Come tutte le figure di scienziati, anche i fisici sono soggetti scriventi

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STUDI DI SOCIOLOGIA, 1 (2008), 95-102
© 2008 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
LA SCRITTURA DEI FISICI
Come tutte le figure di scienziati, anche i fisici sono soggetti scriventi. Non solo
nel senso più ovvio, per cui producono, in combutta coi loro macchinari, grandi quantità di quelle che Bruno Latour chiama «iscrizioni letterarie» (Latour - Woolgar 1986:
45). La produzione di carta di un laboratorio scientifico, o anche di bit elaborati attraverso programmi di calcolo e di word processing, ha eguali in poche altre organizzazioni e attività umane. Ma i fisici sono soggetti scriventi anche in un senso meno immediato e più essenziale: perché sono, per la loro stessa identità professionale e sociale, dei
rivendicatori di conoscenza che usano la scrittura come lo strumento professionale fondamentale.
Dico che sono dei rivendicatori di conoscenza perché rivendicare conoscenze
costituisce l’obiettivo principale della loro prassi professionale, che pure è estremamente varia e contempla attività manuali, competenze relazionali, strategie politiche,
conti economici, funzioni di rappresentanza. Tutte queste attività si giustificano in vista
di uno scopo ultimo, che solo in parte è di tipo economico (la riscossione dello stipendio non viene quasi mai considerata dagli scienziati il motivo principale del loro lavoro), ed è invece prioritariamente reputazionale (Bourdieu 2003: 49). Ciò che i fisici coltivano quotidianamente è il proprio patrimonio di credibilità agli occhi dei colleghi,
perché da tale patrimonio dipendono direttamente almeno due cose: la possibilità di
trovare ascolto e far sì che le proprie scoperte vengano riconosciute come tali, e la capacità di rastrellare le risorse (economiche, tecnologiche, umane e sociali) necessarie a
continuare su buone basi l’attività di ricerca. Ciò che rende le rivendicazioni di conoscenza così importanti è il fatto che esse sono lo strumento principe (anche se non l’unico) per incrementare e solidificare il proprio patrimonio di credibilità. Ma le rivendicazioni orali di conoscenza hanno il disdicevole inconveniente di essere estremamente
fragili e volatili, esposte alla distorsione, al furto e all’oblio. Sono uno strumento inaffidabile. Perciò la scienza ha elaborato alcuni accorgimenti utili ad aggirare l’inconveniente. Per esempio, l’istituzionalizzazione di una rivendicazione di conoscenza nella
forma della relazione a un convegno pubblico; o, meglio ancora, la sua istituzionalizzazione attraverso la scrittura e la pubblicazione a stampa o elettronica su una rivista
scientifica.
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I fisici sono dunque strutturalmente degli scriventi. Scrivere (di fisica) costituisce la
loro identità professionale. Questo, tuttavia, non basta a fare di loro degli scrittori. Lo
scrittore, come suggerisce Gasparini in questo stesso fascicolo, è un soggetto capace di
fare uso della libertà che la scrittura gli concede. Capace, cioè, di far uso attivo della lingua, anziché semplicemente sottostare alle sue regole e ai suoi usi. Lo scrittore è colui
che «gioca» la lingua, anziché esserne giocato, ne padroneggia le regole al punto di
poterle occasionalmente e consciamente violare, anziché esserne un diligente suddito.
E i fisici? Come si pongono di fronte alla scrittura? Che significa per loro scrivere,
comporre sintagmi ordinati su un foglio di carta? Proverò ora a dare alcuni elementi
che potrebbero aiutare a rispondere a queste domande. Quali indicatori utilizzare? La
via più facile potrebbe passare, per esempio, attraverso la misura della ricchezza lessicale dei loro testi. Una variabilità del lessico particolarmente alta potrebbe essere indice di un uso letterario della lingua, un lessico semplice e standardizzato di un suo uso
puramente strumentale. Voglio proporre, invece, una strada meno ovvia ma, mi sembra, ugualmente istruttiva. Consideriamo il rapporto tra testo linguistico e immagine.
L’idea di base è che nella scrittura letteraria l’immagine sia sempre solo un commento al
testo: la parte interstiziale, la finestra aperta e poi subito richiusa, che avrebbe potuto
anche mancare senza che il significato ne restasse compromesso. Un brano di paratesto:
contingente, inessenziale, anche quando istruttivo e utile. Qualora, al contrario, il testo
divenisse commento all’immagine, ovvero interstizio tra le immagini – didascalia,
fumetto, sottotitolo (come per esempio nel fotoromanzo) –, allora la scrittura non
sarebbe più letteraria. La sua funzione di complemento limiterebbe, infatti, la libertà
concessa all’autore.
Che accade, dunque, nella fisica? I fisici fanno naturalmente uso d’immagini: fotografie, tabelle, schemi e, soprattutto, grafici popolano le loro pubblicazioni e le presentazioni ai convegni. In questo i loro testi non sembrano discostarsi molto da quelli delle scienze sociali. Ma c’è una differenza fondamentale, che per noi è importante. Se lo
scienziato sociale usa di norma immagini e grafici per supportare visivamente un
discorso che è in sé, intrinsecamente, letterario, il fisico usa abitualmente il linguaggio
verbale per supportare acusticamente o mentalmente un discorso che è in sé, intrinsecamente, iconico. Per i fisici il testo linguistico scritto (o anche orale) non è l’essenza
del discorso, ne è una parentesi didascalica, un complemento interstiziale. Non è testo
letterario.
Per illustrare meglio questa conclusione, evitando di rimanere su un piano completamente astratto, farò ora riferimento a un esempio empirico di scienza-in-azione.
Alcuni anni or sono ho avuto il privilegio di poter svolgere uno studio di laboratorio
presso un importante centro di ricerca nazionale in fisica delle particelle1. Le considerazioni che seguono scaturiscono da quell’esperienza.
Si trattava di un esperimento quasi esclusivamente nazionale – cosa rara nel campo della fisica particellare – con solo la partecipazione straniera di alcuni scienziati russi e tedeschi. Ciò nonostante, la lingua ufficiale della collaborazione, vale a dire quella
1
Per una descrizione complessiva della ricerca, cfr. Volonté (2003).
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usata, per esempio, in tutti i meeting e le conferenze formali, era l’inglese. Questo è normale per la fisica, che al pari di gran parte delle altre scienze della natura e della vita usa
l’inglese quale codice standard di comunicazione. Ugualmente non insolito è il fatto che
l’inglese utilizzato dalla collaborazione fosse, a ben vedere, un gergo piuttosto singolare, relativamente distante dalle lingue parlate nel mondo anglosassone. Una terminologia fantasiosa era connessa da regole di sintassi incerte ed elementari.
Non si tratta di stigmatizzare una cattiva conoscenza della lingua straniera, perché
non è questo il punto rilevante. I fisici partecipanti all’esperimento intervistati nel corso della ricerca non consideravano la buona conoscenza dell’inglese una competenza
importante per svolgere con successo la loro professione. Perciò non erano nemmeno
stimolati a migliorarne la padronanza. La questione da chiarire è allora perché la comunità disciplinare, una comunità assai internazionalizzata, tolleri un uso così approssimativo delle convenzioni linguistiche.
Una prima osservazione da fare è che le comunicazioni dei fisici delle particelle, e
in particolare di quelli sperimentali, raramente utilizzano concetti astratti. Essi non
devono spiegarsi l’un l’altro questioni eminentemente concettuali, del tipo: perché una
particella sia da considerare «migliore» di un’altra, o quali caratteristiche di uno strumento siano «essenziali» e quali «contingenti». Il loro obiettivo è invece di solito molto
concreto, come per esempio stabilire a quali condizioni di massa, velocità o energia si
possa etichettare una particella col nome di kaone, o se il calorimetro stia funzionando
correttamente oppure no. Ciò induce a semplificare, tendenzialmente, il tessuto connettivo del linguaggio, percepito come fonte di disturbo della comunicazione, più che
come strumento per un suo arricchimento e per la precisazione dei concetti. La dimensione connotativa viene ridotta al minimo, a tutto vantaggio di quella denotativa. Da ciò
deriva, tra le altre cose, la tendenza del linguaggio scientifico all’uso delle sigle o delle
formule con funzione denotativa, come K± per «kaoni con carica positiva o negativa» o
Φ → π+π−πο per «decadimento della particella Phi in tre pioni con carica positiva, negativa e neutra». In questo modo un certo fenomeno, o un certo aspetto di un fenomeno, è
indicato sempre dallo stesso nome, dalla stessa sigla, dalla stessa formula.
In termini più generali, ciò che ha rilievo nel discorso non sono le variazioni2 o le
sfumature3. Obiettivo del discorso è invece la qualificazione del proprio oggetto attraverso operatori semplici, del tipo: in accordo/in disaccordo (una misura con un’altra
misura), noto/ignoto (un numero), rilevato/non rilevato (un evento), migliorata/peggiorata (la risoluzione dopo nuovi interventi), accettabile/inaccettabile (l’errore sistematico in relazione a quello statistico). Il linguaggio si adegua a questi obiettivi comunicativi e fornisce una terminologia univoca, quand’anche inelegante, e una sintassi
semplice quanto serve per limitare al massimo il rumore di fondo creato dal discorrere
come tale.
Inoltre, e come conseguenza, la lingua verbale non è che una parte, e nemmeno
quella più importante, della comunicazione scientifica in questo campo. Non solo per2
Come nel caso, per fare un esempio, della distinzione tra le varie fonti d’orientamento dell’agire sociale in Weber (1968: 21-22).
3
Come nella definizione di ciò che si debba intendere per «senso» in Weber (ibid.: 4-7).
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ché la scienza fa uso di letteratura per comunicare le informazioni a distanza e trasmetterle ai posteri. Ma anche perché, più in generale, una comunicazione tra due o più
scienziati raramente avviene senza l’uso contestuale di fogli, trasparenze o diapositive
elettroniche su cui scrivere formule, disegnare grafici, indicare curve. Queste iscrizioni
letterarie sono il vero mezzo di comunicazione, il linguaggio attraverso cui gli scienziati entrano in relazione l’uno con l’altro rispetto all’oggetto del loro lavoro. Tanto che
Latour (1998: cap. 2) si spinge fino a negare lo status di strumento scientifico a tutti
quei dispositivi che, come un termometro o un contatore Geiger, di norma non producono delle rappresentazioni visive da inserire come pezze d’appoggio all’interno di un
testo scientifico. Il linguaggio verbale svolge nella scienza una funzione prevalentemente ausiliaria, quale quella di illustrare le coordinate di lettura delle iscrizioni grafiche
(ad es., le variabili che vengono rappresentate su un piano cartesiano, oppure il numero di eventi su cui si basa una certa analisi), o quella di spiegare i nessi logici o causali
tra iscrizioni diverse. Il compito fondamentale di comunicare le informazioni importanti, di avanzare rivendicazioni di conoscenza, viene invece delegato alle iscrizioni letterarie. Un esempio mi aiuterà a illustrare questo aspetto.
Si osservi la diapositiva elettronica riprodotta nella figura 1. Si tratta di un classico
esempio di supporto alla comunicazione scientifica. Essa è tratta da una presentazione
tenuta durante uno dei meeting periodici dell’esperimento che ho studiato. Oggetto di
FIG. 1 - Diapositiva di Powerpoint per una presentazione a un meeting scientifico.
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quella presentazione era una panoramica sullo stato a cui era giunto il processo di elaborazione di una procedura di ricostruzione degli eventi concernenti particelle K± nel
rivelatore4. In particolare, si trattava di valutare se una nuova procedura di ricostruzione fosse in grado di dare risultati migliori di una procedura più vecchia e fortemente
lacunosa. La diapositiva in questione mette a confronto la vecchia procedura di ricostruzione (indicata dalla scritta «Old rec.») con quella nuova (indicata dalla scritta
«New rec.») rispetto a un dato considerato significativo per identificare i K±, vale a dire
la misura del momento delle particelle. Inoltre, il momento viene misurato ai due estremi della traiettoria percorsa dalla particella nello spazio, ossia nel punto in cui essa viene registrata per la prima volta dallo strumento (grafici incolonnati sotto la dicitura «@
first hit») e nel punto in cui essa decade in altre particelle (grafici incolonnati sotto la
dicitura «@ vertex»). Si hanno così quattro grafici da confrontare tra loro in vario
modo: due della nuova ricostruzione da mettere a confronto con i due di quella vecchia, e l’effetto del passaggio dalla vecchia alla nuova ricostruzione per il punto iniziale
della traccia (first hit) da mettere a confronto con il medesimo effetto per il suo punto
finale (vertex). Si legga ora il testo della presentazione pronunciato contestualmente
alla proiezione della diapositiva:
Now, comparison. The actual number. In blue the old; in red the new. This is the momentum
resolution of the kaons: at the first hit in the chamber; at the vertex. Old, and new. As you can
see, the new one has a better resolution. Also the absolute values, let say, the mean, is not so bad;
there is a little shift. If you look at the vertex, the resolution improves, going from the old one to
the new one, and improves also the absolute value of the mean, the average, but it is really not
centered the peak.
Non si può più considerare l’immagine proiettata un supporto alla comprensione
del testo verbale; al contrario, quest’ultimo è un supporto alla comprensione dell’immagine proiettata. Le informazioni da comunicare sono interamente contenute in essa,
così come le strategie messe in atto dal soggetto per collocarsi in una posizione di forza
nella negoziazione dei significati con i colleghi che seguirà alla presentazione. Il fatto
che le curve dei grafici inferiori (nuova procedura) siano sensibilmente più strette di
quelle dei grafici superiori (vecchia procedura) comunica immediatamente all’occhio
esperto del pubblico che la situazione è diventata nettamente più favorevole alla raccolta di dati attendibili. I numeri cerchiati, corrispondenti al sigma della curva (vale a
dire la larghezza della campana), quantificano questa differenza. Allo speaker non resta
4
Va detto che i fisici delle alte energie non osservano direttamente le particelle di cui si occupano, ma osservano una serie di comportamenti dei loro strumenti di rilevazione, a partire dai quali
devono ricostruire ciò che è accaduto all’interno del rivelatore. Il procedimento è però tutt’altro che
semplice, sicché di tutti gli eventi di un certo tipo realmente accaduti (ad es., l’apparizione e il decadimento di un kaone) solo una parte viene ricostruita, e quindi «osservata», dai ricercatori. Inoltre, accade pure che eventi di tipo diverso vengano «fraintesi» e ricostruiti erroneamente come decadimenti di
kaone, anche se non lo sono. È quindi un compito importante e impegnativo per l’équipe di ricerca
elaborare delle procedure e dei programmi informatici di ricostruzione degli eventi che siano il più
possibile efficienti, che cioè riducano al minimo gli errori di mancata ricostruzione delle particelle reali e quelli di ricostruzione scorretta.
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che dare un nome a ciascun grafico, distinguendo i vecchi dai nuovi e i first hit dai vertex. Un accenno al comportamento della media serve a richiamare l’attenzione su un
elemento informativo contenuto nella diapositiva che è meno appariscente di altri.
Incontriamo qui un carattere della cultura di laboratorio che non si accorda con
l’interpretazione data a suo tempo da Latour. Egli descrisse le iscrizioni letterarie come
il prodotto, l’output del laboratorio, e interpretò quest’ultimo come una fabbrica finalizzata alla «costruzione» di iscrizioni in serie, senza distinguere tra il linguaggio verbale e quello grafico5. Lasciava, invece, la funzione comunicativa del linguaggio confinata
sullo sfondo. In questo modo, tuttavia, smarriva proprio la dimensione culturale degli
usi linguistici della scienza, il ruolo che essi svolgono nell’unificare norme e comportamenti degli scienziati. Le iscrizioni letterarie non sono importanti, per i fisici, perché
danno un’espressione visibile e unitaria alle molteplici attività di cui si costituisce un
laboratorio, ma perché li mettono in condizione di interagire comunicativamente tra
loro in maniera rapida ed efficace, e quindi di alimentare il gioco della loro credibilità
personale, da cui dipende, in ultima istanza, la sopravvivenza e il progresso della loro
area disciplinare.
È per questo motivo che, a ben vedere, le iscrizioni letterarie, ben lungi dall’essere
un mero prodotto dell’attività del laboratorio o dell’esperimento, sono uno dei suoi riti
più celebrati e di maggiore soddisfazione collettiva. Durante il periodo di osservazione
non ho assistito ad alcuna presentazione, durante una riunione ufficiale a qualsiasi livello, che non facesse uso di trasparenze o di diapositive elettroniche, fosse anche solo per
elencare l’ordine del giorno. Di norma le presentazioni si svolgono mostrando una successione d’immagini ben curate, piene non solo di grafici e formule, ma anche di elenchi e riassunti schematici del discorso svolto. Chiaramente, nella maggior parte dei casi
si tratta di strumenti utili per la comprensione e, soprattutto, per la discussione (altrimenti diventa difficile intendersi reciprocamente, quando i numeri e le formule su cui
verte il dibattito non possono essere indicati visivamente da chi parla). Ma il fatto che i
medesimi strumenti vengano utilizzati anche per rievocare gli accadimenti degli ultimi
mesi, per programmare il lavoro futuro o per annunciare il party che si terrà al termine
del Convegno, mostra come essi abbiano subito una certa ritualizzazione. La stessa
cura della grafica ne è un sintomo, così come la scelta di presentare dei grafici là dove
sarebbe sufficiente segnalare che un certo valore, in seguito a una determinata operazione, è diminuito (è il caso della diapositiva riprodotta sopra, come s’è visto). Come in
molti casi di ritualizzazioni, il gruppo ne è consapevole ed è capace, in qualche misura,
di prendere una certa distanza dal ruolo6. L’evoluzione tecnica porta con sé un’evoluzione rituale che conferisce un sapore nostalgico alle abitudini cadute in disuso.
Quando, dopo una lunga serie di presentazioni fatte con l’ausilio di diapositive elettroniche, sale sul palco un relatore con delle semplici trasparenze, dalla sala si alza una
voce soddisfatta che commenta: «Finalmente delle trasparenze. Magari sono pure scritte a mano. La prossima volta, alla lavagna!».
5
6
Cfr. Latour - Woolgar (1986: cap. 2).
Nel senso descritto da Goffman (1979).
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Il fisico, in conclusione, vive nell’ambiguità di dover fare affidamento alla scrittura per affermare e solidificare quelle rivendicazioni di conoscenza da cui dipende il suo
patrimonio di credibilità individuale, e nello stesso tempo di non usare la scrittura in
maniera letteraria, ma solo interstiziale e complementare rispetto agli strumenti iconici
di comunicazione. La sua rivendicazione di conoscenza passa solitamente attraverso un
testo che non parla da solo, che non svolge un discorso compiuto – se si prescinde dall’apparato iconico di cui si circonda. Non è un testo, ma sono brani di testo, didascalie
di quel vero testo che è il grafico, che agli occhi del fisico invece – lui sì – parla da solo.
PAOLO VOLONTÉ
Facoltà di Design e Arti
Libera Università di Bolzano
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PAOLO VOLONTÉ
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