1 ANNO ACCAMICO 02 - 03 Incentivazione e Corso generale 2 Programma 1- Significato del termine “filosofia” 2- La diversità delle filosofie 3- Significato di “storia della filosofia” 4- I problemi della filosofia 5- La cultura antica tra paganesimo e cristianesimo 6- La filosofia del cristianesimo 7- Lo gnosticismo 8- Il manicheismo 9- Controversie trinitarie e cristologiche 10- Gli apologisti: Giustino e Tertulliano 11- Divisione della filosofia medioevale e caratteri generali 12- Prima fase del neoplatonismo cristiano: Origene 13- Prima fase del platonismo cristiano: Agostino di Tagaste 14- Seconda fase del neoplatonismo cristiano: Giovanni Scoto Eriugena 15- Seconda fase del platonismo cristiano: Anselmo d’Aosta 16- Il problema degli universali 17 Bonaventura da Bagnoregio 18- La filosofia araba 19- Terza fase del neoplatonismo cristiano: Alberto Magno 20- Fase dell’aristotelismo cristiano : Tommaso d’Aquino 21- Dopo Tommaso 3 !- Significato del termine “filosofia” Nel suo significato etimologico, il termine “filosofia” significa “amore della saggezza”. Già in questo significato, la parola include un riconoscimento dei limiti dei poteri conoscitivi e pratici dell’uomo. La divinità sola è “saggia”, cioè conosce infallibilmente e perfettamente ciò che è bene ed è vero: l’uomo può solo “amare” la sapienza, cioè cercare di acquisirla in quei limiti che gli sono consentiti dai poteri di cui dispone. Di conseguenza, a differenza della religione, che si fonda sempre su una verità rivelata in modo soprannaturale, o del mito, la cui verità è garantita da una lunga tradizione, la filosofia fa appello ai poteri naturali, cioè alla ragione dell’ uomo e all’iniziativa d’indagine, di critica e di accertamento che tali poteri gli consentono. Non sempre l’indagine filosofica giunge a distruggere le credenze tradizionali, i miti, le opinioni correnti di cui costituisce la critica; anzi, talvolta giunge alla conferma o alla correzione di esse; ma anche in questo caso, la conferma o la correzione che essa ne dà si risolve in una nuova interpretazione di essi perché ne trova nuovi fondamenti, nuove ragioni, nuove prove. In ogni caso, questa ricerca di ragioni, di fondamenti e di prove costituisce il compito specifico della filosofia perché le consente di formulare dottrine che, in quanto razionali, possono essere accettate o condivise da tutti gli uomini e superare il contrasto e la disparità di opinioni che è la fonte dei loro conflitti. Fin dai suoi primordi, la filosofia greca ha contrapposto alla molteplicità e variabilità delle opinioni, che sono diverse da uomo a uomo, l’unità e l’immutabilità della ragione, affidandosi alla quale gli uomini possono trovare verità valide per tutti e quindi superare i loro contrasti. Ma se la filosofia è ricerca della saggezza, che cosa si deve intendere per saggezza? Nell’ Eutidemo di Platone è detto che non basta all’uomo possedere i beni che ciascuno naturalmente desidera, come la salute, il denaro, la bellezza o 4 altro, perché se non sa anche farne buon uso non farà che sprecarli senza alcun vantaggio per sé e per i suoi simili. La stessa cosa, aggiunge Platone, vale per le conoscenze che l’uomo possiede, per la scienza in generale: se non sa usare tali conoscenze nel modo migliore per se stesso e per gli altri, esse gli saranno inutili o addirittura nocive. La saggezza consiste, secondo Platone, nel saper usare per il vantaggio degli uomini le conoscenze che l’uomo riesce a raggiungere e nel farle servire all’interesse di tutta la comunità umana. Platone insisteva, pertanto, sul carattere politico della filosofia, sulla sua funzione di costituire il fondamento di una comunità giusta, che egli descrisse nel maggiore dei suoi dialoghi, la Repubblica. Ma lo stesso concetto di filosofia fu espresso da Kant, il quale nella Logica sosteneva che il campo della filosofia può ricondursi ai seguenti problemi:1) Che cosa posso sapere? 2) Che cosa devo fare? 3) Che cosa posso sperare? 4) Che cosa è l’uomo? Alla prima domanda, aggiungeva Kant, risponde la metafisica, alla seconda risponde la morale, alla terza la religione, alla quarta l’antropologia, ma in fondo tutta questa materia potrebbe essere ascritta all’antropologia perché i primi tre problemi si riferiscono al quarto. Con quest’ultima osservazione Kant ha messo in luce quello che è veramente il problema centrale della filosofia: l’uomo è colui che filosofa ma è anche l’oggetto, l’argomento della filosofia. L’uomo può rendersi conto di ciò che può sapere e non sapere, di ciò che deve fare, di ciò che può sperare, solo se sa che cos’è l’uomo, qual è la sua natura, quali sono le sue possibilità. Non tutti i filosofi, però, dichiarano apertamente, come fecero Platone e Kant, che l’uomo è il tema fondamentale della loro filosofia. Alcuni assumono come tema la natura o il mondo, altri Dio, altri l’Essere, cioè la realtà in generale, altri ancora lo spirito in qualcuna o in tutte le sue manifestazioni. Essi rifiuterebbero la tesi di Kant, secondo la quale ogni problema filosofico è un problema di antropologia, cioè concerne l’uomo. Tuttavia, anche in questi casi, il riferimento all’uomo è inevitabile. La natura o il mondo di cui si parla sono quelli in cui l’uomo vive o di cui fa parte; la realtà che si indaga è quella accessibile agli strumenti di 5 conoscenza di cui l’uomo dispone; l’Essere su cui si specula è quello che almeno parzialmente o imperfettamente si rivela all’uomo. La presenza dell’uomo nella speculazione filosofica è costante, anche se non sempre apertamente dichiarata. La domanda “Che cosa è l’uomo?” rimane sullo sfondo anche di quelle filosofie che sembrano ignorarla. 2- La diversità delle filosofie Questa domanda, tuttavia, non è suscettibile di una risposta unica e definitiva, perché l’uomo non è un prodotto costante, una specie di composto chimico di cui si tratta soltanto di trovare gli elementi e il modo della loro composizione. Egli è, piuttosto, un processo sempre aperto, uno sviluppo che può procedere in direzioni diverse, un essere che si trova continuamente di fronte ad alternative e scelte che possono modificare radicalmente la forma o i modi della sua esistenza. L’uomo è stato un cavernicolo, ha creato grandi civiltà ora sepolte, e anche ora vive secondo civiltà diverse, che hanno poco in comune l’una con l’altra. La sua struttura biologica, i suoi bisogni essenziali, sono rimasti pressoché costanti; ma i suoi modi di vivere, di lavorare, di pensare, di giudicare se stesso e gli altri, sono stati diversi e sono tuttora in continuo mutamento. Sono, di conseguenza, diverse le organizzazioni sociali e politiche che si è date, i suoi modi di convivenza. La filosofia nella diversità delle sue scuole, dei suoi indirizzi, delle sue correnti, riflette questa diversità dei modi di vivere umani; e non solo la riflette, ma, a volte, la sollecita e la anticipa, progettando il futuro dell’uomo in un modo che può essere più o meno conforme ai modi di vita esistenti, ma anche completamente difforme da essi. In ogni caso, la filosofia si pone il problema di quale è o deve essere l’atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo e alla vita, di fronte a se stesso e agli altri, di fronte alla divinità. Ci sono filosofie che suggeriscono all’uomo un atteggiamento puramente contemplativo e vogliono fare di lui lo spettatore disinteressato del mondo; e ci sono filosofie, come quella di Platone, le quali sollecitano l’uomo ad un impegno nella vita pratica per la trasformazione del mondo e della società in 6 cui vive; le une e le altre, però, prospettano all’uomo progetti di vita e lo chiamano ad una scelta. Le une e le altre, inoltre, registrano insegnamenti preziosi che il genere umano ha accumulato nella sua storia, esperienze positive e negative, di vita e di morte, di mali e di beni, che si sono intrecciate nel corso di essa. La diversità delle filosofie non è, pertanto, una ragione di scandalo, in quanto riflette quella dei progetti di vita tra i quali l’uomo e le comunità umane possono scegliere, e mantiene aperta continuamente dinanzi all’uomo la via del futuro che, senza di essa, gli rimarrebbe chiusa. Anche nei periodi nei quali è prevalso un certo tipo di filosofia, si sono manifestati indirizzi o interpretazioni diverse e non sono mancati tentativi più o meno riusciti di uscirne fuori. Così, per esempio, è accaduto nel platonismo, nell’aristotelismo, nell’idealismo, nel marxismo che hanno conosciuto polemiche e contrasti innumerevoli. C’è, poi, un’altra radice della diversità delle filosofie, costituita dal tipo di esperienza umana da cui una determinata filosofia parte per le sue costruzioni. Platone, ad esempio, tenne d’occhio soprattutto l’esperienza morale e politica; Aristotele la scienza; altre filosofie privilegiano la religione o l’arte. A seconda della priorità accordata all’una o all’altra di queste esperienze, il punto di partenza dell’attività filosofica muta e quindi tendono a mutare anche le conclusioni cui essa giunge, il concetto del mondo e il progetto dell’uomo che essa riesce a formulare. 3- Significato di “ storia della filosofia” La storia della filosofia ci mostra i risultati cui i filosofi sono giunti riflettendo su uno o più campi dell’esperienza umana. Essa descrive i loro tentativi di comprendere l’uomo in generale, il mondo in cui vive, gli ideali ed i valori per cui si è battuto e si batte, le vie che si sono aperte o chiuse davanti ai suoi sforzi; e infine gli atteggiamenti che può assumere di fronte a quelli che sono i suoi limiti e i suoi problemi fondamentali: la vita e la morte, il bene ed il male, la felicità o l’infelicità, la pace o la guerra. La storia della filosofia è, così, un grande serbatoio di pensieri che possono ancora essere pensati, di esperienze che possono ancora essere vissute; e con le sue polemiche e i suoi conflitti mostra anche il contrasto di esperienze e di 7 pensieri di cui è tessuta la vita dell’uomo e i limiti e le insufficienze delle interpretazioni che sono state date di essa. Ogni filosofia è condizionata dall’ambiente sociale in cui nasce; un filosofo, come ogni altro uomo, vive nel suo tempo e partecipa, sia pure attraverso la mediazione di concetti astratti, ai bisogni, alle aspirazioni, ai conflitti che lo caratterizzano. La filosofia non è, di regola, opera di asceti o di anacoreti che vivono nell’isolamento, ed anche quando raccomanda o esalta la solitudine o l’ascetismo, fa questo per sottrarre l’uomo alle difficoltà in cui lo vede immerso nel suo tempo. Dall’altro lato si deve osservare che la filosofia può trarre ispirazione da campi diversi che possono anche non avere stretta attinenza con l’ambiente sociale o politico in cui egli vive. Nella Patristica e nella Scolastica, ad esempio, i problemi dominanti furono offerti ai filosofi dal rapporto in cui la nuova fede religiosa cristiana veniva a trovarsi con la scienza e la cultura ereditate dall’antichità classica. Non si può, quindi, considerare una filosofia come la semplice espressione del tempo, cioè come una manifestazione di tendenze storiche determinate, il prodotto inevitabile di determinate circostanze ambientali. Se così fosse, in un determinato periodo, nell’ambito di una determinata cultura, non ci potrebbe essere che una sola filosofia. Ma così non è di fatto; Platone e Democrito, ad esempio, sono vissuti nello stesso ambiente e nello stesso periodo di tempo, ma Platone è il filosofo delle idee, Democrito il materialista. In generale, una filosofia può essere considerata come una reazione meditata o razionale agli stimoli che provengono dai campi più disparati dell’attività umana; o in altri termini una risposta alle sfide che il mondo pone agli uomini in un certo periodo della loro storia. La reazione o risposta, però, può essere positiva o negativa; può accettare o difendere la realtà che le si offre, come può rifiutarla e invitare gli uomini a trasformarla. 4- I problemi della filosofia Il problema che si pone la filosofia è uno solo: ricercare l’Essere, determinare il destino umano e indicare all’uomo i mezzi più idonei per attuarlo. 8 Esso, però, pur essendo unico, si suddivide in molteplici problemi, in quanto tanto l’Essere quanto la vita presentano, nella loro complessa ricchezza, molti aspetti, ciascuno dei quali rivela una faccia della identica realtà I principali problemi di cui si interessa la filosofia sono, dunque, i seguenti: problema gnoseologico, problema metafisico, problema cosmologico, problema psicologico, problema teologico, problema morale, problema estetico, problema politico, problema sociologico, problema economico, problema storiografico, problema pedagogico. Questi problemi non sono isolati o indipendenti fra loro ma concorrono insieme, ciascuno per la parte che gli compete, a determinare l’essere e ad offrire una risposta agli interrogativi che l’uomo si pone sul suo destino. L’uomo, infatti, è un essere che esiste, pensa, agisce, prova sentimenti contrastanti e, quindi, si rivolge al mondo nel quale vive in vario modo secondo un particolare atteggiamento corrispondente all’interesse conoscitivo, pratico, ecc. Il problema gnoseologico, dal greco gnòsis = conoscenza e lògos = discorso, scienza, o conoscitivo è anche detto retorico. Esso distingue la conoscenza sensibile da quella intellettiva, ne indaga l’origine, determina se sia possibile raggiungere la verità e riconosce i limiti dell’uomo. Il termine metafisica fu introdotto dal critico alessandrino Andronico da Rodi, I secolo d. C, il quale, riordinando le opere di Aristotele, dispose quelle riguardanti la filosofia prima e cioè la realtà e la struttura dell’essere in generale, che è al di là dell’esperienza sensibile, dopo (cioè metà) i libri che trattavano le cose naturali, fisiche (phisicà). Da allora questo termine indica l’essere in sé, la realtà assoluta che è la sostanza, l’essenza di tutto, al di là delle apparenze sensibili. Il problema cosmologico, da còsmos = mondo e lògos = discorso, scienza, riguarda la natura, cioè tutte le cose che costituiscono la realtà oggetto di esperienza. Questo problema è di immediata evidenza perché la natura circonda l’uomo e l’uomo è inserito nella natura stessa, tanto che si è imposto per primo all’indagine ed alla riflessione filosofica. 9 Infatti, l’umanità fanciulla si rivolge alla scoperta del mondo, che osserva intorno a sé, per lo stesso motivo per cui il bambino, fin dai primi giorni di vita vuole rendersi conto dell’ambiente in cui si trova. Il problema psicologico, da psichè = anima e lògos= discorso, scienza, riguarda l’anima umana e si occupa della sua origine, della sua natura, delle sue attività e del suo destino. Il problema teologico, da theòs = Dio e lògos = discorso, riguarda Dio, la sua esistenza, i suoi attributi ed i suoi rapporti con l’universo e con l’uomo. Il problema morale, da mòs = costume , oppure etico, da èthos = costume, riguarda l’attività pratica dell’uomo, indica il fine da raggiungere e suggerisce le norme che devono regolare le singole azioni e la vita. Il fine da raggiungere è il bene, ma questa parola assume diversi significati secondo i vari indirizzi filosofici: bene in senso fisico, come piacere sensibile; bene in senso intellettuale, cioè come verità; bene in senso morale, come superamento delle passioni e quindi come virtù. Il problema estetico, da aistheticòs = che si percepisce immediatamente, ha come oggetto il bello, sia esistente nella natura, sia creato dall’uomo e studia il significato ed il valore dell’arte. Il piacere che il bello procura è puro, disinteressato, ed è ben diverso dal piacere particolare e soggettivo dei sensi perché investe tutta la spiritualità dell’uomo. Per questo ha carattere universale: coloro che lo contemplano e gustano un’opera bella sentono vivo e pulsante il proprio spirito in comunione con gli altri uomini e con l’artista che, in quella tela, in quella statua, in quella costruzione architettonica, in quella poesia, in quella sinfonia musicale, ha espresso la sua anima, ha manifestato la sua umanità, ed in quell’opera ritrovano se stessi, la propria essenza di uomini. Il problema politico, da politichè = scienza dello Stato, riguarda la forma di governo e ne esamina l’origine e l’esercizio dei poteri nei confronti dei cittadini. Lo Stato è una istituzione necessaria in quanto l’uomo tende per natura ad unirsi agli altri ed a formare con questi una società nella quale possa attuare meglio se stesso. Il problema sociologico, da sòcius = socio e lògos = discorso, scienza, ha per oggetto la società umana, ne indaga i caratteri e ne osserva il modo con cui essa si evolve. 10 Il problema economico, da òicos = dimora, casa e nomìa = amministrazione, esamina i mezzi di produzione in rapporto al capitale ed al lavoro e quindi riguarda l’attività umana sotto l’aspetto economico. Oggi questa scienza si chiama economia politica perché suggerisce norme e direttive che lo Stato adotta e segue nell’opera di governo. Anche se gli uomini antichi hanno trattato questo problema, si può dire che l’economia politica è sorta nell’età moderna, dopo la diffusione del commercio e l’introduzione della moneta, proprio per lo squilibrio esistente tra l’illimitato sviluppo dei bisogni umani e gli scarsi mezzi adatti a soddisfarli. Il problema storiografico, da història = storia e grafìa = descrizione, interpretazione, esamina gli avvenimenti storici per ritrovare in essi i motivi ideali che li hanno prodotti. Gli avvenimenti storici, perciò, non hanno valore di per se stessi, ma sono manifestazioni esteriori di fattori interni che costituiscono l’essenza della realtà e ne promuovono il divenire. Naturalmente, tali motivi ideali variano nei diversi secoli in corrispondenza della civiltà, del pensiero e delle correnti filosofiche del tempo. Così, mentre la storiografia greca tende a conciliare il contrasto tra il mito e l’esperienza concreta e realistica delle cose, il Medioevo interpreta il mondo ed i fatti umani in senso religioso e morale. Il problema pedagogico, da pàis = fanciullo e ago = guido, conduco, si occupa dell’educazione e ricerca i mezzi più adatti per formare il carattere dell’uomo e promuoverne le attitudini, in modo che la sua personalità possa svilupparsi integralmente per il bene dell’individuo stesso e della società di cui fa parte. 5- La cultura antica tra cristianesimo e paganesimo L’ultimo periodo della filosofia antica, coincidente cronologicamente con la durata dell’Impero romano, è caratterizzato dall’incontro tra la filosofia greca e due grandi religioni, il giudaismo ed il cristianesimo, il quale influì profondamente sia sui filosofi che aderirono a tali religioni, sia su quelli che non vi aderirono. Il giudaismo era entrato in contatto con la cultura filosofica greca già nel II e nel I secolo a. C., grazie alla presenza di numerosi ebrei della diaspora ad Alessandria, la più prestigiosa, dal punto di vista culturale, delle capitali dei regni ellenistici. 11 Ma la prima importante figura di filosofo che unì una formazione tipicamente greca con un’adesione piena alla religione giudaica fu FILONE D’ALESSANDRIA detto anche Filone l’Ebreo, vissuto a cavallo tra il I sec. a. C. e il I sec. d.C., il quale operò una sintesi, destinata ad influenzare tutta la filosofia successiva, sia ebraica che cristiana e pagana, tra religione giudaica e filosofia greca, assumendo da quest’ultima soprattutto motivi platonici e stoici. Il grande nuovo concetto introdotto dalla religione giudaica, cioè dalla Bibbia, in particolare dal Vecchio Testamento, nella filosofia, fu quello di creazione del mondo ad opera di Dio. Nessun filosofo greco, infatti, aveva mai concepito un vera e propria creazione del mondo dal nulla, ed anche colui che più di tutti si era avvicinato a questo concetto, cioè Platone, aveva immaginato piuttosto un’azione plasmatrice della materia preesistente, compiuta dal Demiurgo sul modello delle idee, a lui superiori e da lui indipendenti. Filone assunse la creazione come base della sua filosofia, ma seppe conciliarla con il platonismo, collocando il mondo delle idee all’interno della mente divina, cioè facendo delle idee i pensieri stessi di Dio, ai quali questi dà esistenza sensibile mediante la creazione delle cose ad essi corrispondenti. Il mondo sensibile veniva, così, ad essere, come nel platonismo, un’immagine del mondo intelligibile, costituito dalla stessa Sapienza di Dio, senza intaccare minimamente l’onnipotenza e l’assolutezza di quest’ultimo, che rimaneva creatore del mondo dal nulla. Durante la vita di Filone nacque in Palestina il cristianesimo, che venne immediatamente diffuso nel mondo greco e romano ad opera dei primi cristiani, soprattutto dell’ apostolo Paolo. Con il cristianesimo entravano nella cultura, dopo l’idea di creazione, alcune altre nuove idee, consegnate per iscritto a quello che viene chiamato il Nuovo Testamento (Vangeli e Lettere degli apostoli). Ma di ciò si parlerà più ampiamente in seguito. Allorquando i principi della nuova religione si incontrarono, ancora una volta in Alessandria, con la filosofia greca e con la sintesi tra questa e il giudaismo già compiuta da Filone, ne nacque una filosofia in gran parte nuova professata dai filosofi sia cristiani, come Clemente ed Origene, sia pagani come Plotino, la quale avrebbe improntato profondamente tutta la cultura dei secoli successivi 12 In maniera del tutto indipendente, cioè non influenzata dalle nuove religioni, continuò, invece, a svilupparsi la scienza propriamente detta, la quale ebbe i suoi massimi protagonisti nell'astronomo TOLOMEO e nel medico GALENO vissuti entrambi nel II secolo d. C. La grandezza di Tolomeo consistette nel portare alla più alta perfezione il sistema geocentrico di spiegazione del moto dei pianeti, riprendendo e sviluppando le idee formulate al riguardo da Platone, Eudosso, Aristotele ed Ipparco. Non meno importante fu per la medicina Galeno, il quale elaborò una completa fisiologia valorizzando le funzioni dei principali organi, fegato, cuore e cervello, e diede inizio all’anatomia basata sulla dissezione, se non ancora del corpo umano, almeno di vari animali. Anche l’influenza di Galeno si prolungò su tutta la scienza medica antica e medioevale, fino alla scoperta moderna della circolazione del sangue compiuta da Harwey nel 1628. Il più geniale filosofo pagano che seppe far tesoro delle nuove idee introdotte nella filosofia greca dal giudaismo e dal cristianesimo fu PLOTINO Questi è considerato il fondatore del neoplatonismo, perché egli stesso si dichiarava platonico, ma rinnovò profondamente il platonismo con l’immissione delle nuove idee religiose. Come la Bibbia, Plotino pone, infatti, un unico principio da cui tutto deriva, l’Uno, denominato platonicamente il Bene; ma, a differenza della Bibbia, concepisce la derivazione del mondo da esso non come creazione libera dal nulla, bensì come emanazione necessaria dalla stessa sostanza divina. Come il cristianesimo, Plotino ammette altre due ipostasi, cioè persone divine, accanto all’ Uno- Bene, vale a dire l’Intelletto e l’Anima del mondo; ma a differenza del cristianesimo le concepisce come inferiori e non uguali 13 rispetto all’Uno, ossia procedenti anch’esse per emanazione come tutte le altre realtà. Come il cristianesimo, infine, Plotino ammette un ritorno dell’uomo, anzi dell’anima, all’Uno, cioè una specie di salvezza o di vita eterna, conquistata però in virtù delle proprie capacità mentali, cioè in virtù della filosofia, e non in virtù di una partecipazione gratuita e misteriosa alla redenzione, cioè la Grazia. Del platonismo, infine, Plotino mantiene la concezione dell’Intelletto divino come luogo delle eterne idee, di cui le realtà sensibili sono immagini, il dualismo nell’uomo di anima e corpo e la svalutazione radicale della materia. L’ultimo grande pensatore antico vissuto alle soglie del medioevo, cioè dopo la caduta dell’Impero romano, è SEVERINO BOEZIO di fede cristiana ma di formazione filosofica greca, e più precisamente neoplatonica. In lui era ancora talmente forte l’influenza della filosofia greca che, quando si trovò ad essere condannato a morte dal re ostrogoto Teodorico, immaginò di trovare consolazione in un dialogo con la personificazione della filosofia, anche se quest’ultima gli rammentava, sia pure con linguaggio neoplatonizzante, le verità fondamentali della fede cristiana. 6- La filosofia del cristianesimo Il prevalere del cristianesimo nel mondo occidentale determina un nuovo indirizzo della filosofia. Ogni religione implica un insieme di credenze alle quali l’uomo non giunge con la ricerca, ma che accetta in virtù di una rivelazione, cioè di una testimonianza superiore. Ogni rivelazione è poi garantita dalla tradizione della comunità che si è formata e organizzata in virtù di essa, sicché rivelazione e tradizione costituiscono i tratti salienti della religione, per la quale l’uomo accetta la verità che gli viene rivelata dall’alto e che gli è garantita come tale dalla comunità cui appartiene. Tuttavia, dalla stessa religione nasce l’esigenza della ricerca filosofica, giacché quando l’uomo vuole intendere la verità rivelata per farla sua veramente e trasfonderla nella sua vita, deve ricorrere alla filosofia. 14 In questo caso avrà il compito non di cercare la verità, che è già data dalla Rivelazione, ma di comprenderla, cioè di avvicinare l’uomo, per quanto è possibile, alla verità stessa. In tal modo, dalla religione cristiana è nata la filosofia cristiana, che si è assunto il compito di portare l’uomo alla comprensione della verità rivelata da Cristo. In questo, essa si è servita ampiamente delle dottrine filosofiche dei Greci, soprattutto di quelle dell’ultimo periodo, che già di per sé si prestavano a questo compito per la loro intonazione religiosa. La predicazione di Gesù è esposta nei tre Vangeli, detti Sinottici perché si corrispondono nelle loro parti, di Matteo, Marco e Luca. Essa consiste nell’annuncio, diretto a tutti gli uomini di buona volontà, a qualsiasi razza o ceto sociale appartengano, del regno di Dio, cioè di un rinnovamento che dovrà portare nel mondo la giustizia e l’amore. Si tratta di un rinnovamento intimo e spirituale, che dovrà verificarsi gradualmente nella coscienza degli uomini, a misura che gli uomini romperanno i loro legami terreni, per crearne degli altri fondati sull’amore. Alla legge del Vecchio Testamento dell’ “occhio per occhio, dente per dente”, Gesù contrappone la nuova legge dell’amore: “Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli”. Per questa legge, Dio, più che il Signore, è il Padre degli uomini e l’amore diventa il vincolo fondamentale della comunità cristiana. Nel quarto Vangelo, quello di Giovanni, la persona stessa del Cristo viene interpretata mediante quel concetto del Logos che già era apparso nel libro della Sapienza dell’Antico Testamento e nella filosofia greco - giudaica. Al Logos, cioè a Gesù, è attribuita la funzione di mediatore fra Dio e il mondo e di salvatore di tutti gli uomini. Gesù ha illuminato gli uomini nel senso che ha mostrato loro la via della vita vera, che è la vita secondo lo spirito. Il cristianesimo è una rinascita dell’uomo che muore alla vita della carne e rivive nello spirito, cioè nella verità, nella giustizia e nell’amore. Le Lettere di S. Paolo, scritte occasionalmente a varie comunità cristiane, contengono l’espressione più chiara dei capisaldi concettuali della nuova religione. Essi possono essere ricapitolati nel modo seguente: 15 1- Dio si può conoscere attraverso le sue opere, cioè attraverso il mondo da lui creato, quindi l’ignoranza o la misconoscenza di Dio è una colpa; 2- Il peccato originale è entrato nel mondo con Adamo ed è stato trasmesso a tutti gli uomini; il riscatto di esso avviene solo attraverso la fede in Cristo; 3- Nella fede si manifesta la grazia, cioè l’azione salvatrice di Dio: chi ha fede si salverà perché la fede è il segno della grazia concessa da Dio all’uomo; 4- Il regno di Dio annunziato da Cristo si identifica con la vita e con lo spirito della comunità dei fedeli, cioè con la Chiesa. La Chiesa è il corpo di Cristo, di cui i cristiani sono le membra diverse ma armonizzate e concordi. Ciò che stabilisce questa concordia è l’amore, la charitas, che è la condizione di ogni vita cristiana, e mediante l’amore si conciliano i compiti diversi ai quali ogni cristiano è chiamato dalla sua speciale vocazione. Le Lettere paoline testimoniano che il cristianesimo è diventato una comunità storica la cui vita consiste nel cercare di comprendere l’insegnamento e la persona di Cristo e di realizzarne il significato. 7- Lo Gnosticismo I primi secoli di vita della Chiesa trascorsero sotto l’insegna della persecuzione. Nel periodo che va dalla prima persecuzione del 64 all’editto di Costantino del 313, la Chiesa dovette fronteggiare l’ostilità delle autorità ufficiali che spesso agivano contro le stesse disposizioni imperiali. Contemporaneamente, sul terreno dottrinale, essa dovette fronteggiare gli attacchi dello gnosticismo, del manicheismo e degli indirizzi ereticali connessi alle grandi controversie trinitarie e cristologiche dei secoli IV e V. Lo gnosticismo costituì per tre secoli, dagli inizi del II alla fine del IV secolo, l’avversario più pericoloso del nascente cristianesimo e la preoccupazione dominante della Chiesa. Il neoplatonismo aveva tentato di eliminare dalla sua filosofia il cristianesimo, neutralizzando il concetto di creazione con quello di emanazione, in modo da accettare la nuova concezione che ormai si imponeva ovunque e aveva voluto far derivare l’universo intero da un unico principio, Dio o Uno, facendo, però, contemporaneamente, in modo da salvare l’eternità della materia elevata a momento della stessa vita divina. 16 Per questo motivo, esso restò del tutto fuori dalla concezione cristiana, cioè rimase come una forma, anche se l’ultima, di paganesimo. Lo gnosticismo, invece, accettò del cristianesimo l’idea della mediazione divina ad opera di Gesù, rivolta a riscattare l’uomo dalla schiavitù della materia, e intese questa mediazione come un esempio dato all’uomo sul modo in cui egli possa effettuare la sua salvezza con le sue forze naturali, negando, di conseguenza, l’opera redentiva di Cristo, ma intese sempre la materia, in quanto principio del male, come eterna o come frutto di un errore della divinità. A questo punto è evidente il contributo logico delle due tesi: se la natura è eterna, il male è ineliminabile, appartiene alla stessa struttura storica dell’universo e quindi non c’è alcuna speranza di liberazione da essa. Di conseguenza, ogni opera di mediazione è vana. Gli gnostici tentarono una conciliazione in duplice modo: o dividendo le divinità in due schiere, cioè la divinità del bene e quella del male, in lotta tra loro; oppure disponendo le divinità in una scala di imperfezione crescente e attribuendo ai gradi bassi l’origine del male e dell’imperfezione. Il primo rappresentante dello gnosticismo fu SIMONE, quel Simon Mago menzionato negli Atti degli Apostoli 8- Il manicheismo Il manicheismo presenta un dramma cosmogonico molto simile a quello gnostico: la realtà fa capo a due principi, la Luce o Dio o Monade, e le Tenebre o Materia o Diade. Luce e Tenebre corrispondono a due regioni contigue dell’universo, eterne e opposte, la Luce a nord, verso l’alto, le Tenebre a sud, verso il basso. Nel primo regno abita il “re del paradiso della luce” o padre della grandezza, della bontà e della fede, a nome Ormutz, circondato da cinque ipostasi; nel secondo abita il principe delle tenebre, Ahriman, circondato da numerosi Arconti, e il suo dominio è la sede della confusione e del disordine. La materia per Mani, infatti, significa non il principio inerte come per Aristotele, ma il movimento disordinato come per gli atomisti. Il dramma cosmico ha inizio allorquando le potenze delle tenebre, spinte dalla concupiscenza, decidono di invadere il regno della luce. 17 Ormutz decide di combattere personalmente poiché le sue ipostasi, create per la pace, non sono adatte alla guerra ed “evoca”, cioè crea per emanazione, da sé la madre della vita e suo figlio, l’uomo primitivo, il quale si lancia nella battaglia armato dei cinque elementi luminosi: etere, luce, fuoco, aria o vento, e acqua, che sono suoi figli, ma è sconfitto e imprigionato nella materia. Ormutz “evoca”, allora, lo spirito vivente o Demiurgo, che ha anche lui cinque figli. L’uomo primitivo viene liberato anche con l’aiuto della madre della vita, mentre gli elementi luminosi restano prigionieri. Lo spirito vivente ritorna una seconda volta in guerra e recupera una parte di luce con la quale forma il sole, la luna e gli astri; successivamente, vengono uccisi gli Arconti e con le loro spoglie, mescolanza di luce e tenebre, sono fatti dieci cieli e otto terre, sovrapposte come dischi messi l’uno sull’altro, ai cui movimenti sono preposti come regolatori con funzioni diverse, i cinque figli dello Spirito vivente. Nel frattempo, i messaggeri del dio delle tenebre, hanno formato dalla materia residua, mista con le altre parti della luna rubata, Adamo, Eva e i loro figli. Ormutz manda il terzo messaggero1, che coincide con il vero Gesù, il quale non è quello dei Vangeli, perché questo è un falso messaggero, una creazione ingannatrice di Satana. Il vero Gesù ha un corpo apparente e attraverso varie peripezie cerca di liberare gli ultimi elementi luminosi prigionieri. Adamo, illuminato da Gesù, maledice il suo creatore Ahriman, che coincide con il Dio del Vecchio Testamento ripudiato dai manichei. Gesù, però, fallisce nella sua missione e si ha la quarta evocazione con Mani, il quarto messaggero, il quale porta a compimento, attraverso la sua rivelazione, l’organizzazione della Chiesa. Si noti, quindi, che si hanno in tutto quattro evocazioni che con Ormutz, o padre della grandezza costituiscono cinque ipostasi. A questo punto uno spaventoso incendio finale, che durerà 1468 anni, ricaccerà nell’abisso la massa materiale, ritornata pura materia, massa amorfa. Successivamente, poiché Ahriman tornerà ancora alla carica in eterno, la grande tragedia si rinnoverà inutilmente. 1 Il primo è l’uomo primitivo, il secondo lo spirito vivente 18 A tutto ciò Mani faceva seguire un’etica molto rigorosa: il manicheo porrà tre sigilli rispettivamente sulla bocca, sulla mano e sull’addome, cioè non bestemmierà né pronunzierà falsi giuramenti, non mangerà cibi da animali morti e non genererà figli. Anche la proprietà privata è sottoposta a condizioni. La società manichea, infatti, si divideva in due grandi classi: gli eletti e gli uditori; questi avevano l’obbligo di mantenere quelli, che non possedevano nulla. Tra gli uditori esisteva una gerarchia simile a quella cristiana; i puri, eletti, di numero molto scarso, saranno riassorbiti nella luce celeste; gli impuri dovranno purificarsi attraverso successive incarnazioni; i non manichei, cioè i peccatori, sono destinati all’eterna perdizione. Nonostante le puerilità filosofiche non lievi implicite nella sua concezione, il manicheismo si diffuse in tutto il mondo di allora e durò per secoli e addirittura le sue tracce si sono trovate fino ai secoli XIV e XV. 9- Le controversie trinitarie e cristologiche Nei primi tre secoli della sua vita la Chiesa aveva dovuto lottare aspramente su più fronti: la lunga e feroce persecuzione dell’Impero, l’implacabile ostilità del pensiero pagano, che innalzava le sue ultime e più formidabili opere speculative di difesa e di offesa, e le eresie provenienti inesorabilmente dal di dentro. Il primo nemico sul quale essa poté riportare vittoria fu l’Impero; la persecuzione, infatti, genera ribellione e non persuasione, e attizza il fuoco che vuole spegnere, ottiene, cioè, l’effetto opposto. Con l’Editto di tolleranza, emanato a Milano nel 313, il cristianesimo veniva ammesso tra i culti ufficialmente consentiti dall’Impero; con le successive misure legislative degli imperatori Costanzo, Graziano e Teodosio I, diventava l’unica religione riconosciuta. Non sappiamo quale mutamento sia allora avvenuto nella coscienza, specie di chi deteneva il potere, tale da portare da aspre persecuzioni al riconoscimento ufficiale. L’ipotesi più verosimile è che il cristianesimo avesse già conquistato la maggioranza e che i seguaci del paganesimo fossero ridotti ad una minoranza. 19 Sta di fatto che i tentativi, compiuti nel 324 e nel 362 - 363 da parte di Licinio e di Giuliano l’Apostata, di restaurare il paganesimo ebbero una durata breve ed un successo effimero. Un nemico, però, non disarmò, e fu precisamente l’eresia. Man mano che si procede dalla metà del II secolo alla fine del III, i movimenti ereticali crescono di numero. Con gli inizi del IV secolo la crisi si accentuò, in quanto la controversia veniva ad accendersi su due dogmi fondamentali del cristianesimo: il dogma trinitario, o rapporto della Sostanza e delle Persone con l’unico Dio, e il dogma cristologico, o rapporto della Natura e Persona divina con la natura e persona umana in Gesù, in quanto vero Dio e vero uomo. Una delle eresie più famose è l’ ARIANESIMO che comprende i seguenti punti: - Dio è unico e ingenerato, quindi non può generare alcunché dalla sua sostanza, perché in questo caso sarebbe mutevole; - ne segue che tutto ciò che esiste al di fuori dell’unico Dio è creato dal nulla ad opera della volontà di Dio; - di conseguenza, il Verbo è stato creato dal nulla dal Padre; fu creato prima del tempo, che è concreato con le cose, ma non è eterno perché sarebbe uguale a Dio; quindi, vi fu un tempo in cui il Verbo non era e siccome fu creato per un atto della volontà divina, questa è anteriore al Verbo; - ne segue che, essendo fatto il Verbo ed avendo avuto il suo essere fatto un principio, se si dice che è figlio di Dio, ciò non può intendersi se non come una filiazione adottiva; - nell’uomo Gesù il Verbo si sostituì alla ragione che è la parte superiore dell’anima; soltanto in questo senso si può dire che Dio si è fatto uomo; - Gesù è fallibile e si salvò dal peccato per la sua rettitudine morale, riuscendo ad essere la più perfetta delle creature, ma sempre inferiore a Dio. Una eresia trinitaria è il TRITEISMO che nega o compromette la reale unità della natura, numericamente identica e comune nelle tre persone divine, esagerando la reale distinzione di queste fino a negarne la consustanzialità e affermarne la separazione; quindi, moltiplicando in esse la natura divina e facendone tre dei. 20 10- Gli apologisti: Giustino e Tertulliano Alle persecuzioni dell’Impero romano, alle critiche dei difensori del paganesimo e alle dottrine eretiche che minacciavano la vera fede, la Chiesa contrappose le opere dei suoi difensori: gli APOLOGISTI Nel linguaggio tecnico - giuridico antico, l’apologia era il discorso in discolpa di un accusato che si rivolgeva ai giudici per dimostrare l’inconsistenza delle accuse di cui questi era stato oggetto; di conseguenza, si chiama apologistica l’arte della giustificazione e della difesa. Lo scopo principale al quale erano rivolte le apologie del cristianesimo era anzitutto quello di discolpare i cristiani dalle accuse che venivano loro mosse di essere nemici dell’ordine politico romano e dell’ordine morale, poi di ottenere dagli imperatori la revoca degli editti di persecuzione e il riconoscimento legale del nuovo culto. Le due figure di apologisti più significative sono San Giustino e Tertulliano. Le dottrine filosofiche di GIUSTINO che meritano rilievo sono tre: a - la dottrina del Verbo; b- la dottrina del Logos seminale e i rapporti tra cristianesimo e filosofia greca; c - la dottrina dell’anima. a- Dio è un essere unico, non nominabile, privo di forma, di grandezza, di colore e di ogni altro attributo, posto al di là dell’essere, che nessuno ha mai visto. Questo Dio nascosto è il Padre; Egli ha creato dal nulla il mondo per mezzo del Verbo, che è un altro Dio diverso dal Padre per quanto riguarda il numero ma non per quanto riguarda la nozione. Il Verbo è figlio primogenito di Dio creato prima di qualsiasi altra creatura senza implicare una deficienza da parte del Padre, simile ad un fuoco che accende un altro fuoco senza diminuire. Egli è subordinato al Padre nel senso che è collocato al secondo posto. Al terzo posto è collocato lo Spirito Santo, del quale Giustino parla in maniera molto vaga. b- Il Verbo svolge ancora un’altra funzione molto importante: l’uomo è fornito di una ragione o logos, che è diffusa ovunque; egli è un riflesso, una particella 21 perfetta del logos, cioè della seconda persona della Trinità e permette ad ogni uomo in qualsiasi epoca storica sia vissuto o viva di attingere da sé alcune verità essenziali, come l’esistenza di Dio e la natura o essenza del bene. Di conseguenza, essendo la volontà dell’uomo libera, coloro i quali durante la loro vita si sono comportati secondo i principi del bene, sono stati dei cristiani prima di Cristo e, quindi, si sono salvati. Per questo possiamo dare il nome di cristiani a Socrate, Eraclito e Platone. Ne segue che molte dottrine filosofiche formulate da questi filosofi sono state rivelate dal Verbo che le ha rivelate a Mosè. Vengono, così, spiegate le coincidenze tra il Vecchio Testamento e le dottrine di alcuni filosofi greci, poiché unica era la fonte a cui attingevano, cioè il maestro interiore. Tutti i filosofi pagani che hanno parlato ispirati dal Verbo sono stati, senza saperlo, discepoli di Cristo. Così, fino alla metà del II secolo d.C., il pensiero cristiano si riallacciava all’intero corso della filosofia greca e pretendeva di completarla e integrarla rettificandone gli aspetti parziali o erronei. In altri termini, il cristianesimo per Giustino si identificava con la filosofia perfetta. c- Dall’incarnazione del Verbo scaturisce un altro importante effetto: l’uomo consta di tre elementi: il corpo, l’anima e lo spirito o pneuma. Lo spirito è il principio vitale dell’anima; esso si esaurisce come ogni entità finita, causando la morte dell’anima. Onde evitare questa morte, occorre fare appello alla grazia, che emana dallo Spirito Santo attraverso il Verbo incarnato. Questo è l’ultimo e più importante effetto dell’incarnazione. Con la seconda venuta di Gesù la morte sarà definitivamente scacciata dall’universo. Come si vede, Giustino è penetrato con molta prudenza nell’essenza filosofica del cristianesimo; l’immortalità è il premio della fede in Gesù, quell’immortalità che il pensiero pagano non riusciva a dare. Ma il più originale e famoso di tutti gli apologisti è QUINTO SETTIMIO FIORENZO TERTULLIANO le cui dottrine filosofiche possono essere così schematizzate: a- anzitutto un materialismo di evidente derivazione stoica per cui tutto è corpo, compreso Dio, il quale è un corpo sottilissimo, il più tenue di tutti, il 22 più brillante di tutti, al punto tale da essere invisibile; comunque, Dio è Uno ed è dotato di ragione, la quale coincide con il bene. Anche l’anima è corporea, aerea, ha il colore dell’aria luminosa ed occupa le tre dimensioni2; per questo può agire sul corpo e si nutre dello stesso nutrimento del corpo. Essa è dotata di organi propri, ha i suoi occhi e le sue orecchie, e il corpo, rispetto ad essa, è come un involucro più spesso che la circonda e la ricopre. Essa, ovviamente, si trasmette dai genitori ai figli mediante il seme, nello stesso modo in cui avviene la trasmissione del carattere sia nel bene che nel male e la trasmissione del peccato originale a partire da Adamo. Naturalmente, la corporeità non impedisce all’anima di essere semplice e incorruttibile. Date queste premesse, non c’è distinzione tra il sentire e l’intendere: il senso è l’intelletto delle cose sentite, l’intelletto è il senso di quello che si intende. b- Dio, che inizialmente era solo, emana da sé una sostanza, il Verbo, così come il sole emana da sé un raggio. Il Padre non è diminuito da ciò, cioè conserva la pienezza della divinità, ma il Figlio non è tutto il Padre bensì ne è una derivazione ed una parte, e quindi è inferiore al Padre. Mediante il Verbo, Dio crea, ordina e regge l’universo penetrando in tutte le sue parti; lo Spirito Santo si aggiunge al Padre e al Verbo e tutti e tre fanno Uno. Ovviamente, lo Spirito è a sua volta, inferiore al Padre e al Verbo. Con tutto ciò Tertulliano, che chiama le tre ipostasi con il termine personae, afferma l’unità della Sostanza divina. A Tertulliano spetta, quindi, la prima formulazione terminologica della tesi trinitaria divenuta patrimonio della teologia cristiana: Tres personae una substantia. Si noti anche che Tertulliano afferma una concezione economica della Trinità, cioè una divisione dei compiti assegnati alle Persone: il Padre crea, il Figlio ordina e redime, lo Spirito Santo divinizza le creature. 2 altezza, lunghezza, profondità 23 c- Se la rivelazione è proprietà della Chiesa, al fedele non resta che accettarla come una regola assoluta, in quanto emanante dalla parola di Gesù, senza diritto alcuno né a discussioni né a scelte. Si è cristiani esclusivamente per la fede in Gesù che parla. Date queste premesse, la filosofia non serve a nulla ed i filosofi sono i patriarchi dell’eresia, compreso Platone e lo stesso Socrate. Davanti alla certezza della fede nulla conta l’opposizione della ragione; essa sta in un altro piano rispetto alla fede. Negli scritti di Tertulliano non si trova l’aforisma, che gli si attribuisce credo quia absurdum, nel senso che l’assurdità di una tesi sarebbe motivo determinante della sua accettazione per fede. Tertulliano vuole semplicemente dire che a chi crede nulla importa della razionalità o meno dell’oggetto della sua fede. 11-Divisione della filosofia medioevale e caratteri generali La filosofia del Medioevo si divide in due grandi periodi: la filosofia della Patristica, che va dalla rivelazione evangelica alla prima metà del secolo XI, quando la pubblicazione del Monologion di Anselmo d’Aosta segnerà, nel 1076, l’inizio del periodo successivo; e la filosofia della Scolastica, la quale si chiude con Guglielmo d’Ockham, intorno al 1350. La distinzione di questi due periodi ha un fondamento speculativo. Infatti, la filosofia della Patristica pone il soprannaturale o la grazia a base della natura e la fede a base della ragione, e ciò per ovviare alle conclusioni negative con le quali si era chiusa la filosofia greca, cioè lo scetticismo gnoseologico e lo scetticismo logico, partendo dalla motivazione fondamentale che ogni ente creato è mutevole e, quindi, manca di universalità e necessità. Agostino di Tagaste porrà a base del suo sistema la teoria secondo la quale le leggi universali e necessarie del pensiero, per mezzo delle quali si costruisce la scienza, sono stampate nell’anima umana dalla luce divina o dalla grazia, e poiché condizione preliminare all’ingresso della grazia nell’anima è la fede, questa condiziona l’attività della ragione. 24 Si sta parlando del rapporto tra fede e ragione, che costituisce il tema fondamentale di tutta la filosofia medioevale, e si dirà che bisogna seguire nella soluzione dei problemi o i dettami della fede o i dettami della ragione. Alla Patristica, in cui si ha la cristianizzazione di Platone mediante Agostino, segue la Scolastica, il cui capostipite è Tommaso d’Aquino, che cristianizza Aristotele. Il tratto d’unione tra Patristica e Scolastica è Anselmo d’Aosta, per cui in seno alla filosofia del Medioevo abbiamo una distinzione sia cronologica che speculativa. La dottrina agostiniana reggerà fino a quando non insorgerà la necessità di sistemare non la ragione sulla base della fede, ma la fede sulla base della ragione. Il primo esplicito affiorare dell’esigenza di una dimostrazione razionale della fede si avrà, come detto, nel Monologion di Anselmo, che costituisce l’atto di nascita della Scolastica, la quale sarà, quindi, caratterizzata dall’orientamento spirituale opposto a quello della Patristica: mentre questa era dominata dalla formula agostiniana credo per intendere, la Scolastica sarà dominata dalla formula ragiono per credere. La definizione della Patristica è, dunque, la filosofia che pone il soprannaturale o fede alla base della natura o ragione; la definizione della Scolastica la filosofia del soprannaturale o fede sistemata sulle basi della ragione naturale. La filosofia medioevale va anche considerata da un altro angolo visuale, che permette una ulteriore suddivisione. Infatti, i pensatori del Medioevo non solo non ignoravano la filosofia greca, ma cercavano di adattare ai postulati del cristianesimo le più grandi sistemazioni dottrinali a cui essa era pervenuta, rivivendole in sistemi in gran parte originali. Agostino, infatti, cristianizzò il platonismo, Origene e Giovanni Scoto Eriugena il neoplatonismo, Tommaso d’Aquino l’aristotelismo.. In seno alla Patristica occorre distinguere tre fasi: - la fase origeniana o prima fase del neoplatonismo cristiano; - la fase agostiniana o prima fase del platonismo cristiano; - la fase eriugeniana o seconda fase del neoplatonismo cristiano. 25 Passando alla Scolastica, dobbiamo dire che il neoplatonismo cristiano continuerà dopo Giovanni Scoto Eriugena in piena Scolastica nell’aristotelismo neoplatonizzante di Alberto Magno e della sua scuola. Il platonismo cristiano di Agostino, divenuto filosofia ufficiale della Scuola francescana, continuerà anch’esso in piena Scolastica, trovando una espressione alle soglie del secolo XII nella filosofia di Anselmo d’Aosta, contrasterà l’aristotelismo tomista per tutto il secolo XIII soprattutto mediante la sistemazione speculativa di Bonaventura da Bagnoregio, e troverà la sua più originale elaborazione nella filosofia di Giovanni Duns Scoto, alla soglia del secolo XIV. L’aristotelismo cristiano troverà la sua espressione nella grande costruzione sistematica di Tommaso d’Aquino, il quale tenterà l’adattamento della filosofia di Aristotele alla visione cristiana e a questo scopo ne trasformerà e svilupperà molte tesi centrali. Dopo un cinquantennio di lotte il tomismo diventerà filosofia ufficiale della Scuola domenicana e della stessa Chiesa cattolica. Questo lo schema storico della filosofia del Medioevo: 1- Filosofia della Patristica: dalla rivelazione evangelica al 1076, data della redazione del Monologion di Anselmo d’Aosta, caratterizzata dalla formula: il soprannaturale o fede alla base della natura o ragione. Comprende tre momenti: a- prima fase del neoplatonismo cristiano o fase origeniana, rappresentata da Origene; b- prima fase del platonismo cristiano o fase agostiniana, rappresentata da Agostino di Tagaste; c- seconda fase del neoplatonismo cristiano o fase eriugeniana, rappresentata da Giovanni Scoto Eriugena, 2- Filosofia della Scolastica: la natura o ragione a base del soprannaturale o fede. Comprende tre momenti: a- seconda fase del platonismo cristiano, che va da Anselmo d’Aosta a Bonaventura da Bagnoregio e Giovanni Duns Scoto; b- terza fase del neoplatonismo cristiano rappresentato da Alberto Magno; c- fase dell’aristotelismo cristiano, rappresentato da Tommaso d’Aquino. 12- Prima fase del neoplatonismo cristiano: ORIGENE 26 Il primo grande sistema filosofico del quale si sia tentato l’ adattamento alla visione cristiana del mondo fu il neoplatonismo, adattamento che risale ai primi decenni del III secolo per opera di Origene, sviluppando l’antichissimo motivo dell’eterno ritorno. La filosofia neoplatonica aveva introdotto il concetto di emanazione, chiamandola a svolgere il compito di collegare necessariamente la materia all’evoluzione interiore della vita divina: la materia emana necessariamente dall’Uno e nell’Uno necessariamente ritorna. La vita del singolo individuo diventava così un palpito necessario della stessa vita divina; il male, le imperfezioni, i dolori, le sofferenze e la morte si rivelavano come necessari e venivano mascherati come momenti indispensabili alla perfezione del tutto. Il processo di caduta e degradazione dell’universo diventava, quindi, altrettanto necessario del momento di ascesa in una vicenda incomprensibile alla ragione. Ci si chiedeva il perché della caduta e il perché dello sforzo della ripresa. La felicità che il cristianesimo prometteva ai fedeli era una deificazione, cioè un affrancamento definitivo dal dolore e dalla morte, realizzato per l’intervento di Dio. Ciò era possibile a patto di rinunziare all’idea di una felicità su questa terra. La deificazione si poteva ottenere soltanto in un’altra vita in cui le gioie di questa fossero spiritualizzate, volute per un altro scopo che non fosse la soddisfazione della nostra volontà e coincidesse, invece, con la volontà divina e con i fini che essa si propone di raggiungere. Qui si ingaggiò il duello fra paganesimo e cristianesimo: quello prometteva una felicità di breve durata e conclusa dal nulla della morte, ma l’abbelliva con la prospettiva di una serie infinita di vite uguali garantita dai postulati dell’eternità della materia e dal determinismo degli eventi; il cristianesimo prometteva una felicità eterna non più adombrata dal dolore e dalla morte ma come una speranza, qualcosa da ammettersi con un atto di fede nelle parole e nelle promesse di Gesù, poggiante soprattutto sul disgusto per questa vita e sul superamento del dolore e della morte. Ora, la concezione cristiana ha un requisito essenziale dal quale non si può prescindere; è una visione nettamente antipanteistica, intendendo per panteismo la dottrina che identifica la sostanza degli enti finiti con la sostanza di Dio. 27 Bisogna, infatti, cancellare il male e l’imperfezione in tutte le sue forme dalla natura delle cose; se questa natura delle cose facesse tutt’uno con la sostanza divina, il male e l’imperfezione le apparterrebbero in eterno e non potrebbero in alcun modo togliersi da essa. La concezione neoplatonica presentava un vantaggio che risiedeva nel concetto di emanazione. La deificazione dell’uomo, che il cristianesimo prometteva in un universo ordinato secondo la volontà di Dio, poteva intendersi come un comunicarsi della stessa sostanza divina alle creature. Da qui la possibilità di adattarla al cristianesimo. Ciò, però, doveva essere fatto senza cadere nel panteismo. Sarà questo il problema che affronterà Origene, il quale cercherà di risolverlo ricorrendo al concetto di subordinazione delle persone divine, e poiché questa tesi si mostrerà lesiva della stessa essenza del cristianesimo, come quella che distrugge la divinità di Gesù (arianesimo), il problema passerà ai successori di Origene, i quali cercheranno di risolverlo o nel senso del triteismo, cioè facendo delle persone divine tre dei unificati dalla comune divinità posseduta in grado altissimo (correnti triteistiche), oppure identificando l’essenza divina soltanto con la parte immutabile degli enti finiti e non con la mutevole (Giovanni Scoto Eriugena), o, più semplicemente, in una concezione economica della Trinità, cioè collegando l’azione delle tre persone divine a tre successive epoche della storia dell’uomo (Gioacchino da Fiore), oppure ricorrendo alle dottrine della creazione per intermediari (Alberto Magno) e della conoscenza mediante le intelligenze separate (Agostinismo, Averroismo latino). Tutti questi tentativi naufragheranno contro lo scoglio del panteismo e la corrente si estinguerà intorno al secolo XIV, salvo a continuare in una forma apertamente panteistica nelle correnti mistiche eterodosse, nelle correnti neoplatoniche rinascimentali (Cusano, Bruno, ecc.), nelle teorie del protestantesimo (Lutero e Calvino), nelle concezioni panteistiche della filosofia moderna (Spinoza), nel panteismo dinamico dell’idealismo romantico (Fichte, Schelling, Hegel), nel quale rivive in forma dialetticamente più raffinata la dottrina di Plotino. Come già detto, ORIGENE è il maggiore rappresentante di questa corrente. 28 Egli nei suoi commenti applica una esegesi simbolica, distinguendo nella Sacra Scrittura tre livelli di significato, corrispondenti alle tre parti della natura umana (fisica, psichica, spirituale): vi sono un senso letterale, che si limita a considerare i fatti storici narrati, un senso morale, che individua nella storia indicazioni etiche e interpella, perciò, la volontà del lettore, ed un senso mistico, attinente la profondità del mistero di fede celato nella littera del testo. Nella sua concezione trinitaria, la distinzione fra le persone prevale rispetto all’unità della sostanza divina; il subordinazionismo che la impronta si manifesta nel rapporto gerarchico intercorrente fra le tre Persone. Solo il Padre, la cui azione si estende a tutta la realtà, è Dio in senso stretto, in quanto è l’unico ingenerato; il Figlio, il Verbo, che funge da intermediario fra Dio e la molteplicità degli esseri spirituali creati, è generato ed è, perciò, un Dio secondario, la cui azione è limitata agli esseri razionali; lo Spirito Santo deriva dal Figlio i suoi attributi distintivi ed estende la propria azione solo ai santi. Origene ritiene che tutte le anime provengano da un mondo di esseri spirituali preesistente per volontà di Dio. Tutti gli appartenenti a questo mondo fecero uso del libero arbitrio per allontanarsi da Dio, in misura maggiore (i demoni), in misura minore (gli angeli), o in misura intermedia (le anime umane, la cui condanna fu l’unione con i corpi). Soltanto l’anima di quell’uomo che sarebbe divenuto Gesù rimase devota e unita al Verbo fino ad identificarsi pienamente con lui. La redenzione dal peccato è offerta dal Verbo (che è il “principio dominante in Cristo incarnato) a tutte le creature. La soteriologia e l’escatologia origeniane si compendiano nella dottrina dell’ apocatastasi, secondo la quale alla conclusione della vicenda cosmica l’inferno e le pene previste per i dannati avranno termine, e ogni cosa sarà restituita al suo stato originario di vicinanza con Dio. 13- Prima fase del platonismo cristiano: AGOSTINO DI TAGASTE Il secondo grande sistema filosofico greco di cui si sia tentato l’adattamento alla visione cristiana della vita fu il platonismo. Questo adattamento fu opera di AGOSTINO DI TAGASTE uno dei filosofi più profondi che la storia dell’umanità ricordi. 29 Il suo sistema speculativo ha goduto credito per tutto il Medioevo fino agli inizi del Rinascimento, dando origine ad una corrente che da lui sarà chiamata agostinismo. Questa corrente rappresenterà la filosofia ufficiale della Chiesa fino a tutto il XIII secolo e si identificherà con la filosofia della Scuola francescana. Vittoriosa, in un primo momento, dell’altra corrente speculativa rivale, la corrente tomista, che riuscì a fare condannare, ne fronteggerà l’espansione, creando con il sistema di Giovanni Duns Scoto una sintesi speculativa capace di opporre alla dottrina avversaria argomento contro argomento, critica contro critica. La filosofia del grande Dottore della Chiesa non è esposta in nessuna delle sue opere come un sistema chiuso, ma si sviluppa largamente in tutta la sfera della sua attività letteraria occasionalmente, nella trattazione di argomenti diversi, ma soprattutto teologici, dando l’impressione complessiva di una ricchissima massa di pensieri, animata da due correnti diverse, che soltanto il vigore della sua possente personalità riesce a tenere insieme. In quanto teologo, Agostino in tutte le sue indagini non perde mai di vista il concetto della Chiesa; in quanto filosofo, invece, concentra tutti i suoi pensieri intorno al principio della certezza dell’autocoscienza. Agostino è un virtuoso dell’analisi interiore; maestro della descrizione di stati d’animo, possiede una meravigliosa capacità di analizzare mediante la riflessione i processi interiori, fino a mettere a nudo i più profondi sentimenti ed impulsi.; ma, appunto per questo, l’unica fonte di tutte le concezioni con cui la sua metafisica cerca di abbracciare l’universo, è la vita interna. Coerentemente al suo personale processo di sviluppo, Agostino cerca la via della certezza attraverso il dubbio, e le stesse teorie scettiche gliene aprono il cammino. Chi dubita, non solo sa che egli vive, ma sa anche di ricordare, di conoscere, di volere: infatti, le basi del suo dubbio poggiano sulle sue precedenti rappresentazioni; la valutazione dei momenti del dubbio sviluppa il suo pensare, il suo sapere, il suo giudizio; il motivo del suo dubbio è in fondo unicamente il suo anelare alla verità. L’anima è per lui l’uno, il vivente complesso della personalità, che mediante la sua autocoscienza conquista la certezza della propria realtà, come della verità più sicura. 30 Agostino, però, procede oltre questa prima certezza: una convinzione non solo religiosa, ma frutto anche di profonda riflessione gnoseologica, gli mostra immediata e innata nella certezza dell’autocoscienza individuale l’idea di Dio. Anche a questo riguardo chi dà la norma è il dubbio che già contiene in sé, implicita, la verità piena. Come potremmo, si chiede Agostino, giungere fino a porre in dubbio le percezioni del mondo esterno se non ponessimo, accanto a queste, un criterio della verità, derivata da tutt’altra fonte, e capace di vagliare e misurare esse medesime? Chi dubita, deve pur sapere che cosa sia la verità, se, per raggiungerla, dubita. Difatti, egli continua, l’uomo, oltre la sensibilità, possiede una più alta capacità razionale, capacità di intuizione immediata di verità immateriali. Tali sono, per Agostino, non solo le leggi logiche, ma anche le norme del buono e del bello, e in generale tutte le verità che il senso è incapace di conquistare, e che sono tuttavia indispensabili per rielaborare e giudicare il dato, cioè i principi giudicativi. Siffatte norme razionali valgono come criteri di giudizio tanto nel dubbio quanto in ogni altra attività della coscienza; esse trascendono la coscienza individuale, in cui penetrano nel corso del tempo come qualcosa di superiore a lei; sono identiche in tutti gli esseri razionali pensanti e immutabili nel loro valore. Di conseguenza, la coscienza individuale nelle funzioni che a lei sono proprie, si rivela legata ad un valore universale, che si impone di per sé. Ma l’essenza della verità è che essa E’: per Agostino questo è il pensiero fondamentale. L’essenza di queste verità universali, che sono di natura immateriale, non può essere perciò concepita altrimenti che neoplatonicamente, come l’essere delle idee in Dio. Esse sono le forme immutabili e le norme di tutta la realtà; sono determinazioni reali dello spirito in Dio; sono contenute tutte in Lui con suprema unificazione; Egli è l’unità assoluta, la verità che tutto abbraccia, l’Essere supremo, il supremo bene, la perfetta bellezza. Ogni conoscenza razionale è conoscenza di Dio. Per Agostino, però, l’uomo durante la vita terrena non può giungere alla piena conoscenza di Dio; di Lui noi possiamo formarci con sicurezza soltanto 31 rappresentazioni negative; ci è del tutto impossibile una rappresentazione adeguata del modo come le differenti determinazioni della verità divina che la ragione intuisce si fondano in Lui nella sua suprema unità: la Sua essenza incorporea ed immutabile trascende di gran lunga tutte le relazioni e i collegamenti di cui è capace il pensiero umano. Delle nostre categorie, neanche quella di sostanza gli si può attribuire. Per quanto siffatte deduzioni siano una conseguenza diretta della concezione neoplatonica, tuttavia esse nella esposizione agostiniana acquistano carattere cristiano, in quanto nel concetto filosofico della divinità come somma di tutte le verità è inseparabilmente fusa la rappresentazione religiosa della divinità come personalità assoluta. Non per nulla l’intera metafisica agostiniana si fonda sull’autocoscienza della personalità finita; il che vuol dire su un fatto di esperienza interna. Questa, però, mostra nella vita interna una partecipazione fondamentale: la continuità dell’essenza spirituale, che è costituita dalla totalità del contenuto della coscienza, o delle rappresentazioni riproducibili; il suo movimento e vitalità, che consistono nei processi giudicativi, che separano o riuniscono questi elementi; la forza impulsiva di siffatto movimento, che è la volontà, la quale si volge alla conquista della verità suprema. Di conseguenza, i tre lati della realtà psichica sono: rappresentazione, giudizio e volontà: memoria, intellectus, voluntas. Nella sua concezione del mondo Agostino assegna una posizione centrale alla volontà: tutti gli stati, tutti i moti dell’anima nascondono il volere, anzi essi non sono altro che modi della volontà, voluntates; però la beatitudine non può essere data all’uomo dalla propria volontà, bensì da quella divina. Agostino sostiene che Dio rivela le sue verità soltanto a colui che per la sua buona volontà ed i suoi buoni costumi, cioè per le qualità del suo volere, se ne mostra degno; ma sostiene pure che l’assimilazione della verità divina avviene, più che per virtù d’intelligenza, per virtù di fede. La fede, però, presuppone la rappresentazione del suo oggetto e, in quella adesione libera da ogni costrizione intellettuale, contiene un atto volitivo originario del giudizio affermativo. L’importanza di questo fatto va tanto oltre che non solo nelle cose eterne e divine, ma anche nelle caduche e umane questa adesione immediata della volontà fornisce al pensiero gli elementi originari, dai quali poi, mediante la riflessione combinatrice dell’intelletto, scaturiscono i concetti. 32 Anche nelle cose più gravi la fede, determinata dalla volontà buona, deve precedere la cognizione intellettuale e concettuale. La prima cosa è, in ordine di merito, la piena intelligenza razionale; ma, in ordine di tempo, la fede nella rivelazione. Il centro di tutte queste riflessioni è costituito dal concetto della libertà del volere, considerato come una scelta, indipendente da ogni funzione intellettiva, non condizionato dalla intelligenza, anzi condizionante inconsapevolmente questa. Questa concezione della libertà del volere si intreccia nella sua opera con tutto un insieme di pensieri, che hanno il loro germe nel concetto della Chiesa e nella dottrina della sua potenza redentrice. L’idea della Chiesa cristiana, di cui Agostino è stato il più possente campione, affonda le sue radici nel pensiero di un universale bisogno di redenzione, proprio di tutta l’umanità. Questa idea, però, esclude la completa libertà del volere individuale, in quanto esige che ogni individuo sia necessariamente colpevole, e perciò bisognoso di redenzione. Incalzato da questa idea, Agostino non ha esitato a giustapporre alla teoria della libertà, così largamente diffusa in tutti i suoi scritti, un’altra teoria, che contrasta decisamente con quella. Agostino vuole risolvere il problema dell’origine del male, in opposizione al manicheismo, mediante il concetto della libertà del volere, nell’intento di sostenere sia la responsabilità umana che la giustizia divina, ma nel suo sistema teologico gli sembra sufficiente limitare la libertà del volere al primo uomo, Adamo. L’idea dell’unità sostanziale di tutta l’umanità, consona alla fede in una redenzione di tutti gli uomini, mediante un solo salvatore, esigeva la dottrina che in un uomo solo avesse peccato l’intera umanità. L’abuso della libertà, compiuto da Adamo, ha contaminato tutta l’umanità, in modo che essa non può non peccare (non posse non peccare). Questa perdita della libertà colpisce tutta la stirpe di Adamo; ogni uomo porta al mondo una natura in tal modo corrotta, che egli per virtù e libertà propria è incapace del bene. Questo peccato ereditario è il castigo del peccato originale, per cui tutti gli uomini, indistintamente, hanno bisogno della redenzione e dei mezzi di grazia della Chiesa. 33 Gli individui non hanno merito dell’applicazione di questa grazia, per cui non può essere considerata una ingiustizia il fatto che Dio la concede non a tutti, ma soltanto ad alcuni, e non si sa a quali, perché nessun uomo ha diritto per sé ad essa. D’ altra parte, però, la giustizia divina esige che per lo sbaglio di Adamo almeno alcuni uomini subiscano un eterno castigo, e siano perciò del tutto esclusi dagli effetti della grazia e della redenzione. Infine, poiché per la loro natura corrotta tutti gli uomini sono ugualmente colpevoli ed ugualmente incapaci di miglioramento, la elezione dei privilegiati non accade per loro merito, ma per un imperscrutabile giudizio divino. A colui che egli vuole redimere, Dio rivolge la sua gratia irresistibilis, mentre colui che egli non abbia prescelto non potrà mai, in alcun modo, essere redento. Mai l’uomo può, per virtù propria, volgersi al bene: ogni bene proviene da Dio e non da altri. Nella dottrina della predestinazione l’assoluta causalità divina annienta la libertà del volere individuale. All’uomo viene preclusa ogni spontaneità d’azione: o la sua natura lo determina al peccato, o la grazia divina al bene. Così in Agostino vengono ad urtarsi due potenti correnti ideali; e rimarrà sempre un fatto stupefacente questo, che lo stesso uomo, che ha fondato la sua filosofia sulla certezza dell’autocoscienza individuale, che ha scrutato con analisi finissima gli abissi dell’esperienza interiore, che ha scoperto nella volontà la ragione stessa della vita dello spirito, si sia poi costretto in una dottrina della salute, che considera le azioni individuali come conseguenze ineluttabili, o della perdizione universale, o della grazia divina. Per Agostino il mondo dello spirito si divide in due sfere: il regno di Dio e quello del diavolo. Del primo fanno parte, oltre gli angeli non decaduti, gli uomini eletti alla grazia; del secondo, oltre i demoni cattivi, tutti gli uomini non predestinati alla redenzione e abbandonati da Dio nello stato di colpa e di peccato. L’uno è il regno del cielo, l’altro quello della terra. Nel corso della storia essi agiscono come due stirpi diverse, mescolate insieme soltanto nell’agire esterno, ma intimamente del tutto divise. La comunione degli eletti non ha patria sulla terra; vive nell’unità suprema della grazia divina. 34 La comunità dei reprobi è in sé discorde e divisa, e lotta nei regni terreni per gli illusori vantaggi del potere e del dominio. In questo stadio del suo sviluppo, il pensiero cristiano è ancora così incapace di dominare la realtà del mondo, che Agostino non riesce a vedere negli stati storici altro che province di un’unica comunità di peccatori, invisa a Dio. Per Agostino, insomma, il regno di Dio non è di questo mondo e la Chiesa è, nella vita terrena, l’istituto della salute, che preclude al regno divino. Date queste premesse, il corso della storia universale è concepito in modo che in esso si viene realizzando una separazione perfetta e definitiva, che è la sua meta finale. Agostino costruisce la storia universale in sei periodi, che devono corrispondere ai giorni della creazione secondo la cosmogonia mosaica e in rapporto con le date culminanti della storia ebraica, unendo ad una scarsa intelligenza della sostanza dell’ellenismo una notevole svalutazione del mondo romano. Il punto decisivo di tutto lo sviluppo storico è costituito anche per lui dall’avvento del Redentore che realizza non solo la liberazione degli eletti dalla grazia, ma anche la loro separazione definitiva dai figli del mondo. Comincia, così, l’ultimo periodo del mondo, il cui termine è costituito dal giudizio finale, dopodiché alla lotta seguirà la pace del Signore, il sabato. Pace per gli eletti, perché i non predestinati alla redenzione, divisi per sempre dai santi, saranno abbandonati alla pena della loro infelicità. Sebbene in questo quadro la beatitudine e la dannazione siano concepite in modo spiritualmente sublime, e la dannazione sia pensata come un indebolimento dell’essere, derivante dalla mancanza dell’azione causale di Dio, è innegabile che per Agostino il dualismo del bene e del male è l’epilogo della storia del mondo. Questo spirito, agitato da così potenti motivi di pensiero, in fondo non ha mai superato il manicheismo giovanile; lo ha soltanto ricompreso nella dottrina cristiana. 14- Seconda fase del neoplatonismo cristiano: GIOVANNI SCOTO ERIUGENA Per intendere la seconda fase del neoplatonismo cristiano, occorre sottolineare alcuni concetti fondamentali. 35 La connotazione essenziale del pensiero pagano consiste nella dottrina dell’eternità della materia e nella conseguente ineliminabilità di tutte le deficienze che ad essa si accompagnano, come l’imperfezione, la limitatezza e la caducità. La visione pagana della vita acquista, così, un colorito profondamente pessimistico in quanto alla creatura razionale viene negata qualsiasi speranza di felicità. Alla visione pagana reagiva la visione cristiana, la quale si appellava al concetto di creazione e faceva della materia la creatura di un Dio onnipotente. In quanto creata da Dio, la materia diventava automaticamente buona ed il male doveva essere ricercato in un’altra causa che veniva individuata nel libero arbitrio, cioè nella libera volontà dell’uomo di scegliere il bene o il male. Sorgeva, perciò, la speranza di una liberazione da essa, se Dio creatore di tutte le cose interviene a liberare l’uomo dalla sua cattiva volontà, fonte del male dell’universo, e si apre la speranza che una opportuna terapia della volontà emancipi tutte le cose dal male e tutto l’universo venga spiritualizzato. Affiorano, così, i caratteri basilari della dialettica cristiana della vita: la creazione, che comporta la bontà della materia e la sua soggezione ad un Dio onnipotente; il libero arbitrio dell’uomo, che da un lato richiama il peccato originale, dall’altro lato apre la via alla spiritualizzazione dell’universo attraverso l’incarnazione quale intervento di Dio nella storia, nonché attraverso la grazia che scaturisce da essa. La nuova visione della vita attirò ben presto verso la nuova fede numerose schiere di uomini affascinati dalla prospettiva di un soccorso soprannaturale alle loro sofferenze, ma il paganesimo continuò ancora, in quanto rinunziare alle gioie della vita è un sacrificio troppo duro. Così, gli ultimi rappresentanti cercarono di salvare la tesi dell’eternità della materia facendo appello al concetto di emanazione dal quale derivava il concetto di ciclicità della stessa emanazione per cui le cose emanano dall’Uno e ad esso ritornano. Così veniva garantito all’uomo non l’esenzione dal dolore e dalla morte ma un rinnovarsi indefinito di vite uguali alla presente. Questa concezione fu chiamata neoplatonismo e conglobò in sé tre concetti essenziali della visione cristiana, e cioè la trascendenza di Dio, la creazione delle cose anche se considerata panteisticamente come emanazione, e la 36 divinizzazione dell’uomo anche se intesa come riassorbimento delle coscienze individuali nell’Uno. Per questo motivo, quando si pose il problema di costruire una filosofia cristiana, apparve ovvio servirsi del quadro fornito dalla filosofia neoplatonica, rettificandolo dove era necessario, cioè eliminando principalmente lo scoglio del panteismo. Ciò fece Origene, il quale sostituì al concetto di emanazione quello di subordinazione. Essendo il Figlio e lo Spirito Santo sostanze inferiori gerarchicamente al Padre, sono la sostanza del Figlio e la sostanza dello Spirito che si comunicano alle creature mentre non si comunica quella del Padre. Poiché la tesi ledeva il cristianesimo nella sua essenza, gli origenisti si rifugiarono nel triteismo. Le tre persone sono tre sostanze distinte, le quali possono dirsi un’unica sostanza per la comune divinità posseduta in grado altissimo; esse, cioè, sono una sola sostanza per somma somiglianza ma non per identità numerica e quindi il comunicarsi del Figlio e dello Spirito Santo non implica il comunicarsi del Padre, ma l’inconveniente in cui si imbatte l’origenismo non è superato, in quanto tre dei, cioè tre assoluti, costituiscono un assurdo manifesto. La corrente neoplatonica si indirizzò, allora, in un’altra direzione: non potendo introdurre delle gradazioni tra le persone perché in antitesi con l’affermazione dell’unicità della sostanza divina, non restava altra via che considerare i rapporti tra la sostanza divina e gli attributi da una parte, tra questi e la sostanza delle cose dall’altra. Ciò fu fatto in tre modi: - o ponendo il bene o Dio in un gradino superiore o anteriore all’essere e ritenendo in questo modo di avere evitato il panteismo: PSEUDO DIONIGI AREOPAGITA; - o sottolineando la distinzione tra la sostanza divina in quanto increata e le idee archetipe esistenti nella mente divina in quanto pensieri divini ma creati: MASSIMO IL CONFESSORE; - o ponendo l’accento soprattutto sul rapporto tra gli archetipi divini e quindi la sostanza divina e la sostanza delle cose nel suo duplice aspetto di immutabilità e di mutabilità. 37 La sostanza divina, comunicandosi mediante le idee archetipe alle cose, verrebbe a coincidere con l’aspetto immutabile delle cose sensibili ma non con la parte mutevole, il che dovrebbe permettere di ovviare agli inconvenienti del panteismo. Questa strada fu imboccata da GIOVANNI SCOTO ERIUGENA Questi comincia con l’indicare con un unico termine “natura” l’intero universo, cioè il complesso degli enti che si possono comprendere con l’intelletto o che superano la sua portata, come Dio e gli enti finiti, e distingue quattro specie di natura: la natura che crea e non è creata, la natura che è creata e che crea, la natura che è creata e non crea, la natura che non crea e che non è creata. La prima corrisponde a Dio, in quanto principio increato da cui emanano tutte le cose; la seconda corrisponde alle idee o archetipi o principi primordiali da cui emanano le cose finite; la terza corrisponde alle cose finte; la quarta corrisponde a Dio come causa finale, cioè come l’ente al quale ritornano tutte le cose che sono emanate da lui, cioè le cose finte e le idee o archetipi. Dio, dice Scoto, in quanto principio di tutte le cose, è al di là di qualsiasi attributo che si possa predicare di lui, in quanto ogni attributo ha un suo opposto e Dio non può avere opposti (teologia negativa). Diremo, quindi, che Egli è non essere ma super essere, non bontà ma super bontà e diremo che è super essere in quanto è causa dell’essere, super bontà in quanto è causa della bontà (teologia affermativa). Senonché, quando si dice che Dio è super essere e super bontà, in realtà si afferma che non è essere né bontà, e quindi non si sa assolutamente nulla di ciò che è. Diremo, quindi, che non è né tutto né parte né genere né forma, non può nemmeno essere detto infinito poiché anche questo attributo ha un suo opposto che è il finito. Di conseguenza, è al di sopra del finito e dell’infinito e non si sa che cosa è; egli è incomprensibile, oltre che ad ogni intelletto anche a se stesso. Dio, quindi, ignora se stesso e questa ignoranza viene da Scoto chiamata la divina ignoranza, per la quale Dio non conosce quello che egli è. Di conseguenza, Dio, in quanto in base alla teologia negativa ignora del tutto la sua natura, ma, contemporaneamente, in base alla teologia affermativa 38 è causa dell’essere, della bontà, ecc. delle cose finite, conosce se stesso come esistente attraverso le cose finite stesse. Egli, cioè, si conosce in quanto si pone o crea come universo delle cose finite e si conosce nell’altro o diverso da sé , e poiché creare le cose significa porle nell’essere, Dio crea le cose in quanto le conosce e crea se stesso. Scoto afferma apertamente l’autocreazione divina, attenuando la tesi con il dire che questa autocreazione avviene in un modo mirabile ed affabile e, come per il caso dell’autocoscienza divina Dio si conosce in ciò che non è lui, così nel caso dell’ autocreazione Dio si crea in quanto crea le cose diverse da lui, cioè quelle che Scoto chiama teofanie, vale a dire manifestazioni del divino. In questo modo egli da invisibile diventa visibile, da incomprensibile comprensibile, da occulto manifesto, ecc. Secondo Scoto, l’emanazione avviene nel modo seguente: dalle idee o cause primordiali create dal Padre nel Verbo, emanano come i numeri dal numero uno, come due fiumi che scorrono dalla stessa sorgente in due alvei separati, i generi e le specie; un fiume scorre nelle menti delle creature intelligenti finite (angeli e uomini) sotto forma di specie intelligibile, l’altro fiume scorre nelle profondità inferiori della materia informe dando origine al mondo sensibile che consta, appunto, di specie sensibili e di materia informe. A questo processo di discesa, per cui tutte le cose derivano da Dio, segue un processo di ritorno a Dio, le cui tappe sono cinque: la dissoluzione del corpo materiale, la resurrezione di esso, la sua trasfigurazione progressiva in un corpo spirituale, il riassorbimento dell’individuo nelle cause prime o idee, il riassorbimento delle idee in Dio. In questo ritorno a Dio si salveranno tutti gli uomini: gli eletti saranno nello stesso pensiero di Dio e, quindi, deificati e felici; i malvagi, pur essendo in Dio, si sentiranno lontani da Lui per il loro pensiero malvagio e per le loro azioni non conformi alla legge divina. Questo sarà il loro inferno, che è, quindi, eterno. 15-Seconda fase del platonismo cristiano: ANSELMO D’AOSTA Il pensiero filosofico di Anselmo d’Aosta si presenta sotto due aspetti: da una parte egli va detto il padre della Scolastica, in quanto in lui per primo affiorano le nuove esigenze in merito ai rapporti tra fede e ragione; dall’altra parte, dando corpo alle sue personali dottrine, apre la strada alla seconda fase del platonismo cristiano, che si concentra nella filosofia della Scuola 39 francescana, cioè nella filosofia che sorse e si sviluppò in seno all’Ordine fondato da San Francesco d’Assisi nel 1210 e riconosciuto ufficialmente dal papa Onorio III il 22 novembre 1223. La corrente speculativa culminerà in Bonaventura da Bagnoregio e troverà l’espressione finale in Giovanni Duns Scoto. Riferendo la durata di questa fase di pensiero alla morte di San Bonaventura nel 1274 come terminus ad quem a partire dalla data di redazione del Monologion anselmiano nel 1076 circa, otteniamo un periodo di tempo di due secoli circa. Riferendoci alla morte di Giovanni Duns Scoto nel 1308, otteniamo un lasso di tempo di circa due secoli e mezzo. Importanti sono in Anselmo d’Aosta le prove dell’esistenza di Dio, che egli adduce in due opere, il Monologion e il Proslogion. Nel Monologion si attiene al vecchio argomento cosmologico: se esiste l’essere, si deve ammettere un essere supremo ed assoluto dal quale ogni altro essere tragga il suo essere, e che esista soltanto in virtù della sua propria essenzialità. Mentre ogni essere particolare può anche essere pensato come non esistente, il perfettissimo non può essere pensato che come esistente, ed esiste necessariamente in virtù della sua natura medesima. L’essenza di Dio, ed essa soltanto, involve la sua esistenza. Nell’altra sua opera, il Proslogion, affermò che anche senza alcun riferimento all’essere di altre cose, già il semplice concetto dell’essere perfettissimo involve la realtà di esso. In quanto questo concetto è pensato, è già psicologicamente reale: l’essere perfettissimo è un contenuto della coscienza, esse in intellectu. Però, se esso esistesse soltanto come contenuto di coscienza e non anche come realtà metafisica, sarebbe possibile pensare un essere ancora più perfetto, dotato di realtà non solo psichica ma anche metafisica, ed allora quello non sarebbe il perfettissimo. Di conseguenza, il concetto dell’essere perfettissimo, quo maius cogitari non potest, possiede non soltanto una realtà ideale ma anche una realtà assoluta. In realtà si tratta di una formulazione non felice, in quanto Anselmo non ha dimostrato altro che questo: se Dio è pensato come essere perfettisismo e 40 perciò necessariamente esistente, non può essere pensato come non esistente, cadendo in un evidente circolo vizioso. 16-Il problema degli universali Prima di addentrarci nella questione filosofica degli universali dibattuta nel corso del secolo XII fra i pensatori scolastici, è opportuno considerare il significato del termine universale. Universale è ciò che è comune ai membri di un insieme omogeneo, oppure il genere rispetto alla specie (ad es., “mammifero” rispetto a “uomo”, “cavallo”, “cane”, ecc.) ed anche l’essenza che è propria di molti (ad es., “razionale” detto degli uomini, ecc.). L’atto di nascita dell’universale come problema filosofico è di solito assegnato all’interrogativo socratico “che cos’è” riferito a qualcosa; infatti, chiedendo che cos’è, per esempio, la virtù, il coraggio, la sapienza, ecc., si mira a definire l’essenza universale per cui tutte le azioni sono, ad esempio, virtuose o coraggiose o sapienti, ecc. Aristotele parlò di scoperta socratica a proposito di quel procedimento induttivo che astrae da più cose ciò che esse hanno in comune e che le caratterizza per quel che esse sono. Ma i cinici e successivamente Platone obiettarono: come si può ricavare l’universale dai particolari se questi non sono identificati come “quei” particolari e in tal modo connessi in un insieme omogeneo? Come identificarli e connetterli se non in base alla preventiva conoscenza di ciò che quei particolari hanno in comune, vale a dire la loro essenza universale? Viene posta, così, la questione ontologica relativa all’universale ed al concetto, destinata ad accompagnare tutta la storia del pensiero occidentale. Nel XII secolo il problema fu occasionato da un passo della Isagoge di PORFIRIO dove l’autore affrontava il problema della natura dei termini universali di genere e specie, come, ad esempio, animale, uomo, cavallo, sostanza, ecc., proponendone cinque definizioni. Gli scolastici ripresero tali definizioni ma le discussero secondo una mentalità diversa da quella pagana. L’interpretazione prevalente fu quella platonico- agostiniana di ANSELMO D’AOSTA o di 41 GUGLIELMO DI CHAMPEAUX la quale fa corrispondere agli universali realtà o idee effettivamente esistenti nella mente di Dio (REALISMO). I termini del pensiero rimandano, dunque, ad una struttura ontologica che sta al di sopra della realtà materiale ed empirica del mondo, che ne costituisce l’essenza e funge da modello creazionistico. A questa interpretazione si oppongono i NOMINALISTI i quali, come ROSCELLINO considerano gli universali puri segni convenzionali o “nomi” delle cose. Gli universali non hanno altra realtà al di fuori di quel movimento di aria che impiega la voce nel pronunciarli. Essi sono, appunto, flatus vocis, come diceva Roscellino. Ben presto il problema passò dall’ambito puramente logico a quello teologico. Così, a Guglielmo di Champeaux, il quale sosteneva la concezione realistica fino al punto da fare corrispondere una “essenza materiale” ad ogni universale, si mosse l’accusa di trasformare la Trinità cristiana in un vero e proprio “triteismo”; Roscellino, invece, venne accusato di vanificare ogni distinzione fra le tre persone della Trinità e di ridurle a puri nomi. Contro queste tesi contrapposte si mosse ABELARDO il quale sostenne che sia i realisti sia i nominalisti assimilano l’universale ad una res, cioè ad una cosa, che sarebbe l’essenza trascendente per i primi, la vox per i secondi. L’universale, invece, non è nulla di materiale sia che stia negli individui sia che stia fuori di essi; l’universale, piuttosto, è sermo, cioè “significato” logico e linguistico, come “ciò che si può predicare di molti”. Questa soluzione suole essere definita CONCETTUALISMO e ad essa si richiamerà successivamente anche Ockham Il problema specifico degli universali, però, trovò una sua soluzione di compromesso con ALBERTO MAGNO e 42 TOMMASO D’AQUINO Di fronte alle varie alternative, se l’universale possedesse una sua realtà che precede le cose individuali (ante rem), se esso fosse nelle cose (in re) o se esso derivasse dalle cose per astrazione (post rem), essi le accolsero tutte insieme con appropriate giustificazioni: gli universali sono ante rem, in quanto, nella mente divina, preesistono al mondo degli individui creati; sono in re, in quanto, mediante la creazione, Dio li pone nelle cose come loro essenza; e sono, infine, post rem, poiché la mente dell’uomo li può estrarre dalle cose mediante un processo astrattivo, trasformandoli in immagini mentali, in concetti e infine in parole e segni convenzionali. NOMINALISMO Roscellino Gli universali sono puri segni convenzionali o “nomi” delle cose, puri flatus vocis REALISMO ESTREMO Guglielmo di Champeaux Gli universali sono realtà o idee effettivamente esistenti nella mente di Dio CONCETTUALISMO o NOMINALISMO MODERATO Abelardo – Ockham L’universale è sermo, ciò che si può predicare di molti REALISMO MODERATO Alberto Magno – Tommaso d’Aquino Gli universali sono ante rem, cioè nella mente divina, in re, cioè nelle cose, post rem, cioè astratte dalle cose per opera della mente dell’uomo. 17- Bonaventura da Bagnoregio Il francescano Bonaventura da Bagnoregio opera un ritorno alla dottrina agostiniana. La sua opera più importante, Itinerarium mentis in Deum, contiene tre temi 43 fondamentali: a- i gradi dell’elevazione a Dio; b- l’anima umana come specchio per mezzo del quale si vede Dio; c- la dimostrazione dell’esistenza di Dio. a- Il procedimento dell’elevazione a Dio è triplice in quanto parte dalla considerazione delle cose corporee e temporali che sono fuori di noi, passa alla considerazione dell’ io, cioè dentro di noi, per assurgere a Dio sopra di noi. A ciò corrispondono i tre occhi dell’anima: la sensibilità, lo spirito e la mente. E siccome in ciascuno di questi procedimenti Dio è visto come per specchio o in specchio, cioè nella proprietà delle cose o nella sua immagine rispecchiata e realizzata in esse, i gradi dell’elevazione a Dio sono sei e corrispondono alle sei potenze della facoltà conoscitiva dell’anima: senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza, apice della mente. b- L’anima umana ha tre facoltà: memoria, intelletto e volontà. La memoria, in quanto ritiene gli enti temporali passati, presenti e futuri, dà l’immagine dell’eternità divina; in quanto ritiene gli elementi primi della conoscenza e i principi logici, senza cui è impossibile intendere e pensare gli enti che risultano retti da essi, ci mostra che la mente è illuminata dall’alto da Dio, il quale stampa in essi i suddetti principi. L’intelletto, dovendo risalire nelle definizioni degli enti alla nozione suprema di essere purissimo e attualissimo, deve avere tale idea innata e impressa dall’alto, e non può intendere alcun ente creato se non per riferimento all’idea dell’ente purissimo. Inoltre, in quanto intende le proposizioni vere e le illazioni necessarie, vede che tali verità e necessità certe e immutabili, non potendo derivare né dalle cose né dalla mente, entrambe mutevoli, risalgono necessariamente all’illuminazione divina. L’anima illuminata da Dio è, quindi, lo specchio di Dio. c- La negazione suppone l’affermazione, quindi il non essere per essere compreso suppone l’essere e l’essere in potenza suppone l’essere in atto. Di conseguenza, l’essere è la prima nozione che si presenta all’intelletto e tale essere è l’essere divino, cioè Dio. 18- La filosofia araba 44 Contemporaneamente alla rinascita della cultura nell’Europa cristiana, dopo le invasioni barbariche nacque una nuova cultura, anche filosofica, nei paesi in cui a partire dal VII secolo si era diffusa la religione islamica, cioè i territori strappati dagli arabi all’impero bizantino: Siria, Mesopotamia, Persia, Palestina, Egitto. Essa, poi, si spinse, sempre al seguito delle conquiste arabe, fino all’Africa nord occidentale (Algeria e Marocco), alla Spagna ed alla Sicilia. L’intero bacino del Mediterraneo venne, così, ad essere circondato dalla cultura araba o islamica o musulmana, che per circa cinque secolo (VIII - XII) si propose come alternativa di fronte a quella dell’Europa cristiana. Anzitutto gli arabi vennero in contatto con i cristiani in Siria, dove fioriva fin dal IV secolo una notevole cultura filosofica, ispirantesi soprattutto a Platone, ad Aristotele e al neoplatonismo. Ivi circolavano le opere dei massimi filosofi greci tradotte in siriaco e prendeva sempre più credito l’interpretazione conciliazionistica di Platone e di Aristotele messa in circolazione dai commentatori neoplatonici di Aristotele nei secoli IV e V ad Alessandria. In siriaco fu composta per la prima volta, nel VI secolo, la cosiddetta Teologia di Aristotele, la quale non era altro che una parafrasi delle Enneadi di Plotino, attribuita, però, ad Aristotele. Gli arabi, venuti in contatto con i cristiani di Siria, appresero da questi il pensiero di Platone e di Aristotele, traducendo in arabo le opere di essi che i primi avevano tradotto in siriaco. Anzi, tali traduzioni furono sistematicamente incoraggiate dai califfi Abassidi, uno dei quali, Al- Mamun, fondò a Bagdad nel IX secolo la cosiddetta “casa della sapienza” proprio allo scopo di far tradurre dal greco e dal siriaco le opere dei filosofi. Qui, anzi, fu scambiata per opera di Aristotele e come tale tradotta in arabo una sintesi degli Elementi di teologia del neoplatonico Proclo, destinata a diventare nota nella traduzione latina con il titolo Liber de causis. Dunque, l’interpretazione di Platone e di Aristotele che sin dall’inizio si impose nella cultura araba fu quella neoplatonica. Anche gli arabi, come i cristiani d’Europa, videro nella filosofia greca soprattutto uno strumento per trovare una conferma e una dimostrazione razionale della loro fede, in particolare dell’esistenza di Dio, della creazione 45 del mondo ad opera sua e dell’immortalità dell’anima, tutte tesi che la religione musulmana condivide con quella cristiana. In questa direzione si mossero i primi filosofi arabi, cioè Al - KINDI e AL -FARABI vissuti rispettivamente nei secoli IX e X a Bagdad. Il primo inaugurò la famosa tesi dell’unico intelletto attivo ed immortale, il secondo l’altrettanto famosa interpretazione della creazione come conferimento dell’esistenza all’essenza di ciascuna cosa, eternamente presente nella mente di Dio, tesi, entrambe, di origine neoplatonica. Ma i maggiori filosofi arabi furono, per profondità di pensiero e influenza esercitata sulla stessa cultura cristiana, AVICENNA e AVERROE’. Il primo, benché vissuto in Persia, fu conosciuto in tutto il mondo arabo, fino alla Spagna non solo per le sue opere di filosofia, ma anche per le sue importanti opere di medicina. Il secondo visse ed operò, invece, in occidente, prima in Spagna e poi in Marocco, ed ebbe un’influenza ancora maggiore di quella di Avicenna sulla cultura cristiana, dove si costituì, nel secolo XIII, addirittura un “averroismo latino”. Si può dire che Avicenna ed Averroè si richiamano rispettivamente ai due massimi filosofi greci, Platone e Aristotele, interpretandoli, però, entrambi in chiave neoplatonica. Il contributo principale di Avicenna è la ripresa della distinzione tra essenza ed esistenza, elaborata già da Al – Farabi, e il suo approfondimento nel senso della concezione di Dio come ente, la cui essenza comprende l’esistenza, ovvero come essere per essenza, come totalità del reale. Anche questa è una concezione prevalentemente platonica, perché fa di Dio essenzialmente un’idea dotata, per così dire, di spessore reale, cioè di consistenza ontologica, l’idea stessa dell’essere. Essa fu poi ripresa dai massimi esponenti della Scolastica cristiana, in particolare da Tommaso d’Aquino. 46 Averroè fu, invece, più aristotelico e lo fu fino al punto da mettere in pericolo, accettando la tesi dell’eternità del mondo, la stesa tesi biblica ed islamica della creazione. Per questo fu accusato di eterodossia dalle autorità religiose islamiche; ma con l’altra sua dottrina dell’unicità dell’intelletto immortale si rivelò anch’egli profondamente influenzato dal neoplatonismo. Una situazione analoga si verificò nella filosofia ebraica, sviluppatasi nell’ambito della cultura araba dopo l’occupazione della Palestina e di altri paesi della diaspora, come Egitto e Spagna, da parte degli arabi. I filosofi ebrei, del resto, pur professando la fede giudaica di Mosé, scrissero tutti, almeno intorno alla metà del medioevo, in lingua araba. I due massimi filosofi ebrei di quel periodo furono AVICEBRON e MOSE’ MAIMONIDE vissuti entrambi in Spagna rispettivamente nei secoli XI e XII. Il primo fu fondamentalmente neoplatonico, mentre il secondo fu prevalentemente aristotelico. Malgrado questa forte impronta neoplatonica che la caratterizza, la filosofia araba impresse una svolta decisiva alla filosofia medioevale cristiana, trasmettendo a quest’ultima la conoscenza di Aristotele, del quale in precedenza si possedevano in Europa solo pochissimi testi. Fu, infatti, a partire dalle traduzioni arabe che la maggior parte degli scritti aristotelici, posseduti dagli arabi in misura pressoché completa, vennero tradotti in latino e fatti in tal modo conoscere ai filosofi cristiani. I centri in cui queste traduzioni avvennero furono centri di cultura araba3 e i traduttori dall’arabo in latino furono per lo più degli ebrei, i quali, non riconoscendosi completamente né nella cultura musulmana né in quella cristiana, padroneggiavano le lingue di entrambe. Naturalmente, insieme con le opere di Aristotele, gli ebrei tradussero in latino anche le opere dei filosofi arabi, cioè di Avicenna e di Averroé, e i loro commenti ad Aristotele. 3 Toledo in Spagna e Palermo in Sicilia, già sotto il dominio arabo e poi liberata dai Normanni 47 L’Aristotele che nel secolo XIII entrò nell’Europa cristiana fu così fondamentalmente l’Aristotele neoplatonizzato dagli Arabi. In ogni caso, l’aristotelismo rappresentava la corrente, per così dire, più razionalistica della filosofia araba, per cui il suo ingresso nella cultura cristiana produsse una maggiore autonomia della filosofia dalla teologia, la quale è la caratteristica dell’apogeo della Scolastica. 19-Terza fase del neoplatonismo cristiano: ALBERTO MAGNO L’adattamento del neoplatonismo alla concezione cristiana, operata da Giovanni Scoto Eriugena, fallì a causa delle gravi difficoltà in cui esso incorreva; tuttavia restavano ancora alcuni elementi della sintesi neoplatonica adattabili al dogma e tali da poter tenere ancora in piedi la dottrina agostiniana dell’illuminazione, che aveva caratterizzato tutta la filosofia della Patristica e della prima Scolastica. Tali elementi erano: la dottrina della creazione per intermediari, capace di salvare, adattandola, la dottrina dell’emanazione, e la dottrina della pluralità delle forme nel composto umano, capace di conciliare Aristotele con Platone, cioè Agostino con Aristotele. Sarà questo il compito che assolverà ALBERTO MAGNO maestro di San Tommaso, una delle figure più suggestive, importanti ed influenti del secolo XIII. La sua dottrina filosofica comprende i seguenti punti: a- Anzitutto, egli si propone di conciliare le dottrine di Platone con quelle di Aristotele. Il Platone a cui si riferisce Alberto Magno era Agostino, cioè il Platone cristianizzato, necessario antecedente affinché si potesse procedere alla cristianizzazione di Aristotele; b- ’eredità neoplatonica sopravvive in lui nella teoria della creazione per intermediari, quella che egli chiama fluxus entis: Dio, intelletto puro e luce increata, crea direttamente le intelligenze separate, cioè inorganiche, prive di corpo. Tramite le intelligenze separate crea le sfere celesti, attraverso le quali crea le forme intelligibili che sono la luce e la vita degli enti razionali, e così via , in linea discendente, dagli uomini agli animali, alle piante e ai minerali. 48 Si ottiene, così, una catena di enti che dipendono tutti dalla prima causa che è Dio; c- tutti gli enti, così, constano di una componente materiale, che è il principio di individualizzazione, e di una componente formale, le quali componenti, però, non costituiscono un tutt’uno, come è per il sinolo aristotelico, ma danno origine a dei composti accidentali. L’esempio più tipico è costituito dall’uomo, la cui anima è la forma del corpo, ma quando affermiamo ciò, dice Alberto, noi intendiamo definire non la sua essenza ma una delle sue funzioni. Infatti, l’anima è capace di conoscenze intellettuali ed è assurdo dire che un intelletto sia la forma di un corpo. Secondo Alberto Magno, ogni soggetto è dotato del suo personale intelletto agente e possibile. Funzione dell’intelletto agente è di astrarre dagli enti composti di materia e forma, la forma e di attualizzare con essa l’intelletto possibile. L’intelletto agente, però, pur essendo dotato di una luce propria, non può funzionare se ad essa non si aggiunge, tramite le intelligenze separate, la luce divina. Questa luce divina, che si aggiunge alla luce umana, è un dono soprannaturale gratuito, come sosteneva Agostino. Con questa teoria, che può definirsi “della virtù aggiunta o sopraggiunta”, Alberto riteneva di avere conciliato Agostino, e quindi Platone, con Aristotele, e di avere, quindi, realizzato in pieno la cristianizzazione di questi. L’intelletto umano, a cui si aggiunge la luce illuminante divina, nei vari gradi della sua ascesa a Dio prende i nomi di intellectus assimilativus, intellectus divinus, intellectus sanctus. 20- Fase dell’aristotelismo cristiano: TOMMASO D’AQUINO Tommaso d’Aquino può essere considerato il massimo rappresentante della Scolastica. 49 All’inizio del secolo XIII tre fattori determinarono in modo preminente un repentino innalzamento di livello della filosofia , portandola a vette capaci di reggere il confronto con i più alti momenti del pensiero antico e moderno: la fondazione delle università europee, il sorgere dei due ordini religiosi “mendicanti”, francescani e domenicani, e la diffusione dell’aristotelismo nella cultura cristiana. Le università sono le nuove scuole in cui si produce e si insegna ogni sorta di sapere, dal diritto alla medicina, dalle “arti” del trivio e del quadrivio alla filosofia e alla teologia. Esse si distinguono da tutte le scuole precedenti per il loro carattere aperto a tutti, per l’estrazione internazionale di docenti e studenti e per l’alto livello degli studi, dovuto all’adozione di un metodo rigorosamente critico, quello del porre questioni e del disputare a favore o contro le opposte soluzioni, contrapponendo fra loro autorità diverse e superando sostanzialmente il principio di autorità con il valore delle argomentazioni. Agli inizi del secolo XIII nacquero le università destinate a diventare le più famose per il contributo specifico agli studi filosofici: Parigi, che avrebbe primeggiato in Europa per tutto il secolo XIII, Oxford, che l’avrebbe sostituita nel secolo XIV, e Padova, che fu la cittadella dell’aristotelismo e della cultura filosofica universitaria soprattutto nel secolo XV. Contemporaneamente, nacquero i due ordini religiosi mendicanti, non più legati ai monasteri, come quello dei benedettini, ma composti di frati liberi di girare il mondo e impegnati in un’opera di apostolato verso l’esterno, che li portava inevitabilmente al dialogo con i non credenti, o con i credenti in altre religioni, come ebrei e musulmani, e quindi ad un confronto tra la cultura cristiana e quella che con termine moderno si potrebbe definire la cultura laica, rappresentata sostanzialmente dall’aristotelismo. Quest’ultimo, diffusosi già nel secolo XII, grazie alle traduzioni delle opere di Aristotele dall’arabo al latino compiute in Spagna ed in Sicilia, e ad altre traduzioni effettuate direttamente dal greco soprattutto nell’area del ducato veneziano, la cui cultura era rimasta in stretto contatto con gli ambienti bizantini, dilagò in Europa soprattutto nel secolo XIII, incontrò dapprima forti resistenze da parte dell’autorità ecclesiastica (le opere di Aristotele furono ripetutamente condannate nel 1215, nel 1231 e nel 1245), ma poi si impose nelle università come base di ogni forma di sapere (nel 1255 i testi aristotelici furono adottati come obbligatori nell’Università di Parigi). 50 La filosofia aristotelica per i cristiani del secolo XIII aveva il significato di una filosofia puramente razionale, non fondata su nessuna fede religiosa e nemmeno già integrata con il cristianesimo, come era accaduto al platonismo ad opera dei Padri della Chiesa. Come tale, essa si prestava a fornire la base per il dialogo con i non credenti e con i seguaci di altre religioni, specialmente con i musulmani, che già l’avevano in gran parte fatta propria. Essa, inoltre, comprendeva una fisica, cioè uno studio della natura, basata essenzialmente sull’esperienza, quale il medioevo latino non aveva mai conosciuto e che pertanto era in grado di riscuotere larghe adesioni, e un’etica di tipo umanistico, particolarmente adatta ad essere apprezzata da uomini impegnati nella ricostruzione culturale e civile che caratterizzò i primi secoli dopo il mille. Il suo impatto con la cultura cristiana fu, tuttavia, così forte che provocò reazioni contrastanti. Tra i due ordini religiosi che fornivano la maggior parte dei docenti di discipline teologiche e filosofiche alle università, i francescani, con Bonaventura, pur accogliendo molti dei concetti introdotti da Aristotele, assunsero una posizione fondamentalmente anti - aristotelica e filo- platonica, mentre i domenicani, con Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, assunsero un atteggiamento sostanzialmente aristotelico. TOMMASO, infatti, anzitutto rivendicò alla filosofia una notevole autonomia dalla teologia, teorizzando la possibilità di affidarsi interamente alla ragione, perché questa, essendo stata data all’uomo da Dio, non può portarlo a conclusioni contrastanti con quelle ugualmente rivelate da Dio ed accolte per fede. Di conseguenza, egli affermò la perfetta conciliabilità tra la filosofia aristotelica, per gli aspetti in cui questa poteva considerarsi autentica espressione della ragione, e la religione cristiana. In particolare, egli dimostrò con argomenti desunti da Aristotele l’esistenza di Dio; affermò risolutamente, contro l’interpretazione averroistica, la conciliabilità dell’eternità del mondo con la creazione; e sostenne, sempre contro l’interpretazione averroistica, l’immortalità dell’anima individuale. Tuttavia, pur sfrondando l’aristotelismo da molte interpretazioni neoplatonizzanti, Tommaso conservò nel suo pensiero forti elementi di platonismo e di neoplatonismo, in particolare la concezione di Dio quale 51 essere per essenza e del suo rapporto con gli altri enti, come costituito essenzialmente dalla partecipazione di questi ultimi all’essere divino. Ciò non toglie che la sintesi da lui attuata tra filosofia aristotelica e cristianesimo sia stata particolarmente efficace, tant’è vero che, dopo una iniziale condanna, essa fu definitivamente accolta dalla Chiesa e da questa fu riproposta ininterrottamente come forma esemplare di filosofia cristiana. 21-Dopo Tommaso L’aristotelismo, dopo Tommaso, incontrò maggiori consensi anche all’interno dell’ordine francescano, specialmente con GIOVANNI DUNS SCOTO e RUGGERO BACONE entrambi professori all’università di Oxford. Il primo ne fece proprie quasi tutte le categorie fondamentali, pur conservando elementi platonici quali la dottrina dell’univocità dell’essere e dell’individuazione ad opera della forma, mentre il secondo ne sviluppò soprattutto l’attenzione per l’esperienza nell’ambito della fisica. Ma si deve considerare appartenente all’apogeo della Scolastica anche DANTE ALIGHIERI il quale coltivò in misura notevole anche gli studi filosofici ed espresse, sia nella Divina Commedia che in alcune opere specificamente filosofiche, una visione originale di alcuni problemi, particolarmente quello politico. La Politica di Aristotele, praticamente sconosciuta agli Arabi ed al precedente medioevo cristiano, venne tradotta in latino per la prima volta, nell’ambito della traduzione dal greco di tutte le opere di Aristotele compiuta per incarico di Tommaso d’Aquino da Guglielmo di Moerbeke, intorno al 1260, e determinò il sorgere di una nuova corrente di pensiero politico, che servì di sostegno alle rivendicazioni di autonomia dal papato da parte dell’imperatore. Dante, che fu aristotelico in senso originale, anche se vicino a Tommaso, si basò sulla Politica di Aristotele per affermare l’autonomia delle realtà terrene, ivi compresa la società politica, in quanto ordinate per natura ad uno dei due “fini ultimi” dell’uomo, che è il vivere bene su questa terra e che si pone legittimamente accanto al fine della vita eterna. 52 Egli, inoltre, valorizzò fortemente anche l’etica aristotelica, la cui concezione morale pose, insieme con la visione cristiana, alla base della Divina Commedia. Nel complesso, pertanto, l’apogeo della Scolastica si caratterizza come realizzazione di un complesso di filosofie tutte ispirate dal cristianesimo, ma anche diversificate tra di loro aventi in comune una nuova valorizzazione della ragione umana, dovuta soprattutto all’influenza dell’aristotelismo.