10-10 gennaio 2016 seconda parte

annuncio pubblicitario
Antonio de Cabezón (1510-1566), organista e compositore, cieco fin
dall’età di 8 anni, a diciassette anni era già musicista al servizio della regina
Isabella di Portogallo, ma fu in seguito, come musico di corte di Carlo V e
poi di Filippo II, che sviluppò compiutamente il suo stile, anche grazie
all’influenza degli incontri, avvenuti in numerosi viaggi (tra il ’48 e il ’51 in
Italia a Milano e Napoli, Germania, Paesi bassi, e nel ’55 in Inghilterra, a
Londra, per le nozze di Filippo con Mary Tudor)
con i più grandi musicisti del suo tempo, tra cui,
fondamentale per la sua formazione, Josquin Des Prez, e poi Thomas
Tallis e William Byrd. Dedito principalmente alla musica strumentale,
specialmente per tastiera, in questo ambito riportò ed elaborò in modo
originale, da maestro del contrappunto, caratteristiche e materiali dello
stile polifonico dei suoi contemporanei, lavorando anche all’elaborazione
di nuove forme derivate dai romanzi cavallereschi e da mottetti, e di
particolari tecniche di variazione, spesso su danze e canzoni, francesi,
spagnole e, come nel caso del brano in ascolto oggi, italiane.
In apertura di programma, la sua Galliarda milanesa suona come un omaggio, attraverso i secoli,
alla nostra città ed alla nostra orchestra.
Juan Crisóstomo de Arriaga (1806-1826), nato a Bilbao il 27 gennaio
1806, esattamente cinquant’anni dopo Mozart, come lui fu un enfant
prodige; suonava il violino all’età di 3 anni e a 11 già componeva e
rappresentava opere nelle società filarmoniche della sua città. Chiamato
in seguito per questo “il Mozart spagnolo” e “il Mozart basco”, a 15
anni, per volere del padre, continuò la sua formazione presso il
Conservatorio di Parigi, dove studiò violino con Pierre Baillot, armonia
con François-Joseph Fétis e contrappunto con Luigi Cherubini. In
questo conservatorio fu nominato professore assistente di Fétis nel
1824.
Morì a Parigi a soli 20 anni per una malattia polmonare. Nonostante la
breve vita e il fatto che la maggior parte della sua opera sia andata perduta, è effettivamente, con
e dopo Boccherini, il rappresentante più importante del classicismo in Spagna.
Il trittico dei quartetti per archi, scritti nel 1823, di cui ascoltiamo oggi il secondo in La maggiore,
fu l’unica opera pubblicata durante la sua vita, e resta tutt’oggi l’aspetto più famoso della sua
produzione.
François Borne (1840-1920) primo flauto del Grand Théâtre de
Bordeaux, e docente di flauto sul finire dell’800 al Conservatorio di
Tolosa, ebbe una notevole importanza negli sviluppi tecnici del flauto
moderno, sottolineandone e promuovendone l’agilità e gli aspetti più
virtuosistici e brillanti; ciò è evidente nella scrittura della Fantasia sui temi
della Carmen di Bizet, che resta, tra le molte sue opere, l’unica giunta
fino a noi. Scritta nel 1900, a 25 anni dalla prima esecuzione dell’opera, è
un piacevolissimo susseguirsi dei suoi temi più importanti, trattati con
una notevole maestria, ad esprimere pienamente le potenzialità insieme
melodico-espressive, di colore e virtuosismo dello strumento solista.
Isaac Albeniz (1860-1909) riunisce nel 1887 una serie di brani in
onore della Regina di Spagna in una Suite española, op. 47, che sarà
poi pubblicata postuma nel 1912, un’antologia in cui, come è tipico
nella produzione del maestro catalano, ogni brano descrive una
diversa regione spagnola attraverso il suo specifico stile musicale. Il
brano in ascolto oggi, Sevilla, fu eseguito per la prima volta
dall’autore, nella sua versione pianistica, proprio il 24 gennaio,
come oggi, del 1885. Il colore, il ritmo, la peculiarità stilistica, ne
fanno uno dei brani emblematici del mondo spagnolo più amati ed
eseguiti, in varie formazioni strumentali.
Enrique Granados (1867-1916) molto conosciuto come
compositore di musica pianistica, compose anche sei opere,
di cui Goyescas fu l’ultima; le sue musiche, nate
inizialmente nel 1911 come serie di brani pianistici ispirata
alla pittura di Francisco Goya, vennero ricomposte per il
teatro 5 anni più tardi, ed è in quest’occasione che nacque
l’intermezzo, come molti altri brani strumentali, a copertura
di un cambio di scena. Su Goyescas e l’ispirazione nella
pittura l’autore stesso disse: “Sono innamorato della
psicologia di Goya, della sua tavolozza, di lui, della sua
musa la Duchessa d’Alba, dei suoi litigi con le sue modelle, i suoi amori e lusinghe. Quel rosa
biancastro delle guance, in contrasto con lo sfondo di velluto nero; quelle creature sotterranee, le
mani di madreperla e gelsomino poggiate sulla chincaglieria, mi hanno posseduto”.
Dato che la prima prevista all’Opera di Parigi fu impossibile a causa della prima guerra mondiale,
Goyescas fu rappresentata per la prima volta a New York, al Metropolitan Opera, primo lavoro
in spagnolo, e di un compositore spagnolo, ad essere là eseguito, il 28 gennaio 1916 (ricorre
praticamente il centenario). L’opera ebbe un grande successo, e il compositore pianista fu
invitato per un récital alla Casa Bianca.
Ciò posticipò il suo ritorno in patria, e un triste destino volle che Granados, che avendo una
forte paura dei viaggi in nave aveva detto ad un amico che per questo non avrebbe mai voluto
andare in America e si era forzato per presenziare alla prima, morisse, con la moglie, proprio nel
viaggio di ritorno, per il siluramento della nave su cui si erano imbarcati da parte di un
sottomarino tedesco.
Joaquin Turina (1882-1949) e Manuel De Falla (1876-1946) vissero
entrambi molti anni a Parigi all’inizio del ‘900, entrando in contatto con
i più importanti compositori del momento là raccolti, da D’Indy a
Maszkowsky, a Debussy, Ravel, Dukas e Stravinsky; questa
frequentazione, e conseguente partecipazione al fervore innovativo di
quel periodo permise loro, in modo diverso, di unire all’appartenenza
alla tradizione iberica, mai abbandonata, ed anzi profondamente
coltivata, con consapevole sfrondamento da ogni orpello effettistico,
alcune caratteristiche della scrittura novecentesca, con esiti davvero
felici, di una grande pregnanza espressiva.
La tensione interiore della Serenata di Turina, di forte connotazione
andalusa, si presenta, quasi distillata in linee essenziali, nelle tre delle
canciones di De Falla in programma, a testimoniare una grande continuità nel tempo della forza
della melodia popolare.
Scritte nel 1914 ed eseguite per la prima volta nel febbraio 1915 a Madrid, le Siete Canciones
populares españolas costituiscono un punto di riferimento importante, nella produzione
dell’autore e dello sviluppo della musica classica spagnola d’arte, con l’utilizzazione del folclore
musicale secondo un processo di reinvenzione del canto popolare. Le idee di De Falla in
proposito furono da lui stesso così espresse: «La mia modesta opinione è che in una canzone
popolare lo spirito è più importante della lettera. Il ritmo, il modo e gli intervalli melodici sono la
cosa principale, com’è dimostrato dal popolo con la trasformazione continua della linea
melodica. Ma c’è di più: l’accompagnamento ritmico o armonico è importante almeno quanto la
canzone stessa, e quindi bisogna ispirarsi in questo
direttamente al popolo; chi la pensa diversamente con il suo
lavoro non farà altro che un centone più o meno arguto di
quello che vorrebbe realizzare nella realtà». Questo attenersi
liberamente al nucleo poetico originario di una melodia
permise a De Falla, artista di acuta intelligenza creatrice, pur
arricchendo e ridefinendo con il suo gusto armonico una
determinata melodia, di non tradirne mai le caratteristiche
fondamentali, come tramandate da questa o quella regione
della Spagna.
Diceva Massimo Mila che in questi come in altri suoi lavori,
viene percorsa «la parabola di una delle esperienze che si offrivano alla musica contemporanea:
quella dell’ispirazione nazionale. Riscatto dal folclore, passaggio dal pittoresco all’autentico, dal
colore locale al genio di un popolo e di una civiltà, dal caratteristico al carattere: tale è il
significato profondo dell’arte di Manuel De Falla».
EL PAÑO MORUNO
IL PANNO MORESCO
Al paño fino, en la tienda,
Una mancha le cayó;
Por menos precio se vende,
Porque perdió su valor.
Sul panno fino, nella bottega,
una macchia è caduta.
Lo si vende a minor prezzo
perché ha perduto il suo pregio.
ASTURIANA
ASTURIANA
Por ver si me consolaba,
Arrimóme a un pino verde
Por ver si me consolaba,
Y el pino, como era verde,
Por verme llorar, lloraba.
Per vedere se mi consolava
m’accostai a un pino verde:
e il pino, com’era verde,
piangeva,
vedendomi piangere.
POLO
POLO
Ay, guardo una pena en mi pecho
que a nadie se la dire.
¡Malhaya el amor, malhaya,
y quien me lo dio a entender!
Ho nel cuore una pena
che a nessuno dirò.
Mal s’abbia l’amore
e chi me lo insegnò!
A conclusione del programma, ascoltiamo le tre “cartoline” di Xavier Montsalvatge (1912-2002).
Docente di composizione al Conservatorio di Barcellona, critico musicale, compositore prolifico
di un’opera che abbraccia molti generi, dal sinfonico al cameristico alla musica da film,
accogliendo mondi e suggestioni eterogenei, dalla musica antillana delle famose Cinco canciones
negras (1945) e del Quarteto indiano (1952) alle influenze di O.
Messiaen e G. Auric, è stato una delle figure più rappresentative della
musica spagnola della seconda metà del XX secolo.
Nei “Postals illuminades” il gusto del colore, e della visione, ritorna
in immagini tipiche, legate all’esistenza di tre cartoline, di cui ci disse
nel 1991, anno di composizione, lo stesso autore: “Al momento di
comporle pensai alle immagini dei tre luoghi, la Provenza, l’Havana e
New York, visti attraverso le anacronistiche cartoline postali che
prima che fosse inventata la policromia a stampa erano colorate –
illuminate, come si diceva prima – a mano.
Queste stampe giustificano l’intenzione di ogni pezzo: la prima
mostrando due pastorelle provenzali, la seconda riflettendo l’Havana,
e la terza evocando lo spirito della musica marcatamente
nordamericana.”
Buon ascolto!
MF
Scarica