Ma lo confesso: Scrivo per i miei splendidi nipotini. Perché abbiano
di me anche un ricordo indelebile di ciò di cui mi sono occupato per una vita.
E perchè no? Mi piacerebbe quanto prima insegnare loro queste cose.
Naturalmente è impossibile scrivere proprio per tutti, spiegare di presenza è più
facile perché c’è interazione docente-discente. Nei corsi serali ho spiegato la
programmazione dei computers ed il funzionamento di una radio FM a semplici
lavoratori con la terza media, in un anno di lezioni. Ma era gente adulta con una
forte motivazione ad imparare. Con un allievo davanti tutto viene adattato alla sua
preparazione ed alla sua sensibilità di ricevere. Scrivere per tanti, soprattutto se
eterogenei, è difficile; spero e mi sforzo di farlo per quanti più è possibile. E
comunque scrivo anche per me stesso, perché mi fa bene ed ogni tanto un po’ di
sano egoismo non guasta, quando si è passata una vita per il prossimo.
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A chi
Dedico questo mio scritto a tutti quelli che mi hanno stimato come
insegnante e mi hanno voluto bene come persona. Ma lo dedico principalmente alle
persone a me più care che sono tutti i miei familiari. Sarò inconsueto, ma io
comincio dai miei nonni, paterni e materni, perché essi sono i primi che ti danno
un esempio di vita quando ancora i genitori sono indaffarati con il lavoro e con le
apprensioni per il quotidiano. I miei genitori che mi hanno dato una educazione
ed una formazione eccellente, soprattutto con il loro esempio. I miei figli Fabio e
Daniele che mi hanno sempre stimato e mi hanno dato tante gioie e soddisfazioni.
Mia moglie Lucia che ha sopportato per 43 anni tutti i miei difetti e le mie
stravaganze, anche quando ho tolto spazio alle cose coniugali . Mio fratello
gemello Aldo per tutto quello che ci siamo scambiati per una vita.
Ma non posso negare che, sin da quando ho iniziato a scrivere, non ho potuto
fare a meno di pensare ai miei adorati nipotini, perché loro sono parte di noi stessi,
sono la nostra continuità, sono il futuro ed è bello, naturale e legittimo lasciare
qualcosa a loro, a prescindere dal contenuto. Magari in ciò c’è un pizzico di vanità,
ma prevalgono ragioni del cuore più che della ragione. E comunque…….. lo
dedico pure a me stesso.
Mascalucia
8 Settembre 2011
Mario Desiderio
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Prefazione alla prima edizione
Non ho impiegato due anni a scrivere questa prima parte. Ci sono state tante
pause di riflessione e tanti ripensamenti. Ho avuto attimi di sconforto, ho
attraversato momenti in cui avrei voluto buttare tutto in aria. Poi ripensandoci mi
son detto che dovevo scrivere comunque, anche se ci avessi impiegato dieci anni.
Nei momenti di riflessione ho constatato che, a mano a mano che procedevo, la
caratteristica di essere una lettura per tutti veniva sempre meno; perché non è per
niente facile, anzi; mi sono sforzato di essere il più chiaro possibile, ho cercato di
ridurre al minimo le formule matematiche, ma non ho potuto rinunciare all’uso dei
diagrammi che, a mio parere, sono un ausilio didattico irrinunciabile oltre che
utile. Ho fatto largo uso di immagini perché le ritengo altamente espressive, alcune
figure le ho realizzate personalmente a mano, con tutte le conseguenze evidenti, ma
ciò è stato dettato dal fatto che ancora oggi “ sento “ di essere alla lavagna.
Alla fine ho concluso che non è un libro, sono i miei ricordi, la mia memoria e,
proprio per questo, dovevo continuare e siccome mi accorgevo che andavo avanti e
ritornavo indietro a modificare, decisi di dividere quello che volevo scrivere in parti
così intanto divisi in “Elettronica analogica ed “Elettronica digitale” , poi mi
imposi di non poter scrivere tutto e subito e cominciai a scrivere di getto.
Ripeto che non è un libro bensì appunti di Elettronica per chi ha la curiosità di
saperne qualcosa. C’è sempre tempo per approfondire. Questa prima parte non
esaurisce l’Elettronica analogica : mi sono fermato ai concetti fondamentali, le
innumerevoli applicazioni le vedremo successivamente; il prossimo scritto tratterà
l’Elettronica digitale e poi scriverò le parti applicative finchè ce la farò e sarò
incoraggiato.
Sarò grato a tutti quei lettori che mi forniranno critiche e consigli per
migliorare la comprensione.
Buona lettura e non scoraggiatevi. Chi mi conosce può contattarmi, sarò lieto di
accogliere tutte le impressioni ed i suggerimenti.
Mascalucia 25 Settembre 2013
Mario Desiderio
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Scaletta degli argomenti:
1. COSA SONO I MICROCHIPS
2. STRUTTURA DELLA MATERIA
3. TAVOLA DI MENDELEEV
4. NUMERI QUANTICI
5. GAS NOBILI, ALCALINI
6. CONDUTTORI, ISOLANTI, SEMICONDUTTORI
7. RAME, ARGENTO, ORO
8. CARBONE, SILICIO, GERMANIO
9. ELEMENTI DEL TERZO E QUINTO GRUPPO
10. CORRENTI ELETTRICHE, LEGGI DI OHM, POTENZA, ENERGIA
11. SEMICONDUTTORI
12. GERMANIO,SILICIO,ANTIMONIURO DI INDIO,ARSENIURO GALLIO
13. DOPING, TIPO N E TIPO P
14. GIUNZIONE PN, DIODO
15. COS’E’, COME FUNZIONA, A CHE SERVE
16. CARATTERISTICHE ELETTRICHE
17. VARI TIPI DI DIODO
18. APPLICAZIONI
19. DAL DIODO AL TRANSISTOR AI CIRCUITI INTEGRATI
20. TECNOLOGIE COSTRUTTIVE PER DIODI E BJT AL SILICIO
PARTE SECONDA
21.
22.
23.
24.
25.
26.
27.
28.
29.
30.
LOGICA BINARIA
CIRCUITI LOGICI
ELETTRONICA ANALOGICA E DIGITALE
CIRCUITI INTEGRATI E TECNOLOGIE COSTRUTTIVE
SISTEMI DI ELABORAZIONE DATI
LINGUAGGI DI PROGRAMMAZIONE
HARDWARE E SOFTWARE DI UN PERSONAL COMPUTER
MICROPROCESSORI
LINGUAGGIO DI PROGRAMMAZIONE ASSEMBLY
COMPUTERS E MICROCHIPS
(*) Non è un indice ma solo una traccia degli argomenti da trattare
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INDICE
PARTE PRIMA
ELETTRONICA ANALOGICA
Capitolo primo : Struttura della materia
9
1.1 Cosa sono i Microchips
1.2 Il Silicio e gli elementi in natura
1.3 I metalli e la conduzione elettrica
10
20
27
Capitolo secondo : Semiconduttori
27
2.1 I Semiconduttori
2.2 Il Doping
30
40
Capitolo terzo : Il diodo a giunzione
45
3.1 La giunzione PN
3.2 Giunzione PN polarizzata direttamente
3.3 Giunzione PN polarizzata inversamente
3.4 Il diodo a semiconduttore
3.5 Caratteristiche elettriche del diodo
48
51
52
53
58
Capitolo quarto : Applicazioni del diodo
63
4.1 Il diodo raddrizzatore
4.2 Il diodo rivelatore
4.3 Il diodo come cella fotovoltaica
4.4 Il LED
4.5 LCD , Cristalli liquidi
4.6 LASER
66
70
Capitolo quinto : Il transistore
122
5.1 Bipolar junction transistor (BJT)
5.2 Circuito di polarizzazione di un BJT
5.3 Il transistore come amplificatore
123
129
132
8
PARTE SECONDA
ELETTRONICA DIGITALE
Capitolo primo :
Sistemi di numerazione
Capitolo secondo : Logica binaria, Algebra di Boole
Capitolo terzo :
Circuiti elettronici logici
Capitolo quarto :
Reti combinatorie logiche ed aritmetiche
Capitolo quinto :
Memorie elettroniche
Capitolo sesto : Microprocessori
Capitolo settimo : Programmazione in Assembly
Capitolo ottavo : Programmazione ad alto livello
Capitolo nono :
Calcolatori elettronici
Capitolo decimo : Applicazioni
9
CAPITOLO PRIMO
STRUTTURA DELLA MATERIA
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1.1 Cosa sono i microchips
Partiamo dunque dalla fine, perché è qui che dovremo arrivare. Microchip è
parola composta da micro cioè piccolissimo, microscopico e “chip” che
letteralmente vuol dire scheggia, frammento, blocchetto, parallelepipedo, così si
chiamarono i primi dispositivi elettronici perché erano “pezzi” di Silicio. Ma
“micro” si riferisce alla parola, a sua volta composta, “microprocessor”
(microprocessore) derivante dal verbo to process che vuol dire “elaborare”,
quindi microelaboratore e pertanto microchip è “chip che contiene un
microelaboratore”. Oggi con il termine microchip si intende un dispositivo
elettronico-informatico capace di controllare una specifica funzione. Lo
troviamo nella tessera sanitaria, nella carta bancomat, in tutte le card di accesso,
nella piastrina di riconoscimento del nostro cane, microchip è anche il
microprocessore Intel, AMD, Motorola, che caratterizza prioritariamente un
personal computer, un notebook, un netbook etc.
La prima volta che incontrai il termine chip fu giocando a poker,
rappresenta la minima posta. Poi lo incontrai studiando Elettronica e Tecnologie
: vengono così definiti tutti i componenti
elettronici a stato solido della
generazione successiva a quella delle “valvole” o “tubi termoionici” : sono
“pezzi” di materiale semiconduttore* opportunamente lavorati e trattati con
tecniche chimico-fisiche e tecnologie microscopiche, che assolvono a diverse
funzioni nei circuiti elettronici, dal semplice led alle memorie per macchine
fotografiche, alle pen-drive, etc. Se si ha la possibilità di avere un led a luce
bianca, si riesce a intravedere all’interno questo “chip” di mezzo millimetro di
lato e spesso 0.2 mm (vedi figura 1 a pag.15 dove il chip non è quello indicato,
che è un pin di connessione, ma il quadratino piccolo al centro)). I chips a
semiconduttore si diffondono alla fine degli anni 50 con le prime radioline a
“transistor” e sono costituiti da un pezzo di Germanio o Silicio (opportunamente
trattati). Dopo averli studiati, i chips (così si chiamavano i primi) li conobbi
entrando a lavorare, dopo la laurea (1968), in STmicroelectronics che allora si
chiamava ATES (Aziende Tecniche Elettroniche del Sud) ma era già
all’avanguardia della industria elettronica avanzata. Dal 68 all’82 ho avuto la
fortuna di lavorare direttamente sulle tecnologie avanzate assistendo ad una
fantastica evoluzione dai singoli dispositivi al Germanio ed al Silicio fino ai
circuiti integrati ed alle prime schede nanocomputer basate sul microprocessore
Z80. Vogliamo qui ricordare che i componenti elettronici a semiconduttore si
dividono, normalmente, in componenti discreti e componenti integrati, dove
discreto è sinonimo di singolo es. un diodo o un transistor, integrato è un chip
che contiene più componenti che formano un circuito funzionale.
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I circuiti integrati si sono evoluti di pari passo con l’evoluzione della
tecnologia costruttiva che si è progressivamente miniaturizzata fino al punto che
in un singolo chip di Silicio di mezzo centimetro di lato possono essere integrati
un milione di componenti circuitali che formano un microelaboratore (fig. 2 e
fig. 4).
Fig. 1 Diodi LED
fig. 2 Microchips: due Memorie elettroniche
12
Fig. 2b : visione esterna di schede a microchips : sotto i contatti dorati è
“annegato” il microchip
(*) Abbiamo usato per la prima volta il termine semiconduttore che vedremo in
modo più approfondito nei prossimi paragrafi. Per ora ci basti sapere che con tale
denominazione si intendono quegli elementi che non si comportano come
conduttori di elettricità come i metalli ma non sono non-conduttori come gli
isolanti. Non è che hanno un comportamento intermedio, piuttosto diremo che allo
stato naturale sono isolanti ma
“sotto determinate condizioni” conducono
elettricità anche se in modo inferiore ai metalli. E’ questa loro caratteristica
variabile che ne determina una potente capacità di controllo nei riguardi della
corrente ed è da questa proprietà che scaturisce, come vedremo, il loro eccezionale
impiego in tutte le applicazioni elettroniche, informatiche e telematiche.
I semiconduttori più conosciuti ed usati sono Germanio e Silicio ma quest’ultimo
è oggi il più usato industrialmente, il riferimento ad entrambi è utile perché dal
confronto tra i due si comprendono meglio le caratteristiche dei semiconduttori.
Fig 2c
Processore Intel Pentium, al centro il microchip che è un circuito
integrato a grande scala di integrazione contenendo milioni di componenti in
un centimetro quadrato. Viene ottenuto con sofisticate tecniche chimico-fisiche
e fotolitografiche a livello microscopico. Intorno al microchip sono visibili i
terminali di connessione ad una scheda madre di un Personal Computer: sono
272 e sono dorati per minimizzare le perdite.
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In figura 1 di pagina 15 è mostrato, a sinistra, lo schema di un Led (Light
emission diode) che è pertanto un diodo ad emissione di luce; sulla destra tre led
che emettono luce verde, gialla e rossa. Anche la parola diodo (così come chip) è
alquanto generica perché indica un oggetto a due componenti in senso lato, in
figura Anodo e Catodo che evidenziano solo, di questi ultimi, i terminali
metallici esterni di connessione ai circuiti.
Nella stessa figura l’indicazione di “chip semiconductor” non è precisa
poiché il chip vero e proprio è più interno e più piccolo. Il led è una spia
luminosa ed è costituito da un piccolissimo blocchetto di silicio trattato
tecnologicamente in due modalità diverse (vedremo in seguito i dettagli). I vari
tipi di diodo si differenziano per la tecnologia e per la funzione che svolgono.
Il diodo, che inizialmente era una valvola termoelettronica (tubo sottovuoto),
fu seguito dal “triodo” ( 3 componenti), dal “tetrodo (4 componenti) e dal
pentodo ( 5 componenti), tutti componenti sottovuoto. Negli anni cinquanta
subentrano i componenti detti “ a stato solido “ (per differenziarli dalle valvole
che erano di vetro) costituiti da semiconduttori.
Storicamente il primo diodo funzionale è stato impiegato da Marconi,
inventore delle trasmissioni radio, nel primo ricevitore lo chiamò “detector”
(rivelatore) perché estraeva l’informazione da un’onda elettromagnetica
portante ed era costituito da due componenti : un metallo ed un minerale
chiamato “Galena” che aveva proprietà simili ai semiconduttori.
Tornando al diodo led, oggi le sue applicazioni si sono estese ed attualmente
viene impiegato diffusamente in vari tipi di lampade per illuminazione, ma
soprattutto è entrato nella tecnologia degli schermi televisivi e dei computer
migliorando la definizione delle immagini.
Oggi vi sono numerosi tipi di diodi che si differenziano per la tecnologia
costruttiva, per la funzione che svolgono, per la potenza elettrica che li
coinvolge, ma tutti hanno in comune che sono costituiti partendo da uno stesso
materiale semiconduttore che è il Silicio. Ne vedremo progressivamente le
proprietà e le tecniche di impiego.
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Fig. 3 Un transistor di potenza al Silicio, al centro il chip con i fili di
connessione (leads) dal diametro di 50 micron.
15
Fig. 4 Un circuito integrato. Dimensioni 1 mm x 1.5 mm
Ricapitolando, microchip è di per sé un termine generico che indica un
dispositivo elettronico miniaturizzato, di solito un circuito integrato che
assolve ad una particolare funzione, può presentarsi in diverse forme a
seconda il particolare uso, come quello che viene introdotto per via
sottocutanea nei cani per identificarli, oppure nelle carte bancomat o carte di
credito, nelle card di accesso; si parla di uno speciale microchip da inserire
all’interno del corpo umano per controllare tumori, si parla di microchip nei
neonati per controlli anagrafici, si vedranno applicazioni nei campi più
disparati.
Ma microchip è anche all’interno di cellulari di nuova generazione, come
i-phone, Blackberry ed altri. Microchip è comunque genericamente un
circuito elettronico integrato, è anche il microprocessore Intel, AMD,
Motorola, che è il cuore di tutti i personal computer e che ha raggiunto una
potenza di calcolo incredibile per cui ha raggiunto dimensioni notevoli fino
ad un centimetro di lato, ma la caratteristica microscopica è rappresentata
dalle dimensioni sempre più piccole dei componenti integrati che ormai sono
in numero superiore al milione all’interno di un chip. Uno dei parametri
significativi del livello di miniaturizzazione è rappresentato dalle dimensioni
della larghezza delle piste di collegamento tra i componenti, che oggi ha
raggiunto valori del decimo di micron. L’elemento comune a tutti i microchip
è che sono fatti di Silicio.
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1.2 Il Silicio e gli elementi in natura
Il Silicio, che è il materiale di cui sono composti tutti i componenti elettronici,
è un componente abbondantemente presente sulla terra, lo contiene la normale
sabbia delle spiagge e la lava vulcanica (il Creatore è stato magnanimo), dalla
silice si ricava il vetro. Ha sostituito completamente da diversi decenni il
Germanio (anch’esso semiconduttore) che fu per primo usato. In California c’è
una vallata , nell’entroterra di Los Angeles, dove sono concentrate le più
importanti fabbriche di elettronica e informatica: questa vallata è denominata
“Silicon Valley”. Per analogia, il sito in cui risiede la fabbrica
STMicroelectronics, che oggi conta 5000 dipendenti, nella zona industriale di
Catania, è denominata “Etna Valley”.
Per comprendere le proprietà dei semiconduttori è opportuno rivedere le
caratteristiche dei conduttori e degli isolanti e ciò lo faremo con l’aiuto della
tavola periodica degli elementi elaborata dal chimico Mendeleev (fig. 5).
Fig.5 Tavola periodica di Mendeleev
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Ma forse è meglio riprendere dall’inizio. Scomponendo la materia si arriva
agli atomi che sono le particelle più piccole indivisibili che mantengono
inalterate le caratteristiche di un elemento. Atomo è appunto parola che deriva
dal greco “a-tomos” e vuol dire non divisibile. In realtà l’atomo a sua volta può
dividersi in ulteriori piccole particelle ma così si perde l’identità caratteristica.
Mentre ogni atomo ha una sua individualità unica, le particelle che lo
compongono sono uguali in tutti gli atomi. La struttura dell’atomo è simile al
sistema planetario del sole e dei pianeti che vi ruotano attorno(fig.6). Esso è
formato da un nucleo attorno a cui ruotano particelle di carica negativa detti
elettroni. All’interno del nucleo vi sono particelle con carica positiva detti
“protoni” e particelle neutre dette “neutroni. I protoni sono in numero pari a
quello degli elettroni cosicché tutti gli atomi, allo stato naturale, sono
elettricamente neutri, cioè privi di carica elettrica.
Fig.6 rappresentazione dell’atomo
All’epoca del chimico Mendeleev (1869) non si conoscevano tutti gli atomi
che conosciamo oggi, un buon numero fu scoperto in seguito. Nella metà del
novecento si era arrivati a 92, ognuno con un numero diverso di elettroni
ruotanti. Il primo elemento è l’Idrogeno che ha un solo elettrone attorno al
nucleo, l’ultimo elemento è l’Uranio che ha 92 elettroni. In seguito furono
scoperti altri elementi in natura, che furono chiamati transuranici in quanto
hanno un numero di elettroni maggiore di quanti ne abbia l’Uranio. Oggi si
conoscono circa 111 atomi diversi anche se alcuni sono rarissimi ed altri sono
stati riprodotti solo in laboratorio.
Tornando alla struttura dell’atomo: la figura 6 è molto schematica, le orbite
sono ellittiche ed hanno raggi progressivamente crescenti in modo esponenziale
nel senso che se la prima orbita ha raggio R la seconda avrà raggio R al
quadrato, la terza R al cubo e così via; questo è molto importante, come
vedremo, ai fini delle caratteristiche elettriche.
La Fisica quantistica, che si sviluppa nei primi trenta anni del novecento, ha
dato un notevole contributo all’interpretazione del modello atomico. Le orbite
degli elettroni sono caratterizzate da un livello energetico secondo precise regole
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secondo le quali nella prima orbita (K) possono starci al massimo 2 elettroni,
nella seconda (L) 8, nella terza (M) 18, nella quarta (N) 32 e così via.
Ogni atomo è distinto da tutti gli altri per la conformazione del nucleo e per
il numero di elettroni orbitanti. Dal numero e dalla distribuzione degli elettroni
nelle varie orbite dipendono le caratteristiche chimico-fisiche degli elementi,
soprattutto dagli elettroni nell’ultima orbita, che sono quelli più distanti dal
nucleo quindi meno legati e conseguentemente sono quelli che partecipano ai
processi chimico-fisici.
La figura 7a mostra la rappresentazione del modello di un atomo con 4
elettroni, 2 nella prima orbita e 2 nella seconda; chiaramente il disegno non è in
scala: il raggio della seconda orbita è molto più distante dal nucleo di quanto
può apparire nel disegno per esigenze di spazio poichè segue una legge
esponenziale, cioè se R è il raggio della prima orbita il raggio della seconda è R² ,
quello della terza R³ , e ciò vale anche per le successive orbite; immaginiamo
quanto lontani dal nucleo siano realmente elettroni in orbite come la sesta o la
settima: si dice infatti che un atomo è praticamente “vuoto”.
Se si considera che la forza di attrazione, che il nucleo atomico esercita sugli
elettroni, diminuisce all’aumentare della distanza reciproca, si comprende come
gli elettroni più periferici hanno una elevata probabilità di abbandonare
l’atomo di appartenenza sotto opportune condizioni, che possono essere
rappresentate da una qualsiasi forma di energia, come l’energia termica oppure
l’energia luminosa. Di ciò ce ne ricorderemo in seguito perché la maggior parte
dei fenomeni elettrici ed elettronici derivano dalle vicende relative agli elettroni
che ruotano attorno ai nuclei atomici. Ricordiamoci che elettronica (ma anche
elettricità) deriva da elettrone, che a sua volta deriva dal greco “ electron “ che
significa “ambra “, poiché strofinando l’ambra fu osservato dai greci il primo
fenomeno di attrazione elettrostatica tra due corpi.
Per esigenze di rappresentazione è conveniente disegnare l’atomo in una
visione bidimensionale e con le orbite circolari anziché ellittiche, come in fig. 7b
dove è mostrato l’atomo di sodio (11 elettroni). Come accennato, la Fisica
quantistica ha dato spiegazioni precise sulla conformazione atomica, sulla
energia degli elettroni in base all’orbita di appartenenza.
Alla base della moderna teoria atomica vi sono la “quantizzazione “
dell’energia, il Principio di indeterminazione di Heisenberg , il Principio di
esclusione di Pauli. Essendo argomenti alquanto ostici, vi ritorneremo in seguito
magari in una appendice solo per chi volesse approfondire; per ora sarà
sufficiente la descrizione dell’atomo utilizzando una rappresentazione
bidimensionale come in figura 7b, in cui è mostrato un atomo di sodio con 11
elettroni orbitanti , 2 nella prima orbita, 8 nella seconda ed uno solo nella terza.
L’importante è ricordarsi sempre le reali distanze nucleo-orbite.
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Fig.7a
Fig. 7b
Fig. 7c
Gli atomi che hanno tutte le loro orbite complete di elettroni al massimo
consentito sono chimicamente molto stabili, sono dei gas e sono rappresentati
nella colonna più a destra nella tavola periodica degli elementi. In ordine sono:
l’Elio (He) con 2 elettroni nella prima orbita, il Neon (Ne) con 2 elettroni nella
prima orbita ed 8 nella seconda, l’ Argon (Ar) con le prime due orbite piene ed 8
elettroni nella terza orbita, il Kripton (Kr) con tre orbite piene e 8 elettroni nella
quarta, lo Xenon (Xe, numero atomico 54) con quattro orbite piene e 8 elettroni
nella quinta orbita, infine il Radon (Rn, numero atomico 86) con cinque orbite
20
piene e 8 nella sesta orbita. Avendo strutture orbitali complete, i suddetti gas
sono denominati “gas nobili” in quanto si combinano difficilmente con altri
elementi. Ricapitolando:
Elio
(He) 2 elettroni, configurazione : 2
Neon
(Ne) 10 elettroni : 2,8
Argon (Ar) 18 elettroni : 2,8,8
Kripton (Kr) 36 elettroni : 2,8,18,8
Xenon (Xe) 54 elettroni : 2,8,18,18,8
Radon (Rn) 86 elettroni : 2,8,18,32,18,8
L’ultima orbita non è completa in senso assoluto, ma ne contiene 8 che
comunque è una configurazione stabile tanto che in Chimica è chiamata
“ottetto” . La tavola periodica degli elementi è chiamata così in quanto questi
ultimi sono disposti in ordine crescente di numero atomico (che è il numero di
elettroni attorno al nucleo) e sono “incredibilmente” disposti in colonne
omogenee (gruppi) ed in righe omogenee (periodi) in cui le proprietà chimicofisiche degli atomi si ripetono periodicamente. Gli elementi di una stessa colonna
hanno la medesima configurazione dell’ultima o delle ultime orbite elettroniche,
gli atomi corrispondenti hanno proprietà simili e chimicamente hanno la stessa
valenza .
Abbiamo visto i gas nobili (ultima colonna) che hanno tutti 8
elettroni nell’ultima orbita ed hanno tutti difficoltà a combinarsi con altri
elementi.
Questa difficoltà deriva dal fatto che nelle reazioni chimiche avviene un
passaggio di elettroni da un atomo all’altro in modo da raggiungere una
configurazione stabile, per cui chi ha un solo elettrone nell’ultima orbita (oppure
5) tende a perderlo, mentre chi ne ha 3 oppure 7 tende ad acquistarlo.
Gli elementi di una stessa riga iniziano con un atomo che ha un elettrone
nell’orbita “n” dove n è la riga progressiva e proseguono aumentando di uno il
numero atomico (numero di elettroni). Ad esempio il Sodio (Na) che è nella
terza riga ha un elettrone esterno nella terza orbita, mentre il Cesio (Cs) che è
nella sesta riga ha un elettrone nella sesta orbita. Sembra che ci sia un “ordine” ,
quasi un’armonia nella disposizione degli elementi, tanto è vero che alcuni di essi
al tempo di Mendeleev non erano conosciuti ma ne era stata prevista l’esistenza
perché c’erano delle caselle vuote nella periodicità della tavola. In seguito, tutti
gli elementi mancanti sono stati scoperti o riprodotti in laboratorio.
Ritorniamo alla tavola periodica; abbiamo detto che le colonne rappresentano
gruppi omogenei.
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22
Fig.8
Tavola periodica degli elementi. Si notano in giallo gli elementi solidi, in
rosa quelli in forma di gas, in blu i liquidi ed in verde gli elementi artificiali
riprodotti in laboratorio artificialmente.
23
I gruppi verticali si possono ancora suddividere in sottogruppi: dall’uno al
sette sono raggruppati elementi che hanno da uno a sette elettroni nell’ultima
orbita. Le stesse caratteristiche si trovano nei sottogruppi dall’11 al 18. Il primo
gruppo (escluso l’Idrogeno) comprende i metalli alcalini. Il secondo gruppo
comprende metalli alcalino-terrosi. Dal terzo al dodicesimo gruppo vi sono
metalli ed elementi di transizione. Il tredicesimo ed il quattordicesimo gruppo
(sottogruppi IIIA e IVA) sono metalloidi. Il quindicesimo ed il sedicesimo sono
non-metalli. Il diciassettesimo gruppo rappresenta gli “Alogeni”, dal greco alosgenos che significa generatore di Sali, (Fluoro, Cloro, Iodio e Bromo). Infine il
diciottesimo gruppo (sottogruppo VIIIA) comprende i gas nobili già descritti.
Descriviamo le caratteristiche degli elementi del primo gruppo (escluso
l’Idrogeno): Essi sono denominati metalli alcalini, tale nome deriva dall’arabo
al-qali che vuol dire potassa, e sono Litio, Sodio, Potassio, Rubidio, Cesio e
Francio. Sono caratterizzati dal fatto che ognuno di essi possiede un elettrone in
più rispetto al gas nobile che lo precede come numero atomico e questo
elettrone, essendo unico nell’orbita, riveste un ruolo importante ai fini delle
proprietà chimiche e fisiche. Questi elementi sono “monovalenti”, quando
perdono il loro elettrone esterno (ed è facile perché è lontano dal nucleo, quindi
poco legato, ed è solitario) diventano carichi positivamente in quanto il numero
totale dei protoni positivi nel nucleo non è più bilanciato da un egual numero di
elettroni periferici negativi. Si dice che quando un atomo perde un elettrone
diventa uno “Ione” positivo, se dovesse acquistarlo diventerebbe uno “Ione “
negativo. Le configurazioni elettroniche degli elementi alcalini sono così
riassunte:
Litio (Li) elettroni 3, configurazione : 2,1 (2 nella prima, 1 nella seconda orbita)
Sodio (Na) elettroni 11, configurazione orbitale
: 2, 8, 1
Potassio (K) elettroni 19, configurazione orbitale : 2, 8, 8, 1
Rubidio (Rb) elettroni 37, configurazione orbitale : 2, 8, 18, 8, 1
Cesio (Cs) elettroni 55, configurazione orbitale
: 2, 8, 18, 18, 8, 1
Francio (Fr) elettroni 87, configurazione orbitale : 2, 8, 18, 32, 18, 8, 1
Pertanto il Litio ha un elettrone in più dell’Elio, il Sodio ha un elettrone in
più del Neon, il Potassio(K, dal latino Kalium) uno in più dell’Argon, il Rubidio
uno in più del Kripton, il Cesio uno in più dello Xenon, il Francio uno in più del
Radon, quindi possiamo descriverli così:
Li = (He) + 1 elettrone
Na = (Ne) + 1 elettrone
K = (Ar) + 1 elettrone
Rb = (Kr) + 1 elettrone
Cs = (Xe) + 1 elettrone
Fr = (Ra) + 1 elettrone
24
In questi atomi alcalini le orbite complete non svolgono alcun ruolo dal
punto di vista chimico-fisico in quanto sono estremamente stabili, l’unico
componente che partecipa ai processi è l’elettrone esterno.
1.3 I metalli e la conduzione elettrica.
E passiamo ora ad un gruppo molto importante, il gruppo 11 (sottogruppo IB)
comprendente Rame, Argento ed Oro che sono i metalli conduttori di elettricità
per antonomasia. La loro configurazione elettronica è così riassunta:
Rame (Cu)
= 29 elettroni , struttura 2, 8, 18, 1
Argento (Ag) = 47 elettroni , struttura 2, 8, 18, 18, 1
Oro (Au)
= 79 elettroni , struttura 2, 8, 18, 32, 18, 1
( * ) (la denominazione del rame deriva dal latino Cuprum perché i Romani lo estraevano dall’isola di Cipro,
quella dell’oro deriva dal latino Aurum)
Come si vede, tutti e tre hanno una struttura simile tra di loro e simile agli
alcalini: hanno un certo numero di orbite complete e poi un solo elettrone
nell’ultima orbita, chimicamente sono monovalenti (valenza uno) cioè
partecipano alle reazioni chimiche scambiando un solo elettrone (quello
esterno). Quei 18 elettroni nella penultima orbita danno notevole stabilità
assieme ai precedenti strati elettronici altrettanto completi. L’elettrone esterno è
isolato, è distante dal nucleo per cui è debolmente “legato” ad esso anche perché
è in qualche modo “schermato” dagli strati elettronici negativi. Ebbene in questi
metalli avviene che basta una pur debole energia come la temperatura ambiente
e l’elettrone esterno si stacca dall’atomo di appartenenza, abbandona la sua
orbita, diventa “libero” e si muove liberamente nella struttura del metallo. Gli
atomi di questi metalli sono organizzati secondo una struttura cubica, occupano
cioè gli spigoli di un cubo. Questo tipo di struttura è molto regolare e conferisce
solidità e stabilità. Immaginiamo quindi un elettrone “libero” per ogni atomo,
avremo un numero estremamente grande di elettroni “liberi” che si muovono
liberamente all’interno del metallo costituendo come una nuvola elettronica,
come un gas elettronico. Un pezzo di Rame (oppure di Argento o Oro) lo si deve
immaginare come una rete infinita di atomi disposti in modo regolare secondo
gli spigoli di un cubo e poi un gas di elettroni che si muove liberamente. Questa
caratteristica è riscontrata solo nei metalli. Ebbene, questi elettroni liberi nei
metalli, se sono sollecitati da una forma di energia si muoveranno tutti in una
direzione e costituiscono la corrente elettrica. L’energia, nella sua forma più
semplice, è una normale pila elettrica con i poli positivo e negativo ed il suo
potenziale in Volt Un circuito elettrico semplice è costituito da una pila e da
una lampadina ad essa collegata mediante fili conduttori di rame ( o altro tipo
di conduttore).
25
Riassumiamo quindi : “ La corrente elettrica è un flusso ordinato di elettroni
che si muovono in un metallo sotto la sollecitazione di una forza elettromotrice”; normalmente è il polo positivo che attrae gli elettroni e li fa fluire tutti
insieme ordinatamente negli spazi interatomici. Vedremo in seguito le leggi che
regolano il fluire di questa corrente elettrica, la cui intensità I si misura in
Ampère (omaggio al grande fisico francese che ne studiò e sperimentò le
caratteristiche). La corrente, nel suo fluire, incontra un ostacolo sia all’interno
nei fili conduttori che in altri materiali presenti nel circuito . Questa
caratteristica si chiama “resistenza” , si indica con R e si misura in “Ohm” in
omaggio al fisico tedesco Georg Ohm che ne studiò e sperimentò le proprietà,
ricavandone 2 leggi che fissano le relazioni tra le grandezze fisiche. L’energia
potenziale elettrica, quella fornita da una pila e da tutte le altre sorgenti di
energia elettrica, si indica con V e si misura in “volt” in omaggio al fisico
italiano Alessandro Volta che inventò la pila elettrica. La legge che Ohm trovò
sperimentalmente possiamo descriverla così : “ L’Intensità I della corrente
elettrica è direttamente proporzionale al potenziale V ed è inversamente
proporzionale alla resistenza R “, cioè aumentando V aumenta l’intensità I,
aumentando R l’Intensità di corrente diminuisce. Chiaramente quegli elementi (
e ciò si estende anche ai composti di più atomi cioè alle molecole) che non sono
come i metalli tipo rame, argento e oro, cioè non presentano una struttura
atomica con un elettrone libero esterno, non sono conduttori di elettricità e sono
quindi “ isolanti”. In base a quanto descritto, ci si aspetterebbe che l’oro fosse il
miglior conduttore di elettricità in quanto ha un numero di elettroni orbitali
maggiore dell’argento e di conseguenza l’elettrone più esterno (quello di
conduzione) che diventa libero è molto distante dal nucleo e dovrebbe conferire
maggiore conducibilità elettrica.
Ma proprio perché l’atomo di oro ha un numero atomico elevato, il volume
occupato è maggiore che nel caso dell’argento e subentra il meccanismo di urti
degli elettroni con gli atomi e questi urti (che limitano la mobilità elettronica)
sono maggiori nell’oro piuttosto che nell’argento perché in quest’ultimo gli spazi
interatomici sono maggiori.
Le caratteristiche elettriche dei materiali sono definite mediante due
grandezze fisiche, la conducibilità elettrica e la resistività . Sono entrambe simili
al peso specifico dei corpi. La resistività è la resistenza specifica cioè la
resistenza per unità di lunghezza, di area o di volume. La conducibilità è il suo
inverso, rappresentando la capacità di condurre elettricità.
26
In ordine, gli elementi che hanno migliore conducibilità sono Argento, Rame,
Oro, Alluminio. Il rame è il più usato per il basso costo, l’oro viene usato in
applicazioni sofisticate (laboratori spaziali) dove è importante la contaminazione
e la degenerazione provocata da agenti atmosferici, dato che l’oro è il metallo
nobile per eccellenza che non viene ossidato né attaccato da alcun agente
esterno.
27
CAPITOLO SECONDO
SEMICONDUTTORI
28
2.1. Semiconduttori
Abbiamo detto sin dall’inizio che i microchips e tutti i componenti elettronici
in genere sono costituiti da Silicio opportunamente trattato con procedimenti
chimico-fisici e tecniche fotolitografiche di alta precisione e miniaturizzazione.
Le tecnologie di produzione dei componenti elettronici, che hanno portato in 50
anni all’attuale sviluppo di tutti i dispositivi
digitali, computer,
telecomunicazioni e quant’altro, partono tutte dal semplice Silicio.
Abbiamo visto che i materiali si comportano da conduttori di elettricità ( e
questo riguarda prevalentemente i metalli che hanno un solo elettrone
nell’orbita esterna)) oppure da isolanti ( e ciò riguarda quegli elementi i cui
atomi hanno una struttura orbitale elettronica completa). Il Silicio non
appartiene a queste due categorie, avendo un comportamento intermedio; la sua
struttura orbitale è rappresentata in fig. 10 dove si notano le prime due orbite(K
ed L) piene e la terza orbita contenente 4 elettroni.
Per comprendere perché il Silicio ha queste peculiarità torniamo alla tavola
periodica degli elementi e soffermiamoci sul sottogruppo IVB che comprende il
Carbonio, il Silicio, il Germanio. Questi atomi sono chimicamente
“tetravalenti”, hanno tutti e tre 4 elettroni nell’orbita esterna e la distribuzione
orbitale è la seguente:
Carbonio (C) : n.ro atomico : 6, orbitali : 2 elettroni K, 4 elettroni L
Silicio
(Si) : n.ro atomico : 14, orbitali : 2, 8, 4
Germanio (Ge) : n.ro atomico : 32, orbitali : 2, 8, 18, 4
Abbiamo già visto che la struttura orbitale più completa e compatta è quella
che comprende 8 elettroni ( ricordiamoci dei gas nobili), questi 3 elementi
avendone 4 nell’orbita esterna non sono certamente conduttori di elettricità. Si
avvicinano un po’ agli isolanti se guardiamo alla loro struttura cristallina. Gli
atomi di Silicio, così come quelli di Carbonio e Germanio, sono legati tra loro
mediante un legame forte che è il legame “covalente”. Questo legame, che è uno
dei più forti in natura, è detto così perché due atomi si legano mettendo in
compartecipazione un elettrone ciascuno, in modo che i due elettroni ruotano
attorno ad entrambi e non appartengono più ad uno dei due ma ad entrambi
(fig. 11). Per chiarezza di rappresentazione, è più conveniente considerare
l’atomo di Silicio come un “nocciolo” (core) compatto comprendente il nucleo e
le prime due orbite che, essendo complete quindi stabili, non partecipano ai
processi chimico-fisici, e mettendo in evidenza i 4 elettroni periferici che di fatto
sono i soggetti . Simbolicamente in Chimica si suole rappresentare il legame
29
covalente come in fig. 12 in cui il “core” è un cerchio ed i legami covalenti sono
rappresentati da linee.
Silicio
Germanio
Fig. 10
Atomo di Silicio (a sinistra) e atomo di Germanio (a destra). Al
centro il nucleo con l’indicazione della carica positiva (protoni) che bilancia la
carica complessiva negativa degli elettroni. La notevole differenza del numero di
orbite occupate conferisce al Germanio caratteristiche diverse, più vicine ai
conduttori metallici.
In figura 12 sono rappresentati solo 2 atomi di Silicio, le due linee che li
collegano rappresentano il legame covalente che li unisce e che in realtà è
costituito da due elettroni in compartecipazione. Le linee singole rappresentano
gli altri tre elettroni esterni, che formeranno altrettanti legami covalenti con
30
atomi vicini. Infatti in una rappresentazione bidimensionale (fig. 13), vediamo
come ogni atomo di Silicio sia circondato da quattro atomi con i quali forma 4
legami covalenti con ognuno dei suoi quattro elettroni esterni.
Questa struttura è molto regolare, è molto stabile non essendovi possibilità
dinamiche di spostamenti elettronici, i quattro elettroni esterni di ogni atomo
sono rigidamente impegnati nei quattro legami covalenti. Tutto ciò conferisce
uno stato chimico-fisico di una solidità fortissima.
Quella mostrata in figura 13 è anche la struttura del diamante che è una
delle forme in cui si presenta il Carbonio che appunto appartiene allo stesso
quarto sottogruppo cui appartengono Germanio e Silicio ; ricordiamoci che il
Carbonio ha numero atomico 6 pertanto ha 6 elettroni attorno al nucleo, 2 nella
prima orbita, 4 nella seconda. Rispetto al Silicio, il Carbonio, avendo i 4
elettroni esterni nella seconda orbita (quindi più vicini al nucleo e pertanto
maggiormente legati), ha una struttura più rigida. Viceversa il Germanio,
avendo i 4 elettroni nella quarta orbita, è il meno rigido.
Se ci soffermiamo sulla figura 13 e ripensiamo al meccanismo di formazione
dell’elettrone libero nei metalli (Rame, Argento e Oro) in quanto unico
nell’orbita esterna, da cui scaturisce il “gas di elettroni” che costituisce la
corrente elettrica, appare evidente che nel Silicio, ed in generale negli elementi
del quarto sottogruppo, non possono esserci elettroni liberi pertanto questi
elementi, allo stato naturale, non sono conduttori di elettricità bensì sono dei
31
perfetti isolanti. Dobbiamo, però, considerare gli effetti della temperatura
ambiente : Già a 20 gradi centigradi l’energia termica negli atomi provoca un
aumento dell’energia cinetica degli elettroni che li fa ruotare più velocemente
attorno ai nuclei. Succede allora che, statisticamente, qualche elettrone
abbandona per sempre il legame covalente e si allontana dall’atomo di
appartenenza (fig.15 a di pag. 36) diventando a tutti gli effetti “libero” , così
come gli elettroni liberi nei metalli.
Questo avviene in media in un atomo su un milione di atomi pertanto il
numero di elettroni liberi che si formano per effetto della temperatura non è
paragonabile a quella a quello dei metalli, ma ciò costituisce una parvenza di
conduzione elettrica. Ma nel Silicio la situazione è più complessa : l’elettrone
che rompe il legame covalente e diventa libero, quindi vaga nella struttura
cristallina, lascia un “vuoto” ed essendo l’elettrone negativo, l’atomo da cui si è
staccato non è più elettricamente neutro ma ha una carica positiva non più
compensata. Diciamo che si è creata una “lacuna “ (hole) con carica positiva.
In altre parole, per ogni elettrone che si libera si viene a creare un “vuoto”,
un legame mancante, una carica positiva localizzata. Ma ricordiamoci che la
natura tende sempre a ritornare in una situazione stabile. Allora questo “vuoto”
non resiste a lungo perché è una situazione instabile, succede che uno degli
elettroni nelle vicinanze ( il più “sperto”) , uno che era in procinto di lasciare il
legame covalente, uno che aveva meno energia di legame, abbandona il proprio
legame, la propria posizione e viene attratto irresistibilmente da quel “vuoto”
legandovisi per sempre e “colmando quella lacuna”.
Ma il suddetto elettrone, nel momento in cui si sposta, lascia a sua volta una
lacuna nella posizione di provenienza; diciamo che la lacuna si è spostata. E
allora si ricomincia perché un altro elettrone nelle vicinanze viene attratto da
questa nuova lacuna , rompe il proprio legame e colma la lacuna, lasciandone a
sua volta un’altra. (figg. b,c,d,e di pag.36).
Questo si ripete all’infinito, per cui dal momento in cui si è rotto il primo
legame per effetto della temperatura, si è creato un elettrone (negativo) libero di
muoversi nel cristallo come l’elettrone di conduzione dei metalli;
contemporaneamente si è creata una “lacuna” con carica eguale ed opposta
(cioè positiva) che si allontana dal posto originario per successivi salti dovuti in
realtà ad elettroni che colmano i vuoti. La “lacuna” pertanto non è una
particella reale come l’elettrone, è appunto “un vuoto” , ma poiché in questo
vuoto è localizzata una carica elettrica positiva, noi per semplicità di
rappresentazione “materializziamo” questo vuoto come se fosse una particella,
parlando appunto di “lacuna” (hole) “come se fosse” una particella materiale.
32
Fig. 14 Rappresentazione tridimensionale del cristallo di Silicio: nella struttura
cubica, ogni atomo è circondato da 4 atomi.
Per quanto sopra descritto e come mostrato nella figura 15, riassumiamo
affermando che nel Silicio, a temperatura ambiente, per effetto della rottura di
un certo numero di legami covalenti, si creano elettroni liberi e lacune (di carica
positiva) libere che si muovono all’interno del cristallo di Silicio in modo casuale.
Se si applica una sorgente di energia elettrica (es. una pila) suddette cariche si
muoveranno in modo ordinato, gli elettroni verso il polo positivo e le lacune
33
verso quello negativo. Pertanto , a differenza dei metalli, in cui i portatori di
carica sono esclusivamente elettroni negativi, nel Silicio si hanno due tipologie di
portatori di carica di ugual valore ma di segno opposto, appunto elettroni e
lacune.
La conducibilità che ne consegue è nettamente minore che nei metalli dato
che in questi ultimi si hanno tanti elettroni liberi quanti sono gli atomi, mentre
nel Silicio gli elettroni (e di conseguenza le lacune) sono statisticamente uno per
ogni milione di atomi. Inoltre notiamo che gli elettroni sono realmente liberi di
muoversi, le lacune invece, essendo frutto di successivi salti, hanno una mobilità
inferiore (in seguito ci ricorderemo di questa differenza).
Abbiamo visto che il Silicio (così come il Germanio, molto meno il Carbonio)
a temperatura ambiente non si comporta come un isolante ma presenta una
conducibilità elettrica , anche se nettamente inferiore a quella dei metalli. E’
evidente che se aumentiamo la temperatura, il numero di legami covalenti che si
rompono è maggiore, maggiore sarà il numero delle coppie elettrone-lacuna che
si creano, maggiore sarà pertanto la conducibilità elettrica.
Questa caratteristica è contraria a quella presentata dai metalli, nei quali
aumentando la temperatura aumenta l’agitazione degli atomi con la
conseguenza che gli elettroni si muovono meno liberamente all’interno del
reticolo cristallino, per cui nei metalli aumentando la temperatura diminuisce la
conducibilità elettrica. Questa proprietà del Silicio di presentare a temperatura
ambiente una certa conducibilità elettrica, anche se nettamente minore di
quella dei metalli, è caratteristica di tutti gli elementi del quarto sottogruppo
della tavola periodica degli elementi, Carbonio, Silicio e Germanio (*) che
pertanto vengono chiamati “Semiconduttori”. Ma non è soltanto per questo
motivo che prendono tale denominazione e l’importanza che ne consegue. Di per
sé la dipendenza della conducibilità elettrica dalla temperatura non costituisce
un grosso vantaggio. I Semiconduttori sono diventati determinanti per tutte le
applicazioni elettroniche per la possibilità che offrono di “controllare” in modo
lineare la loro conducibilità elettrica agendo opportunamente per via chimicofisica con tecniche molto particolari ma tutto sommato abbastanza semplici.
(*) Anche Stagno e Piombo fanno parte del sottogruppo IV come Silicio e Germanio ma, avendo
numero atomico maggiore (ricordiamo che il numero atomico coincide con il numero di elettroni esterni,
rispettivamente 50 e 82 per lo stagno ed il piombo) hanno i 4 elettroni esterni meno legati e si
comportano da discreti conduttori di elettricità. Per il motivo opposto il Carbonio, avendo i 4 elettroni
esterni nella seconda orbita, ha una struttura estremamente rigida che raggiunge il massimo nel
Diamante
34
Fig. 15: Si rompe un legame covalente e si libera un elettrone che lascia una
lacuna con carica positiva. Questa lacuna viene a sua volta colmata e così via.
35
Nella figura 15, nelle progressive fasi a), b), c), d) ed e), viene mostrato
come a partire dalla rottura di un legame covalente (fig. a) un elettrone
abbandona l’atomo di appartenenza e diventa a tutti gli effetti un elettrone
libero così come quello dei metalli, cioè un elettrone di conduzione elettrica.
Suddetto elettrone lascia un vuoto, una lacuna (hole) in cui è localizzata una
carica positiva; in un tempo infinitamente piccolo un elettrone, di un legame
covalente in prossimità, “sente” questo vuoto, viene attratto dalla carica
positiva e lascia il legame di appartenenza andando a colmare la lacuna
ripristinando il primitivo legame rottosi (figura b). Naturalmente si viene a
creare una nuova lacuna ma anche questa nuova situazione dura un tempuscolo
minimo perché un altro elettrone abbandona il proprio legame e viene a sua
volta attratto dalla carica negativa e si sposta per formare il nuovo legame.
Questo processo continua all’infinito (vedi figure c,d,e) con la risultante che
dopo l’iniziale (casuale) rottura di un legame covalente si crea un elettrone
libero, che vaga nel reticolo cristallino, ed una lacuna con carica positiva che si
sposta (in figura verso destra) per effetto relativo dei salti elettronici. Per
distinguerli, chiameremo il primo elettrone che si libera “elettrone di
conduzione” , i successivi che lasciano il primitivo legame per formarne uno
nuovo li chiameremo “elettroni di valenza”. Nella figura, per motivi didattici, è
mostrato un meccanismo di salti degli elettroni sempre da destra verso sinistra
per cui la lacuna iniziale si sposta di conseguenza da sinistra verso destra. Ciò è
puramente dimostrativo, in realtà il fenomeno è casuale e può avvenire in
qualsiasi direzione. Abbiamo detto in precedenza che la rottura di un legame
covalente è un evento statistico, cioè casuale, e dipende dalla temperatura.
Normalmente si spezza un legame ogni milione di atomi. Per avere un’idea
quantitativa di tale fenomeno ricordiamo che nei metalli gli elettroni di
conduzione sono uno per atomo cioè tutti gli atomi di Rame (Argento oppure
Oro) liberano il proprio elettrone appartenente all’ultima orbita. Sappiamo
dalla Chimica che il numero di atomi per unità di volume è il famoso “numero
di Avogadro” , dal nome dello scienziato chimico-fisico torinese Lorenzo
Amedeo Avogadro (1776-1856) che elaborò tale valore; tale numero si indica
con nA ed è pari a 6x 10 23 , che rappresenta il numero di atomi di una
sostanza in una grammomolecola o comunque numero per unità di volume.
Allora la densità degli elettroni nei metalli (numero/volume), che
chiameremo “n(M)” , coincide col numero di Avogadro, che è un numero con
ventitre zeri. Nei semiconduttori, poiché il numero di elettroni (così come quello
delle lacune) nasce dalla rottura dei legami covalente, che è un evento casuale
che si verifica statisticamente uno su diversi milioni di atomi, la densità
elettronica è inferiore a quella dei metalli ed è maggiore nel Germanio, avendo
l’atomo relativo 4 elettroni di legame in un’orbita più esterna, cioè più distante
dal nucleo di quanto non lo siano i corrispondenti 4 elettroni nel Silicio. la
densità elettronica del Germanio è 2,5x 10 13, mentre quella relativa del Silicio è
36
1,5x1010 Come abbiamo già visto, questi valori sono dipendenti dalla
temperatura nel senso che aumentando quest’ultima il numero di coppie.
Fig.16 Il meccanismo di spostamento delle lacune mostrato nelle figure a,b,c,d,f di pagina
24, può essere meglio compreso con un esempio reale. Consideriamo una fila di poltrone di un
teatro (fig. 16) e supponiamo che i posti siano tutti occupati meno uno. Quest’ultimo rappresenta
quindi un “vuoto” ; se uno spettatore vicino si alza dal proprio posto e va ad occuparlo, riempie
un vuoto e ne lascia un altro. Se questo procedimento si ripete con un altro spettatore ed un altro
ancora e sempre così di seguito, ecco che il posto vuoto sembra muoversi quando in realtà sono
gli spettatori che saltano da una poltrona all’altra. Il posto vuoto è l’immagine speculare di uno
spostamento reale. Se vogliamo cogliere una prospettiva riferita ai posti vuoti, affermiamo,
descrivendo questo evento, che il “vuoto” si sposta in senso relativo, ricordandoci sempre che il
vuoto non è una cosa materiale ma noi, per opportunità e convenienza, descriviamo l’evento
“materializzando” il posto vuoto che diventa un soggetto descrivibile. Così avviene per le lacune
in un semiconduttore.
37
elettrone-lacuna cresce esponenzialmente fino a raggiungere a 700 °C il valore
di 10 elevato a 18 per il Germanio e 10 alla 16 per il Silicio. Oltre i 700 gradi tale
valore rimane costante e comunque è nettamente inferiore a quello dei metalli,
per cui si può affermare che i semiconduttori, pur avendo un certo numero di
cariche libere, sono scarsi conduttori di elettricità . Riassumendo, le densità
elettroniche nei metalli e nei due principali semiconduttori Silicio e Germanio
sono:
n M = 6 x 10 23
n Ge = 2,5 x 10 13
n Si = 1,5 x 10 10
La caratteristica, presentata dai semiconduttori, di avere una conducibilità
elettrica dipendente dalla temperatura non offre vantaggi applicativi dato che
sarebbe alquanto difficoltoso controllare appunto la conduzione elettrica agendo
sulla temperatura, anzi questo fenomeno risulta (come vedremo in seguito) uno
svantaggio addirittura dannoso, tanto è vero che nelle apparecchiature
elettroniche di una certa delicatezza, ad es. i personal computer vi sono delle
ventole di raffreddamento per mantenere la temperatura al disotto di valori
pericolosi. In ogni caso possiamo affermare con certezza che i semiconduttori a
temperatura ambiente presentano cariche libere negative (elettroni) e cariche
libere positive (lacune) e, poiché entrambe nascono da uno stesso meccanismo
che è la rottura di un legame covalente per effetto dell’energia termica, queste
cariche sono in egual numero. Se indichiamo con “n” la densità di elettroni
liberi e con “p” la densità di lacune libere, allora sarà:
n = p
Teniamo presente questa relazione perché in seguito ci ritorneremo. Per
comprendere il meccanismo e le tecniche mediante le quali è invece possibile
controllare linearmente la conducibilità di un semiconduttore (a prescindere
dalla temperatura), in modo da utilizzare in applicazioni questa pecularietà, è
necessario ritornare ancora una volta alla tavola periodica degli elementi (pag.
13 ). Dalle considerazioni fatte sin qui è emerso che i sottogruppi verticali
riuniscono elementi omogenei con caratteristiche comuni come la valenza
chimica che poi corrisponde al numero di elettroni nell’orbita esterna. Abbiamo
visto che Rame, Argento e Oro appartengono al sottogruppo 1B e sono i migliori
conduttori di elettricità , Silicio e Germanio appartengono al sottogruppo IVB e
si comportano da semiconduttori, i gas nobili (Elio, Neon, Argon, Kripton,
Xenon, Radon) al sottogruppo VIIIB ed hanno orbite complete e compatte per
cui non partecipano a processi chimico-fisici , gli alcalini (Litio, Sodio, Potassio,
Rubidio, Cesio, Francio) sono monovalenti e presentano, non
essendopropriamente metalli, caratteristiche di conduzione elettrica nelle
soluzioni.
38
2.2 Doping
Consideriamo ora gli elementi nei sottogruppi IIIB e VB che sono le colonne
prima e dopo quella del Silicio. Vi troviamo elementi trivalenti (tre elettroni
nell’ultima orbita) come Boro, Alluminio, Gallio, Indio, Titanio ed elementi
pentavalenti ( 5 elettroni esterni) come Azoto(N), Fosforo(P), Arsenico(As),
Antimonio(Sb), Bismuto. A parte l’Azoto che è un gas ed il Bismuraro, tutti
questi elementi possono “combinarsi” con i semiconduttori Germanio e Silicio
che sono tetravalenti ( 4 elettroni esterni); addirittura l’affinità, derivante dal
fatto che differiscono per un solo elettrone esterno, è tale che gli atomi di questi
elementi del terzo e quinto gruppo possono (con procedimenti chimico-fisici che
vedremo in seguito) inserirsi nel reticolo cristallino dei semiconduttori.
Consideriamo il Fosforo (P come phosphorus), numero atomico 15 (uno in
più del Silicio) con distribuzione orbitale : 2 elettroni nella prima orbita, 8 nella
seconda, 5 nella quinta. Con procedimenti chimico-fisici (che vedremo in
seguito) è possibile inserire atomi di fosforo nel reticolo cristallino di un
semiconduttore come il Silicio oppure il Germanio (fig. 24). Un atomo di fosforo
si lega con atomi di Silicio adiacenti (le quantità sono tali che attorno a tale
atomo ci sono milioni di atomi di Silicio) formando quattro legami covalenti, cioè
mette in compartecipazione 4 dei suoi 5 elettroni esterni con ciascuno dei 4 atomi
di Silicio che lo circondano.
Fig. 26
Un atomo di fosforo nel reticolo del Silicio
Il quinto elettrone risulta non legato e quindi diventa “libero” di muoversi
nel cristallo di Silicio, abbandona pertanto per sempre l’atomo di appartenenza
e si aggiunge agli elettroni liberi già presenti per effetto della rottura ( causa
della temperatura) di alcuni legami covalenti e costituenti la densità elettronica
“intrinseca” , cioè nel Silicio puro in assenza di atomi di altri elementi. Il fosforo
pertanto “dona” al Silicio un elettrone libero indistinguibile da quelli già
presenti per cui la conducibilità aumenta. L’atomo di fosforo perde quindi
definitivamente uno dei suoi 5 elettroni esterni e diventa pertanto uno “Ione”
positivo, ma è una carica elettrica fissa essendo solidamente legata al reticolo
39
cristallino. Teniamola comunque presente perché in seguito svolgerà un ruolo
importante.
Quanti elettroni può donare il fosforo? Tanti quanti atomi di fosforo
riusciamo ad inserire nella struttura cristallina del Silicio. Lo stesso
procedimento è possibile realizzarlo utilizzando, invece del fosforo, un altro
atomo di elementi pentavalenti del quinto sottogruppo, cioè Arsenico oppure
Antimonio. La scelta di uno piuttosto che l’altro è dettata da motivi di
opportunità, di costo, oppure contingenti se si usano particolari tecniche di
inserimento nel semiconduttore . Questi atomi, per la loro caratteristica di
“donare” al Silicio elettroni liberi ( elettroni di conduzione) vengono chiamati
“donatori” ( donors). Chiaramente il processo descritto, inserire atomi diversi
nella struttura cristallina di un semiconduttore, è possibile soltanto con atomi
affini( come i suddetti pentavalenti) oppure (come vedremo) con atomi di
elementi trivalenti altrettanto affini (Boro, Alluminio, Gallio, Indio).
Per quanto detto, è possibile aumentare la conducibilità del Silicio mediante
l’inserimento di atomi pentavalenti e questo procedimento (realizzato con
diverse tecniche che vedremo in seguito) viene chiamato “doping” (drogaggio)
appunto perché modifica lo stato naturale del semiconduttore conferendogli
caratteristiche migliori, in questo contesto la conducibilità elettrica. D’ora in poi
non ci meraviglieremo se useremo la coniugazione del verbo “drogare” in tutte
le sue forme, per cui il fosforo è un” drogante”, il Silicio è” drogato” con
fosforo. L’uso di tale denominazione (doping) nel contesto dei semiconduttori, è
nato negli anni cinquanta quando il doping con droghe assunte dall’uomo non
aveva raggiunto il fenomeno degenerativo odierno.
Se ora riprendiamo il valore “n” che indica la densità elettronica in un
semiconduttore, specifichiamo con “ni” quella relativa al solo effetto termico
chiamata “intrinseca” perché il semiconduttore è puro (non drogato),
indichiamo con “ nd” il numero di cariche aggiunte per effetto del drogaggio
mediante fosforo oppure altro elemento pentavalente “donatore”, dopo il
drogaggio la densità elettronica sarà la somma del termine intrinseco e del
termine dovuto al doping, il primo è un valore fisso (a temperatura costante)
mentre il secondo è variabile a seconda dell’intensità del drogaggio. Sarà allora :
n = ni + nd
(1)
n > p
(2)
L’espressione (2) indica che in un semiconduttore drogato con atomi
pentavalenti la conducibilità dovuta agli elettroni è nettamente maggioritaria
rispetto a quella dovuta alle lacune, in quanto il doping fornisce elettroni, tanti
quanti sono gli atomi di drogante.
Pertanto è chiaro adesso come controllando la quantità di fosforo iniettato
nel Silicio si possa controllare la conducibilità elettrica e poiché i portatori di
40
carica sono gli elettroni (vedremo che è possibile una conducibilità per lacune) il
semiconduttore drogato con fosforo si dice “tipo N”.
Consideriamo ora gli atomi del sottogruppo IIIB della tavola periodica
degli elementi : Boro, Alluminio, Gallio, Indio. Sono trivalenti, pertanto
presentano 3 elettroni nell’orbita esterna. Prendiamo il Boro, numero atomico
5 con 2 elettroni nella prima orbita e 3 nella seconda. Se “droghiamo” il
Silicio con atomi di Boro, questi (così come il fosforo) si inseriranno nel reticolo
cristallino del Silicio formando legami covalenti (fig. 27 ). Però il Boro ha
soltanto 3 elettroni disponibili per cui forma 3 legami covalenti e gli resta un
vuoto in cui è localizzata una carica negativa poiché manca complessivamente
un elettrone, si è creata una lacuna così come si crea quando, per effetto termico,
si rompe un legame covalente ed un elettrone “scappa” dal suo posto. Ma, come
abbiamo visto nel caso del Silicio intrinseco, questa lacuna dura un battito di
ciglio perché il solito elettrone “sperto” nelle vicinanze, quello che era sul punto
di abbandonare il legame covalente, sente l’attrazione di questa lacuna positiva e
irresistibile lascia il suo posto e colma la lacuna creata dall’atomo di Boro
(fig.28 ).
Fig.27
(1) Sono le prime formule che scrivo ma le espressioni matematiche non mi
sembrano micidiali. Una espressione di primo grado ed una semplice
disequazione.
Chi ha studiato Fisica avrà notato come a pag. 16,
elegantemente, ho saltato la famosa legge di Ohm.
Tutto procede come abbiamo visto a pagina 36 figure a,b,c,d,f, cioè ogni lacuna
che si forma viene immediatamente colmata da un elettrone e così, con
41
successivi salti elettronici in una direzione, la lacuna “si sposta” in direzione
opposta e si va ad aggiungere alle lacune libere create per effetto termico.
Fig. 28
Così come il fosforo, anche l’atomo di Boro diventa uno Ione, cioè un atomo
non più elettricamente neutro, ma avendo acquistato un elettrone (quello che
colma la prima lacuna formatasi perché il Boro ha soltanto 3 elettroni
disponibili, si crea uno Ione negativo, mentre il fosforo diventa Ione positivo in
quanto perde il suo quinto elettrone che non può legarsi nella struttura
covalente con il Silicio. L’atomo di Boro costituisce una carica elettrica fissa
poiché è fortemente legata nella struttura covalente. Il Boro, così come gli altri
elementi del sottogruppo IIIB, si chiama drogante “accettore” perché acquista
un elettrone per completare i 4 legami covalenti con 4 atomi di Silicio.
Per quanto descritto, drogando il Silicio con atomi trivalenti (“accettori”)
come il Boro, si producono lacune (positive) in numero pari alla quantità di
atomi droganti; queste lacune si aggiungono a quelle prodotte nel
semiconduttore intrinseco per
effetto della temperatura diventando
“maggioritarie” rispetto agli elettroni (cariche negative) che pertanto diventano
“minoritari”. Il Silicio drogato con Boro diventa “tipo P “ poiché le cariche
maggioritarie sono lacune positive e valgono le seguenti relazioni :
p = p(i) + p(a)
(3)
p > n
(4)
In queste espressioni p è la densità complessiva delle lacune, n è la densità
degli elettroni, p(i) è il contributo di lacune intrinseche, p(a) sono lacune dovute
al drogaggio. Prima di proseguire, ricapitoliamo quanto abbiamo descritto :
I semiconduttori come Germanio e Silicio sono elementi che, allo stato naturale,
cioè puri e privi di elementi estranei, dal punto di vista della conducibilità
elettrica si comportano in maniera intermedia tra conduttori metallici e gli
isolanti. Però a temperatura ambiente, per effetto della rottura di un certo
numero di legami covalenti, si creano coppie di elettroni (negativi) e lacune
42
(positive) in egual numero che cresce all’aumentare della temperatura stessa.
Queste cariche consentono una minima conducibilità nettamente inferiore a
quella dei metalli. E’ invece possibile “drogare” i semiconduttori iniettando al
loro interno (con sofisticate tecniche che vedremo in seguito) atomi di elementi
trivalenti o pentavalenti quali Boro, Fosforo, Alluminio, Arsenico, Gallio,
Antimonio. Gli elementi pentavalenti, es. fosforo, si inseriscono nel Silicio
formando legami covalenti e liberando il loro quinto elettrone pertanto
aumentano la conducibilità elettronica, che viene controllata dosando la
quantità di drogante. Contemporaneamente ogni atomo di fosforo, avendo perso
il suo quinto elettrone, diventa uno Ione positivo. Il Silicio così drogato si
chiama di “tipo N” avendo pertanto cariche negative in maggioranza. Se
invece si droga con elementi trivalenti (Boro etc.), allora il Silicio deve fornire
elettroni per colmare una lacuna per ogni atomo di Boro che ne ha solo 3 e deve
formare 4 legami covalenti con 4 atomi di Silicio che lo circondano. Abbiamo
visto che così si creano lacune positive in numero pari agli atomi droganti e
contemporaneamente ioni Boro negativi. Il Silicio drogato con Boro si indica
“tipo P ” .
.
In un semiconduttore drogato di tipo N vi sono in maggioranza cariche negative
libere (elettroni) rappresentate da cerchietti. La loro densità si può controllare facilmente
dosando il processo di doping che inietta atomi di drogante (nell’esempio fosforo). Vi sono
cariche fisse positive (quadratini) dovute a ioni fosforo. Nel Silicio drogato di tipo P le cariche
maggioritarie libere sono lacune positive, la cui densità si controlla dosando il doping con atomi
di Boro. Questi diventano cariche fisse negative. Non dimentichiamo che nel tipo N vi sono
pochissime ma non trascurabili lacune intrinseche (triangolino) che nascono per effetto termico
e sono preesistenti al drogaggio; sono dette cariche minoritarie libere. Nel tipo P vi saranno
elettroni liberi intrinseci, della stessa natura termica, che sono cariche minoritarie. In seguito
queste cariche minoritarie faranno la loro parte, purtroppo in senso negativo per cui dovranno
essere sempre sotto controllo. Sarà questo il motivo per cui si deve tenere sempre bassa la
temperatura, dato che se aumenta questa aumentano le cariche minoritarie e queste, vedremo,
danno fastidio perché costituiscono comunque un elemento incontrollabile che può portare ad
episodi negativi irreversibili.
Fig. 29.
43
Bene, facciamo ora una pausa di riflessione prima di proseguire per
arrivare a comprendere il primo concetto basilare che è il funzionamento di un
diodo al Silicio che rappresenta il mattone di tutto l’impianto dell’Elettronica
che a sua volta è alla base di tutte le tecnologie moderne quali l’Informatica, le
Telecomunicazioni, le imprese spaziali etc.
Abbiamo imparato concetti fondamentali, digeriamoli bene perché c’è
ancora tanta strada da percorrere, rivediamoli velocemente attraverso i nuovi
termini che abbiamo conosciuto e con cui dobbiamo familiarizzare; se qualche
parola ci richiama un argomento non chiaro, torniamoci indietro e cerchiamo di
decifrarlo meglio:
Chip, microchip, Led, diodo, circuito integrato, Silicio, Tavola
periodica degli elementi, atomo, elettrone, orbite, energia, metalli,
elettroni liberi, conduttori, isolanti, semiconduttori, elettricità, potenziale
elettrico, resistenza, corrente elettrica, circuito elettrico, energia termica,
elettroni e lacune nel silicio intrinseco, legami covalenti, drogaggio,
atomi donatori, atomi accettori, ioni positivi e negativi, cariche
maggioritarie e minoritarie, conducibilità, resistività.
Alcuni dei concetti esposti, come conducibilità e resistività, saranno comunque
ripresi nel seguito e diventeranno sempre più familiari e comprensibili.
Ricordiamo ancora, come abbiamo già accennato, che la conducibilità elettrica
(esiste anche la conducibilità termica), che è paragonabile al peso specifico,
rappresenta la conduzione per unità di lunghezza (riferendosi ai fili di metallo).
Il valore dipende dalla struttura atomica ed in particolare dal numero di
elettroni orbitanti attorno al nucleo ma la condizione indispensabile è quella che
ci sia un solo elettrone nell’ultima orbita che diviene libero di muoversi, come
avviene, abbiamo visto nei paragrafi precedenti, nei metalli come argento, oro,
rame.
La resistività (resistenza specifica), invece, è una grandezza legata alla
capacità dei corpi di opporsi al passaggio della corrente elettrica, quindi denota
la proprietà di essere buoni “isolanti”. I materiali buoni isolanti sono quelli i cui
atomi hanno orbite elettroniche piene e compatte per cui non vi è possibilità di
elettroni liberi, che sono quelli che costituiscono la corrente nei fili conduttori.
Alle due categorie descritte, conduttori e isolanti che hanno proprietà
opposte, si è aggiunta successivamente una terza categoria denominata
“semiconduttori” che ha proprietà intermedie ma straordinariamente versatili,
a tal punto che partendo dal Germanio e dal Silicio, che sono i semiconduttori
più usati e diffusi, è stato possibile sviluppare tutta l’Elettronica moderna fino
alle attuali tecnologie informatiche e telematiche. I processori, cuore dei
dispositivi come telefonini, smartphone, Tablet, Computer portatili, grossi
Computer, sono appunto realizzati partendo dal Silicio.
44
Adesso digeriamo questa prima parte e prepariamoci a sempre più complessi
argomenti che ci dovranno portare lontano. La strada è lunga e aspra ma non
impossibile.
45
CAPITOLO TERZO
IL DIODO A GIUNZIONE
46
3.1 La giunzione P-N
In figura 29 (pagina 44) abbiamo sintetizzato lo stato relativo a due
situazioni in cui il Silicio è drogato con boro oppure con fosforo e diventa
rispettivamente tipo P e tipo N. Nel primo caso si ha una maggioranza di cariche
libere positive (lacune in cerchietti) ed una minoranza di cariche libere negative
(elettroni in triangolini). Vi sono poi cariche “fisse” negative costituite da ioni
Boro (quadratini). Nel secondo caso (tipo N) si ha una maggioranza di cariche
libere negative (elettroni in cerchietti), una minoranza di cariche libere positive
(lacune in triangolini) e cariche fisse costituite da ioni fosforo (quadratini).
Uniamo adesso queste due zone tipo N e tipo P insieme (fig. 30) per formare
quella che si chiama “giunzione P-N “ (vedremo in seguito le tecniche per
formare una tale giunzione) e supponiamo che abbiano uguale densità di doping
per cui vi è una distribuzione uniforme di cariche elettriche (in seguito vedremo
che in alcuni casi può non essere conveniente che sia così)
Figura 30. Giunzione P-N
Sappiamo che cariche elettriche di segno opposto si attraggono mentre cariche
elettriche dello stesso segno si respingono. Allora nella giunzione gli elettroni
maggioritari della zona N vengono attratti dalle lacune maggioritarie della zona
P (entrambi in cerchietti) e si muovono per incontrarsi. Anche le cariche
minoritarie (elettroni nella zona P e lacune nella zona N, in triangolino)
potrebbero attrarsi ma sono in numero esiguo e non riescono ad attraversare la
giunzione. Invece gli elettroni maggioritari della zona N attraversano la
47
giunzione e vengono attratti irresistibilmente dalle lacune della zona P
(ricordiamoci che gli elettroni hanno una mobilità maggiore delle lacune). Che
succede quando un elettrone incontra una lacuna? Ricordiamoci che la lacuna è
un vuoto, è un legame covalente mancante, è una carica positiva in quanto un
elettrone ha lasciato quel posto. Bene, l’elettrone attratto colma questo vuoto,
ripristina il legame covalente e non si muove più. L’elettrone e la lacuna, nel
momento in cui riformano un legame, non esistono più come entità singole,
perdono la loro libertà, si dice in gergo che si sono “ricombinati”.
Fig. 31. Zona di svuotamento ( depletion layer )
Queste ricombinazioni però non durano a lungo. Quando gli elettroni e le
lacune che si trovavano in prossimità della giunzione si sono ricombinati,
ulteriori elettroni, diciamo dalle retrovie, non riescono più ad attraversare la
giunzione poiché, essendosi ricombinati elettroni e lacune non vi sono più
cariche libere e si evidenziano (fig. 31) gli ioni fissi (quadratini). Adesso gli
elettroni vengono respinti dagli ioni negativi della zona P, così pure le lacune
vengono respinte dagli ioni positivi della zona N.
Il movimento di cariche libere si ferma, si viene a creare una zona, in
prossimità della giunzione, priva di cariche libere ma con una distribuzione di
cariche fisse ( ioni ) che impedisce un ulteriore passaggio di elettroni e lacune.
Q
uesta zona si chiama “depletion layer “ che significa zona di svuotamento
e che tutti gli elettroni e le lacune di questa porzione di giunzione si sono
ricombinati e rimangono solo le cariche fisse. A tutti gli effetti la “depletion
layer “ formatasi è una porzione isolante, non avendo appunto cariche libere e
di ciò ce ne ricorderemo in seguito). In figura 31 non sono rispettate le
48
proporzioni; la depletion layer è larga circa un micron ( un millesimo di
millimetro). Notiamo inoltre che lo spiegamento di ioni fissi rappresenta una
barriera di potenziale per le cariche libere che volessero attraversare la
giunzione e ricombinarsi. Gli elettroni “vedono” (sarebbe più corretto
“sentono”, ma mi piace qui dare vista agli elettroni) una barriera di ioni negativi
e le lacune “vedono” una barriera di ioni positivi. Questa barriera è
quantificata e vale 0,6 volt per il Silicio, 0,2 volt per il Germanio (il valore più
basso deriva dal fatto che il Germanio ha un numero atomico maggiore quindi i
suoi 4 elettroni più lontani dal nucleo, pertanto meno legati, di conseguenza
minore è l’energia in gioco).
Per quanto descritto, la situazione si blocca in quella rappresentata in figura
31 : dopo un iniziale movimento di elettroni verso la zona P e delle lacune verso
la zona N, spinti da attrazione reciproca, la zona attorno alla giunzione si svuota
di cariche libere perché lacune ed elettroni si neutralizzano incontrandosi e
formando un legame covalente. Le cariche libere di retrovia non possono più
attraversare la giunzione perché sono respinte dal potenziale elettrico generato
da ioni positivi e negativi. Nasce una depletion layer priva di cariche libere e
tutto si stabilizza così e, come deriva da un principio di Dinamica, rimane nel
suo stato di quiete fino a che non interviene una causa esterna capace di
modificarne lo stato. Una possibile causa esterna può essere energia elettrica ,
energia luminosa o energia termica, sufficienti per far superare la “barriera di
potenziale” prodotta dagli ioni nella depletion layer.
Come vedremo, fornendo energia elettrica nasce il diodo a giunzione con
numerose applicazioni elettroniche, fra le quali abbiamo citato il Led. Fornendo
energia luminosa nascono il fotodiodo, le cellule fotoelettriche e le batterie solari.
Non dimentichiamo che la giunzione nel suo complesso rimane un sistema
elettricamente neutro, vi sono peraltro delle cariche distribuite e differenziate
che però tra di loro sono bilanciate. Nella zona tipo N vi è un eccesso di elettroni
(maggioritari), una minima parte di essi è dovuta all’energia termica che già a
temperatura ambiente crea coppie elettrone-lacuna. La maggioranza sono
derivati dal drogaggio con fosforo e sono appunto bilanciati da ioni fosforo P +
fissi. Analogamente nella zona P vi è un eccesso di lacune (positive e
maggioritarie) di cui una minima parte è dovuta alla temperatura, la
maggioranza è dovuta al drogaggio con Boro ed è bilanciata da ioni negativi B -.
49
3.2
Giunzione PN polarizzata direttamente
Consideriamo ora una giunzione al Silicio come quella vista in figura 31 ed
applichiamole una forza elettro motrice (f.e.m.) dall’esterno, figura 32, che sia
superiore alla barriera di potenziale (o,6 volt) che si è creata nella depletion
layer. Inizialmente colleghiamo il polo positivo della batteria al lato della
giunzione tipo P e quindi il lato negativo alla zona tipo N. In sostanza stiamo
fornendo energia elettrica alle cariche libere in quantità sufficiente a superare il
muro di potenziale della barriera di ioni. Bene, succede proprio che
Fig. 32 Giunzione P-N polarizzata direttamente
tutti gli elettroni maggioritari della zona N sono attratti dal polo positivo della
batteria ed essendo il potenziale di quest’ultima superiore alla barriera di
potenziale costituita da ioni negativi, gli elettroni scavalcano il muro della
depletion layer e proseguono verso il positivo della batteria esterna. Lo stesso
accade per le lacune maggioritarie della zona drogata P. Esse vengono attratte
50
dal polo negativo della batteria ed avendo energia sufficiente scavalcano
anch’esse il muro della barriera di potenziale costituita da ioni positivi.
In sostanza gli elettroni vanno dalla zona N alla zona P scavalcando la
depletion layer, proseguono verso il polo positivo e poi, sospinti dalla batteria,
ritornano dal circuito dentro la zona N e così via circolano costituendo una
corrente elettrica misurata dall’amperometro A inserito nel circuito. Il flusso
di elettroni circola pertanto in senso orario. Per motivi storici, il verso della
corrente, per convenzione, va dal positivo della batteria esternamente fino al
polo negativo, quindi in senso antiorario. Ciò non è un problema perché sono
solo convenzioni estetiche, l’importante è sapere cosa avviene realmente.
Lo stesso fenomeno descritto accade per le lacune che si muovono in senso
inverso a quello degli elettroni. Alle cariche maggioritarie occorre aggiungere le
cariche minoritarie (triangolini) che sentono anch’esse l’attrazione della forza
elettro motrice esterna.
Naturalmente c’è l’imprevisto : la maggioranza degli elettroni che scavalcano la
depletion layer proseguono verso il polo positivo della batteria e circolano nel
circuito in senso orario attratti dal positivo e risospinti nella zona N dal polo
negativo. Ma il loro cammino non è tutto liscio : bisogna considerare che nel loro
movimento sono soggetti ad urti con atomi di Silicio e con gli Ioni Boro negativi
che ne abbassano la velocità. Ciò costituisce una vera e propria “resistenza” al
loro passaggio e ne scaturisce una limitazione nel valore della corrente che
circola nel circuito.
Inoltre dobbiamo considerare il fenomeno della “ricombinazione” cui
abbiamo già accennato : gli elettroni e le lacune si attraggono irresistibilmente e
la probabilità che un elettrone colmi una lacuna non è trascurabile e quando ciò
avviene, come abbiamo già descritto, entrambi scompaiono come entità singole
perché formano un legame covalente e ciò è irreversibile; ne deriva che la
corrente elettrica subisce una ulteriore diminuizione. La probabilità che un
elettrone colmi una lacuna dipende dalla sua velocità : maggiore è questa,
minore è la probabilità che l’elettrone si fermi ad unirsi ad una lacuna, viceversa
se l’elettrone è lento è più probabile che si ricombini con una lacuna. La velocità
degli elettroni a sua volta dipende dalla forza elettromotrice che li sospinge,
pertanto ne deriva quanto era prevedibile :
Se il potenziale esterno della batteria si mantiene su valori inferiori alla
barriera di potenziale della depletion layer, gli elettroni e le lacune non hanno
energia sufficiente a scavalcare, rispettivamente, il muro di Ioni Boro (negativi)
e Ioni fosforo (positivi). Appena il potenziale esterno supera la soglia della
barriera di potenziale, le cariche libere superano la barriera e circola una
corrente che è direttamente proporzionale al valore della f.e.m esterna, così
come avviene in un normale circuito elettrico con elementi conduttori di
elettricità.
51
Nella giunzione a semiconduttore che stiamo descrivendo subentra un
ulteriore fenomeno che differenzia quanto succede nei conduttori : aumentando
il potenziale della batteria, si raggiunge un valore di saturazione per cui la
corrente assume un valore costante; ciò avviene perché la quantità di cariche
libere è limitata e tutti gli elettroni e le lacune attraversano la giunzione,
aumentano sì la loro velocità ma la loro quantità è limitata dalla dose di
drogaggio operato con Boro e Fosforo.
In altre parole, al disotto della soglia della barriera di potenziale elettroni e
lacune non riescono a superarla; superando la soglia di poco, elettroni e lacune
oltrepassano la barriera ma siccome la loro energia è debole, la loro velocità
bassa determina un notevole numero di ricombinazioni e urti con atomi e Ioni
per cui la corrente si mantiene bassa.
Aumentando il potenziale esterno, aumenta l’energia degli elettroni e delle
lacune, aumenta la loro velocità, aumenta il numero di cariche che supera la
barriera ed evita urti e ricombinazioni, aumenta la corrente elettrica misurata
dall’amperometro, fino ad un valore limite di saturazione per cui tutte le cariche
disponibili concorrono a formare la corrente e ciò è limitato dalla quantità di
drogaggio delle zone N e P.
Il tipo di polarizzazione descritto e rappresentato in figura 32, in cui è
evidenziato che si applica il potenziale positivo alla zona P e quello negativo alla
zona N, dato che permette il passaggio di corrente, è detto “polarizzazione
diretta” (forward) in contrapposizione a quello che si ottiene invertendo la
polarità della batteria (vedremo tra poco) che è denominata “polarizzazione
inversa” (reverse). Quando si raggiunge la massima corrente possibile, l’unico
modo per aumentarla è aumentare la temperatura (aumentando così la
creazione di coppie elettrone-lacuna), ma ciò è incontrollabile, oppure si
aumenta la dose del drogaggio cosicchè aumenta la densità di cariche
maggioritarie.
C’è un altro particolare che dobbiamo segnalare rispetto alla situazione
circuitale di figura 32 cioè in caso di polarizzazione diretta e che non abbiamo
precisato per opportunità di disegno :
Il polo positivo attrae gli elettroni maggioritari della zona N e fa scavalcare
loro la barriera di potenziale; peraltro gli stessi elettroni sono spinti verso la
giunzione dal polo negativo. Analogamente, invertendo i segni, anche le lacune
sono spinte a scavalcare la giunzione. Si ha quindi come una “espansione” di
entrambe le cariche verso il centro e ciò determina un restringimento della
depletion layer che favorisce il passaggio di elettroni e lacune (figura 33).
Vedremo che invertendo la polarità la depletion layer si allarga.
Si verifica sperimentalmente che la larghezza della depletion layer è
funzione direttamente proporzionale al potenziale esterno della batteria e ciò
viene sfruttato per realizzare dispositivi che variano la propria capacità
elettrostatica in funzione della differenza di potenziale elettrico applicata. Questi
52
dispositivi si chiamano “varicap” e sono quelli che azioniamo quando ci
sintonizziamo su una emittente FM nelle nostre autoradio. Questo è possibile
perché la giunzione può essere considerata un condensatore in cui le due zone N
e P sono le armature e la depletion layer è l’isolante; sappiamo dalla Fisica che
in un condensatore la capacità è inversamente proporzionale alla distanza tra le
armature quindi allo spessore dell’isolante interposto. Abbiamo appena visto
che polarizzando in modo “diretto” una giunzione P-N la larghezza della
depletion layer (che è un isolante essendo privo di cariche libere) diminuisce
all’aumentare il potenziale esterno.
Fig. 33: restringimento della depletion layer
53
3.3 Giunzione polarizzata inversamente
Consideriamo adesso una giunzione polarizzata inversamente (fig. 34)
quindi, al contrario di quella descritta nel paragrafo precedente, colleghiamo il
polo positivo della batteria alla zona tipo N e quello negativo alla zona tipo P.
In questo contesto, gli elettroni maggioritari della zona N vengono attratti dal
polo positivo e si dirigono verso l’esterno in direzione opposta alla giunzione.
Così pure le lacune della zona P vengono attratte dal polo negativo e si dirigono
verso l’esterno.
Questo movimento divaricante delle cariche libere provoca un
allargamento della zona dove sono isolati ioni fosforo e ioni boro cioè un
allargamento della depletion layer con conseguente aumento della barriera di
potenziale e ciò rende difficile il passaggio di cariche attraverso la giunzione.
In sostanza gli elettroni e le lacune “vedono” un muro invalicabile di ioni con
la conseguenza che l’amperometro non segna alcun passaggio di corrente.
Ecco che adesso vengono alla ribalta le cariche minoritarie (triangolini).
Ricordiamoci che queste cariche (lacune nella zona N ed elettroni in quella P)
nascono dall’energia termica a temperatura ambiente a prescindere dal
drogaggio. Se si osserva attentamente la figura, si vede come per le cariche
minoritarie la polarizzazione è “diretta” per cui gli elettroni minoritari della
zona P sono attratti dal polo positivo così come le lacune della zona N sono
attratte dal polo negativo della batteria. Ma abbiamo appena detto che la
barriera di potenziale si è allargata, inoltre le cariche minoritarie sono
veramente pochissime.
Ne risulta che il numero di esse che riesce a passare la barriera è talmente
basso che l’amperometro non segna nulla e noi concludiamo che una giunzione
polarizzata inversamente non consente il passaggio di corrente. Ma siccome
vogliamo essere precisi, cambiamo strumento e ne mettiamo uno più sensibile ed
ecco che viene segnalata una infima corrente (inversa a quella del paragrafo
precedente) dell’ordine del miliardesimo di ampere.
Questa corrente non dipende dal potenziale esterno, anche all’aumentare di
questo rimane costante, perché appunto più di quelle poche cariche minoritarie
non c’è altro. Invece è sensibile alla temperatura nel senso che aumentando
questa aumenta il numero di coppie elettrone-lacuna e di conseguenza
aumentano le cariche minoritarie.
Questa corrente viene chiamata “ corrente inversa “ con simbolo IR, dove
la R sta per “reverse”. E’ una corrente che bisogna tenere sempre sotto
controllo data la sua dipendenza dalla temperatura.
54
Fig. 34 Giunzione polarizzata inversamente
3.4 Il diodo a semiconduttore
Per quanto descritto, possiamo affermare che, a meno di una trascurabile
infinitesima corrente, a tutti gli effetti invisibile, una giunzione PN polarizzata
inversamente non consente alcun passaggio di corrente. Questa giunzione a
semiconduttore prende il nome di diodo in quanto ha due elementi costitutivi (la
zona P e la zona N) e di conseguenza due terminali di connessione ad un circuito
esterno. Può essere al Germanio oppure al Silicio oppure con altro tipo di
semiconduttore più raro e più costoso; oggi la maggioranza dei diodi è al Silicio.
La caratteristica in comune è che un diodo è un conduttore unidirezionale nel
senso che consente il passaggio di corrente solo in una direzione e con una data
polarizzazione. I due terminali del diodo, per tradizione storica, vengono
chiamati “Anodo” il terminale collegato al positivo nella polarizzazione diretta,
“Catodo” (Katode, da cui la K) quello collegato al negativo sempre nella
polarizzazione diretta. Questa denominazione viene mantenuta derivandola
55
dalle vecchie valvole poiché nel diodo a vuoto i due elettrodi erano chiamati
appunto anodo e catodo, che poi anche questa a sua volta è una derivazione
proveniente dalle soluzioni elettrolitiche nelle quali l’anodo è l’elettrodo
positivo ed il catodo quello negativo.
Il diodo, di qualunque tipo sia, ha il seguente simbolo universale :
Fig. 35: simbolo del diodo
La freccia indica il verso (convenzionale) della corrente. Per sapere come
polarizzare il diodo inserito in un circuito si ricorre a convenzioni : a volte i
terminali sono uno lungo, anodo, ed uno corto, catodo (come nei Led), oppure
c’è esternamente al corpo del diodo una striscia che corrisponde al catodo.
Il diodo a semiconduttore ha un numero elevato di applicazioni in tutti i
campi : Elettrotecnica, Elettronica, Informatica, Telecomunicazioni,
applicazioni spaziali; a seconda dell’applicazione particolare è costruito
tecnologicamente in modo diverso e si presenta in tante versioni anche
esternamente. In linea di massima le dimensioni corrispondono alla “Potenza”
dissipata, quindi alla corrente elettrica che un diodo può sopportare.
56
Fig.36° : collegamenti elettrici diodo-lampadina-pila
fig. 36b : diodi commerciali
57
In figura 36a è riportato uno schema elementare di connessione di un diodo
con una batteria ed una lampadina. E’ mostrato come l’inserimento del diodo,
che abbiamo visto essere un componente unidirezionale, consente il passaggio di
corrente solo e soltanto se la polarità della batteria è in un certo senso e non
nell’altro. Approfittiamo di questo esempio per ricordare che un circuito
elettrico o elettronico è sinteticamente composto sempre da una sorgente di
energia elettrica (chiamata anche forza elettromotrice (f.e.m.) e da un
utilizzatore di tale forza (esempio la lampadina); a volte l’utilizzatore è chiamato
“carico”(load) ed è schematizzato genericamente con il simbolo della resistenza :
fig. 37: G è un generico generatore di f.e.m.
Naturalmente f.e.m. e resistenza sono collegati da fili conduttori che si
possono considerare di resistenza trascurabile. Ricordiamo che in circuito
elettrico le grandezze in gioco sono :
La forza elettro motrice, detta anche “differenza di potenziale”, misurata in Volt
La resistenza al passaggio della corrente, indicata con R e misurata in Ohm.
L’intensità di corrente, indicata con I e misurata in Ampère. Queste tre
grandezze fisiche sono legate tra di loro dalla famosa legge, scoperta
sperimentalmente dal fisico tedesco Georg Ohm e che da lui prende il nome:
I =
V/ R
Questa, secondo me, è la legge più importante dei circuiti elettrici , malgrado la
sua estrema semplicità. Non c’è cosa che si muova in Elettrotecnica, Elettronica,
Informatica, Telecomunicazioni, che non sia regolata dalla legge di Ohm. Non
bisogna temere le espressioni matematiche, sono più semplici di quanto non si
creda, bisogna interpretarle in modo corretto e poi sono efficaci, essenziali ed
esplicative. L’importante è non abusarne.
Gli antichi dicevano “in medio stat virtus” , i saggi siculi avevano coniato
l’equivalente proverbio : “ u suverchiu è comu u mancanti “. La legge di Ohm ci
dice che l’intensità I(Ampère) della corrente elettrica in un circuito “dipende”
dal potenziale elettrico V(volt) e dalla resistenza elettrica R(Ohm) nel senso che
essa aumenta se aumenta il potenziale viceversa diminuisce se aumenta la
58
resistenza e ciò è abbastanza intuitivo poiché la corrente è l’effetto, il potenziale
è la causa, la resistenza è l’ostacolo che si interpone. Ricordiamo che sono
sinonimi : f.e.m., potenziale elettrico, differenza di potenziale (d.d.p.), tensione,
ognuno di questi termini differisce di poco dall’altro (chiariremo in seguito).
Se questa dipendenza la consideriamo da un punto di vista funzionale e la
portiamo in forma di diagramma cartesiano dove in ordinata avremo la
variabile dipendente I, in ascissa la variabile indipendente V e la resistenza
funge da parametro costante, la legge di Ohm è una semplice espressione di
primo grado lineare del tipo
y= mx
che è una retta passante per
l’origine degli assi ed “m” rappresenta il parametro costante che graficamente
si esplicita con la pendenza della retta, che nel nostro caso è 1/R, cioè minore
è la resistenza maggiore è la pendenza.
Fig. 38
Quanto detto è evidenziato nel grafico di figura 38, in cui si è fatta l’ipotesi
di due diverse resistenze; il grafico corrispondente a quella minore (R1) è
rappresentato da una retta vicina all’asse delle ordinate, mentre quello
corrispondente alla maggiore (R2) è rappresentato da una retta vicina all’asse
delle ascisse. Per uno stesso valore costante del potenziale V 0, ad una minore
resistenza (R1) corrisponde una maggiore corrente I1 e viceversa ad un maggior
valore di resistenza (R2) corrisponde un minor valore di corrente I2 .
Il diagramma di figura 38 va interpretato in modo completo comprendendo
anche i due semiassi negativi: significa che invertendo la polarità del generatore
la corrente circola in senso inverso.
59
3.5 Caratteristiche elettriche del diodo
Vedremo adesso come il diodo al Silicio, oltre le caratteristiche già viste,
presenta la peculiarità di non obbedire alla legge di Ohm non presentando un
diagramma Corrente-Tensione lineare. Per ricavare il comportamento di un
diodo al Silicio come l’andamento della corrente che circola in funzione del
potenziale applicato si utilizza un circuito sperimentale come quello di figura 39.
E’ presente un generatore di f.e.m. continua “G” il cui valore si può variare
(a ciò si riferisce la freccia) da zero, linearmente, fino al valore desiderato. Ai
capi del diodo è applicato un voltmetro che ci indica il potenziale applicato, in
serie al circuito è inserito un amperometro che misura l’intensità di corrente;
ricordiamo che in un circuito con elementi in serie la corrente è la stessa in tutti i
punti dello stesso circuito. Prepariamo un diagramma cartesiano in cui in ascisse
riportiamo il potenziale VD applicato al diodo (letto nel voltmetro) ed in
ordinate riportiamo la corrente I D misurata (letta nell’amperometro).
Partendo da zero, diamo progressivamente tensione al diodo ed in
corrispondenza leggiamo i valori di corrente. Come abbiamo ampiamente
descritto nel paragrafo 6 (giunzione polarizzata direttamente), finchè non si
raggiungono 0,6 volt non circola alcuna corrente. Superato questo valore, che
chiameremo “tensione di soglia” (in inglese V T dove T sta per threshold =
soglia), che corrisponde alla barriera di potenziale della depletion layer che si
oppone al passaggio degli elettroni, si osserva un passaggio di corrente che,
inizialmente in modo esponenziale e poi linearmente, aumenta all’aumentare del
potenziale applicato al diodo (figura 39b). Ciò corrisponde al fatto che,
superando di poco 0,6 volt, soltanto una parte degli elettroni supera la barriera
di potenziale. Questi aumentano a mano a mano che il potenziale aumenta.
Aumentando però ancora il potenziale applicato, la corrente non aumenta più
raggiungendo un valore di saturazione. Tutti gli elettroni disponibili nella
giunzione hanno attraversato la barriera di potenziale. Si vede nel diagramma
60
come l’andamento “Corrente- tensione” in un diodo è diverso da quello che si
ricava per una resistenza, che obbedisce alla legge di Ohm, che è una funzione
lineare. Questo diagramma prende il nome di “ Curva caratteristica “ di un
diodo al Silicio polarizzato direttamente.
Analogamente si può ricavare la curva caratteristica di un diodo in
polarizzazione inversa semplicemente invertendo la polarità del generatore di
figura 39 ed inserendo un Amperometro più sensibile, capace di rivelare
correnti dell’ordine del “nanoampere” cioè millesimi di milionesimi di Ampère.
In figura 40a è appunto riportato lo schema elettrico del circuito usato per
ricavare sperimentalmente la seconda curva caratteristica del diodo.
Il procedimento è analogo a quello precedente : si dà progressivamente
potenziale (volt) al diodo e si rileva cosa segna l’amperometro. Per quello che si è
descritto nel paragrafo relativo alla giunzione polarizzata inversamente, non
passa corrente a meno di quella minima dovuta alle cariche minoritarie che è
dell’ordine di nanoampère. Questa corrente aumenta solo inizialmente e poi
rimane costante anche se viene aumentato di molto il potenziale applicato.
Questo andamento è mostrato nel diagramma 40b : si noti che ci si riferisce
ora ai due semiassi negativi della corrente e della tensione; inoltre le scale di
riferimento sono diverse da quelle di figura 39b in quanto adesso, come già
rimarcato, la corrente è dell’ordine di nanoampère ed il potenziale è alcune
diecine di volt (i valori dipendono dal tipo particolare di diodo).
Quello che si osserva è che ad un certo punto la corrente aumenta
bruscamente come in un cortocircuito, la caratteristica varia ad angolo retto.
Succede che aumentando il potenziale la corrente non aumenta perché le cariche
minoritarie sono in numero limitato, ma aumenta la loro velocità fino ad un
punto tale che l’energia cinetica delle cariche è tale che queste rompono i legami
covalenti degli atomi di Silicio creando coppie elettroni-lacune e ciò determina
una reazione a catena, una rottura a valanga (Breakdown) fino al cortocircuito.
Il valore di potenziale elettrico per cui ciò avviene si chiama Tensione di rottura
61
o di breakdown Vbr . E’ un valore limite da non superare poiché se il diodo sta
anche una trentina di secondi nello stato di Breakdown la corrente elevata che si
origina determina surriscaldamento e poi distruzione del dispositivo. La
permanenza in Breakdown è consentita soltanto per pochi attimi.
Fig. 41 Curve caratteristiche del diodo al Silicio
In figura 41 sono mostrate le curve caratteristiche complete di un diodo. Si
noti come la scala dei volt sia differente: a destra (polarizzazione diretta) tutto si
conclude nell’arco di un volt e mezzo; a sinistra (polarizzazione inversa) si
arriva fino a 50 volt nell’intorno della tensione di Breakdown V BR e questo
valore può raggiungere anche gli 800 volt. Anche la scala delle correnti è
diversa: in diretta i valori sono espressi in Ampère oppure in milliAmpère
(millesimi di Ampère) , mentre in inversa la corrente è espressa in nanoAmpère
(milionesimi di milliAmpère).
I punti significativi del grafico sono (in diretta) la tensione di soglia VT che è
il valore a cui il diodo comincia a condurre ed il valore I max che rappresenta la
massima corrente sopportabile dal diodo. Nei diodi commerciali viene riportata
la potenza massima in Watt (ricordiamo che P = V I ). In inversa invece i valori
significativi sono la corrente reverse I R che deve essere quanto più piccola
possibile in modo da potersi considerare trascurabile, la tensione di Breakdown
62
VBR che rappresenta un valore limite oltre il quale il diodo può distruggersi,
pertanto deve essere quanto più possibile alta. Queste curve caratteristiche
vengono riportate nei manuali tecnici delle varie ditte costruttrici di
semiconduttori, assieme ad altre notizie operative.
In figura 42 è invece rappresentata una curva caratteristica ideale di un
diodo in cui i valori sono più marcati, la corrente al disotto di V T può
considerarsi nulla, la caratteristica diretta è rettilinea e non comprende la
corrente massima (che non è conveniente raggiungere poiché il diodo si
surriscalda), in inversa si considera zero la IR, il ginocchio in corrispondenza a
VBR è netto. Pur essendo quella riportata una caratteristica ideale, nella maggior
parte delle applicazioni di un diodo, è consentito farvi riferimento per semplicità
descrittive ed operative.
Possiamo concludere affermando che un diodo a semiconduttore (nella
maggior parte dei casi al Silicio) è un componente elettronico a due componenti
(le due zone drogate tipo N e tipo P) e quindi a due terminali di connessione. E’
un componente non lineare in quanto obbedisce alla legge di Ohm soltanto in
una parte delle sue caratteristiche ( la diretta dopo V T e prima di Imax), inoltre è
un componente “unidirezionale” cioè conduce la corrente elettrica soltanto in
una direzione quando si rispetta la polarità diretta. Invertendo la polarità si può
affermare che non conduce affatto (anche se una labile corrente inversa è
presente). Questa sua ultima peculiarietà è quella maggiormente sfruttata nelle
numerose applicazioni elettroniche in cui è impiegato.
Fig. 42 Caratteristiche ideali del diodo
63
CAPITOLO QUARTO
APPLICAZIONI DEL DIODO
64
4.1
Il diodo come “ raddrizzatore “
Descriveremo ora soltanto due delle tantissime applicazioni di un diodo,
quelle che si possono ritenere le più importanti, le più usate, le più significative.
La prima è quella in cui il diodo ha la funzione di “raddrizzatore” o
“rettificatore”. Capiremo subito il perché di questa denominazione.
Dobbiamo ricordare che la corrente elettrica esiste in due tipologie diverse: la
corrente continua (direct current, d.c.) e la corrente alternata (alternative
current, a.c.). La prima è quella fornita dalle pile e dalle batterie delle auto che
forniscono un valore di tensione e corrente “costante” ed hanno un polo positivo
ed un polo negativo. In un grafico corrente-tempo e tensione-tempo,
l’andamento è quello di figura 43
Fig. 43
La corrente alternata, invece, come si evince dall’aggettivo, non ha valori
costanti ma la corrente e la tensione variano nel tempo “alternando” valori
positivi e negativi secondo una sinusoide (figura 44). Questo tipo di corrente è
generata nelle centrali elettriche, può essere trasformata modificando i valori di
tensione e corrente, è quella che abbiamo nelle case (220 volt, 50 Hertz),
pertanto è la più diffusa. Del resto, capita spesso di dover passare dalla tensione
“alternata” (disponibile nelle comuni prese di corrente casalinghe) a quella
“continua” necessaria ad alimentare la maggior parte delle apparecchiature
elettroniche portatili.
Fig. 44
(*) Hertz è l’unità di misura della frequenza, che è il numero di cicli al secondo.
Quante volte usiamo un caricabatteria per ricaricare il telefonino oppure
le batterie di una macchina fotografica, o ancora quelle di un lettore MP3? In
questo caso ci colleghiamo sempre ad una presa di corrente che abbiamo a casa
65
(o in altro posto fuori di casa) nell’impianto luce che ci fornisce tensione
alternata a 220 volt-50 Hertz (fig.44).
Ricordiamoci che le batterie forniscono tensione continua a basso valore (da
1,5volt a 12 volt) quindi il caricabatteria, nello svolgere il compito di “caricare”
deve “convertire” da alternata a continua ed abbassarla di valore. Ebbene, in
questo processo svolge un ruolo determinante il diodo al Silicio.
Ricordiamoci la caratteristica “unidirezionale “ del diodo e consideriamo il
semplice circuito di figura 45 :
fig. 45
Nella figura, G rappresenta una generica sorgente di tensione alternata, in
serie si inserisce un diodo, un resistore R (ha la funzione di limitare la corrente)
ed un amperometro A. In figura 46° è riportata la forma d’onda della tensione
applicata al diodo: durante la prima semionda l’anodo è positivo, il diodo,
essendo polarizzato direttamente, conduce corrente il cui valore è determinato
dalla legge di Ohm ed è misurato dall’amperometro. Durante la seconda
semionda la tensione si inverte e all’anodo è applicato un valore negativo
(polarizzazione inversa) per cui il diodo non conduce. L’andamento della
corrente è quello mostrato in figura 46b in cui si osservano solo impulsi positivi.
Non è ancora una corrente continua ma non è più alternata bensì unidirezionale.
Fig. 46a
Fig.46b
66
Fig. 47
Per migliorare la forma d’onda della corrente si inserisce nel circuito un
condensatore C in parallelo alla resistenza R. Sappiamo dalla Fisica che un
condensatore si carica ed assume ai suoi capi un potenziale V c in funzione della
sua capacità, in modo proporzionale alla corrente. Il condensatore si carica
seguendo il fronte d’onda di salita (fig.48); quando la corrente raggiunge il
massimo della semionda e ridiscende, il condensatore mantiene la carica di picco
raggiunta e si scarica lentamente (dipende dal prodotto RC) fino a che non
sopraggiunge un successivo fronte d’onda di salita per cui si ricarica fino al
valore di picco per poi ripetere scarica lenta e ricarica per le successive onde di
corrente. Mano a mano che il condensatore si carica, le sue scariche sono via via
a valori più alti finchè, nel tempo, il suo potenziale di carica è quasi una retta,
diciamo che è una “spezzata”, e somiglia (con buona approssimazione) ad una
tensione continua.
Fig 48
Per migliorare la forma d’onda, si modifica il circuito di fig. 47 introducendo
un altro diodo che si alterna, nella conduzione, con l’altro in modo che non si
hanno impulsi di corrente intervallati da semiperiodi vuoti ma una serie
ininterrotta di impulsi contigui come mostrato in figura 49.
Se ne deduce che la carica (e conseguente scarica) del condensatore avviene in
tempi più ravvicinati e la forma d’onda, a regime, del potenziale Vc ai capi del
condensatore è sempre meno una spezzata e sempre più assimilabile ad una
tensione continua. Il circuito di fig. 47, che per la precisione deve comprendere
un trasformatore che abbassa la tensione da 220 volt a valori più bassi
67
(dell’ordine di 3-12 volt), prende il nome di “Raddrizzatore ad una semionda”,
dove raddrizzatore significa passaggio da alternata a continua ed una semionda
è quella che carica il condensatore.
Il circuito con due diodi, relativo alla forma d’onda di figura 49, si chiama
“Raddrizzatore a due semionde”.
Per migliorare ulteriormente la forma d’onda della tensione disponibile ai
capi del condensatore si utilizza un circuito più complesso che impiega quattro
diodi opportunamente collegati in modo che la corrente di carica del
condensatore contiene impulsi sfasati di un quarto di periodo come in figura 50.
Essendo i picchi più riavvicinati, la tensione ai capi del condensatore è ancora
più vicina ad una tensione continua. Questo tipo di raddrizzatore, che oggi è il
più usato, si definisce “a quattro semionde” oppure “raddrizzatore a ponte”.
I comuni caricabatteria che usiamo quotidianamente per caricare le batterie
dei telefonini sono di questo tipo : un semplice trasformatorino per abbassare la
tensione da 220 volt a quello desiderato ed un raddrizzatore a ponte.
68
4.2 Il diodo “rivelatore” (demodulatore)
Per descrivere questa particolare applicazione dobbiamo partire da lontano
e cioè soffermarci su come viaggia una generica informazione via radio, che è
una tecnica, con le dovute innovazioni, sostanzialmente simile a quella
sperimentata dal grande Fisico Guglielmo Marconi.
Una generica informazione è costituita da un segnale audio (suoni) oppure da
un segnale video (immagini). Entrambi sono onde a bassa frequenza. Per poterli
trasmettere, occorre associarli ad un’onda elettromagnetica ad alta frequenza
che è capace di propagarsi nello spazio né più né meno come ci arriva la luce dal
Sole e come ci arrivano i segnali cosmici dall’Universo. Le onde
elettromagnetiche differiscono per la frequenza ed in base a quest’ultima
differiscono le modalità di propagazione.
Le onde relative alle trasmissioni radio in FM (Frequenz Modulation) hanno
una frequenza intorno ai 100 MegaHertz ( 1 Mega = 1 milione). Quelle relative
alle trasmissioni televisive via satellite hanno una frequenza intorno a 10
GigaHertz ( 1 Giga = 1000 Mega). Le onde relative alle obsolete trasmissioni
radio in AM (Amplitude Modulation) hanno una frequenza intorno ad 1
MegaHertz. Ma il principio su cui si basano le trasmissioni è lo stesso, per cui
prendiamo come riferimento le più semplici per convenienza didattica.
Supponiamo di voler trasmettere un semplice segnale come una nota
musicale, per esempio un LA (per intenderci è la nota su cui ci si accorda ed è
emessa da un diapason) : è un’onda acustica con frequenza pari a 440 Hertz.
Trasformiamola in un segnale elettrico analogo, cioè avente la stessa forma,
mediante un microfono. La forma d’onda è una sinusoide pura come mostrato in
figura 51a. In figura 51b è invece mostrata un’onda ad alta frequenza
dell’ordine di 1 MegaHertz; nella figura non è rispettata al 100% la scala delle
frequenze per esigenze di spazio, però è chiara la differenza tra il segnale
acustico ed il segnale ad alta frequenza. Quest’ultimo ha la proprietà di potersi
propagare nello spazio, pertanto il problema si risolve cercando di associare ad
esso l’informazione che si desidera trasmettere.
Il meccanismo per cui si procede a questa associazione, quella cioè per cui
un’onda “porta” con sé una informazione, prende il nome di “modulazione” e si
può operare in diversi modi, nei quali il segnale che rappresenta l’informazione
“modula” cioè modifica un parametro dell’onda “portante” ed in qualche modo
ne resta legato. A seconda del particolare procedimento mediante il quale
avviene l’associazione informazione-onda portante, vi sono diverse tipologie di
tecniche di modulazione.
Nell’esempio di figura 51 il parametro modificato è
l’ampiezza pertanto il processo viene chiamato “modulazione di ampiezza”
(Amplitude Modulation da cui AM).
69
Riprendiamo: in a) è mostrato il segnale “modulante” che rappresenta
l’informazione da trasmettere, nell’esempio una nota acustica a 440 Hertz,
segnale audio di bassa frequenza.
In b) è rappresentata l’onda portante ad alta frequenza (1 MHz). In c) è
mostrato l’effetto della modulazione : l’ampiezza dell’onda modulata è
modificata in modo che “riporta” fedelmente l’informazione del segnale di bassa
frequenza. L’inviluppo dei valori di picco del segnale modulato riproduce il
segnale modulante, in definitiva il segnale risultante “contiene “ l’informazione
nella variazione di un suo parametro, in questo caso l’ampiezza. Così
l’informazione è associata all’onda portante.
70
Il segnale di figura 51c è un’onda ad alta frequenza modulata in ampiezza
da un segnale di bassa frequenza (nota musicale fig.51°) che rappresenta
l’informazione. Questo segnale viene trasmesso come onda elettromagnetica e si
propaga nello spazio. Quando viene captato dalle antenne delle radio riceventi,
occorre estrarre da esso la parte che costituisce l’informazione cioè la parte di
bassa frequenza e questo procedimento è chiamato “demodulazione” perché è
l’operazione opposta alla modulazione : quest’ultima aveva associato onda
portante e onda modulante (figg.51a,b,c) mentre la demodulazione separa queste
due componenti per estrarre la parte che interessa (bassa frequenza).
Proprio questa operazione di tirar fuori l’informazione, la demodulazione
viene anche chiamata
“rivelazione” perché permette di rivelare la bassa
frequenza “insita “, nascosta nel segnale ad alta frequenza.
Il circuito che consente le operazioni descritte è quello di figura 52, dove
appunto il diodo ha la funzione di “rivelatore”. La configurazione è abbastanza
simile a quella del diodo raddrizzatore; sono diversi, peraltro, i valori di
corrente e di tensione in gioco: nel raddrizzatore si parla di correnti e tensioni
più alte (220 volt, diversi ampère), nel rivelatore il segnale è relativo a stadi di
circuito subito dopo l’antenna ricevente ed i valori di corrente e di tensione sono
decisamente minori. Nel circuito di figura 52 il diodo, la resistenza ed il
condensatore C1 hanno la stessa funzione che nel circuito raddrizzatore, quella
di eliminare la componente negativa del segnale e di fornire una tensione di
carica del condensatore al massimo dei valori di picco, questo è evidenziato nei
diagrammi di figura 53. Ricordiamo che ciò è possibile grazie alla proprietà del
diodo di essere “unidirezionale” nel senso di consentire il passaggio di corrente
solo con una determinata polarità. Il segnale disponibile ai capi di C1 è quello di
figura 54a : esso può considerarsi la somma algebrica di una componente
costante pari a V0 e di una componente variabile alternata.
Se sottraiamo dal segnale la componente V0, si avrà il segnale di figura 54b
che è un’onda sinusoidale pura, che riproduce l’inviluppo dei picchi del segnale
di figura 53 ed è pertanto “rivelata” l’informazione nascosta nell’onda
modulata in ampiezza captata dall’antenna. Questa “sottrazione” viene
realizzata dal condensatore C2, in quanto, com’è noto dalla Fisica, un
71
condensatore lascia passare una corrente variabile mentre blocca una corrente
costante. Riepiloghiamo riferendoci al circuito di figura 52 ed ai diagrammi
delle figure 51c , 53 e 54 : All’ingresso del circuito è presente un segnale Vi che
rappresenta un segnale ad alta frequenza modulato in ampiezza così come può
essere captato da un’antenna di una radio ricevente ed è schematizzato in figura
51c di pagina ** . Il diodo elimina tutta la componente negativa ed il segnale
diventa quello di figura 53. La resistenza ed il condensatore C1 realizzano un
circuito di carica-scarica fornendo il potenziale di figura 54b. Il condensatore C2
blocca la componente V0 ed il segnale di uscita Vu è quello di figura 54b.
72
4.3 Il diodo come cella fotovoltaica
(batteria solare)
Oggi è abbastanza frequente vedere pannelli solari sui tetti delle case (fig. 55).
Ci sono anche pannelli solari cosiddetti “termici”, quelli cioè che trasformano
l’energia del sole in acqua calda. Noi ci occuperemo di quelli che producono
energia elettrica, tecnicamente “pannelli fotovoltaici” perché, incredibile ma
vero, questi sono costituiti da centinaia e migliaia di “diodi al Silicio” collegati
opportunamente tra loro.
Fig. 55
I Pannelli fotovoltaici al Silicio convertono semplicemente e direttamente
l’energia del Sole in energia elettrica disponibile. Negli ultimi 10 anni hanno
avuto uno sviluppo notevole, grazie anche a incentivi statali (ma che provengono
da maggiorazioni sulle bollette elettriche) che danno un contributo dipendente
dalla potenza dell’impianto istallato e dalla potenza prodotta ed inoltre
consentono di “vendere” all’Enel, l’energia prodotta e non utilizzata.
Naturalmente l’utilizzazione dei pannelli fotovoltaici ha subito un incremento
elevato poiché il progresso delle tecnologie costruttive e del trattamento del
73
Silicio ha avuto un grande sviluppo in tutto il mondo migliorando la qualità e
riducendo i costi. Inoltre è indubbio che trattasi di energia pulita e disponibile.
74
I pannelli fotovoltaici al Silicio hanno cominciato ad essere usati in modo
sistematico alla fine degli anni cinquanta in corrispondenza dell’inizio dell’era
spaziale, poiché sono un’ottima fonte di energia elettrica per tutti i satelliti
artificiali che ruotano attorno alla terra, sono oltre l’atmosfera terrestre e
quindi colpiti dal Sole direttamente. Tutti i satelliti artificiali sono dotati come di
grandi ali su cui sono disposti i pannelli fotovoltaici e queste ali vengono ruotate
per essere colpite sempre in modo perpendicolare dai raggi solari.
Successivamente i pannelli fotovoltaici cominciarono ad estendersi come
sorgenti di alimentazione per piccole utenze in zone isolate dove non arrivava la
rete di distribuzione di energia elettrica (isole, zone montagnose, etc.).
Fig. 56. Uno dei primi pannelli fotovoltaici, 1957
In figura 56 è riportato un pannello fotovoltaico impiegato dalla Bell
Telephone nel 1957 per alimentare un ripetitore telefonico. Era costituito da 432
fette di Silicio (ognuna costituisce un diodo). Ogni fetta circolare ha il diametro
di 5 centimetri e lo spessore di mezzo millimetro. Le fette sono collegate in modo
serie-parallelo così da fornire una tensione di 22,5 volt ed una corrente di 0,5
Ampère.
Il progresso e la riduzione dei costi hanno portato negli ultimi venti anni una
diffusione rapida dei pannelli fotovoltaici fino all’impiego sui tetti delle case per
sostenere il consumo domestico di energia elettrica, anche le imprese
commerciali ed industriali hanno iniziato a dotarsi di questo tipo di produzione
di energia alternativa e pulita (non inquinante).
Il passo successivo è stato quello di costruire Centrali elettriche fotovoltaiche
per la produzione e distribuzione di energia elettrica. Oggi in Italia vi sono
75
diverse Centrali, la più grande è a Montalto di Castro (Lazio) proprio nel sito
dove doveva sorgere una centrale nucleare, la sua potenza è di 84 Mega Watt ed
è la seconda al mondo. Complessivamente, nel 2011, l’Italia ha raggiunto la
Germania con 12 GigaWatt prodotti con il fotovoltaico ( 1 Giga = 1000 Mega).
Nel 2012 siamo a 15 GigaWatt.
Le altre più importanti sono a Manfredonia in Puglia (9 Mega Watt), a Serre
in Campania ( 4 Mega Watt, quando fu costruita nel 2002 era la centrale con
maggiore energia prodotta al mondo) e ad Adrano (Sicilia, 7 Mega Watt, fig.
57)) dove sorgeva dal 1981 al 1996 la centrale a specchi chiamata “Eurelios”.
Fig. 57 La nuova centrale fotovoltaica di Adrano
La centrale solare ad Adrano fu finanziata dall’Europa a scopo sperimentale
ed era basata sul principio degli specchi ustori di Archimede che 2000 anni fa
aveva intuito la grande energia del Sole. Un grande campo di specchi su una
superficie di 10.000 metri quadri concentrava l’energia del Sole su una grande
caldaia in cima ad una torre. Il calore accumulato, sotto forma di vapore,
azionava le turbine per produrre energia elettrica.
La centrale di Adrano fu smantellata non perché non fosse efficiente ma
perché il finanziamento europeo era a tempo determinato, in ogni caso gli
impianti fotovoltaici cominciavano a prendere sviluppo e comunque la
sperimentazione dell’impianto solare ha costituito esperienza nelle conoscenze
riguardanti l’andamento e le caratteristiche dell’insolazione giornaliera e
stagionale, nonchè le tecniche di inseguimento del Sole.
76
Infatti il campo di specchi che rifletteva i raggi solari in un unico punto (la
caldaia ) era costituito da singoli moduli che inseguivano il Sole mediante un
apposito software predisposto in base alla latitudine, alla stagione (altezza del
Sole) ed allo scorrere del giorno dall’alba al tramonto. Nella figura di pag.59
sono riportati i valori di radiazione solare in Italia. Si noti come nel Sud, in
particolare in Sicilia, i valori sono nettamente superiori. Ciò dovrebbe indurre i
governanti a promuovere informazione ed incentivi per la istallazione di
impianti fotovoltaici.
Fig. 57 Un modulo fotovoltaico che insegue il Sole, Gerbini (CT)
Oggi la ricerca ha sviluppato moduli fotovoltaici (fig. 57) costituiti da 30
pannelli collegati in serie-parallelo. Ogni pannello produce 250 Watt, è costituito
da 66 fette di Silicio, ogni fetta rappresenta un diodo e fornisce 0,5 volt e 0,5
Ampère. Il modulo, che produce 7,5 KiloWatt, è supportato da un traliccio che
può ruotare attorno ad un asse verticale e attorno ad un asse orizzontale.
Mediante sensori fotoelettrici, il modulo “insegue” il Sole utilizzando due
motori passo-passo e si mantiene sempre perpendicolare ai raggi solari. Bisogna
77
considerare che in tal modo il modulo segue il Sole dall’alba al tramonto ed
inoltre l’altezza del Sole dipende dalla latitudine del luogo dove sono installati i
pannelli fotovoltaici e dalla stagione, essendo massima il 21 Giugno (solstizio
d’estate), minima il 21 Dicembre (solstizio d’inverno), intermedia il 21 Marzo
(equinozio di primavera)ed il 21 Settembre (equinozio d’autunno).
Fig. 58 Pannelli fotovoltaici
In figura 58 sono mostrati da vicino pannelli fotovoltaici che raggruppano 72
fette di Silicio (originariamente circolari e poi smussate per ottimizzare lo spazio
occupato). Le strisce verticali costituiscono i contatti metallici argentati della
parte superiore delle fette, l’altro contatto è sul retro. I pannelli sono rivestiti di
vetro protettivo (possono resistere alla grandine) e di materiale antiriflettente
per favorire il massimo assorbimento dei raggi solari.
Purtroppo, per diverse cause che vedremo, soltanto un quinto dei raggi
incidenti viene convertito in energia elettrica; si definisce “efficienza di
conversione” il rapporto tra energia solare incidente ed energia elettrica
prodotta. Oggi i migliori pannelli fotovoltaici hanno un’efficienza del 18%, ma si
consideri che 10 anni fa questa era la metà, ci sono premesse per sperare che
vada sempre aumentando con nuove tecnologie.
78
Fig. 58 a: Impianto fotovoltaico su tettoia
79
Fig. 58b: Impianto fotovoltaico su tetto a falda triangolare.
80
Fig. 58c: Impianto fotovoltaico su tetto piano.
81
Fig. 58d: Pannelli fotovoltaici su serre agricole.
82
Fig. 58e : Pannelli fotovoltaici su tetto
83
Fig.58f : Pannelli fotovoltaici e pannelli fototermici.
Fig. 58g: Pannelli fotovoltaici su 3 falde.
84
Fig. Pannelli fotovoltaici su pensiline parcheggio.
85
Abbiamo detto che ogni cella di un pannello fotovoltaico è una fetta di Silicio
che funziona da diodo ed è pertanto una giunzione PN. Come si vede nella
figura 59, una sezione trasversale della fetta, la parte superiore di tipo N viene
colpita dai raggi solari che penetrando all’interno provocano la rottura dei
legami chimici covalenti generando coppie elettrone-lacuna Come vedremo in
seguito, queste cariche elettriche porteranno alla produzione di energia elettrica
disponibile secondo un meccanismo che va sotto il nome di “effetto fotovoltaico”.
Fig. 59: Sezione di una fetta di Silicio come “cella fotovoltaica”
L’effetto fotovoltaico, come si evince dall’etimologia “photos” = luce e volt =
potenziale elettrico, consiste appunto nella conversione di energia luminosa in
energia elettrica. Questo processo fa parte di un fenomeno più generale che è
l’effetto fotoelettrico che si manifesta in tre modi diversi:
1) Effetto fotoconduttivo
2) Effetto fotovoltaico
3) Emissione fotoelettronica
Questi tre processi sono accomunati dal fatto che la luce provoca corrente
elettrica in modalità differenziate. Esiste il fenomeno opposto in cui la corrente
elettrica produce luce, anche qui in modo differenziato, secondo tante possibilità,
le più diffuse sono :
1) LED (Light emitting diode)
2) LCD (Liquid cristall display)
3) LASER (Light amplification stimulated emission radiation)
86
1.Emissione fotoelettronica
L’emissione fotoelettronica è un fenomeno per cui le onde luminose
colpendo particolari sostanze provocano l’emissione di elettroni. Se ciò avviene
in un bulbo sottovuoto spinto (per evitare collisioni degli elettroni con atomi e
molecole presenti nell’aria), è possibile raccogliere gli elettroni (negativi)
mediante un potenziale positivo e costituire pertanto una corrente elettrica la cui
intensità dipende dalla luce e dal materiale fotosensibile. Questo è il principio di
funzionamento delle cellule fotoelettriche.
Fig. 60
In figura 60a è riportato uno schema semplificato del funzionamento di una
cellula fotoelettrica che comprende un catodo che è un elettrodo metallico
ricoperto di materiale fotosensibile, un anodo che è una placca metallica a cui è
applicato un potenziale positivo (variabile) mediante una batteria ed un
partitore resistivo. La luce colpisce il catodo che emette elettroni, questi
vengono raccolti dall’anodo e la conseguente
corrente è misurata
dall’amperometro A. Il voltmetro misura il potenziale elettrico Vak, applicato
tra anodo e catodo, e variabile mediante il “potenziometro”. Con il circuito di
figura 60a è possibile ricavare sperimentalmente l’andamento della corrente in
funzione del potenziale (fig.60c). per diversi valori di “frequenze luminose” f 1,
87
f2, f3. Ricordiamo che secondo la Fisica quantistica la luce è un’onda
elettromagnetica e copre un range di frequenze delimitate dagli “Infrarossi” e
dagli “Ultravioletti” e può considerarsi costituita da “fotoni” con energia pari a
“ hf “ dove h è la costante di Plank, che caratterizza tutta la quantistica.
E’ stato il Fisico tedesco Heinrich Hertz a scoprire l’effetto fotoelettronico
nel 1887 ma egli stesso non comprese il meccanismo esatto della emissione. Hertz
è rimasto famoso per i suoi studi sulle onde elettromagnetiche e fu il primo ad
intuire che quest’ultime si propagavano con la velocità della luce. Ma ci volle poi
il genio italico di Marconi per inventare la Radio.
Successivamente ad Hertz, diversi scienziati fra cui Augusto Righi, docente
di Fisica all’Università di Bologna, del quale Marconi fu allievo, fecero diverse
indagini sperimentali dalle quali emerse che si trattava di corpuscoli carichi
negativamente
emessi da particolari metalli colpiti da una radiazione
elettromagnetica qual è la luce. Nel 1896 il Fisico inglese J.J. Thomson scoprì
che i corpuscoli negativi erano elettroni appartenenti ad atomi metallici ed
alcalini. Nel 1902 il Fisico tedesco Philip Lenard scoprì che le energie degli
elettroni emessi erano indipendenti dall’intensità della radiazione incidente ma
dipendevano invece dalla frequenza dell’onda elettromagnetica, senza peraltro
capirne la causa.
A questo punto entra in scena Albert Einstein. Egli studia a fondo l’effetto
fotoelettrico e pubblica un lavoro negli “Annalen der Phisik “ nel 1905, che gli
valse il premio Nobel per la Fisica. Einstein affermò che l’Energia degli elettroni
emessi da un catodo fotosensibile dipende in modo direttamente proporzionale
dalla frequenza dell’onda luminosa incidente e non dall’intensità della stessa.
Questo è schematizzato nel diagramma di figura 60b in cui in ordinate c’è
l’energia degli elettroni emessi dal catodo; f s è la soglia minima di frequenza
della luce capace di produrre emissione di elettroni.
Einstein dimostrò pertanto che il numero di elettroni emessi è proporzionale
all’intensità della radiazione incidente, mentre l’energia degli stessi è
proporzionale alla frequenza della radiazione; c’è però una frequenza di soglia
aldisotto della quale non c’è emissione e questo è una caratteristica dei singoli
materiali perché è proprio la particolare struttura atomica ed il legame che
hanno gli elettroni verso il nucleo che può consentire la fuoriuscita di elettroni
da un atomo. I materiali fotosensibili sono i metalli e gli alcalini (rivedere la
tavola periodica degli elementi: Argento, Oro, Rame, Litio, Sodio, Potassio,
Rubidio, Cesio, Francio) perché entrambi ( metalli ed alcalini) hanno un
elettrone esterno (ultima orbita) poco legato al nucleo. Il Francio è rarissimo ed
è pericolosamente radioattivo, per cui viene usato per le cellule fotoelettriche il
Cesio in combinazione all’Argento. Nella figura 60c le curve di dipendenza
dell’intensità di corrente dal potenziale elettrico tra anodo e catodo partono da
un valore di soglia negativo Vs e ciò significa che anche per valori negativi
88
(piccoli) gli elettroni emessi dal catodo per effetto della luce hanno una
sufficiente energia cinetica per raggiungere l’anodo.
E’ opportuno adesso aprire una parentesi per comprendere meglio il
concetto di onda, di frequenza, di luce e tutto ciò che è connesso con queste voci.
Abbiamo incontrato per la prima volta l’onda a pagina 51 quando si è parlato
della corrente elettrica “alternata” per uso domestico.
Per “onda “ si intende una grandezza fisica che varia nel tempo assumendo
sia valori positivi che negativi. Una grandezza che non varia nel tempo si chiama
“continua” o “costante” (Figura 61a). Una grandezza non costante si dice
“variabile “ (fig. 61b) : se passa alternativamente da valori positivi a valori
negativi (passando dallo zero) si dice “alternata” (fig. 61c) . Se i valori si
alternano assumendo stesse posizioni “periodicamente” la grandezza diventa
“periodica” (fig. 61d) . Non è detto che una grandezza periodica debba essere
anche alternata : pensiamo ad una serie di impulsi solo positivi (oppure solo
negativi) ma perfettamente periodici (fig. 61e).
La forma d’onda più pura sia graficamente che matematicamente è
sicuramente la sinusoide (figura 51a di pagina 55, figura 62a) abbastanza
conosciuta per chi ha studiato trigonometria. Per chi non ricordasse, diciamo
che la sinusoide si può generare facendo oscillare un pendolo con una punta
tracciante su un foglio che si muove di moto uniforme: la combinazione
dell’oscillazione e del movimento rettilineo è appunto una sinusoide.
89
90
Una maniera più precisa per generare una sinusoide è quella di considerare il
raggio di un cerchio: riferendoci alla figura 62b, facciamo ruotare il raggio in
senso antiorario e consideriamo la sua proiezione su un asse verticale:
riportiamo, in un diagramma, sull’asse verticale suddetta proiezione e sull’asse
orizzontale l’angolo alfa descritto dal raggio ruotante (oppure il tempo t ).
Il raggio, anzi la sua proiezione, raggiunge il suo valore massimo quando,
ruotando nel primo quadrante, compie un quarto di giro e l’angolo alfa è pari a
90°, poi diminuisce fino a zero in corrispondenza dell’angolo pari a 180° (mezzo
giro. Continuando a ruotare, terzo quadrante da 180 a 270 gradi, la proiezione
del raggio su un asse verticale assume valori negativi e raggiunge il massimo
negativo a tre quarti di giro (270°). L’ultima rotazione investe il quarto
quadrante da 270 a 360 gradi e la proiezione del raggio ritorna a zero.
Riportando in un diagramma (fig. 62b) il valore punto a punto della proiezione
91
del raggio, in ordinate, e mettendo in ascisse i corrispondenti valori dell’angolo
alfa oppure del tempo relativo alla velocità di rotazione, viene fuori la nota
figura della sinusoide che è una forma perfettamente simmetrica. All’angolo di
360 gradi corrisponde un arco di 2π , così all’angolo di 180° corrisponde un
arco pari a π e così via. Questa unità di misura particolare per valutare gli
angoli si chiama “radiante” .
Come si vede chiaramente in figura 62b, quando il raggio compie un giro e
prosegue a ruotare, la sua proiezione riprende esattamente i valori assunti al
primo giro e ciò significa che la sinusoide si ripete periodicamente. Il periodo è
definito come il tempo impiegato a compiere un giro, un ciclo, un’onda completa
e viene indicato con il termine “ T “ . Si definisce “frequenza “ il numero di
cicli, ovvero il numero di onde , ovvero il numero di periodi in un secondo,
quindi deriva che f = 1/T cioè quanti periodi ci stanno in un secondo. La
frequenza si misura in cicli/secondo, standard internazionale “ Hertz “. Vi sono
poi i multipli : kilohertz = 1000 Hz, Megahertz = 1 Milione di Hz, Gigahertz =
1000 MegaHertz.
Dalle figure 62 possiamo notare che una grandezza sinusoidale è
caratterizzata dalla sua ampiezza, riportata nell’asse verticale delle ordinate, e
dalla sua “frequenza” che è deducibile misurando il periodo direttamente
nell’asse orizzontale delle ascisse in cui è marcato il tempo. Poiché l’onda
sinusoidale è tracciata a partire da un raggio ruotante, in ascisse può essere
riportato l’angolo alfa in gradi oppure in radianti. Quando trattiamo un’onda
che si propaga nello spazio, come la luce oppure le onde elettromagnetiche in
generale, allora la variabile in ascisse è appunto lo spazio ed in corrispondenza
al “periodo T, cioè la porzione di un ciclo intero, si fa corrispondere la
“lunghezza d’onda “ che si indica con la lettera elle minuscola dell’alfabeto
greco cioè λ (lambda, figura 63). Ciò vale soprattutto a frequenze altissime
dove la lunghezza d’onda è più significativa (come nel caso della luce).
Fig. 63: Sinusoide e lunghezza d’onda
92
Proviamo ora a trovare la relazione tra frequenza e lunghezza d’onda,
ricordando che la frequenza, che si misura in “Hertz”, è pari al numero di cicli
(onde) al secondo, quindi è legata al tempo, infatti il suo inverso è il periodo T,
che si misura in secondi (spesso in sottomultipli) e rappresenta il tempo relativo
ad un’onda intera. La lunghezza d’onda è uno spazio quindi si misura in metri
(nei vari sottomultipli). La grandezza fisica che unisce spazio e tempo è la
velocità secondo la famosissima relazione
(4.1.1)
v = s/t
e
siccome la luce, i raggi cosmici, i raggi X, tutti i segnali radio/televisivi, sono
onde elettromagnetiche che differiscono per la frequenza, ma si propagano nello
spazio con la velocità della luce che si indica con “c” ed è una costante
universale il cui valore è pari a
300.000 chilometri al secondo cioè 300
milioni di metri al secondo, in notazione scientifica : 300 x 10 6 metri/secondo,
allora nella formula (1) al posto della velocità generica v metteremo la velocità
della luce c , al posto dello spazio metteremo la lunghezza d’onda λ e al posto
del tempo il periodo T , pertanto :
c = λ/T = λ f
λ = c/f
e
f = c/λ
(4.1.2)
da cui :
(4.1.3)
Per avere un’idea dell’ordine di grandezza delle frequenze e lunghezze
d’onda in gioco citiamo alcuni esempi, da cui apparirà chiaro quando conviene,
per opportunità, parlare di MegaHertz e quando invece è più comodo parlare di
lunghezza d’onda, restando pacifico che le due grandezze sono legate dalle
relazioni (3). Una delle cose più comuni e frequenti che ci capita giornalmente di
fare è ascoltare le stazioni radio FM nella gamma 88 MHz – 108 MHz ; è
comodo riferirsi alle frequenze anche con i decimali, ed infatti ci siamo abituati.
Se vogliamo calcolare la lunghezza d’onda, riprendiamo la prima delle
formule (3) e consideriamo una frequenza media di 100 MHz :
300 x 106 m/sec
λ = ------------------------ = 3 m (4)
100 x 106 Hertz
Questo valore di lunghezza d’onda è
utile ai tecnici in Telecomunicazioni in
quanto un’antenna per ricevere bene un
Segnale
radio o video deve avere
dimensioni multiple o sottomultiple della lunghezza d’onda relativa, che potrà
essere un’onda intera, mezza lunghezza d’onda oppure anche un quarto di
lunghezza d’onda, il che significa 3 metri, 1,50 mt oppure 75cm.
Come secondo esempio consideriamo un segnale televisivo VHF relativo a
RAI UNO che ha una frequenza di 300 MHz. Utilizzando la (4) e semplificando
il fattore comune 106
si ottiene
λ = 1 metro
Salendo di frequenza, i canali UHF, TV locali e private, sono intorno ai
900 MHz ed applicando sempre la formula (4) si ottiene:
λ = 33 cm
93
Da queste formule si intuiscono le dimensioni delle antenne televisive. Le cose
cambiano di molto se consideriamo i segnali della TV via satellite che sono
intorno ai 10 GigaHertz ( 1 Giga = 1000 Mega). Per queste frequenze sarà:
λ = 3 cm
La luce è un’onda elettromagnetica la cui frequenza è molto ma molto più alta
delle frequenze satellitari che sono le massime gestite dalle attuali tecnologie. E’
talmente alta che si preferisce riferirsi alla lunghezza d’onda. Consideriamo che
la luce è formata da una gamma di colori che va dal violetto al rosso passando
dal giallo, verde e blu. Ogni colore ha una sua frequenza, i valori di lunghezza
d’onda vanno da 0,4 micrometri per il violetto ai 0,76 μm per il rosso.
Ricordiamo che 1 micron (1 μm) è pari ad un milionesimo di metro, quindi un
millesimo di millimetro, in notazione scientifica :
1 μm = 1/1.000.000 = 1/ 106 = 10-6 metri = 10-3 mm
Si usano anche ulteriori sottomultipli come il “nanometro” (nm) pari ad un
millesimo di micron quindi ad un milionesimo di millimetro :
1 nm =
10-9 metri
=
10-6 mm
=
10-3 micron
E c’è ancora un altro sottomultiplo , l’ “Angstrom” (Ẳ) pari ad un
decimo di nanometro quindi 10-10 metri . Allora la lunghezza d’onda del
Violetto risulta 0,4 micron oppure 400 nanometri oppure 4000 Angstrom,
mentre quella del rosso sarà 0,76 μ , 760 nanometri oppure 7600 Angstrom.
Poiché la frequenza è l’inverso della lunghezza d’onda, se ne deduce che la
frequenza del Rosso è inferiore a quella del Violetto. Esiste peraltro una gamma
di frequenze “ inferiori” alla soglia del Rosso (quindi di lunghezza d’onda
maggiori di 7600 Angstrom) che l’occhio umano non percepisce e che prende il
nome di “Infrarossi” (infrared, IR) così come c’è una gamma di frequenze oltre
il Violetto chiamate “Ultravioletti” (ultraviolet, UV, lunghezze d’onda inferiori
a 4000 Angstrom), sempre non percepibili dall’occhio umano. Ancora oltre i
raggi ultravioletti, cioè a frequenze maggiori, e quindi lunghezze d’onda minori,
vi sono i Raggi X, seguiti dalle radiazioni nucleari (raggi gamma) e dai raggi
cosmici. Per avere un’idea del valore delle frequenze relative alla luce possiamo
utilizzare la seconda delle formule (3)
f= c/ λ
300 x 106
300 x 1013
= -------------- = --------------- = 750x 106 x 106 = 750 milioni di MHz
0,4 x 10-6
4
(*) Si comprende adesso il motivo per cui, per la luce, si considerano le lunghezze d’onda invece delle frequenza.
94
Fig.64a : Lunghezze d’onda e frequenze dalla radio ai raggi gamma
Fig. 64b : Spettro di lunghezze d’onda luce visibile e infrarossi
95
2. Effetto fotoconduttivo
Con questa denominazione si intende il meccanismo, solitamente nei
semiconduttori, per cui un materiale colpito dalla luce varia la sua conducibilità
nel senso che aumenta la corrente che lo attraversa. Il primo esempio di tale
fenomeno fu osservato nel 1873 (!) dal fisico W.Smith che lo sperimentò
utilizzando una barretta di Selenio (figura 64a) inserita in un circuito serie
comprendente una batteria, la barretta ed un amperometro.
a)
b)
Fig. 65
Per evidenziare l’effetto della luce, si riporta in un diagramma (fig. 64b)
l’andamento dell’intensità di corrente elettrica I (misurata dall’amperometro) in
funzione del tempo. Quando non c’è luce la corrente si mantiene molto bassa,
appena il Selenio viene illuminato la corrente elettrica sale bruscamente per poi
ritornare al valore iniziale riscontrato in assenza di luce. Quanto descritto si
verifica in tutti gli elementi classificati come semiconduttori e la spiegazione di
questa dipendenza della conducibilità dalla radiazione luminosa si può ritrovare
ricordando la struttura cristallina dei semiconduttori ed il meccanismo relativo
alla conduzione elettrica descritta per il Silicio nel capitolo secondo.
Abbiamo visto (capitolo secondo, paragrafo primo) che il Silicio, il più usato
dei semiconduttori, non tanto perché il migliore ma in quanto il più abbondante
in natura, presente nella sabbia e nella lava, ha una struttura chimica formata
da legami covalenti che rompendosi liberano elettroni negativi e lacune positive
(vedi pagina 26 figura 15) che gli conferiscono una certa conducibilità elettrica
anche se non paragonabile a quella dei conduttori metallici. Nel secondo
paragrafo del capitolo secondo, abbiamo visto che la conducibilità dei
semiconduttori può essere aumentata mediante il “doping” che è un processo
controllabile. Del resto la conducibilità aumenta anche per effetto della
temperatura, perché l’energia termica rompe i legami covalenti, ma la
temperatura non è un evento controllabile anzi di solito provoca danni.
96
Ebbene, la luce si comporta né più né meno come la temperatura cioè,
essendo energia, rompe i legami covalenti creando coppie elettrone-lacuna e
pertanto aumenta la conducibilità; così si spiega l’effetto fotoconduttivo mostrato
in figura 64. Però esiste una soglia minima di energia luminosa necessaria e
sufficiente a rompere i legami chimici (ciò è differente da materiale a materiale)
e poiché c’è una relazione tra energia e frequenza di una generica radiazione che
è l’espressione cardine della Fisica quantistica
E = hf
(4.2.1)
ad una energia minima corrisponde una soglia di frequenza minima. Dalle
relazioni (4.1.1) e (4.1.2) di pagina 78 si deduce la relazione tra frequenza e
lunghezza d’onda, quindi ad una soglia di frequenza corrisponde una soglia di
lunghezza d’onda ma in senso inverso cioè l’effetto fotoconduttivo si verifica al
di sotto di una lunghezza d’onda che per il Silicio è 1,13 micron mentre per il
Germanio la soglia è 1,73 micron. Ricordiamo che lo spettro luminoso cui è
sensibile l’occhio umano va da 0,4 micron a 0,76 micron.
Per quanto detto, gli elementi fotoconduttivi dal punto di vista elettrico
presentano una resistenza ohmica variabile al variare dell’intensità luminosa
che li colpisce e con essi è possibile realizzare dispositivi elettronici chiamati
“fotoresistori”. Attualmente si preferisce utilizzare come elemento fotosensibile
un composto del tipo
“Solfuro di Cadmio” (CdS) che si comporta come
semiconduttore ed ha una sensibilità spettrale alla luce migliore del Germanio e
del Silicio. Quando sono illuminati, i fotoresistori al CdS presentano una
resistenza elettrica di una decina di ohm, mentre al buio la resistenza sale a
valori di Megaohm. Vengono impiegati come interruttori “crepuscolari” per
attivare lampade quando al tramonto la luminosità si abbassa.
Ricordando che i raggi infrarossi si estendono da 0,76 micron a 3 micron
di lunghezza d’onda, utilizzando particolari sostanze sensibili in questo
intervallo si realizzano fotoresistori che utilizzando appunto l’effetto
fotoconduttivo vengono impiegati come “rivelatori” di raggi infrarossi. Il
materiale attualmente più impiegato è l’antimoniuro di indio (InSb). Dalla
tavola periodica degli elementi di pagina
vediamo che l’antimonio ha una
configurazione elettronica con 5 elettroni esterni, mentre l’indio ne ha una con 3
elettroni esterni. Combinandosi insieme in un composto omogeneo, formano una
struttura cristallina con legami covalenti come quelli del Silicio, pertanto
l’antimoniuro di indio si comporta come un semiconduttore ed è quindi
“fotoconduttivo” .
97
Fig. 66 Celle fotoconduttive (fotoresistenze)
98
3. Effetto fotovoltaico
Nel 1839 (!) il fisico Henri Becquerel fece un esperimento in cui uno dei due
elettrodi (ricoperto da una particolare sostanza fotosensibile), immersi in una
soluzione elettrolitica, veniva colpito da luce (figura 67). Tra i due elettrodi era
inserito un voltmetro che segnalava generazione di una forza elettromotrice
(fem) dell’ordine di 0,5 volt; questo fenomeno fu chiamato “ photo emf”
(electro motrice force) , per noi “effetto fotovoltaico”.
Fig. 67
La prima osservazione dell’effetto fotovoltaico tra Selenio (semiconduttore)
ed un metallo risale al 1877 da parte dei fisici G.Adams e R.Day. La struttura
era simile a quella rappresentata in figura 68, ed era realizzata depositando un
sottilissimo foglio d’oro su uno strato di Selenio a sua volta posto sopra una
piastrina di rame (il contatto metallo-semiconduttore funziona da diodo).
Fig. 68: Cella fotovoltaica al Selenio
99
Nel 1883 il Fisico Charles Fritz produsse in laboratorio una cella
fotovoltaica a base di Selenio. Aveva una superficie di 30 cm 2 ed un rendimento
di conversione del 2%. in cui il Selenio ha come base di contatto elettrico un
blocco di Rame mentre la superficie esposta alla luce è rivestita da un
sottilissimo strato metallico trasparente che realizza il secondo contatto elettrico;
è inserito un voltmetro che misura il potenziale fotovoltaico generato. Nel
diagramma di figura 69b è riportato l’andamento del potenziale fotovoltaico
rilevato dal voltmetro in assenza di luce ed in presenza di luce.
Fig. 69a
Fig. 69b
Soltanto nel 1931 il fisico tedesco L. Bergmann riprese gli esperimenti sulle
celle fotovoltaiche al Selenio che si evolvero sino al prototipo di figura 70.
Fig. 70 : Prototipo di cella fotovoltaica al Selenio
100
Nel 1933 i fisici L.Grondhal e G.Geiger scoprirono l’effetto fotovoltaico in un
diodo composto da Rame ed ossido di rame, figura 71. Nel 1936 il fisico tedesco
B.Lange realizzò un tipo di cella rame-ossido di rame che aveva il contatto
superiore realizzato mediante un sottile film di oro-argento.
Nel 1939 i fisici C. Nix e W. Treptow mettono a punto una cella fotovoltaica a
base di solfuro di Tallio che si comporta da semiconduttore
Fig. 71 : Cella fotovoltaica all’ossido di Rame
Nel 1954 i laboratori Bell misero a punto la prima cella fotovoltaica formata da
una giunzione PN al Silicio, ancora oggi universalmente usata per realizzare
pannelli fotovoltaici per generare elettricità da Sole. Nel 1957 fu sperimentata
una centralina ………. Nel 1958 il satellite artificiale americano “Vanguard” fu
dotato di una batteria fotovoltaica di 5mwatt che rimase in funzione per sei
anni; le applicazioni ai satelliti spaziali sono state un grande incentivo per lo
sviluppo delle celle fotovoltaiche.
Fig: 72: Cella fotovoltaica al Silicio realizzata da Bell Telerphone
101
Per comprendere il meccanismo che genera un potenziale fotovoltaico,
riprendiamo la descrizione di una giunzione PN al Silicio così come descritto nel
paragrafo 1 del Capitolo 3 a pagina 38 (figura 31). Per comodità, in figura 70 è
riportata appunto la giunzione con evidenziati tutti i soggetti elettrici (mobili e
fissi) che sono : elettroni (negativi) liberi (cerchietti) in maggioranza nella zona
N drogata con fosforo (pentavalente); lacune (positive) libere (cerchietti) in
maggioranza nella zona P drogata con Boro (trivalente); Ioni fosforo positivi
(quadratini) nella zona N; Ioni Boro negativi (quadratini) nella zona P. Infine vi
sono anche cariche libere minoritarie (triangolini) elettroni nella zona P e lacune
nella zona N.
Abbiamo visto che inizialmente elettroni e lacune (liberi di muoversi) si
attraggono reciprocamente e diffondendo attraverso la giunzione si incontrano e
formano un legame covalente, in gergo si dice che si sono “ricombinati” , e
cessano di esistere singolarmente come particelle libere.
fig. 72: Giunzione PN
102
Come abbiamo ampiamente descritto nel capitolo 3, la diffusione di elettroni
e lacune nei due sensi con conseguente “ricombinazione” non dura molto
perché nella zona attorno alla giunzione scompaiono le cariche libere
(ricombinate) e restano in evidenza soltanto le cariche fisse (Ioni positivi nella
zona N e Ioni negativi nella zona P).
Questa porzione suddetta viene chiamata “Depletion layer” , letteralmente
“strato svuotato” riferendosi alle cariche libere elettroni e lacune, ed è larga
circa mezzo micron. I due strati di ioni esercitano una importante azione
elettrica : Gli elettroni che dalla zona N volessero diffondere nella zona P
(attratti dalle lacune) vengono ora respinti dallo strato di Ioni negativi. Le
lacune che dalla zona P che volessero diffondere nella zona N (attratte dagli
elettroni) vengono ora respinte dallo strato ionico positivo. Pertanto il
movimento di cariche libere cessa e la situazione viene congelata come in figura
72 fino a che non intervengono cause esterne.
I due strati ionici costituiscono una vera e propria “barriera di potenziale”,
nei confronti delle cariche libere elettroni e lacune, il cui valore è 0,6 volt per il
Silicio. Abbiamo visto nel capitolo secondo che questa giunzione PN costituisce
un Diodo nel senso che conduce corrente a seconda della polarizzazione elettrica
applicata, in particolare è possibile una polarizzazione “diretta” che consente il
passaggio di corrente ed una polarizzazione “inversa” per la quale il diodo non
consente alcun passaggio di corrente.
Ricordiamoci che il diodo al Silicio, come del resto altri tipi di diodi, ha un
comportamento non lineare nella interdipendenza corrente-potenziale così
come riportato nei grafici del capitolo 3, in altre parole non obbedisce alla legge
di Ohm, valida per tutti i componenti elettrici, se non in un tratto molto limitato
delle sue curve caratteristiche (andare a rivedere i paragrafi descrittivi del
comportamento del diodo).
Il diodo, inoltre, consente il passaggio di corrente solo in una direzione e
questa è la proprietà più significativa che dà origine a tutte le sue applicazioni.
E veniamo, appunto, all’effetto fotovoltaico che deriva dalle proprietà di una
giunzione PN al Silicio e che dà origine ai pannelli solari fotovoltaici. Abbiamo
rivisto come funziona tale giunzione e riprendiamo la figura 72 : ruotiamola di
90 gradi in modo che la zona N sia verso l’alto come mostrato in figura 73
(nella realtà è proprio così, con le dovute proporzioni) e sia colpita dalla luce, in
gergo da fotoni che sono pacchetti di energia luminosa come fossero particelle di
luce piuttosto che onde luminose.
Quando la luce penetra nella giunzione, l’energia ad essa associata è
sufficiente a rompere un legame covalente relativo ad atomi di Silicio creando,
come abbiamo visto nel paragrafo 2 del capitolo 2, elettroni (negativi) liberi e
lacune (positive) libere. Il destino di queste cariche libere dipende in modo
decisivo dalla posizione in cui tali cariche libere si trovano. Dobbiamo
ricordare alcuni fattori importanti:
103
Fig. 73 Effetti dell’energia luminosa sulla giunzione PN
104
1. L’energia luminosa penetra nel Silicio fino ad una certa profondità che non
supera i 10 micron.
2. Ogni volta che si genera una coppia elettrone-lacuna, queste particelle
cariche diffondono all’interno del cristallo ma inevitabilmente dopo un certo
tempo (e quindi dopo avere percorso un certo spazio) l’elettrone incontra una
lacuna ed entrambi scompaiono perché formano un legame; lo stesso avviene
per la lacuna che incontra un elettrone.
3. L’elettrone ha una mobilità che è cinque volte maggiore di una lacuna poiché
è realmente libero di muoversi mentre la lacuna (rivedere la figura di pagina )
si muove per salti. Questo fatto si quantifica anche inserendo un parametro che
si chiama “libero cammino medio “ che appunto rappresenta lo spazio medio
che percorre una carica libera prima di incontrare una particella di segno
opposto con la quale si “ricombina” scomparendo come singola entità.
4. Ne consegue che il libero cammino medio degli elettroni è cinque volte
superiore a quello delle lacune.
Per quanto detto, l’energia luminosa crea coppie elettroni-lacune e quando
ciò accade all’interno della “depletion layer” o zona di svuotamento gli strati
ionici positivi e negativi esercitano una forte attrazione spingendo gli elettroni
nella zona N e le lacune nella zona P, entrambe le zone si arricchiscono
aumentando la loro carica elettrica complessiva con la conseguenza che ai capi
della giunzione nasce una differenza di potenziale che raggiunge il valore di 0,5
volt massimo. Questo è l’effetto fotovoltaico: dalla luce nasce energia.
Ma ricordiamoci della descrizione di una giunzione : Nella zona N vi sono
elettroni in maggioranza e lacune in minoranza, viceversa nella zona P vi sono
lacune in maggioranza ed elettroni in minoranza (rivedere la figura 72 di
pagina 103 ); ribadiamo che la situazione si congela poiché per le cariche
maggioritarie la barriera di potenziale (dovuta agli strati ionici positivi e
negativi) esistente nella depletion layer è appunto un ostacolo a possibili
movimenti. Ma per le cariche minoritarie la barriera di potenziale non è un
ostacolo e possono attraversare la giunzione con una sufficiente energia. Allora
quando la luce genera coppie elettrone- lacuna nella zona N sono le lacune
(minoritarie) che attraversano la giunzione e vanno nella zona P aumentando la
concentrazione di cariche positive. Lo stesso avviene nella zona P dove gli
elettroni, generati da rotture di legame dall’energia luminosa, attraversano la
giunzione e vanno nella zona N aumentando la concentrazione di cariche
negative. Naturalmente ciò avviene solo per quelle cariche generate ad una
distanza dalla depletion layer inferiore al “libero cammino medio” poiché quelle
più lontane si ricombinano.
In parole povere, in una pila è l’energia chimica che separa le cariche
elettriche ai due poli generando differenza di potenziale ai capi; lo stesso avviene
in un accumulatore per auto. In una giunzione al Silicio è l’energia luminosa
105
che, creando cariche elettriche per la rottura di legami chimici, separa cariche
elettriche agli estremi, generando forza elettromotrice che è proporzionale
all’energia luminosa ma raggiunge un massimo di 0,5 volt per questioni di
equilibrio elettrostatico interno, mentre la corrente che fornisce una cella
fotovoltaica a giunzione di Silicio è direttamente proporzionale alla superficie
colpita dalla luce.
Fig. 74 : Sezione di una fetta di Silicio che evidenzia la giunzione PN
Una giunzione PN al Silicio viene realizzata partendo da una fetta circolare
dal diametro di 15cm ( in figura 74 è riportata una sezione della fetta) e di
spessore pari a 0,2 mm già drogata tipo P secondo le specifiche richieste di
conducibilità. Si opera pertanto una diffusione di Fosforo (drogante
pentavalente) a circa 1200 gradi centigradi per una profondità di 0,5 micron
(questo valore è un giusto compromesso tra efficienza di assorbimento della luce
e resistenza elettrica non molto elevata).
La cella fotovoltaica è già funzionalmente pronta! Il resto sono accessori : Si
riduce lo spessore della fetta di Silicio per diminuirne la resistenza elettrica e
perché la luce non penetra a fondo. Poiché il Silicio ha un coefficiente di
riflessione elevato, vi si deposita sopra un sottile strato di ossido di Titanio
antiriflettente. Infine si metallizza la superficie inferiore, che è uno dei due
contatti elettrici, e quella superiore mediante una griglia che fa passare la luce e
costituisce il secondo contatto elettrico.
In figura 75 è mostrata una ulteriore sezione di una singola porzione di fetta
rappresentante una giunzione PN, mentre in figura 76 è mostrata la foto (quasi
in scala) di una fetta di Silicio pronta per essere inserita in un pannello; dai
quattro vertici si può dedurre che è la riduzione quadrata di un cerchio ottenuta
per ragioni di montaggio in quanto le fette vengono poi montate in serie in
pannelli, in numero di 60 come mostrato in figura 77 dove si vedono i pannelli a
loro volta collegati modularmente secondo le esigenze
106
Fig. 75. Sezione di una cella fotovoltaica a giunzione di Silicio PN
107
Fig. 76 : Una fetta di Silicio: in evidenza la griglia dei contatti
metallici
108
Fig. 76bis : Un pannello fotovoltaico montato a casa mia. 60 fette di Silicio
109
Fig. 77 : Pannelli fotovoltaici, ogni pannello 72 fette di Silicio
110
Fig. 77b
: Un inseguitore solare
111
4. LED (Light Emitting Diode)
I LED sono diodi ad emissione di luce. Li abbiamo visti in figura 1 di pagina
15 nel primo paragrafo del primo capitolo. Li rivediamo in figura 78 e diciamo
anche che ne esistono ancora tante altre tipologie diversissime (figura 78a).
Siamo abituati a vederli come indicatori in numerosissimi dispositivi (fig. 78a )
oppure negli indicatori luminosi numerici (display figura 79). Recentemente
sono state sviluppate lampade a LED ed è comunissimo usare le piccole e grandi
torce che hanno serie di LED (figura 79 ).
Fig. 78 Tre tipi di diodi LED
Fig. 78 a
Diodi LED commerciali
112
I LED sono appunto dei diodi al Silicio o altro tipo di semiconduttore e
pertanto per spiegarne il funzionamento riprendiamo la figura 32 di pagina 51
che appunto rappresenta una giunzione PN polarizzata direttamente.
Rinfreschiamoci la memoria : Nella zona
N (drogata con fosforo
pentavalente) vi sono tanti elettroni (negativi) in maggioranza (cerchietti). Vi
sono anche lacune (positive ) in minoranza (triangoli); entrambe queste cariche
elettriche sono mobili e quindi libere di muoversi. Vi sono peraltro delle cariche
fisse positive ( quadratini) che sono “ioni fosforo” che hanno perso un elettrone.
Dall’altra parte della giunzione c’è la zona P drogata con Boro trivalente;
qui vi sono in maggioranza lacune positive (cerchietti) , in minoranza elettroni
negativi (triangolini) ed inoltre “ioni Boro” negativi . Lacune ed elettroni sono
cariche libere mentre gli ioni negativi sono fissi.
Abbiamo visto che se applichiamo una differenza di potenziale maggiore di
0,6 volt in modo “diretto” come nella figura riportata, elettroni e lacune si
spostano dando luogo ad una corrente elettrica la cui intensità dipende dalla
forza elettro motrice V (f.e.m.) applicata. Entrando in dettaglio, gli elettroni
della zona N vengono attratti dal polo positivo della batteria e, dopo avere
scavalcato la barriera di potenziale della depletion layer, poi proseguono per
ritornare nella zona N. Le lacune della zona P vengono attratte dal polo negativo
113
Fig. 79
114
della batteria e, dopo avere attraversato la barriera di potenziale della depletion
layer, vanno verso la batteria e poi ritornano nella zona P.
Come abbiamo descritto nel paragrafo 3.2 del Capitolo 3, gli elettroni che si
muovono nella giunzione PN , oltre a subire urti nei confronti degli atomi di
Silicio ed essere respinti da ioni Boro negativi, possono anche “incontrare” una
lacuna da cui sono attratti (essendo quest’ultima positiva). In fondo che cos’è
una lacuna? E’ un legame covalente che si è spezzato per effetto termico, è un
vuoto (hole) lasciato da un elettrone che è diventato libero, è un potenziale
elettrico positivo. Esiste una buona probabilità che un elettrone mobile possa
“ricombinare” quel legame covalente spezzato. Nel momento in cui elettrone e
lacuna si ricombinano si riforma il legame e cessano di esistere come entità
singole ed indipendenti. In parole povere “si sposano” e si uniscono per sempre
formando un nuovo legame duraturo.
A questo punto vediamo perché abbiamo fatto tutto questo preambolo:
quando l’elettrone libero si ricombina con una lacuna, perde energia e questa
viene emessa sotto forma di energia luminosa cioè “luce” . Ecco che da tutti i
miliardi di ricombinazioni viene emessa luce! Ed ecco il diodo LED.
Naturalmente non è così semplice. Sappiamo che la luce comprende diversi
colori dal rosso al violetto. La luce è un’onda elettromagnetica che si propaga
alla velocità di 300.00 km al secondo. Poi ci sono i raggi infrarossi e le radiazioni
ultraviolette che noi non percepiamo. La luce emessa dal LED dipende dal
materiale usato per la giunzione PN. Se è Silicio la luce emessa è blu.
115
I materiali più usati sono l’Arseniuro di Gallio ed il Fosfuro di Gallio, che
danno un colore, giallo e rosso e verde. Il composto Arsenico, Fosforo e Gallio dà
luce bianca. Soffermiamoci un attimo su questi elementi : Arsenico e Gallio.
Rivedendo la tavola periodica degli elementi. Così come il Fosforo, già
incontrato come elemento drogante per il Silicio, che è pentavalente per cui ha 5
elettroni nell’ultima orbita (uno in più del Silicio), così l’Arsenico è pentavalente.
Allo stesso modo il Gallio è trivalente (3 elettroni periferici) come il Boro. La
peculiarietà di Arsenico e Gallio è che oltre ad essere usati come droganti per il
Silicio, se uniti in un composto come Arseniuro di Gallio si comportano come un
semiconduttore e possono sostituire il Silicio nei componenti elettronici. E’
quello che si fa nella costruzione dei diodi LED dove si sfruttano le specifiche
caratteristiche dell’Arsenico e del Gallio, che hanno una mobilità elettronica
superiore a quella del Silicio.
Tornando alla luce, anzi all’intero spettro luminoso, così come abbiamo già
visto, è molto comodo ed usato il sistema di rappresentazione della gamma
luminosa mediante le frequenze e le lunghezze d’onda che caratterizzano le
diverse radiazioni. In figura 81 viene riportato un grafico con le diverse
distribuzioni spettrali per diversi materiali usati nella costruzione di diodi LED.
Si vede come il composto GaAsP dia una luce bianca mentre l’Arseniuro di
Gallio (GaAs) è sugli Infrarossi.
Concludiamo riflettendo che il meccanismo del LED è esattamente
l’opposto di quello relativo ai diodi fotovoltaici (figura 73 di pagina 105). Nel
primo caso da energia elettrica si produce la luce, nel secondo dalla luce si
produce energia elettrica. Come tante cose nella vita i due fenomeni sono
complementari.
Non possiamo però non accennare all’ultimo impiego dei LED negli schermi
televisivi, noti come “ Televisori a LED” . E’ stato molto enfatizzato per
motivi commerciali, alla fine i LED VENGONO IMPIEGATI BANALMENTE
COME SORGENTE LUMINOSA per retroilluminare lo schermo TV , in cui la
formazione dei colori e delle immagini rimane quella classica. I LED sono utili
perche hanno notevole brillanza a basso costo. Ne riparleremo.
116
Fig. 80 Indicatori a LED
117
118
5. LCD
( Liquid Cristal Display)
I Display a cristalli liquidi (LCD) sono stati realizzati dopo i LED.
Inizialmente furono usati come visualizzatori numerici ed alfanumerici (figura
80a); in seguito sono stati ampiamente usati negli schermi dei televisori, solo di
recente soppiantati dagli schermi a LED. Il primo ad osservare il fenomeno dei
cristalli liquidi fu il botanico austriaco Reinitzer nel 1888 (!).
Egli notò che il composto organico “ benzoato di colesterile” si comportava in
modo anomalo quando si avvicinava alla temperatura di transizione allo stato
liquido: dopo avere raggiunto il punto di fusione a 145° , raggiungeva il punto
di liquefazione a 179° . Nell’intervallo di queste temperature mostrava un
comportamento intermedio che egli appunto chiamò cristalli liquidi.
La caratteristica dell’aggregato presentava molecole molto allungate, i
relativi cristalli presentavano la proprietà di riflettere selettivamente la luce. Ci
sono voluti però 100 anni per arrivare ad utilizzare questi cristalli nelle
tecnologie moderne.
Fig. 82 Indicatori a cristalli liquidi
119
Fig. 80b Polarizzazione dei cristalli liquidi
120
6. LASER
Il raggio LASER è stato sviluppato intorno agli anni 60 del secolo scorso.
Il suo acronimo sta per
LIGHT AMPLIFICATION by STIMULATED
EMISSION of RADIATION, cioè Amplificazione di luce mediante emissione
stimolata di Radiazione.
Fig. 80 c
121
Fig. 80d Spettro delle Onde Elettromagnetiche da +i raggiX agli
Infrarossi
122
CAPITOLO QUINTO
IL TRANSISTORE
123
5.1 Bipolar junction transistor (BJT)
Per quelli della mia generazione, “transistor”
alla fine degli anni 50 era
sinonimo di radiolina portatile, era una abbreviazione di “radio a transistor” e
giustamente a livello popolare si mise enfasi sul componente più importante di quelle
radio. Il transistor (in inglese l’accento è sulla prima sillaba, in italiano è tradotto
“transistore”, oggi è noto come BJT, transistore a giunzione bipolare) è il successore
delle storiche “valvole” che hanno segnato l’Elettronica pionieristica degli anni
trenta-quaranta. Come il diodo, il transistore è un componente a semiconduttore,
tendenzialmente Silicio, Germanio e composti III°-V° gruppo, e del diodo è
l’evoluzione naturale.
Mentre il diodo, che ha tantissime applicazioni (ne vedremo ancora), è un
elemento “passivo” nel senso che modifica soltanto le forme d’onda dei segnali
elettrici applicati, il transistore è un elemento “attivo” in quanto riesce ad
“amplificare” un segnale restituendolo con una ampiezza maggiore, questa è una,
forse la più importante, delle sue caratteristiche peculiari.
Come abbiamo visto, le proprietà dei Semiconduttori furono scoperte a metà
dell’Ottocento, ma si è dovuti arrivare al 1948 per inventare il primo transistor al
Germanio da parte di tre scienziati americani che per questo ebbero il premio Nobel,
si chiamavano Shockley, Brattain, Bardeen. La funzione principale di un transistore
è quindi quella di amplificare un segnale. Per avere un’idea si pensi ad un megafono
in cui un microfono converte il suono in segnale elettrico ed un amplificatore con uno
o più transistori amplifica tale segnale per renderlo sufficiente a pilotare l’altoparlante
che diffonde il suono. Quando parliamo di amplificatore pensiamo prevalentemente
ad un riproduttore di suoni, giradischi, lettori di CD, riproduttori MP3, MP4,
autoradio, etc.etc. Tutti questi dispositivi sono costituiti da transistor o dispositivi
integrati che ne inglobano decine o addirittura centinaia.
Ripetiamo, il transistore è un dispositivo a semiconduttore con tre terminali (il
diodo ne ha due) : a due di questi si applica un segnale elettrico ed ai capi di altri due
si ritrova lo stesso segnale (con identica forma) amplificato. Uno dei tre terminali è
comune ad ingresso e uscita. Oggi l’accezione più diffusa è BJT che vuol dire Bipolar
Junction Transistor, cioè transistore bipolare a giunzione per distinguerlo da altri tipi
che sono stati creati successivamente, dove bipolare si riferisce al fatto che, come il
diodo, le cariche elettriche sono di due tipi (elettroni e lacune) e la giunzione è del
tipo PN sempre già vista per il diodo. In altri dispositivi equivalenti dal punto di vista
funzionale ma differenti come tecnologia costruttiva, la conduzione elettrica è riferita
soltanto ad un tipo di carica elettrica, gli elettroni oppure le lacune. In particolare,
quanto detto si riferisce ai dispositivi “MOSFET” che vedremo nella parte dedicata
alle tecnologie.
L’etimologia del termine originale “transistor” deriva dall’unione di due parole:
transfer e resistor cioè “trasferimento di resistenza” come si capirà nel seguito
spiegandone il meccanismo di funzionamento. Cominciamo col dire che il transistore
124
è una estensione del diodo a semiconduttore in cui viene aggiunta una terza zona
drogata in modo da formare una struttura sequenziale PNP oppure NPN (figura 80),
quindi non una ma due giunzioni. La zona centrale viene chiamata “base”, una delle
due estreme è chiamata “emettitore” (emitter), l’altra “collettore” (collector) nel
senso che dalla prima partono le cariche elettriche mentre la seconda le raccoglie,
tutto ciò sotto opportune polarizzazioni elettriche che vedremo.
Fig: 81: schematizzazione di BJT NPN e PNP
La struttura di base di un BJT è riportata in figura 80 : trattasi di un tipo
denominato NPN ed un altro denominato PNP, sono equivalenti. Come abbiamo
visto per il diodo, le zone N sono ricche di elettroni mentre le lacune sono
minoritarie, invece le zone P sono ricche di lacune mentre gli elettroni sono
minoritari. Le concentrazioni di elettroni e lacune, cioè le rispettive densità
(Numero/unità di volume), dipendono unicamente dal processo di drogaggio con
atomi pentavalenti e trivalenti, ciò tra l’altro, come vedremo nel capitolo dedicato alle
tecnologie costruttive, è controllabile in maniera perfetta con tutte le differenti
tecniche e metodi di drogaggio.
Si considerano due giunzioni : una tra emettitore e base, l’altra tra base e
collettore; normalmente la prima è polarizzata direttamente mentre la seconda è
polarizzata inversamente; uno dei tre tra base, emettitore e collettore è in connessione
125
elettrica in comune agli altri due dando origine a tre possibili configurazioni
denominate “base comune”, emettitore comune”, collettore comune”.
Fig. 82 : schema base di un NPN ad emettitore comune
Consideriamo prima quella ad emettitore comune, che peraltro è la più diffusa, e
riferiamoci alla figura 81: tra Base ed Emettitore è inserita una batteria di valore
basso (solitamente 1,5 volt) con il positivo verso la Base in modo da polarizzare
direttamente la giunzione Base-Emettitore che peraltro è assimilabile ad un Diodo e,
ricordandoci quanto abbiamo descritto, conduce corrente a partire da 0,6 volt per il
Silicio oppure 0,2 volt per il Germanio. Collegando una batteria (3 – 15 volt) con il
positivo al collettore ed il negativo all’emettitore (in comune al negativo della
batteria base-emettitore), la giunzione collettore-base risulta polarizzata
inversamente, infatti, pur essendo collegati al positivo sia base che collettore, la
differenza di potenziale è comunque positiva rispetto al collettore che essendo tipo N
risulta polarizzato inversamente ed è per questo che possiamo applicare un potenziale
abbastanza alto fino a 15 volt. Oltre a considerare le polarizzazioni, bisogna
considerare i movimenti che le cariche elettriche libere (elettroni e lacune) effettuano
di conseguenza. Riprendiamo per l’ennesima volta (repetita juvant) la situazione delle
cariche (fisse e mobili) all’interno della giunzione Emettitore-Base e BaseCollettore (figura 81), entrambe assimilabili a due diodi e quindi ricordiamoci tutto
quello che abbiamo detto nei capitoli precedenti. Se consideriamo un dispositivo
NPN, l’Emettitore è ricco di elettroni maggioritari e vi sono lacune minoritarie. La
Base è ricca di lacune in maggioranza con elettroni minoritari. Il Collettore è come
126
l’Emettitore anche se, come vedremo, può essere opportuno, per determinate
contingenze, differenziarne le densità di cariche (quindi la resistenza ohmica
presentata) agendo sui processi di drogaggio. Consideriamo ora, per esigenze
didattiche, separatamente la giunzione Base-Emettitore staccando il Collettore (figura
82) e poi il circuito Emettitore-Collettore staccando la Base (figura 83).
fig. 83a: Base-emettitore
fig. 83b: Collettore-emettitore
Nel primo caso, come abbiamo già detto, Base-Emettitore costituiscono un diodo
polarizzato direttamente pertanto con un potenziale VBE compreso tra 0,6 volt (soglia)
ed 1,5 volt passa una corrente IB costituita da elettroni che dall’Emettitore sono
attratti dal polo positivo della batteria e da lacune della Base che vengono attratti dal
polo negativo. Il verso di tale corrente è quello degli elettroni ma “per convenzione”
si è stabilito che la corrente va dal positivo della batteria al negativo della stessa,
pertanto la corrente IB “entra” nella Base ed esce dall’Emettitore. L’andamento di
tale corrente è mostrato nel diagramma di figura 84 e chiaramente è simile al
diagramma di un qualsiasi diodo al Silicio.
Consideriamo ora il circuito di figura 83 : la Base è staccata (open) e gli elettroni
dell’Emettitore e del Collettore sono attratti dal potenziale positivo V CE quindi si
stabilisce una corrente IC che parte dall’interno dell’Emettitore, attraversa la Base,
attraversa il collettore e, passando per la batteria,
ritorna all’Emettitore. Per
convenzione questa corrente entra nel Collettore ed esce dall’Emettitore ed il suo
andamento è riportato nel diagramma di figura 85 in funzione del valore di VCE.
127
Dal diagramma si vede che la corrente aumenta inizialmente, aumentando il
potenziale, perché le due grandezze sono direttamente proporzionali ed è intuitivo
che aumentando VCE vengono attratti una quantità crescente di elettroni, ma poi
aumentando ulteriormente il potenziale la corrente rimane costante perché tutti gli
elettroni disponibili sono stati coinvolti.
fig. 84: IB funzione di VBE
fig. 85 : IC funzione di VCE
Consideriamo ora lo schema di figura 86 di pagina 110 che riprende
sostanzialmente lo schema di figura 81: ricordiamo (repetita juvant) che l’Emettitore
di tipo N è ricco di cariche libere negative (elettroni), la cui densità si può controllare
e regolare agendo sul processo di doping, in sostanza se si vuole un Emettitore più
denso di elettroni allora si diffonderanno nel Silicio una quantità sempre più grande
di atomi di Fosforo ( o di altro atomo pentavalente); nel caso del BJT l’Emettitore
deve essere molto ricco di elettroni perché la sua funzione è appunto quella di
“emetterli”. Le due batterie che provvedono alla polarizzazione devono avere
opportuni valori : quella di base (VBB) può essere di basso valore dato che la
giunzione base-emettitore è polarizzata direttamente ed è quindi sufficiente un valore
di tensione compreso tra la soglia (0,6 volt) necessaria a far passare corrente ed il
valore massimo consentito che è circa 1,5 volt. Quella di Collettore (V CC), invece,
poiché deve attrarre e raccogliere il maggior numero di elettroni (da cui il nome
“Collettore”) dovrà essere quanto più alta possibile e quindi potrà raggiungere anche
la decina di volt senza problemi perché la giunzione collettore-base è polarizzata
inversamente ed in tale contesto si può applicare tensione fino al valore della tensione
di “breakdown” (diagramma di figura a pagina ) mantenendosene comunque a
128
Fig. 86 : Meccanismo di conduzione in un BJT “ npn “
129
distanza di sicurezza; la tensione di breakdown di un generico BJT può raggiungere
40 volt per cui la tensione della batteria VCC può essere tranquillamente 15 volt.
Il meccanismo di conduzione è il seguente: gli elettroni dell’Emettitore vengono
attratti dalle due batterie VBE e VCE ma, poiché quest’ultima è molto maggiore della
prima, la stragrande maggioranza di essi raggiunge il Collettore (e quindi VCE)
attraversando la Base, solo una minima parte raggiunge il polo positivo di VBE.
Il pericolo potrebbe essere costituito dal fatto che esiste la probabilità che un elettrone,
attraversando la Base di tipo P, incontri una lacuna e si ricombini “scomparendo”
come carica libera (passa cioè dallo stato di elettrone di conduzione a quello di
elettrone di valenza avendo formato un legame chimico covalente). Tale probabilità
si rende minima costruendo tecnologicamente una Base ultrasottile tanto da
avvicinare il suo spessore al libero cammino medio di un elettrone prima che incontri
una lacuna, ed inoltre poco drogata (poche lacune).
Se poi si considera che la depletion layer della giunzione collettore-base si
allarga essendo polarizzata inversamente, si conclude che la base “effettiva” è ancora
più sottile della base fisica, si può affermare che sicuramente una parte
trascurabilissima di elettroni si ricombina mentre la maggior parte raggiunge il
Collettore. Per quanto descritto, si stabiliscono due correnti: quella che attraversa la
giunzione base-emettitore, e passa per la batteria VBE, è chiamata IB ed è dell’ordine
dei microampère (1µA = un milionesimo di Ampère). Quella che parte
dall’emettitore, attraversa la base e raggiunge il collettore proseguendo per la batteria
VCE, è chiamata IC ed è molto maggiore di IB essendo dell’ordine dei milliampère
(1mA = un millesimo di Ampère).
Fig. 87 : Simboli BJT
NPN e PNP
Naturalmente lo schema del BJT che abbiamo usato per descriverne il
funzionamento è una rappresentazione, per opportuna comodità, quanto più possibile
vicina alla realtà. Negli schemi ufficiali vengono adottati i simboli riportati in figura
87 per i dispositivi NPN e PNP; il verso della freccia sull’emettitore rappresenta il
verso della corrente convenzionale.
130
5.2 Circuito di polarizzazione di un BJT
Per comprendere ancora meglio il funzionamento di un BJT consideriamo il
circuito di figura 88. Un dispositivo NPN è polarizzato da due batterie e, mediante
due resistenze RB ed RC, vengono regolate le due correnti IB e IC e di
conseguenza i potenziali VCE e VBE. Le due batterie sono contrassegnate con due
frecce che vogliono simbolicamente rappresentare due generatori di tensione
variabile con continuità da zero ad un valore determinato. Inserendo opportunamente
due amperometri in serie ai circuiti di Collettore e Base e due voltmetri che misurano
VBE e VCE, è possibile ricavare le curve caratteristiche del BJT e cioè l’andamento
della corrente di base IB al variare del potenziale VBE tenendo costante VCC. Quello
che si ottiene è un diagramma che ricalca l’andamento caratteristico di un diodo, tale
è la giunzione Base-Emettitore.
fig. 88 : Circuito di base per un BJT npn
Invece tenendo costante la corrente di base IB e variando la tensione della
batteria VCC, si può ricavare l’andamento della corrente di collettore I C in funzione
della VCE per un determinato valore di I B. Se a quest’ultima si dà inizialmente il
valore zero si ottiene una curva simile a quella riportata in figura 85 di pagina 108.
Successivamente si ripete la procedura fissando questa volta la I B ad un valore
costante pari a 10 microampère (1 µA = un millesimo di milliampère = un
milionesimo di Ampère ) e leggendo i valori di IC al variare di VCE si ottiene una
curva simile alla precedente ma traslata a valori più alti di I C.
131
Proseguendo per successivi differenti valori di IB , sempre crescenti, e ripetendo la
procedura descritta, si ottiene un insieme, una famiglia di curve caratteristiche
riportate in figura 89.
Era prevedibile che le differenti curve fossero parallele, matematicamente esse si
esprimono con la relazione funzionale
IC = f(VCE)
per IB = costante
Che appunto si legge : Corrente di collettore in funzione della tensione V CE per
differenti valori costanti della corrente di base. Ricordiamo il differente ordine di
grandezza tra le correnti, quella di base in microAmpère (µA, milionesimi di
Ampère), quella di collettore in milliampère (mA, millesimi di Ampère).
Fig. 89 Famiglia di curve
IC= f(VCE) per IB= cost.
Riassumiamo quanto descritto in questo capitolo dedicato al BJT : Il transistore
bipolare a giunzione è un dispositivo a tre terminali corrispondenti a tre diverse zone
di materiale semiconduttore (tipicamente Silicio) con drogaggio alternato :
Emettitore tipo N, Base tipo P e collettore tipo N. Oppure il contrario : Emettitore
tipo P, Base tipo N e Collettore tipo P. Quindi si avranno due differenti tipi di BJT (il
primo tipo NPN, il secondo tipo PNP) sostanzialmente e funzionalmente equivalenti
a meno di alcune caratteristiche. La loro funzionalità è espressa dal diagramma BaseEmettitore di figura 84 e da quello Collettore-Emettitore di figura 89.
113
132
5.3 Il transistore come amplificatore
Un BJT ha tantissimi impieghi funzionali in Elettronica ma quello per cui è stato
inventato e che rimane il più importante e significativo è senza dubbio quello di
“amplificatore”. Amplificare significa aumentare ovvero elevare il livello cioè
l’ampiezza di un segnale elettrico variabile nel tempo; l’esempio più semplice che si
può ricordare può essere quello di un segnale elettrico fornito da un microfono: per
potere pilotare adeguatamente un altoparlante (che riproduce il suono) oppure una
trasmittente Radio/Video, occorre aumentare l’ampiezza del segnale
quindi
“amplificarlo”.
Per comprendere come un BJT possa amplificare ritorniamo alle curve
caratteristiche di Collettore e supponiamo di mantenere il circuito relativo a tensione
costante per quanto riguarda VCE, ad esempio 10 volt, quindi graficamente (figura 90)
tracciamo una retta verticale in corrispondenza di V CE = 10 volt.
Fig. 90 : Determinazione grafica del guadagno di corrente
Le curve caratteristiche sono tracciate sperimentalmente e sono disponibili per
ogni tipo diverso di BJT nei manuali tecnici. Ora facciamo una operazione deduttiva
sul diagramma, come se facessimo operazioni sperimentali sul circuito elettronico
che è sempre quello di figura 88 di pagina 111. Supponiamo, sempre tenendo
costante la VCE a 10 volt, di fissare la V BE in modo che la corrente di base IB al
valore (peraltro scelto a piacere) di 30 microampère. A questo valore di IB
corrisponde un valore di corrente di collettore IC pari a 4 milliampère. Adesso,
agendo sulla VBE, portiamo la corrente di Base al valore di 40 microampère; nel
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diagramma saliamo verticalmente sulla retta ed incontriamo la curva superiore
tracciata per IB= 40 µA. A questo nuovo valore della corrente di Base corrisponde
(tratteggio orizzontale) una corrente di collettore pari a 5 milliampère.
Era prevedibile e non ci meravigliamo se aumentando la I B aumenta in
corrispondenza la IC poiché un aumento della tensione VBE (quindi della IB) attira
più cariche elettriche dall’Emettitore ma a beneficiarne maggiormente è la corrente di
Collettore per la struttura particolare (sottigliezza) della Base e perché, soprattutto, la
tensione di Collettore VCE è dieci volte maggiore della VBE. Del resto abbiamo già
assodato che nelle condizioni circuitali descritte la corrente di Base è dell’ordine dei
microAmpère (milionesimi di Ampère) mentre quella di Collettore è dell’ordine dei
milliAmpère (millesimi di Ampère) cioè mille volte maggiore.
Ma la cosa più significativa che si trae dal diagramma è questa : passando da una
IB di 30 microAmpère ad una di 40 microAmpère, provocando cioè una
“variazione”
ΔIB di 10 microAmpère, si ha come conseguenza una
“variazione”
ΔIC di
1 milliAmpère sulla corrente di Collettore.
Il rapporto
ΔIC
-------ΔIB
ci dice “quanto” la variazione di corrente di collettore sia più grande della
corrispondente variazione di corrente di Base che l’ha provocata. Essendo il rapporto
tra grandezze omogenee sarà espresso da un numero puro, cioè è una grandezza
“adimensionata” , così come il “rendimento” . Questo rapporto viene chiamato
“Guadagno di corrente” oppure, ancora meglio, “Rapporto di amplificazione” e si
indica universalmente con la lettera β. E’ evidente che, poiché ricavando la
formula inversa ΔIC = β Δ IB ,
conoscendo il valore di β dai manuali, oppure
ricavandola dai diagrammi, ad ogni variazione di corrente di Base può ricavarsi la
corrispondente variazione di corrente di Collettore che è β volte maggiore. Nel caso
del diagramma di figura 90 :
ΔIC = 1 mA = 10 -3 Ampère
β =
10 -3
---------------- = 10 -3 x 10 5
10 x 10 -6
ΔIB = 10 µA = 10 x 10 -6 Ampère
=
100
Ciò significa che il guadagno di corrente è pari a 100, quindi la variazione di
corrente di collettore è cento volte quella di Base. Il guadagno di corrente è un
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parametro che si può controllare abbastanza agevolmente nelle fasi del processo
tecnologico di fabbricazione di un BJT. Il valore può arrivare anche a 1000. Oltre al
guadagno di corrente β , vi sono altri parametri elettrici che caratterizzano un BJT.
Vi sono quelli cosiddetti statici, cioè a riposo, (assenza di segnale) e quelli
“dinamici” che invece si misurano in presenza di un segnale variabile in ingresso
soprattutto in riferimento alla frequenza del segnale stesso . I più importanti, tra gli
statici, sono le tensioni di Breakdown (vedere figura 41 di pagina 55 ) e le correnti
inverse così come abbiamo visto per i diodi. Le prime rappresentano le massime
tensioni che si possono applicare ad una giunzione polarizzata inversamente,
superandole il diodo va in rottura a valanga (Breakdown) e si distrugge come un
fusibile. Le seconde nascono sempre in polarizzazione inversa e sono dovute alle
cariche minoritarie. Le correnti inverse sono indesiderate e dovrebbero mantenersi
più basse possibili, dipendono dalla temperatura e da imperfezioni tecnologiche.
Considerando le giunzioni collettore-base e base emettitore polarizzate
inversamente, le tensioni di Breakdown sono
BVCBO e BVEBO che si leggono
“Breakdown voltage tra collettore e base con Emitter open” , cioè tensione di
rottura tra collettore e base con emettitore aperto, e Breakdown voltage tra
emettitore e base con Collettore open”, cioè tensione di rottura tra emettitore e base
con collettore aperto. Corrispondentemente vi sono le correnti inverse ICBO ed IEBO
che si leggono “ corrente tra collettore e base con Emettitore Open” e corrente tra
emettitore e base con collettore Open”.
In figura 91 sono riportati alcuni dei tantissimi tipi di transistori così come ci
appaiono nella realtà. In seguito, nelle successive parti, descriveremo le diverse
tecnologie costruttive. Quelli raffigurati sono di “stazza media” , ce ne sono di più
piccoli e di più grandi (anche da 100 Watt), incapsulati in metallo ed in plastica (che
è una resina epossidica). Sono ben visibili i tre terminali che corrispondono ai
collegamenti di Base , Emettitore e Collettore.
In figura 92 è invece riportato un prototipo del primo transistore realizzato nel
1947 utilizzando una barretta di Germanio. In figura 93 un transistore di media
potenza in cassa plastica. Sono sovraimpressi il tipo KT819, il marchio di fabbrica, il
mese 05 di produzione e l’anno di produzione 2010.
Termina qui questa prima parte dedicata all’elettronica analogica. Seguirà la
seconda parte che tratterà l’Elettronica digitale e poi ancora le parti applicative.
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Fig. 91 :
Diversi tipi di transistori
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Fig. 92 :
Ricostruzione del primo prototipo di transistore (1947)
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Fig.93:
Un transistor di media potenza in cassa plastica
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Fig.94 : Transistore di Potenza al Silicio. I due contatti (peraltro staccati)
sono Base ed Emettitore. Il collettore è costituito dalla massa del chip che è saldato
al supporto metallico.
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Bibliografia
J.Millmann. Microelettronica. Mc Graw-Hill
M.Phillips. Semiconductors. Mc Graw-Hill
G. Lotti . Elettronica generale . Vol. I , Ed. Fermo
G. Shive. Semiconduttori, Ed. Ambrosiana
A. Cupido. Elettronica generale, Ed. Cupido
D. Warschauer . Semiconductors and Transistors , Mc Graw Hill
S.M Sze : Fisica dei dispositivi a semiconduttore, Tamburini Ed.
A.S.Grove : Fisica e Tecnologia dei dispositivi a semiconduttore, Angeli
ed.
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