L`UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL` AFRICA

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Nuovi attori nello scenario africano
L’approccio commerciale dell’UE
La Primavera Araba apre il Nord Africa
L’Europa interviene in Africa
N.1 - APRILE 2013
L’UNIONE EUROPEA E LA
NUOVA CORSA ALL’ AFRICA
© Europae - Rivista di Affari Europei
Aprile 2013, Numero 1
© Europae - Rivista di Affari Europei, www.rivistaeuropae.eu
“L’Unione Europea e la nuova corsa all’Africa”
A cura di Luca Barana e Davide D’Urso
Copertina di Luigi Porceddu
Direttore: Antonio Scarazzini
Caporedattore: Davide D’Urso
Responsabili di redazione: Luca Barana, Riccardo Barbotti, Simone Belladonna, Fabio
Cassanelli, Valentina Ferrara, Shannon Little, Tullia Penna.
Contributi di: Stefania Bonacini, Sara Bottin, Alice Condello, , Gianluca Farsetti, Enrico Iacovizzi, Giuseppe Lettieri.
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INDICE
Editoriale
Antonio Scarazzini
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Eredità del passato e nuove prospettive della politica europea per l’Africa
Luca Barana
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Il secolo africano? Le prospettive economiche del vecchissimo continente
Fabio Cassanelli
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Primavera Araba: il fallimento strategico dell’Unione Europea in Nord Africa
Davide D’Urso
13
Shuttle diplomacy e “democrazia radicata”. La nuova PEV e la relazione con l’Egitto
Sara Bottin
17
Realtà e promesse: Unione Europea e Tunisia a due anni dalla rivoluzione
Stefania Bonacini
21
Gli Accordi di Partenariato Economico e la politica commerciale dell’UE in Africa
Shannon Little
24
L’Unione Europea negli occhi dell’Africa
Alice Condello
27
L’ambiguità dell’intervento europeo in Mali: Unione Europea e Francia a confronto
Giuseppe Lettieri e Gianluca Farsetti
30
Learning by doing nel Corno d’Africa: la PSCD e il comprehensive approach europeo
Enrico Iacovizzi
33
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3
EDITORIALE
Antonio Scarazzini
P
arlare di “corsa all'Africa” senza risvegliare gli spettri del colonialismo e
della gara per l'accaparramento di terre e risorse da parte delle maggiori
potenze europee, è impresa ardua. D'altra parte, il continente africano continua a rappresentare il teatro più prossimo in cui l'Europa, sia essa quella
frammentata di regni e imperi dei secoli scorsi o quella unita nell’Unione Europea
(UE) di oggi, ha manifestato e manifesta la sua natura di attore internazionale.
Il vasto dibattito sulla definizione dell'identità internazionale dell’UE ha messo l'accento sulla multidimensionalità degli approcci che essa ha saputo mettere in atto
nella sua azione esterna. L'Africa, prima ancora che l'Europa orientale postsovietica, ha costituito il banco di prova per la definizione della politica estera strutturale, una forma di proiezione esterna che unisce lo strumento diplomatico a quello economico-commerciale. Si è trattato, comunque, di un approccio fortemente sbilanciato sulla politica commerciale, speculare rispetto alla natura di una Comunità
Europea che, proprio nel commercio, deteneva il suo miglior strumento d'azione al
netto di una politica estera che, ancora tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo
scorso, risultava rigidamente nazionale e influenzata dal bipolarismo della Guerra
Fredda. L'avvento, da Maastricht in poi, di una politica estera comune arricchita anche da strumenti di politica di difesa, ha ampliato l'atteggiamento dell'UE nei confronti dell'Africa, promuovendo quello che oggi è definibile come approccio olistico, capace di unire strumenti civili e militari, di soft e hard power, per rispondere
alle diverse sfide, economiche o di sicurezza, che emergono nel continente africano.
Tale evoluzione, che avrebbe dovuto fornire una maggior organicità all'azione europea, non è riuscita a sanarne le grandi contraddizioni. L'enfasi, eccessiva, posta
sugli accordi commerciali ha spesso ignorato l'incapacità dei singoli Stati africani di
adeguare i propri sistemi economici alla competizione internazionale. La stessa logica di condizionalità applicata alla concessione di alcuni benefits ha contribuito a fare
dell’UE un partner molto esigente e, per molti, particolarmente incline ad impartire
lezioni dal tono vagamente paternalistico.
I toni dimessi che la diplomazia di Bruxelles ha tenuto nelle prime fasi della Primavera Araba nel Nord Africa hanno reso palese la subalternità della politica estera
comune agli interessi nazionali. Per non parlare dell'approccio strategico che, al-
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
meno sino all'esplosione delle rivoluzioni dalla Tunisia all'Egitto, ha ritenuto possibile far convivere la stabilità garantita dalla generazione dei Ben Ali, Gheddafi e Mubarak con un retorico e sostegno al processo di democratizzazione e promozione
dei diritti umani. L'assenza di una visione strategica indipendente dalle influenze
nazionali è stata solo in parte compensata dalla rinnovata capacità dell'UE di proporsi come produttore di sicurezza, grazie alla capacità di attuare la propria politica
di difesa attraverso strumenti come missioni civili-militari di monitoraggio, polizia
ed addestramento.
La sfida futura per l'azione europea in Africa risiede dunque nella capacità di costruire un’identità rinnovata alle spalle di un complesso di strumenti, militari e diplomatici, giuridici ed economici, che rischia altrimenti di dipingere l’UE come un freddo
regolatore. La vera sfida risiede forse nel mutare la percezione che la stessa Europa ha dell'Africa, smettendo di interpretarla unicamente come un’area bisognosa del generoso e “illuminato” aiuto delle istituzioni europee, riconoscendo le potenzialità di mercati ormai prossimi all'emancipazione e ricettivi per investimenti nel
settore dei servizi piuttosto che delle energie rinnovabili.
Sullo sfondo di tutto questo, emerge la rivalità con la Cina: un confronto strategico
mascherato, che pure accosta la win-win cooperation di Pechino (aiuti e investimenti
in infrastrutture in cambio di licenze estrattive e quote di mercato per le imprese
cinesi) al già citato approccio olistico europeo, capace, almeno negli intenti, di veicolare per il tramite economico una progettualità di democratizzazione degli Stati africani. È in Africa e sempre più con l’Africa, dunque, che l'UE può e deve rilegittimare
le sue credenziali di attore politico di primo piano sulla scena mondiale. Il continente africano, oggi, può permettersi più alternative.
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EREDITÀ STORICHE E NUOVE PROSPETTIVE
NELLA POLITICA EUROPEA PER L’ AFRICA
L’intervento di nuove potenze nello scenario africano, in particolare della Cina,
rappresenta una sfida significativa per gli interessi dell’Unione Europea. Tra eredità del passato, cooperazione allo sviluppo e politica commerciale, l’Europa si
trova di fronte a una scelta cruciale: rilanciare la propria presenza nel continente
che un tempo era stato il suo “giardino di casa” oppure rassegnarsi a perdere influenza e credibilità internazionale.
Luca Barana
N
L’eredità di Berlino: i
confini arbitrari del
1885 e il paradosso
della sovranità
Il PIL africano è
cresciuto nel corso di
tutto l’ultimo
decennio
el 1885 i governanti delle principali potenze europee, seduti attorno a un
tavolo a Berlino, decisero arbitrariamente di spartirsi un continente ancora misterioso, l’Africa. Irrispettosi di legami etnici e comunitari, i
leader europei disegnarono confini arbitrari che avrebbero delimitato i
nuovi possedimenti coloniali. Con il cosiddetto scramble for Africa, i Paesi europei
fecero del continente africano un nuovo teatro del loro confronto sempre più accesso, che avrebbe portato poi ai due conflitti mondiali. L’indipendenza di molti Stati
africani a partire dagli anni Sessanta del Novecento, spesso frutto di sanguinose
guerre di liberazione, non ha tuttavia garantito all’Africa il rilancio economico e politico che molti leader nazionalisti africani avevano ricercato. I confini dei nuovi Stati sono rimasti quelli disegnati a Berlino. In questa realtà risiede uno dei principali
paradossi dell’Africa: gli Stati africani hanno fatto della rivendicazione della propria sovranità uno dei tratti più salienti della propria agenda politica, dimostrandosi spesso refrattari a implementare progetti di integrazione sovranazionale. Una
sovranità che, dal punto di vista territoriale, è incarnata da quegli stessi confini tanto deprecati retoricamente e causa dell’instabilità politica di molti Stati africani, perché irrispettosi dei legami etnici antecedenti, quanto difesi gelosamente dalle ingerenze esterne.
È necessario considerare questo sottile paradosso per comprendere le prospettive
dell’Africa nel 2013, nel vivo di una nuova competizione per le sue ricchezze e
l’influenza continentale. Un’altra considerazione riguarda la percezione che hanno
dell’Africa gli interlocutori esterni, sempre più in contatto con governi, società civile
e settore privato: gli europei in primis sono chiamati a superare gli stereotipi sedimentati in secoli di dominazione coloniale prima e dipendenza economica poi.
L’Africa non è più un continente senza speranza, come sottolineano alcune analisi presenti in questo numero. Permangono certamente ampie aree di povertà estrema e problemi sociali apparentemente insormontabili, come epidemie e carestie che
generano tassi di mortalità sopra la media, ma in molte regioni africane gli ultimi
anni hanno rappresentato il periodo di crescita più accentuato dall’ottenimento
dell’indipendenza. I casi di Etiopia, Ghana e Angola, per citare Paesi dal modello di
sviluppo molto diverso fra loro, dimostrano come l’Africa si stia lentamente e faticosamente rialzando.
Dopo l’ultima caduta nel 2003, il PIL continentale è cresciuto in tutto il decennio
successivo. Nel 2008 era cresciuto del 67% rispetto al 2000. La crescita media fra il
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
2000 e il 2008 è stata del 13% annuo. Nonostante la crisi finanziaria che ha colpito l’economia globale dal 2007, la crescita del continente africano si è dimostrata
particolarmente resistente e oggi molti Paesi africani crescono economicamente
a un passo di molto superiore rispetto alle economie del mondo avanzato.
Questa è la realtà con cui l’Unione Europea (UE) e gli altri interlocutori del continente, come la Cina e gli Stati Uniti, devono fare i conti. Gli stessi governi africani
dovrebbero approcciare i propri partner europei superandone la rappresentazione di meri colonialisti. Tuttavia, superare un senso comune cementato in decenni
di dialogo e confronto appare difficile. Ecco dunque spiegato l’appeal di Pechino
presso molti governi africani. La leadership cinese incentra la propria retorica
nazionale sulla rivendicazione di un passato in cui non sono presenti tracce di
colonialismo, un tratto che distingue la Cina dai Paesi europei e ne fa un interlocutore apparentemente più affine, un altro Paese in via di sviluppo che ha combattuto contro la dominazione europea e, dopo aver concluso il proprio ‘secolo
delle umiliazioni’, ha rilanciato la propria economia. Non si deve sottovalutare
inoltre quanto il modello di sviluppo cinese, fondato su un’attenta opera di allocazione dei fattori produttivi promossa dallo Stato, generando un incontro vincente con il mercato capitalista, possa attirare governi come quelli africani, timorosi di accettare le richieste europee in materia di liberalizzazione economica e
commerciale, come dimostrano i negoziati sugli Economic Partnership Agreements (si vedano a tal proposito gli approfondimenti in materia). Non solo i governi africani temono gli effetti economici su sistemi produttivi spesso ancora
deboli per sostenere la concorrenza internazionale, ma dimostrano significativi
sospetti nei confronti di forze sociali nel settore privato che potrebbero sfidare il
controllo delle reti di potere neopatrimoniale sulle società nazionali.
Inoltre, Pechino sembra rispettare la sovranità dei propri interlocutori africani
fornendo fondi e investimenti senza richiedere, apparentemente, nulla in cambio.
Gli investimenti cinesi si sono così concentrati in particolare in Paesi ricchi di risorse naturali e minerarie, come Zimbabwe, Nigeria, Angola e Sudan. Le imprese
cinesi, spesso strumento della politica estera dello Stato, sono attive anche nel
settore della difesa e delle telecomunicazioni. Eppure non sono solo gli investimenti a supportare la crescente presenza cinese in Africa, ma anche i consolidati
legami istituzionali, come dimostrano il recente viaggio in Tanzania del Presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) Xi Jinping e l’importanza acquisita
dal Forum per la Cooperazione Cina-Africa, lanciato nel 2000 su iniziativa di Pechino e che negli anni è diventato una sede privilegiata per il dialogo fra i Paesi
africani e la RPC.
L’influenza cinese non può essere dunque sottovalutata, dato che mina alle fondamenta l’approccio europeo sviluppato negli ultimi vent’anni: i finanziamenti
cinesi giungono with no strings attached, non intendono incidere sul contesto politico dei Paesi in cui si dirigono se non per salvaguardare gli interessi economici
di Pechino, soprattutto nel reperimento delle risorse naturali ed energetiche. È
dunque più semplice oggi per i governi africani opporre resistenza alle richieste
europee, proprio perché possono fregiarsi di un nuovo interlocutore apparentemente meno esigente. Questa dinamica è ulteriormente accelerata dal fatto che
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La retorica di Pechino
e il suo modello di
sviluppo attraggono
sempre più i governi
dei Paesi africani
Rispetto per la
sovranità ,
investimenti e nuovi
legami istituzionali: la
Cina cresce in Africa
EREDITÀ STORICHE E NUOVE PROSPETTIVE NELLA POLITICA EUROPEA PER L’AFRICA
Luca Barana
altri attori emergenti, come il Brasile, iniziano a considerare l’Africa come una meta
centrale per i propri investimenti, soprattutto in Paesi come il Mozambico.
L’Africa non è più il
“giardino di casa”
dell’Europa
L’UE è chiamata a rispondere a queste nuove sfide in un continente che Paesi europei come Francia e Gran Bretagna, ma anche istituzioni sovranazionali come la Commissione Europea, hanno storicamente considerato come il proprio ‘giardino di
casa’. Gli strumenti a disposizione dell’UE sono molteplici, dalla cooperazione allo
sviluppo alle missioni di peace keeping, ma prima di tutto l’Europa è chiamata ad
adottare un approccio più coerente e consapevole della nuova realtà africana. In tal
senso, un passo significativo è stato compiuto nel 2007 con l’adozione della Strategia Congiunta UE-Africa, che individua nell’Unione Africana l’interlocutore cruciale
dell’UE e mira a fornire strumenti di coordinamento fra tutte le iniziative europee
indirizzate allo sviluppo del continente africano.
Le nuove sfide della
cooperazione allo
sviluppo dell’UE in
Africa
È in particolare la cooperazione allo sviluppo a dover superare la sfida dei tempi.
Storicamente fondata su sistemi di preferenze commerciali e la fornitura di aiuti allo
sviluppo tramite strumenti quali lo European Development Fund (EDF), la politica
europea si è modificata nel tempo. Negli ultimi decenni ha adottato lo strumento
della condizionalità, richiedendo ai partner africani di implementare riforme economiche e politiche di stampo liberale per accedere ai fondi messi a disposizione. Se
inizialmente tale condizionalità veniva posta ex ante, richiedendo ai governi una
semplice promessa di implementazione delle riforme per ottenere gli stanziamenti
finanziari, l’UE ha modificato tale approccio, introducendo forme di rolling programming, che consistono nel fornire immediatamente ai proprio interlocutori fra i Paesi
ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), nell’ambito dell’Accordo di Cotonou, il 70% dei
fondi programmati per ogni ciclo quinquennale di aiuti e il restante 30% solamente
dopo tre anni, previa una valutazione dello stato di avanzamento degli interventi
previsti. Tale innovazione ha introdotto un giudizio delle performance dei Paesi africani in materia di governance e liberalizzazione economica che i governi hanno mal
sopportato, denunciandone l’ingerenza indebita nei propri affari interni e
l’unilateralismo derivante da un giudizio prodotto dalla Commissione Europea con
scarso coinvolgimento degli stessi governi. Ecco dunque spiegata la crescente predisposizione di molti Stati africani a collaborare con un partner apparentemente meno esigente come la Cina.
Competizione o
cooperazione con gli
attori emergenti in
Africa?
Non necessariamente i rapporti fra UE e attori emergenti in Africa dovranno però
essere di natura competitiva. La stessa Commissione ha identificato nella presenza
cinese un’opportunità per rinnovare le ambizioni di attore globale dell’Unione
tramite la predisposizione di una cooperazione trilaterale che coinvolga anche i Paesi africani. Tuttavia, risultano allo stesso tempo pressanti le preoccupazioni europee sul fatto che l’approccio cinese allo sviluppo dell’Africa possa indebolire ulteriormente la cooperazione condizionale dell’UE, già minata dal duro confronto
sugli EPA e dai cronici sospetti di colonialismo espressi dai governi africani.
Anche nei rapporti bilaterali con l’attore economico dominante in Africa, il Sudafrica, l’UE deve considerare i crescenti legami che Pretoria ha inaugurato con altri attori come Pechino. UE e Sudafrica sono infatti legate dal Trade, Development and Co-
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
operation Agreement (TDCA), siglato nel 1999, ma implementato completamente
solo nel 2012, che ha portato a una graduale liberalizzazione del commercio fra i Il caso del
due poli economici e ha permesso la fornitura di 980 milioni di euro in fondi per lo Sudafrica
sviluppo per il periodo 2007-2013. Inoltre, è stata siglata nel 2007 una partnership
strategica fondata su “valori condivisi e interessi reciproci”. Tuttavia, il Sudafrica
costituisce un caso anomalo in Africa, come dimostra d’altro canto il rapporto
bilaterale privilegiato costruito con l’UE, a differenza degli altri Stati africani, le cui
relazioni con Bruxelles sono regolate da cornici più ampie, come l’Accordo di Cotonou. Il Sudafrica non è un Paese in via di sviluppo in senso stretto, come riflette la
sua affiliazione al club dei BRICS nel 2010, un ulteriore segnale del crescente interesse di tali attori emergenti in Africa. Proprio il più recente summit dei BRICS, tenutosi a Durban, ha sottolineato l’attenzione che Cina, Brasile, India e Russia stanno sviluppando per l’Africa, tramite l’impegno condiviso per la pace e lo sviluppo
del continente espresso dal comunicato conclusivo dell’incontro.
A fronte anche della consolidata presenza degli Stati Uniti, che nel giugno 2012
hanno lanciato una nuova strategia africana, voluta fortemente dal Presidente Barack Obama e volta a promuovere contemporaneamente sviluppo, democratizzazione e sicurezza degli interessi americani, sono dunque queste le nuove prospettive che l’UE deve considerare nella formulazione delle proprie politiche per l’Africa,
un continente non più appannaggio esclusivo delle ex potenze coloniali europee e
orgoglioso dei risultati economici che iniziano a smuovere una realtà economicosociale rimasta immutata troppo a lungo. Se l’UE intende perseguire lo sviluppo
dell’Africa e la promozione dei propri valori dovrà riconoscere i nuovi convitati
alla tavola africana. Non un nuovo scramble for Africa, ma una competizione per
un futuro migliore che il mondo deve alle popolazioni africane.
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UN SECOLO AFRICANO ? LE PROSPETTIVE
ECONOMICHE DEL VECCHISSIMO CONTINENTE
L’Africa cresce ormai ininterrottamente da dieci anni. Permangono molte difficoltà, ma il continente si sta rilanciando. Mentre il Nord Africa è alle prese con
l’instabilità seguita alla Primavera Araba, lo sfruttamento delle risorse naturali e
gli investimenti esteri restano alla base della crescita dell’Africa sub-sahariana e
si accompagnano alla maturazione di economie moderne come quella sudafricana. I partner internazionali sono chiamati a confrontarsi con questa nuova realtà.
Fabio Cassanelli
P
Superare gli
stereotipi: l’Africa è
indirizzata su un
percorso di crescita
e sviluppo
In Nord Africa le
rivoluzioni hanno
lasciato ferite aperte
sulle economie
nazionali
er qualche tempo durante l'inverno del 2012, il video "Africa for Norway"
ha fatto sorridere più di due milioni di persone in rete. Il breve cortometraggio è una parodia delle buone intenzioni filantropiche dell'Occidente
verso il continente africano: con un simpatico jingle si veniva infatti invitati
a partecipare alla campagna per donare termosifoni ai poveri norvegesi infreddoliti.
L'iniziativa è stata lanciata dall'Associazione Radi-Aid per denunciare gli stereotipi
degli occidentali nei confronti dell’Africa. Ai media ed al mondo accademico veniva
richiesta una più corretta ed approfondita informazione sugli avvenimenti africani,
mentre, alla "macchina degli aiuti", costituita da associazioni no-profit e di carità, si
chiedeva di non basare le proprie donazioni sulle buone intenzioni, ma sui reali bisogni delle popolazioni africane. È di questo che l'Africa ha bisogno. Donare risorse
per aiuti alimentari o cancellare una parte di debito è un'ottima azione, ma la sua
portata ed efficacia sono molto limitate. L'Africa andrebbe conosciuta ed aiutata
“fino a un certo punto” con veri progetti di sviluppo economico, industriale, tecnologico e politico.
Senza voler essere politicamente scorretti, "fino ad un certo punto" presuppone che,
prima di quanto l'Occidente si aspetti, l'Africa dovrà essere considerata un partner alla pari con cui condividere il destino del pianeta. Nonostante l’attuale instabilità politica, economica e sociale, gli Stati africani hanno da tempo iniziato il cammino verso lo sviluppo e l’affermazione internazionale. La strada sarà lunga e ricca
di ostacoli, ma sarà più rapida del previsto e diversa da quanto accaduto in passato.
Iniziamo l’excursus del continente dal Nord Africa. Come vedremo nei prossimi articoli, la situazione recente è troppo complessa, diversificata ed esposta a cambiamenti repentini per intravedere un cammino di sviluppo ben tracciato. La Primavera Araba ha lasciato ferite aperte negli apparati produttivi e commerciali di Tunisia,
Egitto e Libia. Quest’ultima, attraversata anche da una sanguinosa guerra civile, è la
più segnata dai contraccolpi delle rivoluzioni. Tutti e tre i Paesi stanno affrontando
gravi recessioni e un’inflazione galoppante (soprattutto sui generi alimentari) che
non permette alle rispettive banche centrali di rilanciare l’economia aggredendo i
tassi di interesse. In ogni caso, placandosi progressivamente l’instabilità politica, i
Paesi ricominceranno a crescere. Essi possiedono infrastrutture sopra la media
del continente e lo sbocco sul Mediterraneo è ideale per favorire il commercio e il
rilancio del turismo. In questo modo si potrà riprendere una direttrice di crescita
economica a fianco di quei Paesi solamente sfiorati dalla Primavera Araba come Ma-
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
rocco ed Algeria.
Un ruolo chiave in questo percorso di rinascita economica e politica dovrà essere
giocato dall’Unione Europea (UE) per portare al rilancio dei rispettivi investimenti,
degli scambi commerciali e all’implementazione delle strategie energetiche comuni. Un programma visionario che può essere considerato l’emblema di una nuova
partnership economica è il “Progetto Desertec”, attraverso il quale si mira a costruire un enorme parco fotovoltaico nel deserto del Sahara. L’investimento sarà
principalmente europeo e verranno creati posti di lavoro ed energia pulita per aziende e cittadini di UE e Nord Africa. I primi memorandum di intesa tra UE, Tunisia, Marocco ed Algeria sono stati firmati. Verrà affiancato a Desertec il “Progetto
Medgrid” con l’obiettivo di costruire una rete comune per lo scambio dell’energia.
“Desertec” e la
cooperazione
economica tra UE
e Nord Africa
Spostando l’attenzione sull’Africa centrale, si assiste ad una situazione almeno
altrettanto complessa e variegata. Le guerre del Corno d’Africa, l’epidemia di HIV/
AIDS, la ridotta speranza di vita, la mancanza di infrastrutture e di servizi essenziali per la popolazione, l’altissimo debito estero, la corruzione delle classi dirigenti e
l’uso poco assennato delle risorse naturali rendono da molti decenni difficile la ricerca di una via di sviluppo per la regione. Anche in questo caso, però, non mancano elementi potenzialmente molto positivi che potranno trasformare questa
regione in una delle aree più dinamiche del continente. Prendiamo ad esempio in
considerazione i casi dell’Angola e della Nigeria, i Paesi in cui il PIL è cresciuto
maggiormente tra il 2001 ed il 2011 a livello globale (rispettivamente dell’11,1% e
dell’8,9% all’anno).
La storia di successo dell’Angola inizia con il nuovo millennio e la fine di una
guerra civile durata circa 27 anni. Il processo di ricostruzione finanziato tramite
linee di credito fornite dalla Cina, dal Brasile, dal Portogallo, dalla Spagna e dalla
Germania funziona e le infrastrutture sinora realizzate alimentano l’exploit del settore petrolifero e di quello minerario e diamantifero. L’estrazione di petrolio è raddoppiata tra il 2001 ed il 2006 e nel 2007 l’ex colonia portoghese è entrata a far
parte dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Il governo riesce ad attirare ingenti quantità di investimenti esteri, soprattutto cinesi, in cambio
di concessioni minerarie. L’inflazione è calata dal 325% del 2000 al 10% del 2012.
La crisi globale del 2008 ha minacciato l’export di Luanda, costretta così a chiedere
un prestito del Fondo Monetario Internazionale per coprire un deficit pari all’8,6%
del PIL nel 2009. La ripresa globale e l’imponente crescita economica sono tornate
ad arricchire le casse statali e nel 2012 l’Angola ha registrato un surplus di bilancio
superiore al 12% del PIL. Questo tesoretto permetterà al governo di investire ingenti risorse per colmare le carenze di un sistema sanitario ancora arretrato. Il peso del welfare state risulterà comunque molto leggero data la spesa pensionistica
insignificante, considerata l’età media della popolazione intorno ai 18 anni, il decimo tasso di natalità più alto del mondo e una fascia di popolazione anziana quasi
inesistente. La classe dirigente dovrà comunque tracciare un sentiero di sviluppo
non troppo dipendente dall’export petrolifero e continuare a incentivare gli investimenti angolani all’estero aumentati del 25% dal 2011 al 2012.
La Nigeria ha invece adottato una nuova Costituzione nel 1999 dopo la fine del re© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’Angola : risorse
naturali, investimenti
esteri e ordine nelle
finanze pubbliche
UN SECOLO AFRICANO? LE PROSPETTIVE ECONOMICHE DEL VECCHISSIMO CONTINENTE
Fabio Cassanelli
La fragile democrazia
della Nigeria: ricchezza di risorse e grandi
disuguaglianze
Il Sudafrica tra
problemi sociali e
sanitari e una crescita
economica solida
Il ruolo delle
istituzioni e delle
organizzazioni
regionali per lo
sviluppo dell’Africa
gime militare. Per quanto le ultime elezioni siano state caratterizzate da numerose
irregolarità, il Paese può dirsi oggi una pur imperfetta democrazia. Tra il 2000 ed il
2005 ha ricevuto gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale ed in cambio ha realizzato importanti riforme economiche e finanziarie. Come per l’Angola, gran parte
della ricchezza del Paese deriva dall’attività estrattiva, ma molti passi avanti
devono essere compiuti dal punto di vista della redistribuzione del reddito. La percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà sfiora infatti ancora il
70%. In ogni caso, i margini di manovra sono enormi per i prossimi anni, poiché il
debito pubblico si aggira intorno al 18% del PIL ed il governo potrebbe avviare ingenti programmi di sviluppo. L’inflazione si attesta ad un controllabile 10% annuo e
le riserve della Banca Centrale sono aumentate nell’ultimo anno da 35 a 42 miliardi
di dollari. Gli investimenti all’estero del Paese sfiorano gli 11 miliardi di dollari, 3
miliardi in più dell’Angola. I punti comuni tra i due Paesi sono molti. Entrambi gli
Stati godono dell’abbondanza di materie prime, ma ciò non è sufficiente a garantire uno sviluppo sostenibile a lungo termine. Si nota poi l’impegno condiviso a rafforzare le strutture democratiche, ad accogliere gli investimenti esteri e l’apertura ad
investire all’estero. Infine, entrambi i Paesi vantano una popolazione giovane, un
bilancio dello Stato in ordine ed un sistema bancario basato sul modello occidentale.
In Africa meridionale infine il panorama è dominato dal Sudafrica, la «S» dei BRICS.
Il Paese di Nelson Mandela, governato oggi dal discusso presidente Jacob Zuma, sta
attraversando un periodo travagliato. Recenti stime indicano che il 17,6% della popolazione sudafricana ha contratto l’HIV/AIDS, mettendo a dura prova un sistema
sanitario la cui spesa ha già raggiunto il 9% del PIL. La speranza di vita raggiunge a
malapena i 50 anni e nel 2012 la popolazione è diminuita dello 0,5% per i significativi flussi di emigrazione che stanno colpendo il Paese. Per quanto riguarda
l’economia, il Sudafrica è già impostato sull’assetto di un moderno Stato occidentale,
con un settore dei servizi molto sviluppato ed una piazza finanziaria tra le maggiori quindici al mondo. Il debito pubblico si aggira intorno a un sostenibile 45% del
PIL e l’inflazione viaggia al 5% annuo. Nonostante la crescita poderosa nel 2012 sia
un po’ rallentata, fermandosi ad un +2,6%, le prospettive future restano ottime
considerando gli investimenti al 20% del PIL ed un export molto dinamico.
Com’è intuibile da questa pur breve carrellata, nei prossimi anni assisteremo ad una
rivoluzione radicale nel continente africano. Negli Stati in cui l’economia ha
viaggiato a ritmi sostenuti, l’inflazione è sotto controllo, gli investimenti e il commercio internazionale stanno brillando e vi sono i presupposti per la nascita di una
nuova classe media, istruita e consapevole dei propri diritti. Le istanze per migliori
servizi legati all’istruzione, una migliore sanità ed un sistema di welfare porranno le
basi di uno sviluppo ancora maggiore. Se un numero maggiore di Paesi africani adottasse effettivamente strategie di apertura economica, le sinergie e
l’integrazione all’interno del continente potrebbero fornire ulteriore combustibile
per la crescita e lo sviluppo Queste sfide, per loro stessa natura particolarmente difficili, necessitano di migliori istituzioni, di una maggiore cooperazione internazionale e regionale e di un approccio che sappia sempre più andare al di là dei confini nazionali. Il ruolo delle organizzazioni regionali e le loro relazioni con attori come
l’UE, rappresentano elementi fondamentali per il futuro del continente.
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IL FALLIMENTO STRATEGICO
DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA
L’esplosione della Primavera Araba in Nord Africa è stato un fallimento strategico
per l’Unione Europea. L’ambivalenza dell’Europa, sempre a metà tra la retorica
delle riforme e la convivenza con i regimi autoritari nordafricani, si è fondata sulla difesa di una falsa stabilità, dimostratasi in fin dei conti insostenibile. Il nuovo
scenario del Nord Africa è così aperto per nuovi attori quali Paesi del Golfo, Cina e
Turchia, mentre l’Europa fatica a rilanciarsi e ritrovare centralità nella regione.
Davide D’Urso
I
l crollo repentino e caotico dei regimi autoritari che per oltre vent’anni hanno retto le sorti del Nord Africa è quanto di più lontano si possa immaginare dagli obiettivi che sono stati alla base della politica dell’Unione Europea
(UE) verso la regione. L’UE e i suoi Stati membri hanno infatti sempre anteposto la difesa della stabilità in Nord Africa ad ogni altra considerazione di
natura politica, economica e valoriale. Pur nella grande varietà di approcci, progetti e quadri di cooperazione varati nel corso degli ultimi quindici anni, questo
obiettivo strategico di fondo è rimasto invariato, sebbene declinato in modo diverso da Bruxelles e dalle capitali nazionali ed espresso in forme istituzionali e
politiche tra loro molto diversificate.
A dispetto di quanto si creda, la difesa della stabilità e il mantenimento della sicurezza agli immediati confini dell’Europa non hanno significato un’azione politica meramente imperniata sulla conservazione dello status quo. Tutti gli approcci politici varati dall’UE nel corso degli anni, a partire dalla “Dichiarazione di
Barcellona” del novembre 1995, si sono sempre fondati sulla considerazione che
l’obiettivo di costruire un’«area di pace, stabilità e prosperità condivisa» nel Mediterraneo passasse necessariamente per la riforma economica e politica dei
Paesi nordafricani. La stessa Politica Europea di Vicinato (PEV) nasceva con
l’obiettivo di trasformare gli Stati vicini, compresi quelli del Nord Africa, in
«Paesi amici e ben governati». Eppure, anche nei momenti in cui è sembrata
spingere con più forza per la riforma dei Paesi nordafricani, l’UE e i suoi Stati
membri non hanno mai messo in discussione la priorità concessa ai temi della
stabilità e della sicurezza, frenando rispetto a processi di democratizzazione
giudicati troppo rapidi ed evitando di applicare politiche che potessero indebolire la capacità dei regimi autoritari di mantenersi al potere e controllare il proprio territorio.
Il tema della promozione delle riforme politiche, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali ha dunque giocato un ruolo strumentale e marginale in una strategia orientata decisamente alla stabilità. L’applicazione di politiche volte almeno
retoricamente a promuovere la riforma graduale dei Paesi nordafricani è stata
seriamente limitata da considerazioni di breve periodo - secondo le quali collaborare con le dittature era più semplice e meno rischioso che lavorare per la
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In Nord Africa,
l’Europa ha sempre
anteposto la difesa
della stabilità ad ogni
altra considerazione
politica e valoriale
L’UE ha riconosciuto
la necessità della
riforma dei Paesi
nordafricani, ma. . .
IL FALLIMENTO STRATEGICO DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA
Davide D’Urso
loro riforma - e dalla mancanza di coesione interna. Paesi come Francia, Spagna e
Italia, tradizionalmente al centro di proprie reti di relazione con i Paesi dell’Africa
settentrionale, hanno coltivato l’amicizia e la cooperazione con gli autocrati per tuIl “patto faustiano” telare i propri interessi nazionali di breve periodo. Alla base di questo atteggiamendegli europei con i
dittatori nordafricani to vi era la considerazione per cui gli effetti negativi di un’eventuale instabilità nordafricana avrebbero colpito in primo luogo la loro sicurezza, mettendo in discussione il controllo dei flussi migratori, la sicurezza degli approvvigionamenti energetici
e la tutela degli interessi economici delle proprie imprese. Temi come la lotta al terrorismo e il contrasto al fondamentalismo islamico hanno poi rappresentato preoccupazioni condivise anche dagli altri Stati membri. In modo più esplicito rispetto
alle istituzioni comunitarie, i governi nazionali dell’UE hanno fondato gli ultimi
vent’anni di relazioni con gli Stati nordafricani sulla base di un “patto faustiano”
per cui dittatori come Hosni Mubarak in Egitto e Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia ricambiavano il riconoscimento internazionale e l’assistenza finanziaria offerta
dagli europei tenendo le minacce legate al terrorismo, all’immigrazione illegale e al
fondamentalismo religioso a distanza di sicurezza dalle frontiere dell’Europa.
L’attivismo dell’UE
nel promuovere
riforme economiche
liberali
Per i rivoluzionari ,
l’UE era alleata dei
regimi, interessata ai
propri interessi
La Primavera Araba ha rappresentato così un autentico fallimento strategico per
l’Europa. Aver cercato di conciliare due posizioni tra loro antitetiche, ovvero la promozione graduale delle riforme con la collaborazione e l’attivo sostegno dei regimi
autocratici al potere, ha portato ad uno scollamento sempre più evidente tra retorica e azione politica europea. Dal punto di vista economico, l’UE è stata in prima fila
nel promuovere riforme di stampo liberale, chiedendo il progressivo smantellamento del ruolo predominante dello Stato arabo nell’economia, la riduzione dei sussidi e il progressivo abbassamento delle barriere tariffarie al commercio, favorendone l’integrazione nell’economia globale attraverso un rapporto privilegiato con
l’Europa. Al tempo stesso, alla proclamata intenzione di aiutare i governi dell’Africa
settentrionale a compensare i costi sociali della riforma economica non sono corrisposti sufficienti impegni finanziari.
La spinta decisa per le riforme economiche e l’apertura commerciale, slegata rispetto ad un impegno reale per una riforma politica giudicata pericolosa per gli interessi
dell’Occidente, ha così aggravato la concentrazione del potere nelle mani delle
cerchie ristrette dei dittatori nordafricani, approfondito le disuguaglianze economiche senza risolvere il dramma occupazionale e progressivamente eliminato le reti di
sicurezza sociali che lo Stato arabo aveva costruito negli anni immediatamente successivi all’indipendenza. Agli occhi degli attori che nel corso del 2011 hanno abbattuto i regimi autoritari di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi e dei movimenti politici islamici che nel corso delle transizioni sarebbero emersi come forze di governo, l’UE
non solo aveva agito come un’alleata dei regimi, ma con il suo atteggiamento ambivalente aveva compromesso la stessa causa della democrazia, legandola a riforme
e interventi economici giudicati ingiusti, fallimentari e funzionali ai soli interessi
dell’Occidente.
Ritrovandosi improvvisamente dal lato sbagliato della storia, cioè accanto a regimi
autoritari, repressivi e sanguinari nel momento in cui questi venivano attaccati dalle
proprie piazze, l’UE ha perso influenza, prestigio e contratti economici. Nella pri-
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
ma fase delle rivoluzioni, l’UE si è ritrovata divisa al suo interno e quindi paralizzata in un silenzio imbarazzato. Non poteva essere altrimenti visti i legami che alcuni
suoi Stati membri avevano avuto con regime repressivi e polizieschi come per esempio quello di Ben Ali in Tunisia e i timori degli effetti che un crollo dei regimi
autoritari avrebbe potuto avere sulla sicurezza delle frontiere meridionali
dell’Europa.
Nelle fasi più concitate della rivoluzione tunisina che diede avvio all’ondata di proteste in tutto il mondo arabo, il governo francese più di altri non nascose la propria
posizione nei confronti del regime tunisino. L’allora Ministro degli esteri Michèle
Alliot-Marie arrivò a proporre, in un discorso all’Assemblea Nazionale l’11 gennaio 2011, di «aiutare la Tunisia a mantenere l’ordine e gestire le manifestazioni»,
suggerendo che la Francia avrebbe potuto mettere a disposizione del suo governo
«il savoir-faire delle forze di sicurezza francesi, che è riconosciuto nel mondo intero
e che permette di regolare situazioni di sicurezza di questo tipo». Discorsi simili
valgono per Spagna e Italia. Nel caso di Roma, i legami con il regime di Muhammar
Gheddafi hanno rappresentato una realtà particolarmente scomoda, nel momento
in cui l’ex alleato iniziava una repressione sanguinaria contro la propria popolazione.
Alleanze e amicizie
scomode: la Francia e
Ben Ali; l’Italia e
Gheddafi
Risolta pur con molte difficoltà la questione della posizione che l’UE avrebbe dovu- Il “mea culpa”
to assumere nei confronti delle rivoluzioni arabe, Bruxelles ha progressivamente dell’Europa
preso in mano la politica europea in Nord Africa, mettendo in atto una risposta
diplomatica e strumentale particolarmente significativa. La constatazione della
debacle europea in Nord Africa è stata riconosciuta francamente dalle istituzioni
comunitarie. Come ha ammesso il 28 febbraio 2011 il Commissario
all’allargamento e alla politica di vicinato Stefan Füle di fronte al Parlamento Europeo:
«Dobbiamo dimostrare umiltà rispetto al passato. L’Europa non ha fatto
abbastanza per difendere i diritti umani e le forze democratiche nella
regione. Troppi di noi si sono fermati all’assunto che i regimi autoritari
fossero una garanzia di stabilità. Questa non era nemmeno Realpolitik.
Era, per bene che fosse, una politica di breve termine, un tipo di politica
di breve termine che rende il lungo termine sempre più difficile da costruire.»
A rendere incoerente e inefficace la strategia europea è stata in particolare la convivenza forzata negli ultimi quindici anni di relazioni tra Europa e Nord Africa di “Europa liberale” vs
due anime tra loro contraddittorie: da un lato un’«Europa liberale», che ha cerca- “Europa fortezza”
to di creare le condizioni strutturali funzionali al cambiamento politico, incentivando riforme economiche e sociali con gli strumenti della condizionalità e del dialogo; dall’altro un’«Europa fortezza», preoccupata da minacce come quella
dell’immigrazione clandestina, del terrorismo, del fondamentalismo religioso e
quindi pronta, anche per tutelare i propri interessi economici, a sostenere regimi
autoritari, corrotti e incapaci rivelatisi poi solo apparentemente garanzie di stabilità. L’impossibilità di conciliare queste due anime e la forza poderosa dell’ondata
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IL FALLIMENTO STRATEGICO DELL’UNIONE EUROPEA IN NORD AFRICA
Davide D’Urso
rivoluzionaria nel mondo arabo ha spiazzato l’Europa e ha aperto la regione più
settentrionale del continente africano, così ricca di opportunità e risorse,
all’influenza di altri attori del sistema internazionale.
Nuovi attori nello
scenario del Nord
Africa: Paesi del Golfo,
Cina, India e Turchia
Una nuova strategia
coerente per il Nord
Africa è una necessità
per l’Europa
Il ruolo crescente di attori come i Paesi del Golfo, su tutti Qatar e Arabia Saudita,
ma anche di Paesi tradizionalmente esterni come Cina e India, rappresentano però
fattori che complicano ulteriormente i tentativi dell’UE di riguadagnare la centralità
politica nella regione. Soprattutto presso Paesi come Libia e Algeria, che restano
fondamentali serbatoi di risorse energetiche e flussi finanziari, gli interessi di potenze esterne e rivali, nonché la perdurante incapacità di realizzare una politica coesa, rischiano di far perdere ulteriori posizioni all’UE. Mentre in Marocco e Tunisia
l’Europa non sembra correre rischi analoghi, l’Egitto sta assumendo un ruolo progressivamente più autonomo, che fa della ricerca di nuovi legami con attori internazionali esterni all’Occidente lo strumento del proprio rilancio internazionale. Il ruolo della Turchia, infine, meriterebbe un’attenzione particolare da parte di Bruxelles:
non solo Ankara ha agito dando il proprio sostegno ai processi rivoluzionari e di democratizzazione, ma il ruolo di modello che la repubblica turca rappresenta per gli
attori politici musulmani è anch’esso un rivale per il soft power europeo nella regione.
Nell’ambito della nuova corsa all’Africa, la competizione per l’influenza e le risorse del Nord Africa rappresenta un nodo fondamentale per l’UE. La vicinanza della regione, i suoi legami storici, culturali e sociali con l’Europa, la quantità di risorse
e gli spazi politici aperti in un’area che si credeva incapace di progredire e che invece costituisce la regione africana politicamente più dinamica, sono alla base della
nuova rilevanza strategica dell’Africa settentrionale. Rimediare al fallimento strategico nella regione sarà un’impresa difficile, così come riguadagnare terreno rispetto
ad attori che vantano prestigio internazionale e forza economica crescente.
Se in quello che essa stessa ha definito il suo “vicinato” l’UE non darà prova di saper
costruire una strategia coerente, che superi le divisioni interne e sappia individuare obiettivi di medio e lungo termine e gli strumenti necessari per realizzarli, rischierà di compiere un altro passo verso l’irrilevanza globale. L’Europa non può più
permetterselo.
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SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA” :
LA NUOVA PEV E LA RELAZIONE CON L’EGITTO
Le rivoluzioni in Nord Africa hanno spinto l’Unione Europea a rivedere la propria
politica di vicinato. La promozione di una “democrazia radicata e sostenibile” nella regione è oggi l’obiettivo principale di Bruxelles. Le relazioni con l’Egitto, Paese
altamente strategico per l’Europa, sono state oggetto di particolare attenzione da
parte della diplomazia europea, con innumerevoli visite ufficiali e il varo di una
Task Force UE-Egitto senza precedenti per dimensione e portata economica.
Sara Bottin
L
a Primavera Araba non ha scosso solamente la sponda meridionale del
Mediterraneo, ma ha avuto forti implicazioni anche sulla politica dei Paesi mediterranei dell’Unione Europea (UE) e dell’UE globalmente considerata. Gli eventi del 2011 hanno obbligato Bruxelles a rivedere il suo
approccio verso i Paesi coinvolti per adattarlo ad una realtà politica più fluida.
Da subito, l’UE ha riconosciuto la necessità di un rinnovamento della Politica
Europea di Vicinato (PEV), che non ha saputo promuovere i diritti umani e la
democrazia nel vicinato meridionale. Le rivoluzioni arabe hanno così offerto
all’Europa un’inattesa opportunità per rafforzare il dialogo e la cooperazione con
i Paesi dell’area mediterranea. Esse hanno portato democrazia e diritti umani
al centro delle piazze nordafricane e delle politiche europee verso la regione.
La prima risposta politica “strutturata” dell’UE alle sfide generate dalla Primavera Araba è arrivata nel maggio 2011 con una comunicazione congiunta dell’Alto
Rappresentante (AR) per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton e la Commissione Europea. Si tratta della comunicazione “A new response
to a changing neighbourhood” che lanciava una revisione della PEV nel suo insieme. L’UE sottolineava la grande importanza del rispetto di valori come i diritti
umani, la democrazia e lo stato di diritto nei Paesi del vicinato. Questi valori, già
formalmente riconosciuti come centrali nelle relazioni tra l’UE ed i suoi vicini,
erano stati messi in secondo piano di fronte alle continue violazioni perpetrate
dai regimi dittatoriali della regione sotto gli occhi dell’Europa. Questo silenzio è
costato all’UE accuse di incoerenza e perdita di credibilità agli occhi delle popolazioni arabe.
Dal punto di vista politico, la maggiore novità introdotta dalla comunicazione è
proprio la nozione di “deep and sustainable democracy”: il sostegno ad una
democrazia radicata nella società e sostenibile nel tempo è diventato l’obiettivo
dell’UE nelle sue relazioni con i Paesi del vicinato. Questo comporta la necessità
di coinvolgere attori rimasti lungamente ai margini della vita politica nel mondo
arabo: donne, giovani, organizzazioni non-governative (ONG), giornalisti. A questo scopo, l’UE ha varato due nuovi strumenti. Il primo è il “Civil Society Facility”, volto a finanziare la società civile e a rafforzarne la voce nel dibattito politico che caratterizza le transizioni in corso nei Paesi nordafricani. Il secondo è lo
“European Endowment for Democracy” (EED), uno strumento che in queste
© Europae - Rivista di Affari Europei
17
Maggio 2011:
“A new response to a
changing
neighbourhood”
La democrazia
radicata e sostenibile
come nuovo obiettivo
dell’UE nella regione
SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA”: LA NUOVA PEV E LE RELAZIONI CON L’EGITTO
Sara Bottin
Bernardino Leon,
rappresentante
speciale dell’UE per il
Mediterraneo
La rilevanza
strategica dell’Egitto
Task force e visite
ufficiali: Il Cairo al
centro dei pensieri
della diplomazia UE
settimane sta finalmente vedendo la luce a due anni di distanza dal suo varo e costituirà una risorsa a disposizione di partiti politici, ONG non registrate e altri partner
sociali nel periodo di transizione politica. Se questi due strumenti derivano dalla
mera presa di coscienza dei limiti della PEV, non possono essere considerati grandi
passi avanti. La stessa creazione dell’EED non è stata una prova di celerità da parte
dell’UE e rischia di restare priva di risorse, dovendo queste arrivare da donazioni
spontanee degli Stati membri.
Dal punto di vista diplomatico, tuttavia, l’impegno profuso dall’UE in questi mesi è
stato davvero notevole. Un passo molto importante è stata la nomina nel luglio 2011
del Rappresentante Speciale (RS) dell’UE per il Mediterraneo nella persona del diplomatico spagnolo Bernardino Leon. La necessità di creare questa nuova figura
all’interno del Servizio Europeo per l’Azione Esterna nasce dall’esigenza di rafforzare il ruolo politico dell’UE, la sua influenza e soprattutto la sua visibilità nella regione. Nel 2013 Leon ha viaggiato con cadenza più che mensile tra Bruxelles e l’Egitto,
inaugurando quella che Catherine Ashton ha definito una «shuttle diplomacy».
L’Egitto è probabilmente il Paese del vicinato meridionale al quale la diplomazia
europea ha dedicato più attenzioni, energie e preoccupazioni, avendo una rilevanza
strategica e geopolitica particolare per l’azione europea nel Mediterraneo. Si tratta
in effetti del più grande Paese arabo, con più di 80 milioni di abitanti e rappresenta
storicamente una guida per i suoi vicini, svolgendo anche un ruolo di rilievo nella
mediazione per il processo di pace in Medio Oriente. L’Egitto è inoltre un importante partner nella lotta al terrorismo e nel campo della cooperazione energetica, due
grandi preoccupazioni per la sicurezza dell’UE. Per tutte queste ragioni, non sorprende che dall’inizio della rivoluzione del 25 gennaio 2011, l’UE abbia seguito con
grande attenzione gli sviluppi politici ed economici del Paese.
La Task Force del novembre 2012 ha rappresentato un momento importante nelle relazioni tra Egitto ed UE. Lo strumento diplomatico della “task force” era già stato sperimentato in Tunisia e Giordania, ma la quella UE-Egitto non trova paragoni
per complessità, partecipanti e portata economica. I frequenti viaggi tra di
quest’anno del RS Leon per valutarne i seguiti, confermano la grande importanza
dedicata dall’UE all’evento. Nel corso di questi viaggi, il RS ha avuto occasione di incontrare il governo egiziano, l’opposizione politica e i rappresentanti della società
civile per continuare nel lungo percorso di ricostruzione della fiducia tra i due partner. Leon non è stato il solo esponente della diplomazia europea a recarsi in Egitto
in questi mesi. Il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy ha compiuto una missione al Cairo a gennaio, riaffermando l’impegno dell’UE nella costruzione di una relazione più intensa e coerente con l’Egitto del Presidente Mohamed
Morsi. La stessa Ashton ha incontrato Morsi e molte figure dell’opposizione nel corso della sua visita al Cairo lo scorso 7 aprile, riaffermando il sostegno dell’UE alla
transizione democratica.
Questi sforzi basteranno a risollevare la credibilità dell’UE nell’area? Stando ai risultati dello “EU Neighbourhood Barometer” del 20 marzo scorso sembrerebbe proprio
di sì. L’indice in questione mira a valutare la percezione delle politiche dell’UE nei
16 Paesi coinvolti dalla PEV tramite l’utilizzo di opinion polls e il monitoraggio dei
media locali con lo scopo di comprendere preoccupazioni e reazioni delle popola-
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
zioni. I risultati di questa ricerca trasmettono una valutazione molto positiva
dell’azione dell’UE nel vicinato, che gli intervistati associano alle nozioni di
“solidarietà” e “diritti umani”.
Un risultato tutt’altro che ovvio, soprattutto se consideriamo la grande influenza di
altri importanti attori internazionali in questi Paesi. Paesi del Golfo e Cina, ad
esempio, stanno acquisendo sempre maggiore influenza. Per i primi si tratta di
un’influenza legata ad una politica del “doppio standard” che ha portato questi
stessi Paesi a reprimere le proteste al loro interno, ma ad appoggiare movimenti
simili nell’area del Mashrek, in particolare in Egitto e Siria. Il loro supporto è andato soprattutto alle forze islamiche, indipendentemente dalla loro democraticità.
Basti pensare al ruolo di uno dei più potenti stati del Golfo, il Qatar, nella vita politica egiziana. Non è un segreto l’ingente utilizzo dei media adottato per appoggiare
i Fratelli Musulmani nella loro campagna politica, in particolare attraverso
l’utilizzo della rete satellitare Al-Jazeera che ha sede a Doha. Lo scopo è quello di
evitare che i movimenti giovanili possano avere un ruolo politico maggiore
nell’area, limitare gli effetti destabilizzanti delle proteste e favorire le forze islamiche, più inclini alla creazione di regimi amici delle monarchie saudite.
Per quanto riguarda il ruolo della Cina, anche in questo caso non ci si può aspettare
un suo appoggio alle forze democratiche emergenti nei Paesi arabi. La Primavera
Araba ha però rappresentato anche per Pechino l’opportunità per accrescere il
proprio ruolo nell’area. La posizione cinese è molto chiara soprattutto nei confronti dell’Egitto. Inizialmente contraria alle pressioni internazionali per le dimissioni
di Hosni Mubarak, dopo il ritiro del dittatore la leadership cinese si è affrettata a
ristabilire relazioni con i più svariati attori politici egiziani, noncurante delle loro
diverse collocazioni nell’arena politica.
Cina e Paesi del Golfo, Qatar in particolare, possono offrire una carota molto appetitosa a questi Paesi. Entrambi non hanno certo sofferto la crisi finanziaria dell’UE
e offrono ai loro partner l’accesso ad aiuti ingenti e privi di alcuna condizionalità democratica. In questo senso, i finanziamenti offerti dall’Europa sembrano più
simili ad un bastone sulle spalle di società impegnate nella transizione politica. La
Cina, in modo particolare, offre un modello di sviluppo economico di successo ed è
molto ammirata nei Paesi arabi per le sue performance economiche. Lo stesso non
si può dire per l’UE.
Se al momento attuale non si può immaginare un aumento significativo
dell’impegno economico europeo verso il vicinato meridionale, si può però auspicare che l’UE si impegni nel dialogo con gli altri attori internazionali che agiscono
nella regione. Proprio in quest’ottica si è tenuto lo scorso 12 novembre il secondo
meeting a livello ministeriale tra UE e Lega Araba (LA). Svoltosi al Cairo alla
presenza di Catherine Ashton e del Commissario europeo per la PEV Stefan Füle, si
è trattato del primo incontro tra le due organizzazioni regionali dopo la Primavera
Araba e di un’importante occasione per rilanciare la cooperazione e aprire un dialogo su sfide ed opportunità comuni nate dalle rivoluzioni arabe. Nel suo discorso
di apertura, Ashton ha ribadito l’importanza di agire in sinergia per creare approcci e soluzioni regionali ai cambiamenti in atto nell’area mediterranea. Nonostante i riferimenti alla necessità di appoggiare le transizioni verso la democrazia,
© Europae - Rivista di Affari Europei
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Gli altri attori: i doppi
standard dei Paesi
del Golfo
La non-condizionalità
degli aiuti cinesi
La cooperazione con
gli altri attori della
regione: l’UE e la
Lega Araba
SHUTTLE DIPLOMACY E “DEMOCRAZIA RADICATA”: LA NUOVA PEV E LE RELAZIONI CON L’EGITTO
Sara Bottin
la Dichiarazione del Cairo adottata dai Ministri al termine del meeting lancia un
appello forte in favore delle ambizioni delle popolazioni arabe.
È certamente prematuro valutare l’impatto dell’azione diplomatica europea verso i
Paesi nordafricani coinvolti dalla Primavera Araba. Questi Paesi stanno ancora viIl grande attivismo
europeo e il nuovo vendo nell’incertezza politica ed economica tipica del periodo post-rivoluzionario.
ruolo politico dell’UE Tuttavia, non si può non prendere atto di un grande attivismo da parte dell’UE,
che ha dispiegato in questi ultimi mesi tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione
per evitare di perdere troppo della sua tradizionale influenza nella regione. Il risultato è senz’altro un ruolo politico più aperto, chiaro e visibile agli occhi delle popolazioni interessate e anche di tutti gli attori internazionali che agiscono nell’area
mediterranea. A due anni dall’inizio delle proteste, il 2013 potrebbe portare i frutti
più maturi di una Primavera lungamente accusata di essersi già “congelata”. L’UE,
intanto, ha preparato la strada per un dialogo e una relazione più matura e coerente
con i Paesi arabi.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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REALTÀ E PROMESSE : L’UNIONE EUROPEA E
LA TUNISIA A DUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE
Due anni dopo le rivoluzioni che hanno cambiato per sempre il Nord Africa,
l’Unione Europea continua ad affrontare le sfide del suo “vicinato meridionale”.
La Tunisia, alle prese con i problemi della democratizzazione, continua a rappresentare un esempio delle contraddizioni dell’approccio europeo. Dal principio del
“more for more” alle promesse delle tre “M”, la realtà vede un’Europa ancora alle
prese con la crisi e incapace di andare oltre i tecnicismi della politica di vicinato.
Stefania Bonacini
L
o sconvolgimento tellurico che ha attraversato, seppur con modalità e
intensità diverse, l’intera regione nordafricana a partire dal dicembre
2010 ha colto di sorpresa gli osservatori occidentali. In questo senso, la
reazione di sbigottimento dell’Unione Europea (UE) e dei suoi Stati
membri davanti a quella che è stata etichettata come Primavera Araba, non costituisce un’eccezione. Lo stupore a Bruxelles e nelle capitali europee è stato addirittura maggiore che a Washington, vista la strutturata e apparentemente stabile relazione che legava le due sponde del Mediterraneo almeno dal 1995, anno
di nascita del Partenariato Euro-Mediterraneo. Fin da subito, l’UE si è mostrata
però più che mai consapevole delle difficoltà che i processi di transizione politica
ed economica innescati dai fatti della Primavera Araba e tra loro interconnessi,
avrebbero posto per la regione nel suo complesso.
Proprio per venire incontro a queste sfide, l’UE ha iniziato, suo malgrado, un
processo di autocritica con l’ambizioso obiettivo di rifondare le relazioni tra
l’UE e il suo vicinato meridionale alla luce di una nuova visione strategica. Un
primo passo in questa direzione è rappresentato dalla comunicazione congiunta
emessa l’8 marzo 2011 dalla Commissione e dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton. Il documento è ambizioso,
se non addirittura velleitario nel titolo - “Un partenariato per la democrazia e la
prosperità condivisa con il Mediterraneo del sud” – ma il principio di base è in realtà molto semplice: quanto convinto sarà l’impegno dei singoli partner mediterranei nel consolidamento delle riforme economiche e politiche, tanto maggiore
sarà il sostegno offerto dall’UE in termini di risorse economiche, accesso al mercato europeo e possibilità di mobilità per lavoro. L’assistenza europea ai Paesi in
transizione si configura dunque lungo tre linee guida, definite come le “3 M”:
money, markets and mobility. Il principio del “more for more” introduce quindi
un elemento di differenziazione su base maggiormente meritocratica nella Politica Europea di Vicinato (PEV).
L’idea di applicare una forma di condizionalità positiva nell’approccio europeo
verso il vicinato non è in realtà nuova. L’idea è destinata a rimanere però sulla
carta, a meno che l’UE non raccolga fino in fondo la sfida posta dalla Primavera
Araba, adottando una nuova visione strategica della regione nordafricana nel
suo insieme e delle complesse reti di relazioni economiche, commerciali e politi© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’autocritica dell’UE e
il “partenariato per la
democrazia e la
prosperità condivisa”
Il principio del “more
for more” e gli
incentivi delle tre “M”:
REALTÀ E PROMESSE: UNIONE EUROPEA E TUNISIA A DUE ANNI DALLA RIVOLUZIONE
Stefania Bonacini
che che i singoli Paesi intrattengono con l’Europa. Tenendo a mente questo quadro
generale, è interessante osservare l’evoluzione negli ultimi due anni dell’approccio
europeo nei confronti del Paese che è stato la culla delle rivoluzioni che hanno scosso l’intero mondo arabo: la Tunisia.
Di fronte alla caduta del regime ultraventennale di Zine El-Abidine Ben Ali, Bruxelles ha subito compreso che l’era della complicità tacita con i dittatori locali in nome,
tra le altre cose, del contrasto alla minaccia islamista era finita per sempre. L’UE ha
reagito subito raddoppiando gli aiuti economici destinati alla Tunisia per l’anno
2011, che sono passati da 80 a 160 milioni di euro. Di questi fondi, 100 milioni di
euro sono stati stanziati allo scopo di favorire la ripresa dell’economia tunisina e
di ridurre l’elevato tasso di disoccupazione e di disagio sociale che interessano larghi strati della popolazione. A questi si devono aggiungere i prestiti della Banca
Mondiale, della Banca Africana di Sviluppo e dell’Agence Française de Développement per un totale di circa un miliardo di euro destinati al “programma di sostegno
alla ripresa economica”. Solo 9,7 dei 160 milioni di euro, invece, sono stati devoluti a
sostenere la società civile e all’organizzazione delle prime elezioni democratiche.
La Commissione ha infine stanziato 80,5 milioni di euro in aiuti umanitari volti ad
aiutare la Tunisia ad affrontare l’emergenza dei rifugiati provenienti dalla vicina Libia.
Il programma Prendendo atto del delicato processo di riforma intrapreso dal Paese all’indomani
SPRING della rivoluzione, l’UE ha poi deciso di fare della Tunisia il primo beneficiario del
nuovo programma SPRING (acronimo di Support for Partnership, Reforms and Inclusive Growth), fondato sul principio del “more for more”. In base a tale programma, Tunisi ha dunque ottenuto 20 milioni di euro nel 2011 e 80 nel 2012, destinati
soprattutto a migliorare le condizioni sanitarie nelle zone svantaggiate, a favorire la
ripresa economica e la competitività dei servizi, a riformare il sistema giudiziario e a
promuovere una serie di misure a vantaggio della società civile in tutte le sue espressioni.
Gli aiuti economici
per la Tunisia
rivoluzionaria
Se il vento del cambiamento sembrava inarrestabile all’inizio del 2011, due anni dopo la situazione appare tutt’altro che rosea. Anche in un Paese come la Tunisia, dove
il processo di transizione democratica sembrava procedere in maniera relativamente lineare, l’euforia iniziale ha lasciato il posto a una crescente radicalizzazione, culminata con l’uccisione del leader politico Chokri Belaid nel febbraio 2013. Eppure,
Le difficoltà politiche le sfide politiche che attendono la neonata democrazia tunisina sono poca cosa ried economiche della
spetto alle sfide economiche. Come osserva William Lawrence di Crisis Group, le caunuova Tunisia
se della Primavera Araba sono prima di tutto economiche, piuttosto che politiche.
Dalla caduta del regime di Ben Ali, la situazione economica tunisina ha subito un
netto deterioramento, che si è andato a sommare ad una serie di questioni irrisolte, quali l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, le forti diseguaglianze interne,
la prevalenza del lavoro in nero e l’alto livello di corruzione. La Tunisia che si colloca infatti solo al 75esimo posto nell’indice di corruzione percepita elaborato da
Transparency International per il 2012. Il turismo rappresenta un altro problema
urgente: lo scorso anno, il numero di visitatori si è ridotto di almeno un terzo, con
ripercussioni immediate sui salari dei lavori scarsamente retribuiti.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
Finora, tuttavia, le risposte fornite dai governi nazionali e dalla comunità internazionale sono state molto più di carattere politico che economico. Nel caso dell’UE, il
fatto che i movimenti laici e liberali siano stati relegati all’opposizione sulla
base dei risultati delle elezioni non ha certo aiutato. In più, gli Stati membri dell’UE
sono ancora troppo invischiati nella più grande crisi economica del dopoguerra e
nelle sue conseguenze di breve periodo per potersi concedere il lusso di concepire
un “Piano Marshall” per il Nord Africa.
Le famigerate 3 M, a due anni dall’inizio della Primavera Araba, inoltre, sono sem- La realtà delle 3 M
pre più un miraggio. Innanzitutto, i finanziamenti aggiuntivi stanziati dalla Commissione sono necessari, ma non sufficienti a compiere le riforme strutturali di
cui l’economia tunisina ha urgente bisogno. In secondo luogo, gli Stati membri
dell’UE non sono certo entusiasti all’idea di spalancare le porte ai migranti nordafricani, né tantomeno ai prodotti agricoli del Sahel. C’è poco da stupirsi che i
“Partenariati di Mobilità” da attivare sia con il Marocco sia con la Tunisia si siano
arenati al livello delle discussioni preliminari. L’asimmetria nelle relazioni commerciali tra Tunisia e UE è invece rivelata dal fatto che la Tunisia rappresenta solo
lo 0,6% del commercio estero europeo, mentre l’UE è di gran lunga il primo partner commerciale della Tunisia, rappresentando il 64,7% del commercio estero tunisino diretto da e verso l’Europa.
In sostanza, le 3 M sembrano sempre più una promessa velleitaria, piuttosto che
un obiettivo concreto. Ancora una volta, in seno all’UE, sono gli interessi particolari a prevalere sull’interesse generale: Italia, Spagna e soprattutto Francia sono
ancora capaci di porre un veto sostanziale sugli orientamenti meridionali della
PEV. In effetti, per l’Europa mediterranea la posta in gioco, in termini commerciali,
energetici e di prospettive d’investimento, è piuttosto alta. La Francia, in particolare, continua a giocare un ruolo di primo piano in Nord Africa. I dati parlano da sé:
nel 2011 la Francia risultava di gran lunga il primo fornitore di aiuti allo sviluppo
alla Tunisia, superando le stesse istituzioni europee. Se si osservano invece i livelli
di investimenti esteri diretti in Tunisia, il primato spettava, almeno fino al 2010,
all’Italia.
La risposta europea alla rivoluzione tunisina ha messo più che mai in evidenza la
necessità per l’UE di sostituire l’approccio tecnocratico adottato finora e rappresentato in particolare dalla PEV, con un approccio strategico di lungo periodo,
capace di conciliare gli interessi particolari dei singoli Stati membri in una sintesi
comune. Se vorrà giocare un ruolo nel “nuovo” Nord Africa, l’UE dovrà quindi dimostrarsi capace di superare l’ottica fortemente economica della PEV e di offrire ai suoi vicini meridionali un sostegno e una relazione a tutto tondo, che vada
dall’ambito
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23
Il ruolo degli Stati
membri del Sud
Oltre la tecnicità della
PEV per un approccio
strategico di lungo
periodo?
GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO
E LA POLITICA COMMERCIALE DELL’UE IN AFRICA
Gli Accordi di Partnenariato Economico costituiscono il principale elemento di
confronto fra Unione Europea e Paesi africani. Ultimo passo di un dialogo decennale, gli Accordi propongono una nuova ricetta commerciale per lo sviluppo
dell’Africa basata sulla reciprocità e la partnership. Le difficoltà nell’individuare
partner affidabili, la formazione arbitraria di raggruppamenti regionali e la ferma contrarietà di molti governi africani ne rendono però incerta la conclusione.
Shannon Little
L
L’UE resta il primo
attore economico e
politico nell’Africa
sub-sahariana
Cotonou (2000) e il
nuovo approccio
degli EPA
’Unione Europea (UE) è il principale attore economico e politico in Africa
sub sahariana. Nel 2007, prima della crisi, il commercio tra i Paesi dell’area
dell’Africa, Caraibi e Pacifico (ACP) e l’UE ammontava a 80 miliardi di euro. Nonostante la penetrazione crescente della Cina e una presenza comunque importante degli Stati Uniti, le statistiche inerenti agli investimenti, al commercio e agli aiuti allo sviluppo non lasciano dubbi su quale sia ancora, al momento,
l’attore più importante in questo continente. I legami dell’epoca coloniale compensano infatti lo scarso interesse che, fino ad oggi, l’Africa ha suscitato nel settore privato. Portogallo, Francia, Belgio e Regno Unito hanno governato su territori vastissimi e mantengono una notevole influenza sui Paesi sorti dalle lotte per
l’indipendenza del secondo dopoguerra.
L’UE ha infatti da sempre concesso, in un’ottica prettamente unilaterale, privilegi
commerciali ai Paesi ACP. Il primo accordo internazionale a riguardo, la Convenzione di Yaoundé, risale al 1963 e istituiva un accesso preferenziale al mercato europeo per alcuni prodotti di Paesi in via di sviluppo, principalmente in Africa, quasi
tutti ex-colonie dei succitati Paesi europei. In seguito, l’impianto unilaterale delle
concessioni fu mantenuto nelle Convenzioni di Lomé (la prima risale al 1975, poi
rinnovata periodicamente fino al 2000), di afflato molto più ampio rispetto agli accordi precedenti, poiché prevedevano liberalizzazioni più estese dei mercati europei e misure di stabilizzazione dei prezzi delle derrate alimentari, il c.d. STABEX, tutelando i principali prodotti di esportazione dei Paesi africani.
L’Accordo di Partnenariato di Cotonou del 2000, attualmente in vigore, segna invece una svolta di grande importanza nelle relazioni con i Paesi ACP, poiché da esso
prendono il via i negoziati per gli Accordi di Partenariato Economico (Economic
and Partnership Agreements, EPA) che introducono il concetto di reciprocità nelle
concessioni preferenziali tra UE e Paesi ACP, ponendo le ex-colonie su un piano di
sostanziale parità nei confronti delle antiche potenze coloniali. Questo cambiamento
ha suscitato e suscita resistenze molto forti nei Paesi in questione e tra gli operatori della cooperazione allo sviluppo, in particolare le organizzazioni non governative (ONG), per il timore che gli EPA, una volta istituiti, siano fonte di ulteriore dipendenza e fragilità per le economie africane. Tale svolta è tuttavia difficilmente evitabile, soprattutto per via di questioni legali legate all’appartenenza dell’UE e di molti
degli stessi Paesi ACP all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). La
struttura multilaterale che regola il commercio globale contiene norme piuttosto
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24
L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
stringenti riguardo alla concessione di trattamenti differenziati verso determinati Paesi: essa si basa infatti sul principio della parità di trattamento per tutti i Paesi membri dell’organizzazione. Il sistema di preferenze è stato contestato in sede
OMC in seguito all’entrata in vigore degli accordi di Marrakesh del 1994, che hanno fortemente potenziato lo strumento della risoluzione delle dispute. Le proteste sono giunte in particolare da parte di Paesi americani produttori ed esportatori di banane (sudamericani, oltre agli stessi Stati Uniti), che contestavano le
condizioni preferenziali assegnate ai loro rivali economici tra i Paesi ACP.
All’inizio degli anni 2000, l’UE ha chiesto ed ottenuto un prolungamento
dell’attuale regime di preferenze – dichiarato illegale – solo grazie all’impegno
sottoscritto nell’Accordo di Cotonou di adeguare le misure tariffarie alla normativa OMC. Questo significa, in primis, la fine dell’unilateralismo e la reciprocità
delle concessioni preferenziali fra UE e Paesi ACP.
Si tratta quindi di un cambio di strategia importante per quanto concerne la politica commerciale e di sviluppo dell’UE verso i Paesi in questione, anche alla luce
del generale fallimento delle diverse generazioni di accordi precedenti nello
stimolare maggiori scambi commerciali (la quota di importazioni dell’UE provenienti dai Paesi ACP è scesa dal 7% al 3% in valore nei decenni in questione), oltre che una crescita economica capace di dare una prospettiva di miglioramento
delle condizioni di vita degli abitanti di alcuni dei Paesi più poveri del pianeta.
Due forze, quindi, hanno portato ad una rimodulazione radicale dell’approccio
dell’Unione verso i Paesi ACP: da un lato, sentenze giuridiche che richiedevano
una risposta decisa per non indebolire la struttura multilaterale degli scambi, già
in difficoltà per lo stallo nei negoziati del Doha Round; dall’altro, un forte sviluppo economico a partire proprio dai primi anni 2000 in molti dei Paesi in questione, che sta finalmente cambiando l’approccio del mondo nei confronti dell’Africa,
da continente affamato e tormentato dalle guerre civili, a economia emergente
dalle ricche opportunità.
Le ragioni giuridiche
e geo-economiche
della svolta radicale
della politica
commerciale dell’UE
I negoziati degli EPA si sono rivelati lunghi e difficoltosi, in buona parte per la Le difficoltà nei
debolezza istituzionale degli Stati africani, che hanno carenza di risorse profes- negoziati per gli EPA
sionali in grado di gestire discussioni complesse e fortemente tecniche, quali sono diventati i negoziati in materia commerciale negli ultimi decenni. Un’altra ragione del forte ritardo è da ricercarsi nella decisione dell’UE di voler negoziare gli
accordi a livello regionale e non con i singoli Paesi. La logica dietro questo approccio si ricollega all’esperienza stessa dell’UE come esperimento avanzato di
integrazione regionale, che ha suscitato e tuttora suscita un grande interesse e
tentativi d’imitazione in tutto il mondo. Con la negoziazione su base regionale, si
cercava di stimolare processi di dialogo e integrazione a livello regionale, potenzialmente di grande valore in un continente come l’Africa, caratterizzato da Paesi
particolarmente poveri, diversamente popolati e dai confini porosi.
Anche in questo caso, però, i negoziatori della Commissione Europea si sono
spesso trovati in difficoltà. L’instabilità politica di molte regioni dell’Africa ha
causato lunghi periodi di stallo nelle discussioni e la DG Commercio della Commissione si è a volte trovata accusata di fomentare ulteriori divisioni. Questa accusa ha un suo fondamento nella divisione territoriale delle regioni oggetto di
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GLI ACCORDI DI PARTENARIATO ECONOMICO: LA POLITICA COMMERCIALE DELL’UE IN AFRICA
Shannon Little
negoziato. I dialoghi hanno infatti luogo tra l’UE, rappresentata dalla Commissione,
e i singoli raggruppamenti regionali, che devono trovare una posizione comune tra
gli Stati che ne sono parte e difenderla di fronte agli europei. Si creano quindi da un
lato inevitabili tensioni tra gli Stati appartenenti alla stessa regione per definire la
linea comune, nonché possibili disparità tra le regioni.
I raggruppamenti
regionali individuati
dall’UE
Quelle individuate dall’UE sono le seguenti: Western Africa, Central Africa, Eastern
and Southern Africa (ESA), Eastern African Community (EAC), and South African
Development Community (SADC). Di queste, solamente la SADC e la EAC hanno una
propria struttura istituzionale, essendo organizzazioni regionali già esistenti, e
quindi un certo grado di autonomia. In particolare la SADC, guidato dall’unica vera
potenza economica africana (il Sudafrica), ha adottato un atteggiamento assertivo
nei negoziati. Negli altri casi, i raggruppamenti decisi dagli europei evitano scientificamente organizzazioni regionali esistenti, come per esempio l’ECOWAS e
l’UEMOA in Africa Occidentale.
Non è dunque un caso che, tra le regioni citate, a ormai più di dieci anni dall’inizio
dei negoziati, solamente l’ESA abbia raggiunto un accordo ad interim che prevede
una liberalizzazione estesa del commercio di beni, ora in fase di ratifica sia nell’UE
che nei singoli Paesi africani. Per le altre regioni sono stati raggiunti simili accordi
ad interim o accordi quadro ma dal respiro meno ampio, e molti di essi non sono
stati ratificati e in alcuni casi neppure firmati. Infine, per completare il quadro della
politica commerciale dell’UE verso l’Africa sub-sahariana, è opportuno segnalare
che la maggior parte dei Paesi in questione sono least developed countries e come
I regimi preferenziali tali beneficiano di uno schema commerciale noto come Everything But Arms, che
esistenti, ostacolo alla prevede, proprio alla luce della loro estrema povertà, l’accesso senza dazi di ogni
strategia europea
tipo di merci e servizi al mercato europeo, con l’esclusione degli armamenti. Questo
depotenzia la leva negoziale della Commissione, che non si limita solo all’abbattimento dei dazi rimanenti – peraltro non elevati – ma che sicuramente vede in
questo elemento uno dei suoi argomenti più convincenti e politicamente efficaci.
Il cambiamento di approccio, da un unilateralismo paternalista a una reciprocità
attenta alle conseguenze più deleterie delle aperture commerciali su economie ancora molto fragili (i dazi verranno ridotti gradualmente e conservati sul 20% in valore delle merci più sensibili), rispecchia e rafforza il vasto cambiamento nella concezione occidentale dell’Africa. Se adeguatamente affiancata da un’efficace strategia
di aiuti per lo sviluppo, essa potrà mostrare il volto migliore dell’UE e contribuire
ad uno sviluppo economico che può diventare una delle storie più importanti del
nostro secolo.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA NEGLI OCCHI DELL’AFRICA
L’ombra del colonialismo grava ancora sull’Unione Europea. La percezione
dell’Europa in Africa è ancora macchiata dal passato predatorio di alcuni dei suoi
Stati membri. Le proposte commerciali dell’ultimo decennio, come gli Accordi di
Partenariato Economico, hanno rafforzato tale prospettiva, in contraddizione con
l’auto-rappresentazione dell’UE come “attore diverso”. Le divisioni e le contraddizioni interne minano inoltre la credibilità dell’Europa come soggetto unitario.
Alice Condello
N
onostante i suoi evidenti limiti nel definire, e ancor di più nell’attuare,
una politica estera comune, l’Unione Europea (UE) è ancora considerata un attore molto rilevante sul palcoscenico internazionale. In particolare, negli anni, la letteratura ha manifestato un certo interesse
verso il ruolo internazionale dell’UE, interrogandosi sull’identità politica europea come potenza “diversa” dagli altri attori internazionali. A partire dalla riscoperta del concetto di «potenza civile» introdotto da François Duchêne (1973),
grazie al lavoro di Mario Telò (2004) e non solo, diverse sono state le “etichette”
coniate dalla letteratura per spiegare la natura ibrida e in divenire dell’UE, tra
cui: «potenza normativa», «politica estera strutturale», «forza gentile», «potenza
etica». Tuttavia, questa letteratura auto-rappresentativa che ha posto l’accento
sulla “peculiarità” del soggetto istituzionale UE e del suo modo di fare politica
estera, prediligendo gli strumenti economici e diplomatici a quelli coercitivi, ha
trascurato la reale percezione esterna da parte dei Paesi terzi. Nell’intento di
ovviare a questa carenza, sarà adottata la prospettiva africana per definire i contorni dell’immagine che l’UE proietta di sé stessa nelle relazioni con l’Africa. Dal
passato coloniale all’attuale forma di cooperazione definita dagli Accordi di Partenariato Economico (Economic Partnership Agreements, EPA), le relazioni tra
Europa e Africa hanno sempre evidenziato una marcata impronta europea sullo sviluppo dei Paesi africani. Per questo, sarà tanto più utile analizzare la visione effettiva che questi ultimi hanno del loro partner europeo.
Un’analisi delle relazioni tra UE e Paesi africani non può prescindere dal retroscena storico. Nello specifico, il passato coloniale e la barbara spartizione
dell’Africa, che ha sancito formalmente il dominio delle potenze europee sul continente africano con la Conferenza di Berlino (1884-1885), hanno condizionato
i rapporti interregionali tra le parti. Come ha osservato Whiteman, i legami storici europei con il continente nero poggiano essenzialmente su «radici violente».
Come conseguenza di questo retaggio storico, i Paesi africani hanno introiettato il rapporto di dipendenza e subordinazione nei confronti delle potenze
ex-colonialiste, che incide fortemente sulla loro percezione dell’UE. Dal canto suo, l’UE, con il suo complesso sistema di policy-making e i meccanismi decisionali
sovente bloccati in ambito di politica estera, ha senza dubbio contribuito a proiettare un’immagine di sé confusa e frammentata. Più che altro, se i retaggi
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L’auto-celebrazione
dell’UE e la realtà
della sua percezione
esterna: il caso
dell’Africa
Il passato coloniale e
il complesso sistema
istituzionale dell’UE
pesano sulla sua
percezione presso gli
africani
L’UNIONE EUROPEA NEGLI OCCHI DELL’AFRICA
Alice Condello
storici della dominazione coloniale influiscono ancora oggi sulla percezione africana
dell’UE, un grande margine di responsabilità va attribuito proprio alle politiche e al
modo di operare di quest’ultima in Africa, che rievocano alla memoria dei Paesi africani quell’atteggiamento tipicamente paternalistico del “colonialista”.
Questa immagine inequivocabilmente negativa si scontra con la retorica ufficiale,
impegnata a descrivere l’UE come un “equo partner solidale” che agisce a vantaggio
dei Paesi più deboli. Nello specifico, la forma di cooperazione introdotta attraverso
L’immagine negativa gli Accordi di Cotonou (2000) con i Paesi ACP, che ha istituito i già menzionati EPA,
dell’UE in Africa: gli sembra ritrarre l’UE come un attore molto più incline a tutelare i propri interessi,
EPA e il neoliberismo anziché agire a beneficio dei Paesi poveri. Infatti, in detti accordi, l’UE ha proposto
una ricetta economica neoliberale, basata sull’idea della liberalizzazione reciproca dei commerci, che chiaramente non è stata accolta con grande entusiasmo da
parte dei Paesi africani.
Diversità di approcci
all’interno della
stessa Commissione
Europea
Retorica vs realtà:
l’atteggiamento
egoista dell’UE e la
retorica del “partner”
Mentre la retorica degli EPA ha messo in luce l’impegno europeo a stabilire un’equa
partnership con i Paesi africani e ad aumentare il livello di responsabilità
(ownership) di questi ultimi sui propri processi di sviluppo, il riscontro empirico, al
contrario, ha rivelato una crescita dell’asimmetria nelle relazioni tra UE e Africa,
in cui i partner africani hanno poca voce in capitolo. Infatti, quando si parla di
“partner eguali”, l’idea di fondo è che l’uguaglianza dovrebbe manifestarsi soprattutto nelle fasi dei negoziati, dove i blocchi regionali, almeno teoricamente, dovrebbero confrontarsi con un pari potere di negoziazione. Tuttavia, il ruolo predominante
della Commissione Europea nelle negoziazioni degli EPA, attraverso la Direzione
Generale per il commercio (DG Trade), non consente al gruppo ACP di esprimere
questo equo potere negoziale. Inoltre, va osservato un ulteriore elemento contraddittorio della politica europea per lo sviluppo nei confronti dei Paesi africani: la preponderanza del ruolo della DG Trade rispetto a quella specificamente dedicata alla
cooperazione e allo sviluppo (DG Development and Cooperation - Europeaid), il cui
approccio è evidentemente diverso. La prima, infatti, sposa una strategia prettamente neoliberale, devota ai principi del libero mercato; la seconda è responsabile
dell’elaborazione della politica europea di cooperazione e della distribuzione degli
aiuti allo sviluppo. Il prevalere di DG Trade su Europeaid, pertanto, sembra presupporre una scelta ideologica dietro la politica europea di cooperazione allo sviluppo,
anteponendo la liberalizzazione economica all’obiettivo della riduzione della povertà e del sostegno allo sviluppo dei Paesi poveri. Questo, indubbiamente, non può che
ledere e screditare l’auto-rappresentazione positiva dell’UE.
Ma per quale motivo attribuire una tale importanza agli EPA nelle relazioni economiche tra UE e Paesi africani? Perché tali accordi costituiscono il caso emblematico
del divario tra la retorica dei documenti ufficiali e l’effettivo impatto dell’azione esterna europea nei confronti dell’Africa. Secondo Stephen Hurt il nuovo approccio
allo sviluppo introdotto con gli Accordi di Cotonou, che ha affiancato all’idea di
partnership quella appunto di responsabilità (ownership) sui processi di sviluppo,
in realtà, ha mascherato con la sua «falsa retorica» le profonde relazioni di potere
derivanti dalla politica economica internazionale. In particolare, l’immagine europea del “partner economico”, sviluppata all’interno degli EPA, ha assunto una
connotazione estremamente negativa, proprio per l’atteggiamento egoistico e
paternalistico che l’UE ha mostrato durante le negoziazioni degli accordi.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
Dalla prospettiva dei Paesi africani, dunque, l’UE si presenta con tutt’altra fisionomia rispetto a quella descritta dalla letteratura auto-celebrativa. Innanzitutto,
l’immagine percepita dall’esterno è frammentata: l’UE è vista più come un L’UE : un confuso
“agglomerato di Stati”, dove gli interessi nazionali prevaricano quelli europei, so- agglomerato di Stati
prattutto negli affari esteri. Il fatto di non essere considerato un attore unico e
compatto, ma, al contrario, regolato da un meccanismo decisionale sostanzialmente paralizzato in politica estera, mina profondamente la credibilità internazionale
dell’UE agli occhi dei Paesi africani. Questi ultimi, infatti, sovente preferiscono intrattenere un dialogo bilaterale con i singoli Stati membri, piuttosto che con
l’UE, il cui sistema di policy-making appare troppo complesso e confuso.
Dall’esterno, la commistione tra elementi sovranazionali e intergovernativi, il potere decisionale conteso tra Commissione e Consiglio a seconda delle competenze, lo
scontro tra interessi nazionali e interessi comuni europei, sono tutti fattori che
rendono incomprensibile il funzionamento dell’UE.
Inoltre, il regime commerciale di Cotonou ha portato in primo piano l’immagine
prettamente economica dell’UE, condizionandone in maniera negativa la percezione esterna. L’UE, in effetti, è molto più che un partner commerciale egoista, ma
la realtà empirica dimostra che, dall’Africa, l’identità europea complessa e multidimensionale è concepita in maniera “monolitica”. Conseguentemente, l’immagine
europea emersa dagli Accordi di Cotonou non poteva che rafforzare la percezione
dell’UE come “potenza neo-coloniale”, egoisticamente accecata dai propri interessi, nonché risoluta nel dettare con un atteggiamento paternalistico la strada per
lo sviluppo dei Paesi africani, senza tener conto della loro posizione.
Si tratta, dunque, di un’identità tristemente lontana da quella ritratta dalla letteratura di auto-rappresentazione, che esaltava l’UE come attore internazionale
“diverso”, dedito all’impiego di strumenti economici e politico-diplomatici (anziché
coercitivi) per influenzare i Paesi terzi. Quest’analisi dell’immagine europea,
proiettata negli occhi dei Paesi africani, non lascia molto spazio a conclusioni ottimistiche. Tuttavia, la consapevolezza del divario tra la retorica e l’effettivo impatto delle politiche europee in Africa, probabilmente, potrebbe costituire un primo
passo dell’UE per porre rimedio ai propri limiti.
© Europae - Rivista di Affari Europei
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In Africa, l’Europa è
vista come un blocco
economico neocoloniale
L’ AMBIGUITÀ DELL’ INTERVENTO EUROPEO IN MALI :
FRANCIA E UNIONE EUROPEA A CONFRONTO
I complessi rapporti fra le operazioni militari francesi e l’azione esterna
dell’Unione Europea sono indicativi dell’ambiguità della politica europea in Africa. La Francia e la sua tradizionale politica interventista nei Paesi che sono stati
parte del suo impero coloniale, rischia di entrare in contraddizione con
l’approccio europeo in Africa occidentale. In Mali, l’UE ha appaltato l’intervento
militare a Parigi, limitandosi a lanciare una ridotta missione di addestramento.
Gianluca Farsetti e Giuseppe Lettieri
A
L’andamento delle
operazioni in Mali:
l’intervento
internazionale e le
tattiche di guerriglia
dei ribelli
L’interventismo della
Francia nel suo ex
impero coloniale
llo scoccare dei due mesi dall’avvio dell’Operazione Serval e dall’invio
del contingente di circa 2.500 uomini dell’Armée de Terre francese, la situazione complessiva dell’insurrezione in Mali sembra tutt’altro che risolta. I successi militari del primo mese, la riconquista di importanti centri
strategici nella zona settentrionale del Paese (Gao, Timbouktou, Kindal),
l’approntamento di contingenti stranieri provenienti dai Paesi confinanti (circa
5.000 unità provenienti da Ciad, Nigeria, Burkina Faso, Senegal e Niger) e dalla comunità internazionale (European Union Training Mission in Mali, EUTM, pienamente
operativa dal 2 aprile) non sembrano aver fortemente influenzato la risoluzione del
conflitto in corso. Certamente l’intervento di queste forze esterne ha drasticamente
rimodellato la situazione sul campo di battaglia, costringendo i principali oppositori
del governo centrale (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, Al Qaeda
nel Maghreb Islamico, Movimento per l’Unita e la Jihad nell’Africa Occidentale) ad
un radicale cambiamento strategico e tattico inerente la conduzione delle operazioni. Non più capaci di mantenere il controllo delle grandi città e dei centri nevralgici
del nord del Paese, i ribelli, in modo simile agli insurgent conosciuti in Afghanistan
ed in Iraq, hanno sviluppato ed implementato tattiche di guerra asimmetrica, terrorismo e guerriglia, mirando strategicamente a rallentare la riconquista governativa e a intralciare il fluido svolgimento della attività belliche. Per quanto non si possa ancora parlare di un nuovo Afghanistan o, data la natura dell’intervento e la nazionalità del contingente impiegato, di una nuova Algeria, la situazione rimane comunque non delle più benauguranti e i pronostici per il futuro non lo sono altrettanto.
I recenti interventi militari francesi avvenuti dopo le proclamazioni
dell’indipendenza da parte delle ex colonie africane hanno molte volte ricevuto
scarsa attenzione da parte della comunità internazionale. Nonostante gli sforzi di
Charles de Gaulle e dei suoi successori di mantenere viva la memoria storica di una
grande potenza mondiale, la Francia sembrerebbe ormai aver ceduto, volente o nolente, parte del proprio appeal internazionale a organizzazioni sovranazionali di cui
essa stessa è parte. Tuttavia, le attività militari francesi sono sempre state molto importanti per la Nazione in sé, che non ha mai rinunciato a tutelare in prima persona i propri interessi nei Paesi un tempo parte dell’impero coloniale e oggi riuniti nella Organisation internationale de la Francophonie, nonostante il reintegro
completo di Parigi nella NATO nel 2009 e gli impegni nell’ambito della Politica di
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) dell’Unione Europea .
L’odierno intervento in Mali, apparentemente riconducibile alla tipologia sopra
descritta, ha ricevuto però un forte sostegno o quantomeno un tacito assenso da
parte della comunità internazionale, riscontrando il favore di Nazioni Unite,
Unione Europea, Unione Africana, ECOWAS (Economic Community of West African
States) e, non ultimo, il governo maliano.
Il governo francese ha sostenuto la liceità del suo intervento soprattutto alla luce
della dottrina denominata “intervention by invitation”, secondo la quale un governo può richiedere aiuto a un Paese amico con l’obiettivo di riportare ordine e
stabilità nel proprio territorio lacerato da conflitti interni di vario tipo, quale per
esempio la lotta contro un gruppo terroristico.
Oltre a tale dottrina, il ministro degli esteri francese Laurent Fabius ha fatto riferimento durante la conferenza stampa dell’11 gennaio ad altre due basi legali
dell’azione francese: la risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza , adottata
in data 20 dicembre 2012, e l’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Per
quanto riguarda la prima, la risoluzione era stata inizialmente concepita per lasciare la leadership della gestione della crisi alle organizzazioni regionali africane, ECOWAS e Unione Africana in primis. Tuttavia, l’ammissione da parte Thomas
Boni Yayi, presidente dell’Unione Africana, della necessità di un intervento della
NATO e l’aggravarsi della situazione hanno portato a un’interpretazione estensiva del testo, autorizzando l’intervento di partner bilaterali nell’ottica di offrire la
massima assistenza nel contenimento della minaccia “terrorista”. Con il richiamo
all’Art. 51, si fa ovviamente riferimento al noto diritto di autodifesa, esercitabile
sia individualmente che collettivamente, e alla sua estensione giurisprudenziale
atta ad includervi risposte ad attacchi militari da parte di soggetti privati (ad esempio, un gruppo terrorista transnazionale).
Risoluzione 2085 del
CDS e Art. 51 della
Carta delle NU: le basi
legali dell’intervento
francese in Mali
Appare chiaro che anche in questa occasione l’UE ha perso l’opportunità di mo- Per l’UE un’ennesima
strarsi un attore influente sul palcoscenico politico internazionale e, nel caso spe- occasione mancata
cifico, di giocare il ruolo di attore risolutivo sulle questioni riguardanti Nord Africa e Sahel. Nonostante i mezzi e le capacità a disposizione e un programma di aiuti economici già avviato nella regione dal 2008, che ha permesso di stanziare solo in Mali 260 milioni di euro tramite European Development Fund (EDF), Instrument for Stability (IfS) e European Neighbourhood Policy Instrument (ENPI), nel
momento in cui un’azione decisiva e risolutoria sarebbe stata necessaria per sostenere la proprio politica di lungo corso, l’Unione è venuta meno. Nel momento
in cui, nell’ottica di un comprehensive approach, ad un sostegno di tipo economico sarebbe stato necessario abbinarne uno maggiormente incisivo nell’ambito
della gestione della sicurezza, l’Unione ha preferito cedere il passo
all’intervento francese, avviando solo in una seconda fase della crisi una missione di addestramento per le truppe maliane. E anche riguardo quest’ultima,
non si può fare a meno di notare quanto l’apporto della EUTM sia insufficiente,
sia per numero di truppe impiegate, 550 uomini provenienti da diversi Paesi europei, sia per tempistiche di dislocamento, dato che la piena operatività è prevista entro due mesi (il 2 aprile) contro i 7 giorni impiegati dai 1.700 uomini
dell’esercito francese dopo la conferenza stampa dell’11 gennaio.
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L’AMBIGUITÀ DELL’INTERVENTO EUROPEO IN MALI: FRANCIA E UNIONE EUROPEA A CONFRONTO
Gianluca Farsetti e Giuseppe Lettieri
Le reticenze dell’UE
nel campo della
sicurezza minano il
suo comprehensive
approach
Un intervento più tempestivo e più congruente alle esigenze della crisi sarebbe stato
preferibile da parte dell’UE, facendo proprie sin da subito le iniziative nella regione,
la leadership dell’operazione e magari l’opportunità di ricorrere a strumenti di rapido intervento quali gli European Union Battlegroups (peraltro già impiegati in
territorio africano). Inoltre, per quanto concerne la fase di pianificazione degli interventi economici di aiuto allo sviluppo, sarebbe efficace prevedere sin da subito, a
latere dell’aspetto economico, missioni di securitization (quali la EUTM) volte ad
incrementare l’operatività di polizia e forze militari autoctone, deficitarie in termini
di know-how e competenze tecniche.
A stupire in questa occasione non è tanto il “solitario” intervento francese, come peraltro già avvenuto in Libia nel 2011, ma la recidività dell’Unione, o di alcuni suoi
Stati membri, nell’astenersi dall’utilizzare capacità e strumenti militari non eccessivamente “invasivi” quando necessari, soprattutto se volti a salvaguardare un più
ampio e importante progetto europeo di sviluppo economico e di stabilizzazione
dell’area del Sahel.
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LEARNING BY DOING NEL CORNO D’ AFRICA:
LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO
L’Unione Europea ha dispiegato nel martoriato teatro strategico del Corno
d’Africa tre missioni e un quadro strategico. Le operazioni in ambito PSDC si affiancano agli obiettivi di lungo periodo della cooperazione europea. La travagliata regione africana rappresenta così un esempio particolarmente interessante del
comprehensive approach dell’Europa, tra interventi militari e politica strutturale.
Una scommessa da vincere, in una regione strategicamente fondamentale.
Enrico Iacovizzi
L
a situazione del Corno d’Africa rappresenta uno dei più grandi fallimenti
del sistema internazionale: si tratta infatti di una regione esposta a gravi
situazioni di insicurezza umana ed alimentare, teatro e vittima della
prima grande carestia del XXI secolo e di conflitti inter-, intra- e nonstatali. La spirale di insicurezza e povertà che ne ha caratterizzato il recente passato rappresenta oggi un esempio eclatante del nesso tra sviluppo e sicurezza:
attività criminose, reti terroristiche e pirateria prosperano sfruttando condizioni
di povertà estrema, accrescendo i fattori principali di ingovernabilità della regione che a loro volta portano ad un ulteriore deterioramento delle condizioni di
vita per la grande maggioranza della popolazione.
Politicamente ed economicamente la regione è estremamente fragile: nonostante negli ultimi anni Stati come Kenya e Uganda siano riusciti ad accelerare la
crescita economica, per la maggior parte essi dipendono ancora pesantemente
dalle importazioni e da scarse infrastrutture, mentre da un punto di vista politico - pur non dimenticando i passi in avanti come l’insediamento del nuovo parlamento somalo e l’elezione del nuovo presidente Hassan Sheikh Mohamud nel
2012 - la situazione resta pesantemente minacciata dai continui conflitti aperti
tra i membri dell’IGAD (Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo, composta da
Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan ed Uganda) riducendo
le possibilità di cooperazione regionale.
La sub-regione rappresenta quindi una grande fonte di preoccupazione, le cui
ripercussioni trascendono i confini regionali influenzando negativamente le aree
circostanti. Tra queste figurano flussi di immigrazione illegale e di rifugiati di
cui l’Unione Europea (UE) è il maggior recettore, traffici illeciti e contrabbando
internazionale, creazione di network terroristici, fenomeni diffusi di pirateria.
Questi aspetti sociopolitici hanno importanti ripercussioni sulle dinamiche economiche internazionali: l’UE è, infatti, il principale partner commerciale della
regione (4,7 miliardi di euro in esportazioni nel 2011, dato in aumento costante
negli ultimi tre anni) ed ogni anno 100.000 navi cargo attraversano l’Oceano Indiano, dove transita il 66% del traffico mondiale di petrolio.
Nel contesto strategico europeo di sicurezza, la stabilizzazione socio-economico
e politica del Corno d’Africa rappresenta quindi un tassello cardine che ridurreb© Europae - Rivista di Affari Europei
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Conflitti, povertà e
insicurezza restano i
grandi problemi del
Corno d’Africa
Flussi illegali di merci
e persone, terrorismo
e pirateria, mentre al
largo delle coste
transitano 100.000
navi cargo
LEARNING BY DOING NEL CORNO D’AFRICA: LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO
Enrico Iacovizzi
be sensibilmente numerose minacce, a tutto vantaggio della regione, dell’UE e probabilmente dell’intero sistema internazionale.
Novembre 2011:
“Strategic
Framework for the
Horn of Africa”
EUNAVFOR Atalanta:
1.400 unità per il
contrasto alla
pirateria
EUTM Somalia:
101 unità per
addestramento e
supporto alle forze di
sicurezza somale
EUCAP Nestor:
175 unità per
sviluppare capacità di
controllo delle acque
e supporto a rule of
law
A tal fine l’UE ha adottato nel novembre 2011 lo Strategic Framework for the
Horn of Africa, un approccio regionale basato su cinque punti fondamentali: costruzione di strutture statuali democratiche solide; rafforzamento della pace; riduzione degli effetti dell’insicurezza; riduzione della povertà; promozione della crescita. In tale quadro, l’aspetto della sicurezza assume un rilievo particolare soprattutto nella sua dimensione marittima, cui l’UE ha dedicato particolare attenzione
fin dal 2008, focalizzandosi principalmente sulla Somalia, storicamente lo Stato
fallito per eccellenza, in cui sono da rintracciare le cause primarie della pirateria.
Nello specifico, sotto l’ombrello della Politica di Sicurezza e di Difesa Comune
(PSDC), l’UE ha fino ad oggi lanciato tre missioni che rispondono al comune obiettivo di stabilizzazione della regione.
EUNAVFOR Atalanta. Lanciata nel 2008 e da poco prorogata fino al dicembre
2014, mira a contrastare le attività di pirateria lungo le coste somale. La missione,
che tra personale a terra ed in mare conta circa 1.400 unità, copre una superficie
equivalente ad una volta e mezzo il territorio europeo. Scortando imbarcazioni del
World Food Programme e della Missione in Somalia dell’Unione Africana
(AMISOM), la missione ha raggiunto ottimi risultati, proteggendo fino ad oggi 300
vascelli e permettendo la consegna di oltre un milione di tonnellate di aiuti umanitari. Dal 2009 al 2012 gli abbordaggi da parte di pirati sono passati da 163 a 36,
con 149 pirati consegnati alle autorità competenti. Inoltre il mandato della missione è stato esteso anche a terra con l’obiettivo di smantellare i safe havens dei pirati lungo le coste per privarli del supporto logistico loro necessario. Atalanta include nel suo mandato anche il monitoraggio delle attività di pesca, impedendo la
pesca illegale, elemento di disturbo nell’economia del Paese.
EUTM Somalia. Avviata nel 2010 con 101 unità all’attivo, ha l'obiettivo di rafforzare le forze di sicurezza somale attraverso addestramento e supporto strategico.
Fino ad oggi circa 3.000 soldati somali di ogni grado sono stati addestrati in collaborazione con le forze ugandesi nei settori della polizia militare, cooperazione civile-militare, intelligence, genio militare e protezione dei civili. La missione (estesa
fino al marzo 2015) comprende anche attività di strategic and political advice al
Ministero della Difesa ed allo Stato Maggiore somali, nonché attività di mentoring e
potenziamento delle capacità nel settore dell’addestramento.
EUCAP Nestor. La missione conta 175 unità civili affiancate da una piccola equipe
di esperti militari il cui obiettivo è quello di sviluppare le capacità di controllo delle acque territoriali di Gibuti, Kenya, Seychelles, Somalia e Tanzania attraverso la
costituzione di corpi di polizia costiera in grado di affrontare autonomamente il
problema della pirateria. Il mandato di Nestor include anche il rafforzamento del
Centro di Addestramento Regionale del Gibuti, dove avverrà l’addestramento di
esperti di tutti i Paesi coinvolti ed il consolidamento della rule of law e del sistema giudiziario somali. Nestor può essere a pieno titolo considerata la chiave di volta dell’intera strategia europea di sicurezza nel Corno d’Africa: lasciando progressi-
© Europae - Rivista di Affari Europei
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L’UNIONE EUROPEA E LA NUOVA CORSA ALL’AFRICA
N. 1 - Aprile 2013
vamente le operazioni di controllo marittimo alle forze regionali costituite ed addestrate, essa dovrebbe funzionare come graduale exit-strategy per Atalanta e restituire il pieno controllo delle acque alle forze locali. Quest’ottica di lungo periodo si discosta sensibilmente dalle precedenti operazioni PSDC, per lo più focalizzate su singoli obiettivi, segnando lo spostamento verso una pianificazione di più ampio respiro strategico.
Le tre missioni operano in maniera complementare mirando a rendere la regione in
grado di provvedere in maniera autonoma alla propria sicurezza ed alla questione
della pirateria. Questo approccio integrato trova poi ulteriore forza nella costituzione del Centro Operativo Europeo per il Corno d’Africa, che offre supporto alla
pianificazione e coordinazione tra le tre missioni, e nella nomina nel gennaio 2012
di un Rappresentante Speciale dell’UE per il Corno d’Africa, il greco Alexander
Rondos, che pur non avendo poteri decisionali, può proporre delle raccomandazioni e fornisce un collegamento diretto con le strutture politiche di Bruxelles.
Il Centro operativo
europeo e Alexander
Rondos,
Rappresentante
Speciale per il Corno
d’Africa
Il quadro delle operazioni PSDC è però solo una parte del quadro strategico adottato
dall’UE: la pirateria è vista come un sintomo dell’instabilità regionale piuttosto La pirateria come
che come una causa. L’approccio europeo parte dall’idea che combattere la pirateria “sintomo”
dell’instabilità
ha senso solo se si sarà in grado nel frattempo di alleviare le sofferenze delle popolazioni locali e fornire loro alternative di elevazione sociale attraverso una migliore
governance e sicurezza nazionale e regionale, sradicando alla base le cause del
malessere socio-economico.
Le missioni PSDC nel Corno d’Africa rappresentano quindi un tassello di un più vasto comprehensive approach in cui le attività militari sono ausiliarie alle attività di
cooperazione allo sviluppo e lotta alla povertà. Un’azione esterna che miri a promuovere i valori fondamentali dell’UE può essere credibile solo se privilegia lo strumento umanitario a quello militare e a tal proposito non si deve dimenticare che oggi l’UE è il principale donatore di aiuti umanitari ed assistenza allo sviluppo
nella regione, sia mediante rapporti bilaterali degli Stati membri, sia attraverso
strumenti europei quali l’EDF (Fondo Europeo di Sviluppo), il DCI (Strumento di Cooperazione allo Sviluppo), l’EIDHR (Strumento Europeo per i Diritti Umani e la Democrazia), lo Strumento di Stabilità e l’action plan SHARE (Supporting Horn of Africa Resilience).
Questo doppio binario dell’azione esterna europea non deve essere trascurato in
regioni come il Corno d’Africa, dove condizionalità politica e relazioni commerciali
sono costantemente in contraddizione tra loro, con l’UE che continua ad iniettare
flussi finanziari pur senza evidenti miglioramenti nel rispetto della rule of law. Queste grandi contraddizioni vanno a tutto vantaggio di altri attori che operano nella
regione, come Russia e Cina, che forniscono una quota sempre più grande degli investimenti diretti a migliorare le infrastrutture e rivitalizzare la crescita economica
nella regione e partecipano attivamente alla lotta antipirateria, sia unilateralmente
che in collaborazione con gli altri attori presenti nel Golfo di Aden.
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Le contraddizioni
dell’UE e il ruolo
crescente di Russia
e Cina
LEARNING BY DOING NEL CORNO D’AFRICA: LA PCSD E IL COMPREHENSIVE APPROACH EUROPEO
Enrico Iacovizzi
Eppure l’UE, nel suo costruire, missione dopo missione, la propria politica di sicu- Ma l’UE deve restare
rezza e difesa, non deve dimenticare la propria essenza di potenza civile: in tutti una “potenza civile”
quei teatri dove l’intervento militare è indispensabile, qualsiasi pianificazione deve
sempre tenere conto delle cause economico-sociali di cui la violenza è un sintomo
prima che una causa. Motivo per cui un comprehensive apporach europeo che voglia risultare attraente per i partner e competitivo rispetto ai modelli di altri attori
internazionali, dovrà sempre affiancare una PSDC efficace ed un concetto di condizionalità politica effettivo.
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I “FOCUS” di Europae
Focus n. 1, 26 marzo 2013
“I costi dell’uscita dall’euro” di Riccardo Barbotti
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Focus n. 2, 5 aprile 2013
“L’Europa e i diritti delle coppie gay” di Paolo Enrico Giancalone
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Focus n. 3, 22 aprile 2013
“Unione bancaria” di Antonio Scarazzini
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