Il materiale qui presentato è pubblicato in maniera più organica in:
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INTRODUZIONE
ALL’IDEA DI QUANTO
Marco Giliberti
Dipartimento di Fisica Università degli Studi di Milano
Premessa
Finora abbiamo descritto sostanzialmente il comportamento di pennelli materiali ed
elettromagnetici in propagazione libera. Abbiamo supposto, cioè, che essi non interagiscano
con altri campi e non siano neppure autointeragenti. Per mezzo di alcuni esperimenti abbiamo
mostrato il comportamento ondulatorio di tali pennelli: la propagazione avviene in linea retta
ed è possibile in opportune, “semplici”, condizioni ritrovare i fenomeni di interferenza e
diffrazione tipici di una propagazione per onde.
Siamo stati anche capaci di fornire i primi cenni di una teoria ondulatoria non quantistica di
tali pennelli. Essenzialmente abbiamo visto che il comportamento ondulatorio si può
descrivere per mezzo dell’equazione di Klein-Gordon. Essa è un’equazione molto generale
che vale sia per pennelli materiali sia per pennelli elettromagnetici; per passare dalla
descrizione di un “tipo” di pennello ad un altro basta cambiare il valore di un parametro (il
parametro µ), che è diverso da zero (e variabile a seconda della sostanza) per i pennelli
materiali, ed è uguale a zero per i pennelli elettromagnetici. Il valore unificante di questa
equazione è molto grande; essa generalizza quanto intuito sperimentalmente: luce e materia in
propagazione libera si comportano in modo, per molti aspetti, simile.
L’idea centrale di questo capitolo è che questa analogia di comportamento che abbiamo
evidenziato tra i vari tipi di “sostanze” e la radiazione elettromagnetica, per quanto riguarda la
propagazione libera, permane, per molti aspetti, anche quando si prendano in considerazione
le interazioni con la nascita dell’idea di quanto.
In questo capitolo, in particolare, ci occuperemo di quello che succede se consideriamo, nella
nostra descrizione, le interazioni. Vedremo che è proprio in questo caso che nasce l’idea di
quanto e non si ha certamente bisogno di aspettare l’avvento della fisica quantistica e la
celebre spiegazione da parte di Planck dello spettro del corpo nero nel 1900 per trovare questa
idea.
Come tutti sanno il concetto di quanto (meglio di atomo), nacque nel V secolo a. C. per
mezzo di Democrito. Egli disse che gli atomi erano le parti più piccole della materia. Poi
Epicuro sostenne che gli atomi erano indivisibili (pur possedendo una struttura…). Epicuro
nel De Rerum Natura fece una grande propaganda a queste idee.
Nel Medioevo l’idea di atomo fu considerata materialistica e perciò stesso atea e fu
abbandonata.
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Il concetto moderno di quanto venne, poi, riportato in vita da Gassendi ma fu solo con Boyle
che l’idea di atomo fu per la prima volta connessa con la chimica; ed è proprio dalla chimica
che partiremo nel prossimo paragrafo.
Interazioni chimiche tra continui materiali
E’ la chimica che studia le interazioni materia–materia più tipiche del mondo che ci circonda.
Quando mettiamo insieme due sostanze, A e B, possono succedere molte cose diverse.
Vediamone alcune come esempio.
Può non succedere fondamentalmente niente: per esempio mettendo insieme a temperatura
ambiente della sabbia e della farina otteniamo una miscela eterogenea in cui i granelli di
sabbia e di farina sono ben separati gli uni dagli altri.
Possiamo avere delle miscele omogenee nelle quali i rapporti tra i componenti possono
variare moltissimo. Per esempio i gas sono, in generale, miscibili tra di loro in qualsiasi
rapporto. Basta pensare all’aria, formata da circa il 75.5% di azoto, dal 23.2% di ossigeno e
dall’1.3% di gas nobili. Ad esempio, possiamo aggiungere quanto vapore d’acqua, anidride
carbonica, ecc. vogliamo… e otteniamo, in un certo senso, sempre aria… Anche i liquidi
possono dar luogo a miscele omogenee di composizione variabile (possiamo miscelare acqua
e vino nelle proporzioni che vogliamo…). Mescolando acqua e zucchero possiamo formare
degli sciroppi di diversa composizione (ma in questo caso non di qualsiasi composizione
perché, quando è troppo, lo zucchero non si scioglie più).
In questi ultimi tre casi si capisce che le proprietà delle soluzioni (per esempio la dolcezza
dello sciroppo) variano con continuità. Discorso analogo si può fare anche per le leghe. In
tutti questi casi si ha una chimica dei continui materiali che per essere spiegata non ha
bisogno dell’idea di atomo, perché le sostanze si miscelano fra di loro in rapporti
estremamente variabili e le loro proprietà variano con continuità.
Possiamo avere, però, ed è questo il caso che qui ci interessa, delle reazioni chimiche, nelle
quali due o più sostanze interagiscono tra loro e danno luogo ad una sostanza del tutto
“nuova”. Verso la fine del ‘700 i chimici cominciarono a capire come gli elementi si
combinano a formare i composti nelle varie reazioni. Lavoisier enunciò la legge di
conservazione della massa nelle reazioni chimiche ed introdusse la definizione di elemento
come di “sostanza elementare”. Se avviene una reazione tra la sostanza A e la sostanza B,
allora sperimentalmente si possono mettere in evidenza alcune leggi fenomenologiche che, a
dispetto delle enorme diversità delle varie reazioni, sono poche e semplici. Eccole.
Legge delle proporzioni definite (Proust):
In qualsiasi campione di un certo composto, gli elementii che lo compongono sono presenti in
un rapporto in peso definito e costante.
Legge delle proporzioni multiple (Dalton):
Se due elementi A e B si combinano a formare diversi composti allora, fissato il peso di A, i
pesi di B nei diversi composti stanno tra loro in rapporti costituiti da numeri interi piccoli.
Legge dei volumi di combinazione (Gay Lussac):
Nelle reazioni tra gas nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, i volumi dei reagenti
e i volumi dei prodotti stanno tra loro in rapporti costituiti da numeri interi piccoli.
Legge degli equivalenti:
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Se due elementi A e B si combinano sia tra loro, sia con un terzo elemento C, allora le
quantità di A e B che si combinano con una quantità fissa di C si combinano anche tra loro.
Sono proprio queste leggi semplici che spingono a interpretare tutta la dinamica descritta
dalla chimica in termini di interazioni locali e universali tra opportuni quanti. Nascono così le
idee di atomo, di ione, di molecola. Attraverso l’uso di tali concetti la complessa dinamica
delle interazioni chimiche viene spiegata in termini semplici. Si capisce, così, che l’idea di
atomo nasce per descrivere le interazioni tra i continui materiali. Là dove le interazioni non ci
sono (per esempio nelle miscele tra gas) l’idea di atomo non serve; ma quando dobbiamo
trattare le interazioni chimiche diventa indispensabile. La materia viene, cioè, descritta come
un continuo, mentre le interazioni materia-materia risultano locali e quantizzate. Certamente i
chimici dei primi dell’800 pensavano che l’idea di atomo potesse essere utilizzata anche
quando non si dovevan0 descrivere interazioni tra sostanze; pensavano che la materia fosse
“fatta da” atomi e non che gli atomi “servissero” soltanto per costruire una teoria delle
interazioni chimiche. Ma noi qui vogliamo assumere un atteggiamento “minimalista” e
considerare le cose per “quelle che appaiono” senza allargarci troppo…
Diremo allora, un po’ rozzamente, che l’atomo è un comodo schema concettuale che i chimici
usano per descrivere le interazioni tra sostanze (più che un oggetto materiale, per quanto
piccolo, che compone la materia).
Interazione luce-materia
Abbiamo visto come alcune le leggi di interazione materia-materia sono studiate dalla
chimica. E’ interessante, però, osservare che la materia interagisce anche con la radiazione
elettromagnetica. Vista l’analogia di comportamento tra materia e radiazione, almeno per
quanto riguarda la propagazione libera, possiamo aspettarci che anche le leggi
fenomenologiche descriventi l’interazione tra luce e materia possano essere studiate e
interpretate dicendo che un atomo di materia ha interagito con un “atomo di luce”.
Ovviamente ci saranno situazioni in cui questa descrizione è inutile (per esempio nel caso
della riflessione della luce da parte di uno specchio o nel caso della rifrazione, nel quale la
teoria delle onde sembra sufficiente; un po’ come succedeva in chimica per le miscele…), ma
ci saranno anche altre situazioni nelle quali l’avvenuta interazione si manifesta in un
cambiamento della materia e della radiazione. Un esempio molto comune di quanto stiamo
dicendo è rappresentato dalla fotografia. Una lastra fotografica lasciata a contatto con la luce
viene da questa “impressionata”, subisce, cioè, una trasformazione chimica che rivela
l’immagine che vogliamo fotografare. Nonostante l’evidenza dell’analogia tra questo
processo e i tradizionali processi chimici materia-materia, non ci occuperemo qui di
fotografia, perché da altri esempi di interazione possiamo ricavare più facilmente alcune leggi
fenomenologiche che cercheremo di interpretare in base all’ipotesi “atomica” di interazione
radiazione-materia.
In effetti, analogamente a quanto avviene per le reazioni squisitamente chimiche, ha senso
schematizzare alcuni processi come segue:
sostanza elettromagnetica1 + sostanza materiale1 → sostanza elettromagnetica2 +
sostanza materiale2
E’ facile pensare alla materia come composta da “granellini” e alla luce come “composta” di
onde. Come stiamo ormai dicendo da un po’, questo modo di pensare è troppo ingenuo e va
completamente rivisto: i “granellini” che chiameremo quanti sono fondamentali nella
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descrizione delle interazioni, e questo vale sempre, che si tratti di radiazione elettromagnetica
o di materia. I quanti prenderanno nomi diversi a seconda della circostanza: i quanti delle
reazioni chimiche sono gli atomi o gli ioni, i quanti della radiazione elettromagnetica vengono
detti fotoni. Vogliamo mostrare quanto questa idea sia semplice e proficua.
Proviamo, quindi, a considerare due casi emblematici, quello dell’effetto fotoelettrico e
dell’effetto Compton; come le leggi fenomenologiche che li descrivono possano essere
facilmente interportate in termini di interazioni quantizzate.
Presentiamo queste ben note fenomenologie in maniera un po’ diversa da quanto viene fatto
dalle presentazioni usuali e perciò lo faremo con un occhio particolare alla sua traduzione
didattica. Non cercheremo di mettere in evidenza le difficoltà dell’elettrodinamica classica
nello spiegare questo effetto ma, anzi, faremo in modo che sia “naturale” interpretare il
fenomeno in termini quantistici, vista la sua analogia con le reazioni chimiche. Metteremo in
evidenza più che cosa un modello è capace di fare piuttosto che concentrarci su che cosa una
teoria non riesce a descrivere (vedremo in seguito, infatti, la difficoltà didattica e anche
storica di questa posizione…).
Effetto fotoelettrico
La fenomenologia dell’effetto presenta alcune analogie con quella delle interazioni chimiche:
due “sostanze”, quella della lastra materiale e quella della radiazione elettromagnetica di una
certa frequenza vengono in contatto e, nella reazione, si produce materia elettronica.
Il set-up sperimentale (di Lenard) per fare misure sull’effetto fotoelettrico è il seguente (fig.
5.1).
Fig. 5.1 Schema dell’apparato sperimentale di Lenard. Della luce monocromatica entra
nell'ampolla di vetro, all’interno della quale è fatto il vuoto, attraverso la finestra di quarzo e incide sul
fotocatodo. Un circuito potenziometrico permette di stabilire una differenza di potenziale variabile ∆V
(misurata dal voltmetro V) tra il fotocatodo e la placca; se della sostanza elettronica, emessa per
effetto fotoelettrico, raggiunge quest'ultima, il microamperometro A segna il passaggio di una corrente
i. Lenard fece varie esperienze misurando la corrente i al variare della differenza di potenziale ∆V,
dell'intensità i e della frequenza ν della luce incidente, mantenendo di volta in volta fisse due di
queste grandezze e variando la terza.
Non ci addentreremo nella spiegazione dettagliata di come effettuare gli esperimenti e
neppure indugeremo sui grafici relativi alle misure eseguite, del resto ben noti a tutti
(ovviamente a scuola andranno studiati in dettaglio…).
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Riportiamo qui, solo per comodità di discorso, le leggi fenomenologiche ricavate dagli
esperimenti di Lenard, facendo riferimento, per il loro significato, all’apparato sperimentale di
fig. 5.1.
1) Per ogni metallo esiste una frequenza caratteristica ν0 , detta frequenza di soglia, tale
che, se la radiazione incidente ha frequenza ν<ν0, qualunque sia l'intensità luminosa
I, l'emissione fotoelettrica non avviene.
2) Esiste una differenza di potenziale frenante Va negativa, detta potenziale di arresto,
tale che per differenze di potenziale ∆V<Va (quindi in modulo |∆V|>|Va|) non si
misura alcuna corrente nell'amperometro mentre, per differenze di potenziale
∆V>Va, si misura una corrente di placca, che aumenta fino a raggiungere un valore
costante che risulta indipendente da ∆V.
3) L'intensità di corrente i è proporzionale all'intensità luminosa I.
4) L'emissione fotoelettrica è praticamente immediata, qualunque sia l'intensità della
luce incidente; (il tempo di emissione è di circa 10-9 s anche per I molto basse).
Da 1) e 2) ricaviamo che la sostanza elettronica che esce dal fotocatodo ha energia cinetica
per unità di volume che varia da zero fino ad un valore massimo Ec,max = ρVa (avendo
indicato con ρ la densità di carica per unità di volum). Tale densità di energia cinetica
massima cresce al crescere di ν (ma è indipendente da I). Essa dipende, invece, dalla natura
dell'elettrodo, come si può verificare con elettrodi di materiali diversi.
Sempre in analogia a quanto facciamo in chimica, supponiamo, allora, che l’effetto
fotoelettrico possa essere spiegato dal fatto che, nell’interazione tra la luce incidente e la
materia, alcuni quanti di luce (l’analogo per la luce di quello che sono atomi e gli elettroni per
la materia) interagiscano con alcuni quanti materiali.
Cerchiamo ora di capire qualcosa di più di questi “ipotetici” quanti elettromagnetici. La
“sostanza” elettromagnetica è caratterizzata essenzialmente da energia, quantità di moto,
polarizzazione e frequenza. Ora, energia e quantità di moto sono grandezze fra loro
proporzionali (in modulo) e ci dicono, in qualche modo, “quanta” materia elettromagnetica è
in gioco; la frequenza è l’unica quantità che può determinare, per così dire, il “tipo” di
sostanza elettromagnetica in esame, mentre la polarizzazione sembra legata alla struttura
matematica del campo in esame, cioè al fatto che il campo studiato sia scalare, vettoriale,
spinoriale, tensoriale, ecc..
Volendo introdurre una quantizzazione della radiazione siamo, quindi, indotti a supporre che,
fissata “la sostanza”, cioè fissata la frequenza, la grandezza scambiata in maniera quantizzata
nell’interazione (ricordiamo che gli atomi di una sostanza sono tutti identici) sia l’energia (o
la quantità di moto che, tanto, è ad essa proporzionale). In altri termini supponiamo che
nell’interazione venga scambiato un quanto di energia E (e quantità di moto E/c) il cui valore
dipende dal tipo di sostanza elettromagnetica considerata (cioè dalla sua frequenza) e per il
quale, perciò, possiamo scrivere
E = f(ν)
essendo f una funzione per ora sconosciuta. Osserviamo che è la prima volta che nella nostra
presentazione didattica introduciamo l’idea di quanto della radiazione elettromagnetica; non
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abbiamo parlato dello spettro del corpo nero e della sua spiegazione ad opera di Planck,
perciò non abbiamo alcun motivo per supporre valida la formula E=hν; ad essa stiamo
arrivando per un'altra via.
L’effetto fotoelettrico può essere spiegato utilizzando le chiare parole di Einstein in uno
dei suoi famosi lavori del 1905. Adatteremo quanto da lui scritto alla nostra presentazione,
che è fatta “col senno di poi”; in pratica la variazione più importante che apporteremo alle sua
parole sarà la sostituzione di E=hν con E = f(ν). Ecco il discorso di Einstein, adattato ai nostri
scopi.
“Se ci si rifà all’idea che la luce scambi quanti di energia di intensità f(ν) (dove f è una
funzione da determinarsi) con quanti della materia elettronica, è possibile spiegare
l’emissione fotoelettrica nel seguente modo. I quanti di energia (chiamiamoli fotoni) vengono
ceduti ai quanti della materia elettronica (i già conosciuti “elettroni” della chimica).
L’energia di un elettrone sarà, quindi la somma dell’energia di legame –W0, che lo confina
nel metallo e dell’energia fornitagli da un fotone.
L’energia cinetica massima di ciascuno dei quanti della materia elettronica che fuoriescono
dal metallo sarà quindi:
Ec,max = f(ν) - W0“.
Utilizzando tale modello, si possono allora spiegare le leggi fenomenologiche ottenute da
Lenard.
I.
L'esistenza della soglia fotoelettrica si spiega pensando che se un fotone ha
frequenza ν tale che la sua energia
E = f(ν) < W0
allora esso non ha abbastanza energia per estrarre un elettrone; quindi, se f è una
funzione crescente, soltanto per frequenza maggiori di un certa frequenza ν0
(frequenza di soglia) possiamo avere l'emissione.
II.
Se ogni fotone cede tutta la sua energia ad un solo elettrone, allora l'energia
cinetica massima degli elettroni emessi non può dipendere dall'intensità
luminosa ma solo dall’energia del fotone; inoltre, all'aumentare della differenza di
potenziale ∆V (positiva), aumenta la quantità di sostanza elettronica che, pur
emessa in varie direzioni, raggiunge l'anodo, fino a quando vi arriva tutta.
Osserviamo ancora che si hanno potenziali d'arresto Va che diventano sempre più
negativi all'aumentare della frequenza della luce incidente.
III.
L'intensità di corrente è proporzionale alla quantità di carica della materia
elettronica che arriva sulla placca nell'unità di tempo, questa è proporzionale al
numero di elettroni che hanno interagito scambiando sufficiente energia con i
fotoni che interagiscono sulla piastra; numero che, a sua volta, è proporzionale
all’intensità luminosa. Questo spiega perché l’intensità di corrente è proporzionale
all’intensità luminosa.
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IV.
Essendo l'emissione dovuta all'assorbimento di un singolo fotone essa è
praticamente istantanea.
Una volta spiegati i dati sperimentali è possibile passare alle previsioni che può dare il
modello (aspetto fondamentale per una “buona” fisica).
È possibile calcolare Ec,max applicando una differenza di potenziale frenante fra l’anodo e il
catodo dell'apparato di Lenard e misurare per quale valore di Va, (potenziale d'arresto) non si
ha più passaggio di corrente. Infatti per tale valore si ha;
Ec,max = eVa
e quindi, in base al modello risulta:
Va =
f (ν ) f (ν 0 )
−
e
e
(5.1)
Allora, se la teoria qui elaborata è giusta, la curva del potenziale d'arresto in funzione della
frequenza della luce incidente deve essere la stessa per tutti i metalli, a parte il valore
dell’ordinata all’origine. Il controllo sperimentale della precedente relazione è, quindi, un test
estremamente significativo della validità della teoria. Un controllo definitivo fu portato a
termine da Millikan nel 1915, dopo dieci anni di duro lavoro. Egli trovò effettivamente che la
funzione f(ν) è universale e, in particolare, è una retta che, per tutte sostanze usate come
fotocatodo, ha lo stesso coefficiente angolare, (fig. 5.2).
Fig. 5.2 Potenziale di arresto (in volt) in funzione della frequenza della luce incidente. Tratto dal
lavoro originale di Millikan; Phys. Rev., 7, 362 (1916).
Dalla (5.1), e dalle misure ora descritte, si ha allora
f(ν) = hν
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dove h è una costante alla quale, dopo gli esperimenti di Millikan, possiamo attribuire il
valore di circa 6,6 x 10-34 Js.
Il modello di interazione quantizzata ha superato una prima prova; cioè ha spiegato i dati
sperimentali sulla fenomenologia dell’effetto fotoelettrico e ha previsto correttamente
l’esistenza di una funzione universale che lega il potenziale d’arresto alla frequenza della luce
incidente. L’idea di fotone prende corpo: serve a interpretare le leggi fenomenologiche
dell’interazione luce-materia, tipiche dell’effetto fotoelettrico e, come fa ogni buona idea,
predice un fatto nuovo: l’indipendenza della funzione f dal materiale del fotocatodo.
Osserviamo, ora, che le considerazioni fatte nel modello appena presentato sono incomplete:
abbiamo trascurato di considerare la quantità di moto del fotone. Per come abbiamo introdotto
l’idea di fotone, sembra, infatti, del tutto ragionevole, anzi necessario, attribuire ad un fotone
di energia E anche una quantità di moto di modulo p=E/c, essendo questo il legame generale
tra energia e quantità di moto nel caso del campo elettromagnetico. Nel lavoro di Einstein del
1905 di questo fatto non si tiene conto. La stessa cosa si fa, in generale, nella maggior parte
dei manuali scolastici. E’ ben vedere triste come i principi di conservazione, così
fondamentali sia nella fisica classica che nella fisica quantistica ricevano così poca
considerazione nella presentazione didattica di quest’ultima…
Proviamo noi ad applicare le leggi di conservazione dell’energia e della quantità di moto
all’interazione locale elettrone fotone. Indichiamo con un apice le grandezze fisiche dopo
l’interazione e senza apice quelle prima. Il pedice e indichi le quantità relative all’elettrone.
Solo per semplicità consideriamo il caso in cui risulti pe=0. Si ha così (utilizzando la formula
relativistica dell’energia):
 p 'e = p

 E 'e = mc 2 + E
(5.2)
Per la conservazione della quantità di moto si ha poi:
p 'e =
E
c
e quindi
Ee'
2
=
quadrato dell'espressione
relativistica dell'energia
m 2 c 4 + p 'e 2 c 2
=
utilizzando la relazione
precedente
m 2c 4 + E 2
(5.3)
Considerando la seconda delle (5.2) e quadrando si ha, invece:
2
E e' = m 2 c 4 + E 2 + 2mc 2 E
che risulta incompatibile con l'equazione (5.3)! A meno che non risulti E=0 (caso in cui non si
ha nemmeno l’interazione).
Il problema nasce dal fatto che l'interazione è a tre “corpi”: fotone, elettrone, lamina a cui è
legato l'elettrone; e non a due! E' la lamina a cui appartiene l'elettrone che rinculando
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bilancia la quantità di moto dell'elettrone. Esso ha, infatti, una massa molto maggiore di
quella dell'elettrone e quindi nell'interazione si "porta via" buona parte della quantità di moto
totale ma pochissima energia cinetica. Si capisce quindi che è essenziale, perché
l’interpretazione dell'effetto fotoelettrico sia consistente, che l'elettrone possa essere
considerato legato e, quindi, che le energie del fotone incidente siano dello stesso ordine di
grandezza di quelle di legame. A questo punto non possiamo esimerci da un’osservazione
didattica: ma come faranno a capire, degli studenti che, negli urti “classici” hanno utilizzato i
principi di conservazione e invece, nel caso quantistico, non lo fanno… e pensare che anche
senza eseguire calcoli le cose non tornano…: nella descrizione che diamo di solito la luce
incide dall’alto sulla piastra metallica… e gli elettroni invece di uscire verso il basso
“sospinti” dal fotone, escono verso l’alto!
Vogliamo fare, ora, alcune considerazioni che servono a rinforzare le idee espresse dal nostro
modello di interazione quantizzata, alcune della quali legate alla discussione di
fenomenologie “vicine” all’effetto fotoelettrico. Per non appesantire il discorso, che ormai
crediamo sufficientemente chiaro, useremo qui di seguito una terminologia tradizionale e
parleremo in termini di elettroni, fotoni ecc.
1.
Per energie minori di quelle di legame e quindi per frequenze minori di quella di
soglia (soprattutto per i semiconduttori), si può avere un aumento del numero di
elettroni di conduzione, se i fotoni assorbiti hanno energia sufficiente a portare gli
elettroni nella banda di conduzione, ma insufficiente a farli uscire dal metallo.
Questo fenomeno si chiama fotoconducibilità.
2.
Un metallo colpito dalla luce ne riflette buona parte mentre il metallo in generale
si scalda (basta pensare ad un metallo esposto alla luce solare) a causa dell'energia
che è trasferita dalla luce al metallo nel processo di assorbimento.
3.
Se invece di usare un metallo usiamo una sostanza trasparente, la luce viene quasi
completamente trasmessa e, anche in questo caso, solo pochi fotoni intervengono
nell'effetto fotoelettrico.
4.
E' bene notare i valori tipici delle grandezze in gioco e cioè
O
Va ≈ 1 − 4V; ν ≈ 1014 Hz; λ ≈ 4000 A W ≈ 1eV
5.
Se il quadro teorico che abbiamo costruito è esatto per intensità elevate della
radiazione incidente ci possiamo aspettare effetti dell'assorbimento successivo
multiplo dei fotoni. E, infatti, è così; il gruppo di Saclay ha osservato dei rari
fenomeni di ionizzazione dovuti all'assorbimento multiplo di fotoni provenienti da
un laser ad elevatissima intensità. Con fotoni di 1,17 eV e intensità da 1013 a
1020 W/m2 si sono notati processi di assorbimento multiplo, che hanno portato
alla ionizzazione, coinvolgenti fino a 22 fotoni.
Per energie molto maggiori di quelle dei fotoni della radiazione ultravioletta, ci aspettiamo
effetti diversi, anzi, la bontà della nostra modellizzazione delle interazioni tramite scambio di
quanti ci spinge a chiederci che cosa succeda quando le frequenze della radiazione incidente
non corrispondano più a quelle della luce visibile o del vicino ultravioletto ma siano molto
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maggiori di queste (10.000 o 100.000 volte, ad esempio)… come nel caso dell’effetto
Compton.
Effetto Compton
Nella descrizione di questo effetto utilizzeremo una terminologia “mista”: per lo più
tradizionale, per brevità, per quello che riguarda l’elettrone (nel senso che non staremo quasi
mai a parlare di quanto del campo elettronico, parleremo più semplicemente di “elettrone”
anche se intenderemo come oggetto primario sempre il campo e l’elettrone come esistente
solo al momento dell’interazione considerata); per lo più ondulatoria, per quello che riguarda
la descrizione del campo elettromagnetico (ricordiamo che vogliamo dare consistenza all’idea
di fotone e perciò useremo fin dove è possibile una terminologia relativa ad un continuo, per
arrivare ad introdurre l’idea di fotone solo quando è necessario).
Come è stato osservato discutendo l'effetto fotoelettrico, un elettrone “libero”, non può
interagire con un'onda elettromagnetica assorbendone un fotone, infatti questo avverrebbe in
violazione del principio di conservazione della quantità di moto. Da un punto di vista
sperimentale questo significa che se i fotoni della radiazione incidente hanno energia
maggiore, diciamo, di 1keV, cioè una energia molto maggiore dell'energia di legame degli
elettroni, l'effetto fotoelettrico non può avvenire, almeno con le modalità con cui è stato
precedentemente descritto. Infatti, in tale caso, gli elettroni non sono sufficientemente
accoppiati al reticolo cristallino e si possono, invece, considerare praticamente liberi. E’
ragionevole supporre, allora, che gli elettroni vengano ugualmente “strappati” dal metallo (e
che in questo senso l’effetto fotoelettrico si manifesti certamente) ma la radiazione interagente
non sia più assorbita; ci si chiede, allora, che cosa accada alla radiazione elettromagnetica.
Qui si possono seguire varie strategie didattiche, seguiamone una abbastanza tradizionale
partendo dalla descrizione dell’esperimento e poi passando alla sua spiegazione (altrettanto
bene si potrebbe vedere l’intero effetto Compton come una previsione della teoria a fotoni
dell’interazione della radiazione elettromagnetica).
Eseguiamo, allora, un esperimento con un fascio di raggi X (i cui fotoni hanno energie
dell’ordine di una decina di keV) inviato contro un bersaglio di grafite e misuriamo la
lunghezza d’onda degli X diffusi ad un angolo θ dalla direzione di incidenza, secondo il
set-up sperimentale mostrato in fig. 5.3.
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Marco Giliberti, Elementi per una didattica della Fisica Quantistica, CUSL, Milano (2007).
Rivelatore
Sorgente
di X
X incidenti
θ
X diffusi
Fig. 5.3 Rappresentazione schematica dell’effetto Compton. In grigio scuro il pennello di X
incidenti sulla lamina di grafite; in grigio chiaro gli X diffusi.
Eseguendo l’esperimento si trova che, oltre ad una radiazione avente lunghezza d'onda λ
uguale a quella della radiazione incidente, ve ne è anche un'altra, con una lunghezza d'onda λ’
maggiore di λ e dipendente da θ (fig. 5.4).
Fig. 5.4 Intensità dei raggi X diffusi in funzione della lunghezza d’onda a vari angoli.
Tratto da A. Compton, Phys. Rev. 22, 409 (1923); la figura è a pag. 411.
Questo effetto prende il nome di effetto Compton dal nome del fisico che nel 1923 per
primo lo studiò e lo interpretò.
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Per capire quanto avviene supponiamo che un'onda elettromagnetica subisca un processo di
scattering da un elettrone di massa m inizialmente in quiete; indichiamo poi con E, p e E', p'
rispettivamente l'energia e la quantità di moto, della “porzione” della perturbazione
elettromagnetica che viene deviata ad un certo angolo, prima e dopo lo scattering e con E'm
e p'm l'energia e la quantità di moto dell’elettrone dopo lo scattering (quelle iniziali si
suppongono, per semplicità, nulle).
Allora, dai principi di conservazione dell'energia e della quantità di si ha :
Fig. 5.5
 E = E' + Em

 p = p' + p' m
Non ci sembra qui utile eseguire esplicitamente i calcoli, che si possono eseguire molto
facilmente. Ci interessa, invece sapere che con questi semplici calcoli si arriva alla
conclusione
1 1
1
(1 − cosθ ) .
− =
E ' E mc 2
controllare
(5.3)
L’analisi è stata fin qui condotta utilizzando solo i principi di conservazione dell’energia e
della quantità di moto ed abbiamo trovato un’equazione per la perdita di energia della
radiazione incidente.
Ricordando ora le conclusioni a cui siamo pervenuti studiando l’effetto fotoelettrico, è
possibile supporre che la radiazione elettromagnetica interagisca con l’elettrone di massa m
tramite un solo fotone e scrivere pertanto, con ovvia simbologia:
E = hν; E’ = hν’
e ottenere quindi dalla (5.3):
1 1
h
− =
(1 − cos θ )
ν ' ν mc 2
ovvero, in termini di lunghezza d’onda:
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λ '− λ =
h
(1 − cos θ ) .
mc
Cosicché la radiazione, diffusa ad un angolo θ dalla direzione di incidenza, ha una lunghezza
d’onda λ(θ) data da:
λ (θ ) = λ +
h
(1 − cos θ )
mc
Niente di quanto abbiano fin qui discusso dipende in modo esplicito dalle proprietà
dell’elettrone e possiamo, perciò, riferirlo ad un qualsiasi quanto di massa m (purché sia in
grado di diffondere la luce).
Il significato fisico di quanto visto fin qui è semplice ma conviene esplicitarlo nuovamente.
Una radiazione monocromatica di lunghezza d'onda λ che viene diffusa da un quanto “libero”
di massa m subisce una variazione della sua lunghezza d'onda che non dipende da λ ma solo
da θ e da m. Più precisamente la sua lunghezza d’onda aumenta all’aumentare dell’angolo di
diffusione θ e la sua massima variazione si ha per θ = 180 ° e vale:
∆λ max =
2h
.
mc
Se il quanto è un elettrone si ha:
0
h
≈ 0,024 A
mc
0
(e quindi in tal caso ∆λmax ≈ 0,048 A ) mentre se il quanto è un nucleo atomico (o anche
qualcosa di più massivo) si ha in pratica:
h
≈0
mc
e quindi:
∆λ ≈ 0.
La quantità h/mc è detta lunghezza Compton del quanto di massa m. Questo è solo un nome e
non ha nulla a che vedere con le cosiddette proprietà ondulatorie della particella; è però
interessante riprendere un’osservazione fatta nel capitolo precedente per dire che la lunghezza
Compton di un quanto coincide sperimentalmente con l’inverso della costante µ presente
nell’equazione dei campi materiali, qualora espressa nelle unità di misura del Sistema
Internazionale. Ecco così che il significato di tale costante diventa ora chiaro: essa rappresenta
l’inverso della massa del quanto relativo al campo!
Possiamo, ora, spiegare i risultati dell'esperimento descritto precedentemente. La radiazione
incidente sulla grafite può interagire con elettroni vincolati al reticolo cristallino o
direttamente con nuclei atomici, oppure con elettroni liberi; nei primi due casi la massa che
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compare nell'espressione h/mc è molto grande e questo dà una variazione di lunghezza d’onda
della radiazione ∆λ = 0; nel secondo caso, invece, tale massa è molto più piccola e così
otteniamo:
0
∆λ ≈ 0,024 A(1 − cos θ ) ,
relazione che è in ottimo accordo con le osservazioni sperimentali.
Per quanto visto fin qui, possiamo anche capire come mai la luce, riflessa da un metallo in
tutte le direzioni, non presenti variazioni di lunghezza d'onda (cioè abbia lo stesso colore di
quella incidente). Ciò accade, infatti, perché la radiazione, che non dà luogo all'effetto
fotoelettrico, viene diffusa dagli elettroni, che in questo caso, per le energie in gioco, sono
legati al reticolo cristallino; in tal caso la massa che compare a denominatore nell'espressione
h/mc è la massa dell'intero metallo e allora, come abbiamo visto, risulterà ∆λ ≈ 0.
Come sappiamo, però, l’interpretazione di risultati già esistenti, pur essendo di grande
importanza, non è sufficiente, da sola, a convincere della bontà della “spiegazione”, molto più
convincente risulta il modello proposto se riesce a prevedere qualcosa di nuovo. E’
interessante notare che l’interpretazione qui fornita dello scattering di una radiazione
elettromagnetica da parte di un elettrone libero fornisce anche una previsione. Lo studio è
stato concentrato infatti sulla variazione di energia della radiazione. Le stesse equazioni usate,
però, forniscono anche informazioni sulla quantità di moto dell’elettrone dopo lo scattering.
Alcuni calcoli, che per semplicità omettiamo, forniscono un collegamento tra l’angolo θ di cui
sopra e l’angolo φ, formato tra la direzione della quantità di moto acquistata dall’elettrone e la
direzione della radiazione incidente, come mostrato in fig. 5.6.
Fig. 5.6
Abbiamo così:
tg
θ
2
=−
1
.
h 

1 +
tgφ
 mcλ 
Un esperimento per verificare la precedente relazione fu fatto da Compton e Simon nel '25ii.
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Essi controllarono che l'elettrone colpito dai raggi X ricevesse proprio un impulso nella
direzione prevista dai principi di conservazione dell'energia e della quantità di moto. Il
risultato del difficile esperimento, che fruttò il premio Nobel a Compton nel 1927, fu
convincente: la teoria forniva i risultati corretti! Ulteriori esperimenti furono fatti da H. Crane,
E. Gaerttner e J. Turin nel 1936. Essi, al posto degli X, utilizzarono raggi γ con fotoni di
energia compresa tra 0.5 e 2.6 MeV, e, come bersaglio della celluloide. Anche in questo caso
i risultati furono in buon accordo con quanto previsto dal modello di Compton.
Altri esempi di interazioni radiazione-materia
Per illustrare quanto detto sopra diamo ora, senza alcun approfondimento, altri due esempi di
processi importanti di interazione radiazione-materia, tipo reazione chimica. Proviamo a
descriverli utilizzando l’idea di fotone come “atomo di luce”; non lo abbiamo ancora
introdotto in modo “ragionevole” (ma lo faremo prestissimo); per ora immaginiamo soltanto
che ogni “tipo” di sostanza elettromagnetica interagisca tramite dei quanti, indicati con la
lettera greca γ, detti fotoni.
Es.1 Alcuni processi importanti d'interazione tra la radiazione e la materia vanno in generale
sotto il nome di fotosintesi. Principalmente in questi processi si ha la formazione di
carboidrati, dalla sintesi di biossido di carbonio e di acqua, prodotta dall'assorbimento di
fotoni mediato da un composto, chiamato clorofilla. In simboli si può così scrivere:
6CO2 + 6H2O + nγ
C6H12O6 + 6O6.
Es. 2 Un altro processo importante è la dissociazione dell'ossigeno atmosferico dovuto
O
O
all'assorbimento di radiazioni ultraviolette di lunghezza d'onda tra i 1000 A e 2400 A (che,
come si capirà facilmente in seguito, è corrispondente a fotoni di energia compresa tra i 5,2eV
e i 7,8eV). Esso si può schematizzare come segue:
O2 + γ O + O
L'ossigeno atomico si combina poi con l'ossigeno molecolare e forma l'ozono O3, il quale, a
sua volta, si dissocia interagendo con la radiazione ultravioletti di lunghezza d'onda compresa
O
O
tra i 2400 A e i 3600 A (corrispondenti a fotoni di energia tra i 3,4 eV e i 5,2 eV); in simboli:
O3 + γ O + O2.
O
Queste due reazioni assorbono praticamente tutte le radiazioni ultraviolette tra i 1600 A e i
O
3600 A che provengono dal sole, impedendo che raggiungano la Terra se non in piccole
quantità.
Osserviamo, infine, che la struttura a quanti delle interazioni, oltre a fornire un’eccellente
base per l’interpretazione delle reazioni chimiche e delle interazioni radiazione-materia,
svolge un ruolo importante anche nella teoria cinetica dei gas. Allora, spingendo ancora in
avanti l’analogia di comportamento tra materia e radiazione, ci possiamo aspettare che anche
nella spiegazioni della fenomenologia presentata da un gas “di luce” contenuto in una cavità
la struttura quantistica sia importante. In effetti è proprio così, come ben si capisce dal famoso
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problema della radiazione di corpo nero (ma su questa importante questione non abbiamo
tempo di scrivere a sufficienza in questo corso).
L’analogia tra gas materiale e gas elettromagnetico è, per certi aspetti, così stretta che si
possono anche considerare in modo semplice cicli termodinamici per il gas di radiazioneiii…
Aspetti statistici dell’interazione quantistica e relazioni di De Broglie
Il fatto che un campo ondulatorio presenti nelle interazioni aspetti quantistici ci spinge a
rileggere alcune osservazioni fenomenologiche tenendo conto di questo fatto. Per esempio il
legame che avevamo già visto tra lunghezza d’onda di un pennello di elettroni e potenziale
accelerante può essere riletto, a questo punto, come un legame tra la lunghezza d’onda e la
quantità di moto o l’energia degli elettroni con il quale interagisce il pennello.
Già dalla spiegazione data da Einstein dell’effetto fotoelettrico e dal successivo lavoro di
Millikan, così come anche dai lavori relativi all’effetto Compton, sappiamo infatti che i quanti
di un campo elettromagnetico hanno energia e quantità di moto legate alla pulsazione e al
numero d’onda della radiazione dalle relazioni:
E = hω ;
p = hk
(5.4)
Risulta così naturale generalizzare tali relazioni e pensare che valgano per qualunque tipo di
campo, elettromagnetico o materiale. Siamo così giunti alle ben note relazioni di De Broglie.
Vale la pena, a questo punto fare un’osservazione storica, che rende anche giustizia del
fondamentale rapporto dialettico tra teoria ed esperimento: come abbiamo detto nel cap. 1, il
comportamento ondulatorio della materia era stato previsto teoricamente da De Broglie, nella
sua tesi di dottorato nel 1924iv, ben prima che fosse osservato sperimentalmente. E’, questo,
un bell’esempio di come considerazioni di “simmetria” (in questo caso simmetria di
“comportamento” tra materia e radiazione per quanto riguarda la validità delle relazioni (5.4))
abbiano in passato e continuino tuttora ad essere una guida per la ricerca in Fisica Teorica.
Noi, però, in questo approccio seguiamo un’altra strada…
Non è difficile, infatti, spiegare il legame sperimentale che lega la lunghezza d’onda del
campo elettronico alla differenza di potenziale accelerante pensando all’energia acquistata da
un elettrone sottoposto ad una certa differenza di potenziale e poi utilizzando le precedenti
relazioni.
Per fare un esempio per maggiore concretezza osserviamo che, utilizzando le formule
precedenti, si trova, ad esempio, che a pennelli elettronici di lunghezza d’onda dell’ordine di
0,1 nm, cioè lo stesso ordine di grandezza della separazione degli atomi in un cristallo,
possiamo associare quanti (elettroni) aventi velocità dell’ordine di un centesimo della velocità
della luce. Ecco perché, storicamente, i piani reticolari dei cristalli sono stati usati (come già
accadde per i raggi X) come reticoli di diffrazione per le onde “elettroniche”v.
A proposito delle relazioni di De Broglie e del legame tra aspetti corpuscolari aspetti
ondulatori si parla spesso di dualismo onda corpuscolo. Questo è un modo di esprimersi che
genera confusione. Infatti, da un punto di vista come il nostro, gli aspetti corpuscolari sono
presenti solo nelle interazioni e il propagarsi libero del campo è sempre descritto in termini
ondulatori.
Osserviamo che la rivelazione di un quanto ha, però, un carattere aleatorio non esattamente
riproducibile, neppure ripreparando identicamente la situazione iniziale.
Supponiamo, ad esempio, di descrivere l’esperimento della doppia fenditura effettuato a
singolo quanto. La ripetizione del singolo atto sperimentale, accensione dell’apparato e
successiva rivelazione di un quanto sullo schermo, una volta ripetuta pur nelle identiche
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condizioni non fornisce lo stesso risultato; cioè il quanto non viene rivelato nella stessa
posizione nel quale era stato rivelato il quanto precedente e, neppure, si può prevedere con
esattezza dove verrà rivelato di volta in volta. E’ solo dopo un numero molto grande di
ripetizioni che notiamo una distribuzione statistica delle rivelazioni che tende a stabilizzarsi
(che cioè è riproducibile) e che è quella su cui possiamo costruire una teoria. L’arrivo di un
singolo quanto non può mettere in evidenza le frange di interferenza e, pertanto, non mostra
gli aspetti ondulatori sopra citati, che nella descrizione probabilistica data dalla fisica
quantistica sono legati alla natura statistica della descrizione.
Questo è un fatto importante. La fisica delle interazioni elementari è intrinsecamente statistica
e la rivelazione di un quanto viene descritta in termini probabilistici.
Dal punto di vista della meccanica quantistica, come già detto, gli stessi aspetti ondulatori
sono aspetti statistici che emergono dalla ripetizione un numero molto grande di volte di un
singolo atto sperimentale. L’elemento essenziale di questa descrizione è la funzione d’onda,
che è collegata agli aspetti statistici della teoria e che soddisfa un’equazione delle onde.
Paradossi di una teoria dei quanti troppo ingenua
In questo paragrafo vogliamo dare alcune brevi indicazioni sul perché è necessario avere una
teoria di campo e perché il concetto di particella non sembra veramente quello centrale.
Fino ad ora abbiamo fatto un percorso molto limitato, che fondamentalmente si riassume in
due sole cose. La prima è che qualunque propagazione libera, di pennelli materiali e non
materiali, è regolata da un’equazione delle onde; la seconda è che, quando delle sostanze
interagiscono tra loro, cioè quando questi campi materiali o elettromagnetici interagiscono gli
uni con gli altri, l’interazione è descritta in termini quantistici.
Quello di cui vogliamo discutere adesso è la seguente cosa e cioè: perché non è corretto dire
che un pennello di luce è fatto da fotoni, un pennello elettronico è fatto da elettroni, visto che
ci viene così naturale pensarlo e visto che per descrivere le interazioni dobbiamo introdurre i
quanti? Perché questo pensiero così naturale non va bene? Per capirlo analizziamo alcuni
importanti fatti sperimentali e mostriamo gli aspetti paradossali di un’idea così ingenua.
Paradosso della doppia fenditura
Iniziamo con il famoso esperimento della doppia fenditura. Il significato concettuale
dell’esperimento sta nel mettere in luce le grosse limitazioni dell’interpretazione del quanto
come oggetto.
Consideriamo un pennello materiale o un pennello elettromagnetico coerente che, emesso da
una opportuna sorgente, va a incidere su una doppia fenditura. Per esempio, se la sorgente è
un piccolo laser, quello che osserviamo è che la luce, diffratta da ciascuna fenditura, mostra le
tipiche frange di interferenza sullo schermo posto al di là delle fenditure.
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Fig. 5.7 Diffrazione da una doppia fenditure
Adesso immaginiamo di diminuire moltissimo l’intensità della luce; quello che vediamo sullo
schermo non è un’immagine sbiadita e diffusa delle frange di interferenza ma, invece,
vediamo dei singoli puntini luminosi. Prima vediamo un puntino, poi un altro puntino, poi un
altro ancora… e così di seguito. Alla fine vediamo che i puntini si sono distribuiti sullo
schermo in modo da creare la figura delle frange di interferenza classiche, che si vedevano
con luce sufficientemente intensa.
Se al posto della luce consideriamo un pennello elettronico, a bassissima intensità, che incide
su un biprisma elettronico otteniamo una situazione molto simile. Sul rivelatore posto dopo il
biprisma vediamo un puntino per volta, cioè un elettrone per volta (Tonomura, 1989,
precedentemente citato), fig. 5.8. Stiamo qui riconsiderando gli esperimenti col biprisma,
presentati nel cap. 3 a proposito del comportamento ondulatorio della materia e li stiamo
leggendo, così come sono stati realizzati dai loro autori, come esperimenti a singolo quanto.
1 elettrone
3 elettroni
5 elettrone
7 elettroni
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13 elettroni
sempre più elettroni
50.000 elettroni
Fig. 5.8
Tre elettroni…, cinque elettroni…, sette elettroni…, 13 elettroni… aumentiamo il numero
degli arrivi, aspettiamo… alla fine cominciano a vedersi davvero le frange quando ci sono
migliaia di elettroni, e con 50.000 elettroni le frange di interferenza sono ben distinguibili. Se
rifacciamo l’esperimento ripartendo da capo, che cosa troviamo? Il primo elettrone sullo
schermo non occupa la posizione che aveva il primo elettrone nell’esperimento precedente e,
così, in generale sarà per la rivelazione di tutti gli elettroni sullo schermo. Ma alla fine, dopo
un numero sufficiente di rivelazioni, appariranno le frange di interferenza con la stessa
struttura, dimensioni e posizione di quelle ottenute precedentemente.
Notiamo così uno dei primi aspetti importanti della teoria quantistica della materia e della
radiazione: il suo carattere statistico. Nella ripetizione di un singolo atto sperimentale non
saremo, in generale, in grado di predire dove verrà rivelato un quanto ma, ripetendo un
numero sufficientemente grande di volte l’atto sperimentale, otterremo una distribuzione degli
arrivi ripetibile e prevedibile: una regolarità statistica. Sarà proprio su questa distribuzione
statistica che la teoria saprà fare previsioni.
Tornando ora al tema principale del nostro discorso, che cosa ha di veramente strano e
paradossale questo esperimento, tale da esser in un qualche senso il prototipo di tutti gli
esperimenti che mettono in luce gli aspetti più stravaganti, tipici della fisica quantistica?
Immaginiamo, tanto per rendere concreto il discorso, di eseguire l’esperimento con un
pennello elettronico di così bassa intensità da avere, di volta in volta un solo elettrone sullo
schermo. Che cosa si è tentati di pensare? Che quando un puntino sullo schermo segnala un
elettrone allora potremmo pensare che un elettrone è precedentemente uscito dal cannoncino
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elettronico, ha viaggiato nello spazio circostante, è passato da una delle due fenditure, ed è
arrivato sullo schermo. Questa interpretazione non è così naturale come sembra. Infatti se
rifacciamo l’esperimento chiudendo una delle fenditure (per esempio chiudendo quella che
abbiamo chiamato fenditura “2”, fig. 5.9), troviamo che gli elettroni vengono rivelati sullo
schermo in punti tutti vicini tra loro e che sono fondamentalmente di fronte alla fenditura 1 (a
parte alcuni effetti di “diffrazione”). Analogamente, se chiudiamo la fenditura “1” e lasciamo
aperta la “2”, troviamo che gli elettroni sono tutti raggruppati di fronte alla fenditura “2”.
Allora, se gli elettroni passassero da una fenditura oppure dall’altra, l’effetto ottenuto avendo
prima chiusa una fenditura e poi chiusa l’altra e poi sommando i risultati ottenuti, sarebbe
uguale a quello ottenuto con entrambe le fenditure aperte; pur di essere stati accorti ad
utilizzare in ciascun esperimento un fascio avente la stessa intensità; di far durare
l’esperimento per lo stesso intervallo di tempo, per ognuno dei due casi, con le due fenditure
aperte a turno, e per il caso con le due fenditure aperte entrambe contemporaneamente; e pur
di esser stati così accorti da mandare un solo elettrone per volta nell’apparato, così da non
avere effetti dovuti all’eventuale, possibile, interazione degli elettroni fra loro.
Gli effetti, però, sono differenti: l’esperimento effettuato con entrambe le fenditure aperte
contemporaneamente fornisce risultati diversi da quelli ottenuti sommando i risultati con le
fenditure aperte una alla volta. Infatti, nel primo caso si ha la comparsa delle frange di
interferenza e nel secondo no. In un certo senso ancora più strano è il fatto che quando sono
aperte entrambe le fenditure ci siano dei punti in cui non arrivano elettroni (ci riferiamo ai
minimi della figura di interferenza); punti che invece sono raggiunti dagli elettroni quando le
fenditure sono aperte a turno; è come se le due possibilità offerte agli elettroni, di passare
dalla fenditura “1” o dalla “2” dessero luogo ad una impossibilità!
Fig. 5.9 In sequenza: intensità della luce diffratta separatamente da ciascuna fenditura; intensità
della luce diffratta da due fenditure contemporaneamente sovrapposta alla somma
delle due intensità precedenti.
La conclusione di questo discorso è che e difficile pensare che gli elettroni passino per una o
l’altra delle due fenditure. D’altra parte gli elettroni non passano nemmeno per entrambe le
fenditure contemporaneamente, tanto è vero che se mettessimo due rivelatori, ognuno
immediatamente dopo ciascuna delle fenditure, vedremmo che sempre uno soltanto dei due
rivelatori darebbe un segnale. Non succede mai che l’elettrone si divida a metà. Quindi
l’elettrone non è passato dalla fenditura “1”, non è passato dalla fenditura “2”, non è neppure
passato fuori dalle fenditure, perché mettendo dei rivelatori attorno all’apparato vediamo che
non danno mai un segnale, e non è passato da entrambe. Non è passato da entrambe perché
non scattano mai i rivelatori contemporaneamente. Non è passato fuori perché mai nessuno
dei rivelatori messi fuori è scattato, e non è passato dalla fenditura “1” o dalla “2” perché
altrimenti la figura che otterremmo quando è aperta solo una delle fenditure, sommata a quella
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che avremmo se fosse aperta solo l’altra sarebbe uguale alla figura che otterremmo quando
sono aperte tutte e due.
Quindi, se vogliamo proprio pensare che l’oggetto “elettrone” esca dalla sorgente e arrivi al
rivelatore, sappiamo anche, però, che questo oggetto non passa dalla fenditura “1”, non passa
dalla “2”, non passa fuori e non passa da tutte e due! E’ questo un oggetto dotato di una
cinematica “sensata”? Non ci sembra poi tanto... Per la verità è possibile fornire una
interpretazione di questo esperimento (fondamentalmente dovuta a David Bohm) nella quale
gli elettroni effettivamente si muovono ciascuno lungo un sua traiettoria e, ciononostante
sullo schermo viene prodotta una figura di interferenza (fig. 5.10)
SCHERMO
Fig 5.10 Traiettorie alla Bohm nel caso della doppia fenditura
Non abbiamo certamente lo spazio per discutere le idee di Bohm (che sviluppano alcuni lavori
di De Broglie); diremo solo che l’idea fondamentale è che le particelle, per esempio gli
elettroni, “esistano realmente” (perdonatemi la rozzezza) e abbiamo una posizione ben
definita (che diventa una variabile nascosta, cioè non descritta dalla meccanica quantistica) e
che a seconda della posizione di partenza questi elettroni seguano una traiettoria ben
determinata sotto l’influenza di un potenziale quantomeccanico che fa loro “sapere” se è
aperta solo una o tutte e due le fenditure. Come si vede in fig. 5.10, nessuna traiettoria degli
elettroni attraversa il piano di simmetria, così che dalla posizione sullo schermo si può risalire
a quale delle due fenditure è stata attraversata dall’elettrone.
La teoria qui menzionata ha, però, strane caratteristiche dal punto di vista del pensiero
comune; infatti il potenziale quantomeccanico è non locale (la chiusura o l’apertura di una
delle due fenditure fa cambiare il valore del potenziale in tutti i punti istantaneamente) e,
inoltre, le variabili diverse dalla posizione in generale, risultano contestuali, cioè, detto un po’
malamente, fortemente dipendenti dall’esperimento che viene eseguito (per un esempio della
con testualità delle variabili di spin, confrontare il libro di G. Ghirardi “Un occhiata alle carte
di Dio”, Il Saggiatore, Milano (1997) pag. 189 e sgg.)
Ribadiamo l’idea fondamentale che scaturisce abbastanza naturalmente da quanto abbiamo
qui discusso: i quanti hanno a che fare con la dinamica del sistema, ma non hanno una propria
cinematica.
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L’idea per certi aspetti fallimentare della Meccanica Quantistica, fallimentare dal punto di
vista interpretativo non certo dal punto di vista della capacità predittiva, è proprio quella di
attribuire ai quanti una propria cinematica, magari inusuale, come se essi facessero qualche
strana cosa nello spazio tempo. Questo non è vero. Il quanto è un aspetto della dinamica
dell’interazione tra campi. I campi interagiscono gli uni con gli altri e la dinamica
dell’interazione è scritta dai quanti.
Insomma, nell’esperimento descritto sopra non ha senso pensare che un quanto abbia una
propria traiettoria (se non nel senso attribuitogli da Bohm in cui i quanti hanno una propria
cinematica nell’ambito, come abbiamo detto, di una teoria non locale della quale qui non ci
occuperemo ulteriormente anche perché, a parte alcune “stranezze” peculiari, fino ad oggi non
è stato possibile generalizzare tale teoria al caso relativistico, motivo per cui, invece, è nata e
“funziona” la teoria quantistica dei campi)
E’ per certi aspetti più utile pensare che sia il campo (elettromagnetico o materiale a
seconda dei casi) che sta passando da entrambe le fenditure. Questo campo interagisce con il
rivelatore, in modo stocastico, tramite quanti e la distribuzione di questi quanti è prevedibile
solo statisticamente. Però l’idea, abbastanza naturale, di pensare che se in un certo punto del
rivelatore è stato rivelato un quanto allora il quanto c’era anche prima, è del tutto
inappropriata. E’ inappropriata per quanto sappiamo dagli esiti degli esperimenti, non per
qualche strano motivo filosofico.
Paradossi su “quale cammino” con la calcite
Descriviamo un altro esempio, dovuto fondamentalmente a Gianfranco Ghirardi, (vedi a tale
proposito il libro di G. Ghirardi, precedentemente citato, alle pag. 71 e sgg.) e che avete già
analizzato corso del prof. A. Stefanel molto più in dettaglio di quanto non venga fatto qui. Noi
Lo ripresentiamo in questa sede solo perché ci interessa mettere in risalto la sostanziale
impossibilità che si ha nell’attribuire ai quanti una traiettoria.
Consideriamo un cristallo di calcite (o spato d’Islanda) che è un cristallo birifrangente. Un
pennello di luce (per esempio di un laser) che incide sulla calcite si separa all’interno del
cristallo ed esce in due pennelli paralleli aventi polarizzazioni ortogonali fra loro (come si può
controllare con due polarizzatori posti all’uscita del cristallo, uno dei due, diciamo,
“orizzontale”, l’altro “verticale”). Chiamiamo il primo pennello raggio ordinario e il secondo
raggio straordinario.
Fig. 5.11 Birifrangenza da calcite
Un pennello polarizzato verticalmente seguirà soltanto il percorso basso della figura, quello
del raggio ordinario, come ci possiamo accorgere per esempio perché scatta soltanto il
rivelatore posto in basso nella figura. Un pennello di luce polarizzato orizzontalmente,
seguirà, invece, il percorso di sopra facendo scattare il rivelatore RO. Se mandiamo contro la
calcite un pennello polarizzato a 45° quello che succede è che metà pennello segue il percorso
ordinario e metà quello straordinario.
Immaginiamo ora di attenuare così tanto il fascio da avere a che fare con un solo fotone per
volta. Se il fotone è polarizzato orizzontale allora fa scattare il rivelatore RO, se è polarizzato
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verticale fa scattare il rivelatore RV e se è polarizzato a 45° metà delle volte scatterà
aleatoriamente RO e metà RV. Viene proprio voglia di pensare che i fotoni seguano un
cammino: di sopra o di sotto. Vedremo che anche in questo caso la cosa non è possibile.
Infatti supponiamo di mettere due cristalli di spato d’Islanda, simmetrici per disposizione, in
modo che uno sia l’inverso dell’altro; in modo che se uno separa il fascio, l’altro lo ricombina
come in fig. 3.10.
Fig. 5.12 Cristallo di calcite e cristallo di calcite inversa
Mandiamo ora, contro l’apparato costituito dai due cristalli posti in sequenza, un fotone, per
così dire, “verticale”, cioè polarizzato verticalmente (cioè mandiamo contro l’apparato un
pennello di luce che interagisce tramite un solo quanto polarizzato verticalmente). Cosa
succede? Vediamo che il fotone esce ancora “verticale” e sempre dal cammino “basso”; lo
sappiamo perché mettiamo un altro polarizzatore verticale dopo il secondo cristallo e
osserviamo che lo supera tutte le volte.
Analogamente accade se mandiamo contro i due cristalli di calcite un singolo fotone
polarizzato orizzontalmente. Segue il percorso “alto” ed esce polarizzato “orizzontale”.
RV
Fig. 5.13 Un fotone polarizzato “verticale” segue il percorso “basso” e viene rivelato da un rivelatore R
dopo aver superato un test di polarizzazione verticale (doppia freccia)
RO
Fig. 5.14 Un fotone polarizzato “orizzontale” segue il percorso “alto” e viene rivelato da un
rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione orizzontale (cerchio pieno)
RV
Fig. 5.15 Anche con due cristalli, un fotone polarizzato “verticale” segue il percorso “basso”e viene
rivelato da un rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione verticale
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RO
Fig. 5.16 Anche con due cristalli, un fotone polarizzato “orizzontale” segue il percorso “alto” e viene
rivelato da un rivelatore R dopo aver superato un test di polarizzazione orizzontale
Perché siamo sicuri che i due percorsi seguiti sono proprio quelli rappresentati in figura?
Perché, da quanto detto prima quando abbiamo considerato l’esperimento effettuato con un
solo cristallo, sappiamo che il fotone “verticale” segue il percorso basso mantenendo la sua
polarizzazione (fig. 5.13) e analogamente ha fatto quello “orizzontale” andando in alto (fig.
5.14).
Adesso immaginiamo di mandare un singolo fotone polarizzato a 45°. Per quanto detto fin qui
egli o segue il percorso straordinario o quello ordinario, va di sotto o va di sopra.
Immaginiamo che vada di sotto e supponiamo di mettere, dopo il secondo cristallo, un
secondo polarizzatore a 45° seguito da un rivelatore.
R45
Fig. 5.17 Un fotone polarizzato a 45° viene inviato contro i due cristalli e
incontra un polarizzatore a 45° (freccia obliqua)
Come descriviamo la situazione? Non è difficile: il fotone che segue il percorso di sotto esce
“verticale” dai due cristalli, in seguito incontra il polarizzatore a 45° e pertanto avrà il 50% di
probabilità di attraversare il polarizzatore e il 50% di probabilità di essere assorbito. Allora, se
N fotoni passano per la traiettoria in basso, il rivelatore, che abbiamo posto dopo il
polarizzatore a 45°, ne rivela la metà. Analogamente accade ai fotoni che seguono la
traiettoria di sopra perché escono “orizzontali” prima di incontrare il polarizzatore.
Morale: se mandiamo 2N fotoni, uno per volta, polarizzati a 45° contro i due cristalli di
calcite, uno inverso dell’altro, questi fotoni metà delle volte passano di sotto, metà delle volte
passano di sopra.
Metà di quelli che passano di sotto (e che quindi sono polarizzati verticalmente) supera il
polarizzatore a 45° e, analogamente, metà di quelli che passano di sopra (polarizzati, quindi
orizzontalmente) supera lo stesso polarizzatore. Alla fine, allora, ci aspettiamo che, dei 2N
fotoni incidenti, solo la metà, cioè solo N, giungano al rivelatore.
Bene, la cosa strabiliante è che se facciamo l’esperimento il rivelatore conta 2N fotoni, li
conta tutti, e non solo N!
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Ciò significa che il discorso che abbiamo fatto è sbagliato e che, quindi, la conclusione che
dobbiamo trarre è che il fotone non segue una traiettoria definita: non va di sotto, non va di
sopra, non va fuori dal cristallo e non percorre contemporaneamente i due cammini!
Non va fuori dal cristallo perché se mettiamo dei rivelatori attorno alla calcite non troviamo
mai nessun fotone; non segue uno dei due cammini perché altrimenti varrebbe il
ragionamento appena fatto e riveleremmo soltanto la metà dei fotoni che invece riveliamo;
non li percorre tutti e due perché ogni volta che facciamo un esperimento con un singolo
cristallo vediamo che viene sempre attivato uno solo dei due rivelatori, mai vengono attivati
entrambi; e non è neppure vero che non segue nessun percorso perché esce dalla sorgente e
alla fine esso viene rivelato! Come si vede, la nozione di traiettoria in questo tipo di
esperimenti è del tutto inadeguata!
Osserviamo che dal punto di vista classico il problema non si pone assolutamente. Se
pensiamo ad un pennello elettromagnetico inizialmente polarizzato a 45° che incide sui due
cristalli di calcite, possiamo descrivere in modo molto semplice quello che succede: il
pennello viene scomposto in due polarizzazioni dal primo cristallo, orizzontale e verticale, poi
queste due vengono ricombinate dal secondo cristallo, tanto è vero che il pennello esce dal
secondo cristallo polarizzato di nuovo a 45° (polarizzazione ottenuta come somma coerente di
polarizzazione verticale e orizzontale). Mettendo, quindi, un polarizzatore a 45° dopo il
secondo cristallo, questo farà passare tutta la luce che vi incide e non solo la metà! Se
pensiamo in termini di campo quantizzato possiamo anche dire che un pennello
elettromagnetico polarizzato a 45° interagisce per mezzo di quanti polarizzati a 45°, ecco
perché tutti i fotoni, e non solo la metà, vengono rivelati nell’esperimento.
Mentre è possibile attribuire una traiettoria al campo, una traiettoria nel senso di immaginare
che il campo si propaghi lungo entrambi i cammini ottici, non è però possibile pensare questo
per i fotoni. Ancora una volta si capisce perché è del tutto innaturale attribuire una cinematica
ai quanti.
Paradossi su “quale cammino”con l’interferometro Mach-Zender
L’interferometro Mach-Zender, descritto in fig. 5.18, è stato già analizzato.
Fig. 5.18
Proviamo a ripetere l’esperimento che abbiamo descritto lì eseguendolo, però, con luce di
bassissima intensità, in modo da avere un solo fotone per volta nell’apparato, e proviamo a
spiegare quello che succede in termini di fotoni.
Quando un fotone arriva sul primo specchio semitrasparente, metà delle volte lo supera e
metà delle volte viene riflesso. Per saper che è proprio così basta mettere due rivelatori, uno
lungo ciascun cammino (quello trasmesso e quello riflesso) e vedere che ogni volta, a caso,
scatta uno e sempre uno solo dei due rivelatori.
Supponiamo, per fissare le idee, che il fotone attraversi lo specchio e segua per il percorso
“basso”, venga riflesso dallo specchio riflettente e arrivi allo specchio semitrasparente di
sopra. Metà delle volte il fotone dovrebbe essere trasmesso da tale specchio e giungere così in
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R1 e metà delle volte dovrebbe essere riflesso e arrivare in R2. Cosa del tutto analoga
dovrebbe accadere al fotone che viene riflesso dal primo specchio e che segue il cammino
“alto”. Morale: ci aspettiamo di avere luce in entrambi i rivelatori. Invece, se facciamo
l’esperimento, esattamente come succedeva con luce di alta intensità, otteniamo che tutti i
fotoni vengono rivelati dal rivelatore R2 e mai nessuno da R1! Come nei due esperimenti
descritti i precedenza, quindi: il fotone non segue nessuno dei due cammini, altrimenti avrei
luce in entrambi i rivelatori; non li segue tutti e due, perché se mettiamo due rivelatori, uno
per cammino, ne scatta sempre e solo uno; non segue percorsi diversi perché se mettiamo
rivelatori fuori dai cammini, questi non scattano mai; e neppure non segue nessun cammino
perché il fotone esce dalla sorgente e viene sempre rivelato!
Misure in assenza di interazione
Possiamo utilizzare questo interferometro per esperimenti bellissimi, affascinanti, quelli che
permettono le cosiddette “misure in assenza di interazione”.
Immaginiamo di mettere un oggetto opaco da interrompere uno dei due cammini ottici,
come in fig. 5.19.
Fig. 5.19 Interferometro Mach-Zender con uno dei cammini ottici bloccato da un oggetto opaco
Descriviamo la situazione dal punto di vista classico. La luce, pensiamo per esempio a quella
di un laser, si divide in due fasci, uno per ciascun percorso. La luce che va ad incidere
sull’oggetto, precedentemente sistemato, viene da questo assorbita e, quindi, non va più a
sovrapporsi con quella che ha seguito l’altro percorso; non si ha così più interferenza dei due
fasci. Quello che succede, allora, è che metà della luce viene assorbita dall’oggetto e l’altra
metà si distribuisce in modo da arrivare in uguale misura ai due rivelatori R1 e R2.
Immaginiamo ora di mandare un fascio di così debole intensità che siamo sicuri di inviare
un solo fotone per volta. Possono accadere tre cose:
1) nessuno dei due rivelatori R1 e R2 manda un segnale,
2) scatta il rivelatore R2;
3) scatta il rivelatore R1.
Nel caso 1) il fotone ha interagito con l’oggetto posto su uno dei due cammini ottici ed è stato
assorbito. Nel caso 2) il fotone è andato nel rivelatore in cui sarebbe andato anche in assenza
dell’oggetto. Il caso 3) è il più interessante perché siamo in una strana situazione: abbiamo
inviato un solo fotone e questo è stato rivelato da uno dei due rivelatori; quindi possiamo dire
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che non ha interagito con l’oggetto posto su uno dei cammini. Però tale fotone, essendo
arrivato in R1, ci fa capire che uno dei due cammini è stato bloccato, altrimenti ci sarebbe
stata interferenza e il fotone non sarebbe mai arrivato in R1, come sappiamo. Ciò significa
che senza interagire con l’oggetto siamo in grado di sapere che l’oggetto era lì, sul cammino
ottico; abbiamo eseguito una misura di posizione senza interazione. E’ un cosa meravigliosa!
Possiamo, per esempio, chiedere ad un amico di muovere l’oggetto su una slitta,
trasversalmente al cammino ottico e scoprire la posizione dell’oggetto (cioè se l’oggetto
interrompe il fascio oppure no) guardando i fotoni (sono ¼ di quelli inviati) che arrivano in
R1. Questo è un esperimento vero, non solo pensato, è stato eseguito nel 1998 e questi sono i
risultati:
Fig. 5.20 Risultati di misure di vari oggetti in assenza di interazione (per ciascun grafico è la curva che parte
in basso a sinistra). Tratto da P. Kwiat Phys. Rev. A 58 1 605 (1998)
Non è quindi vero che per misurare ci voglia sempre un’interazione. Perché non è vero? Il
succo della cosa è che non è vero perché non è vero che i quanti hanno una traiettoria…
Certamente, per come è costruito l’apparato sperimentale, metà dei fotoni andranno
comunque a interagire con l’oggetto, la cosa interessante è per quel quarto che non lo fanno e
vanno in R1!
La domanda a questo punto è: possiamo costruire un dispositivo che ha un’efficienza
migliore, per esempio che misuri la posizione, in assenza di interazione, nel 99% dei casi?
Costruire un simile dispositivo sarebbe un po’, per dirla brutalmente, come costruire un
apparato per radiografie che produce immagini con solo 1/100 di raggi X assorbiti dal corpo
rispetto all’assorbimento usuale! In effetti molti ricercatori stanno proprio lavorando a questo
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tipo di miglioramento (migliorare l’efficienza in apparati alla Mach-Zender, non ancora la
radiografia, ovviamente…).
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Note Capitolo 3
i
Un elemento è una sostanza che non è possibile scindere in altre sostanze e che non si può ottenere
dall’unione di altre sostanze.
ii
Una bella simulazione del famoso esperimento diCompton e Simon è fatta nel software “Effetto
Compton” di N. Bergomi, G. Vegni et al..
iii
Cfr Lee M. H. “Carnot cycle for photon gas?” Am. J. Phys. 69 (8) 874-878, August 2001.
iv
De Broglie L. V., « Recherches sur la théorie des quanta », Annales de Physique 3 22-128 (1925).
v
Davisson C., Germer L. H., Phys. Rev., 30, 505 (1927).
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