Le organizzazioni del XXI secolo e il bisogno di scienze sociali

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Working Paper
Le organizzazioni del XXI secolo e il
bisogno di scienze sociali
Federico Butera
WP3 / 2010
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Le organizzazioni del XXI secolo e il bisogno di scienze sociali1
di Federico Butera
1.
Giudizi e pregiudizi sulla sociologia dell’organizzazione
La sociologia dell’organizzazione nasce insieme alla sociologia poiché l’investigazione sulla natura
delle organizzazioni appare fin dall’inizio come una sfera fondamentale nella investigazione sulla
natura della società. Senza voler risalire a Spencer e Marx come sarebbe possibile e forse
doveroso, è noto che lo studio della divisione del lavoro inizia con Durkheim (1893) il quale pone la
questione della cooperazione e del conflitto; che l’investigazione sul coordinamento e controllo e
sulla autorità professionale nasce con Max Weber (1945) che affronta la questione burocratica;
che Parsons (1987) nella sua visione funzionalistica della società formula una proposta teorica
sulle funzioni delle e nelle organizzazioni; che la scuola di Francoforte indirizza gran parte della
propria analisi critica sulle organizzazioni capitalistiche. Basta scorrere l’indice analitico di un
manuale di storia della sociologia per trovare un gran numero di importanti citazioni che
riguardano le organizzazioni.
Il pensiero organizzativo è il risultato di contributi di altre grandi aree scientifiche e culturali: il
diritto, l’economia politica, l’economia aziendale, le scienze politiche, l’ingegneria, l’informatica ma
anche l’antropologia, la storia, e perfino la letteratura. Senza nulla togliere a Max Weber, Blau e
Crozier, a chi mi chiede due soli libri per capire la burocrazia io consiglio talvolta The political
systems of empires di Eisenstadt (1963) e Il castello di Kafka (1929).
In questa nota io voglio però concentrarmi non sul pensiero organizzativo ma proprio sulla
sociologia dell’organizzazione, come disciplina che si è differenziata dal più vasto corpo della
sociologia (e anche - come sosterrò - delle scienze organizzative) e ha dato luogo a uno specifico
corpus di teorie, metodi e pratiche di ricerca e professionali.
È un diffuso pregiudizio che la sociologia dell’organizzazione sia una disciplina minore delle
scienze organizzative e della sociologia economica, una disciplina talvolta critica dell’apparato
normativo dello scientific management, centrata su tematiche poste dalle direzioni di impresa e
che trova la sua radice nel contrastare l'egemonia dei modelli concettuali e operativi dell’economia
aziendale, delle administrative sciences di origine giuridica e delle management sciences. Oggetto
della disciplina sarebbero - per tale pregiudizio - quelle “porzioni di società” iscritte entro le grandi
organizzazioni produttive e le grandi amministrazioni o lo studio di fenomeni sociali comuni ad ogni
tipo di organizzazione (come l’autorità, la leadership, la cooperazione, etc.).
Nel mondo anglosassone grandi sociologi come Parsons, Merton (1949), Blau (1971), Scott
(1964), Selzinick (1953), March (1965), Etzioni (1964) e molti altri sono stati anche grandi
“organization theorists”. Ma il processo di differenziazione della disciplina inizia veramente solo
intorno agli anni ’60 intorno a figure di primissimo piano come Gouldner (1954), Thompson (1967),
Perrow (1969; 1988; 1992) negli Stati Uniti e Woodward (1975) in Regno Unito, Crozier e
Touraine in Francia. Testi come l’Handbook of organizations di March (1965) o il reading
Sociology of organizations di Grusky e Miller (1981) che contengono alcuni dei principali contributi
di quella “primavera” della disciplina negli anni ’60 sono a oltre trenta anni di distanza ancora oggi
oggetto di fruttuosa consultazione. L’organization theory entrò di peso nelle grandi università
americane. Tuttavia, dopo di allora, negli Stati Uniti la sociologia dell'organizzazione come scienza
empirica non ha acquisito un’identità e un peso corrispondenti a quelle straordinarie promesse.
Mentre il pensiero e le prassi organizzative influenzate fortemente da quei sociologi assumevano
un ruolo di primo piano in quella Società delle organizzazioni come la definì Presthus (1971), la
1
Una prima e diversa versione fu pubblicata in G. Bonazzi, F. Butera, D. De Masi, M. La Rosa (Eds.), I sociologi e il lavoro,
Milano, FrancoAngeli, 1996.
Questo testo ha beneficiato dei commenti di Giuseppe Delmestri. Tuttavia la responsabilità del contenuto è esclusivamente
dell’autore
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sociologia dell’organizzazione come disciplina finì con il vivere una vita accademicamente meno
robusta di altre discipline organizzative a radice economica, ingegneristica, psicologica. Le ragioni
che vengono menzionate sono molte: l’assenza di una identità fortemente differenziata sia
nell’ambito delle discipline sociologiche sia nell’ambito delle scienze organizzative, la sua presunta
inclinazione pro-management invece che pro-union, la sua natura di disciplina critica
complementare ad altre discipline organizzative “forti” (critica inopportuna se pensiamo, ad
esempio, a quanto fu prezioso il sodalizio di March con Cyert 1963; March e Simon, 1958). Ma la
ragione più forte a molti sembra risiedere nel fatto che la sociologia dell’organizzazione americana
e le sue istituzioni (cattedre, riviste, programmi di ricerca), malgrado il loro prestigio, sarebbero
rimaste sostanzialmente alla periferia dell’intenso processo di concezione e progettazione di
organizzazioni economiche e non economiche che ha caratterizzato l’azione sociale di governi,
imprenditori, sindacati, movimenti sociali ove sono stati attivi diversi tipi di students of
organizations, economisti, ingegneri, politologi, psicologi, antropologi e ovviamente anche
sociologi. Ciò ha contribuito, in un paese pragmatico e action oriented come gli Stati Uniti, ad
alimentare una perdita di prestigio simile a quella che si sarebbe avuta, ad esempio, se una
qualunque disciplina fondamentale e fondativa delle scienze mediche avesse voluto o dovuto
rimaner fuori dalle facoltà di medicina e dal suo sistema composto da una parte da discipline ad
alto contenuto teorico come la biologia, la chimica, la farmacologia, etc. e dall’altra da discipline ad
alto contenuto applicativo come la clinica medica, la chirurgia, l’epidemiologia. Sostengono i
detrattori della sociologia dell’organizzazione che a causa della sua limitatezza di campo,
dell’isolamento disciplinare, della sua rinuncia ad agire, essa avrebbe mancato due obiettivi:
influire sulla realtà delle organizzazione e generare proposizioni sulla società. Barley nel suo
articolo Cultures of culture: Academics, practitioners and the pragmatics of normative control che
abbiamo ripubblicato su “Studi Organizzativi” n° 2/2008, presenta una ricerca empirica in cui
mostra che i practicioners (consulenti, professional, dirigenti) hanno influenzato gli studiosi di
scienze organizzative più di quanto non sia avvenuto il contrario. Questo che è stato l’oggetto di
una tesa polemica nel mondo anglosassone ha in ogni modo fortemente alimentato pregiudizi e
contrapposizioni anche in Europa.
Meno controversa appare l’immagine della sociologia dell’organizzazione francese dove, per fare
un solo esempio, Crozier (1969), sviluppa con successo, su un tema “societario” come quello della
burocrazia statale, il suo lavoro entro la grande tradizione della sociologia generale di Weber e
delle sociologia industriale e del lavoro inaugurata in Francia da Friedman, Touraine e altri.
Crozier ha influenzato visibilmente gli orientamenti delle politiche organizzative e formative della
Pubblica Amministrazione francese.
In Germania, sociologia dell’organizzazione e sociologia del lavoro vedono fasi alterne di cui
alcune di straordinario successo sia sui temi teorici (come quelli della fine della divisione del
lavoro) sia sui temi progettuali intorno al programma tripartito di umanizzazione del lavoro o dello
sviluppo dell’Amministrazione.
In Italia la sociologia stessa in gran parte nasce dalle radici di una sociologia dei fenomeni
economici generata in contesti “ad alta intensità di prassi” (come l’azienda, la comunità, le
relazioni industriali) con Ferrarotti, Gallino (1979), Pizzorno (1975-79), ma ha un andamento
alterno che è uno degli oggetti di questo scritto.
Il pregiudizio originato intorno alla sociologia dell’organizzazione di origine anglosassone è
purtroppo condiviso nell’accademia e fra i decision maker in Italia. Tale severità deve essere a mio
avviso attenuata. Prima di immergermi anch’io nel confronto fra l’epoca d’oro della sociologia
economica italiana (gli anni ‘70) e i periodi successivi, credo che sia indispensabile chiarire che la
sociologia dell’organizzazione come una branca della sociologia economica si è modellata e
sviluppata, più che in base a teorie e paradigmi diversi, in base a diverse viste o habitus come
dice Bourdieau (1980), quale quella interpretativa e quella progettuale: ipotizziamo che molteplicità
e interna conflittualità di tali viste siano alla base delle difficoltà di questa area disciplinare.
Occorre concordare sui criteri di produttività e successo di una disciplina: ciò che è un successo
per un criterio può non essere un successo per l’altro.
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Qualunque sia il bilancio del passato sosteniamo che l’economia e le organizzazioni non hanno
mai avuto più bisogno di scienze sociali come in questo periodo.
2. Oggetto, problematiche societarie, ruolo sociale della sociologia
dell’organizzazione
La sociologia dell’organizzazione può essere definita come quella disciplina che studia la nascita,
lo sviluppo e la morte, la struttura e il funzionamento delle organizzazioni, ossia di quelle
invenzioni sociali orientate e/o idonee a raggiungere fini multipli (economici, tecnici e sociali) e
costituite da processi supportati da tecnologie, sistemi di coordinamento e controllo, attività
lavorative, basati su sistemi di divisione del lavoro, strutture e ruoli organizzativi, sistemi di
regolazione sociale, strutture e processi socio-culturali. La sociologia dell’organizzazione studia il
suo oggetto in relazione a due dimensioni chiave: la persona che opera nell’organizzazione e il
sistema sociale, sia quello generato nell’organizzazione sia quello entro il quale le organizzazioni
sono immerse.
La teoria classica dell’organizzazione aveva avanzato la pretesa di poter descrivere e interpretare
in modo universale i fenomeni organizzativi in ogni tipo di unità organizzativa e di potere formulare
leggi scientifiche e norme di azione per ogni tipo di organizzazione. Ma la teoria delle contingenze
organizzative prima, la teoria dei sistemi, gli approcci culturalisti all’organizzazione, la population
ecolology e molti altri studi hanno da decenni confutato la validità di una teoria e una metodologia
unica per analizzare e progettare tipi di organizzazioni diverse (scuole, aziende, ospedali, negozi,
circhi equestri, produzioni cinematografiche, centri di ricerche, etc.), popolate da persone diverse
(giovani, anziani, uomini, donne, etc.), in contesti sociali diversi (strutture e dinamiche sociali), con
fini diversi (profitto, valore sociale). La migliore sociologia industriale europea, la sociologia del
lavoro, il neo-istituzionalismo avevano posto anche la questione di quanto le organizzazioni
contribuiscano a modellare la società e, viceversa, quanto dalla società esse sono modellate,
aprendo la questione della necessità di una teoria dell’economia e della società per interpretare,
prevedere e anche progettare le singole organizzazioni.
Quattro sono le domande chiave che è legittimo e opportuno porre alla moderna sociologia
dell’organizzazione.
A.
Quale è la sua identità?
B.
Si occupa di problemi importanti per la società?
C.
Ha solo una funzione descrittiva e interpretativa o anche progettuale?
D.
Quali sono i temi su cui ha dato e potrà dare un contributo?
A. Oggetto, natura e confini e, in una parola, l’identità della sociologia dell’organizzazione
La sociologia dell’organizzazione nasce e si sviluppa insieme all’idea del ciclo di vita
dell’organizzazione e all’idea della reciproca interdipendenza fra organizzazione e società, fra
organizzazione e persone. Come nasce, che cosa è, da che cosa è influenzata, che cosa
influenza, come evolve, come muore l’organizzazione? L’organizzazione è anche un “soggetto”
composto da soggetti individuali e collettivi, un sistema aperto (perché i suoi confini sono
permeabili agli scambi economici e sociali) (Emery, Trist, 1965, 1969; Katz, Kahn, 1966), ma
anche sistema autoreferenziato, (operazionalmente) chiuso (Maturana, Varela, 1980; Luhmann,
1990) in quanto dotato di una “biologia”e di una identità che ne configura e ne modella le azioni.
La questione dell’”apertura/chiusura” dell’organizzazione apre un problema di analisi e diagnosi
organizzativa: può essere legittima l’analisi organizzativa, come anatomia e fisiologia (interne)
dell’organizzazione? Esiste cioè la possibilità di metodologie affidabili per analizzare e connotare
la struttura e il funzionamento delle organizzazioni? La sociologia dell'organizzazione si è
ingaggiata a definire e misurare tipologie: che cosa distingue una organizzazione da un gruppo
volontario, da un’istituzione, da un individuo? Oggetto di investigazione è il problema delle
relazioni interorganizzative: transazione all’interno delle organizzazioni e fra organizzazioni, fra
soggetti e processi, fra organizzazioni e istituzioni, movimenti sociali, processi politici e fenomeni
culturali. L'organizzazione è un soggetto isomorfico con gli assetti istituzionali e fa parte di un
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“campo organizzativo” (Powell, Di Maggio, 1991). In sintesi il problema “esterno-interno” mostra
l’inevitabile prossimità della disciplina con l’economia, le administrative sciences, la psicologia
l’antropologia e altre.
Tutto ciò è alla base di alcune caratteristiche connotative della disciplina: il suo carattere analitico,
il suo fondarsi sulla ricerca empirica e clinica, la sua vocazione all’analisi delle relazioni e
transazioni, la labilità dei confini delle competenze della disciplina rispetto ad altre branche della
sociologia e soprattutto la circostanza che la sociologia dell’organizzazione è una scienza a base
sociologica ma tendenzialmente multidisciplinare, una disciplina “at the crossroad”.
Le grandi questioni di identità della disciplina allora mi sembrano queste: la sociologia
dell’organizzazione ha un suo oggetto peculiare? È capace di descrivere e spiegare gli aspetti
comuni e quelli specifici dei diversi tipi di organizzazione? Dispone di metodologie analitiche
peculiari? Riesce a spiegare il legame di reciprocità fra organizzazioni e società? Ha contenuti
esclusivamente sociologici? Ha influenza sulla progettazione?
Una risposta positiva conferisce valore alla disciplina; una risposta negativa ne svalorizza lo
statuto. Io do una risposta prevalentemente positive a tutte queste domande.
B. La sociologia dell’organizzazione e i problemi importanti per la società e l’economia
La sociologia dell’organizzazione si occupa di problemi rilevanti dal momento che le organizzazioni
appaiono isole di razionalità (sia pur limitata) nel disordine e nella complessità dei processi e dei
movimenti sociali? Il pregiudizio di chi si occupa di economia e di società at large è che la
organizzazione forse sia un luogo protetto, che si occupi di temi “operativi” come quelli leadership,
motivazione, scorte e giacenze di magazzino, cicli di lavoro, informazione, processi decisionali e
così via, ossia temi che sono spesso marginali rispetto alle grandi questioni dell’economia e della
società?
Non è così. In realtà, da decenni le scienze dell'organizzazione e in particolare la sociologia
dell’organizzazione studiano come i grandi fenomeni della società vengono internalizzati
nell’organizzazione o esternalizzati dalle organizzazioni. In Italia studiare singole imprese grandi,
sistemi territoriali di imprese, organizzazioni scolastiche, Pubbliche Amministrazioni,
organizzazioni criminali, vuol dire incontrare i grandi problemi della società italiana: la creazione ed
estinzione di attività economiche, la struttura istituzionale, il problema Nord/Sud, l’occupazione, la
stratificazione, il conflitto e la cooperazione, il potere, il mercato del lavoro, la criminalità
organizzata e molti altri.
Il nostro paese ha bisogno urgente di un rinnovamento profondo. Un alto tasso di disoccupazione
in particolare nel Mezzogiorno, fra i giovani e le donne, e l’aumento di nuove povertà sollevano
allarmi sociali. Cresce il disagio sociale in vaste aree del paese, fra i giovani e gli anziani, fra i
lavoratori industriali e i pensionati, e anche fra le classi medie. Una parte considerevole del paese
è inquinata o dominata dalla criminalità organizzata. Vi è preoccupazione nelle istituzioni
scientifiche, nelle associazioni, nelle organizzazioni religiose per un appannamento dei valori etici
e sociali che tengono unita una società. La situazione dei conti dello Stato è grave. La ricerca non
è finanziata e innovazioni di processo e di prodotto sono insufficienti. Sono improrogabili una
riforma delle istituzioni e una vera e propria reinvenzione della Pubblica Amministrazione.
I compiti dei sociologi si misurano oggi principalmente rispetto al processo drammatico di
mutamento in atto. Il problema del lavoro (quantità e qualità), dell’impresa, della Pubblica
Amministrazione, di un contesto istituzionale moderno e di una ragionevole prosperità di tutte le
aree del nostro paese: questi temi-oggetto della sociologia economica possono non essere il
campo di un nuovo impegno delle discipline sociologiche?
C. Il ruolo della disciplina: analisi critica, normativa, progettazione
La sociologia dell’organizzazione ha in primo luogo la missione di documentare, spiegare,
interpretare: abbiamo menzionato prima alcuni quesiti rilevanti e di seguito illustreremo qualità e
complessità di tali quesiti. Su questo terreno vi è spesso un difetto nel documentare (i fatti e i dati),
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nello spiegare (fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti come le aggregazioni e mancate
aggregazioni di impresa), nell'interpretare (i flussi e le relazioni fra organizzazioni e territori nel
Nord e nel Sud del nostro paese).
Ma anche il tema della normativa e della progettazione emerge sempre più prepotente. Nel caso
delle organizzazioni burocratico-tayloristiche, le discipline organizzative sono state fonte di norme.
Anche nelle “organizzazioni di tipo organico”,
nella ricerca di una funzione regolatoria
dell’organizzazione e delle professioni le scienze sociali hanno formulato princìpi e orientamenti.
Per il futuro la sociologia dell’organizzazione può sfuggire alla responsabilità di partecipare ad un
processo di innovazione delle organizzazioni, dell'economia e della società? Alcuni sostengono
che non è affar suo. Siamo in molti a credere che gli studi organizzativi sono come la medicina e
l’architettura: sono il frutto della collaborazione fra varie discipline; devono mantenere anche
rapporti di stretta collaborazione con pratiche professionali (ad esempio la legislazione,
l’amministrazione pubblica, la formazione degli adulti, la progettazione tecnologica, la consulenza).
3. Alcuni temi chiave della sociologia dell’organizzazione
Vi sono alcuni temi “canonici” che vengono indicati come oggetto primario della sociologia
dell’organizzazione: il controllo nelle organizzazioni, il potere professionale, la razionalità
organizzativa, le nuove forme di organizzazione e molte altri. Proponiamo però una formulazione
più ampia dei temi su cui si è sviluppata l’elaborazione della disciplina, che toccano acute
problematiche relative allo sviluppo della nostra società. Questi temi hanno beneficiato da molti
decenni di una intensa elaborazione internazionale su cui anche l’Italia ha prodotto contributi di
rilievo. La lista non pretende di essere esaustiva. Alcuni di essi sono:
A. Comunità e modi di produzione;
B. La riforma del lavoro, dell’impresa e della Pubblica Amministrazione;
C. Tecnologia e organizzazione;
D. Organizzazioni “regionali” e sviluppo locale;
E. Le reti organizzative;
F. Cultura e organizzazione.
A. Comunità e modi di produzione
Darhendorf sosteneva la necessità di maggiore flessibilità per sfuggire ai rischi del declino
economico o della perdita di libertà democratiche. La domanda chiave allora è “cosa resta fisso
nel mutamento”? Innanzitutto le organizzazioni di concezione nuova che sono, pur tuttavia,
strutture resistenti e “dure”. Dati empirici che individuano la diffusione di queste strutture sono
disponibili da tempo e sono state studiati da Bagnasco (1977, 1985), Brusco (1989), Beccattini
(1998, 2000), Butera, Lorenzoni, Antonelli (1987), Varaldo (1994), e altri. In secondo luogo
restano fisse le professioni, che sono l’elemento di strutturazione e di autonomia del mercato del
lavoro in grado di proteggere le persone dall’instabilità occupazionale legata al mutamento socioeconomico e alla natura della nuova struttura d’impresa: riscontri empirici seppure non sempre
quantitativi sono contenuti nei lavori di Pranstraller (1980), Luciano (1987), Bianco, Butera ed altri.
La struttura più resistente e “dura” è la persona, che ha facoltà “strutturanti” l’organizzazione
(Touraine, 1993, Crozier, Ferrarotti 2003; Gallino, Ardigò, 1980) da una parte per le proprie
capacità di produrre creativamente (De Masi, 2005). Produrre vuol dire fissare obiettivi, risolvere
problemi, progettare, programmare, attuare in una situazione in cui aumentano i ruoli agiti
(l'interpretazione di un copione) e i “lavori virtuali” (quelli che ci sono solo quando una persona li
fa), dall’altra proteggere e sviluppare la propria “qualità della vita di lavoro”.
Il punto di partenza è l’attesa (impaurita o ottimistica), come dice Martin Berman, che «everything
is melting in the air», cioè che ogni cosa si stia sciogliendo nell’aria. Si scioglie nell’aria la fabbrica,
che non c’è più perché è dispersa nel glocale; si disperde nell’aria l’impresa, che nasce e muore a
grande velocità; si distruggono le aggregazioni sociali. Negroponte (1995) ha un grande successo
poiché spiega che le persone stanno entrando in una relazione planetaria le une con le altre
attraverso la telematica e sostiene che le strutture (economiche, organizzative, sociali) non
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servono più agli individui finalmente liberi di comunicare. Lo sviluppo del web e del web 2.0
sembrerebbe dargli ragione: ma non è così. Negroponte, che conosce profondamente tutte le
straordinarie potenzialità del web 1.0 e 2.0, non considera tuttavia che le tecnologie creano e
sostengono comunità e imprese reali.
Il problema della ricostruzione delle socialità è un problema fondamentale in tutto il mondo e
l’informatica e il web costituiscono condizioni di cambiamento per dar luogo a nuove aggregazioni
sociali possibili. Ma il rapporto fra tecnologia, organizzazione, persona e società va studiato e
riprogettato. Quello che emerge è che ciò che cambia non è la fabbrica fordista ma l’impresa
fordista, cioè l’insieme di affari e di produzione, l’insieme delle pratiche sociali, l’insieme delle
strutture sociali interne, il rapporto con la società.
Appare, per l’anno 2010 e seguenti, un quesito chiave per la sociologia economica. Esso può
essere così formulato: è possibile costruire nuove socialità senza ricostruire contemporaneamente
nuovi modi di produzione di valore, di merce, di lavoro? La sfida inquietante che si ripresenta alle
scienze sociali è ancora la riforma del lavoro, dell’impresa e della Pubblica Amministrazione.
B. La riforma del lavoro, dell’impresa e della Pubblica Amministrazione
La crisi e la ricostruzione dello stato sociale è lo sfondo di un problema antico che si ripresenta in
forma nuova: come saranno i rapporti di produzione, come sarà il lavoro, come saranno le
organizzazioni, quali relazioni fra impresa e istituzione a livello locale e a livello globale. Che
contributo dà l’impresa - come sistema complesso e non soltanto come “business” - alla prosperità
e allo sviluppo sociale dei territori che compongono il nostro paese? E di chi è l’impresa: soltanto
dei suoi shareholder, dei suoi azionisti o anche dei suoi stakeholder (dei partecipanti all’impresa
come i lavoratori, i dirigenti, i clienti, i fornitori, etc)? Le imprese sono destinate a diventare virtuali,
oggetto di speculazione, oggetto di passaggio dei pacchetti azionari o di occupazione di potere,
oppure tenderanno a (o dovranno) diventare istituzioni economiche e sociali, fondate e regolate da
leggi economiche e sociali trasparenti e socialmente sanzionate? Il problema del rapporto tra
capitalismo e società va posto anche e soprattutto rispetto all’impresa.
Le imprese sono immerse in un contesto economico, istituzionale, politico, legislativo, a livello
locale e internazionale che detta gran parte delle condizioni per la loro identità e sopravvivenza,
una sorta di ecosistema economico e sociale. Molti sono i modelli che illustrano questa
embeddedness (l’esser contenuti). La debolezza istituzionale del nostro paese e il degrado socioeconomico di alcune aree non lascerebbero spazio all’ottimismo se si ritenesse unidirezionale e
cogente tale embeddedness. Programmi di politica industriale e socio-economica nel passato si
sono rivelati impraticabili non solo per la loro inadeguatezza e per la mancanza di “volontà politica”
ma anche per tale debolezza istituzionale. Per affrontare la crisi italiana ed europea occorre
proporre e realizzare coerentemente una politica economica e sociale che crei infrastrutture,
incentivi allo sviluppo, condizioni di nuova socialità, correttezza ed efficienza istituzionale, giustizia
sociale. Ma occorre anche suscitare energie e forze reali del paese, favorire la costruzione di
capacità delle imprese e delle organizzazioni.
L’impresa del prossimo secolo sarà ancora il luogo dell’economia reale, dell'organizzazione, del
lavoro, delle relazioni industriali? Il sopravvento dei processi finanziari su quelli imprenditoriali, la
trasformazione dell’impresa in componenti economiche-tecniche riciclabili (oggetto di processi
incessanti di elevata nati-mortalità in un più vasto ecosistema economico), l’avvento dell’impresa
“cava” (con il quartier generale a New York e i prodotti fatti fabbricare nel Terzo mondo), la fine
della territorialità dell’impresa che si dissolverebbe in una rete cablata: in sintesi, il definitivo
declino non solo di qualunque centralità ma addirittura di importanza della singola impresa ha
prodotto la catastrofe della più grande crisi economica dopo il 1929. Tutti sappiamo che gran parte
delle società private legalmente costituite sono puri dispositivi economici finanziari o scatole vuote.
Le 500.000 imprese che nascono annualmente in Italia sono in realtà partite Iva di chi ha perso o
non trova lavoro dipendente. La confusione fra impresa, affari e conto personale è molto diffusa.
Per molti le imprese pubbliche non sono imprese. Le imprese cooperative sono strutture protette
da legislazione politico-sociale. Le piccole imprese per molti non sono distinguibili dalle famiglie. I
temi della sociologia del potere economico si ripresentano molto attuali per analizzare estensione
e influenza delle imprese come dispositivi per assicurare speculazione e rendita.
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La sociologia italiana - da Ferrarotti a Gallino (1972, 1979), da Martinelli a Trigilia, da Baglioni a
Cella e molti altri - ha mostrato come economicità e competitività dell’impresa dipendano anche
dalla qualità della “società dentro e fuori l’impresa”. L’impresa infatti “costruisce piccole società” al
proprio interno e “costruisce società” al proprio intorno. Il principale prodotto dell’impresa è la
gente: chi nell’impresa opera (imprenditori, dirigenti, professionisti, tecnici, operai, impiegati), chi
l’impresa possiede (azionisti privati e pubblici), chi si avvale dei prodotti dell’impresa (clienti,
consumatori), chi vive in rapporto all’impresa (cittadini di un territorio), etc., ossia gli stakeholder
dell’impresa. Il tema delle relazioni fra sistema produttivo e istituzionale scoperto dagli studiosi dei
distretti si ripropone come straordinariamente attuale, destinato ad avere insuccesso allorché non
partecipino attivamente e consapevolmente gli stakeholder dell’impresa nel corso dell’impegno per
la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa stessa. I temi della sociologia della partecipazione si
ripresentano ora in modo prorompente.
Bisogna prendere l’impresa sul serio. È necessario che le imprese (quelle grandi, medie e piccole;
quelle private e quelle pubbliche; quelle che sono iscritte alla Camera di Commercio e quelle che
sono “quasi imprese”; quelle concentrate e le “imprese rete”) tornino al centro della riflessione
scientifica, economica e politica, in quanto istituzioni, economiche e sociali.
C. Tecnologia e organizzazione
È questa una delle aree su cui è sviluppata la sociologia dell’organizzazione. In esso si sono
sviluppati due filoni: quello dell’analisi comparativa e quello della scuola socio-tecnica.
Nel primo filone - che include il primo Touraine, Burns e Stalker, Woodward, Perrow, Thompson,
la scuola di Aston, Blauner, Kern e Shuman e molti altri, etc. - troviamo uno dei più impegnativi
programmi di ricerca delle discipline sociologiche. Esso è teso ad identificare gli effetti del
progresso tecnico sull’organizzazione produttiva e sociale e sul lavoro: se la tecnologia determini o
no il livello di occupazione, le strutture dell’organizzazione e del lavoro (dibattito sul determinismo
tecnologico). Ma in verità questo programma avvia una insuperata analisi dei componenti del
fenomeno organizzativo e del lavoro, identificando infine le sfere di autonomia della società
rispetto al trionfante sviluppo tecnologico. Le aree disciplinari contigue alla sociologia
dell’organizzazione e alle altre discipline sociologiche che in quel periodo si sono occupate di
questo fenomeno (come la sociologia industriale, la sociologia del lavoro, la sociologia dei
processi culturali, le relazioni industriali e altre ancora) sono molte: l’analisi della tecnologia
(Crossman, 1960, 1964, 1966), le management sciences (da Bright, 1958, a J.K. Galbraith, 1977),
l’informatica, le scienze politiche (Braverman, 1978), la storia della tecnologia (Rosenberg, 1976).
L’altro filone è quello socio-tecnico orientato a interpretare le reciproche interdipendenze fra
tecnologia e organizzazione nella prospettiva di una integrazione fra le scienze sociali, e a
progettarle congiuntamente: mi riferisco ai contributi di Emery, Trist, (1969); Davis (1966) e altri. Il
determinismo tecnologico qui non era neanche considerato come ipotesi da confutare. Le
metodologie adottate erano qualitative. Furono assunti - sia pur senza integrarli - tre paradigmi:
quello sistemico, quello dei gruppi autonomi come sistemi autopoietici (che “contengono” l’attore,
o l’osservatore come poi si dirà), e quello della ricerca-intervento come metodo di gestione del
cambiamento, di partecipazione e di interazione fra scienza e trasformazione in un contesto
localizzato. Quest'ultimo paradigma dette luogo a “movimenti” di umanizzazione del lavoro e di
quality of working life (Thorsrud et al., 1990; Davis, Cherns, 1975). Sono labili i confini degli studi
socio-tecnici con quelli dell’ergonomia, con gli studi di man/machine task allocation (Chapanis,
1965), con gli studi sulle man machine interfaces (Sheridan, 1988; Rasmussen, 1986), con gli
studi sulla intelligenza artificiale (Winograd, 1986), nonché con le metodologie della progettazione
organizzativa (Galbraith, 1977).
In Italia vi è una tradizione robusta di studi sul rapporto fra tecnologia e organizzazione inaugurata
negli anni ’50 e sviluppata con diversi paradigmi da Ferrarotti (2003), Gallino (1972, 1979),
Bonazzi (1976), Anfossi (1979) e altri negli anni ’60. Con vivaci polemiche e con una forte
presenza nel dibattito politico-sociale degli anni ’70 sui temi del rapporto fra progresso tecnico,
organizzazione del lavoro e relazioni industriali sono stati attivi molti sociologi italiani come
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Accornero (1980), Pichierri (1999, 2005), Baldissera, Butera (1972, 1984, 1989, 1991, 1992,
1998) Reyneri (1972), Cella (1986), La Rosa (1997), etc., a cui negli anni ’80 si sono aggiunti
sociologi come Lanzara, Bianco, Luciano e altri. Questi sociologi si sono trovati a concordare,
confondersi, dissentire fra loro e con ingegneri come Dioguardi, De Maio (1979), Ciborra (1996),
con economisti come Momigliano (1983), Brusco (1989), Frey (1989, 1995, 1996), Vaccà (1989),
Rullani (1991), con psicologi come Novara (1996), Bagnara (1984), con informatici come Degli
Antoni (1986, 1995), De Michelis (1995, 2001).
Molti degli approcci comparativi e socio-tecnici hanno esaurito la loro capacità innovativa da
tempo. Ma i temi che essi avevano affrontato sono di grande attualità poiché siamo in pieno
superamento del paradigma burocratico-tayloristico di organizzazione e in una fase che da più
parti viene definita confusamente come post-fordista. Nuove tecnologie ICT pongono al lavoro e
alle organizzazioni problemi assolutamente nuovi.
I problemi che oggi sottendono a quest’area sono infatti gravi e drammatici, e vi è una grande
necessità di ricerca sociale. Quanto e quale lavoro vi sarà nella rivoluzione tecnologica in atto? È
questa rivoluzione governabile, e da chi? Come è possibile governare l’innovazione? Come
progettare nuovi ruoli sociali, come quelli degli scienziati ricercatori progettisti, e in genere nuovi
professionisti o lavoratori della conoscenza? Come ridisegnare il ruolo e le attribuzioni degli operai
e degli impiegati? Come si sposterà il confine fra uso lavorativo e uso personale delle tecnologie?
Che effetti avranno i social networks che si stanno costituendo sul web? Questi temi sono oggetto
di viva attenzione da parte di molte discipline e allo stesso tempo di conflitto tra le istituzioni
pubbliche, gli imprenditori e i sindacati.
D. Organizzazioni “regionali” e sviluppo locale
È il filone di studi sull’organizzazione economica e sociale di territori definiti (una città, un distretto,
una regione, etc.) che - adoperando metodologie sia sincroniche che diacroniche - hanno
esplorato in primo luogo i processi di nascita e morte di singole organizzazioni o “popolazioni di
organizzazioni” in un territorio e poi ne hanno studiato le profonde e complesse relazioni con le
istituzioni pubbliche e con le istituzioni sociali a base locale. Tali studi hanno identificato profili e
tendenze di strutture economico-sociali non visibili “ad occhio nudo”, composte da pluralità di
soggetti collettivi economici e istituzionali e da soggetti individuali che condividono lo stesso
territorio geografico, le stesse risorse infrastrutturali, la stessa cultura, lo stesso sistema di
relazioni politico-sociali.
Questo filone, che aveva avuto contributi antesignani dallo Selznick (1953) di TVA and the grass
roots, da Stinchcombe, e poi da Aiken, Hage (1968), da Aldrich, da Hannan e Freeman (1993), è
stato curato in Italia da autori che si sono interrogati su complesse questioni relative allo sviluppo
e al declino di intere aree del nostro paese. Per citare solo alcuni nomi. Bagnasco, Paci, Perulli,
Pichierri, Trigilia, Negrelli. Il confine con gli economisti (come Becattini, Fuà, Varaldo, Brusco,
Vaccà, Lorenzoni, per citare solo qualche nome), con gli antropologi e con gli scienziati politici è
stato spesso attraversato in molte direzioni.
E. Le reti organizzative
Mentre si sviluppavano nel sistema economico internazionale forme non convenzionali di imprese
battezzate come “reti di impresa”, “imprese reti”, Piore e Sabel (1987) annunciavano l’avvento di
una nuova economia della specializzazione flessibile, Williamson (1975, 1987) svolgeva il suo
programma di ricerca sul mercato a gerarchia fino a guadagnare il premio Nobel, Evan (1976) e
altri gettavano le basi per l’analisi interorganizzativa. Alla fine degli anni ’80 si apriva un scontro fra
l’organizational economics di Williamson (che unificava la prospettiva di analisi delle strutture
organizzative e del mercato) e sociologi come Perrow (1969, 1992, 2002), Harrison White (2002),
Granovetter (1985) e altri. Ma un nuovo programma di ricerca sul radicale mutamento della
struttura dell’impresa e dei mercati era ormai iniziato, ai confini fra economia e sociologia.
I casi delle imprese ad alto livello di outsourcing, dei distretti imprenditoriali, delle costellazioni
d’impresa, della specializzazione flessibile, dei nuovi parchi tecnologici, della coesistenza tra
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concentrazioni finanziarie e delocalizzazione della produzione e del terziario, fanno del tema
dell’“impresa rete” e delle “reti di impresa” uno dei più controversi e dibattuti del passaggio ad una
società neo-industriale. Non vi è, inoltre, chi non veda chiaramente che questo processo non può
essere né spiegato né orientato non solo da categorie delle scienze economica ma anche da
vasto impiego di categorie di sociologia dell’organizzazione: modelli organizzativi, culture
organizzative, modelli e tipi di professioni, processi di presa della decisione e di gestione del
potere
entro
ambiti
territoriali,
modelli
di
comunicazione,
modelli
di
partecipazione/negoziazione/gioco/progettazione, sono categorie fondamentali per analizzare gli
aspetti organizzativi del mercato e le nuove dimensioni transazionali dell’organizzazione.
Mentre sono importanti i contributi dei sociologi sulle “reti d’imprese” contenute nei distretti
(Trigilia, 1992) e sulle reti di imprese e di città (Perulli, 1992, 2000, 2007), minore attenzione è
stata destinata ai processi di ristrutturazione e alla disarticolazione della grande e media impresa,
con qualche eccezione, inclusa quella di Pichierri, Negrelli e di chi scrive. Il campo rimane tuttora
fondamentalmente dominato da studiosi di altre discipline: Vaccà, Antonelli, Varaldo, Dosi, Rullani,
Grandinetti, Corò fra gli economisti; Rugiadini, Nacamulli, Grandori fra gli studiosi di
organizzazione aziendale; Dioguardi, De Toni fra gli ingegneri; Sapelli fra gli storici, solo per fare
qualche esempio. Questa è l’area di ricerca e di insegnamento in cui i sociologi hanno quasi
totalmente ceduto il passo nelle facoltà di economia, di giurisprudenza, di ingegneria.
F. Cultura e organizzazione
Lo studio dei valori, delle credenze dei linguaggi dei simboli, delle identità si è sviluppato nella
sociologia dell’organizzazione lungo due filoni paralleli e spesso confluenti: le culture come
attributi, “proprietà operative delle organizzazioni” (Cyert, March, Hofstede, Bittner, etc.); oppure la
cultura come fattore “fondativo” o quanto meno connotativo delle organizzazioni (Murdock,
Parson, Merton, Gouldner, etc.). È questa l’area in cui i confini della sociologia dell’organizzazione
con le altre discipline sono permeabili ma non frequentemente attraversati: con l’antropologia
(Levi-Strauss, Mauss, Turner, Geertz), con la semeiotica (Barthes, Eco), con la cibernetica
(Stafford Beer, Ashby), con la psicologia clinica (Bion, Jacques), con la psicologia sociale (Katz e
Kahn, Moscovici), con le management sciences (Schein, Argyris, Bennis), etc.
Alcuni autori negli anni '80 (Morgan, Smirchich) avevano identificato le culture non come qualcosa
che le organizzazioni “hanno”, ma come ciò che le organizzazioni “sono”. Quindi le organizzazioni
come culture. I problemi concreti che questa area tematica evoca sono assai rilevanti in una fase
di radicale mutamento delle organizzazioni: la cultura d’impresa, la cultura del lavoro, i valori e la
comunicazione organizzativa, etc. La cultura (come prima i sistemi informativi, la pianificazione e il
controllo, etc.) conterrebbe per tale orientamento il “vero” paradigma e la vera natura
dell’organizzazione, il single key tool for organizing.
In Italia la sociologia dell’organizzazione e del lavoro ha offerto contributi di livello internazionale
sui temi della cultura per esempio con le opere di Gallino con Personalità e industrializzazione
(1972), di Bonazzi con Colpa e potere (1983), di Accornero con Il lavoro come ideologia (1980), di
De Masi con L’emozione e la regola (2005). Dopo la popolarizzazione della problematica ad opera
di Gagliardi, di questa materia si sono occupati sociologi come Gherardi. Lo sviluppo delle
comunicazioni di massa e della comunicazione organizzativa rendono tuttora vitale la
continuazione di programmi di ricerca in questo campo.
4. Sociologi economici e società italiana, un caso: l’esperienza
italiana di job reform
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4.1. Il problema del “social engagement of social sciences”
Gran parte delle grandi figure del pensiero organizzativo sono state impegnate non solo a
generare e divulgare il loro pensiero ma soprattutto a svilupparlo in un rapporto interattivo con
processi e progetti reali. Essi sono stati molto attivi in dibattiti asprissimi di rilevanza societaria e
hanno sempre scritto in modo chiaro e comprensibile per un pubblico vasto. Penso a Selznick e ai
programmi di riforma agraria americana, a Touraine e alle relazioni industriali, a Trist e alla job
reform, a Perrow e ai disastri nucleari, e a molti altri. Trist ha raccolto la sua eredità nei tre volumi
The social engagement of social sciences (1990-1997).
Ciò è stato vero anche in Italia. La storia della sociologia economica in Italia è infatti caratterizzata
da un grande e operoso interesse ai problemi del lavoro e delle organizzazioni, come appare nelle
biografie raccolte nel numero speciale di “Sociologia del Lavoro” curato da Luciano Visentini
(1984): lo sviluppo di “modi di produzione” alternativi su base regionale, i problemi della
qualificazione, dell’occupazione, del superamento di forme autoritarie di organizzazione, lo
sviluppo delle organizzazioni centrate sulle persone, la diffusione di attività produttive e
organizzative appropriate nel Sud del nostro paese sono stati spesso i temi e i primi motori della
attività scientifica dei sociologi economici italiani. Attenzione ai problemi della società italiana e
responsabilità sociale sono alcuni dei caratteri della sociologia dell’organizzazione italiana.
Ciò ha avuto due implicazioni: una comunicativa e una sostanziale.
a) La forma della comunicazione. Molti fra i sociologi economici italiani sono stati capaci di parlare
con gli operatori economici. Vi è stata una conversione delle esperienze e conoscenze degli
operatori colti in linguaggio scientifico. Vi è stato uno sforzo di tradurre i risultati di ricerche in
linguaggi comprensibili a uomini di governo, sindacalisti, dirigenti d’azienda, entro cornici e regole
eticamente accettabili. Ciò assomiglia a quanto avviene in medicina, biologia, ingegneria,
economia, etc., in cui vi è un proficuo interscambio fra mondo scientifico e professionale.
b) L’impegno sostanziale della sociologia dell’organizzazione in Italia. Una parte di sociologi negli
anni ’60 e ’70 cominciò a studiare l’organizzazione con in mente innovazioni orientate a
trasformazioni sociali ed economiche nel paese. Si avviò una stagione di studi orientata ai
cambiamenti tanto per ragioni pratiche quanto per ragioni scientifiche. Le ragioni pratiche di
questo “protagonismo scientifico e operativo” riguardano l’avvio di una cultura organizzativa e del
lavoro moderna in un paese in cui mancavano Harvard, MIT, March e Simon e “Administrative
Science Quarterly”. Le ragioni politico-scientifiche riguardano la centralità del problema del lavoro
e dell’organizzazione nell’Italia del “miracolo economico” e della crisi petrolifera. Vi fu una
accumulazione di cui io tratteggerò un solo esempio.
4.2.
Il ruolo sociale dei sociologi economici italiani: il caso del tentativo di job
reform e di industrial democracy in Italia negli anni ’70
Un caso specifico ma rilevante (perché generò un protagonismo della sociologia insieme ad una
serie di prese di distanza e di ostilità all’interno della corporazione dei sociologi), fu quello del ruolo
di sociologi economici italiani che fra il 1970 e il 1975 lavorarono sui temi dell’organizzazione del
lavoro e dell’impresa: quelle che a livello internazionale si chiamarono esperienze di job reform,
participation, industrial democracy, riforma dell’impresa. Sociologi come Accornero, Baglioni,
Baldissera, Beccalli, Bonazzi, Butera, Cella, Gallino, La Rosa, Pichierri, Regini, Reyneri ebbero un
ruolo importante insieme a studiosi di altre discipline, come Momigliano, Giugni, Salvati e altri.
La visione del sistema produttivo italiano negli anni ’60 era caratterizzata, come si disse nel
celebre convegno dell’Istituto Gramsci del 1973, da una immagine di razionalità nel sistema
produttivo dentro le imprese e le fabbriche e da una irrazionalità nella società (mercato del lavoro,
infrastrutture economiche e formative, società civile). Permanevano uno stato di democrazia
bloccata e una società civile con un profondo malessere. Nelle grandi organizzazioni dominava un
taylor-fordismo trionfante con diverse “versioni”: fordismo + autoritarismo alla Fiat; taylorismo +
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paternalismo + culturalismo alla Olivetti; organizzazione tradizionale del lavoro + taylorismo della
job evaluation + tecnologia + relazioni industriali consociative alla Italsider. Fuori dal triangolo
industriale permaneva uno stato di forte arretratezza produttiva, con scarso sviluppo del
Mezzogiorno.
I problemi irrisolti che si presentavano alla riflessione e all’impegno degli scienziati sociali erano
principalmente la persistenza di vaste aree di sottosviluppo; la scadente qualità della vita di lavoro;
l’alienazione e il conflitto; l’assenza di ogni forma di democrazia industriale. Sembravano problemi
irrisolvibili dal momento che i rapporti politico-sociali erano bloccati e che il sistema produttivo
andava bene e il suo modello appariva economicamente non confutabile.
Il sistema produttivo italiano negli anni ’70 incontrava forti fattori di destabilizzazione: la crisi
energetica; l’accresciuta competitività internazionale; l’apparire di nuove tecnologie elettroniche
nei prodotti (computer) e nei processi (EDP e automazione industriale). Fattori politici sociali e
culturali contribuirono a superare la convinzione (dominate fra gli industriali, i sindacalisti, gli
intellettuali) che l’organizzazione industriale italiana fosse il migliore dei mondi possibili o che non
fosse riformabile. Frattanto i movimenti sociali giunsero sull’onda del maggio studentesco e
dell’autunno caldo. Arrivarono da altri paesi industrializzati nuove idee di management (modelli
contingentisti) e di organizzazione del lavoro (motivazionalismo, job enlargement, job enrichment,
lavoro di gruppo).
Gli anni ’70 offrirono alle scienze sociali italiane la possibilità di vedere criticamente i problemi e
l’intero modello di produzione industriale e di contribuire a ripensarlo, su temi come organizzazione
del lavoro, tecnologia, obiettivi produttivi, processi, sviluppo delle persone, relazioni industriali,
partecipazione, democrazia industriale.
Ora forse sì, la riprogettazione (allora non esisteva allora il termine “reengineering”) si poteva
tentare perché erano in atto in molte imprese cambiamenti del mercato, del prodotto e nuove
esigenza di flessibilità (e di qualità)! Le grandi forze imprenditoriali, sindacali e politiche
discutevano di un nuovo “modo di fare l’automobile”. Alla Fiat questo fu gestito come un problema
sindacale; nelle partecipazioni statali come un problema di esperimenti per consentire relazioni
partecipative; alla Olivetti come un profondo rinnovamento nei prodotti, processi, sistemi operativi,
sistemi di relazioni. Il Centro di Sociologia della Olivetti, fondato da Gallino e a cui era succeduto
chi scrive, fra il 1970 e il 1973 analizzò e guidò il progetto di change management associato al
passaggio dalla meccanica all’elettronica in rapporto con la comunità internazionale degli
organization students (in particolare con Udy, Wilensky, Harrison White, Homans, Galbraith,
Gouldner, Piore, Touraine e altri) e in una forte alleanza con l’International Council for Quality of
Working Life (Trist, Emery, Davis, Mumford, Reynaud, Delamotte, Herbst, Thorsrud, Takezawa,
Nitish De e altri). Apparve quasi subito manifesto il carattere potenzialemente rivoluzionario
dell’esperienza Olivetti di progettazione delle “isole”, le UMI o unità di montaggio integrate: venti
anni prima della la fabbrica integrata di Melfi si andò oltre il job design. Fu un caso di organization
design che tendeva a cambiare non solo il job ma il “modo di produzione”: esso era basato su
alcuni elementi culturali e strutturali che per la prima volta precipitavano insieme in un
cambiamento reale, che aveva come posta la sopravvivenza dell’azienda, la possibilità di allineare
il paese a sviluppi tecnologici che giungevano prepotentemente dal Giappone, il posto di lavoro
dei lavoratori, il bisogno di qualificazione sostanziale e di dignità, la qualità delle relazioni sociali in
un tempo di conflitto acutissimo. Il primo elemento fu la valorizzazione delle esperienze culturali
precedenti (la rivista “Tecnica e organizzazione”, il Centro di psicologia, il Centro di sociologia,
etc.) che furono il terreno di coltura dell’esperienza. L’incontro con le esperienze in atto (IBM, ATT,
etc.) ebbe una indubbia influenza: oggi si chiamerebbe benchmarking. Il fenomeno strutturale
principale fu certamente l’innovazione nei prodotti e nei processi. Il fenomeno sociale più rilevante
fu l’esistenza di relazioni industriali adulte ed evolute. Tutto ciò sostenne un esperimento
assolutamente inedito di cambiamento interattivo di tecnologia, cultura, organizzazione. Si affermò
una legittimazione dei parametri della qualità della vita del lavoro e dei criteri di nuovo job design,
come elementi per la progettazione. Vennero coinvolti il vertice aziendale e i sindacati. Ciò dette
luogo ad un processo di apprendimento. L’analisi, l’interpretazione, le raccomandazioni che
provenivano dal Centro di Sociologia ebbero due funzioni: l'animazione e la guida del
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cambiamento cui presero parte creativamente diversi attori (management, sindacato, studiosi) e
un risultato scientifico di rilievo nazionale (si iniziò a studiare i temi dell’organizzazione del lavoro e
della partecipazione intorno al caso delle “isole”) e internazionale (il mio articolo sul caso Olivetti fu
tradotto in 6 lingue)2.
A partire dal 1971 si avviò così una serie di “progetti esemplari” che tentano di verificare la
possibilità di un cambiamento nei paradigmi di organizzazione della produzione e delle forme di
partecipazione dei lavoratori. Oltre al caso Olivetti, vi furono quelli Italsider, Terni, Dalmine,
Ottana, Ansaldo, Honeywell Ricerca e Sviluppo, Mondadori e molti altri. Vengono generare
innovazioni organizzative che allora venivano etichettate come gruppi autoregolati; leadership
multiple; sistemi di comunicazione a più vie; organizzazione a matrice; organizzazioni reticolari;
organizzazioni non gerarchiche; eliminazione di livelli superflui di management (organizzazioni
piatte); ruoli aperti. Per gli scienziati sociali c’era molto da fare e molto fu fatto in quegli anni. Si
aprì la fase che ho definito delle “ricerche per la trasformazione del lavoro industriale” e apparvero
opere che contribuirono alle teorie organizzative: un resoconto è contenuto in un articolo
pubblicato sul numero unico di “Sociologia del Lavoro“ del 1978 che ha lo stesso titolo.
Premevano grandi questioni dello sviluppo del nostro paese come la qualificazione, le condizioni
per la qualità e la flessibilità produttiva, le nuove professioni nelle organizzazioni, il consenso e la
partecipazione, la natura dei servizi, la riforma della Pubblica Amministrazione, lo sviluppo delle
organizzazioni di fronte alla criminalità organizzata. Tuttavia su queste esperienze non nacque,
per scelta degli imprenditori e del governo, un nuovo modello produttivo (come la lean production)
e un nuovo programma sociale (come, ad esempio, quelli della “Humanisierung der Arbeit” e
dell’“Arbeitslivecentrum”, come era in atto in Germania e in Scandinavia).
Fra il 1975 e il 1985 ebbe luogo una drammatica riduzione di occupazione nell’industria (come in
Scandinavia, Germania e Inghilterra e Giappone), ma anche (a differenza di quei paesi) una
ingiustificata enfatizzazione del ruolo determinante dell’automazione, mentre al tempo stesso idee
e metodi per sviluppo moderno delle organizzazioni per lo più venivano introdotti da consulenti.
Problemi di sviluppo e progettazione delle organizzazioni e del lavoro, ben studiati dalle scienze
sociali riemergevano negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90: il rapporto uomo-macchina nelle
nuove tecnologie informatiche, la gestione sociale del processo di innovazione tecnologica e
organizzativa, le determinanti strutturali e comportamentali della qualità, la cooperazione
lavorativa nella gestione dei processi extra-funzionali, il processo di definizione e soluzione di
problemi, il rapporto fra conflitto - consenso e partecipazione, i modi di segmentazione della
popolazione lavorativa, i mercati del lavoro interne ed esterni, la cultura organizzativa, il rapporto
fra azienda e territorio, etc.
Assistemmo nella Italia degli anni ’70 ad una varietà di nuove ricerche, teorie e proposte di
intervento offerte da informatici, ingegneri di produzione, economisti, studiosi di management,
giuristi, consulenti. Invece, l’accumulazione delle esperienze di ricerca e di cultura di sociologica
(industriale, del lavoro, dell’organizzazione) generata negli anni ’70 venne in gran parte
“sotterrata”. Io sostengo che le scienze sociali avevano tradizione e titolo per fornire contributi
ancor più aggiornati e importanti di quelli di altre discipline, ma non sempre lo hanno fatto, per una
sorta di autocensura, per “rinuncia ad agire” e per timore di scivolare nel professionismo.
5. Sociologia dell’organizzazione: quali “viste” e funzioni?
A livello internazionale e in Italia, la comunità scientifica è divisa in una discussione sui diversi
paradigmi, le diverse teorie, i diversi modi di sviluppare la disciplina. Le maggiori differenze, più
che sulle teorie, mi pare si dispongano lungo due assi, le viste e le funzioni:
2
Una più approfondita analisi è contenuta in un mio lavoro in corso di stampa in Butera, De Witt, Lamborghini Da Meccanica a
elettronica: trasformazioni organizzative in Olivetti, Il Mulino.
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a) quella delle “viste”sull’oggetto d’indagine e sulla relativa funzione dell’indagine stessa. Esse
possono essere sintetizzate nelle seguenti cinque viste: “disvelamento del sociale nelle
organizzazioni”, “produzione delle organizzazioni nella società”, “produzione della società”, “corpo
di studi empirici teso a fornire un contributo teorico”, “dominio di studi sulla persona come
fondativa delle organizzazioni”;
b) quella dei modelli di sviluppo e di gestione della disciplina.
a) Le viste sull'oggetto di indagine
Una delle principali “viste” e funzioni della sociologia dell’organizzazione è stata quella della
funzione di disvelamento del sociale nelle organizzazioni: lo studio dei processi e delle strutture
sociali entro le grandi strutture dell’impresa, della Pubblica Amministrazione, delle tecnologie.
Essa corrisponde alla tradizione più gloriosa dell’epoca d’oro della sociologia del lavoro e
dell’organizzazione che studiava l’interno delle organizzazioni: dal primo Touraine, a Gouldner, a
Thompson, a Perrow, alla Woodward e altri. Organizzazioni e forme di lavoro dai confini labili
rendono oggi in parte esaurita questa fase in quella forma: nascono però nuovi temi, come le
strutture di cooperazione nei distretti, i social network nelle reti ICT, che richiedono ancora molta
penetrazione sociologica.
Una seconda “vista” è stata quella dello studio delle società contenute dalle organizzazioni: essa è
quella radicata nella grande sociologia di Weber, Durkheim, Parsons e altri e che in modo
specifico si è espressa nella tradizione americana di sociologia economica, da Udy a H. White, a
Stinchcombe a Perrow. Il neo-istituzionalismo rilancia l’investigazione sull’embeddedness delle
organizzazioni nella società e dell'isomorfismo fra organizzazioni e società. Perrow descrive ad
esempio l'incorporazione di “quote di società” nelle grandi corporation americane.
Una terza è quella centrata sull’investigazione sul contributo che specifiche forme di
organizzazione (come l’impresa e la fabbrica industriali) hanno sulla produzione della società,
tanto da influenzarne il carattere come nel caso della società industriale e della società
capitalistica. Come scrive Touraine «L’idea di società industriale definisce l’attore come lavoratore
ed i rapporti sociali come rapporti fondati sul dominio e la gerarchia, stabiliti entro classi definite
per riferimento al loro posto nei rapporti sociali come rapporti fondati sul dominio e la gerarchia e
stabiliti entro classi definite per riferimento al loro posto nei rapporti sociali di produzione» (1993).
Questo paradigma si attenua in un mondo dove gli operai diminuiscono e il conflitto assume
caratteristiche del tutto diverse. Ma nuove drammatiche domande si pongono, per esempio, sul
rapporto fra mondializzazione dell’economia, diffusione delle nuove tecnologie telematiche, nuove
forme di impresa, nuove forme di lavoro, comunità.
La quarta vista/funzione è la proiezione ambiziosa della disciplina come un corpo di studi empirici
teso a fornire un contributo teorico alla big science dell’economia e della società: luci e delusioni vi
furono nello sforzo della sociologia economica tedesca di confrontarsi con Marx e Weber, dove
anche un grande come Luhmann deve giustificare la legittimità delle sue teorie di medio raggio.
C’è chi auspica una tensione ad un salto teorico come quello che, sulle ricerche empiriche italiane
Piore e Sabel in USA hanno proposto annunciando una nuova economia politica (ma purtroppo
rivelatasi non fondata). Il contributo teorico è un risultato di tanto lavoro empirico, di una continua
esposizione al confronto con altri domìni scientifici e infine di un riconoscimento esteso dello
statuto teorico, come è avvenuto nel caso di Simon.
Una quinta vista è quella che vede la disciplina come un dominio di studi sulla persona come
fondativa delle organizzazioni: operai, tecnici, imprenditori che definiscono strutture e regole per
l’economia e l’organizzazione, come sottolineano Ferrarotti e Touraine, Habermas, Crozier, Morin,
Gallino, Ardigò. Come scrive Touraine, essa costituisce probabilmente il programma teorico ed
empirico più avanzato e inquietante che la sociologia economica può incontrare nel suo percorso
nel XXI secolo.
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La sociologia dell’organizzazione e la sociologia economica italiane come parte di una comunità
cosmopolita dispongono oggi di una massa di lavoro empirico e teorico che occorre metabolizzare
e rivalorizzare, rispetto ad una serie di compiti pratici e teorici di rilevanza cruciale che si
addensano intorno al tema della riconcezione del lavoro e delle organizzazioni, in una società per
un aspetto mondializzata e per l’altro fortemente regionalizzata.
b) Le funzioni della disciplina
Vi sono due principali funzioni: i) una che chiamerei di institution building e di costruzione della
giurisdizione della disciplina e ii) una che chiamerei di costruzione di un programma di impegno
sociale della disciplina. Queste due visioni non sono opposte, ma talvolta tendono a proporsi come
reciprocamente escludenti.
i) Il processo di institution building e costruzione della giurisdizione della disciplina sta
avendo luogo come una ricerca dei temi fondativi di un dominio che ambisce ad identificare
una gamma selezionata di temi legittimati (per il passato, ad esempio, il mercato del lavoro,
le economie regionali, l’organizzazione della produzione, le relazioni industriali, il simbolismo
organizzativo), insieme all’identificazione di formati metodologici ed espositivi rigorosi ed
esclusivi (come quelli proposti da “Administrative Science Quarterly”, “Organization Studies”
e, in Italia, “Studi Organizzativi”). L’adozione di questa modalità, quando porta alla
formulazione di programmi di ricerca e alla definizione di standard scientifici è essenziale per
uno sviluppo. Quando invece porta ad una restrizione iperspecialistica e ad un manierismo
formale, non può non giustificare considerazioni pessimistiche. Ove prevalga un’attitudine
autocommiserativa, si giunge per esempio a valutare il programma di ricerche, su cui la
sociologia dell’organizzazione e la sociologia economica italiane si sono maggiormente
impegnate, come ormai esaurito senza essere approdato né ad una influenza sui processi
socio-politici, né a contributi teorici, né al dialogo con altre discipline. Ove prevalga una
versione orgogliosa e autoreferenziata, si registra la sindrome inversa: quella di gilde
sociologiche europee e americane ormai impegnate a crescere sugli standard e sui
riferimenti da essi stessi prodotti perdendo rapporto con le scienze economiche e sociali e
accentuando l’incomunicabilità con gli attori del mondo delle organizzazioni.
ii) La costruzione di un programma di impegno sociale della disciplina implica lo sviluppo di
una scienza del cambiamento del lavoro e delle organizzazioni, disciplina storicizzata,
integrata nel più ampio sviluppo delle scienze umane, che genera proposizioni esplicative sui
fenomeni economici, tecnologici e sociali a livello di società globale, che dà un contributo
allo sviluppo e alla progettazione di strutture e di politiche. Essa ha due grandi riferimenti fra
loro assai diversi ma simili nel tentare di fondare una “scienza dell’artificiale” in modo
multidisciplinare e sviluppare l’azione sociale: Herbert Simon e il Tavistock Institute. Di
questa visione, che mi è particolarmente cara, parlerò più avanti. Essa, tuttavia, non si è
preoccupata di rendere ostensibili fino in fondo le proprie ipotesi, le proprie scelte di valore, i
propri metodi.
Sosteniamo che è giunto il momento, nella comunità internazionale e in Italia, di superare
l’assurda contrapposizione di teorie, di scuole, di viste, di opzioni sulle funzioni, di modi di gestione
della disciplina: ciò non per un eclettismo o ecumenismo, ma per “far rimettere in marcia” questo
patrimonio rispetto ai compiti scientifici e pratici che abbiamo davanti.
Divergenze scientifiche, differenze di modi di operare, antichi dissapori non possono essere
dimenticati o celati: ma forse - almeno nella ristretta comunità italiana - possono essere portati “in
background”, mettendo invece in primo piano un programma universalistico che renda visibili le
relazioni già oggi esistenti fra i programmi di ricerca delle scuole più importanti e che trovi
l’accordo su pochi e importanti obiettivi scientifici e pratici. Per ottenere ciò, possono essere anche
potenziate le funzioni di promozione e regolazione che aiutino la comunità ad essere orientata
verso processi e obiettivi universalistici che trascendano quelli di ogni singola scuola e ricercatore:
vari soggetti possono svolgere parte di queste funzioni, dall’ELO/AIS, alle riviste del settore (fra
cui "Sociologia del Lavoro", "Studi Organizzativi"), alle figure più rilevanti della disciplina. Per far
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ciò bisogna tentare di disconnettere da questo sforzo comunitario l’unico processo di allocazione
di potere e di risorse limitate (che produce naturalmente conflittualità) ossia l’assegnazione degli
incarichi universitari.
6. Un programma di ricerca e formazione
Da queste premesse è possibile delineare alcuni tratti di un programma di ricerca per la
sociologia dell’organizzazione e la sociologia economica sull’impresa e sulla Pubblica
Amministrazione. Questi sono alcuni dei temi emergenti che non possono essere validamente
affrontati senza il contributo delle discipline sociologiche.
1. Concezione e nuove forme di impresa
Sono studiate e sperimentate nei paesi più evoluti nuove moderne concezioni non meramente
economicistiche dell’impresa che, proprio perché accetta la sfida mondiale per un drammatico
aumento di produttività, efficacia e creatività, ripensa se stessa in termini di una combinazione
internamente consonante di strutture economiche, tecnologiche e sociali, appropriate al livello
delle strategie economiche e sociali proprie e del contesto in cui opera.
2. La Pubblica Amministrazione al servizio del cittadino
È indispensabile una buona organizzazione della Pubblica Amministrazione: lo Stato
Moderno/Stato Modesto di cui parla Crozier (2010) è quello più centrato sulla capacità di fornire
servizi che sull’autorità. L’Ente pubblico eroga sempre servizi anche se non lo sa. Costituiscono
servizi la predisposizione e l’eventuale gestione diretta di infrastrutture per la comunità (come
strade, edifici scolastici, teatri, farmacie, etc.). Costituiscono servizi la fornitura di servizi pubblici
(gas, acqua, elettricità, igiene ambientale). Costituiscono servizi le strutture e le attività di
supporto personalizzate a particolari categorie della popolazione (istruzione, assistenza agli
anziani, assistenza ai disabili). Certamente però costituiscono servizi anche le attività certificative
(anagrafe, catasto) nel doppio senso che garantiscono l’identità dei cittadini e delle loro proprietà
e che devono essere forniti ai cittadini nel tempo e nel modo più convenienti per questi ultimi.
Infine, vanno considerati servizi anche le attività di regolazione che a prima vista costituiscono
una restrizione della libertà dei cittadini, ma che in realtà tendono a conservare e proteggere beni
collettivi che devono poter essere fruiti da tutti (polizia, licenze e concessioni, etc.). Su questa
base processi, strutture organizzative, tecnologie, ruoli, professioni, sistemi di relazioni sindacali
vengono profondamente re-ingegnerizzati e spesso re-inventati in tutti i paesi occidentali. Rimane
una quota limitata di attività che attiene ai processi di orientamento e scelta istituzionale che non
sono servizi, ma espressione di potestà e autorità istituzionale: ma - come dice Dente - esse
possono essere svolte da poche persone altissimamente qualificate che processano, sintetizzano
e fanno convergere sui decisori informazioni e premesse per le decisioni.
3. Responsabilità sociale e sostenibilità
Vanno identificati nuovi multipli parametri di successo dell’impresa e delle organizzazioni
pubbliche: successo economico (costi, competitività, diversificazione, innovazione), successo
tecnico (modernizzazione, innovazione, diffusione) e successo sociale (qualità della vita dei
lavoratori e dei consumatori finali). È in atto, e va accelerata, la ricerca sulle variabili sociali, la
costruzione di approcci, metodologie, metriche per sviluppare nuovi sistemi di pianificazione e
controllo di queste dimensioni e per ottimizzarle congiuntamente.
4. La qualità della vita
In un momento di cambiamento delle imprese e delle Pubbliche Amministrazioni, sembrerebbe
difficile tenere conto della qualità della vita di lavoro, o della qualità della vita in generale. Ma
senza una protezione e uno sviluppo delle persone, difficilmente può esservi sviluppo delle
organizzazioni.
L’integrità fisica delle persone è una prima dimensione fondamentale della nozione di Qualità
della Vita di Lavoro (QVL). L’integrità cognitiva riguarda il padroneggiare i sistemi di conoscenza
veicolati attraverso le tecnologie ICT. L’integrità emotiva fa riferimento a fatica mentale, stress,
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tensione, nevrosi, psicosi. L’integrità professionale si riferisce al bisogno che le persone hanno di
riconoscere la propria capacità di proteggere e sviluppare la propria identità professionale:
competenze, ruoli, formazione, sviluppo, sicurezza del lavoro. L’integrità della vita sociale
riguarda turni, orari, distanza dal lavoro. L’integrità del sé non è la somma di tutto quanto
precede: la perdita dell’identità di sé (l’estraneazione, l’alienazione, la perdita di senso di sé,
l’anomia, etc.) è un problema sociale autonomo delle condizioni di lavoro sempre più importante.
Questi parametri possono essere adottati nella progettazione dei reparti, nelle funzioni, nelle
procedure, negli orari di lavoro, non solo come norme ma anche come opportunità e linee guida
di sviluppi e miglioramenti.
5. Nuove soluzioni di organizzazione e di lavoro
Occorre moltiplicare l’acquisizione, l’esame, l’applicazione, la rielaborazione e l’invenzione di
nuove soluzioni progettuali riguardanti le organizzazioni complesse. La progettazione del postfordismo è in corso con uno stock di soluzioni ormai assai ampio a vari livelli. Occorre sviluppare
organizzazioni centrate sull’offerta di lavoro.
6. Il processo di cambiamento e progettazione
Il processo di cambiamento e progettazione è un processo tecnico-sociale che coinvolge esperti,
imprenditori, manager, professionisti, lavoratori e ad esso sono interessati pubblici poteri e
rappresentanti delle forze sociali. Gli ultimi vent’anni sono stati ricchissimi di esperienze di
processi che hanno seguito i modelli più diversi e innovativi rispetto al tradizionale modo di gestire
e progettare ereditato dalle grandi burocrazie: top/down; bottom/up; per gruppi esemplari; per
diffusione di innovazioni locali; per diffusione di cambiamenti ad alto livello, etc. Tale grande
ricchezza non è stata del tutto assimilata nel patrimonio culturale dei soggetti dell’impresa e
sull’ulteriore evoluzione va condotto ancora un grande sforzo.
7. La partecipazione e le relazioni fra imprenditori, sindacati e istituzioni
Lo sviluppo delle forme di relazioni fra i soggetti collettivi (relazioni competitive, negoziali,
consociative, partecipative, codeterminative, etc.) ha avuto luogo insieme ad una profonda
modifica degli obiettivi (economici, sociali, istituzionali) degli attori e della stessa natura degli attori
(che cosa è oggi un dirigente, che cosa è un professionista d’azienda, che cosa è un
sindacalista). È possibile individuare forme di concertazione e codeterminazione che accelerino e
proteggano i progressi in materia di sviluppo dell’economicità, dell’eccellenza tecnica, della
qualità della vita dei lavoratori.
8.Formazione e cultura organizzativa
Formazione e apprendimento di una nuova cultura organizzativa dovranno essere sviluppati anche
se diversamente e conflittualmente interpretati da tutti i soggetti rilevanti: imprenditori, dirigenti,
professional, impiegati, operai, consumatori, soggetti istituzionali, etc. Questa nuova cultura è
orientata alla condotta strategica, al mercato, al cliente, al risultato, alla qualità, al controllo dei
processi, alla valorizzazione delle risorse soprattutto umane, all’innovazione, alla ecologia, alla
responsabilità sociale, all’etica, etc.
Conclusioni
Non vi è crisi di fronte ai sociologi dell'organizzazione italiani. Forse vi è un eccesso di potenziale
impegno richiesto. Vi sono compiti di ricerca su temi di grande rilievo che non sono affrontabili
senza l’apparato teorico e di ricerca empirica della sociologia generale e più in generale della
sociologia economica. Ciò richiede progetti di ricerca spesso multidisciplinari, potenziamento della
didattica istituzionale. Ciò richiede anche la partecipazione a fasi di progettazione di cambiamenti
esemplari e un forte sviluppo della comunità scientifica italiana in connessione stretta con la
comunità scientifica internazionale.
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