Le manifestazioni del fenomeno successorio con particolare riguardo a quello mortis causa.
Tratti il candidato dei patti successori, in relazione al trust con finalità successoria e al
negozio di rinuncia anticipata ad avvalersi dell’azione di restituzione prevista dall’art. 563 c.c.
di Federico Noschese*
Il fenomeno successorio, in linea generale, descrive una modificazione soggettiva del rapporto
giuridico, che si esprime in un mutamento di titolarità dello stesso, a fronte di un’invariata
conformazione oggettiva.
Si distingue pertanto dalle vicende novative, che comportano l’estinzione e la nascita di un nuovo
rapporto (ex artt. 1230-1235 c.c.), dal momento che il subentro del nuovo titolare avviene senza
soluzione di continuità.
Non ogni modifica soggettiva integra, tuttavia, una successione stricto sensu, richiedendosi
l’ingresso del successore nella medesima posizione giuridica del dante causa senza che il rapporto
subisca alterazioni qualitative; non rappresenta ad esempio una forma di successione la delegazione,
che pure realizza una modificazione del lato passivo dell’obbligazione, come del resto conferma la
disciplina di cui all’art. 1271 c.c. in tema di eccezioni proponibili dal delegato.
Strutturalmente, il fenomeno successorio presuppone la trasmissibilità delle situazioni giuridiche
implicate: restano esclusi i diritti della personalità, gli status familiari, i diritti patrimoniali in
formazione (la proposta contrattuale e secondo alcuni l’opzione ex art. 1331 c.c.), il diritto agli
alimenti, i rapporti intuitu personae, gli interessi legittimi.
Sono dunque oggetto di successione quei rapporti giuridici connotati da una fungibilità soggettiva
che consente la sostituzione del titolare senza vanificarne gli interessi sottesi.
Tale sostituzione può riguardare l’intera sfera giuridica del dante causa (successione a titolo
universale) o singoli rapporti (successione a titolo particolare).
Sotto il profilo funzionale, si distingue tra vicende successorie inter vivos e mortis causa, a seconda
che il trasferimento di titolarità avvenga per atto tra vivi o in ragione ereditaria.
La successione inter vivos è tendenzialmente a titolo particolare (si veda la cessione del credito ex
art. 1260 c.c., o la cessione del contratto ex art. 1406 c.c.), risultando difficile concepire che un
soggetto ancora in vita dismetta l’intero fascio di rapporti di cui è titolare; ciò nonostante, si
individuano alcuni esempi di successione tra vivi a titolo universale nella fusione societaria (artt.
2501 e ss. c.c.), o secondo altri nella devoluzione di beni di cui all’ art. 31 c.c.
Nel fenomeno successorio mortis causa il rapporto è inverso: si predilige la successione a titolo
universale in luogo di una frantumazione dell’asse in lasciti particolari. Non a caso, la legge
disciplina compiutamente la successione degli eredi, anche in mancanza del titolo testamentario, ma
non quella dei legati che, diversamente, trovano la loro fonte nella volontà del de cuius.
Le ipotesi di legato ex lege sono infatti limitate, e si individuano nei diritti d’uso ed abitazione del
coniuge superstite (art. 540 comma 2 c.c.), nell’assegno vitalizio corrisposto ai figli non
riconoscibili (art. 580 c.c.) e al coniuge separato con addebito (art. 548 comma 2 c.c.).
Tale impostazione è il retaggio di una concezione antica, tesa ad evitare la dispersione del
patrimonio familiare favorendo l’unitario passaggio agli eredi, presunti continuatori della
personalità giuridica del de cuius.
Il procedimento di acquisto ereditario si articola nelle fasi della vocazione, che descrive l’astratta
categoria dei successibili, della delazione, ovvero la concreta offerta dell’eredità, e dell’accettazione
Il presente elaborato è stato redatto al corso di preparazione al concorso in magistratura coordinato dal cons.
Maurizio Santise, ed è stato integrato e adattato alle esigenze editoriali.
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della stessa, atto che salda retroattivamente il passaggio di titolarità dei rapporti facenti capo al
defunto.
La delazione trova la propria fonte nella legge (successione legittima), o nella volontà del testatore
(successione testamentaria), capace di derogare alla disciplina normativa e di imprimere una diversa
ed autonoma direzione alla vocazione ereditaria.
Non costituisce una terza forma di delazione la successione necessaria (come chiarito dalle Sezioni
Unite del 27 febbraio 2013 n. 4847), che rappresenta una garanzia di riserva della quota dei
legittimari, operante sia nella successione ab intestato che testamentaria.
Parimenti, l’art. 457 c.c. non contempla una forma di delazione convenzionale, frutto dell’accordo
tra il de cuius e gli eventuali successori.
Il sistema delle successioni è caratterizzato, infatti, dall’unilateralità degli atti in cui si articola la
dinamica sostitutiva: il testamento, l’accettazione e la rinuncia all’eredità costituiscono atti
unilaterali, per di più non recettizi, che si intercettano tra loro al fine di realizzare gli effetti
successori.
La difficile dialettica che passa tra il contratto, strumento principale di espressione dell’autonomia
negoziale e le successioni mortis causa, evidenzia i particolari interessi sottesi al fenomeno
successorio che, quale più importante vicenda modificativa soggettiva, rappresenta il crocevia di
contrapposte esigenze che spesso l’ordinamento ritiene inderogabili.
Da un lato, si colloca l’interesse del disponente di provvedere in relazione ai propri beni per il
tempo successivo alla sua morte, dall’altro si contrappongono gli interessi del nucleo familiare a
non veder disperso il patrimonio, e degli eredi a non ricevere un lascito dannoso, specularmente
all’esigenza dei creditori del de cuius a non essere pregiudicati dalla vicenda successoria e dalla
relativa confusione patrimoniale. Sullo sfondo, infine, si staglia l’interesse dell’ordinamento a che i
rapporti giuridici facenti capo al defunto non restino privi di titolarità.
Siffatta complessità denota un ambito in cui l’autonomia negoziale difficilmente riesce ad entrare;
non a caso, l’operatività dello strumento contrattuale si riespande solo successivamente ad una
successione che sia già aperta, per sistemare i rapporti che ne derivano, come nel caso della vendita
dell’eredità ex art. 1542 c.c. o dell’accordo di divisione ereditaria.
Questa relazione, definita “tendenzialmente antinomica”, tra contratto e successione mortis causa è
confermata dal divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c., norma che rivela la confluenza dei
suddetti interessi indisponibili nel fenomeno in esame.
L’ordinamento sancisce la nullità degli accordi con cui un soggetto istituisce anticipatamente il
proprio erede (patti istitutivi), nonché delle convenzioni aventi ad oggetto la disposizione o la
rinuncia a diritti derivanti da una successione non ancora aperta (patti dispositivi e rinunciativi).
Per comprendere la ratio del divieto occorre procedere ad una lettura “destrutturata” della norma,
tesa ad individuare le ragioni storico-giurdiche che vi sono alla base.
Sottesa alla nullità dei patti istitutivi vi è l’esigenza, tramandata dalla tradizione romanistica, di
evitare il c.d. “votum captandae mortis” che spinge un soggetto ad auspicare la morte dell’altro,
ritenuto immorale e contrario all’ordine pubblico.
Ulteriormente, si adduce la necessità di salvaguardare la revocabilità della volontà testamentaria
sino all’exitus del disponente, esigenza che sarebbe frustrata dall’esistenza di un impegno negoziale
assunto con il futuro erede.
Si evidenzia inoltre un contrasto con il dato letterale dell’art. 457 c.c., che prevede il testamento
come unico atto negoziale mortis causa, al punto che la sua tipicità diviene tassatività.
Alla base del divieto di patti dispositivi e rinunciativi si pone invece la necessità di preservare il
disponente da scelte avventate, ovvero impedirgli di disporre di un diritto di cui non ha potuto
valutare la consistenza (ratio condivisa tra l’altro dal divieto di donazione di beni futuri ex art. 771
c.c., e dalla riforma della fideiussione omnibus ex art. 1938 c.c.).
La norma previene, altresì, il votum captande mortis proveniente dal terzo beneficiario della
disposizione o della rinuncia dell’erede.
Sotto il profilo strutturale, i patti successori condividono alcuni caratteri essenziali che integrano il
divieto di cui all’art. 458 c.c.: si tratta, in primo luogo, di negozi che trovano nell’evento morte la
loro causa giustificativa e che collegano a tale momento il trasferimento dei diritti negoziati.
Ulteriormente, prevedono, in caso di premorienza del beneficiario rispetto al disponente, che il
diritto oggetto del contratto resti nel patrimonio di quest’ultimo ( c.d. “clausola si premoriar”).
Infine, la determinazione quantitativa dell’attribuzione è rimessa al c.d. “quod superest”, ovvero
alla consistenza che residua alla morte dell’attribuente.
Così ricostruiti gli elementi qualificanti i patti vietati, è possibile riscontrare fattispecie negoziali
che, presentando solo alcuni punti di contatto, non ricadono sotto la scure applicativa dell’art. 458
c.c.
Si rileva la validità dei contratti c.d. “post mortem”, connotati dal diverso ruolo assunto dall’evento
morte nella struttura negoziale: il decesso del disponente non costituisce infatti l’elemento causale
dell’attribuzione, ma funge da condizione (sospensiva o risolutiva) o da termine certus an incertus
quando.
La morte, dunque, si sposta dal profilo eziologico del negozio al crinale temporale di
stabilizzazione degli effetti.
La portata effettuale di tali negozi è anticipata ad un momento antecedente la morte, e l’oggetto
della disposizione viene determinato all’atto della stipulazione, non in base al quod superest.
L’efficacia immediata giustifica inoltre la trasmissione del diritto agli eredi del beneficiario in caso
di premorienza di quest’ultimo al disponente.
La giurisprudenza in proposito ha sancito la validità del mandato post mortem exequendum, in cui
la morte non costituisce causa del diritto del mandatario, che risulta già acquisito inter vivos, ma la
cui esecuzione è differita sino al decesso del mandante.
Ed infatti, l’avvenuto trasferimento del diritto, e l’interesse correlato del mandatario (come mandato
in rem propriam), spiegano la mancata caducazione del contratto, nonostante la morte del mandante
(art. 1722 c.c.).
La dicotomia tra negozi post mortem e mortis causa è venuta in rilievo anche in relazione agli atti
di liberalità, ove è emersa tutta la difficoltà di distinguere, in concreto, tra condizione e causa del
contratto.
Si evidenzia come la nullità della donazione mortis causa non sia automaticamente estendibile alle
ipotesi di liberalità cum moriar (in cui la morte funge da termine per l’attribuzione traslativa) e si
premoriar (ovvero la donazione condizionata alla sopravvivenza del donatario al donante),
dovendosi valutare la causa concreta del negozio posto in essere, per stabilire se la morte assuma
una funzione eziologica, ricadendo nel divieto ex art. 458 c.c., o di semplice elemento accidentale
che condiziona gli effetti di un atto che resta inter vivos.
In quest’ultima ipotesi, il differimento degli effetti alla morte del donante non inciderebbe
sull’attualità dello spoglio, posto che il donatario acquista immediatamente un diritto sottoposto a
termine o condizione, vale a dire un’aspettativa legalmente tutelata.
Allo stesso modo si è esclusa la nullità ex art. 458 c.c. delle clausole di accrescimento e
consolidazione previste negli statuti societari, sottolineando come la morte del socio rappresenti
solo il termine di efficacia della pattuizione, non la sua ragione giustificativa.
La Corte di Cassazione, con sentenza del 12 febbraio 2010 n. 3345, ha riconosciuto la legittimità di
tali clausole a patto che realizzino un atto traslativo tra vivi, ancorché destinato a regolare le sorti
della società alla morte di uno dei suoi componenti.
Si osserva un’ulteriore caratteristica tipica dei negozi post mortem che consente di eludere il divieto
di patti successori, ovvero l’immediata insorgenza del diritto nella sfera del beneficiario rispetto alla
semplice esecuzione della prestazione, differita al momento della morte del disponente: tale effetto
è confermato dall’art. 1412 c.c. che, in tema di contratto a favore del terzo, stabilisce che il diritto
all’esecuzione della prestazione in caso di morte prematura de terzo si trasmette ai suoi eredi e non
rientra nel patrimonio dello stipulante.
È un principio che trova applicazione nel contratto di assicurazione sulla vita, in cui il terzo
beneficiario acquista immediatamente il diritto all’indennizzo che, in caso di morte anticipata
rispetto all’assicurato, passa ai propri eredi.
Lo schema dell’art. 1412 c.c. consente inoltre di superare l’obiezione, sottesa al divieto di patti
istitutivi, circa la necessaria revocabilità dell’attribuzione da parte del disponente: dall’analisi
normativa discende che l’accordo istitutivo, accompagnato da una clausola che consente la revoca
ad nutum, non intercetta il divieto di cui all’art. 458 c.c.
Parte della dottrina in proposito definisce tali negozi come “trans mortem”, che restano condizionati
all’ultima volontà dell’attribuente, secondo un meccanismo similare alla disposizione testamentaria.
Tali riflessioni incrinano la tenuta della disposizione in esame e rivelano una sensazione
anacronistica; l’evoluzione giurisprudenziale, del resto, nell’ammettere la validità dei negozi post
mortem e trans mortem, mostra di voler limitare il più possibile l’area applicativa dell’art. 458 c.c.
Alle coordinate pretorie si affiancano le novità normative: la legge n. 55/2006, nell’introdurre il
patto di famiglia, denota secondo molti la volontà di temperare il divieto di patti successori, come
confermato dal dato letterale dello stesso art. 458 c.c., che espressamente eccettua dal suo ambito
applicativo gli accordi ex art. 768bis c.c.
L’interesse dell’ordinamento a favorire il passaggio generazionale dell’impresa viene ritenuto
prevalente rispetto alla ratio del divieto in esame, a conferma che gli interessi sottesi non siano
assolutamente inderogabili.
Il patto di famiglia, infatti, per coloro che lo ritengono integrante un atto mortis causa, deroga a
tutte le tipologie di patti successori, laddove consente un’istituzione anticipata di erede, ed una
rinuncia preventiva dei legittimari ad esperire l’azione di riduzione.
In realtà, l’incidenza immediata sugli assetti patrimoniali induce a ritenere che il patto di famiglia
sia un negozio inter vivos con funzione distributiva, che da vita ad una divisione anticipata.
Ad ogni modo, la particolare meritevolezza degli interessi perseguiti, tale da giustificare un
superamento del divieto di cui all’art. 458 c.c., è alla base anche del recente orientamento che
ammette il c.d. “trust con finalità successoria”.
L’espressione indica quell’operazione in cui il disponente trasferisce determinati beni al trustee, con
l’obbligo di amministrarli e trasferirli ai beneficiari dopo la morte del settlor.
È un’ipotesi del tutto diversa dal c.d. “trust testamentario”, ovvero dalla destinazione realizzata
mediante testamento, che rappresenta un istituto contemplato espressamente dall’art. 2 della
Convenzione de L’Aja.
Tale istituto consente di superare i limiti della disposizione fiduciaria ex art. 627 c.c. rendendo
coercibile il successivo trasferimento dei beni dal trustee ai beneficiari, data l’insorgenza di un
obbligo giuridico e non naturale.
Si prospetta, allora, una pericolosa sovrapposizione tra il trust testamentario e il divieto di
sostituzione fedecommissaria di cui all’art. 692 c.c.: l’obiezione tuttavia non coglie nel segno, dal
momento che il trust non realizza una delazione progressiva, né una doppia istituzione di erede.
L’affermazione del trust con finalità successoria, viceversa, ha dovuto vincere la diffidenza con cui
l’ordinamento interno ha tradizionalmente guardato a tale istituto, che si muove nelle materie dei
diritti reali, della famiglia, e ora delle successioni, ritenute da sempre ostili ad un eccessivo
ampliamento dell’autonomia negoziale.
Pertanto, l’orientamento tradizionale escludeva l’ammissibilità di un trust così costruito,
ritenendolo elusivo del divieto di patti successori, laddove realizza un’istituzione anticipata di erede
(il trustee) e di legatari (i beneficiari), o secondo altri, una disposizione anticipata in favore dei
beneficiari, in qualità di eredi sostanziali della vicenda successoria.
Le evoluzioni più recenti portano invece a ritenere che il trust possa costituire uno strumento
negoziale alternativo al testamento per disporre dei propri beni in vista della morte.
Si è ritenuto infatti valido il contratto con cui il disponente ha investito il trustee della proprietà di
un complesso di beni, con l’obbligo di amministrarli e trasferirli ai beneficiari, dopo il decesso del
settlor.
Il trasferimento del diritto dal disponente al trustee rappresenta un effetto immediato della
convenzione e costituisce uno spoglio attuale e non mortis causa; la morte del settlor non funge da
causa ma da termine per l’attribuzione ai beneficiari, la cui entità è già certa e non affidata al quod
superest all’esito della gestione.
Pertanto, non si rilevano gli estremi strutturali di un vietato patto istitutivo, dal momento che i
beneficiari non sono formalmente eredi del disponente, ma solo destinatari sostanziali
dell’attribuzione.
Tra settlor e beneficiari non vi è alcun contratto idoneo ad integrare il divieto di cui all’art. 458 c.c.,
poiché essi acquistano il diritto sui beni destinati a seguito di un atto del trustee, e la morte del
disponente, in tale secondo segmento negoziale, non è causa del trasferimento ma evento
condizionante il momento temporale dell’attribuzione.
In altre parole, il passaggio dei beni nel patrimonio del trustee rappresenta un diaframma soggettivo
che impedisce di configurare un contratto istitutivo vietato ex art. 458 c.c. tra disponente e
beneficiari.
Né vale obiettare un ipotetico contrasto con il divieto di cui all’art. 692 c.c., poiché l’operazione di
trust non è contenuta in una disposizione di ultima volontà (diversamente dal trust testamentario), e
di conseguenza non è soggetta ai limiti tipici del testamento.
Inoltre, l’immediatezza del trasferimento dei beni dal settlor al trustee, esclude che possa
configurarsi un patto rinunciativo dell’eredità in capo a quest’ultimo, nella misura in cui egli si
obbliga a trasferire beni derivanti dall’eredità in favore dei beneficiari: è un meccanismo che ricalca
lo schema del legato obbligatorio posto a carico dell’erede, ma che in realtà si discosta da tale
modello trattandosi di una fattispecie che si dipana inter vivos.
Ed proprio in relazione al divieto di patti rinunciativi, che si registra l’emersione di una nuova area
di negozialità nel fenomeno successorio mortis causa.
La giurisprudenza si è di recente occupata dell’ammissibilità della rinuncia preventiva all’azione di
restituzione ex art. 563 c.c., da parte del legittimario nei confronti del terzo acquirente dal donatario
del de cuius.
In passato, si riteneva che tale rinuncia fosse nulla per contrasto con l’art. 458 c.c., dal momento
che il legittimario abdicava preventivamente ad un proprio diritto successorio, realizzando un
vietato atto rinunciativo.
L’azione di restituzione verso il terzo acquirente, inoltre, partecipava della medesima indisponibilità
della domanda di riduzione posta a tutela del diritto all’integrità della legittima.
Successivamente, la giurisprudenza (Tribunale di Torino con sentenza 26 settembre 2014 n. 2298)
ha ammesso la validità di tale negozio, evidenziando come la differenza strutturale tra la domanda
restitutoria avente carattere reale e l’azione di riduzione, di natura personale, non consenta
l’equiparazione sotto l’egida dell’art. 458 c.c.
La tutela restitutoria rappresenta un diritto proprio del legittimario che non deriva dalla futura
successione non ancora aperta, e dunque è immediatamente rinunciabile. Non si tratta, infatti, di
una rinuncia preventiva a far valere il diritto all’integrità della legittima, tutelato dall’azione di
riduzione, ma di una rinuncia di tipo “qualitativo” a non perseguire, nei confronti del terzo
acquirente, il bene fuoriuscito dall’asse ereditario mediante donazione.
Del resto, mentre l’art. 557 c.c. vieta espressamente la rinuncia preventiva all’azione di riduzione,
analogo divieto non è posto dall’art. 563 c.c. in riferimento alla domanda restitutoria; anzi, la stessa
norma nell’ultimo comma prevede la possibilità per il legittimario di rinunciare al diritto
all’opposizione stragiudiziale alla donazione, evidenziando una disponibilità degli interessi sottesi.
Ed inoltre, la stessa indisponibilità dell’azione di riduzione non appare più un principio così
assoluto per quanti individuano nella disciplina del patto di famiglia ex art. 768 quater c.c.,
un’ipotesi di espressa rinuncia preventiva dei legittimari ad esperire la domanda ex art. 553 c.c.
In definitiva, gli istituti del trust con finalità successoria e della rinuncia preventiva alla domanda di
restituzione ex art. 563 c.c., rappresentano gli ultimi approdi, in ordine di tempo, della marcia
evolutiva verso il tendenziale superamento del divieto di patti successori ex art. 458 c.c., sia
istitutivi che rinunciativi.
Volgendo lo sguardo alla prospettiva comparatistica, si rinvengono ordinamenti, come quello
tedesco, che disciplinano espressamente la figura del “contratto ereditario” (Erbvertrag),
restituendo all’autonomia negoziale lo strumento contrattuale per la regolazione degli interessi
mortis causa.
Nella medesima ottica, si legge la comunicazione della Commissione Europea n. 98/2002 che ha
sollecitato gli Stati Membri a superare il divieto in esame, ritenuto obsoleto ed anacronistico.
In realtà, nonostante tali tendenze, l’art. 458 c.c. permane nelle applicazioni giurisprudenziali, che
premiano congegni negoziali post mortem o trans mortem capaci di eludere le ragioni ostative che
vi sono alla base.
Gli interessi tutelati dalla norma non possono aprioristicamente escludere la validità di ogni
contrattazione ad oggetto ereditario o in altro modo connessa all’evento morte, posto che
l’autonomia negoziale può tornare ad esplicarsi liberamente in regolamenti che toccano soltanto il
divieto normativo, senza infrangersi su di esso.