letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
AVVERTENZA.
“Arcipelago itaca” blo-mag è un’iniziativa resa disponibile nel solo formato digitale e
distribuita via e-mail e tramite internet (www.arcipelagoitaca.it), a circa 1.000 tra
associazioni ed operatori culturali, riviste di letteratura e non, critici, scrittori ed
estimatori.
“Arcipelago itaca” blo-mag non è da considerarsi una testata giornalistica in quanto non
ha periodicità e non può pertanto essere ritenuta un prodotto editoriale ai sensi della
legge n. 62 del 07.03.2001.
Testi ed immagini contenuti in “Arcipelago itaca” blo-mag sono riprodotti, quando
possibile e per lo più, previo espresso consenso dei relativi autori (sono sempre e in ogni
caso citati gli autori e/o le fonti di reperimento).
Arcipelago itaca è un marchio registrato.
[…]
Ma ei non brama che veder dai tetti
sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Omero, Odissea - Libro I
È opinione di molti che il ventesimo secolo sia stato, per le nostre patrie lettere, un secolo più che straordinario. Questa
straordinarietà è sicuramente stata accompagnata, forse anche favorita, da un fervore tutto italiano che ha visto nascere e
prosperare molte riviste di letteratura alle quali si fa ancora oggi riferimento contestualizzando l’attività e l’opera di diversi tra i
principali protagonisti della storia più recente della nostra letteratura.
Crediamo di non sbagliare se affermiamo che il novecento è stato il periodo nel quale la “scuola” italiana delle riviste letterarie già molto vivace nel secolo precedente - si è definitivamente elevata a vera e propria tradizione.
Diverse delle riviste in questione sono ancora oggi attive ed affiancano la loro produzione in cartaceo alla presenza sul web; altre,
invece, sono oggi offerte solo in digitale; altre, infine, hanno smesso da tempo di apparire…
In questo numero di “Arcipelago itaca” blo-mag il consueto commento per immagini è affidato ad un nostro omaggio alla ricca
tradizione italiana delle riviste di letteratura. Si tratta di un semplice omaggio, appunto, che non ha la pretesa di rappresentare un
repertorio esaustivo del fenomeno al quale si sta accennando (diverse sono infatti le testate non incluse nella panoramica e che
potrebbero costituire il commento ad un prossimo numero) né, tanto meno, una delle tante “classifiche” che pure fioriscono nello
scenario letterario di casa nostra e che riscuotono non poco interesse.
Rimandiamo ad un’altra ed eventuale occasione l’analisi approfondita - questa sì, sarebbe davvero interessante - delle dinamiche
che hanno determinato il passato svilupparsi e l’odierno, ed obiettivo, appannamento del movimento di cui si è qui brevemente
disquisito...
Ventisette immagini che riproducono soprattutto le copertine
di molte tra le più note riviste italiane di letteratura
commentano questa sedicesima apparizione di
“Arcipelago itaca” blo-mag
In copertina
“Solaria” e “Officina”
Lo scorso 17 febbraio
è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni
Lo scorso 17 febbraio
è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni
Echi
Echi
Michail Jur’evič Lermontov
Michail Jur’evič Lermontov
Una presentazione di Danilo Mandolini
Versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle Note ai testi
(dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli
1 - 32
Una presentazione di Danilo Mandolini
Versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle Note ai testi
(dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli
Voci
Voci
33 - 57
MARE INTERNO
Da Lunga un anno di Francesco Accattoli
Da Musa fitta nell’azzurro di Davide Argnani
Da La cordialità di Mariella De Santis
Da Quaderno millimetrato di Dorinda di Prossimo
Note di presentazione di Danilo Mandolini
SOLO INEDITI
Testi di Francesca Monnetti
Nota introduttiva di Mauro Barbetti
58 - 67
SOLO INEDITI
Testi di Francesca Monnetti
Nota introduttiva di Mauro Barbetti
Da TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini
Nota di commento dello stesso autore
68 - 76
Da TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini
Nota di commento dello stesso autore
MARE INTERNO
Da Lunga un anno di Francesco Accattoli
Da Musa fitta nell’azzurro di Davide Argnani
Da La cordialità di Mariella De Santis
Da Quaderno millimetrato di Dorinda di Prossimo
Note di presentazione di Danilo Mandolini
Piccola antologia dell’opera e della critica di e su:
Piccola antologia dell’opera e della critica di e su:
Alessio Alessandrini
Antonio Bux
Collage Anne Sexton
77 - 110
111 - 152
153 - 154
Alessio Alessandrini
Antonio Bux
Collage Anne Sexton
Sedicesima apparizione
www.paragone.it
Dallo scorso 17 febbraio
è anche casa editrice
Arcipelago itaca Edizioni aspira a divenire, nel tempo,
un punto di riferimento per tutti gli appassionati di poesia;
una casa editrice riconosciuta come realmente specializzata in poesia.
La missione del progetto - in altri termini si potrebbe dire l’obiettivo - è altresì quella di soddisfare al meglio
e al massimo, assecondandola, la grande passione per la poesia che accomuna tutti i protagonisti di questa
iniziativa (l’editore in primis).
Coscienti che di sola poesia è oggi impossibile vivere (i componenti del gruppo di lavoro si sostentano,
infatti, occupandosi di altro) e che la poesia ha un “mercato” limitatissimo, vogliamo soprattutto, con
Arcipelago itaca Edizioni, tentare, per quanto è e sarà possibile, di vivere nella poesia, di immergere, cioè,
la nostra quotidianità e quella di chi ci seguirà nella poesia, di promuovere e diffondere la poesia.
A chi si avvicinerà al nostro progetto ci proponiamo di offrire - almeno a regime e liberi da qualsiasi
condizionamento (in maniera, quindi, del tutto indipendente) - ciò che riteniamo rappresentare, nella
contemporaneità che stiamo attraversando, il meglio (dal punto di vista qualitativo e, a tendere, a 360°)
della poesia.
Se ciò che produrremo avrà un “mercato”, il nostro primo intento sarà quello di cogliere questa opportunità
per sostenere i costi dell’impresa.
EDIZIONI
Andrea Zanzotto
EDIZIONI
L’idea di questa proposta editoriale nasce - e viene in qualche modo rilanciata - nel solco tracciato
dall’esperienza svolta, negli ultimi cinque anni, nell’ambito di “Arcipelago itaca” blo-mag.
“Arcipelago itaca” blo-mag è e continuerà ad essere (affiancando ora le attività della nuova ed omonima casa
editrice) un progetto di diffusione - gratuita, in formato digitale e su base on-line - della poesia
contemporanea e non solo.
***
Nelle pagine che seguono si riproduce il brano “fondante” del testo di presentazione di “Arcipelago itaca”
blo-mag [di Danilo Mandolini (ideatore e curatore ed ora titolare di questo nuovo progetto editoriale che
viene qui presentato), aprile 2010] che può risultare utile per capire ancora meglio perché i membri del
gruppo di lavoro di Arcipelago itaca Edizioni desiderano immergere la propria quotidianità nella poesia.
«[…] Si ha la sensazione, a volte, che praticare la letteratura nella Babele globale del tempo di oggi sia un po’ come tentare
di comunicare, appena bisbigliando, con l’universo intero che grida; come inseguire, camminando, l’umanità che ti corre
veloce davanti.
Il linguaggio di quella narrativa contemporanea che potremmo, sommariamente e semplicisticamente, definire come non
“di largo consumo” e, soprattutto, il linguaggio della poesia - nonché le tesi, chiamiamole così, da queste stesse forme di
espressione artistica affrontate e argomentate e le relative modalità di fruizione - sembrano infatti persistere, all’alba del
terzo millennio, in un limbo, in una sorta di profonda frattura determinata dalla distanza che divide due mondi vicini, ma
tra loro solo ed assolutamente paralleli: il mondo sussurrato e in ogni caso reale, anche perché da sempre manifesto, della
poesia in generale ed il mondo della quotidianità frenetica degli uomini che strepita intorno, piuttosto che interloquire
sottovoce; che promuove valori e modelli quali il possesso, il successo e la competizione a tutti i costi, piuttosto che
soffermarsi a raccontare il sogno della vita attraverso le minime percezioni vissute e, spesso, con il pensiero inestricabile
della precarietà umana a guidare il dispiegarsi delle frasi.
Per chi la frequenta, in particolar modo come autore, la poesia (sia quella - si passi il termine - pura della scrittura in versi,
che quella racchiusa in tanta narrativa) sembra rappresentare, nel presente più che nel passato, un (probabilmente “il”)
tentativo irrinunciabile e quasi ancestrale di far combaciare, o almeno di avvicinare il più possibile, le due anime
dell’odierno vivere umano di cui si è trattato appena in precedenza.
Chi è vicino alla poesia (autori, ma anche lettori) sembra oggi cercare - addentrandosi con il pensiero fin nel più profondo
della sostanza delle parole - una via per testimoniare, con la forza di una sola e flebile voce tra innumerevoli altre e
potenti, che la vita può essere, sì, vissuta appieno, osservata e colta in tutte le sue manifestazioni straordinarie ed esaltanti,
ma necessariamente anche - sperimentando una dimensione marginale e in qualche modo “disperata” - in tutte le sue
miserevoli, intime e apparentemente trascurabili rivelazioni. La vita, tutta la vita, sembrano suggerirci i poeti di oggi più
di quelli di ieri, è poesia e fonte stessa di poesia.
Si è detto via… Forse sì; forse si tratta della ricerca di una via o della necessità di tracciare un percorso dentro ed oltre noi
stessi…
Potremmo anche affermare che si sta disquisendo intorno ad una delle tante componenti di una comunicazione moderna e
totale (la poesia è anche semplice comunicazione?) che aspirano a divenire “traiettoria” da disegnare a congiunzione
ideale tra tutti gli uomini…
Un cammino di purificazione e rigenerazione da compiere tra l’indifferenza dei più e in una selva di domande che non
hanno e non avranno risposta alcuna?
Un itinerario, ancora, che si intraprende senza conoscere la meta ultima?
Forse è per tutto questo che la poesia prende corpo in noi. Forse la poesia è tutto questo.
Forse la poesia è un lungo viaggio a ritroso e al tempo stesso in avanti, una sorta di ritorno mentre si va; un ritorno verso
l’innocenza, incontro ai ricordi, alle debolezze e alle sofferenze che tramutano il vivere, insieme alle gioie, in stupore di
vivere; un ritorno che dura una vita intera (un percorso di vita poetica, lo definiremmo ora, che a volte mostra anche i
tratti dell’impegno civile più alto) che frequentemente si realizza contro tutto e tutti, che può condurre sul baratro
dell’isolamento e che, infine, ci aiuta a costruire l’illusione di poter conoscere anche solo un po’ del perché del nostro
essere al mondo.
Forse (perché non si può certo racchiudere in così poche righe una dissertazione sulla poesia che sia anche solo
minimamente o parzialmente compiuta)… […]».
Dunque e ancora, PERCHÉ Arcipelago itaca?
EDIZIONI
Arcipelago…
…Come aggregazione di differenti e singole entità, come sinonimo della parola “insieme”, come condivisione.
itaca…
…Come nome proprio e noto di un’isola, sì, ma anche come “espressione” proveniente da una tradizione
letteraria tra le più antiche e più alte e che rimanda al desiderio di ritornare, all’aspirazione di vivere una
dimensione di vita quanto più possibile umana e che diviene - attraverso l’“espediente” dell’utilizzo della “i”
minuscola - vera e propria allegoria del ricordo e dell’irrinunciabile azione del ricordare.
Nelle sterminate possibilità che la poesia offre
ancora oggi all’uomo
di essere ancora uomo
IL GRUPPO DI LAVORO
I Responsabili delle Collane
RENATA MORRESI
È nata a Recanati. Vive a Macerata.
Scrive poesia e saggistica e si occupa di
traduzione dall’inglese.
Insegna lingua e traduzione inglese
all’Università di Macerata e inglese nei licei.
MANUEL COHEN
È nato a Miglianico (CH). È vissuto a lungo ad
Urbino e oggi si divide tra Roma e Bruxelles,
dove insegna all'Istituto Internazionale della
Traduzione.
Scrive poesia e saggistica. È tra i maggiori
esperti della poesia neodialettale italiana.
MARTINA DARAIO
È nata ad Ancona e vive tra la sua città natale
e Padova.
Nell’ateneo della città veneta è titolare di un
Dottorato in Scienze linguistiche filologiche e
letterarie.
Scrive saggistica.
DANILO MANDOLINI
È nato e vive ad Osimo (AN).
Scrive poesia. È ideatore e curatore di
“Arcipelago itaca” blo-mag.
Si è sempre occupato di Marketing e Vendite.
Oggi è anche editore.
IL GRUPPO DI LAVORO
I Redattori
ALESSIO ALESSANDRINI
È nato ad Ascoli e vive a Monteprandone
(AP).
Scrive poesia.
Insegna nelle scuole medie.
MAURO BARBETTI
È nato ad Ancona e vive ad Osimo (AN).
Scrive poesia.
Insegna inglese nella scuola primaria.
DANILO MANDOLINI
Le collane
POESIA
Echi, pronunce e voci dalla poesia contemporanea e non solo.
Poesia italiana (inclusa quella dialettale) e straniera.
GIOVANE E NUOVA POESIA ITALIANA
Pronunce e voci dalla giovane poesia italiana contemporanea
(inclusa quella dialettale).
“Formati”:
• raccolte di poeti italiani contemporanei e non;
• traduzioni inedite in italiano di poeti stranieri
contemporanei e non.
“Formati”:
• raccolte inedite di poeti italiani contemporanei
di età inferiore ai 30 anni;
• opere prime di poeti italiani contemporanei.
Nome della collana: Mari aperti.
Nome della collana: Estuari.
Responsabile: RENATA MORRESI.
Responsabile: MANUEL COHEN.
CRITICA DELLA POESIA ITALIANA
(inclusa quella dialettale)
“Formati”:
• saggistica;
• monografie critiche di poeti italiani contemporanei e non;
• antologie critiche di poeti italiani contemporanei e non.
Nome della collana: Maree.
Responsabile: MARTINA DARAIO.
Le collane
LA POESIA DI “Arcipelago itaca” blo-mag
Echi, pronunce e voci dalla poesia italiana contemporanea e non
(inclusa quella dialettale) che rappresentano
una continuazione/integrazione di iniziative già maturate
all’interno del progetto “Arcipelago itaca” blo-mag.
“Formati”:
• Antologie e raccolte di singoli poeti italiani
contemporanei e non.
Nome della collana: Mari interni.
Responsabile: DANILO MANDOLINI.
POESIA - INIZIATIVE SPECIALI
“Formati”:
• antologie poetiche varie e “a tema”;
• versi ed immagini di fotografi ed artisti visivi
contemporanei e non;
• altre (da definire nel tempo).
Nome della collana: Versanti.
Responsabile: DANILO MANDOLINI.
Le possibili attività future (il “sogno”)
Dalle collane di POESIA Mari aperti e Estuari:
• poeti stranieri tradotti in italiano (collana a sé stante e “multilingue”);
• poeti dialettali (collana a sé stante);
• poeti italiani tradotti nelle lingue straniere;
• poeti stranieri che scrivono in italiano;
• altro (da definire nel tempo).
Dalla collana di CRITICA DELLA POESIA ITALIANA Maree:
• critica della poesia straniera;
• altro (da definire nel tempo).
L’“ultrasogno”:
• poesia per bambini-ragazzi / Educazione dei bambini-ragazzi alla poesia;
• altro (da definire nel tempo).
La realizzazione delle pubblicazioni
Tutti i lavori saranno realizzati in pregiata edizione cartacea.
A regime, tutte le pubblicazioni saranno realizzate anche nei principali formati “elettronici”
[in file .pdf (per la fruizione su PC) e in e-book (per la fruizione su tablet e cellulari)].
Non si esclude, per il futuro, la produzione di “formati particolari”
(es.: edizioni in pieghevole, miniraccolte, etc.).
L’attività di vendita e di distribuzione
Inizialmente avverrà:
- tramite il sito internet della casa editrice
(sia per le copie cartacee, che per quelle in versione pdf o e-book);
- in occasione delle presentazioni organizzate dalla casa editrice
o in quelle in cui la casa editrice sarà invitata a partecipare.
***
Sin da subito si lavorerà alla creazione di una rete di librerie “amiche”
presso le quali sarà quindi possibile acquistare le opere pubblicate da Arcipelago itaca Edizioni.
A regime (si lavorerà comunque sin da subito per organizzarsi al meglio negli ambiti che seguono):
- la vendita avverrà anche tramite i principali portali web di commercializzazione di libri
(sia delle copie cartacee che delle versioni in e-book);
- si valuterà l’opportunità di affidare la diffusione nelle librerie
al sistema distributivo tipico del settore
(mediante distributore nazionale o diversi distributori locali).
Il sostegno promozionale alle attività della casa editrice
• “Arcipelago itaca” blo-mag.
Sarà inserito nel sito della casa editrice per il download dell’ultimo numero (download gratuito del
file .pdf). A regime, i numeri saranno realizzati anche in e-book (per la fruizione su tablet e cellulari).
Al momento non si prevede la realizzazione in cartaceo di “Arcipelago itaca” blo-mag.
La struttura generale del blo-mag non cambierà. Diverrà, in ogni caso, anche lo strumento di
promozione delle attività, delle opere e degli autori della casa editrice.
• PREMIO EDITORIALE DI POESIA (a “marchio” Arcipelago itaca Cadenza annuale. Ipotesi lancio 1a edizione: maggio 2015. Ipotesi esiti:
ottobre/novembre 2015).
In palio: la pubblicazione (a titolo assolutamente gratuito per gli autori) nelle collane Mari aperti,
Estuari e Maree delle opere inedite valutate come meritevoli (fino ad un massimo di tre - e solo a
queste - per ognuna delle suddette collane).
Questa specifica iniziativa sarà a supporto dell’attività propria dei Responsabili delle collane.
• RASSEGNA DI POESIA CONTEMPORANEA
(promossa da Arcipelago itaca Edizioni - Cadenza annuale. Ipotesi
svolgimento 1a edizione: ottobre/novembre 2015).
L’iniziativa si svolgerà nell’arco di diversi giorni ed avrà l’intento di ospitare e presentare l’opera di
alcune delle migliori voci della poesia contemporanea e non solo, dibattiti sulla poesia e molto altro.
La rassegna rappresenterà, evidentemente, anche l’occasione per promuovere le attività, le opere e gli
autori della casa editrice.
Il sostegno promozionale alle attività della casa editrice
• Tutte le opere pubblicate dalla casa editrice parteciperanno ad alcuni dei
principali Premi letterari nazionali.
• SITO DELLA CASA EDITRICE E SOCIAL MEDIA A QUESTA
COLLEGATI.
• PROMOZIONI COMMERCIALI VARIE
(anche connesse alle attività di sostegno promozionale alla casa editrice).
• Altro (da definire nel tempo).
***
L’editore realizzerà inoltre, in file formato .pdf e curandone al massimo la veste grafica, un estratto da
ogni libro pubblicato. Questo verrà inviato dall’editore a critici, poeti, redazioni di riviste e blog di
letteratura della mailing list dell’editore (i nominativi dei destinatari saranno concordati con gli
autori). Gli estratti in questione saranno messi a disposizione dei relativi autori.
A regime (si lavorerà comunque sin da subito per organizzarsi al meglio nell’ambito che segue),
l’editore realizzerà anche video relativi alla presentazione dei libri pubblicati e da diffondere tramite
You-tube. Anche i video in questione saranno messi a disposizione dei relativi autori.
Altre iniziative di promozione degli autori verranno definite nel tempo.
Uno dei primi lavori (un “biglietto da visita”)
Una traduzione inedita in italiano
a cura di Renata Morresi
di alcune delle più belle poesie
di Emily Dickinson
e le immagini
di Mario Giacomelli
dalla serie
Io sono nessuno
I'm Nobody! Who are you?
Are you - Nobody - too?
Then there's a pair of us!
Don't tell! they'd advertise - you know!
How dreary - to be - Somebody!
How public - like a Frog To tell one's name - the livelong June To an admiring Bog!
Il logo
il relativo progetto grafico ed il sito
www.arcipelagoitaca.it
sono stati rinnovati.
http://www.mannieditori.it/rivista/lim
maginazione
http://www.anteremedizioni.it/rivista_l
etteraria
echi
http://www.editoriaemiliaromagna.it/k2/mobydi
ck-editore
https://independent.academia.edu/SoglieRiv
istaquadrimestralediPoesiaeCriticaletteraria
Andrea Zanzotto
Michail Jur’evič Lermontov
Considerato da molti come l’erede di Puškin, Michail Jur’evič Lermontov (nel momento in cui questa sedicesima
apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag vedrà la diffusione, sarà da poco trascorso il bicentenario della sua nascita) è
senza dubbio stato un esponente di spicco del Romanticismo europeo. L’unico volume di poesie (a fronte di una
produzione molto corposa che consta di oltre quattrocento liriche) ed il solo romanzo Geroj našego vremeni - Un eroe del
nostro tempo (è soprattutto a questo lavoro che si deve la sua notorietà del tempo e postuma) pubblicati in vita e la sua
stessa e breve esperienza umana (militare di carriera capace di atti eroici ma dal carattere irrequieto e di fatto incline ad
uno spiccato senso di autonomia) si collocano infatti, a pieno titolo, nel solco tracciato dal “pensare ed agire romantico”
attraverso il XIX° secolo del vecchio continente.
Non si può negare, in ogni caso, che la personalità di Lermontov fosse caratterizzata da elementi di vera modernità sia
per l’epoca in cui visse che per chi volesse, ancora oggi, definire una sua precisa collocazione storica. Era infatti un
aristocratico che scelse di lavorare nell’esercito nonostante il suo talento in campo artistico e, rimanendo proprio
nell’ambito dell’espressione artistica, non si può non annotare, ancora, come questa si manifestasse sia nella scrittura
(poesia e narrativa) che sul “fronte” delle arti figurative (fu anche pittore).
La sua prematura scomparsa ed il suo più volte manifestato guardare con scetticismo alla sua stessa produzione
giovanile in versi (per Lermontov, tutto ciò che era stato da lui scritto prima del 1836 era da considerarsi come
propedeutico verso ciò che seguì) generò molte e feroci polemiche in Russia in occasione delle pubblicazioni che
avvennero della sua opera già a partire dal 1842.
In Italia, l’opera di Michail Jur’evič Lermontov non è certamente nota come quella di altri autori russi o stranieri in
generale. Ciononostante, non va dimenticato che il principale - e mirabile - traduttore in italiano dei suoi lavori è stato
Tommaso Landolfi (Michail Lermontov. Liriche e poemi, Nuova Universale Einaudi, Torino, 1963, con introduzione di Angelo
Maria Ripellino, dato nuovamente alle stampe da Adelphi, senza il saggio di Ripellino, nel 2006).
Roberto Michilli, il curatore del più recente lavoro in italiano su Lermontov (Quaranta poesie, Galaad Edizioni,
Giulianova - TE, 2014) oggetto della nostra attenzione in questa sedicesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag,
conosce molto bene sia le polemiche seguite alle pubblicazioni postume dell’opera del nostro (e, ovviamente, i relativi
contenuti e criteri di selezione dei testi), che quanto svolto da Landolfi in Italia sulla stessa. Prima di illustrarci in dettaglio
l’impostazione del suo lavoro, infatti, Michilli, nella sua puntuale Introduzione a Quaranta poesie, effettua una panoramica
più che esaustiva sulla “storia dell’attenzione” che l’editoria russo-sovietica ed italiana ha dedicato al poeta moscovita.
Fissando a mo’ di “spartiacque” proprio il 1836 di cui in precedenza ed estrapolando materiale messo a punto
dall’autore sia prima che dopo questo anno, Roberto Michilli ci ha offerto, nell’anno appena concluso, una prima edizione
(uscita a marzo) contenente quarantaquattro testi in versi e due frammenti di Lermontov proposti con testo originale a
fronte e traduzione in italiano. Nell’edizione ampliata dello stesso volume (uscita ad ottobre), e fermo restando i criteri
organizzativi di base della prima edizione, sono state aggiunte quattordici liriche portando così il numero totale di queste
a sessanta. Va segnalato che è già in diffusione la seconda ristampa della seconda edizione e che delle sessanta poesie della
versione definitiva del lavoro, trentasette sono alla loro prima traduzione in italiano ed una parte di queste sono alla loro
prima traduzione “tout-court” nelle principali lingue della letteratura mondiale.
Parallelamente all’implementazione del numero dei testi, è, evidentemente e proporzionalmente, cresciuto anche il
preziosissimo e notevole apparato delle Note (il libro è composto, oltre che dal corpo dei testi in lingua originale e tradotti
e dalla già citata Introduzione a firma del curatore, da una dettagliata crono-bio-bibliografia dell’autore e dal notevolissimo
apporto rappresentato, appunto, dalle Note di Michilli).
Le note in questione sono un vero e proprio libro nel libro; la cura di queste è tale da consentire al lettore la
contestualizzazione di ogni singola poesia nell’ambito del “quadro” critico italiano, russo-sovietico ed internazionale, di
quello bio-bibliografico dell’autore e di quello storiografico generale (in alcuni casi, il curatore arriva addirittura ad
evidenziare i link per l’ascolto, in internet, dei testi di Lermontov interpretati in russo).
Michail Jur’evič Lermontov
Le ultime annotazioni di questa sintetica presentazione sono ora per il traduttore e per l’editore.
Riguardo al primo occorre affermare che l’interpretazione che Michilli dà dei testi di Lermontov da lui selezionati e
tradotti in italiano pare ricreare, esaltandolo al meglio e al massimo, proprio il “pathos” che immaginiamo abbia retto
l’esperienza di vita e, conseguentemente, il percorso di ricerca artistica del grande scrittore russo. Non di meno, sembra
evidente che il lavoro di traduzione in questione - il tono stesso e diretto (in qualche modo poco filtrato, pensiamo) della
traduzione, verrebbe da dire - sia straordinariamente funzionale a porre l’accento sulle visioni nitide, che erano poi le
istanze introspettive e civili al tempo stesso, proprie del versificare lermontoviano.
Riteniamo che Quaranta poesie meriti l’attenzione fornita in queste e nelle pagine che seguono perché rappresenta, nel
tempo “disgraziato” di oggi, un felice esperimento, un esempio illuminante di come un piccolo ma lungimirante editore
unito ad uno studioso - appartato, sì, ma con la “S” maiuscola - possano, semplicemente, produrre vera letteratura.
La scelta dei componimenti di Michail Jur’evič Lermontov che segue il capitolo La vita e le opere ed il brano dalle Note ai
testi di Roberto Michilli, è stata curata da Danilo Mandolini ed è tratta da Quaranta poesie (traduzione e cura di Roberto
Michilli, Galaad Edizioni, Giulianova - TE, 2014).
Una recente segnalazione, qui:
http://www.satisfiction.me/quaranta-poesie/
Una recente segnalazione, qui:
http://brotture.net/2014/07/16/quaranta-poesie/
Michail Jur’evič Lermontov
Michail Jur’evič Lermontov
La vita
e le opere
1
Nasce a Mosca, nella notte tra il 2 e il 3 ottobre del 1814, da Júrij
Petróvič Lérmontov, gentiluomo, piccolo proprietario terriero ed ex
capitano di un reggimento della Guardia Imperiale, e dalla giovane
Maríja Michájlovna Arsén’eva, unica figlia di Elizavéta Alekséevna
vedova Arsén’ev, appartenente alla nobile e ricca famiglia degli
Stolýpin.
Rimane orfano di madre all'età di tre anni e viene educato dalla nonna
materna che riesce a contenderlo al padre. Viene educato a casa da una
serie di precettori stranieri. Impara il francese e, più tardi, il tedesco e
l’inglese. Prende lezioni di musica e di pittura. Legge molto, in
particolar modo la letteratura romantica. Byron diventa il suo eroe
letterario.
Nel maggio del 1818 la nonna lo porta per la prima volta nel Caucaso
(che visiterà ancora nel 1820 e nel 1825). La fiera grandiosità di questa
regione influirà potentemente non soltanto sulla fantasia, ma anche
sull'animo stesso del fanciullo. Trascorre l’estate di quell’anno nella
proprietà della prozia Ekaterína Chastátova, sorella di Elizavéta
Alekséevna, e nella località termale di Pjatigórsk.
Nel 1826 la famiglia della nonna viene toccata dalle conseguenze della
rivolta del 14 dicembre 1825. Alcuni parenti di Penza vengono arrestati.
Il generale Dmítrij Stolýpin, fratello di Elizavéta ed amico dei capi
decabristi, muore nel gennaio dello stesso anno prima di poter essere
incriminato.
Nel 1827 trascorre l’estate a Krópotovo con il padre e conosce le zie. In
autunno si trasferisce a Mosca con la nonna e i suoi istitutori per
continuare gli studi. Sempre nel 1827 avviene il primo incontro con
Varvára Lopuchiná, alla quale sarà legato nei primi anni Trenta e che
non dimenticherà per il resto della vita, a dispetto degli altri suoi affari
di cuore e del matrimonio di lei.
È del 1828 l’iscrizione alla pensione per giovani nobili a Mosca,
La vita
e le opere
22
prestigioso istituto che prepara i rampolli delle migliori famiglie
aristocratiche all’ingresso in università. Parallelamente continua gli
studi con i suoi istitutori privati. Legge Rousseau, Goethe, Schiller e si
appassiona alla poesia di Púškin, che impara quasi tutta a memoria.
L’anno successivo frequenta la Pensione universitaria e con un nuovo
istitutore inglese legge Byron, Scott e Shakespeare. Traduce Byron.
Comincia a scrivere poesie. Ne scriverà circa trecento tra il 1828 e il
1832. Termina la prima stesura del poema Il Démon, che lo
accompagnerà per tutta la vita (ne scriverà otto versioni diverse).
Nel settembre del 1830 si iscrive all’Università di Mosca, prima alla
Facoltà politico-morale, poi a Letteratura. Nello stesso periodo
frequentano la facoltà Herzen e Belínskij, ma Lérmontov si tiene
discosto da loro e dagli altri studenti. Frequenta la buona società
moscovita.
Il 1831 è l’anno della morte del padre, mentre l’anno seguente si
trasferisce a Pietroburgo per continuare gli studi, ma non gli vengono
riconosciuti i due anni frequentati a Mosca. Entra allora nella Scuola dei
cadetti di cavalleria della Guardia Imperiale.
Nel 1833 frequenta la Scuola di cavalleria, dalla quale uscirà un anno
dopo per essere assegnato al Reggimento degli Ussari della Guardia
Imperiale di stanza a Cárskoe Seló. A sua insaputa viene pubblicato il
poema Hadži Abrek.
Il 1835 è l’anno delle frequentazioni intense dei salotti della buona
società pietroburghese. Ha una relazione con Ekatérina Suškóva, già
conosciuta a Mosca nell’estate del 1830. Scrive il poema Il boiaro Orša e il
dramma Un ballo in maschera che non può essere rappresentato perché
non riceve il visto della censura. Inizia a scrivere il romanzo La
principessa Ligovskaja, destinato a rimanere incompiuto, il cui
protagonista si chiama Pečórin, come quello di Un eroe del nostro tempo.
Nel 1837 scrive l’elegia in morte di Púškin che lo renderà famoso, e il 20
febbraio viene arrestato. Il 25 è assegnato ai Dragoni di Nížnij
Nóvgorod, un reggimento di cavalleria in servizio nel Caucaso. A
ottobre, grazie alle buone relazioni della nonna, l’esilio ha fine e viene
reintegrato nella Guardia imperiale, in un reggimento di ussari di
stanza presso Nóvgorod.
La vita
e le opere
23
Nel Marzo del 1838 viene trasferito al suo vecchio reggimento e torna a Cárskoe Seló. L’alta società
pietroburghese lo accoglie con tutti gli onori. Comincia a frequentare il salotto letterario di casa Karamzín.
Nel 1839 escono, sulla rivista “Memorie patrie”, tre delle cinque storie che compongono Un eroe del nostro
tempo (Bela, Taman e Il fatalista).
Il 18 febbraio del 1840 si batte in duello con Ernest de Barante, figlio dell’ambasciatore francese. Per
punizione viene mandato di nuovo nel Caucaso, assegnato stavolta a un reggimento di fanteria. Esce in
volume Un eroe del nostro tempo. Partecipa da valoroso alle campagne contro i ribelli ceceni. Pubblica una
raccolta di ventotto poesie (Stichotvorenija M. Lermontova, Poesie di M. Lérmontov), tra le quali i poemetti
Mcyri e Canto dello zar Ivan Vasil’evič, del giovane arciere della guardia e del prode mercante Kalašnikov.
All’inizio del 1841 ottiene una licenza ed è di nuovo a Pietroburgo. Appena arrivato partecipa a un ballo al
quale sono presenti anche membri della famiglia reale. Come ufficiale in punizione non avrebbe dovuto.
Spera di poter lasciare il servizio per dedicarsi interamente alla letteratura. Vuole fondare una rivista. Il
congedo però gli viene rifiutato e in aprile è rimandato nel Caucaso. Va a Pjatigórsk per curarsi.
Il 15 luglio dello stesso anno muore in duello.
Le datazioni di questa bio-bibliografia vanno riferite al calendario giuliano usato in Russia fino al 1917. Nell’Ottocento,
questo era dodici giorni indietro rispetto al gregoriano adottato in occidente.
Nella pagina precedente: Veduta di Tiflis di Michail Jur’evič Lermontov, olio su tela, 1837.
Da Quaranta poesie
Michail
Jur’evič
Lermontov
4
Da 1837 - 1841
Смерть Поэта
La morte del Poeta
Отмщенье, государь, отмщенье!
Паду к ногам твоим:
Будь справедлив и накажи убийцу,
Чтоб казнь его в позднейшие века
Твой правый суд потомству возвестила,
Чтоб видели злодеи в ней пример.
Погиб поэт! - невольник чести Пал, оклеветанный молвой,
С свинцом в груди и жаждой мести,
Поникнув гордой головой!..
Не вынесла душа поэта
Позора мелочных обид,
Восстал он против мнений света
Один как прежде... и убит!
Убит!... к чему теперь рыданья,
Пустых похвал ненужный хор,
И жалкий лепет оправданья?
Судьбы свершился приговор!
Не вы ль сперва так злобно гнали
Его свободный, смелый дар
И для потехи раздували
Чуть затаившийся пожар?
Что ж? веселитесь... - он мучений
Последних вынести не мог:
Угас, как светоч, дивный гений,
Увял торжественный венок.
Vendetta, Principe, vendetta!
Cadrò ai tuoi piedi:
Sii giusto e punisci l’assassino,
Il suo supplizio nei secoli a venire
La tua giusta Corte ha annunciato alla posterità,
Perché gli scellerati vedano in esso l’esempio.
Il Poeta è morto! - schiavo dell’onore è caduto, calunniato,
col piombo nel petto e assetato di vendetta,
ha chinato la testa orgogliosa!…
Non ha sopportato l’anima del Poeta
il disonore delle offese meschine,
contro la società s’alzò
solo come prima… ed è stato ucciso!
Ucciso!… a che serve piangere ora,
intonare inutilmente vacui elogi,
e balbettare patetiche scuse?
Si è compiuta la sentenza del destino!
Forse che per la prima volta avete perseguitato così
ferocemente
la sua libera, coraggiosa voce
e per puro divertimento
avete soffiato sul fuoco quasi nascosto?
Ebbene? divertitevi… egli la tortura finale
non poteva sopportarla:
si spense, come una fiaccola, il genio miracoloso,
come una ghirlanda appassì.
Michail
Jur’evič
Lermontov
Его убийца хладнокровно
Навел удар... спасенья нет:
Пустое сердце бьется ровно,
В руке не дрогнул пистолет.
И что за диво?... из далека,
Подобный сотням беглецов,
На ловлю счастья и чинов
Заброшен к нам по воле рока;
Смеясь, он дерзко презирал
Земли чужой язык и нравы;
Не мог щадить он нашей славы;
Не мог понять в сей миг кровавый,
На что он руку поднимал!..
И он убит - и взят могилой,
Как тот певец, неведомый, но милый,
Добыча ревности глухой,
Воспетый им с такою чудной силой,
Сраженный, как и он, безжалостной рукой.
5
A sangue freddo il suo assassino
ha scaricato il colpo… non c’è scampo:
il cuore vuoto batte normalmente,
nella mano non ha tremato la pistola.
Perché stupirsi?... da lontano,
simile a centinaia di fuggiaschi,
a caccia di fortuna e gradi
gettato a noi dalla mano del destino;
ridendo, ha sprezzato con impudenza
della terra altrui la lingua e i costumi;
non poteva salvare la nostra gloria;
non poteva capire in quel sanguinoso istante,
su cosa aveva alzato la mano!...
Ed è stato ucciso e preso dalla tomba,
come quel cantore, sconosciuto, ma amabile,
preda della sorda gelosia,
cantato da lui con tale meravigliosa forza,
abbattuto, come lui, da una mano spietata.
Зачем от мирных нег и дружбы простодушной
Вступил он в этот свет завистливый и душный
Для сердца вольного и пламенных страстей?
Зачем он руку дал клеветникам ничтожным,
Зачем поверил он словам и ласкам ложным,
Он, с юных лет постигнувший людей?..
Perché da tranquilli piaceri e semplice amicizia
è entrato in questa società invidiosa e soffocante
per un cuore libero e ardenti passioni?
Perché ha dato la mano a miseri calunniatori,
perché ha creduto a parole e carezze false,
lui, che fin dalla giovinezza aveva capito gli uomini?...
И прежний сняв венок - они венец терновый,
Увитый лаврами, надели на него;
Но иглы тайные сурово
Язвили славное чело;
Отравлены его последние мгновенья
Коварным шопотом насмешливых невежд,
И умер он - с напрасной жаждой мщенья,
С досадой тайною обманутых надежд.
Замолкли звуки чудных песен,
E togliendo la precedente corona - una corona di spine,
intrecciata con l’alloro, hanno messo su di lui;
ma le spine nascoste severamente
hanno ferito la gloriosa fronte;
avvelenati i suoi ultimi istanti
da perfidi bisbigli di beffardi ignoranti,
è morto - con una vana sete di vendetta,
con segreto dispetto per le tradite speranze.
Si spensero gli echi dei magici canti,
Не раздаваться им опять:
Приют певца угрюм и тесен,
И на устах его печать.
_____
Michail
Jur’evič
Lermontov
А вы, надменные потомки
Известной подлостью прославленных отцов,
Пятою рабскою поправшие обломки
Игрою счастия обиженных родов!
Вы, жадною толпой стоящие у трона,
Свободы, Гения и Славы палачи!
Таитесь вы под сению закона,
Пред вами суд и правда - всё молчи!...
Но есть, есть божий суд, наперсники разврата!
Есть грозный судия: он ждет;
Он не доступен звону злата,
И мысли и дела он знает наперед.
Тогда напрасно вы прибегнете к злословью:
Оно вам не поможет вновь,
И вы не смоете всей вашей черной кровью
Поэта праведную кровь!
non risuoneranno più:
angusta, tenebrosa è la dimora del Poeta,
e sulle sue labbra è apposto un sigillo.
_____
E voi, alteri discendenti
di padri celebrati per la nota viltà,
che con piedi servili calpestate le vestigia
di famiglie offese dal gioco della fortuna!
Voi, turba di ambiziosi che circondate il trono,
carnefici della Gloria, della Libertà e del Genio!
Vi nascondete all’ombra della legge,
tacciono per voi giustizia e verità!...
Ma esiste, esiste pure, amici dissoluti,
un tribunale divino!
Un giudice terribile, che vi aspetta;
inaccessibile al tintinnio dell’oro,
che conosce in anticipo i pensieri e le opere.
Allora ricorrerete invano alle calunnie:
non vi soccorreranno nuovamente,
e non basterà tutto il vostro sangue nero per lavare
il sangue innocente del Poeta!
1837
1837
6
Узник
Michail
Jur’evič
Lermontov
Отворите мне темницу,
Дайте мне сиянье дня,
Черноглазую девицу,
Черногривого коня!
Я красавицу младую
Прежде сладко поцелую,
На коня потом вскочу,
В степь, как ветер, улечу.
*
Но окно тюрьмы высоко,
Дверь тяжелая с замком;
Черноокая далеко,
В пышном тереме своем,
Добрый конь в зеленом поле
Без узды, один, по воле
Скачет весел и игрив,
Хвост по ветру распустив.
7
*
Одинок я - нет отрады:
Стены голые кругом,
Тускло светит луч лампады
Умирающим огнем;
Только слышно: за дверями,
Звучномерными шагами,
Ходит в тишине ночной
Безответный часовой.
Il prigioniero
Apritemi la prigione,
datemi lo splendore del giorno,
una vergine dagli occhi neri,
un destriero dalla criniera nera!
Io la giovane bellezza
prima dolcemente bacerò,
sul cavallo poi salterò,
nella steppa, come il vento, volerò.
Ma è alta la finestra della cella,
pesante la porta con la serratura;
Occhineri è lontana,
nel suo sfarzoso terem,
il buon cavallo è in un verde campo
senza briglie, solo, in libertà
galoppa allegro e vivace,
la coda spiegata al vento.
Sono solo - non ho alcun conforto:
nude pareti intorno,
debole il raggio del lume brilla
di un fuoco morente;
si sente soltanto: oltre le porte,
con passi risonanti e misurati,
cammina nel silenzio della notte
la sentinella rassegnata.
1837
1837
«Когда волнуется желтеющая нива…»
Michail
Jur’evič
Lermontov
Когда волнуется желтеющая нива,
И свежий лес шумит при звуке ветерка,
И прячется в саду малиновая слива
Под тенью сладостной зелёного листка;
Когда росой обрызганный душистой,
Румяным вечером иль утра в час златой
Из-под куста мне ландыш серебристый
Приветливо кивает головой;
Когда студеный ключ играет по оврагу
И, погружая мысль в какой-то смутный сон,
Лепечет мне таинственную сагу
Про мирный край, откуда мчится он:
Тогда смиряется души моей тревога,
Тогда расходятся морщины на челе,
И счастье я могу постигнуть на земле,
И в небесах я вижу бога!..
1837
8
«Quando s’agita il campo di grano biondeggiante…»
Quando s’agita il campo di grano biondeggiante,
e il fresco bosco strepita al suono della brezza,
e si nasconde nel giardino la prugna cremisi
sotto l’ombra dolce di una verde fogliolina;
quando spruzzato di fragrante rugiada,
nella sera rosseggiante o nell’ora dorata del mattino
da sotto al cespuglio il mughetto d’argento
mi saluta affabile con un cenno del capo;
quando la fonte gelida scintilla per il burrone
e, immergendo il pensiero in un qualche sogno inquieto,
mi mormora la saga misteriosa
della quieta regione da dove scorre:
allora si placa il tumulto della mia anima,
allora si dissolvono le rughe sulla fronte,
e posso concepire la felicità sulla terra,
e nei cieli vedo dio!...
1837
Michail
Jur’evič
Lermontov
Гляжу на будущность с боязнью,
Гляжу на прошлое с тоской
И как преступник перед казнью
Ищу кругом души родной;
Придет ли вестник избавленья
Открыть мне жизни назначенье,
Цель упований и страстей,
Поведать - что мне бог готовил,
Зачем так горько прекословил
Надеждам юности моей.
Земле я отдал дань земную
Любви, надежд, добра и зла;
Начать готов я жизнь другую,
Молчу и жду: пора пришла;
Я в мире не оставлю брата,
И тьмой и холодом объята
Душа усталая моя;
Как ранний плод, лишенный сока
Она увяла в бурях рока
Под знойным солнцем бытия.
1837-1838
9
Guardo al futuro con timore,
guardo al passato con angoscia
e come un criminale davanti al supplizio
cerco intorno un’anima gemella;
verrà il messaggero della liberazione
a svelarmi il senso della vita,
lo scopo di speranze e passioni,
a dirmi ciò che dio m’ha riservato,
perché tanto amaramente ha contraddetto
le speranze della mia giovinezza.
Alla terra ho pagato un tributo terrestre
d’amore, di speranze, bene e male;
sono pronto a iniziare un’altra vita,
taccio e attendo: il momento è venuto;
al mondo non lascerò un fratello,
e le tenebre e il freddo hanno avvolto
l’anima stanca mia;
come un frutto precoce, privo di succo
è appassita nelle tempeste del destino
sotto l’ardente sole della vita.
1837-1838
Дума
Michail
Jur’evič
Lermontov
10
Печально я гляжу на наше поколенье!
Его грядущее - иль пусто, иль темно,
Меж тем, под бременем познанья и сомненья,
В бездействии состарится оно.
Богаты мы, едва из колыбели,
Ошибками отцов и поздним их умом,
И жизнь уж нас томит, как ровный путь без цели,
Как пир на празднике чужом.
К добру и злу постыдно равнодушны,
В начале поприща мы вянем без борьбы;
Перед опасностью позорно малодушны
И перед властию - презренные рабы.
Так тощий плод, до времени созрелый,
Ни вкуса нашего не радуя, ни глаз,
Висит между цветов, пришлец осиротелый,
И час их красоты - его паденья час!
Мы иссушили ум наукою бесплодной,
Тая завистливо от ближних и друзей
Надежды лучшие и голос благородный
Неверием осмеянных страстей.
Едва касались мы до чаши наслажденья,
Но юных сил мы тем не сберегли;
Из каждой радости, бояся пресыщенья,
Мы лучший сок навеки извлекли.
Мечты поэзии, создания искусства
Восторгом сладостным наш ум не шевелят;
Мы жадно бережем в груди остаток чувства Зарытый скупостью и бесполезный клад.
И ненавидим мы, и любим мы случайно,
Ничем не жертвуя ни злобе, ни любви,
Meditazione
Con tristezza guardo alla nostra generazione!
Il suo avvenire è vuoto, oppure buio,
intanto, sotto il peso di conoscenza e dubbio,
invecchierà nell’inazione.
Siamo ricchi, appena fuori della culla,
degli errori dei padri e della loro mente tardiva,
e la vita già ci estenua, come una strada piatta e senza
scopo,
come un banchetto alla festa d’altri.
Al bene e al male vergognosamente indifferenti,
all’inizio della vita cediamo senza lotta;
davanti al pericolo ignobilmente vili
e davanti al potere spregevoli schiavi.
Così il magrissimo frutto, maturato prima del tempo,
senza rallegrarci né il gusto, né gli occhi,
pende tra i fiori, straniero derelitto,
e l’ora della loro bellezza, della sua caduta è l’ora!
Abbiamo disseccato la mente con una scienza sterile,
nascondendo gelosamente ai prossimi e agli amici
le speranze migliori e la voce nobile
delle passioni derise dagli increduli.
Abbiamo sfiorato appena la coppa del piacere,
ma non per questo abbiamo risparmiato le giovani forze;
da ogni gioia, temendo d’esserne sazi,
per sempre il miglior succo abbiamo estratto.
I sogni della poesia, le creazioni dell’arte
non muovono con dolci estasi la nostra mente;
avidamente custodiamo nel petto un residuo
di sentimento sotterrato dall’avarizia e inutile tesoro.
E detestiamo, e amiamo casualmente,
nulla sacrificando né al rancore, né all’amore,
Michail
Jur’evič
Lermontov
И царствует в душе какой-то холод тайный,
Когда огонь кипит в крови.
И предков скучны нам роскошные забавы,
Их добросовестный, ребяческий разврат;
И к гробу мы спешим без счастья и без славы,
Глядя насмешливо назад.
e regna nell’anima un gelo segreto,
mentre il fuoco ribolle nel sangue.
E dei padri ci annoiano i sontuosi svaghi,
la loro coscienziosa, infantile dissolutezza;
e alla tomba ci affrettiamo senza felicità e senza gloria,
guardando beffardamente indietro.
Толпой угрюмою и скоро позабытой
Над миром мы пройдем без шума и следа,
Не бросивши векам ни мысли плодовитой,
Ни гением начатого труда.
И прах наш, с строгостью судьи и гражданина,
Потомок оскорбит презрительным стихом,
Насмешкой горькою обманутого сына
Над промотавшимся отцом.
Come una folla tetra e presto dimenticata
sul mondo passeremo senza rumore e traccia,
senza lasciare ai secoli né un pensiero fecondo,
né del genio il lavoro inconcluso.
E le nostre ceneri, con la severità del giudice
e del cittadino,
il postero oltraggerà con uno sprezzante verso,
con la beffa amara del figlio ingannato
nei confronti del padre dissipatore.
1838
1838
11
Michail
Jur’evič
Lermontov
12
«Не верь, не верь себе, мечтатель молодой…»
Que nous font apres tout les vulgaires abois
De tous ces charlatans qui donnent de la voix,
Les marchands de pathos et les faiseurs d’emphase
Et tous les baladins qui dansent sur la phrase?
(A. Barbier)
«Non credere, non credere a te stesso, giovane sognatore…»
Que nous font apres tout les vulgaires abois
De tous ces charlatans qui donnent de la voix,
Les marchands de pathos et les faiseurs d’emphase
Et tous les baladins qui dansent sur la phrase?
(A. Barbier)
Не верь, не верь себе, мечтатель молодой,
Как язвы, бойся вдохновенья...
Оно - тяжелый бред души твоей больной
Иль пленной мысли раздраженье.
В нем признака небес напрасно не ищи То кровь кипит, то сил избыток!
Скорее жизнь свою в заботах истощи,
Разлей отравленный напиток!
Non credere, non credere a te stesso, giovane sognatore,
come le piaghe, temi l’ispirazione…
È il pesante delirio della tua anima malata
o l’irritazione del pensiero prigioniero.
Non cercarvi invano un segno dei cieli è il sangue che bolle, un eccesso di forze!
Lògorati piuttosto la vita nelle preoccupazioni,
spargi la bevanda avvelenata!
Случится ли тебе в заветный, чудный миг
Отрыть в душе давно безмолвной
Еще неведомый и девственный родник,
Простых и сладких звуков полный, Не вслушивайся в них, не предавайся им,
Набрось на них покров забвенья:
Стихом размеренным и словом ледяным
Не передашь ты их значенья.
Se ti accadrà in un prezioso, meraviglioso istante
di scoprire nell’anima da molto tempo muta
una ancora ignota e vergine sorgente,
piena di dolci e semplici suoni, non sforzarti di ascoltarli, non abbandonarti a loro,
getta su di essi il manto dell’oblio:
col verso misurato e la parola di ghiaccio
il loro senso non trasmetterai.
Michail
Jur’evič
Lermontov
Закрадется ль печаль в тайник души твоей,
Зайдет ли страсть с грозой и вьюгой,
Не выходи тогда на шумный пир людей
С своею бешеной подругой;
Не унижай себя. Стыдися торговать
То гневом, то тоской послушной
И гной душевных ран надменно выставлять
На диво черни простодушной.
Какое дело нам, страдал ты или нет?
На что нам знать твои волненья,
Надежды глупые первоначальных лет,
Рассудка злые сожаленья?
Взгляни: перед тобой играючи идет
Толпа дорогою привычной;
На лицах праздничных чуть виден след забот,
Слезы не встретишь неприличной.
А между тем из них едва ли есть один,
Тяжелой пыткой не измятый,
До преждевременных добравшийся морщин
Без преступленья иль утраты!..
Поверь: для них смешон твой плач и твой укор,
С своим напевом заученным,
Как разрумяненный трагический актер,
Махающий мечом картонным...
13
1839
Se s’insinua la tristezza nel segreto della tua anima,
se arriva la passione con la tempesta e la bufera,
non andare allora ai banchetti rumorosi degli uomini
con la tua furiosa amica;
non umiliarti. Abbi vergogna a far mercato
ora dell’ira, ora della duttile tristezza
e il marcio delle ferite dell’anima a esporre
altezzosamente
per meraviglia della plebe ingenua.
Che importa a noi se tu hai sofferto o no?
Perché dovremmo conoscere le tue ansie,
dei primi anni le stupide speranze,
della ragione i crudeli rimpianti?
Guarda: davanti a te giocosamente
per la solita via va la folla;
sui volti in festa appena si vedono tracce
di preoccupazioni,
lacrime indecenti non troverai.
Eppure tra loro a stento ve n’è uno,
da pesanti torture non schiacciato,
giunto a rughe precoci
senza delitti oppure senza perdite!...
Credi: per loro è ridicolo il tuo pianto
e il tuo rimprovero,
col suo canto meccanico,
è come un attore tragico imbellettato,
che agita una spada di cartone…
1839
Michail
Jur’evič
Lermontov
14
Памяти А. И. Одоевского
In memoria di A. I. Odoevskij
1
Я знал его: мы странствовали с ним
В горах востока, и тоску изгнанья
Делили дружно; но к полям родным
Вернулся я, и время испытанья
Промчалося законной чередой;
А он не дождался минуты сладкой:
Под бедною походною палаткой
Болезнь его сразила, и с собой
В могилу он унес летучий рой
Еще незрелых, темных вдохновений,
Обманутых надежд и горьких сожалений!
1
Lo conoscevo: abbiamo viaggiato insieme
nelle montagne dell’est, e la malinconia dell’esilio
diviso amichevolmente; ma ai campi nativi
io sono tornato, e il tempo della prova
s’è involato in fila regolari;
ma lui non ha aspettato i dolci istanti:
sotto una povera tenda da bivacco
la malattia l’ha abbattuto, e con sé
portò nella tomba lo sciame volante
delle ancora incerte, oscure ispirazioni,
delle speranze deluse e degli amari rimpianti!
2
Он был рожден для них, для тех надежд,
Поэзии и счастья... Но, безумный Из детских рано вырвался одежд
И сердце бросил в море жизни шумной,
И свет не пощадил - и бог не спас!
Но до конца среди волнений трудных,
В толпе людской и средь пустынь безлюдных,
В нем тихий пламень чувства не угас:
Он сохранил и блеск лазурных глаз,
И звонкий детский смех, и речь живую,
И веру гордую в людей и жизнь иную.
2
Era nato per loro, per queste speranze,
per la poesia e la felicità… Ma, il folle precocemente si spogliò dei suoi abiti infantili
e gettò il cuore nel mare della vita rumorosa,
e il mondo non ha avuto pietà - e dio non l’ha salvato!
Ma fino all’ultimo in mezzo a difficili tumulti,
nella folla degli uomini e in mezzo ai deserti inabitati,
la calma fiamma del sentimento non s’è spenta:
ha conservato e la luminosità degli occhi azzurri,
e il riso sonoro da bambino, e la parola viva,
e la fede orgogliosa negli uomini e in una vita diversa.
Michail
Jur’evič
Lermontov
15
3
Но он погиб далеко от друзей...
Мир сердцу твоему, мой милый Саша!
Покрытое землей чужих полей,
Пусть тихо спит оно, как дружба наша
В немом кладбище памяти моей!
Ты умер, как и многие, без шума,
Но с твердостью. Таинственная дума
Еще блуждала на челе твоем,
Когда глаза закрылись вечным сном;
И то, что ты сказал перед кончиной,
Из слушавших тебя не понял ни единый...
3
Ma è morto lontano dagli amici…
Pace al tuo cuore, mio caro Saša!
Ricoperto dalla terra di campi stranieri,
che dorma dolcemente, come la nostra amicizia
nel cimitero muto della mia memoria!
Sei morto, come molti, senza frastuono,
ma con fermezza. Un misterioso pensiero
ancora sulla fronte ti vagava,
quando gli occhi chiudesti al sonno eterno;
e ciò che hai detto prima della fine,
di quelli che ti ascoltavano non uno l’ha capito…
4
И было ль то привет стране родной,
Названье ли оставленного друга,
Или тоска по жизни молодой,
Иль просто крик последнего недуга,
Кто скажет нам?.. Твоих последних слов
Глубокое и горькое значенье
Потеряно... Дела твои, и мненья,
И думы, - всё исчезло без следов,
Как легкий пар вечерних облаков:
Едва блеснут, их ветер вновь уносит Куда они? зачем? откуда? - кто их спросит...
4
Era forse un saluto al paese natale,
il nome di un amico abbandonato,
o angoscia per la giovane vita,
o solo il grido dell’ultimo male,
chi ce lo dirà?… Delle tue ultime parole
il senso profondo e amaro
è perduto… I tuoi atti, e le opinioni,
i pensieri, - tutto è scomparso senza lasciare traccia,
come il vapore lieve delle nuvole serali:
appena brillano, il vento le porta via di nuovo dove vanno? perché? da dove? - chi glielo chiederà…
Michail
Jur’evič
Lermontov
5
И после их на небе нет следа,
Как от любви ребенка безнадежной,
Как от мечты, которой никогда
Он не вверял заботам дружбы нежной...
Что за нужда? Пускай забудет свет
Столь чуждое ему существованье:
Зачем тебе венцы его вниманья
И терния пустых его клевет?
Ты не служил ему. Ты с юных лет
Коварные его отвергнул цепи:
Любил ты моря шум, молчанье синей степи 6
И мрачных гор зубчатые хребты...
И, вкруг твоей могилы неизвестной,
Всё, чем при жизни радовался ты,
Судьба соединила так чудесно:
Немая степь синеет, и венцом
Серебряным Кавказ ее объемлет;
Над морем он, нахмурясь, тихо дремлет,
Как великан, склонившись над щитом,
Рассказам волн кочующих внимая,
А море Черное шумит не умолкая.
5
E dopo di loro in cielo non c’è traccia,
come dell’amore senza speranza di un bambino,
come dei sogni, che mai
affidò alle cure della tenera amicizia…
A che scopo? Che il mondo dimentichi
un’esistenza a lui così estranea:
a che ti servono le corone della sua attenzione
e le spine delle vuote sue calunnie?
Tu non lo servivi. Dai tuoi giovani anni
hai respinto le sue insidiose catene:
amavi il rumore del mare, il silenzio della steppa
turchina -
6
E delle scure montagne i crinali dentellati…
E, intorno alla tua tomba sconosciuta,
tutto quello che nella vita ti rallegrava,
il destino così mirabilmente l’ha riunito:
la steppa muta si tinge di blu, e con una corona
d’argento il Caucaso l’abbraccia;
al di sopra del mare egli, accigliato, tranquillo riposa,
simile a un gigante, reclinato sullo scudo,
mentre ascolta le storie delle onde erranti,
e il Mar Nero ruggisce senza posa.
1839
1839
16
Есть речи - значенье
Темно иль ничтожно,
Но им без волненья
Внимать невозможно.
Michail
Jur’evič
Lermontov
Как полны их звуки
Безумством желанья!
В них слезы разлуки,
В них трепет свиданья.
Не встретит ответа
Средь шума мирского
Из пламя и света
Рожденное слово;
Но в храме, средь боя
И где я ни буду,
Услышав, его я
Узнаю повсюду.
Не кончив молитвы,
На звук тот отвечу
И брошусь из битвы
Ему я навстречу.
1840
17
Ci sono parole - il cui senso
è oscuro o insignificante,
ma senza emozione
è impossibile coglierle.
Com’è pieno il loro suono
della follia del desiderio!
In loro le lacrime della separazione,
in loro il brivido dell’incontro.
Non troverà risposta
nel frastuono del mondo
questa parola nata
dalla fiamma e dalla luce;
ma nel tempio, fra la battaglia
e ovunque io sia,
ascoltandola,
la riconoscerò.
Senza finire la preghiera,
risponderò a quel suono
lascerò la battaglia
per corrergli incontro.
1840
Пленный рыцарь
Michail
Jur’evič
Lermontov
Молча сижу под окошком темницы;
Синее небо отсюда мне видно:
В небе играют всё вольные птицы;
Глядя на них, мне и больно и стыдно.
Нет на устах моих грешной молитвы,
Нету ни песни во славу любезной:
Помню я только старинные битвы,
Меч мой тяжелый да панцирь железный.
В каменный панцирь я ныне закован,
Каменный шлем мою голову давит,
Щит мой от стрел и меча заколдован,
Конь мой бежит, и никто им не правит.
Быстрое время - мой конь неизменный,
Шлема забрало - решетка бойницы,
Каменный панцирь - высокие стены,
Щит мой - чугунные двери темницы.
Мчись же быстрее, летучее время!
Душно под новой бронею мне стало!
Смерть, как приедем, подержит мне стремя;
Слезу и сдерну с лица я забрало.
18
1840
Il cavaliere prigioniero
Siedo in silenzio sotto la finestrella della prigione;
da qui posso vedere il cielo azzurro:
giocano in cielo liberi gli uccelli;
guardandoli, provo vergogna e pena.
Sulle mie labbra non c’è preghiera di peccatore,
non c’è nessun canto a gloria dell’amata:
ricordo solo le antiche battaglie,
la mia spada pesante e la corazza di ferro.
In una corazza di pietra sono ora incatenato,
un elmo di pietra preme la mia testa,
da frecce e spada il mio scudo è incantato,
il mio cavallo corre, e nessuno lo governa.
Il rapido tempo è il mio fedele cavallo,
la visiera dell’elmo è la grata della feritoia,
la corazza di pietra sono le alte mura,
il mio scudo sono le porte in ferro della prigione.
Corri più veloce, alato tempo!
Soffoco sotto la nuova corazza!
La morte, appena arriveremo, mi terrà la staffa;
smonterò e strapperò dal volto la visiera.
1840
Договор
Michail
Jur’evič
Lermontov
Пускай толпа клеймит презреньем
Наш неразгаданный союз,
Пускай людским предубежденьем
Ты лишена семейных уз.
Но перед идолами света
Не гну колени я мои;
Как ты, не знаю в нем предмета
Ни сильной злобы, ни любви.
Как ты, кружусь в веселье шумном,
Не отличая никого:
Делюся с умным и безумным,
Живу для сердца своего.
Земного счастья мы не ценим,
Людей привыкли мы ценить:
Себе мы оба не изменим,
А нам не могут изменить.
В толпе друг друга мы узнали;
Сошлись и разойдемся вновь.
Была без радости любовь,
Разлука будет без печали.
19
1841
Il patto
Lascia che la folla bolli con disprezzo
la nostra enigmatica unione,
lascia che l’umano preconcetto
ti privi dei legami familiari.
Però davanti agli idoli del mondo
non piego le mie ginocchia;
come te non conosco in esso oggetto
né di forte rancore, né d’amore.
Volteggio come te nella baldoria,
non distinguendo alcuno:
mi divido tra folli e intelligenti,
vivo per il mio cuore.
Gioie terrene noi non apprezziamo,
gli uomini siamo avvezzi a valutare:
entrambi noi non ci tradiremo,
e a noi non possono tradirci.
Nella folla ci siamo conosciuti;
ci unimmo e di nuovo ci disperderemo.
L’amore non ebbe gioie,
il distacco non avrà tristezza.
1841
Сон
Michail
Jur’evič
Lermontov
В полдневный жар в долине Дагестана
С свинцом в груди лежал недвижим я;
Глубокая еще дымилась рана;
По капле кровь точилася моя.
Лежал один я на песке долины;
Уступы скал теснилися кругом,
И солнце жгло их желтые вершины
И жгло меня - но спал я мертвым сном.
И снился мне сияющий огнями
Вечерний пир, в родимой стороне.
Меж юных жен, увенчанных цветами,
Шел разговор веселый обо мне.
Но в разговор веселый не вступая,
Сидела там задумчиво одна,
И в грустный сон душа ее младая
Бог знает чем была погружена;
И снилась ей долина Дагестана;
Знакомый труп лежал в долине той;
В его груди дымясь чернела рана,
И кровь лилась хладеющей струей.
20
1841
Il sogno
Nella calura di mezzogiorno in una valle del Daghestan
col piombo nel petto giacevo immoto;
la profonda ferita fumava ancora;
goccia a goccia colava il sangue mio.
Giacevo solo sulla sabbia della valle;
dirupi rocciosi s’accalcavano intorno,
e il sole bruciava le loro cime gialle
e bruciava me - ma io dormivo d’un sonno esanime.
E sognavo splendente di luci
un convito serale, nel paese natale.
Tra le giovani spose, incoronate di fiori,
si teneva un gaio discorso su di me.
Ma estranea al gaio discorso,
una sedeva là soprappensiero,
e in un triste sogno la sua anima giovane
era immersa dio solo sa perché;
e una valle del Daghestan sognava;
un cadavere familiare giaceva in quella valle;
sul suo petto fumava una nera ferita,
e il sangue colava in un gelido rivolo.
1841
Оправдание
Michail
Jur’evič
Lermontov
Когда одни воспоминанья
О заблуждениях страстей,
На место славного названья,
Твой друг оставит меж людей, И будет спать в земле безгласно
То сердце, где кипела кровь,
Где так безумно, так напрасно
С враждой боролася любовь, Когда пред общим приговором
Ты смолкнешь, голову склоня,
И будет для тебя позором
Любовь безгрешная твоя, -
Того, кто страстью и пороком
Затмил твои младые дни,
Молю: язвительным упреком
Ты в оный час не помяни.
Но пред судом толпы лукавой
Скажи, что судит нас иной
И что прощать святое право
Страданьем куплено тобой.
21
1841
Giustificazione
Quando solo i ricordi
degli errori delle passioni,
al posto di un nome glorioso,
il tuo amico lascerà tra le genti, -
e dormirà muto nella terra
quel cuore, dove il sangue bolliva,
dove così follemente e così vanamente
l’amore lottava contro il rancore, quando davanti alla sentenza comune
tu tacerai, chinando il capo,
e sarà per te una vergogna
il tuo amore senza peccato, di colui che con la passione e il vizio
ha offuscato i tuoi giovani giorni,
imploro: con velenoso rimprovero
tu in quel momento non lo ricordare.
Ma davanti al tribunale della folla maligna
di’ che un altro ci giudica
e che il diritto sacro di perdonare
l’hai acquistato con la sofferenza.
1841
1
Выхожу один я на дорогу;
Сквозь туман кремнистый путь блестит;
Ночь тиха. Пустыня внемлет богу,
И звезда с звездою говорит.
Michail
Jur’evič
Lermontov
2
В небесах торжественно и чудно!
Спит земля в сиянье голубом...
Что же мне так больно и так трудно?
Жду ль чего? жалею ли о чем?
3
Уж не жду от жизни ничего я,
И не жаль мне прошлого ничуть;
Я ищу свободы и покоя!
Я б хотел забыться и заснуть!
4
Но не тем холодным сном могилы...
Я б желал навеки так заснуть,
Чтоб в груди дремали жизни силы,
Чтоб дыша вздымалась тихо грудь;
22
5
Чтоб всю ночь, весь день мой слух лелея,
Про любовь мне сладкий голос пел,
Надо мной чтоб вечно зеленея
Темный дуб склонялся и шумел.
1841
1
Esco solo sulla strada;
tra la nebbia un sentiero sassoso risplende;
silenziosa è la notte. Il deserto dà ascolto a dio,
e la stella parla con la stella.
2
Prodigiosi e solenni sono i cieli!
Dorme la terra in un fulgore azzurro…
Cos’è che mi fa tanto male e mi è tanto penoso?
Aspetto qualcosa? Rimpiango qualcosa?
3
Non aspetto più niente dalla vita,
e non rimpiango niente del passato;
io cerco la libertà e la pace!
Vorrei dimenticare e addormentarmi!
4
Ma non del freddo sonno della tomba…
Vorrei per sempre addormentarmi in modo,
che le forze della vita nel petto sonnecchiassero,
che respirando il petto si levasse piano;
5
che notte e giorno, cullandomi le orecchie,
mi cantasse d’amore una dolce voce,
che su di me eternamente verde
si chinasse frusciando una bruna quercia.
1841
Michail
Jur’evič
Lermontov
23
Морская царевна
La principessa del mare
В море царевич купает коня;
Слышит: «Царевич! взгляни на меня!»
Nel mar lo zarevič bagna il cavallo;
sente: «Zarevič! Da’ un’occhiata qua!»
Фыркает конь и ушами прядет,
Брызжет и плещет и дале плывет.
Sbuffa il cavallo e le orecchie raddrizza,
schizza e spruzza e avanza nuotando.
Слышит царевич: «Я царская дочь!
Хочешь провесть ты с царевною ночь?»
Lo zarevič sente: «Son figlia di re!
Vuoi tu passare la notte con me?»
Вот показалась рука из воды,
Ловит за кисти шелко́вой узды.
Ecco apparire una mano dall’acqua,
per le nappe le briglie di seta vuol prendere.
Вышла младая потом голова;
В косу вплелася морская трава.
È poi uscita una giovane testa;
con erba di mare è ordita la treccia.
Синие очи любовью горят;
Брызги на шее, как жемчуг, дрожат.
Gli occhi blu sono accesi d’amore;
le goccioline sul collo, come perle, tremano.
Мыслит царевич: «Добро же! постой!»
За косу ловко схватил он рукой.
Lo zarevič pensa: «Va bene! Aspetta!»
Per la treccia abilmente l’afferrò con la mano.
Держит, рука боевая сильна:
Плачет и молит и бьется она.
Regge, è forte la mano da battaglia:
supplica lei e piange e si dibatte.
К берегу витязь отважно плывет;
Выплыл; товарищей громко зовет.
Verso riva l’eroe coraggioso nuota;
esce dall’acqua, e i compagni chiama a voce alta.
«Эй вы! сходитесь, лихие друзья!
Гляньте, как бьется добыча моя...
«Ehi voi! bravi amici, avvicinatevi!
Guardate come lotta la mia preda…
Что ж вы стоите смущенной толпой?
Али красы не видали такой?»
Perché ve ne state lì in folla confusa?
O mai vedeste una tale beltà?»
Michail
Jur’evič
Lermontov
24
Xxx
Вот оглянулся царевич назад:
Ахнул! померк торжествующий взгляд.
Si voltò lo zarevič e indietro guardò:
Sussultò! Si offuscò lo sguardo trionfante.
Видит: лежит на песке золотом
Чудо морское с зеленым хвостом;
Vide: giaceva sulla sabbia d’oro
del mare un prodigio con la coda verde;
Хвост чешуею змеиной покрыт,
Весь замирая, свиваясь дрожит;
coda coperta da squame di serpe,
trema tutta torcendosi e spegnendosi;
Пена струями сбегает с чела,
Очи одела смертельная мгла.
la schiuma scende dalla fronte in rivoli,
una nebbia mortale riveste gli occhi.
Бледные руки хватают песок;
Шепчут уста непонятный упрек...
Le mani smorte afferrano la sabbia;
le labbra sussurrano un oscuro rimprovero…
Едет царевич задумчиво прочь.
Будет он помнить про царскую дочь!
Lo zarevič si allontana pensieroso.
Non scorderà la figlia del re!
1841
1841
Da 1830 - 1836
Michail
Jur’evič
Lermontov
25
Ангел
L’Angelo
По небу полуночи ангел летел
И тихую песню он пел;
И месяц, и звезды, и тучи толпой
Внимали той песне святой.
Per il cielo di mezzanotte un angelo volava
e un sommesso canto cantava;
e la luna, e le stelle, e le nuvole in folla
ascoltavano attente quel santo canto.
Он пел о блаженстве безгрешных духов
Под кущами райских садов;
О боге великом он пел, и хвала
Его непритворна была.
Cantava della beatitudine degli spiriti senza peccato
sotto le fronde dei giardini del paradiso;
di dio grande cantava, e la lode
sua era sincera.
Он душу младую в объятиях нес
Для мира печали и слез,
И звук его песни в душе молодой
Остался - без слов, но живой.
Un’anima giovane in braccio portava
per il mondo della tristezza e delle lacrime,
e il suono del suo canto nella giovane anima
rimase - senza parole, ma vivo.
И долго на свете томилась она,
Желанием чудным полна;
И звуков небес заменить не могли
Ей скучные песни земли.
E a lungo nel mondo ella languì,
piena di un meraviglioso desiderio;
e non poterono i tristi canti della terra
sostituire per lei i suoni dei cieli.
1831
1831
«Нет, я не Байрон, я другой...»
Michail
Jur’evič
Lermontov
Нет, я не Байрон, я другой,
Еще неведомый избранник,
Как он гонимый миром странник,
Но только с русскою душой.
Я раньше начал, кончу ране,
Мой ум не много совершит;
В душе моей, как в океане,
Надежд разбитых груз лежит.
Кто может, океан угрюмый,
Твои изведать тайны? кто
Толпе мои расскажет думы?
Я - или бог - или никто!
1832
26
«No, non sono Byron, io sono un altro…»
No, non sono Byron, io sono un altro,
un eletto ancora sconosciuto,
come lui pellegrino perseguitato dal mondo,
eppure con un’anima russa.
Ho iniziato prima, finirò prima,
non concluderà molto la mia mente;
nella mia anima, come in un oceano,
delle speranze infrante il peso giace.
Chi può, oceano cupo,
conoscere i tuoi segreti? Chi
narrerà alla folla i miei pensieri?
Io - oppure dio - oppure nessuno!
1832
Еврейская мелодия: (Из Байрона)
Michail
Jur’evič
Lermontov
Душа моя мрачна. Скорей, певец, скорей!
Вот арфа золотая:
Пускай персты твои, промчавшися по ней,
Пробудят в струнах звуки рая.
И если не навек надежды рок унес,
Они в груди моей проснутся,
И если есть в очах застывших капля слез Они растают и прольются.
Пусть будет песнь твоя дика. Как мой венец,
Мне тягостны веселья звуки!
Я говорю тебе: я слез хочу, певец,
Иль разорвется грудь от муки.
Страданьями была упитана она,
Томилась долго и безмолвно;
И грозный час настал - теперь она полна,
Как кубок смерти, яда полный.
1836
27
Melodia ebraica. (Da Byron)
La mia anima è cupa. Presto, cantore, presto!
Ecco l’arpa d’oro:
lascia che le tue dita, sfreccianti su di essa,
risveglino nelle corde i suoni del paradiso.
E se la cattiva sorte non ha portato via per sempre
le speranze,
si risveglieranno nel mio petto,
e se c’è negli occhi una goccia di lacrime rapprese si scioglieranno e traboccheranno.
Che la tua canzone sia selvaggia. Come la mia corona,
mi sono penosi i suoni dell’allegria!
Io ti dico: voglio delle lacrime, cantore,
o esploderà il petto dalla pena.
Dalle sofferenze era ben nutrita,
languiva a lungo e in silenzio;
e l’ora terribile è arrivata - adesso è piena,
come il calice della morte, pieno di veleno.
1836
Dalle Note ai testi
Michail
Jur’evič
Lermontov
[…]
p. 71 - Meditazione (Duma)
Pubblicata per la prima volta all’inizio di gennaio del 1839 nel primo numero della nuova serie di «Memorie patrie» la rivista
diretta da Andréj Aleksándrovič Kraévskij. Kraévskij fu l’unico letterato con cui Lérmontov, che come Pú­škin non voleva essere
considerato un uomo di lettere, strinse una solida amicizia. Lérmontov e Púškin erano degli aristocratici, e come tali respingevano,
reputandola limitativa e offensiva, la qualifica di letterato, che poteva recare ombra alla loro qualità di gentiluomini.
I versi
davanti al pericolo ignobilmente vili,
e davanti al potere spregevoli schiavi
non furono pubblicati. I censori non li lasciarono passare.
Scrive al riguardo David Powelstock (op. cit., pp. 228-229; traduzione mia):
28
L’accusa più diretta di Lermontov arriva nei versi censurati 11 e 12. “Ignobilmente vili” (pozorno-malodušny) “schiavi” mancano proprio di
quelle qualità eroiche che Lermontov valutava più di tutto: dignità, libertà, coraggio, e integrità. Eppure, suggerisce Lermontov, queste qualità
sono necessarie più che mai in questa età di “pericolo” e schiavitù. Infatti, egli allude con circospezione all’atmosfera post-decabrista di paura e
repressione con il riferimento agli “errori dei nostri padri” e con la scelta del titolo: “Duma”. Mentre il significato russo comune di questa parola è
qualcosa di simile a “meditazione”, essa è anche il nome di un genere letterario patriottico sviluppato da Kondratij Ryleev, uno dei cinque
decabristi messi a morte nel 1826.
In origine una forma orale dei Cosacchi dell’Ucraina, la duma fu trasformata dai democratici polacchi in un veicolo scritto per esprimere temi
patriottici attraverso un contenuto storico. (Ryleev era di certo consapevole del significato polacco comune della parola, “orgoglio”. Lo era
Lermontov?) Ryleev la adattò da quest’ultima fonte, facendone un genere misto odico-elegiaco, che insieme lodava gli eroi storici russi come
martiri per la patria e codificava ideali politici d’opposizione.
La presa in prestito del termine da parte di Lermontov riflette il suo appassionato senso di missione, ma inquadra anche un implicito confronto
tra la generazione decabrista e la sua che corre attraverso la poesia. Un particolare aspetto del suo confronto evoca sottilmente il milieu sociale e
politico post-decabrista opponendo la sua “oscurità” (il suo “buio” futuro, la “noia”, l’”indifferenza”, l’”orfanezza”, il “disseccamento”, la
“sterilità”, l’”incredulità”, ecc.) alla “infantile” innocenza del mondo pre-decabrista (“sontuosi svaghi”, “coscienziosi”).
Meditazione è una delle poesie più importanti della lirica civile di Lérmontov. In essa il poeta riassume i timori che lo agitavano
fin dalla giovinezza sul destino di una generazione che aveva perso i tratti eroici, abbandonato l’attività politica e smarrito gli alti
ideali morali. Nella stessa formulazione di questi problemi, così come nell’immagine della società tratteggiata da Lérmontov, si
riflettono le caratteristiche della Russia alla fine degli anni ‘30, l’epoca reazionaria di Nicola I.
Liriche come Monologo (Monolog, 1829); La coppa della vita (Čaša žizni, 1831); «Era nato per la felicità, per la speranza…» («On byl
rožden dlja sčast’ja, dlja nadežd…», 1832); Borodino e altre contengono già idee e temi che confluiranno in Meditazione per trovare il
loro definitivo sviluppo in Un eroe del nostro tempo.
Vissarión Belínskij, nella sua recensione alle Poesie di Lérmontov, esaltò i meriti artistici e il contenuto ideologico della lirica:
«Questi versi sono scritti con il sangue. Sono venuti dalle profondità dello spirito offeso: questo è il grido, questo è il lamento di un
uomo per il quale la mancanza di vita interiore è un male mille volte più terribile della morte fisica».
E il nostro Wolf Giusti scrive (op. cit., pp. 288-289):
Michail
Jur’evič
Lermontov
Dalle
Note ai testi
Lermontov […] non aveva partecipato ai «circoli» degli anni trenta, nei quali si discuteva di filosofia e, in senso largo, di «felicità umana». Le
sue proteste recavano l’impronta individuale, non erano suggerite insomma da un gruppo o da un’ideologia. Gli uomini della sua generazione
che egli tristemente osservava nella sua famosa Duma (Meditazione, 1838) erano i giovani del suo ambiente, della bande joyeuse. Pur muovendosi
ancora fuori delle «ideologie», Lermontov si mostrava capace di un’acuta analisi di un’epoca e di un determinato ambiente sociale. Egli non
attribuiva ai «padri», alle generazioni passate (secondo il metodo di una comoda evasione dalle responsabilità), le debolezze, le incertezze,
l’incapacità al sacrificio che sentiva in sé e nel mondo in mezzo a cui viveva. La gioventù «decabrista» apparteneva ormai al passato: un gruppo
era stato condannato a morte; molti si trovavano in esilio; i meno compromessi, i meno forti d’animo, si ricordavano dei discorsi e dei fatti del
tempo passato come di una follia giovanile. Le successive speranze destate dagli avvenimenti del 1830 in Francia avevano causato la grande
fiammata in Polonia, ma si erano limitate in Russia a qualche sogno, a qualche conversazione fatta più o meno a bassa voce. Lermontov sentiva
che un tagliente dubbio condannava la sua generazione all’inattività, che la vita lo aveva precocemente stancato «come una diritta via senza mèta,
/ come un banchetto in una festa di altri» Quei giovani erano, secondo le precise parole del poeta, indifferenti di fronte al bene e al male,
pusillanimi di fronte al pericolo e «spregevoli schiavi» di fronte alle autorità (Lermontov aveva sperimentato direttamente che questa era la
situazione di fatto). Nascondendo, per un falso senso di vergogna, le speranze migliori e gli stimoli più nobili, Lermontov ed i suoi giovani amici
sfioravano la voluttà e la gioia, provando già in partenza l’angoscia della sazietà. Amavano e odiavano secondo fugaci impulsi; un misterioso gelo
irrigidiva il loro cuore, anche quando il sangue ribolliva. Sorridevano delle ingenue baldorie dei loro padri e sentivano di procedere verso una
tomba senza gloria, volgendosi ancora indietro con un beffardo sorriso, consci di non lasciar traccia del loro passaggio attraverso il mondo, di non
tramandare ai posteri un retaggio di pensieri fecondi…
E Iván Turgénev nelle sue Memorie letterarie e di vita (traduzione di Enrico Damiani, pp. 103-111):
29
2
Mi permetta il lettore di riportare […] un brano d’una conferenza su Puškin da me tenuta nel 1859 dinanzi a un pubblico non molto numeroso.
Volendo tratteggiare il carattere dell’epoca degli anni quaranta e cinquanta io dovetti allora parlare della satira di Gògol’, della protesta di
Lermontov e infine del valore della critica di Belinskij. Al solo pronunciar questo nome la maggior parte dei miei uditori fece un movimento di
sorpresa e di disapprovazione.
Ecco il brano (comincio un po’ da lontano, ma ciò è inevitabile):
“E mentre il nostro grande artista (Puškin), rivolgendo il capo dalla massa e accostandosi quanto più era possibile al popolo, meditava le sue
creazioni predilette, mentre attraversavano l’animo suo quelle immagini la cui lettura desta involontariamente in noi l’idea che egli solo possa
darci anche un dramma nazionale e un’epopea nazionale, nella nostra società e nella nostra letteratura si maturavano eventi che, se non furono
grandi, furono tuttavia importanti.
Sotto l’influenza di determinati fatti e di determinate circostanze della vita europea di quel tempo (dal 1830 al 1840), s’era radicata in noi, a
poco a poco, una convinzione indubbiamente giusta, ma piuttosto prematura per allora: la convinzione che noi fossimo non solo un popolo, ma
anche uno Stato grande e pienamente padrone di sé, incrollabilmente solido, e che l’arte e la poesia fossero degni esponenti di questa forza e
grandezza. Di pari passo col diffondersi di questa convinzione e, fors’anche, in dipendenza di essa, si formò un’intera falange di persone,
indubbiamente d’ingegno, ma d’un ingegno generalmente improntato a una retorica ed esteriorità corrispondenti a questa forza grande, ma
puramente esteriore. Costoro si cimentarono nella poesia, nella pittura, nel giornalismo e perfino sul teatro. Essi sono nella memoria di tutti; basta
ricordare semplicemente a chi essi battevano le mani, chi esaltavano in quel tempo, allorché era tornata la calma dopo la morte di Puškin. (1)
Xxx
Michail
Jur’evič
Lermontov
Dalle
Note ai testi
30
2
Quest’invasione nella vita sociale di quella che noi avremmo chiamato una pseudo-grande scuola non durò a lungo, benché il suo
riflesso nelle sfere meno avvezze all’analisi critica che non la sfera veramente letteraria e artistica, non sia ancora scomparso. Non
ebbe lunga durata, ma quanto chiasso, quanto strepito fece! E quanto largo si fece allora questa scuola! Alcuni dei suoi proseliti si
ritennero in buona fede dei veri genî. Tuttavia anche nel momento del suo apparente trionfo si sentiva in essa qualcosa di non vero,
qualcosa di morto; e non ci fu un solo intelletto vivo e originale che avesse supinamente aderito ad essa. La produzione di questa
scuola, tutta pervasa di presunzione, che giungeva fino all’autoincensamento, all’esaltazione fanatica della Russia comunque e ad
ogni costo, non aveva nella sua storia niente di russo: c’erano delle immense decorazioni, istituite in fretta e furia e alla carlona da
patrioti che non conoscevano la loro patria. E c’era stata tutta una grande gonfiatura di gente presuntuosa, che si considerava
degno lustro d’un grande Stato e d’un grande popolo. Pertanto il momento della caduta s’avvicinava, ma non furono certo le
ultime opere, altamente artistiche, di Puškin la causa di questa caduta. Anche se esse fossero state pubblicate durante la sua vita,
dubitiamo che il pubblico, stordito e fuorviato, avrebbe saputo allora giustamente apprezzarle. Esse non potevano servire a fini
polemici, esse potevano riportare ed hanno effettivamente riportato la vittoria per la loro intrinseca bellezza, nella
contrapposizione di questa loro bellezza e forza con la deformità e debolezza di quel pseudo-grande fantasma. Ma sulle prime, per
mettere in evidenza tutta la vacuità di questo fantasma, erano necessarie altre armi, altre forze più radicali, le forze del lirismo
byroniano, che s’era già manifestato da noi una volta, ma superficialmente e senza serietà, le forze della critica, dell’umorismo.
Queste forze non tardarono a palesarsi. Nel campo artistico apparve Gògol’ e, con lui, Lèrmontov; nel campo della critica e del
pensiero, Bĕlinskij.
[…] Nella precedente conferenza ho parlato dell’importanza che il futuro storico della nostra letteratura darà all’apparizione di
Puškin; ma richiamerà senza dubbio […] anche il momento in cui dinanzi ai gonfiati e agli autogonfiatori, a quella specie di grandi
personaggi ufficiali, son comparsi da una parte, l’ufficiale degli Ussari, il leone mondano, dalle cui labbra la società ha udito il
monito inesorabile, fino allora sconosciuto, e l’oscuro maestro piccolo-russo (2) con la spietata commedia che aveva per motto:
«Non prendertela con lo specchio se hai una faccia torva!» e, d’altra parte, quello studente parimenti oscuro ed incolto che aveva
osato proclamare che noi non abbiamo ancora una letteratura, che Lomonòsov non era un poeta, che non soltanto Heràskov e
Petròv, ma neppure Deržavin e Dmìtriev non potevano essere presi come modelli, che anche i più nuovi fra i grandi uomini non
avevano fatto nulla. Sotto gli sforzi riuniti di questi tre operatori, che sì e no si conoscevano fra loro, non solo andò a carte
quarantanove quella scuola letteraria che noi abbiamo chiamato pseudo-grande, ma furono demolite anche molte altre cose
antiquate e indigene. La vittoria fu presto decisa.
In quel medesimo tempo era scemata e impallidita l’influenza dello stesso Puškin, di quel Puškin il cui nome era così caro anche
agli innovatori e ne «era stato circondato da tanto amore». L’ideale che essi perseguivano - coscientemente o incoscientemente
(Gògol’ , com’è noto, l’aveva fino all’ultimo negato) - quest’ideale non poteva coesistere, e ciò a suo proprio danno, con l’ideale di
Puškin. La forza delle cose era più forte di qualsiasi forza isolata, personale; così come la tendenza generale è in noi più forte delle
tendenze personali. Il tempo della pura poesia è passato, come il tempo delle false grandi frasi; e s’è iniziata l’epoca della critica,
della polemica, della satira. […]
La società, scossa dall’improvvisa coscienza dei propri difetti, presentendo altre delusioni future anche più amare […], tese
avidamente l’orecchio alle nuove voci e accolse soltanto ciò che rispondeva alle sue nuove esigenze. Il «Torquato Tasso» di
Kukòl’nik e la «Mano dell’Onnipossente» (3) si dileguarono come bolle di sapone; ma non è possibile amare nello stesso tempo «Il
cavaliere di bronzo» (4) e «Il mantello». (5)
La forza di una personalità indipendente, critica, si ribellò contro la falsità, contro la volgarità - e fino a qual grado della vita sociale
non imperava allora la volgarità? - contro quel menzognero ordine comune, ingiustamente legittimato”.
(1) Nota di Turgénev: «Questi nomi che io allora non volli dire, vengono ora verosimilmente sulle labbra di qualsiasi lettore:
Marlinskij, Kukòl’nik, Zagòskin, Benedìktov, Brjullov, Karatygin, ed altri». La prima edizione completa delle Memorie letterarie e di
vita, curata dallo stesso Turgénev, fu pubblicata nel 1880. Nel 1869 e nel 1874 erano però apparse edizioni parziali di alcune delle
xxxxxxxxxx
Memorie, sempre a cura dell’autore.
(2) Gógol’.
(3) La mano dell’Onnipotente ha salvato la patria, dramma dello stesso Kukól’nik.
(4) Famoso poema di Púškin.
(5) Famoso racconto di Gógol’.
Michail
Jur’evič
Lermontov
Dalle
Note ai testi
31
A proposito dell’effetto provocato nelle classi alte da Meditazione, il «monito inesorabile, fino allora sconosciuto», lo stesso
Turgénev scrive in una nota (op. cit., p. 107, nota 2):
Mi sia permesso di riferire le parole d’una gran dama del tempo, che si rivolse a me con questa esclamazione: «Avez vous lu la
Douma? Qui pouvait s’attendre à cela de la parte de Lermontoff! Lui qui venait de dire: Ja, Mater’ Božija, nyne s molitvoju. C’est
affreux!».
(«Avete letto la Duma? Chi poteva aspettarselo da parte di Lermontov! Lui che aveva appena detto: Io, Madre di Dio, ora con una
preghiera. È spaventoso!». Quello citato è il verso iniziale della poesia Molitva, Preghiera, del 1837).
Turgénev pose il verso I nenavidim my, i ljubim my slučajno… (E detestiamo, e amiamo casualmente…) come epigrafe al suo poema
Paraša (1843).
Lérmontov inserì la lirica nella sua raccolta del 1840.
Meditazione è stata tradotta anche da Tommaso Landolfi:
Io con tristezza guardo la mia generazione!
Il suo futuro è vuoto oppure oscuro;
Sotto il fardello intanto di conoscenza e dubbio,
Si farà vecchia nell’inerzia.
Siam ricchi, appena usciamo dalla culla,
Degli errori dei padri, del loro tardo senno,
E la vita ci opprime già come strada eguale,
Senza meta, o banchetto a una festa d’altrui.
Ontosamente al bene e al male indifferenti,
Sul primo della giostra cediamo senza lotta,
Ignominiosamente vili innanzi al periglio
E davanti al potere abbietti schiavi.
Così il frutto anzi tempo maturato,
Senza allegrarci il gusto né gli occhi, in mezzo ai fiori
Pende straniero e solo, ed una è l’ora
Della loro bellezza e della sua caduta.
Con infeconda scienza ci inaridimmo il cuore,
Nascondendo gelosi ai prossimi e agli amici
Le migliori speranze e la nobile voce
Delle passioni, cui l’incredulo deride.
Sfiorato appena abbiamo la coppa del piacere,
Ma le giovani forze non per ciò conservato;
La sazietà temendo, da ogni gioia
Per sempre il miglior succo abbiamo tratto.
Sogni di poesia, creazioni dell’arte
Con dolce estasi a noi non agitan la mente;
Cupidi in noi serbiamo un resto di sentire Inutile tesoro dall’avaro interrato.
E odiamo casualmente e casualmente amiamo,
Nulla sacrificando né all’odio né all’amore,
E ci regna nell’anima un tal segreto gelo
Seppure fuoco bolla nelle vene.
Ci tediano dei padri i fastosi diletti,
Il lor libertinaggio coscienzioso, infantile;
E senza gioia e gloria ci affrettiamo alla tomba
Beffardamente riguardando indietro.
Malinconica turba presto dimenticata,
Passeremo sul mondo senza rumore e traccia,
Senza gettare ai secoli né il pensiero fecondo
Né l’opera dal genio cominciata. Ed il nostro
Cenere, qual severo giudice e cittadino,
Oltraggerà i futuri come sprezzante verso,
Come lo scherno amaro del figliuolo ingannato
Sul padre suo scialacquatore.
La lirica si può ascoltare all’indirizzo:
http://www.staroeradio.ru/audio/22568
[...]
Roberto Michilli
È nato a Campli nel 1949. Risiede a Teramo.
Ha pubblicato alcune raccolte di poesie, i romanzi Desideri (2005), Fate il vostro gioco (2008), La più bella del
reame (2011), Il sogno di ogni uomo (2013) e il libro intervista La chiarezza enigmatica. Conversazione su Giuseppe
Pontiggia (con Simone Gambacorta, 2009).
Quaranta poesie di Michail Jur’evič Lermontov (2014), il libro da lui interamente curato e presentato nelle
pagine appena precedenti a questa, ha ottenuto, nel dicembre dello scorso anno, una menzione speciale in
occasione del prestigioso Premio Internazionale di letteratura “Russia - Italia attraverso i secoli”.
Oltre che dal russo, ha tradotto poesia anche dal francese e dall’inglese (Mallarmé, Keats ed altri).
Dal 2007 cura la rassegna internazionale “Perché i poeti…”, inserita nell’ambito del progetto culturale
“Teramo città aperta al mondo”.
Questo è il suo blog:
https://larmegliamori.wordpress.com/tag/roberto-michilli/
32
http://www.alfabeta2.it/
voci
http://www.nuoviargomenti.net/
Mare interno
Mare interno
è il nome della rubrica che prende il via, nelle pagine che seguono,
con questa sedicesima apparizione di “Arcipelago itaca” blo-mag e che è e sarà dedicata alternandosi nei vari numeri con le diverse altre rubriche ai volumi di poesia che in qualche modo incroceranno la via di questo progetto
e che sono e saranno ritenuti come meritevoli di attenzione.
I libri di poesia di cui appena sopra, in gruppi di quattro o cinque,
verranno sinteticamente recensiti e verrà contestualmente offerto ai lettori
un “concentrato” del lavoro in versi tratto da questi stessi libri.
Mare interno
Mare interno
Francesco
Accattoli
Davide
Argnani
Mariella
De Santis
Dorinda
Di
Prossimo
33
Quattro poeti (sulle recenti opere in versi di Francesco Accattoli, Davide Argnani,
Mariella De Santis e Dorinda Di Prossimo).
Di Danilo Mandolini
Le diciannove liriche che compongono Lunga un anno di Francesco Accattoli rappresentano, ne siamo certi,
una tappa precisa nel ricco percorso di ricerca in versi ormai da anni intrapreso da questo autore mio
concittadino. È indubbiamente un libro di passaggio, questo di cui qui si scrive, un libro che viene da
esperienze di scrittura già definite e che va verso pronunce forse ancora da scoprire o addirittura da
cercare. Nel suo essere soprattutto “lavoro di transito”, però, e nonostante la sua oggettiva brevità, Lunga
un anno è comunque un lavoro compiuto e la compiutezza di quest’opera deriva inequivocabilmente dalla
storia che la stessa racconta. La fine di un amore - una fine che sembra svolgersi, appunto, nell’arco esatto di
un anno solare - è chiaramente “materia” precisa; ma questa materia, questo tema, diremmo forse meglio, è
abilmente reso dal poeta nella vastità dei “significati” che lo stesso porta con sé e che i versi alti dell’autore
contribuiscono a rendere fruibili molto al di là di quella che potremmo definire come la condivisione di
un’esperienza di vita comune ai più. I significati di cui appena sopra - bene lo afferma e lo evidenzia
Tommaso Di Dio nella sua Nota introduttiva al volume - altro non sono che i sentimenti riconducibili al quasi
necessario, e altresì spesso quotidiano, oscillare umano tra la gioia ed il dolore, al dolore che diventa lutto e
al lutto che diviene “il là” per un nuovo, ed altrettanto necessario, cammino di ricerca interiore di sé. E il
linguaggio dei versi di Lunga un anno, nonché il tono tutto di questi (in inglese parleremmo di “mood”),
pare accordarsi perfettamente con il soggetto protagonista della storia narrata, con questo nuovo cammino
di ricerca interiore che resta aperto e che probabilmente ci porterà proprio verso i nuovi approdi della
poesia di Accattoli. A proposito del linguaggio che il poeta usa in questa sua più recente silloge (Di Dio
parla giustamente di «apertura linguistica» come «sinonimo di ascolto di ogni evento»), non si può non
esaltare il culmine rappresentato dai quattro testi composti nel dialetto di Osimo Stazione e che così vicini
sono a chi scrive queste righe.
Chi conosce anche solo un po’ l’opera di Davide Argnani non può non sapere quanto la sua pronuncia in
versi sia stata e sia contraddistinta da un fervore civile di altissima levatura. Il riferimento immediato, in
relazione a quanto testé rilevato, è al multilingue e, diremmo anche, “multimediale” Stari Most
Francesco
Accattoli
Davide
Argnani
Mariella
De Santis
Dorinda
Di
Prossimo
34
(Campanotto, Udine, 1998) che ormai più di quindici anni fa impose Argnani alle cronache della letteratura
nostrana. Quello appena citato è solo il più recente e forse il più noto esempio pubblicato in volume e
riguardante la caratteristica vena civile della poesia del nostro. Il profilo di un autore impegnato come forse
non siamo più abituati a vedere da tempo, si completa infatti soltanto attraverso l’evidenziazione
dell’eclettismo che è tipico degli interessi di Argnani; interessi che spaziano dalla critica (si è occupato, tra
gli altri argomenti ed avvalendosi di collaborazioni illustri, di poesia operaia e dialettale romagnola) alla
pratica della poesia visiva e alla direzione ultra ventennale della rivista “L’Ortica”.
Alla luce di quanto fin qui argomentato non stupisca quindi se, a distanza di molti anni dal suo ultimo
lavoro, il poeta romagnolo oggetto di questa sintetica dissertazione si offra oggi ai suoi vecchi e nuovi
lettori con una raccolta di versi, Musa fitta nell’azzurro, incentrata su uno dei più classici dei soggetti
trattati dalla poesia: l’amore. Annota correttamente Silvia Cecchi, nella postfazione alla suddetta silloge,
come «Diversamente dalla pensata scrittura dell’impegno, da sempre adottata, il poeta sceglie qui una
scrittura di getto, abbandonandosi al proprio talento naturale, istintivo…». Ed il lettore non potrà altresì
non annotare come gli approdi ai quali i versi di Argnani giungono nel contesto di questa nuova prova
siano quelli che avvicinano il mondo femminile alla natura, che ricreano e celebrano i binomi “donnamusa” e “ricordo-viaggio” e che esaltano il tema dell’assenza/mancanza. Non siano, però, visti o percepiti
come esclusivamente classici (o, peggio, come vetero-classici o anacronistici) i rimandi appena menzionati.
Questi rappresentano altro! L’estrema apertura e forza del linguaggio che l’autore conia per Musa fitta
nell’azzurro, nonché il nutrito e fertilissimo “campionario” delle visioni offerte, sono invero tali da
trasformare la fruizione di quest’opera in un’esperienza totale e totalizzante; un’esperienza nella quale ad
essere al centro di tutto è l’amore come testimonianza di vita vera e vissuta.
Se al titolo di una qualsiasi opera si vuole affidare il compito di indicare il campo d’interesse di questa, di
suggerirne in qualche modo il contenuto, occorre dire che nell’ultima silloge di Mariella De Santis, La
cordialità, il titolo dato svolge davvero completamente la sua peculiare funzione.
Il “campo d’azione” di questo volume di versi, pur nelle sue molteplici «direzioni di ricerca» - come le
chiama Biagio Cepollaro nella lettera aperta all’autrice posta a prefazione del libro -, ruota effettivamente,
espandendolo quasi a dismisura, tutt’attorno al “motivo” della cordialità. Cordialità è, di fatto, la cura - che
il poeta manifesta attraverso il racconto in versi dei minimi gesti propri e non solo - del tempo da dedicare,
in un’epoca che pretende tempo quasi solo per produrre effetti oltre modo tangibili, a ciò che ai più può
apparire come improduttivo (un esempio su tutti: la premura di salutarsi sempre). Cordialità, poi, è anche
dire, tacendola al contempo e per questo rendendola ancora più “drammatica”, la consapevolezza del finire
umano che è comunque, inesorabilmente, nel congetturare di tutti. Cordialità è, ancora, sfiorare gli oggetti
che determinano la quotidianità; toccare questi «in un certo modo femminile», annota Cepollaro; di più:
donare a questi la dignità di uno sguardo che fissa e trattiene anche solo per un istante. Cordialità è, infine,
Francesco
Accattoli
Davide
Argnani
Mariella
De Santis
Dorinda
Di
Prossimo
35
la poesia stessa che si offre sussurrata al mondo che grida intorno, che si fa pronuncia anche sottile e a volte
breve per dire il silenzio e l’invisibile, che si fa mezzo sotteso e necessario per l’incontro - gentilmente
cercato, diremmo nel caso della De Santis - con l’altrui sentire. E ne La cordialità l’incontro con l’altro
avviene, oltre che attraverso l’usuale fruizione dei versi da parte del lettore, proprio nei versi; meglio: nella
progettualità di liriche che probabilmente nascono dal confronto attivo con altri autori. Il riferimento, qui, è
all’originale intuizione di inserire nella raccolta anche un testo scritto/riscritto a due mani, come
dialogando, con il poeta Rossano Onano e l’ultima sezione, Nel tradurre, in cui Anthony Robbins offre,
introducendola brevemente, un’inedita traduzione in inglese di una sua scelta di poesie da questo stesso e
recente lavoro di Mariella De Santis.
Quaderno millimetrato di Dorinda Di Prossimo è come una piccola pietra preziosa che chiunque
conserverebbe al riparo dal tempo che consuma e da quegli sguardi che a volte si percepiscono come
troppo invadenti. Il parallelo appena utilizzato è innanzitutto tale perché gli “accenti” che fanno la
pronuncia dell’autrice in questione paiono davvero essere poco consueti. Colpisce, infatti, di questa
scrittura così incalzante, così dotata di una punteggiatura fitta e “irregolare” e contraddistinta da un verso
compattamente tendente al lungo (o anche al prolungato) la straordinaria aderenza con il pensare umano in
solitudine, con quel “rimuginare” tra sé e sé che non siamo avvezzi a vedere rappresentato nella poesia
contemporanea. In particolare, di questa esclusiva “tonalità” testé sottolineata sorprende la vicinanza con
quel riflettere affollato tipico del dormiveglia, dell’attimo prima, cioè, inesplicabilmente unito all’attimo
dopo il risveglio. È in questa misteriosa fessura del tempo, in questa dolce sospensione tra la dimensione
del sogno e quella del reale che i pensieri, i ricordi e tante altre piccole cose (oggetti ed eventi vicini e
lontani) ci arrivano mescolati in una litania come liturgica (intensa e ricorrente è, tra l’altro, nella poesia di
Quaderno millimetrato, proprio la reminescenza delle preghiere ormai distanti negli anni). È proprio in
questo specifico frangente che certe visioni del nostro passato di bambini ci sovvengono e hanno su di noi il
sopravvento; è proprio in questo minimo tempo (o spazio) che spesso riusciamo a sentire il sapore nascosto
dei nostri affetti.
Quelli qui descritti sono i “millimetri” che Dorinda Di Prossimo ci offre nel suo fecondo quaderno di
appunti. Questi millimetri ci affascinano, ci attraggono, ci tengono come ancorati alla vita pur
allontanandoci dalla realtà più reale del mondo… L’autrice è consapevole di tutto ciò e ci offre questa
“misura” al limite dell’astratto in tutta la fisicità che la stessa ha (Fisicità dei millimetri è il titolo della
postfazione all’opera a cura di Alida Airaghi); una fisicità che viene dall’esperienza consolidata del sentire
profondo.
Francesco Accattoli
Da
Lunga
un anno
La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini ed è tratta da Lunga un anno (illustrazioni
di Linda Carrara, nota introduttiva di Tommaso Di Dio, Sigismundus, Ascoli Piceno, 2013).
***
6. Sei chiusa nell’urna del tuo nome
Sei chiusa nell’urna del tuo nome,
nell’acqua ferma sul labbro della strada
con gli alberi disposti a solitudine.
Da ogni parte arriva un suono lasco,
le navi tornano, come in porto,
la gola del bosco sibila un richiamo.
Racconta un murmure in breve tempo
la corsa del cielo messo a pioggia,
la voce degli argini roca e sui pontili.
Ritorna a quella neve, e assieme ai nostri morti
metteremo gli uni accanto agli altri
gli anelli sciolti da qualcuno di famiglia,
l’odore ingiallito di fiori nuziali.
36
7. Alla fine del molo
Io sul Guadalquivir, sponda destra,
ancora lo ricordo, avevi detto Siviglia tutta ferma nel tramonto,
solo vento, vento d’oro e di cumino,
il passo vivo del fiume, la disperazione,
l’ombra umida del ponte, il palpitare
a parole, un punto esatto e tremendo,
alla fine del molo la disperazione sono fortunata ad averti accanto.
9. Uvaspina
Da
Lunga
un anno
Di
Francesco
Accattoli
37
Sai come ‘l pà che non se sfragne e dura
da ‘n pezzo e non svampisce la posa
dei bagi, de corpi ‘nvuricchiati,
un po’ rosa e un po’ cilesti , de noialtri
bitorzoli ciaccati a trentanni,
quadrucci ‘nt’un brodo sciapo pe’ i dolori
d’esse granni. Mesamianni che mijòra
se ‘n tantì ce piasse da guardacce
‘n faccia e guardavve e po’ chiedece quanto
costarìa pogo misurà sa dò passi pel paese
el tempo che c’è ‘rmasto piccigato ‘nte le spalle,
l’udore dei treni e de le curriére
che manco a schioppettade lo léi da la pelle.
Noialtri semo acini duri d’uvaspina:
la pelle ce sbrillucciga de viola,
la polpa ce profuma e ce martira.
Sei come il pane che non si rompe e dura / da un pezzo e non evapora la posa / dei baci, dei corpi intrecciati, / un po’
rosa e un po’ celesti, di noi / torsoli schiacciati a trentanni, / quadrucci in un brodo insipido per i dolori / d’essere
grandi. Mi sa tanto che migliora / se un po’ volessimo guardarci / in faccia e guardarvi e poi chiederci quanto /
costerebbe poco misurare con due passi per il paese / il tempo che c’è rimasto appiccicato alla pelle, / l’odore dei treni e
delle corriere / che neanche con le fucilate lo togli dalla pelle. / Noi siamo acini duri d’uvaspina: / la buccia ci brilla di
viola, / la polpa ci profuma e ci condanna.
10. Scialìmo / Perdiamo consistenza
Da
Lunga
un anno
Di
Francesco
Accattoli
Vorìa avecce ‘l core come ‘l tua,
sbiadì le facce, scolorìlle
a furia de sfregacce i polpastrelli.
Ce facevane i soldati al fronte,
sa le ‘rsomije de le fidanzate
tra ‘na guardia ‘mbrumbulìda e ‘na corona
de schioppettade. E adè che piòe
pure chì de fronte - stago fermo ‘ncora io,
spetto ‘l gambio, o che te storni -
adè che piòe
e piòe, sa i culori ‘rmasi ‘ntatti - ‘na bugìa
c’ha ditto ‘l monte - guasi scolo
gioppe ‘l muro de confine,
tra lo sfaldo e le betoniére.
Scialìmo. E ‘nte l’umido l’impronta
non se tòje né se smorcia.
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Vorrei avere il cuore come il tuo / sbiadire i volti, scolorirli / a furia di sfregarci i polpastrelli / Ci facevano i soldati al
fronte / con le fotografie delle fidanzate / tra una guardia intirizzita e una corona / di schioppettate. E adesso che piove
/ pure qui davanti - sto fermo anche io, / aspetto il cambio, o che torni indietro - / adesso che piove / e piove, con i colori
rimasti intatti - una bugia / c’ha detto il monte - quasi scolo / giù per il muro di confine / tra l’asfalto e le betoniere. /
Perdiamo consistenza. E nell’umido l’impronta / non si toglie né si spegne.
Da
Lunga
un anno
Di
Francesco
Accattoli
39
13. Come vento e candela
E allora questo
é stato il gesto più normale
lasciarsi come vento e candela
posare altrove la sostanza
delle mosse programmate,
altrove il fiuto per le occasioni
buone, oppure saputo interpretare
per avere ancora tempo, questione di ore.
Ecco, la prece é pronunciata,
si levano i convenuti,
l’odore della cera bruciata rimane,
come il vento che l’ha sciolta, e non sa
per dove uscire. Ecco,
qui s’invocano i perdoni,
a darli non sono i buoni, sono
solo i meno disgraziati.
A questo servono le figure
dipinte alle pareti, a loro
chiediamo di recitare la parte
che manca, la muta delle foglie
incallite, la compassione.
19. Lunga un anno
Da
Lunga
un anno
Di
Francesco
Accattoli
40
Se pure la scia
compie un esodo annuale
restassero bene attenti i loro nomi
ad affiancarsi, a mitigarsi delle pene
da interni condominiali.
Ci vogliono due lenti,
bifocali,
ad una lo spazio,
per un millimetro alla volta,
ad una la rotta nitida
del dolore, da guardare, bene,
bene nell’ampiezza della cornice,
con gli alberi e i passanti e la luce
di traverso. Ci ricordano quelle cose
che resistono soltanto,
l’afrore delle muffe, il muschio dei cortili;
e invece seguitiamo la corsa delle grondaie,
premendo lo sterno
levando lo sguardo
oltre le lenzuola del terrazzato.
Siamo stati all’ombra troppo tempo,
ci dolgono le articolazioni,
a noi la pelle si stringe addosso.
Passa il sole
in un angolo morto dello sguardo,
ognuno dal suo lato
vede la presenza dell’altro,
la linea di contorno di se stesso,
e riflesso nel lucido delle scale
si tinge il corrimano di singoli bagliori.
Davide Argnani
Da
Musa fitta
nell’azzurro
La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini ed è tratta da Musa fitta nell’azzurro
(postfazione di Silvia Cecchi, Di Felice Edizioni, Martinsicuro - TE, 2014).
***
Da PARTE I - (1982-1997)
II
41
cammino a moscacieca lungo le sponde del tunnel
qui la farfalla sventola ali agli intrecci degli angoli
s’incunea il rettile nei labirinti del sottosuolo
resta inesplorato il fondo che non coglie il sole
e non penetra l’arsura nei gangli del desiderio
il muro si fa spesso al balenio dell’accidia e
dell’invidia
lo scandire del cuculo non toglie nulla alla civetta
ciò che trasforma è dentro la polvere e tu - musa cerchi sui campi del mare ciò che non è.
Il corpo non penetra la zolla che ci costruisce
e allora la luce traspare azzurra e sparisce
il crinale diventa piano - roccia si sfalda né la scheggia sfugge a ripetute blandizie.
La pagliuzza bianca del pensiero è rimasta
dentro la terra nelle tasche della giacca
sotto le radici del leccio nel concavo della zolla
l’unghia incagliata nel fossile dei millenni si
disperde
e fra le ossa e la fila dei denti
anche l’odore della salsedine è volato via
dove corrono solo i ragni
al delta mi fermo accarezzando i detriti limacciosi
la mano slargando sul fondo ovale della pancia
e sulla sponda arcuata mi rigiro fra le tue cosce
vedo la gola gonfiarsi nell’acqua che sgorga alla foce
e il respiro alto della sera nasconde l’involucro dei
corpi
vado in barca liscio
come se tutto il tuo corpo nuotasse sotto la chiglia

Da
Musa fitta
nell’azzurro
Di
Davide
Argnani
()

c’è la luna piena
la foresta degli ombrelloni
e il mormorio delle onde
pace nella calura
soltanto i fringuelli cantano
il vento si ferma ai pioppeti
un girasole secco in cima al fianco
dalla cima della collina a guardare
la sabbia umida s’attorciglia ai piedi
le mani toccano la brezza
al buio sento gli umori della carne
la tua assenza si posa qui
negli anfratti e dietro le siepi
le civette borbottano minacce
alle lucertole nelle crepe
la tua presenza () è calda
nella terra e nella pelle
(16/7/82)
42
il pipistrello della notte
percorre i sentieri del cielo
e la mia bramosia si confonde
alle chele del granchio
o alle spire della medusa
sono qui con la tua realtà
negli occhi
la luna il mare
venere
la barca all’ormeggio
il deserto che mi separa
(8/8/82)
Da
Musa fitta
nell’azzurro

(cieco colore)
Di
Davide
Argnani
Se il vento non ha dove appigliarsi
e le mani toccano foglie gialle e rosse
io me ne vado nel mese di novembre
con la malavoglia del colore
e colgo il blu notte degli occhi
ma se vuoi guardare il mare
oltre l’autunno c’è l’azzurro del cielo
ma non posso dirtelo a premessa
Vedi? c’è sempre un battito di cuore
tra un’onda e l’altra
o un colpo di vento in più
fra l’accavallarsi di colline
e il riverbero là in fondo alla pineta
o lì, oltre i vetri appannati della stanza
(prove 1982-83)
43
Da PARTE II - (settembre-ottobre-novembre 1998)
Da
Musa fitta
nell’azzurro
Di
Davide
Argnani
44
5
Dico perché mi piace parlarti
parlarti del mio tempo e dei miei giorni
dei miei amori delle mie tristezze e dell’amaro sale
perché oggi pensavo che la vita
poteva essere diversa
da come noi la raccontiamo
che i miei figli non mi rassomigliano
nella gioia che mi portano
che tu sei l’alibi dei miei ricordi
delle passioni mancate felice d’essere
di vederti sorridere alla luce
nella penombra dei giorni grigi
o al grigio della sera
sotto i fari di una galleria d’arte
ascoltando per capire
come si fanno i contorni
o come si modellano i corpi
nell’ora in cui i poeti mentono
13
Da
Musa fitta
nell’azzurro
Di
Davide
Argnani
sera di dicembre cielo terso di stelle
dalla finestra aperta brillano
una a una mute
sto pensando ai tuoi occhi
alle tue labbra
ai capelli e al tuo vestito celeste
dove sei
dove vai
cosa stai facendo
14
squilla il telefono
la tua voce
serena di sera
tengo qui vicina
all’orecchio
senza speranza
ascolto
unico raggio
la tua bocca aperta
sotto gli occhi sempre verdi
disperdono nuvolaglia
giornata grigia
di nebulose e di brume
come dentro i boschi
15
45
guardarti mentre cammini
arrivando dalla strada
larga di luce
Mariella De Santis
Da
La
cordialità
La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini ed è tratta da La cordialità (nota
introduttiva di Biagio Cepollaro, con Nel tradurre di Anthony Robbins, Nomos Edizioni, Busto Arsizio VA, 2014).
***
Da LA CORDIALITÀ
MURI ALLE SPALLE
Arriva a ondate il passato
Grandi muri alle spalle
Cadono d’improvviso
Sulla scrivania, nella tazza del the.
Troppa vita? Le chiedo
Alla mia età è solo tanta
Risponde Silvana torpida nel corpo pesante
Lasciando qualche capello tra le dita
Della mia mano già distante dalla sua testa.
46
PER ADEL, ANCÒRA
eri assorto e pensoso,
lasciavi battiti di ciglia tra i piatti
invece di briciole, frammenti di molliche
poi prendesti in mano un muscolo
il cardiaco tuo e te lo accarezzasti
piano piano senza farti vedere
ti tornò il sorriso mentre la bionda
giovane mamma sparecchiava parlando
del piccolo che ancora allattava.
LA BREVISSIMA ESTATE
a Barbara Gabotto
Da
La
cordialità
Di
Mariella
De Santis
47
Solo loro già sanno
dell’estate che arriva,
non noi in tenui maglie
di lana avvolti.
Moscerini e zanzare neonate
volteggiano dalle coste dei libri
verso colori chiari.
Sanno il tepore del sangue
a corpo succhiato vivo,
non della mano che li schiaccerà
nella loro brevissima estate.
ASIMMETRICO SENSO DELLO STARE *
Si stava da bambini nascosti
in cerchio a strapparsi
crosticine dalle ginocchia ruvide.
L’unghia inciampava per impazienza
sul sangue non ancora rappreso
e si faceva fitto, umido negli occhi,
lucido sul naso quello che allora
era meno di un dolore e oggi
tra i miei simili vociante
riconosco come un diverbioso
asimmetrico senso dello stare.
* Testo musicato dal M° Dino Mariani per
“Novurgia”.
UNA SERA DI FEBBRAIO
Da
La
cordialità
Di
Mariella
De Santis
Diciotto minuti di attesa per l’autobus numero 62
In piazzale gabrio piola sciarpato dal freddo umido
Di una sera di febbraio. Non avevano avvisato i ricordi
Che sarebbero arrivati a stormi lasciando piume sul viso
Di te che ascoltavi non so se sorpreso o perplesso.
Di quanta vita sono fatti i silenzi, dici, mentre io mi affretto
a segnalare la fermata all’autista e apro un libro custodito in borsa.
SETTE E QUARANTA
48
Un paio di volte l’anno, non di più, davvero,
capita che io non creda a quel che vedo. Ma ogni giorno spero
di essere partecipe al miracolo di quello sfrontato arancio
in cielo porpora e viola alle sette e quaranta del mattino.
Due volte all’anno, non di più, davvero, si levano
da piazza Udine a Milano il dolore e la gioia dell’inatteso.
Da POCO PIÙ DA LONTANO
Da
La
cordialità
Da CANZONIERE DEI CUORI
CLANDESTINI
SALUTARSI SEMPRE
Di
Mariella
De Santis
49
Salutarsi sempre, col sacchetto del pane in mano
sull’ultimo gradino di casa, sotto la luce sbieca
della metropolitana, tra i colleghi in ufficio.
LE COSE CHE VANNO
Le cose che vanno
non sempre hanno il tempo
di tiepidi addii,
a volte poi sembra vadano
invece restano per sempre
a morire con noi.
Salutarsi sempre, dita contro dita
guancia su guancia o a labbra socchiuse.
IO A TE DICO
In stazione imbarazzata lasciare una moneta
a chi la chiede, mentre il treno su cui tu sei
da me e dalla città operosa ti allontana.
Io a te dico
voglio abbia i miei occhi
la morte quando arriva,
voglio specchiarmi appena civettuola
dentro la vita fatta e da finire.
Salutarti sempre, te che sopra ogni altro amo
fingendo di ignorare l’addio in agguato
in ogni nostro arrivederci.
Per una volta essere
la mia garbata ospite,
porgermi la mano in piedi
poi farmi accomodare,
piano accostare le persiane
e senza rimpianti uscire.
Da DI NASCITA E FANTASIA
POESIA ALCHEMICA,
MANEGGIARE CON CAUTELA.
Da
La
cordialità
Sul fare di chi guarda, di chi è guardato,
nella terza immagine di chi si guarda in quanto
il guardante ha guardato.
1997 R.O. a M.D.S. *
Di
Mariella
De Santis
: Tu sei donna che chiama, di stazione
levantina e porto di mare, odori di sandalo.
Ad ogni incontro ti possiedi, accampi
la malia e malore calcolato alla voce
d’abbandono. Così pratichi ciascuna
possessione, assumi posizione sottomessa.
Mantieni gli occhi nell’amore chiusi. Quindi
alla luce li volgi come sul campo il girasole
generoso, sorridi, subito li chiudi possessa
dalla cura terribile di te, così muta.
1997 M.D.S. a R.O.
50
: Io sono donna che chiama, di stazione
levantina e porto di mare, odore di sandalo.
Ad ogni incontro mi possiedo, accampo
la malia e malore calcolato alla voce
d’abbandono. Così pratico ciascuna possessione,
assumo posizione sottomessa.
Mantengo gli occhi nell’amore chiusi. Quindi
alla luce li volgo come sul campo il girasole
generoso, sorrido, subito mi chiudo possessa
dalla cura terribile di me, così muta.
2005 M.D.S. a V.B.
: Io ero donna che chiamava, di stazione
levantina e porto di mare sono ancora,
oggi ho nei capelli odore di mirra
in alternanza al sandalo.
Nessun incontro mi possiede, imploro
malia e malore calcolato alla voce
d’abbandono. Così libero ciascuno di voi
dalla propria possessione,
assumo posizione di preghiera.
Vi esorto a non tenere gli occhi nell’amore chiusi.
I miei sempre alla luce li volgo come sul campo
il girasole generoso, sorrido, subito vi sfuggo
possessa dalla cura terribile di me, così muta.
* Autore del primo testo originario è Rossano Onano.
Dorinda Di Prossimo
Da
Quaderno
millimetrato
51
La scelta dei testi che segue è stata curata da Danilo Mandolini ed è tratta da Quaderno millimetrato
[postfazione (Fisicità dei millimetri) di Alida Airaghi, incertieditori, Viagrande - CT, 2012].
***
*
Vennero alla spicciolata le zie, tutte sorelle
tra loro. A turno fecero le notti, un poco
guardando dalla finestra, un poco richiamando
Sant’Antonio ai suoi doveri. Giaculatorie
spalmate sulla sedia. A volte, zia Elodia
s’assopiva, zia Concettina chiedeva
all’infermiera quando lo strazio sarebbe finito.
Carolina, maggiore d’anni e di sorrisi, in testa
contava le torte da ricamare, le federe,
i lenzuolini. E, credo, nel giardino dell’ospedale,
un vento di marzo facesse il suo bel rumore
tra i buchi dei portoni, tra i fiori prestigiati
al sole. Mia madre intanto cercava di partorire.
Una colica renale ficcava dolore. L’utero
distraeva dal farsi carrettino. Nemmeno un
cencio di testolina ancora voleva uscire. Eh sì.
Credo che tre giorni così avrebbero ucciso
anche un mulo. Da sbiancare le sedie, da farsi
il segno della rassegnazione. La levatrice
ogni tanto nitriva. Il dottore nelle viscere
frugava.
Mamma diceva che costa cara la resurrezione.
Ma, forte debole spingeva. Il nome di mia
nonna dovevo portare. Quindi. Che il vento
freddasse pure i tetti. Ingrugnisse pure il bordo
dei bicchieri. Le fette dei pensieri sulle nocche.
(Sapeva mio padre sgraziare d’un biancore di
mascella, purezza di meridionale avrei
appuntato io, col tempo a venire, a dire,
a giocare, a sprezzar di voce e sconsolare).
E a un forcipe diedi il grande onore. Di far
danzar le braccia delle zie, di sciogliere i colori
di papà. Gli infermieri portarono serenate.
Mia madre in pelle d’acqua. I santi a dormire.
*
Sai, l’ultima parte del giorno, trascrivo. Ora ti so
in piccola cornice. Era una compagnia
disordinata il tuo sorriso, madre. Luogo minimo.
Transitorio. Ho difficoltà di mani a trascinarti
qui. Vive così poco l’erba a casa mia. I petali
restano nel bicchiere, la direzione degli occhi,
sui rovi cade. Qui ti vorrei, nome e indirizzo
precisi, equivoci a scansare. Diventa la morte
uno scompartimento d’addii. Una frolla
abitudine senza vita. E del tuo collo diritto ho
lunghevoli attese. Del tuo dolore in scena.
Sul divano, io. Te. Le spalle tagliate. Restando.
*
Da
Quaderno
millimetrato
Di
Dorinda
Di Prossimo
52
- Non si dorme la domenica, su su, andate
in cucina. Anna vi prepara l’uovo sbattuto E si lasciava il piccolo tepore delle lenzuola,
tripli calzettoni per correre in corridoio. Anna tata
faceva montare i tuorli come nuvole di spuma.
E ci guardava, noi tre. La testa ancora penzolava, i
piedi che dalla sedia non toccavano
il pavimento. In realtà, io m’accorciavo ancor
più dei miei fratelli. Stavo con le ginocchia
appiccicate alla pancia. Le braccia a tenaglia
sulle gambe. Era l’odore che mi soffiava
il corpo, lì dalle brachette di tela.
Era quell’intruglio d’asprezza che amavo
trattenere nelle narici. Poi. Lo zabaione, il latte
con gocce di caffè, il pane della sera prima,
scioglievano il freddo. E da lì, da quelle tazze
lasciate nel lavandino, si poteva rincorrere
il gatto, scomparire in soffitta. Non rispondevo mai
quando mi chiamavano per far le pulizie. - Io
sì, i miei fratelli no? - E facevo pose davanti
a un vecchio specchio con macchie nere.
La vestagliona di mamma sulle spalle ché il
freddo dei rifugi è sempre stato il caro prezzo
delle minute libertà. La domenica mattina
significava trovare la casa fuori dalla finestra.
Sì, anche se c’era la neve che poi diventava un
tappeto di spilli. Le lenzuola, i cuscini, le
coperte penzolavano contro il muro. E quelli dei
vicini. E quelli di tutto il paese. Erano
domeniche in cui il freddo entrava di diritto,
disinfettava. Ci pensavano poi le stufe, i camini
a far virtù di fiato. A sciogliere il blu delle
gambe. Io scendevo all’ora di pranzo. Col muso
da «svergognata», ancora sporco, i tripli
calzettoni impolverati. Il mocciolo impertinente.
E l’odore sapore del gioco al piano di sopra.
Solitario. Colpevole. Una ciliegina per il mio
confessore.
Da
Quaderno
millimetrato
*
Di
Dorinda
Di Prossimo
53
Ci provo a danzare. Quando le lenzuola pesano
meno della neve, la vicina non ha ancora tolto
l’elastico dalla busta del caffè e le ginocchia
tengono quella smorfia ridicola d’una tendina
inamidata. Provo a tra sognar me. Insonne
come un collegio di debuttanti, come a bordo
d’una possibile nave. Danzare è viaggiare, mi
dico, il pugno appena serrato, le unghie
conficcate fra le cosce. È ricordarsi dell’aria, del
lusso lucido della foglia. La schiena molle,
ubbidiente che sfrigola d’armonia. Sì che ho
provato ad apparirmi in pace, slegata dal
cordolo che pendola. Indietro pendola. E mi
spalanca la casa, le culle vegliate, lo scacco
inclinato. Matto.
*
Da
Quaderno
millimetrato
Di
Dorinda
Di Prossimo
54
Ti è toccata a destino, padre, una figlia dispara
d’occhi, nel fuori quadro, pungolante
e disarmonica. T’è toccato vederla senza
preghiera invecchiare. Si potrebbe intitolare
«Figlia con padre, o l’ora che torna preziosa»
nel quadro che si muove dalla cucina
al corridoio. La figlia che frutta non si fa
sbucciare, il padre che taglia il pane, dice Fiori ho comprato per la tomba - invisibile
invenzione d’un sospiro. Oggi sono un’ora
ferma, materia fredda per serpenti. Càpito a
sproposito, infestiva, nel calendario dei rossi
giorni. Eppure. La parola eppure mi sembra
un’àncora per mozzi in risalita. Solo che non so
se fuori dell’acqua trovo una profondità che mi
risucchia. Coltiva «erba» una mia amica. E mi fa
pensare ad una panchina. Dopo spettacolo. Il
mio sedere incollato al freddo, gli applausi
imbarazzanti. Uno spinello che passeggiava tra
le dita e le labbra stanche. Mi chiedevo se il tal
uomo m’amasse. E sentivo i sandali stretti.
In scena, invece, non fumavo. Tanto era facile
dare di verso altrui un gesto rallentato. Mentre
scrivo ho, accanto alla tastiera, gli orecchini
d’osso, rossi. C’è una curva di foglia argentata.
Il pacchetto delle sigarette. Un accendino come
l’occhio azzurro che si sfascia lontano.
«Lo spleen de Paris» che Baudelaire mi tocca, direi
con quotidiana gioia d’un messale. E. dita.
Le mie. Piccolo armistizio d’un congedo.
*
Da
Quaderno
millimetrato
Di
Dorinda
Di Prossimo
55
Schiudiamo il silenzio. Quel piccolo bilico
che lava i rumori. Apriamolo, riapriamolo.
Col pollice e l’indice, le vene rivolte al cielo,
le ciglia sul mento. Sì. Riconvertiamoci all’insù
della pausa, spuntiamo i rulli o il rullio.
Stacchiamo tutte le vocali, così ingombranti
con quella gola che sciabola le soglie.
Accantucciamoci dentro una balena, solo
le orecchie dritte, come fanno i cani, dilatiamoci
muti. Somministriamoci una pelle che traccia
solo il segno del pensiero, riempiamo le
distanze tra il mignolo e il purissimo odore di ciò
che accade. Eccoli, i picciòli delle foglie, i cerchi
del polline e del fiore, il passo del verso del
dolore, le gioie a soqquadro tra i ventricoli e
l’ombelico. Sillabiamo nei follicoli i ricordi,
dentro le unghie; ritroviamoci nelle viscere. Il
silenzio è rispetto, il vin santo dell’esclamazione.
Specchiamoci dentro di esso, senza timore.
Così, quando arrivano i figli del dolore, dentro le
bare, dentro le fusa della falsa guerra, stolto
sentiamo l’applauso, quel batter di mani stonato.
La morte è morte, uno spiazzo di sale, cenere
sui capelli disossati. Portiamole rispetto. Ché i
nomi diventano lievi, le madri, ghiaia d’agonia.
Note bio-bibliografiche
Francesco
Accattoli
Davide
Argnani
Mariella
De Santis
Dorinda
Di
Prossimo
56
Francesco Accattoli nasce ad Ancona nel 1977. Risiede ad Osimo (AN).
È docente di materie letterarie e latino nei licei.
Nel 2002 esce, per la Stamperia dell’Arancio (Grottammare - AP), la raccolta Come acqua che riposa…. Nel
2007 pubblica, con Fara Editore (Rimini), la silloge Un tramonto sommario. Nel 2011, sempre con Fara
Editore, dà alle stampe la sua seconda raccolta La neve nel bicchiere. Nel luglio del 2013, per la Sigismundus
Edizioni di Ascoli Piceno, pubblica la plaquette Lunga un anno, una raccolta di diciannove testi in tiratura
limitata impreziosita da sei opere della pittrice Linda Carrara.
Tra i più recenti riconoscimenti si ricordano quelli ottenuti in occasione dei premi letterari “Rabelais”,
“Artem Ex Tempore”, “Gozzano” e “Sandro Penna”.
Sue poesie sono incluse in varie antologie, riviste cartacee e sul web.
Questo è il suo blog:
https://sequestocosmo.wordpress.com/
***
Davide Argnani è nato nel 1939 a S. Maria Nuova di Bertinoro (Fc). Dal 1953 vive a Forlì.
Le sue opere di poesia pubblicate sono: Ogni canto è finito (Todariana, Milano, 1972), La città mugolante
(Presentazione di Giorgio Bárberi Squarotti, Ed. Forum, Forlì, 1975), Nulla su tutto meno uno (ricerca sulla
scrittura murale in collaborazione con Erio Sughi, Mdm, Forlì, 1978), I lager fra noi (1978), Passante (Nuovo
Ruolo, Forlì, 1987), La casa delle parole (Prefazione di Roberto Roversi, Ed. Ellemme, Roma, 1988), La festa
degli alberi, in collaborazione con Daniela Palmas (Ed. Pagine Lepine, Frosinone, 1997), Stari Most
[presentazione di Maurizio Pallante, testimonianza di Predrag Matvejević, illustrazioni di Dinko Glibo Versione in croato (Lucì Zuvela), in tedesco (Francesca De Manzoni) e in inglese (George Peter Russell) - Ed.
Campanotto, Udine, 1998/1999], Musa fitta nell’azzurro (postfazione di Silvia Cecchi, Difelice Edizioni,
Martinsicuro, Teramo, 2014).
Si interessa anche di poesia visiva e in questo ambito ha pubblicato Pianeta spaccato (Presentazione di
Eugenio Miccini, Ed. Campanotto, Udine, 1982) e Diàclasi beante (id., 1983). Sue opere sono riprodotte in
vari cataloghi d’arte visiva e sono presenti in musei e centri di documentazione d’arte multimediale in Italia
e all’estero.
Francesco
Accattoli
Davide
Argnani
Mariella
De Santis
Dorinda
Di
Prossimo
Ha curato opere monografiche e antologiche: Poeti a dibattito - Interviste con poeti, critici e scrittori italiani (Quinta Generazione, Forlì, 1978), Anna - Un poemetto per il bicentenario del poeta americano Irving
Stettner, traduzione di E. Sughi (Forum, 1979), Pelàsgi, poeti romagnoli in lingua, con G. R. Manzoni e
introduzione di Valerio Magrelli (Ed. Maggioli, Rimini, 1985), Motus e Ingranaggi - Ricerca sulla poesia
operaia - In collaborazione con Roberto Roversi (Edizioni Lavoro, Roma, 1987-88).
Ha collaborato e collabora con varie riviste letterarie nazionali. Dal 1993 dirige “L’Ortica”.
Molti e di assoluto rilievo sono i critici che si sono interessati alla sua opera, così come i riconoscimenti
ottenuti nell’ambito di premi nazionali ed internazionali di letteratura.
Qui, ulteriori dettagli sulla sua attività:
http://www.literary.it/ali/dati/autori/argnani_davide.html
***
Mariella De Santis è nata a Bari in un raro giorno di neve del 1962. Vive a Milano, città che ama, pur non
essendone innamorata.
Nel 1991 viene segnalata al Premio Internazionale “Eugenio Montale” per la sezione inediti. Collabora con
alcune radio nazionali ed estere. Ha partecipato alla realizzazione di prodotti videopoetici e curato collane
di poesia e rassegne culturali. È presente nel lavoro antologico curato da Mariella Bettarini Donne e poesia. È
autrice teatrale rappresentata in rassegne e festival. Alcuni racconti sono in testi collettanei o riviste.
Il suo primo libro di poesia è Da luoghi incerti (Bologna, 1993). Tra le più recenti pubblicazioni: La cura di te,
poemetto per il libro fotografico di Viviana Nicodemo Necessità dell’anatomia (Milano, 2007), Con queste mani
in Io e l’altra (Alessandria, 2010), drammaturgia civile in versi, In attesa dei barbari (Bergamo, 2012), il testo
teatrale Merletti e baionette (Sondrio, 2012), sulle meno note donne d’ingegno e d’azione del Risorgimento
italiano, e La cordialità (Nomos Edizioni, Busto Arsizio - VA, 2014).
Con Gilberto Finzi è curatrice di Menhir, opera omnia di Delfina Provenzali (Milano, 2004).
***
57
Dorinda Di Prossimo nasce a Teramo per destino materno e ha paterne radici siciliane.
Vive a Porto Recanati dove raccoglie il tempo di “quel che resta” coltivando versi, respirando sale, cercando
la clemenza di un’età inclemente.
Nel 2006 ha pubblicato la raccolta di poesie Nel sottocuore (Edizioni Akkuaria), nel 2011 Leggere sull’unghia
(Edizioni Tempo al libro).
È del 2012 la silloge Quaderno millimetrato [postfazione (Facilità dei millimetri) di Alida Airaghi, incertieditori,
Viagrande - CT, 2012].
http://www.ilverri.it/
Solo inediti
Francesca
Monnetti
58
NOTA INTRODUTTIVA.
Di Mauro Barbetti
Trovandosi davanti alle poesie di Francesca Monnetti, si ha subito l'impressione di un materiale
appartenente ad un corpus, pensato non come singolo momento poetico, ma come concept, come riflessione
che rimanda sempre ad un ponderare più complesso e più articolato.
Quella di Francesca è una poesia che si nutre di qualsiasi tipo di linguaggio, da quello più desueto ed
evocativo a quello più attuale e contemporaneo, specifico ai vari campi del sapere che vengono investigati,
come capita ad esempio in flash-crash, poemetto che deforma e distorce il linguaggio dell'economia per
mettere a nudo l'aridità e la crudeltà dei meccanismi che lo governano, o in bird-watching dove con amore la
poetessa si appropria del linguaggio scientifico-naturalistico per descrivere minuziosamente il pulsare della
vita e le sue variazioni.
Spesso ne risulta una poesia ridotta all'essenza con minima presenza di connettivi e preponderanza delle
parti nominali e verbali, quasi a voler togliere ogni collegamento tra le varie parti del discorso che non sia
quello delle assonanze/risonanze/dissonanze che creano sensi e/o controsensi.
È infatti evidente, come ben colto da Giorgio Bonacini che ha recensito l'unico libro edito della Monnetti, insolite movenze (ed. Cierre Grafica, Verona, 2009) sul blog “Blanc de ta nuque”, che il lavoro svolto dalla
poetessa mira a creare «una mobilità significante poli-direzionale. La scrittura spezza la significazione
riannodando i vari sensi con accorgimenti semantici, non solo grammaticali, veramente essenziali e carichi
di esperienza emozionale.».
La scelta dei testi qui compiuta comprende sia composizioni dove è ancora presente e individuabile una
matrice lirica che accompagna il lavoro di sperimentazione sulla struttura linguistica (es. siccità, per
metamorfosi e moti), sia testi dove la scarnificazione della forma poetica attua un tentativo di costruire
Francesca
Monnetti
59
modelli linguistici alternativi ai processi di fossilizzazione e di alienazione a cui è sottoposta la lingua, con
intenti liberatori (bird-watching, sito transitorio, flash crash), vicini a certa poesia degli anni ottanta, si pensi ad
esempio al Rimario di Antonio Porta, dove la lezione della neoavanguardia si stempera e recupera una
volontà di comunicazione sia pure straniante.
Sempre per citare Bonacini la scrittura di Francesca è un tessuto poetico che «“s’imbroglia, sbroglia / tremulo
s’appiglia / a lordo ciarpame / frammisto a sterpaglia”, è però anche l’evidenza del gesto visivo di un segno (a
volte divertissement per la vista e l’orecchio) sempre legato alla maturazione di un senso, e dunque
indirizzato a un pensiero che indaga e raccoglie.».
A tratti infatti la poesia della Monnetti si fa anche poesia di denuncia, poesia sociale, seppur distante da
facili esibizionismi e protagonismi, là dove coglie tra i segni della bellezza della sua terra, anche i segni del
dissesto e della bruttura lasciata dall'uomo, «il solo rigagnolo riemerso / rilascia ogni traccia / dello scempio
consumato (siccità)», «s'arresta / a ridosso / d' incredulo squarcio / sdrucio cosparso / sull'orlo / rimasto» (sito
transitorio), o là dove smonta i meccanismi perversi dell'economia globale (ancora flash crash).
Potremmo dire infine, citando una illuminante nota di Marco Furia su “Anterem” a proposito proprio di
flash crash che «siamo al cospetto del riuscito tentativo di offrire al lettore uno spazio sprovvisto di
prefissate frontiere, una galassia nel cui ambito i collegamenti tra i brillanti astri non sono imposti»; una
galassia in cui, aggiungeremmo noi, ragione e sentimento, sperimentalismo e lirismo, sguardo
contemplativo e istanze sociali possono convivere e nutrirsi le une delle altre.
Francesca
Monnetti
siccità
in acqua borra *
non sgorga la sorgente
il cratere è sprofondato
neanche il borro la sottende
il canale
disseccato
scarto di seta
rigurgito molesto
nefasto innesco
per sparo deflagrato
dall’ultimo fronte di cava
vene di ciarpame e bava
efflorescenza di magnesio
boro, calcio, ferrugine
e sale non iodato
60
il solo rigagnolo riemerso
rilascia ogni traccia
dello scempio consumato
fuoriesce intatto
dall’etimo scavato
* A Montaperti, sito di un'antica battaglia sanguinaria e di più recenti dissesti ambientali ad opera dell'uomo.
sito transitorio
sulla via delle crete senesi
Francesca
Monnetti
intorno a cipresso
scosso
un bianco solco riarso
sbuffo di bosco
ruga di dosso calvo
in-fermità
sorpresa la danza
per cenno
di vento gentile
morbide onde
d'erba novella
su crespo ammansito
da un tocco
d'insolito aprile
steli-virgulto
in verde limone
61
crepa su crosta
... aspra
radice sottile
di filo in filo
si compie la corsa
... raso su pietra
piega su piega ...
a cadenza
si sposta
in armonico stile
... s'arresta
a ridosso
d' incredulo squarcio
di sasso
sdrucio cosparso
sull'orlo
rimasto
in-quieto
dormire
per metamorfosi e moti
Francesca
Monnetti
dal fondo
dell'ultima voragine
non mi frena più
l'attrito
gèrride d'acquitrino
in tendersi di superficie
riprendo ad essere
corpo lieve
nell'estrema velocità
pipistrello esperto
in scorribande nel cupo
cuore di ogni notte
intraprendo voli
a decrescere
nel caso o nel destino
alterno fughe
a perdere
ad aeree agilità
62
larva di bruco
o di lombrico
mi riavvicino all'essenza
dell'invisibile
della gramigna avverto
tutto il peso
del contendere
ne sperimento
l'inestirpabile
caducità
come filo d'erba
non mi scopro sazio
né contento
da ogni pianta apprendo
ad essere
tenace o lento
come ogni rosa
fremo, oso
farmi conoscere
…
di ogni rosa nata
nel vivo smorto
di un giardino
della rosa sepolta
sotto la polvere
del mio deserto
di quella deposta
sopra un cuscino
fugace al mondo
del sensibile
... irreversibile
nel reversibile ...
di ogni rosa
conosco a fondo
l'incongruità del mondo
tutto riposto
tra il cascame
e le sue spine
ne riconosco appieno
il fulgore del rigoglio
il suo precipitare
immondo ... lo sprofondo
il dolore fisso
nell'eterno
suo non ritorno
e ne rimpiango
la gravità
Due testi da flash crash - …in giardinetto titoli
Francesca
Monnetti
“E dove dunque vogliamo arrivare?[...] Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro
desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un
giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua ad occidente [...], fu il nostro destino naufragare nell'infinito. Oppure,
fratelli miei? Oppure?”
(F. Nietzsche, Aurora)
flight to quality
obbligazione di scopo
STEP DOWN ... STEP UP ...
... STEP DOWN ... FLOP ...
.... DOWN
urge ... necessario
rifugio nel bene
... quale bene ...
non più garantito
il proprio fondo
comune non tiene
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... ormai un lusso
ogni bene ...
dis-investita risorsa
risibile opzione
rincorsa
cedevole
non più durevole
future
... perpetuo
default
fumo nei segnali
in evidenza di nesso
Francesca
Monnetti
spie spente
accese
su spine ... in rete
... senza rete
nessuna via di fuga
tra penuria, congerie
di prese ... simulatori
... interruttori ...
... moltiplicarsi
di rese ... finte riprese
... via etere ...
... via cavo ...
uno solo lo sfiato
da cunicolo stipato
64
...
s-caduto il soggetto
ancor peggio che
alterato
... spira
sputo
schiuma
schianto
sibilo
... pulviscolo
neanche predicato
del proprio predicato
di straforo
... fuliggine
... violato ...
... scaricato ...
... evaporato ...
... prurigine ...
... vitiligine ...
... deriva
del proprio derivato
... scaturigine
per – tra - foro
otturato
Tre testi da birdwatching
Francesca
Monnetti
deposizione
in-distinta materia
strisce di guano
rifiuto di uomo
per terra
peluria, piumaggio
sul suolo
ristagno-retaggio
di lotta
di guerra
stecchi nel fango
sassi distesi
a casaccio
65
tra l'erba
trasporto
in - discreti passi
tracce
di cane
di umano
da frodo
da posta
e da penna
profonde le orme
di suola …
da viaggio
da caccia
da ferma
cattura
risulta
Francesca
Monnetti
tappeti di stelle
su crosta di sabbia
e su melma
airone, cormorano
tarabusino
piccola averna
66
...
condensa d'acqua
e di terra
ansie e promesse
tra impronte
cosparse di spiaggia
peregrina veronica
... sterco, frotta
coppia, caccia
... di fiori, di barbe
dovunque
c'in-festa
... correnti recenti
di un'apparente
bonaccia
...
...
sogni tra segni
di piena e di secca
vento che spossa
non prostra
e tra-passa
in anse
fragranze irreali
da calma semipiatta
... riflessa
rilascia nell' aria
vapori di assenza
ed essenza
... crescente languore
d'asprezza
per fumi
d'acre limaccia
di una di-versa
sostanza
senza segnale
imminente
Xxx
di un'evidente
minaccia
Francesca Monnetti
67
È nata a Firenze dove ha compiuto studi universitari in ambito filosofico-morale. Vive da sempre a
Sant'Ellero, una piccola frazione nella provincia del capoluogo toscano, e da molti anni insegna nella Scuola
Primaria.
La sua prima e unica raccolta edita di poesie, In-solite movenze (Cierre Grafica, Verona, 2009), è risultata
finalista in occasione dell’edizione 2008 del Premio di poesia “Lorenzo Montano” e fa parte della relativa
collana “Opera Prima”.
Una sua silloge inedita ha vinto la quarta edizione del Premio Letterario “Sergio De Risio” (2010). La
raccolta inedita pen-insul-aria (segnalata in prima stesura al Premio “Lorenzo Montano”) ha raggiunto la
finale in occasione della prima edizione del Concorso di Poesia e narrativa “L'Erudita” (Giulio Perrone
Editore, Roma, 2012). La poesia singola inedita siccità ha vinto la sezione omonima del predetto Premio ed
appare nel volume antologico dedicato al concorso (Giulio Perrone Editore, Roma, 2012). Sempre nel 2012
un suo poemetto, flash crash - in giardinetto titoli, è giunto in finale nella sezione “poesia inedita” del Premio
di Poesia e Prosa “Lorenzo Montano”. Nel 2014, un'altra sua raccolta inedita, elisa, è stata segnalata alla
ventottesima edizione del Premio “Lorenzo Montano” e una silloge inedita è stata segnalata alla
trentaduesima edizione del Premio Nazionale “Alpi Apuane”.
Alcuni suoi testi poetici, finalisti e segnalati in edizioni precedenti del Premio “Lorenzo Montano”,
compaiono, on-line, sul sito della rivista “Anterem” e sul blog “Blanc de ta nuque”.
Altre sue poesie sono presenti in volumi antologici e siti web legati ad altri concorsi letterari.
http://www.quadernidiarenaria.it/index.php?option=com_content&view=category&id=2
Solo inediti
TerraeMotus
[voci,
traccia]
Una possibile introduzione (da un’e-mail dell’autore a Danilo Mandolini - Dicembre 2014)
Di
(…) questa che ti invio è una sequenza/paesaggio immaginata per voce “mancante” che ho sperimentato in lettura dal
vivo per la prima volta lo scorso mese a Venezia per un festival di poesia orale. La forma definitiva del testo sarà quella
di un paesaggio/passaggio interno, o faglia, frattura aperta che scompare-rimargina, immaginata come istallazioneperformativa site specific per il Rialto di Roma, che vedrà luce, anzi ombra, il 20 febbraio prossimo. Le immagini
semantico-sonore del testo prenderanno forma in un dialogo mancante, ma possibile, tra i due (o più) mondi, per dirla
con Celan, ripercorrendo i tre giorni tre in cui i superstiti, i mai nati, i murati vivi, attraversarono questi mondi, o
sciami, prima, durante e subito dopo il terremoto de l'Aquila.
La casa dentro, lo spazio della memoria non esperita, questo de-generare prossimo per materiale disgregantesi (che si
ricrea sì, ma in versi abortiti) all'ultimo Beckett, quello di Sans e Lo spopolatore per intenderci, ma anche per certi
versi allo Celan dello Sprachgitter, in cui forse a dominare è un estremo tentativo cosciente di riconnettersi al mondo
della memoria estromessa, del mai detto; certo è che sempre Mesa rimane il punto di congiunzione («le parole sono la
miseria della memoria»), la cui morte, insieme con una mia visita alle rovine ancora pulsanti, oranti, della città de
l'Aquila dopo il terremoto, hanno dato inizio a questa mia “torre d'avorio senza fondamenta”, che è il terraemotus.
Fabio
Orecchini
68
Questo lavoro, come forse ti accennavo, si inserisce in questa sorta di “Trilogia del mondo muto”, di cui fa parte
ovviamente la Dismissione e il testo partitura (probabilmente per il teatro) cui sto lavorando ora e per molto tempo
ancora…
(…) ho avuto non poche difficoltà a ridurre e comprimere, un testo che già nasce come sequenza sismica, sciame di
onde versali che si raggrumano in ipocentri sonori, tattili, per poi, ad attriti, propagarsi in tutte le direzioni lungo
paratassi a caduta, di senso e di suono, sino ad esaurirsi, in strali di vibrazioni sterili, forse propositi. Fallimenti.
TerraeMotus [voci, traccia] è già apparso in “POETARUM SILVA”
(http://poetarumsilva.com/2015/01/27/da-terraemotus-inedito-di-fabio-orecchini/).
***
TerraeMotus
[voci,
traccia]
Di
Fabio
Orecchini
Da
TerraeMotus
[voci, traccia]
*
Stormi di corvi sopra onda di messi.
Di qual cielo il blu? Dell'infero? Del superno?
Saetta tarda, che dardeggi nell'anima.
Rafforzato sibilo. Ravvicinata brace. I due mondi.
Paul Celan, Grata di parole
Tutto è fra tregue di materie in attrito
Giuliano Mesa, Poesie per un romanzo d'avventura
69
*
sequenza mancante
*
TerraeMotus
[voci,
traccia]
a futura sutura, l’anima eretta che incista, polvere nida in fessura, fissa nel taglio delle mura,
oltrepasso, mite morsura, ora canta ora scura, fonte, argine,
screpolatura
d’aria ifigènia, quella notte, molta notte aspettare, uncinare, tenere i fili a nodi, ora bianca ora
scura, possibile salita al sole,
anodi, fenditura,
al cappio
al cappio
al cappio
asole infila, cucite le dita in preghiera, vermine, legaccio
annoda a futura sutura
Di
Fabio
Orecchini
a
ricostruire il cielo sopra
case chiuse e chiese d’ossa
martiri senza un mare
in cui bruciare
voci
70
a contrarmi
[raccontaci dei mali, dei maiali]
e mai ritorna
il dentro
è tutto è detto e non ritorna
la controparola
è nera
Xxx
e dentro
è fuori
è bianca
distruggere il logos
logoi
a,a,a,aaa,aa, A, è la prima tragedia dell'assioma
TerraeMotus
[voci,
traccia]
[ il forcipe attrae
sottrae
]
le controteste lacere
Di
donne appese a ganci
Fabio
Orecchini
in abito da sposa
in sottoveste
l'interno che tanto non restiamo noi torniamo solo dentro
loro
a svellere trame di rami con crani
frane ténere come cancrene d'uomo
muti incauti s’addentrano i cani
scavando in dentro, il cedimento:
71
mani su mani
rimami rimani
questo infinito tenére
a
an-denkend
a
a render muto
a render muto il mondo
TerraeMotus
[voci,
traccia]
il mondo muto
a fare
innumerevole
fare
il mondo muto
Di
Fabio
Orecchini
fare muto
diciottomila scosse
muto
muto in
palpiti
come prostata nuda, scoperta
muta, muto il segno
la tortura
parola rostro
unghia
adunca
voce monca
afona
muta
l’uso è il respiro del segno
72
l'ascritura
cola la sera mormorante ricoveri
a strali, cari corpi estraevi
vani
ospedalieri,
e morissero almeno
tu c’eri tu c’eri
e morissero almeno, è? è?
ma la macchina frana era brava era brava
Taci!
è ora che trema
TerraeMotus
[voci,
traccia]
come cadere, lenti?
[ il non potere ]
come cadere.
s’aggruma la sera nei margini stretti nei polsi rovesci
Di
Fabio
Orecchini
a rileggere certi riti le incisioni rupestri
là [là là]
madre a nascondere i polsi, le artriti
dei legamenti, il nodo ritorto dei legami
l'incedere a passi lenti sommovimenti,
il padre a mostrare i denti, i lacerti, incerto
se ridiscendere verso i catrami mostrami
il martirio di pose le forze arrese, i reperti
non per trascinarsi -iridescente- non per non dire
i come ancora i se resti
- resisti ridere di quanto vissuto per niente
73
ora siedi, seda la sete
[ l’assedio della Storia ]
sedimenta
si
dimentica
[SFONDARE LA ZONA ROSSA] [SFONDARE LA ZONA ROSSA] [SFONDARE LA ZONA ROSSA]
Xxx
copriti gli occhi,
delimitare ciò che resta
TerraeMotus
[voci,
traccia]
del corpo
o la furia di parole
in divisa militare
[le ossa solo fuori]
o è la città che sprofonda nel giorno
dell'acedia sono i demoni
Di
portano tende coperte reliquie di santi
[senza bocca
hanno maschere]
Fabio
Orecchini
si proteggono con guanti
respirano l'ossigeno mancante
sono i demoni civili
l'odore dei superstiti
vanno
74
di casa in casa, a stanare a far mambassa hanno mannaie
e tubi col gas, per amnesie ordinarie, manuali di rito ortodossi al
martirio di anime hanno l'anima, l'anonimato li preserva
sono abili, abilitati al male pre-ordinato, sono morfine mordono
i polsi le caviglie vene in combustione sono muta di cani
leccano i crani ancora aperti, le ferite dei colpevoli
parti adunche sbavando di sorrisi e suppliche
un, enzima del tempo rovinando decortica
[donando nuova vita
proprio ora che mi sbrani]
siamo salvi non torniamo, dormivo?
TerraeMotus
[voci,
traccia]
Di
Fabio
Orecchini
Dormimi tienimi il tempo
restano feci disegni
infezioni generiche
blatte
mente
quel che resta da trovare
fatti morti
ménte? senti, i passi sente siamo loro
frane di pelli e mangimi stragi
[permane]
siamo
il tempo infermo della
l’annusare
i, i, i, testimoni dell’assenza
piove in bocca la parola
oblivio
[di un altro tempo]
mi, mi
per tutto il tempo che resta
ci beviamo l’un l’altro come cani.
+++++++++++++
come un'orgia decorosa
sondare i buchi
75
Fabio Orecchini
È nato a Roma nel 1981.
Suoi testi, opere visive e note critiche alle sue opere sono pubblicate su quotidiani, riviste, antologie e siti
letterari.
Ha presentato le sue opere in tutti i migliori festival italiani di poesia, al Museo d'arte contemporanea
MAXXI di Roma, e in teatri come il Teatro Valle Occupato, il Teatro India di Roma e il Teatro Basaglia di
Trieste.
Nel 2010 ha pubblicato Dismissione (Polimata, collana diretta da I.Schiavone, post-fazione di Andrea
Inglese), recentemente ripubblicato da Luca Sossella editore (libro+cd), con una post-fazione di Gabriele
Frasca e un concept album omonimo realizzato dal quintetto di teatro-canzone d'avanguardia Pane.
Nel 2014 si è aggiudicato il premio "Il mestiere di scrivere-Città di Gallipoli-Ied" e la XVIIa edizione del
premio "Poesia di strada".
È stato promotore del movimento culturale Calpestare l'oblio, curando inoltre l’antologia omonima edita da
Cattedrale.
Come regista ha realizzato [A]livePoetry, un progetto di videoarte e documentazione dedicato ai poeti
contemporanei (Elio Pagliarani e Giuliano Mesa tra gli altri).
Nel recente passato ha fondato una web-tv, ha ideato e organizzato “Estemporanea”, festival di poesia e
musica contemporanea, ed è stato curatore e conduttore di un programma radiofonico di scritture
antagoniste.
Ha scritto per le riviste “Argo”, “Metromorfosi” e la web-zine “AbsoluteVille”.
76
Questo è il suo blog:
http://fabioorecchinipoesia.wix.com/dismissione
http://semicerchio.bytenet.it/
http://www.poesia.it/
Alessio Alessandrini
È nato ad Ascoli Piceno nel 1974. È insegnante di scuola media.
Ha frequentato, presso l'Università degli Studi di Siena, il master "L'arte di scrivere”. Da quella esperienza
ha visto la luce il testo teatrale AmareA, inedito, così come mai pubblicate sono la raccolta di haiku Azzimi
dal becco (2013) e le sillogi La necessità del corpo (2005) e Il giardiniere (2014).
La sua prima raccolta, La Vasca (Lietocolle, Faloppio - CO, 2008), è risultata vincitrice della XXIIa edizione
del Premio Letterario ”Camaiore”, nella sezione “Proposte Opera Prima”.
È uscita nel 2014, per Italic-Pequod di Ancona, la sua seconda opera in versi intitolata Somiglia più all'urlo
di un animale.
Sue poesie possono essere lette in raccolte antologiche o sul web e sono state segnalate in diversi premi
letterari, tra i quali: Premio “Città di Corciano”, Premio “Ossi di Seppia” e il Premio “Lorenzo Montano”.
77
La scelta dei testi che segue è tratta dalle opere qui evidenziate in grassetto.
Da La Vasca
Alessio
Alessandrini
I
Il ragazzo che pur non conoscendo
mi riconosce gridando dalla
terza o dalla quarta corsia
e proclama il mio nome
mi chiama: maestro professore
ha l’aspetto regolare, una voce
da baritono gravida, che denuncia
una qualche congenita anomalia.
“Non ti preoccupare, non è tanto normale.
Ha qualche problema”. Mi rasserena
il compagno di virata cui faccio cenno col viso
grato per questa titubanza appena ricompensata.
78
Il ragazzo cui a torto darò nome Tommaso
ha un ottimo passaggio in superficie
una discreta confidenza con l’acqua
l’abilità di fluirvi all’interno
come per una normalità risanata
che lo eguaglia alla miglior specie umana:
un senso del corpo pieno,
un premio nello slancio che lo esalta.
Dopo nel vano dello spogliatoio
torna a fare proclami, dice che
Giovanna è una grande puttana,
non lo chiama, non risponde al cellulare,
ne cercherà un’altra di ragazza da scopare.
X
Fuori, fuori dalla vasca
tutto si riappropria
della scorza naturale.
L’acqua all’esterno è malata,
melma, fango, pozzanghera
dove ci si può specchiare, ritrovare,
dove ristagna stantia la tara quotidiana
il quotidiano liquido male.
XIV
a Anny
Alessio
Alessandrini
Ora ti prego serra un poco gli occhi
e lascia che io tocchi l’acqua
della vasca - sospensione del tempo
che conservi all’interno, Madre,
con gli equorei bagliori, pneumatici, fragili,
animatori di guizzi e colori carpali.
L’amore ha cartilagini tanto sottili
che non tremiamo a stenderci dentro
come plancton o mitili saremo,
tiepidi animali marini.
Verrò a baciarli un giorno
a succhiarne il veleno
del sonno, del corpo morto,
quando avremo prosciolto le pelli
caduche per accidia e meschine
cancrene, che il mondo ci lascia
addosso col vento e la sabbia
e le lusinghe del dovere.
79
Allora saremo così trasparenti
da apparire nuvole indenni
eterne nel loro passaggio verbale.
Senza alcun osso.
Guizzeremo col nostro azzurro dorso
come lenzuola per impressioni di sogno
parole atone insondabili
nel loro amniotico vibrare.
X..
Perciò, ti prego, serra gli occhi appena
perché possa davvero la vena
dei tendini prendere il largo.
I fiumi, lo sai, li abbiamo dentro,
lasciamo che scorrano glabri
nel loro letargo ventricolare.
Resisteremo e sarà ancora bellezza
la nostra voluminosa bellezza
autunnale.
XV
Alessio
Alessandrini
80
Ammiro l’impudente nuotatore
che anticipa il colpo dello starter
e sordo al fischio delle false partenze
prosegue la bracciata
perché non sa fare a meno
dell’acqua e troppo grande
è il richiamo della vasca;
quasi meravigliato si domanda
cosa cavolo fanno i compagni di gara
inebetiti e sciatti, anonime
cere sul trampolino
a bordovasca.
Mentre prosegue in rettilineo
è tenace come un asindeto puntato;
se disconosce il metro del tuffo
e dell’arrivo il segno,
continua diritto per la sua via
in barba al brusio degli spalti,
allo strappo inguinale,
alla giuria che si sbraccia
per poterlo fermare.
Squalificare.
XXX
È puro distillato del corpo questo
che si approssima alla vasca
con la sua compatta geometria
di rimpianti e scheletri ossidati,
di stanchi progetti d’allegria
raggrinziti nelle pelli tumefatte
o semplicemente canute e lasche,
appena dopo il tuffo, smemorate.
Si addestrano all’altro mondo,
ricomposte, alla stasi molecolare,
all’assoluta bellezza dell’incontro
con quanto si sarebbe voluto dare
e si è perduto nel concedersi
all’aria, alla carica disumana
di misoginia e codardia.
Nella bracciata che scivola via
contraria, svapora la nostalgia
per la vita precaria, sognata,
in apnea conservata, dietro
limpida natante poesia.
Su La Vasca
Alessio
Alessandrini
È quando la parola si schioda dal suo corrispettivo di abitualità, del resto pur utile per comunicare normalmente, che essa si rende
imbarazzatamente disponibile per altro, un altro non ben decifrabile, che è come un inconscio di molte strade con i rispettivi detti, e uno di
essi, quasi servisse a perdersi di più, anziché orizzontarsi, indica che andando verso quei paraggi ci si può imbattere. (in un equivoco
gioco a nascondino), con essa stessa in persona, la poesia e stop. È come un’età senza averna, e lì comincia la scrittura in versi di chi scrive.
Un battesimo in attesa di decidere quale sarà il nome di chi la penna, in tale ambito, tiene in mano. Una iniziazione con se stessi, andando
a pescare parole in profondissima quiete o lì accanto, sulla prima bancarella della più trascurabile fiera. E nasce la forma e si lascia
sorprendere il ritmo e ogni testo sembra esaurire il mondo che deve essere detto e subito poi torna a dover essere rinominato con ancora
più necessità di prima. E così via e similmente mutando e assestando, finché i testi poetici scritti sono inequivocabilmente attribuibili
all’autore, con la stessa certezza della prova genitoriale o della irripetibilità della singola impronta digitale. Allora, l’avventura è compiuta
e fino a che non accade, è la stessa sirena di Ulisse che non fa sconti ai naviganti; mai.
Giampiero Neri - Guido Oldani, nota introduttiva al volume
***
[…]
Le liriche de La Vasca hanno qualcosa di magnetico, attraggono senza sosta, una dopo l’altra, sono un viaggio nel profondo, partendo però
dall’elemento in superficie più squallido che segna la convivenza tra esseri umani: il giudizio senza mezze misure, la struttura
dell’apparenza.
[…]
Francesco Accattoli, da Alessio Alessandrini al Punto Einaudi di San
(https://sequestocosmo.wordpress.com/tag/alessio-alessandrini/), 13 maggio 2009
Benedetto
del
Tronto,
in
“Se
questo
cosmo”
***
81
«Nella vasca ci riconosciamo
Appartenenti allo stesso branco
E il nostro corpo scintilla…».
Sono alcuni versi del poeta ascolano Alessio Alessandrini che ha “dedicato” la sua opera prima alla “vasca”, il luogo magico dove ci
immergiamo per essere liberi di essere noi stessi, senza i condizionamenti che fuori dall’acqua ci rendono difficile la vita, perché ci
impediscono di vedere limpidamente, bendandoci gli occhi.
[…]
Scaturita da un’esperienza personale vissuta - un’assidua frequentazione della piscina - la raccolta, costituita da un corpo di trenta poesie
senza titolo, si lascia leggere tutta d’un fiato, stimolando sensazioni, emozioni e riflessioni di valore universale perché la vasca è metafora
della vita, del percorso esistenziale di ognuno di noi.
E Alessio, quando si immerge nell’acqua, è felice, perché nella trasparenza di questa riesce a vivere intensamente, e vede anche gli altri
xxxx
Alessio
Alessandrini
sereni come lui. Nuotare lo rilassa e gli consente di superare l’ipocrisia, i silenzi, gli imbarazzi che in altre situazioni prova con i suoi
simili. Un ritorno alla beatitudine dell’immersione nel liquido amniotico che si concretizza nell’abbraccio con la Madre nell’acqua della
vasca, simbolo della donna in senso lato, donna madre, amante, figlia, sorella, amica…
Ma, nota quasi con un sentimento di amarezza il poeta, c’è chi resta a bordo vasca, scegliendo di vivere ai margini dell’esistenza, per
mancanza di stimoli, di coraggio e rifiuta la comunicazione con i suoi simili, con il mondo esterno.
Leggendo i versi di Alessio si respira un intenso anelito alla libertà, volontà di liberare l’anima dalle sovrastrutture sociali che la
opprimono e comprendiamo che per lui il contatto con l’acqua è l’incontro con la poesia stessa, il cui senso si affida alla parola colta nella
sua essenza assoluta, alla maniera di Ungaretti. La vittoria della parola di cui la poesia si nutre - intesa come sacralità e impegno, ascolto e
ascesi - per dare un senso alla vita.
[…]
Erminia Tosti Luna, da La vasca - Opera prima del poeta Alessio Alessandrini, in “flash”, anno XXX, n° 378, settembre 2009
***
Quando rileggo La Vasca di Alessio Alessandrini, quando scambio qualche e-mail con lui, sempre torno a pensare o torniamo a parlare
della necessità di una “terra di mezzo” viva e pulsante, una pausa liquida e purissima tra le cose che camminano affaticate sulla terra dura
e secca.
È lo stesso Alessio a confidarmi che La vasca, a suo modo, è una Terra di Mezzo, il luogo del sentire discreto, del fare poesia senza
compromessi, del vivere ossigenato, limpido e acquoso, della tensione tutta buona dei tendini. Finiamo col vederci pupille sbendate e
liberi dai pesi e dalle infrastrutture nel giro di pochi e buonissimi versi.
La Vasca è, dunque, una sospensione pura e necessaria.
Ed allora ecco che Tommaso, il ragazzo con qualche anomalia, ritorna - in acqua - alla sua «normalità risanata che lo eguaglia alla miglior
specie umana», oppure ecco chiarirsi agli occhi del lettore l’abbandono dell’estetica per la cruda e nuda verità dei corpi, quei corpi che
vanno a ricongiungersi all’acqua Madre, metafora di un certo «ritorno al principio, all’appena prima» che ci rifà uguali e sinceri (magari
perfetti) di fronte al clamore del mondo, ai suoi disastri visivi, ai suoi rumori osceni.
Ritorno, se vogliamo, ad un’ipotetica enorme placenta.
Ci ritroveremo a sentire tutta nostra, durante la lettura di queste poesie, un’ortodossia della Vasca - come dice Alessandrini - cui ritornare
per fare della “discrezione” la natura ricomposta di noi stessi.
Anna Ruotolo, Quella Vasca come «sospensione pura e necessaria», in “neobar” (https://neobar.wordpress.com/2009/11/24/alessioalessandrini-la-vasca/ ), 24 novembre 2011
82
Da Somiglia più all’urlo di un animale
Alessio
Alessandrini
Da ESTINZIONE (L’ANIMALE GUASTO) - I. METEOROLOGIA
GENEALOGIE CONTEMPORANEE
Le autostrade agonizzano di gialli fari,
sagome al buio malcelate,
nebulizzate particelle sui vetri,
sottoboschi di foglie incartapecorite,
si gettano bendate sul lunotto anteriore
e un brumaio di neri passanti
insacca il gelido alogeno delle piazze
con plastificate presunzioni e
conferme di avanzi.
Oggi alla conferenza Ezio
ha dichiarato con autorevolezza che:
È davvero morto il padre.
83
Il mio lo è da tempo con le nodose rughe
spalmate sul viso e i radi verbosi silenzi.
Io come molti presumo di essere ancora
vivo, almeno per poco, io e il mio
progetto genitoriale in archivio,
sepolto, in letargo, nelle tane.
Francesca parla di amore,
Valentino, intanto, soffia poesie bellissime,
ho deciso di dirglielo, anche se
forse loro sono uno tra i tanti sepolti,
come il figlio mio non nato, e
il padre di cui parlava Ezio,
o il mio, disarcionato,
l’inverno affilato dietro i passanti,
nelle vite abbondanti, intascato
nelle piazze ossidate, nelle auto,
nelle autostrade sanguinanti.
Le sagome intanto nei sottoboschi,
semivivi o semimorti,
celophanati a puntino
le abbiamo occultate.
Eppure io scrivo.
Forse è una lapide che scrivo.
LA ZATTERA DELLA MEDUSA
Alessio
Alessandrini
84
Il sospetto del mare dietro le case
ti spaventa, quell’odore umorale
che fino a ieri accendeva ricordi
e somiglianze, ora trama
come una guerra sottile oltre le cose:
l’attesa del crollo imminente,
l’onda gigante covata dietro a questo
niente annidato ai suoi gironi infernali;
l’automobile, il passaggio pedonale,
la pista ciclabile, il sottopasso,
la pensilina in eternit, il binario
ferroviario e tutte queste strade
ferrate, forzate, violate dal vento
e dalle sue ombre brumate di iodio
- di io e di odio.
La quotidiana dose di onde radio,
il pupazzo affacciato al quadro tv
e tu nella disperata ossessione
di avere una sola goccia di sale
in zucca per prendere un legno
e darti alla fuga, in mare aperto:
quattro rami incrociati, una vela
bianca senza zavorra di bandiera,
Circe oscena sulla riva continentale,
a gonfiare scaltra il suo vano
petto, incagliato
al letto disfatto,
a tutto questo
informe
cemento.
TUNGSTENO
Agli amici dell’Osteria M481
Alessio
Alessandrini
Se il nostro motto oggi è quello
del vino oggi e domani pure
come non entrare all’osteria
M481 e ritardare il capodanno
ubriachi di novecento e
rosso velluto.
Dicembre arroccato davanti
al mare, il suo sciabordare
sintetico negli occhi di Scilla,
gli gnocchi alle verdure,
la faraona e l’immancabile
lenticchia con fratello zampone.
85
Duemiladodici anni e qualcosa di più
gettati alle spalle e sentirsi in piena
belle epoque con il tannino su di giri
e la Bovary dei nostri tempi,
con un nome un po’retrò
sovietico o da bagascia
da marciapiede:
il corpetto di pizzo, lo strazio delle
efelidi offerte alla pubblica libido
macchiata di caffè e rossetto,
in questo semi tetto
che sa di antico e assenzio.
…………………………………………………………..
Assiepati dietro lo slargo del tempo
crederesti di trovare la carrozza e
quattro bianchi cavalli al traino
sulla soglia di questo nuovo anno
profetico, invece è un autotreno
a tirar con sé l’autostrada e
un’altra anonima alba millenaria
mentre un binario lontano,
lontano sferraglia agonizzando
come un filo sottilissimo
di tungsteno.
Da ESTINZIONE (L’ANIMALE GUASTO) - III. BIANCO
Alessio
Alessandrini
IL POSTO MIGLIORE
a Francesco Scarabicchi
86
“Qual è il posto migliore, Francesco,
dimmelo tu: quello esterno
da dietro il plotone d’esecuzione
prima delle sedie o al centro, nel cuore,
aperto alle oscene ventate di bora,
al fortunale della parola?
E poi cosa sono gli astanti,
ombre o deserti, contanti
in via di scadenza? E noi
che facciamo il verso ai versi,
così innocenti e aperti
non siamo noi quelli
davvero scoperti,
offerti al colpo finale,
al proiettile,
alla morte
cerebrale?”
STANZE D’ALBERGO
a Remo Pagnanelli (in memoria)
Alessio
Alessandrini
L’indomani, certo, occorrerà
con deferenza e infame zelo
abbandonarla questa vacanza
di pochi metri quadri arredati
dove abbiamo gettato le ancore,
provvisorie, navigato, a volte,
perpetrato il duro inganno
di sconfiggere la sorte che
ci vuole solitari con i nostri
inciampi di pelle morta o sebo.
Dovremmo recuperare i resti umani
le tracce pelviche, il lenzuolo
affebbrato, gli asciugamani
perché nessun passo estraneo osi
sconsacrare quello che ci è stato
concesso mescolare.
87
Eppure resisterebbero le orme e
un battito soffice che sa di animale,
la consistenza impalpabile,
la consorteria della carne coniugata,
l’impercettibile bigiotteria del vivere
che ci conferma angeli ancora troppo
teneri: con mani e piedi e fiati piombati,
dalle ali impantanate tra il profumo
delle stelle e la moquette alluvionata
di polveri e capelli. Ma che resti
almeno il sudore o il suo alone
bianco: l’aver sfidato il cielo
in queste temporanee celle,
arnie da abitare appena e
dover maledettamente
rendere.
BIANCO
Alessio
Alessandrini
Galleggiare nel bianco è sintomatico
del passo che arranca ma non va,
delle nebbie che ci portiamo dentro,
calcificate, ossidate sirene al vento
informatiche o televisive, smarrire
la propria specie nel guaito
indifferente della pubblicità.
Viviamo in questa assurda pania
di illiberale libertà,
funzionale alla caduta,
alla centellinata dose
di morfina, stasera
che una smania
accelera i nostri battiti
inevitabilmente.
Occorre prendere aria,
uscire sul greto,
guardare un po’ più in là.
Il bianco ora è totale.
Ci tocca riparare.
La poesia è il solo radar
che ci potrà salvare.
88
Sobilla il sognatore
gli occhi chiusi
perché il buio
è meno buio
- oggi del bianco
della realtà.
O piuttosto l’amore …
Da ESTINZIONE (L’ANIMALE GUASTO) - IV. LA PANCHINA AZZURRA
*
Alessio
Alessandrini
Il mare rimugina il suo rancore a voce bassa
come quando si pensa un amore perduto:
è stata ieri una giornata di burrasca
lunga ma oggi non c'è nessuna reliquia:
quattro stracci colorati,
quattro cani al pascolo,
una donna che coglie mitili,
un aereo che sorvola veloce
in una morbida curva
tanta malevola predestinazione:
un filo bianco che sutura.
Quale stessa orma di pace resiste?
C'è una certa ostinazione nelle onde
nel loro barrito bianco,
in questo tornare sempre alla stessa voce.
Puntuale.
89
E il bagnasciuga ha un colore atono
violaceo, sarà stato per il giorno dei morti
o dei santi o di chissà quale eroe assunto
e dimenticato, anche il nostro corpo
è volato e non ci resta che questo
passeggio in un tempo sublunare,
contaminato.
Anche noi nel cuore
- sul molo - il vento
a sfiancare.
Alessio
Alessandrini
*
Ho pensato poi che avrei potuto iniziare a camminare
lungo questo pezzo di costa, proseguire senza sosta,
una migrazione senza confini, costola dopo costola,
come i mufloni in quel documentario della Disney
che avanzano per chilometri e chilometri sulle loro stesse tracce
sempre in costante processione, percussione.
Un cammino senza soste, eterno, lungo il filo
liso del tempo. Non è poi forse quello che facciamo:
questo correre, schivare colpi, attacchi delle prede
per imbastire un luogo, una residenza dove restare,
una vacanza dove riconoscersi e appendere
finalmente le scarpe al chiodo, non voltarsi.
Ma poi forse il nostro è un continuo navigare
un porto dopo un altro porto, dissepolto,
un parto dopo un altro parto, cesareo,
e non esiste approdo se non nello stesso camminare.
90
PUNTERUOLO ROSSO
Alessio
Alessandrini
Un vecchio ancorato al suo trono
bara alla corte del sole
prende le misure alla sua vita
senile, distanzia se stesso
dai rami della notte.
È un imperatore, un Budda
osceno, dalle grasse speranze
avvizzite in raucedine e cataratte.
Immobile come un tronco
emarginato sull'arenaria
solleva la sua faccia sfrontata,
gli occhiali da sole un paralume
alle lacrime, la bocca magra.
91
Lo diresti un gatto sornione
che spia divagando
la sua landa smemorata,
mentre alle spalle il mare avanza
nella sua prospettiva più azzurra,
supera la riva dilaga oltre le sponde,
tacca dopo tacca s'arrampica
alla palma che è proprio dietro lui.
*
Cosa poi accadrà perché
sia frantumata questa ipnosi
salda del mare a mezzogiorno:
quattro palme in stormo fossile,
un cartello azzurro disarcionato,
curve come origami segnati
sull'arena prima ancora che
il vento la mieta.
Quale stasi adunca alle nasse?
Quale storia d'aria, infiltrata, senza passi?
Ecco un uomo sbagliato
trafuga un poco di sabbia
sconfinando tra le canne:
per quale occulta sepoltura?
Da dove questa pazza premura
di portare il senso del mare
altrove, in altura?
*
Alessio
Alessandrini
A grappoli come dopo l'esplosione
vanno munti dal rancore
a gruppi di quatto o cinque,
a coppie, a volte, con i paltò
assiderati, le buste impiccate, i cani.
Non diresti persone
ma solo orme in fuga
dai tenui contorni, sulle spiagge
riversate e senza alcuno
scintillio nello sfiorarsi.
Quale muta devastazione si è compiuta?
Quale apocalisse sotto traccia?
Cosa questo vagare senza trovarsi?
Ognuno con la sua offesa murata.
92
Eppure non fiacca quest'aria di maestrale,
né questo mare col suo incedere ossesso,
o la proiezione assonometrica delle case
con i retaggi neri e le finestre
occultate. Tutto regolare.
Tutto nella sua pace sconsiderata.
Contaminata.
Da ESTENSIONE (L’ANIMALE GIUSTO) - I. PRONOME PLURALE
ATLANTIDE
Alessio
Alessandrini
93
Tu, promettilo che non li potrai
mai dimenticare i limoni
trapiantati sottopelle,
il giallo loro cuore sospetto
di cui provammo il vago
sentore, il colore dei tetti
verdi a strapiombo sul mare,
l’azzurro che si ricompone
e scompare dopo ogni tornante
in un contorno di muri a secco
e pergolati, anfratti di glicine
e arterie fin dentro alle dorsali;
e i sapori dolceamari:
le limonate, le paste alla Norma,
i babbà, gli arancini amalfitani,
i bianchi di lino, le vane
barche trapunte all’orizzonte,
i faraglioni e il borsalino,
quei teatri napoletani all’aperto,
il concerto dei quaglioni,
degli autobus arrampicati
a Ravello, a Capri, a Positano,
le scaglie d’azzurro sulla
nostra mano, la mano
contro il vetro a confermare
che non era un calcinato
pittare tutta quella
anima sorrentina inerpicata,
abbarbicata sul litorale,
pronta a sfaldarsi a sfarinare;
la luce affebbrata come il mandolino,
il sassolino nero sul plantare
e la salsedine e il contare dei giorni
sazi di borghi e sapori,
lo sbocciare argento delle albe,
dei limoni lo sbucciare,
tutto, tutti, affratellati,
affastellati sul bordo sul limitare:
un paradiso accanto al Paradiso
pronto a crollare a liquefare.
Ma tu promettilo, che resisteremo
in equilibrio sopra a questo
estuario lungo il precipizio
per non precipitare.
Alessio
Alessandrini
94
MAQUILLAGE
TRABUCCO
Mi viene giù la pelle a stucchi
e resta vivo l’osso-prensile
su cui soffi a coagulare
la primitiva cellula epiteliale.
Sono un corpo fossile,
un calco da covare nelle notti
minerali, offerte al sesso,
alle carezze indugiate nelle piaghe,
alle vocali temperate negli anfratti.
Mi vieni addosso, tu con i tuoi occhi
carichi e si tesse una primigenia
premura di pori e nei, di poi e noi
alluvionata negli specchi.
Così si avventura la nuova
vela, la vena fino al (mio) cardio:
è azzurra, è dentro, tenera
come quando il mare assedia
e pulsa carezzando l’orto
languido dei trabucchi.
La rima dei tuoi capelli arresi
alla legge gravitazionale:
sul parquet con i peli e gli acari,
le orme screpolate del plantare,
con il sebo e la polvere,
la forfora e qualche lacrima
munta di sudore, questo orrore
errore dei nostri resti organici,
orpelli di noi senza più vigore,
si fa storia di noi post-umana.
Anche l’amore ha i suoi residui privati
gli sforzi assecondati per non dimenticare
da dove veniamo e dove andremo,
i segni di una lunga resistenza,
e lo sdegno per non aver lottato
abbastanza contro questo cielo
converso che ci vede abbandonati
al nostro “perlomeno”.
Eppure siamo anche ora noi
giusto un po’ di trucco a filo
per rendere giustizia al cuore
e allo specchio sul comò appeso.
Alessio
Alessandrini
BUONA NOTTE
Il tuo volto addormentato
levigato dopo una giornata
di allarmi, quel sordo starmi
accanto prima del baratro
prima degli inganni, degli urti,
dei sogni urticanti, lo poggio
piano sopra al comò
poi spengo la luce sottile
e il bagaglio di parole arrese
sul guanciale di un libro
aperto, è così che aspetto
che torni domani.
Tu apri gli occhi e sciogli
alle ore che verranno
le loro tiepide mani.
95
Da ESTENSIONE (L’ANIMALE GIUSTO) - II. ORIGINE
2130 g. - MANDATA A MEMORIA
Alessio
Alessandrini
I
L'origine del verso è nell'omero
bianco, lungo, sottolineato,
Omèro o Publio Virgilio Marone,
il piede del metro è epica,
canzone che nel liquido
amniotico si fa singhiozzo,
è il nodo alla gola, sul gozzo,
del genitore.
II
La poesia che ancora
non ti possiamo cantare,
la poesia che verrà e
porterà nel suo sillabare
il tuo peso, la trama
lieta del tuo nome,
che ora per pudore
voglio solo pensare.
96
A te l'etica di mandarla
a memoria, par coeur;
fare nel tuo primo vagito
mito la nostra semplice storia.
Alessio
Alessandrini
3100 g. - L'ANIMALE GIUSTO
a Diego
Guarda come apre bene il becco (Milena)
Da dove questa voce sottilissima frontale
Intessuta da un fondale marino o dall'altissimo cielo
Emargina il nero intorno nel suo inarrivabile arrivo.
Giusto ora una galassia ha acceso il suo lume
Originale. Risale il suo nome da un milione di scale
e noi lo accogliamo.
97
Su Somiglia più all’urlo di un animale
Alessio
Alessandrini
[…] …mai titolo potrebbe essere più indovinato! … È l'urlo dell'animale guasto che prosegue con l'urlo crudele del mare della Panchina
azzurra (bello questo titolo!). Intanto parliamo di questa prima parte, molto corposa e molto dura. Cominciamo proprio dai titoli. Alcuni
bellissimi (Non ci sono più donne coi capelli bianchi), trasversali, indiretti... Sia delle singole poesie che delle sezioni e dei “sotto insiemi” delle
sezioni. […] Alcuni titoli di chiara origine magrelliana continuano felicemente a martellare; li ritroviamo dappertutto come insetti molesti,
anche all'interno delle poesie, cosa che mi è molto piaciuta! C'è uno stringente rimbalzare da un argomento all'altro, continui rimandi,
parole ripetute che passano da una poesia all'altra, che obbligano al ripensamento; ci sono nuclei ossessivi che non lasciano in pace, che
costringono a rileggere e non danno la possibilità di assuefazione al lettore. L'idea di compattezza è totale. Poesia debordante, barocca,
caleidoscopica, molto ricercata [...]. C'è una denuncia civile sempre presente ma sempre indiretta, cosa che approvo molto … Il
tema dell'assenza (sento belle e pregresse letture di M. De Angelis e di F.), in BIANCO, è trattato in modo personalissimo e davvero poetico
[…]. Il piccolo Trasloco mi piace tutto. Delicato.
Il mare senza occhi, senza anima, malefico è molto fascinoso («fa estate e crema solare»). Belli «gli avanzi di barche dai nomi / arresi…»
«Leggere poesie di fronte al mare», «Un filo bianco che sutura (Antonella Anedda) … Anche noi nel cuore», «Da dove questa pazza
premura…» […]
Terre di mezzo è effettivamente una sezione di transizione dove si fanno i conti con la memoria, con le esperienze primarie, gli affetti, la
vecchiaia e il “continente madre”. […] Bellissima la III parte di Blu di china.
Passo al sottoinsieme LA MADRE (poesie fuori della vasca), un intero poemetto in controcanto al tuo primo libro La Vasca, dove tutto si
svolgeva all'interno, ma dove affioravano già le carpe. Carpe che ritroviamo qui insieme con le rane, animali anfibi che vivono fuori della
vasca. Vasca che è un «ergastolo di femminile felicità». […]
Si arriva alla sezione ESTENSIONE, dove magicamente L'animale guasto, per un gioco di due sillabe, quasi un tocco di bacchetta magica,
diventa L'animale giusto. […]
La poesia Fotografia è fra le più belle di tutta la raccolta. Anche La bellezza e Sleeping in the car sono potenti, così come potenti sono
questi versi che ho annotato e tratti da La bagnante bretone: «…e si ricamano sul passaporto / le voci essenziali / quella che basteranno /
quando saremo ritornati / per farci onestà.». […]
Anna Elisa De Gregorio, da corrispondenze private del 7 e 9 maggio 2013
***
98
Alessio Alessandrini, quasi fosse critico d’arte, sembra operare una descrizione dei graffiti che la vita incide, a volte con sbadata crudeltà a
volte con disarmante dolcezza, sul volto e sul corpo degli uomini, dove ognuno si riconosce sia vittima sia colpevole in quella che è la
razionalissima eppure assurda «manutenzione del Creato». Sempre che Creato si possa chiamare l’odierna Zattera della Medusa, dove i
naufraghi, pur fra merci e manufatti di ogni tipo, si cibano ancora l’uno dell’altro: il romantico Gericault non avrebbe immaginato epilogo
più banale e contemporaneamente più doloroso per l’umanità.
Tutto è bianco nei versi di Alessio. Reso bianco da nude lampade senza mistero che pendono dal cielo e non si sa se qualcuno le ha messe
lì appositamente per gettare una luce senza remissione e senza pietà. E l’autore non si sottrae: usa quella luce impoetica per mostrare tutto,
senza lasciare nell’ombra (o nell’ipocrisia) nessun aspetto che denunci la miseria e lo smarrimento della carne, la violenza che essa subisce
soprattutto per via delle parole, per via di una falsificazione patetica della realtà. Il mandato poetico e umano, dunque, è quello di
raccontare tutta la verità, anzi, far sì che la verità gridi, in modo animalesco e disperato.
Alessio
Alessandrini
«Il guardare, il toccarsi, il soffrire» sono relegati oggi in angoli della vita, non importanti, secondari rispetto alle nuove attività primarie:
vendere, comprare, comunicare. Verso quale disonorevole solitaria morte ci avviamo! «Un lungo sentiero di detriti» ci aspetta, non per
colpa del sindaco o del ministro che non hanno asfaltato la strada, ma perché la strada non esiste e tocca a noi inventarcela, pur
dolorosamente coi piedi feriti, porto dopo porto e parto dopo parto, poiché solo il camminare fa la strada, come insegnava Antonio
Machado. Anche se la madre si allontana sempre più verso ciò che è perduto, e con essa si allontanano le certezze, il focolare dell’infanzia,
il calore stesso del sole; rimane solo il mare, inafferrabile, «in continuo fermento», che rimanda all’inquietudine e alla bellezza, non certo
quella menzognera dei corpi patinati, ma quella autentica dell’anima che traspare nell’impudico passare degli anni.
La salvezza è dirsi a «domani», perché equivale un po’ a dirsi «ti amo». La salvezza è abitare il pronome plurale, non per ingannarsi nel
ritrovare l’oggetto perduto, che è perduto per sempre in una immemorabile lontananza di tempo, di spazio e di parole, ma per vivere la
nostalgia, quella dolce e voluttuosa malattia del ritorno, magari incarnandola in una dolce creatura appena nata, il cui nome è più
spagnolo che italiano, che magari s’immaginerà un giorno quarantaquattro gatti in fila con le code allineate, che magari dirà Papo Papone
e vorrà andare in gita scolastica a visitare quello Stretto fonte di tanta poesia e di tanta vita che si nomina Scilla e Cariddi, che magari farà
del canto e della «poesia che verrà» il suo cruccio e la sua liberazione.
Lucilio Santoni, In visita allo stretto, appuntamento in mare aperto, prefazione al volume
***
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In questo libro, Somiglia più all’urlo di un animale, Edizioni Italic, 2014, il secondo dopo La vasca, pubblicato nel 2008 per le edizioni Lieto
Colle, Alessio Alessandrini raccoglie le liriche scritte tra il 2008 e il 2013, ed alcune di esse sono già state pubblicate in antologie.
Il libro, il cui titolo è tratto da un verso di Paolo Volponi posto in esergo, presenta una articolazione in sezioni che più che segnare
differenze tengono, tutte insieme e in modo diverso, il filo di un dettato che delinea un disegno ampio e compatto, con rimandi e ritorni
che sgranano i tempi e i temi di un canto unico, un’opera in cui i toni e gli accenti saldano le pieghe di una ricerca che si distende dal mare,
o meglio dalle tante epifanie del mare, a quelle delle diverse terre di mezzo che custodiscono le pelli del vento e le vie del ritorno. Tuttavia i
capitoli del libro offrono, con i loro titoli ed eserghi, una indispensabile guida per capire il viaggio di Alessandrini tra rotte di terra e di
mare, tra approdi e miraggi di porti. Così L’estinzione (L’animale guasto), Trasloco, poemetto in cinque atti, Bianco, La panchina azzurra, Terre di
mezzo, La madre ( Poesie fuori dalla vasca), Estensione (L’animale giusto) e Origine scandiscono non solo il ritmo del libro ma rappresentano
anche, e forse soprattutto, l’indicazione delle stazioni di attraversamento del suo itinerario, le città o le isole della sua costellazione tesa tra
terra e mare. E il mare, i suoi moti profondi, il farsi delle onde, il suo ancestrale battito, le sue rivelazioni e i suoi colori alimenta il respiro
del suo verso. Qui la metafora del mare trova un forza nuova, che supera di slancio il tanto già detto, per costruire una configurazione
nuova ed originale. Ma il mare, cioè la natura, implica lo sguardo e l’ascolto dell’uomo, come il cielo implica la terra e viceversa. Così la
condizione umana, il suo rivelarsi e tessersi intorno ai nodi di sempre trova nuovi territori da esplorare, nuove domande, nuovi nodi da
sciogliere. In questo paesaggio troviamo uomini dai contorni svaporati alle prese con le conseguenze delle tante assuefuazioni, solitudini,
sopravvivenze e ingegni quotidiani. E scrivere è non soltanto la resistenza temeraria, il tentativo di aprire un varco nel tempo per prendere e
proteggere il sottile filo del nostro esserci, ma la testimonianza potente dell’unica voce che sa accogliere e restituire le altre voci, quelle
della neve e del mare, quelle del cuore e quelle delle nostre mani annodate e nascoste in tasche sempre più grandi. E le parole, quelle che
non riusciamo a nascondere, o che non vogliamo più nascondere sono le uniche vele delle nostre possibili, o impossibili, navigazioni
quotidiane. Non a caso quindi La preghiera alle parole, apre la sezione intitolata Bianco, preghiera che si chiude con l’invocazione «Non
privarci della loro voce, / Signore, non liberarci dal male. / Dalle loro metastasi. Dal fortunale / Così sia.».
Qui c’è, a mio parere, uno dei luoghi della ricerca poetica di Alessandrini, la straniante semplicità del bianco, da quella della neve a quella
del foglio di carta, il bianco come colore identitario della terra - in questo senso è terra anche il mare - delle possibilità, intonse come un
libro ancora da aprire o come le promesse da conquistare e la ruvida necessità del nero delle parole, la scia faticosa dei nostri passi che
rompono l’equilibrio sospeso delle attese e aprono all’irrompere dei tentativi. Solo provando a cercare la nostra verità potremo scoprire
«di aver avuto un colore e ora esserne senza». Scoprire la nostra perdita del bianco, del bianco contro cui si può spegnere anche il tempo, è
certamente doloroso, ma è necessario conoscere la perdita per provare a cercare il nostro colore. È qui che Alessandrini situa il posto della
X
Alessio
Alessandrini
poesia, in questa ricerca, nel cuore annodato dalla domanda su quale sia oggi il suo posto, tra i tanti «plotoni di esecuzione e la regale
stanza / nel silenzio che pare / di tutti e di nessuno».
Allora la permanenza della poesia e il suo potere di vincere l’osceno - inteso qui nel suo significato etimologico di cattivo augurio - diventa
la posta in palio della sfida.
Per questo occorre vincere i cattivi auguri delle ipocrisie e delle rese, liberare il respiro della risacca - il mare non tollera cattivi auguri - e
offrire la spiaggia alle «solitudini oranti e oracolari».
Solitudini che possiamo riconoscere ed ospitare solo se ritroviamo il coraggio di riscattare dal lento corrompimento i nostri «esercizi
umani. Guardare, toccare, sentire / sono verbi che bruciano / per questo più spesso preferiamo / abbassare lo sguardo, declinare l’invito, /
lasciare che il corpo segua / il suo tintinnare fino a sfaldarsi.».
Per questo «stagniamo più che avanzare.».
Avanzare, liberare l’acqua - anche questo è un luogo fondante della poesia di Alessandrini - rompere gli stagni fino «alla pazza premura / di
portare il senso del mare / altrove, in altura» è forse il significato, il valore di questa conquista/conoscenza, del viaggio «dall’animale
guasto all’animale giusto».
La sezione La madre (Poesie fuori dalla vasca), presenta testi che, come avverte l’Autore nella sua Nota, appartengono alla prima raccolta
pubblicata con l’omonimo titolo e da questa ne sono stati esclusi solo per ragioni editoriali. Posti qui essi, oltre a costituire un ideale
continuità del suo lavoro, consentono di approfondire ulteriormente le trame sottili e tenaci che tengono, tra differenze, confini e identità
profonde, le acque chiuse, calde, amniotiche, materne della vasca che contengono, proteggono e quelle aspre, aperte e libere del mare.
Decifrarne l’alfabeto comune, capirne il linguaggio, individuarne la matrice generativa è la sorgente - per restare nella metafora - della
poesia di Alessandrini. Sorgente che torna, nel senso biologico, nell’ultima sezione Origine, le cui poesie dedicate al figlio Diego inverano
l’auspicio per cui «Dirsi “A domani” è un po’ come dire “Ti amo”. Il cuore duplica lo sforzo / votato alla pulsione plurale / e ci
apparecchiamo al Noi, / al giorno in cui saremo / mattoni impastati per nominare la Casa. Allora, solo allora abitare il pronome plurale
significherà distanziare lo sciame / di me e degli io / che perturba / il lessico sedentario del cuore.».
Si sarà forse notato che ho più volte usato il temine luoghi per definire gli aspetti peculiari della poesia di Alessandrini. Ho fatto questa
scelta perché fra le tante definizioni di poesia, questo libro mi ha richiamato quella proposta dal poeta e critico Nicola Gardini per cui «Il
poeta è innanzitutto un geografo: la sua scrittura è un sistema di luoghi e di presenze». Potremmo dire che il libro di Alessio Alessandrini
è il suo atlante, il suo sistema di luoghi poetici e di presenze che raccolgono dalle mani delle onde le conchiglie delle parole e le lanciano
nel mare, che poi ce le restituisce con il suo canto, che il poeta ascolta, decifra e offre a chi gli offre ascolto. In questo dono possibile
dell’ascolto vi è, in fondo, la ragione della sua poesia e, forse, di ogni poesia.
Leandro Di Donato, intervento effettuato in occasione della presentazione tenutasi a Civitella del Tronto (TE) il 4 giugno 2014, nell’ambito
della rassegna “Alle cinque della sera”
***
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[…] …ho letto la tua raccolta. Molto delicata, molto padrona dei mezzi, (mi sono piaciute soprattutto le fughe di parole fra esposte, al
mezzo e così via, il generarsi di parole da parole), molto misurata. Molte le poesie che ho trovato magistrali (Neve, Pettirosso, Semplicità, Il
mare rimugina, Ho pensato poi, Vento, Trabucco - tanto per citarne alcune), molte quelle che comunque sono di grande levatura (Meteorologia,
Tungsteno, Stanze d'albergo, Buona notte, la sezione finale su Diego, tutta). Bello come esce l'amore, caldo, sensuale, risolto, apparentemente
nel perimetro di una storia riuscita e salda; innamorata e dolente l'attenzione alle cose - e al mare. Tutto molto bello. […]
Alessandro Fo, da corrispondenza privata del 24 luglio 2014
***
La lettura di queste raccolte poetiche di Alessandrini (perché di più raccolte si tratta, riunite in un solo volume) coinvolge notevolmente
xxxxx
Alessio
Alessandrini
sul piano emotivo ed intellettuale. E questo è già un primo, impressionistico se si vuole, ma importante segnale del valore dell’opera;
specie se si tiene conto di quanto tanta poesia moderna e post-moderna si affidi spesso ad un ermetismo algido ed esoterico (o anche ad
una allusività molto implicita ed ellittica) che troppo spesso ostacola, anziché favorire, quel coinvolgimento. Certo, anche la poesia di
Alessandrini è difficile, poco incline a spendersi sul versante della comunicatività; vi si incontrano callidae iuncturae assai spericolate (ferita
gesuita o incensurato rumore) e di ardua decifrazione. Ma nel complesso si tratta di una poesia chiara e intensa, di una scrittura sorvegliata,
densa di significati, giocata con maestria su alcuni motivi guida, fantasie simboliche e ricorrenti del vissuto interiore che si sviluppano e si
oggettivano in efficaci variazioni sul tema. Notevole la sezione sul mare (La panchina azzurra): il mare come formidabile specchio
dell’uomo. Nel caso di Alessandrini il paesaggio marino diventa anche e soprattutto frontiera tra civiltà/in-civiltà e natura, aggressione
ottusa e offensiva dell’una e resistenza sacra e implacabile dell’altra; le cicale umane contro la stereofonia delle onde; il luogo dove si
esibiscono le oscene dis-fattezze dei nostri corpi/cadaveri; ma dove è possibile una - stupenda e commovente - visione femminile nuda sì,
ma quasi disincarnata, santificata dalle onde (c’è una donna nuda che si bagna / che bagna la sua schiena / il mare la fa santa / accarezza impazzito
la sua pena).
Altre poesie sono ispirate dalla grande neve del 2012. Qui l’alterità uomo/natura sembra riprodursi in termini di reattività interiore
(oraziana - direi quasi) rispetto alla costrizione di inusuali e surreali condizioni esterne. In Neve è particolarmente suggestivo quel
rintanarsi nel bozzolo polveroso della casa, nel microcosmo domestico che fomenta memorie, riqualifica abitudini e gesti quotidiani: le
calze affebbrate sul termosifone / il bisbiglio di un libro, le nostre / parole soffuse, la memoria di noi / spaginata nel lento sfarinare delle ore. Notevole
in questo caso la pregnanza dell’ultimo verso dove il battito silenzioso del tempo vuoto si percepisce - visivamente - in una col cadere
lento, minuto della neve sui vetri.
Diversi altri punti (o passaggi) delle raccolte di Alessandrini meriterebbero un’analisi ravvicinata. Ma forse mette conto soffermarsi di più
intorno a certune fantasie simboliche e ricorrenti cui già si accennava. L’una è la tendenza monocromatica di molte descrizioni, dove il
bianco predomina sì, ma in quanto colore non colore, o assenza di colore. Assenza di calore e di vita. È un bianco che non ha molto da
spartire con il dramma creativo di un Mallarmé né tantomeno si configura come una metafora di purezza o di candore: il bianco di
Alessandrini ha talora qualcosa di vagamente spettrale, l’angoscia sottile degli ospedali e degli obitori, della neve che aspetta di essere
infangata, della biancheria che attende di essere profanata dagli umori sgradevoli e dagli effimeri amori del corpo. Il corpo: ecco l’altra
presenza un po’ ossessiva insieme - cioè in significativa relazione - col bianco. Ma anche questo, come si diceva a proposito dei bagnanti in
riva al mare, non sembra sentito gioiosamente, perché anche quando assapora eros avverte la vicinanza di thanatos, la costante percezione
della sua imperfezione, la sensazione assillante della sua ‘sotto-struttura’ scheletrica (Pasto totemico, Metereologia), l’inquieto presentimento
della corruzione. Il bianco e la corporeità paiono insomma - paradossalmente - i lati più oscuri e meno solari della poesia di Alessandrini.
Ma anche, e per ciò stesso, tra i più intriganti e originali.
Paolo Mazzocchini, in “LaRecherche” (http://www.larecherche.it/testo.asp?Tabella=Recensioni&Id=853), 6 marzo 2015
101
Inediti. Da La necessità del corpo (Poesie 2000/2005)
Alessio
Alessandrini
LA RIEDUCAZIONE AFFETTIVA I
Non so, so molto poco dell’amore
(Roberto Carifi)
Giacché un pianto da offrire non ho
come te su cui cadevano le stelle da tutti
i poli addosso per il timore o chissà
per il benché minimo sospetto che
l’amore non fosse più del semplice atto
di un bacio tagliato a metà…
Come sia cosa difficile piangere,
d’alta dignità, l’ho imparato da te.
Ma ancora nessuno che sia detto
maestro, pedagogo, catechista o
profeta da pochi becchi
ha saputo darmi il verbo dell’amore
a me che godo un’invalida laurea
d’alloro e spio i colori del cuore,
miei piccoli passi origliati di straforo.
102
“A viverla la vita da soli - dici A volte non vale: è poco più di niente”.
È questione di compromissione, condivisione.
C’è bisogno di una rieducazione affettiva
- rispondo - perché uno rientri nel gioco
e il corpo tradisca quello che sente.
ARCHEOLOGIA PAGANA
Alessio
Alessandrini
E questo mi basti e non oltre, non altro …
Passo i giorni a coltivare il tuo sguardo
a masticarlo con la cura che ho del pane
lievitato tra i denti.
Il tuo viso e non altro.
Il tuo viso, e il tuo viso ancora.
Assorbirlo fino a farne un mio viso nuovo, provvisorio,
così da potermi sembrare, conservare ogni mattina
ad averlo nelle bende dello specchio
per i giorni che so e non sanno di stare
quelli che dovrò abituare lenti
alle lente vetrine, alle vestigia del vento.
Il tuo viso e non altro del tempo
che levigato ho nelle linee lapidarie della mano
se lo accarezzo per tornare a trattenerlo, raffermo
il pane, il tempo, il vento e il tuo viso ancora
Ancora ancora.
103
…il tuo viso, il mio soltanto.
Per non dimenticare(mi).
BARCODE
Alessio
Alessandrini
Al Barcode entriamo già vulnerati
dal gelo e dal sale, in una stiva
arancione, portofranco prima che
il sonno derubi l’anima sotto al maglione.
C’è un afrore da marinaio
tra le pinte e il luppolo caldo
impastato nelle bocche. Tu
hai lo sguardo che racchiude destini,
isole lontane, all’altro capo del cuore.
Poi c’è Franck, una mappa d’oro
navigata tra le dure rughe e
il ghiaccio degli occhi spenti,
lacrimevoli da vecchio bambino.
“I like you”, la poesia di una mano
flebile sulle pedine della scacchiera,
un libro stanco, l’allumato posacenere,
e la morbida pittrice dal morbido fianco,
anfora da ancorare con le dita
per attingere alla dolcezza di un mare
scalzo, tenace sandalo,
di là dalle case.
104
Forse solo lui non si spezza
al biliardo delle partenze,
ci tiene in scacco nel panno
di gabbiani sabbie e scogliere
mentre ti stringo al braccio
in un affetto feroce che
risale le ere, crudele.
Siamo superstiti pronti ad altro naufragio
tra le onde da cui nessuno ci può trattenere.
GENETICA
Alessio
Alessandrini
E così andiamo a conquistare
la nostra città medievale
spossessata delle mura,
invalida, assediata
dalla cento torri
perenni.
Sembri volerli calpestare tutti
i metri quadri di cemento, e
lasciare un segno su ogni
mattonella zigrinata.
Bisogna stancare i piedi e assecondare
la debolezza del selciato,
perché nulla può avanzare del tempo
se poi devi chiedere, nel rimorso, cosa hai
ingannato inutilmente nel traffico
disanimato dalla lingerie alla copisteria,
o salendo un qualunque piano di un
vecchio appartamento dove ti aspetta
lo spettro borghese di un’amica, in piedi,
il pane in bocca, per cavarti
dalla mano il grave formulario
che fa legge la febbre delle cellule
ma non la genetica del dolore umano.
105
Nell’ora di tornare
il passo si fa leggero, sordo
come di falena che danza sui globi
delle auto, a singhiozzo sul viale:
l’umido scalpicciare novembrino,
nel piumino il reuma invernale.
Ma si deve pur continuare il sentiero:
c’è una cena da apparecchiare,
un ricordo lento da bruciare
con il lampo dei denti.
È cielo da caldi maglioni,
la città di pietra, disfatta ed infida,
tra i neon indifferenti,
spezza le gambe, il respiro,
a misurarla,
ma con la tua mano calda
che lega e riga la pelle
anche la gente pare
meno annichilita:
ardente.
La vita è vita, ad amarla.
Inediti. Da Azimi nel becco - 100 haiku e un avvertimento (2013)
Alessio
Alessandrini
RELITTI
Dopo una mareggiata
sorda, raccogliere
rami sordidi,
farne canneto,
confine o dorso
di flauto:
aprire la voce.
Respingere o
offrire.
*
*
Prima pioggia.
In pozze di memoria
frantumano ombre.
106
Saggia la luce:
marzo veste un intorno
ai muti lutti.
*
Giorno di pioggia
annega tutto un libro:
resta il tuo volto.
GIUDIZI UNIVERSALI
Alessio
Alessandrini
Gabbiani in volo.
Tre queruli enunciati
incurabili.
PETTIROSSO
Nel becco gemma
neve come molliche.
Progetta inverni.
*
Cerco una trama
nella nebbia che ammanta.
Tu, il solo intorno.
*
107
Merlo sul pruno
perde azzimi dal becco.
Gemma il petalo.
Inediti. Da Il giardiniere (2014)
Alessio
Alessandrini
108
ALLARME METEO
A vederci dall'alto
inquadrati da un cannocchiale
o da qualche orbita da
telerilevamento,
così indaffarati a incasellare
presunzione e preoccupazioni
potremmo apparire come
insetti in una palude
infetta, statici e stantii
mentre la pioggia cresce
nell'incetta dei dispacci
si fa temporale, burrasca, alluvione,
ma è un minimale, piccolissimo
rivolo di acqua piovana,
che si avvita in una spirale,
prima di centrare il tombino
con tutto il suo cerimoniale
di foglie morte, formiche, carte
piccoli reati di un qualsiasi
carnevale estivo.
NUOVI REDUCI
Quattro giorni di pioggia ininterrotta
ti sollevano dal quotidiano officio
del giardinaggio serale ma
tu per rassodare un'abitudine
sei lì fuori nel tuo giardino
sulla panca a respirarne il profumo.
Un aeroplano raglia intermittente
nel cielo assoluto, strappa un
sanguinante saluto con il carico
di calamità e speranze, bagagli
disattesi all'hangar arrivi/partenze.
Mentre claudicando un tuo vicino
con le stampelle scivola controvento
mostra osceno il suo di reso
suturando la ferita, alla stessa
longitudine gli fa da contrappeso.
POST MERIDIEM
Alessio
Alessandrini
109
E cosa dire del pallone ossesso
calciato contro il ferro vecchio
di un garage?
Una ghigliottina che continua
spezza la noia africana
del pomeriggio.
Quale selvaggio senso di abbandono?
Quale richiamo? Che rimorso?
Quale urgenza scolpita?
Perché tanto frastuono?
Chiedere ai vicini di affacciarsi
per avere da loro quale condanna,
quale estremo perdono?
LEGNO VIVO
a Roberto e Maura
Levigare è il compito del tornitore
aver cura del legno
assecondarne le venature
darle un regno, sancire
una premura, mentre cadono
trucioli tiepidi ai tuoi piedi
e sconti il pegno della potatura.
Ma sono come lacrime di gioia
quasi che partecipino all'alta
fattura del tuo segno.
Legno vivo anche loro
con la loro vicenda
di abbandono e
decomposizione.
Perché il bello muove
dalla più piccola privazione.
Tu lo sai e la mano
che taglia non ne muore.
LITOTE
Alessio
Alessandrini
ACQUA&SAPONE
Si può ancora fare
della letteratura nell'era
del centro commerciale?
Si domanda il poeta
deambulando nel lapidario
perimetrale di un qualche
Acqua&Sapone
tra smacchiatori e deodoranti,
dentifrici, colliri, sbiancanti,
tutti strumenti vani
di un dettato cosmetico.
110
Questa propedeutica all'igiene
che osa ma non sa trattenere
la polvere sotto al tappeto,
la carie nel dente,
il bubbone sotto l'ascella,
il pulviscolo nell'occhio,
nel paltò la fredda brezza
che ci sorprende.
Sospende.
a Diego
Perché dovrei scrivere dei tuoi sorrisi
appena accennati, del tuo pelo
fulvo, del biancore dell'incarnato,
del rado capello cervicale,
dell'ovale del tuo viso
così tenero da baciare,
a che pro se mi sei accanto
e ti bacio e ti accarezzo
il volto e non mi stanco
di cullare ogni tua tenerezza,
e non ho alcun bisogno di
aspettare o trattenere,
né di ricordo né di suedade,
perché sei qui e sei adesso.
Scriverò di te tra venti anni o trenta
quando ci saremo ormai separati
come è nella natura dei padri e
dei figli, quando sarà ardua
fortuna ritornare ai sorrisi che mandi
ora, mentre ti stai addormentando
e non hai timore di uscire
fuori dalla vita,
e nemmeno io.
http://www.vicolodelpavone.it/kamenn-46-rivista-di-poesia-e-filosofia.html
http://www.rivistaclandestino.com/
Antonio Bux
111
È nato a Foggia nel 1982. Vive tra la Spagna e l’Italia.
Sue recensioni e suoi lavori sono apparsi in numerose antologie [tra queste si ricordano: A sud del sud dei
santi - Sinopsi, Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento Anni di Storia Letteraria (a cura di Michelangelo
Zizzi, LietoColle Editore, Faloppio - CO, 2013); InVerse 2014/15 - Italian poets in translation (a cura di Brunella
Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, John Cabot University Press, Roma, 2014/2015); Poeti della
lontananza (a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Edizioni, Milano, 2014)] e sulle
pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (“Corriere della sera” e “L’Unità”, tra gli altri), oltre che
in diverse riviste (come “Poesia”, “L’Ulisse”, “La manzana poetica”, “Hyperion”) e lit-blog nazionali ed
internazionali (“La dimora del tempo sospeso”, “Nazione Indiana”, “Poesia 2.0”, “Otra iglesia es
imposible”, per citarne soltanto alcuni).
Diversi suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, francese, inglese, catalano, tedesco, rumeno e serbo.
Ha curato la traduzione del libro Ventanas a ninguna parte dello spagnolo Javier Vicedo Alós, oltre che la
traduzione di testi scelti di autori quali Leopoldo María Panero, Julio Cortázar, Dário Jaramillo, Álvaro
García, Antonio Cabrera, Jaime Saenz, Pere Gimferrer, Pedro Salinas, Vicente Aleixandre e Samanta
Schweblin.
È autore dei libri Disgrafie (poesie 2000-2007 e altre poesie) (Edizioni Oèdipus, Salerno-Milano, 2013 Libro vincitore della XXXVII Edizione del Premio “Minturnae Poesia Giovane - Ornella Valerio”); Trilogia
dello zero (Marco Saya Edizioni, Milano, 2012 - Libro finalista per l’opera edita alla XXVIIa Edizione del
Premio “Lorenzo Montano”); Turritopsis (Di Felice Edizioni, Martinsicuro, 2014); 23 - fragmentos de
alguien (libro scritto in spagnolo, edizione bilingue, Ediciones Ruinas Circulares, Buenos Aires, 2014);
Sistemi di disordine quotidiano (Achille e la tartaruga edizioni, Torino, 2015).
È risultato vincitore dell’edizione 2014 del premio “Iris di Firenze” e finalista al premio “Poesia di strada”,
sempre nello stesso anno.
Collabora con diversi editori e scrive per alcune pagine culturali sul web.
***
Questo è il suo blog:
https://antoniobux.wordpress.com/
La scelta dei testi che segue è tratta, oltre che dagli inediti, dalle opere qui evidenziate in grassetto.
Da Disgrafie (poesie 2000-2007 e altre poesie)
Antonio
Bux
UTERO BIANCO
Scrivo parole non mie
poetando per imbroglio;
mio forse è quel foglio
che le sa proteggere
dall’umano sdegno
di un cieco leggere.
Venne la parola dal gelo a pretendere
corpi da restituire all'inverno del verbo.
Così il foglio ricordando il suo volo natale:
accarezza la neve la sua infanzia di vele.
Come non stare allora bene con l'irreale;
il sussulto dei segni sciogliersi tra le mani
112
nella sete dei pensieri abbaiando le tempie
gocciolare che incomincia dal vaso, lacrima
di piombo bilanciarsi nel vuoto l’ampiezza
quando le voci i nomi, il perché di domani.
Da Trilogia dello zero
Antonio
Bux
*
ad Amelia
Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo
dalla fine riavvolgendo ogni sguardo
ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,
ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto
finanche le persone care sono specchi
che riflettono altri noi, al di là del vetro.
113
Antonio
Bux
LA CASA OBLIQUA
Era una porta in principio la testa, bussando il polso,
il pensiero della casa. Niente si è esposto, dopo
nel moto inverso, invisibile dell’abbraccio celeste,
la funzione del perimetro, l’insorgere alle finestre;
e così gli spifferi impronunciabili, e l’uscio obliquo
negli arredi al buio, il miracolo dei muri. (Ché inizia
dal basso, la geometria della visione, dalla calce
comprimersi in un filtro -vincolarsi- nell’effrazione).
E allora tutto implode, dalla botola dell’esistenza:
si arriva nel sangue delle tubature, si taglia il cuore
s’accampano le ossa. E quindi, più del dolore disegna
la casa, la rivolta; degli oggetti si conosce la polvere
il nome, la scatola d’ombra. E il condono dunque
è svuotare gli stipiti, appendere il futuro agli angoli.
114
Ma doveroso è il censimento: il ritratto fuori nell’insieme
sotterraneo cede, aderisce all’inferno, all’insubordinazione
anatomica del passo, che non sa retrocedere nell’origine
e scompare, misurato dal lungo metro dell’attesa
dove si precisa il tetto, la funzione urbana, la strada spaccata.
Da Turritopsis
Antonio
Bux
*
Va come il vento
per ogni dove,
la vita rientrando
nel suo altrove.
115
Essere la fiamma prima
che il corpo si spenga
comporta il calore
degli occhi nel buio,
e il loro raffreddarsi
in un dilatare di roghi,
dove è la solitudine
un fuoco mantenuto basso,
torcia che non brucia
ma illumina la specie,
e poi tramuta in cenere
quel tizzone ancora acceso.
*
Antonio
Bux
116
Si sposta ogni linea
sempre prima,
sotto il margine,
(esiste perché manca);
perciò l’instabile si tiene,
qualcosa approfondisce
smosso dalla terra,
mette radice nell’evento.
Come si perde tutto nell’anonimo
disperato disincanto dell’amorfo
nauseabondo vischio di parole;
ché ognuno si consuma vagabondo
in celeste putrido consenso d’ali
rotte nel volo maestro dell’aquila;
e neanche l’entusiasmo di un pantano
si sente gorgogliare dall’imbrattato
momento dell’edificazione comune;
e tu che chiami distanza la tua vita
- il viale fresco sulle case morte a noi come immagine corrosa che circonda:
questo specchio inondato di speranze
quanto il gelo più s’accende di stupore
nella città sobbalzante poi un momento,
vibrando in una piaga lontana del confine
ogni spazio dove non ritorna mai quel segno
come da ogni limite una fossa nel giudizio.
Da 23 (fragmentos de alguien)
Antonio
Bux
117
8.
Ruego tu aliento que se fue
en el cuerpo del fuego,
ay señora del poema
raíz loca de la vida
que se va a quedar de ti
la sombra de una rosa
tu ceniza invertida.
Y se vuelve el hombre como un adiós
expulsado del territorio en un vientre
de pensamiento que no invade
en donde un límite lo evidencia,
falso testimonio de otro nombre,
canto animal que no lo perfora,
cuando ya no de carne la lengua quema
- en el silencio de una tierra
estéril abisma como gusano en busca de la luz salvadora
transparente al aire de las cosas vanas,
ciega bandada de pájaros cerrados al cielo
emigrantes de este dar sin tener nada.
8.
Prego il tuo fiato andato
nel corpo del fuoco,
oh signora del poema
radice insana della vita
cosa rimarrà di te
l’ombra di una rosa
la tua cenere invertita.
E ritorna l’uomo come un addio
esiliato dal territorio in un ventre
di pensiero che non sconfina
laddove un limite lo evidenzia,
falsa testimonianza d’altro nome,
canto animale che non lo attraversa,
quando non più di carne la lingua brucia
- e nel silenzio di una terra
sterile sprofonda come verme in cerca di salvifica luce
trasparente all’aria delle cose invano,
cieco stormo di uccelli chiusi al cielo
emigranti di questo dare avere niente.
10.
Antonio
Bux
La vejez de la página
contra el hombre que no sabe
el perdón del mendigo
y un viejecito que pide
perdón llorando las páginas
de un hombre volcado
qué no es perdón sino una gema
una palabra invertida que crece
cuando el hombre olvida a la página.
Engorda el pensamiento
pastoreando en poemas de estiércol.
Mientras el pez huidizo
de la palabra no remonta
el mar quieto, se descubre
en la apnea del silencio.
Y luego cuece a fuego lento
de memoria cuando quema.
Pero muerde la roca,
por instinto, la verdad.
Y flota sobre la hoguera
el zorro del poema
antes de la combustión,
desata el último fuego.
118
10.
La vecchiaia della pagina
contro l’uomo che non sa
il perdono del mendicante
e un vecchietto che chiede
perdono piangendo le pagine
di un uomo rovesciato
che non è perdono ma una gemma
una parola invertita che cresce
quando l’uomo dimentica la pagina.
Ingrassa il pensiero
pascolando poesie di sterco.
Mentre il pesce sgusciante
della parola, non risale
il mare calmo, si scopre
nell’apnea del silenzio.
E poi cuoce a fuoco lento
di memoria quando brucia.
Ma morde la roccia
per istinto, la verità.
E galleggia sul rogo
la volpe del poema
prima della combustione,
scioglie l’ultimo fuoco.
Da Sistemi di disordine quotidiano
Antonio
Bux
*
L’ombra è un’intelligenza laterale:
al centro mostra un catalogo di luce
- i prezzi migliori per comparire sempre ma al suo interno non prevede sconti
anzi, si fissa un ricavo esponenziale:
rubare alla forma la sua forma primordiale.
L’origine della forma è prima
ancora della forma: si sottrae
dall’ombra, muta destinazione,
non più luce, neanche fiamma,
bensì procede per eliminazione:
toglie dalla visione l’irreversibile,
sceglie l’invisibile nella divisione,
dove il corpo oggetto si calamita
all’attrazione che il buio espande
quando più non vede né morte né vita
ma solo lo specchio di qualcosa più grande.
119
*
Si torna al sole sempre
malati di una vista accesa
nella deformità dello sguardo;
l’occhio un fuoco spegnersi lento
nella cenere della cornea fumante
aizzando l’unico rogo: l’impressione fiamma.
Ho scoperto di avere
una lucciola nel ricordo.
La riesco a vedere
solo di notte, quando
tutto è senza memoria.
E invece la lucciola cresce
tra le tenebre a intermittenza,
mi mostra una parte di me,
quella meno densa. Ma poi
la lucciola muore presto,
si fa pensiero, prima dell’alba,
quando è futura la certezza,
e di ogni cosa si osserva la fine
dell’ombra, la metà ricoperta.
Antonio
Bux
120
*
Gli echi di sempre
alle spalle di un’eco
più grande; di dietro
si sente che ti fa eco
da sempre negli echi
un indietro più grande
più avanti del sempre.
Lo spavento misero, insaziabile della parola:
vuoto che non sa dell’aria il misticismo lento,
ché il detto cova in sé per sua natura il male
come un’ombra che taglia l’aria di un’innaturale
mancanza; e che son resti le spoglie del comune
disapprendere il perdono, nella clemenza della vista
che protrae a derivare quel che non si può tenere;
e più di questo dentro il cielo come un dire niente
ancora a misurare scherno o voto o nera assenza
di terra che non squarcia, ma che cresce in superficie
da ogni lato la sventura tutta amata, tutta in fuori
di silenzio aperto in bocca, e mantiene tutto a galla
ma poi calma rientra dentro, si sottrae agli avvoltoi
fino all’osso della forma, si tradisce, si fa gabbia.
Antonio
Bux
*
Nella corona aperta della lingua
un cono senza punta la voce
che buca il piano del respiro,
l’orale nastro del pensiero.
121
La mano riscritta a memoria dalla pagina
nella pagina della mano riscritta a memoria
dalla mano che è memoria, riscritta al contrario
il contrario che è la pagina, riscrivendosi a memoria
nella memoria del contrario, che è il riscrivere la pagina
dalla mano della storia inciampando contro il verso
dove il verso è l’inciampo della memoria, nella pagina
che è storia, riscrivendosi al contrario, ma il contrario
non è la memoria del verso, nella storia della pagina?
Forse la pagina è solo il contrario della memoria
nella storia della mano riscrivendosi a pagina
la memoria della pagina, nel verso della storia
o la mano della memoria, nella pagina del verso
o la storia della pagina che è memoria della mano
nella pagina della storia che è un verso a memoria
nel riscrivere della mano, la storia del contrario.
*
Antonio
Bux
122
Così imitando
degli oggetti l’ombra
- l’angolo a nascondere si sta non stando
tornando dall’origine
pieni solo a metà; dove
l’altra metà è vuoto reciproco,
sogno dell’oggetto, ma anche cosa
senza causa, soggetto che si sogna.
Per un calcolo a ritroso dell’acqua
(perché l’acqua è analogia del moto:
va contando l’altra parte del nuoto
mano non bagnata, che si tiene a galla)
il tempo appare come un pesce palla:
si gonfia a dismisura nella paura.
Se si prende in contropiede ricresce,
fa la barba; una peluria di millenni.
Poi dal nero passa al bianco, si stanzia
come un bosco: mette radici nella pelle.
Di più fa lo spazio (pensando in liquidi:
si riempie fino all’orlo), cede il contatto
del piede al pavimento, crolla a tappeto;
e qui entra in gioco la stanza: corollario
di quadri e di volti, uscita d’emergenza.
Ché dall’altra parte è troppo il segreto
non marca presenza, è fragile melodia.
Perciò si annega volentieri nell’acquario:
pesce che col vetro muore in compagnia.
*
Antonio
Bux
123
Se il sole invade le piante
non è per amor di fotosintesi,
e chissà neanche per scambio
di flussi tornando poi spento
al suo pinnacolo di ombre.
Perciò la natura si odia da sé:
per questo vuoto arrendersi
dell’esistenza mentre sta
già lì a risorgere.
Voi che andate al
mare e bagnate
le costole e date
ai piedi le forme
di sabbie precedenti;
voi che poi ci raccontate
con la mente spellata
il vostro tempo di quiete,
di ore menate alle onde,
e quanto spreco di luce;
voi che saggiate, dunque,
le inibizioni iridate
e spiaggiate in domande,
il promontorio quello vero
l’avete mai disceso,
dove rischiara la valle
la gramigna rampicante
dietro le spianate invidiate
dall’occhio straniero, per quelle strade
che son tocchi di sete, dove mutano erbe
ai primitivi contorni, e l’aneto il virgulto
del feto ad imbuto, nella piazza di cicale
espande musiche ai venti e riforma gli schianti,
*
l’avete mai intravisto, voi, il buco del grembo
dove dal fico rivive e nell’ulivo poi tace
il simbolo radice plasmante terrestre?
*
Antonio
Bux
124
Fatti i monumenti di polvere
così le case, gli esseri, le strade,
l’architettura del non rendere,
dove per costruire bisogna sottrarre.
Ci vuole grande ragionevolezza
ed un volo molto basso
per dire tanto con poco come
quando il picchio staglia la corteccia
dell’albero per mangiare il verme,
e non solo avere tempo di sistemare
due pagliuzze su un nido abbandonato
dallo stesso picchio rimasto orfano del becco.
Che poi il verme
a cosa serve,
se non a digerire
tutto il tronco già marcito
nello sfrondare precedente,
quando, per scovare il verme,
il nostro picchio dimenava
duramente il becco cieco
senza accorgersi che altri vermi
nel frattempo rosicchiavano la sua lingua
e gli entravano furbetti giù nel fegato.
Perciò ci vuole grande acume
nel mangiare dentro il piatto altrui
senza lasciare che la foga
prenda solo il piatto e lasci il cibo
incolume per la bocca
di quell’altro o di chi per lui.
*
Antonio
Bux
125
Di livelli, sono piene le onde.
Guarda il mare, così terrestre.
Quasi un tappo, che preme l’atmosfera
la chiude a cielo. Un rovescio nella porta
del mondo. Col solo rumore non si apre.
Ma così dura appare la finestra sul fondo,
che l’acqua riempie il respiro tutto, e ascolta
dal profondo della superficie, un dilatarsi di voci
mentre nell’azzurrarsi delle cose, l’orizzonte
sospinge la marea, il risalire dell’ultima risacca.
Ora che l’acqua e la polvere sono
la fanghiglia del mio ventre teso
nello sconquasso brutale della materia
avverto la minima immersione del luogo
nelle voci assorbite dal flusso intermittente
graduale del moto, dal riverbero del corpo
l’autonomo scavare dell’ombra sulla sabbia
nell’immersione minerale - vellutata marina
ghisa oltre corrente - bagnando all’impatto
dove l’acqua è impermeabile al gesto
l’interno melmoso del flusso
nell’abrasione dello stacco dall’onda
che spinge verso il centro
nel fondo del nucleo più azzurro.
Antonio
Bux
126
*
Perché se ipocondria è un nome
difficile, anche la malattia del dovere
rientrando comunque nella cappa verbale,
è il chiamarsi con l’ombra delle domande:
ché i nomi sono solo la polvere rimasta
in superficie, non la pista percorribile,
piuttosto il giro incompleto della lingua,
dove il fondo non è mai il fondo che resta
zitto al bordo tra i risvolti senza pronuncia.
Una volta il mio nome era diverso.
Si girava dopo un richiamo al mio posto.
Procedeva sicuro tra le carte, si proclamava solo
perfino, come a dire, mi basto da me per sapere.
Ma oggi il mio nome non si chiama. Si lascia citare
da altri nomi, e finanche i soprannomi lo scalzano:
Tonino, Tony, Anto. Poi pure gli pseudonimi
si aggiungono alla messinscena: nome nel nome
mentre Antonio Bux scrive, quell’altro cancella.
Ma chi mi nomina, lo sa che non sono io colui
che risponde, bensì l’altro nome, la lettera mancante?
E, proprio per questo, il mio nome si è depennato.
Tolto a prescindere dalla lista delle domande.
Ora a chiamarmi resta un corpo vuoto, in disparte
impaziente, come in attesa di essere registrato.
Piccola antologia della critica
Antonio
Bux
127
Se in un manoscritto la calligrafia è il primo involucro dei significati, in Disgrafie è la parola stessa nella sua fisicità («[...] cicatrice /
indelebile nella memoria», ) a delimitare la periferia del testo, in un rapporto col tempo nel quale l’uomo si fa custode di parole non sue
trasformandole in memoria («quante memorie ha uno sguardo / nell’orbita di una strofa»). Attraverso la negazione di uno stile unico, Bux
tenta di raffigurare una calligrafia vorticosa e aggrovigliata nell’esprimere il tormento di mille rinunce e l’abbandono della bellezza.
Questa metodica inorganicità si articola con esiti diversi nei sei capitoli della raccolta: a sprazzi folgoranti di voce limpida e tagliente, si
alternano passaggi impervi, nei quali l’aderenza della parola al verso è fuori controllo e il senso filtra appena tra i residui del discorso, in
un’impressione di soffocante incomunicabilità. È l’idea degli «occhi che celano altri occhi», degli specchi che «insinuano verità celate»,
della cute bianca che fa da involucro al corpo, o della calce a un muro a ricoprire scritte e segni, rendendoli invisibili. Anche il pensiero si
nasconde dietro/tra le parole: la verità è ovunque, muta. Illusoria è l’esperienza umana di scoprire un senso nelle cose perché gli occhi «[...]
non oltrepassano / la superficie dello sguardo», la parola non può avanzare «nell’impedimento dello scritto» e «[...] solitudine è tutto /
nell’annientarsi in parola». È un susseguirsi di frantumazioni allora ben più dolorose perché l’anima è sospesa nel suo esilio senza
giudizio. Non è a un’escatologia cristiana però che Bux affida il riscatto, ma al pensiero dell’illuminato per giungere «alla foce della vita»
che non è morte, perché «noi siamo l’arrivo senza approdo» e «il senso del cammino è oltre / la destinazione». Eppure le cose al mondo
dialogano con l’uomo nel mistero del tempo, che è polvere di cui rimane sempre un granello, che non diminuisce il conto ai giorni. Il resto
continua a esistere da sé. A volte affiora una domanda quasi laforguiana: «Cos’è il futuro / se non l’azzardo / di non vivere / il presente?».
In Allenamenti, il recupero dell’adolescenza, costretta alla noia di un’ora di matematica, passa per un filtro di metafore sovrapposte, con un
gusto cinematografico per l’inquadratura e il flashback. La fisicità delle partite di pallone simulate sul banco si staglia tra le quinte dei
profondi boschi al primo verso. Esulta il corpo, esulta poi la gioventù contro l’incombente figura di un professore/arbitro che
espelle/sostituisce i ragazzi vittima di crampi, consegnando gli sconfitti ai cessi, dove fischi e applausi sono un unico trionfo. In Primizie,
un sentimento solo unisce l’iniziazione sessuale mancata, nel gioco tra un ragazzo e una bambina, al suo destino di prostituta. Non è
immorale la corruzione di chi le stesse cose fa ora per lavoro, ma è il paradosso del tempo: «eri troppo piccola e giocavi già da grande»,
anche se del resto «non è cambiato poi così tanto».
Questo essere «meccanismo perfetto, nell’imperfezione della vita» torna, ironia della sorte, nel grottesco abaco di numeri che ricostruisce
la giornata tipo di un operaio («la decima ora del sesto giorno del nono mese», «[...] quarant’anni d’uomo, venti di fabbrica»).
L’intonazione, per molti versi vicina a quella dei cantautori, al Guccini di Stanze di vita quotidiana per esempio, riesce forse ad addolcire
l’amarezza della parola scritta, ma non può nascondere il doloroso assunto di fondo: è il tempo a misurare l’uomo, a riportare «[...]
qualsiasi nuova o antica forma» anche se «noi non ci saremo - ancora una volta - / per la cancellazione dell’eterno».
Un solo istante si dilata a dismisura nell’allucinato piano sequenza del Manifesto casalingo della notte. In quella eternità sospesa si
crogiolano deformi cose, brusii elettrici, echi forse dal piano di sopra, di voci non estinte nella profondità del tempo («i soffitti mi
comunicano il linguaggio delle ore»). Le nature morte della casa, rianimate dai morsi della fame («i libri si nutrono ingordi di sapere» e «i
tavoli banchettano con il vuoto»), o scosse dal rimorso che tramuta la miseria in colpa, ingombrano lo spazio. La storia e la memoria
eccitate dall’alcool sono un labirinto solo. Incombe il tempo tra le crepe nei muri, nei segni degli oggetti scagliati in un momento d’ira, di
una lite tramutata in guerra. La casa fissa i suoi abitanti giudicandoli, come un volto impietoso sciupato dalla sua stessa severità. Il
silenzio, sovraccarico di urla e discussioni, è un nervo teso. Le tregue costruite chiudendo una porta non durano che un attimo e subito
qualcosa sembra rianimarsi, ma i verbi che indicano un dialogo son precari (implorare, mormorare, farneticare ecc.). «Tutto nella notte va
a caccia di storie da sbranare», ma l’ombra si sottrae.
La natura e gli oggetti prendono qua e là fattezze grottesche, si combinano in forme strane, competono tra loro nella rappresentazione
dell’uomo. Le illustrazioni di Lucia Leone accompagnano con felice estro queste mutazioni. In Un pazzo di pezza il corpo si riattiva per meccanismi
x
Antonio
Bux
successivi: un chiodo sconficcato, la palpebra appesa a un filo, il nome cancellato e la cenere nel ciondolo gettata. Si torna in sé attraverso
l’abbandono.
Le poesie d’amore del terzo capitolo operano l’estrema deformazione del corpo: un amplesso che è quasi smembramento antropofago, un
rimescolarsi d’arti. La fame si dilata a condizione più profonda, a fronte di una volontà totale respinta al culmine del desiderio. In Mater
morbi il procedimento è capovolto: il corpo di una madre espelle il figlio, perché nessun corpo può dimorare in altro, neppure se la fame
l’ha introdotto, o l’amore l’ha cresciuto. Questo farsi e disfarsi senza pace ispira altrove un mimetismo panico: «le estreme viscere
dell’uomo» scorrono nei fiumi andando «a formare oceani di volti / con tutte le lacrime bruciate». La ciclicità del dolore è pioggia, «sputo
dei cieli». A che serve poi il «perdono / della terra che si rinnova» nel segreto dei fiori se, rotta l’indifferenza del seme, nasconde «l’eterno
rancore» che afferra le radici? Esistere è una silenziosa intermittenza che non lascia traccia nella scia dei secoli, ma può, per metamorfosi,
tramutare un seme nero in fiore bianco, modificare forse il corso di un giorno, persino del male fare un bel pensiero.
[…]
Chi scrive è condannato a sottrarre per sempre qualcosa al mondo, restituendone appena l’apparenza. Scrivendo «[…] con niente / di cosa,
non so», attivando quasi una macchina del nulla, il verso s’infittisce di formule indescrivibili, irripetibili, che operano sulla marginalità
dello scrivere e del significare, dove le parole combinate sono sintomo linguistico (oltreforse, aldinulla, metaverso ecc.), tentativo di
scavalcare il tempo e il mondo, o di giungere al «[...] non me stesso migliore di me» (in Per Fernando Antonio), sino a che a ferire la parola
non si uccide l’uomo.
Federico Federici, da La coda della lucertola, postfazione a Disgrafie
***
[…]
…l’opera di Antonio Bux, una magistrale «macchina dello sguardo» dove stratificazioni, calcificazioni, mobilità, frammentazione e
modalità diverse di sperimentazione svolgono tutte una parte decisiva, concorrono alla nascita di una trilogia che non ci stupiremmo fosse
diventata, nel lavorìo del tempo, chissà anche una tetralogia.
La trilogia dello zero comunque è un’opera completa, uno zibaldone semantico sovraccarico di testi, richiami, echi, ma ben organizzato e
strutturato, nel quale i termini di provvisorietà della traccia testuale e di consapevolezza dell’opera sono significativi. Concepita e definita
direttamente dallo stesso autore come un’autoantologia poetica, la Trilogia dello zero è abitata al suo interno da una densità e da un ritmo
rari e contiene molti «mondi e modi possibili» della poesia, richiamando gli antecedenti delle antologie ormai storiche del Novecento che
hanno fatto conoscere lo sviluppo della poesia e della critica e che sono state predilette dagli autori delle avanguardie storiche.
Un’opera che, come vedremo, omaggia molte scritture del novecento, reinventandosi cifre e formule e scommettendo sulle riscritture come
traduzioni degli stili fin ora espressi e attualmente sperimentati dagli autori più giovani. Ma con una decisa originalità e una decantazione
straniante della percezione del reale che rimette in discussione molte presunte conquiste della/e scrittura/e di ricerca.
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La Trilogia dello zero è divisa in tre sillogi: La simmetria dei nomi (con annessi capitoli/lati), Le ore nuove (memorie dal giorno dopo), e Raices de
zero. Le ultime due raccolte sono divise a loro volta da sezioni e, in generale, tutto il lavoro è attraversato da un “memento” in versi:
«Ricordando che»; un esergo vero e proprio che pur rimanendo apparentemente fuori dal testo (o in ritardo o in anticipo) “fuori opera”, in
realtà costituisce la parte essenziale del testo perché ne confuta le eccessive perentorietà oppure riporta in superficie addensamenti verbali
e immagini smarrite nelle rapide sequenze di alcuni testi.
Esemplari certe limpidissime e rigorose terzine:
«L’involuzione incisa dal limite
la forza che spinge l’io nel tutto
è l’istinto della fine, il principio del lutto»
Antonio
Bux
che insieme alla mappatura dei temi, sottotemi, dei numeri e dei nomi, costruisce una procedura che dall’inconscio si eleva al grado
distillato e astratto di coscienza e di memoria confiscata, a quella distrazione dall’io che rimanda a un certo “automatismo verbale” del Dylan
Thomas di Sognai la mia genesi.
E dentro questa genesi sono contenuti e lavorati materiali, oggetti, animazioni, luoghi, stati dell’essere e stati del non essere, inerzie,
addirittura performance, installazioni; come se l’autore fosse per natura e talento proiettato verso quella poesia totale che Adriano
Spatola si proponeva come orizzonte di ricerca e che prevedeva un’analisi del linguaggio anche “grafica” cioè relativa tanto al modo di
rappresentare le parole nella scrittura quanto alla scrittura stessa, da intendersi come “forma”.
La Trilogia dunque nasce come un’opera “completa” e non può essere separata da se stessa perché vive di una forte connessione e al
contempo di grandi contrasti anche stilistici tra le sezioni, tanto che non conta molto verificare quali parti possano essere lette e
considerate separatamente e quali nell’insieme.
In nove mesi di lavorazione, tanto e poco il tempo che ha impiegato Bux a scrivere i testi (più precisamente nell’arco di tempo intercorso
tra dicembre 2011 e settembre 2012), l’opera attraversa delle fasi delicate, quelle che il grande poeta argentino Jimenez definiva come «i
passaggi dentro i quali sensazione e memoria vivono assieme nella dimensione temporale». Fasi e/o sezioni nel caso della Trilogia, che
attraversano anche le frustrazioni della percezione, mentre l’autore per mezzo del linguaggio continua a meravigliarsi stupito per il reale
che si costruisce e decostruisce dentro al testo e al dì fuori di questo.
Un sistema dove compromettere di continuo il magma della creatività e sfidare il tempo come accade in un’altra opera che da anni ormai
vede il suo autore, Vincenzo Ostuni, misurarsi con testi e microtesti nel suo Faldone, un libro che evolve nel tempo e viene continuamente
ampliato e rimaneggiato.
Senza lo “zero” però non vi sarebbe discussione sul testo. Un materiale in progressione che davanti al «limite dello zero» trasforma la
vocazione aggiuntiva, accumulativa di questo lavoro in un progetto permanente di sottrazione meditata a scapito di una scrittura
vigilissima e pronta «a non farsi tradire dal futuro» come direbbe Andrea Cortellessa.
Se in demografia, crescita zero indica il sostanziale pareggio tra natalità e mortalità, qui si potrebbe parlare di continua disparità, di uno
zero verbale che registra la realtà e l’immaginazione in maniera a tratti onirica e psichica, mentre a tratti invece concreta e corporea.
Lo zero come ripetizione, come occasione per la poesia di diventare altro, di non riconoscersi nella fissità del ruolo, dunque dell’“io”,
unico soggetto definito. Non a caso, qui, i soggetti sono plurimi e dotati di consapevoli scissioni trasfigurative e metamorfiche.
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«Dunque lo zero non è qui visto come un declassamento numerico, come appunto un risultato di negazione ma, al contrario, come scardinamento delle
diversioni e, quindi, come ripristino dell’errore terrestre, o che dir si voglia, come una specie di “tampone” per la falla dell’essere ...» dice lo stesso
Bux.
In informatica lo zero è diventato una popolare indicazione del punto di inizio. E questo per cercare la posizione, ecco dunque si potrebbe
dire che la poesia di Bux cerca il posizionamento del linguaggio in una zona mancante, approssimativa della lingua.
Ma è anche uno zero provocatorio, alla ricerca di un ritmo, di un suono, di una “preistoria acustica” come direbbe il filosofo Antomarini.
Non è un caso che i latini chiamassero lo zero zefir/zefiro, per assonanza, riconducendolo subito e senza mediazioni alla figura mitologica
che si manifestava come il vento di ponente. Lo zero della Trilogia è dunque l’alter ego dell’autore. Un modo di non esporsi con un io
stilizzato e pletorico ma con un “altro” sempre presente a legittimare e delegittimare il testo nelle sue fasi iniziali e conclusive.
Come per la fasi di Jimenez, le sezioni/percorsi che rileva Bux man mano, sono una vera e propria successione di opera che diventa anche
una critica verso il sistema poesia. Franco Fortini in Verifica dei poteri sosteneva che «il ruolo di un poeta critico è esattamente diverso dallo
specialista, dal filologo e dallo studioso di scienza della letteratura, e non perché non debba essere anche specialista e filologo, ma perché il
suo oggetto di osservazione è un’opera che ci parla del nostro essere nel mondo».
Antonio
Bux
Riferimenti e rimandi a poeti contemporanei che Bux ha letto e assorbito sono numerosi e diversissimi fra loro ma alcuni abbastanza
chiari. Mi limiterò a ricordare il già citato Magrelli per gran parte dell’opera e in particolare per le poesie della prima e della seconda
silloge che virano decise verso l’osservazione e l’interrogazione linguistica dei fenomeni naturali, organici e culturali. In più un rinvio a
Magrelli si rileva nel capitolo sulla “dieta” della terza silloge finanche, con delle glosse ironiche ai dati del quotidiano spesso autoindotti e
che recuperano una vita autonoma grazie al distacco giocoso e “performativo” dell’autore dal proprio “corpo linguistico”.
Echi rivisitati di Marco Giovenale evidenti nei «resoconti» di quelle «case» «esposte» (Giovenale) ed «oblique» (Bux), dove le assenze
dell’autore diventano segni tangibili di una memoria collettiva lucidissima che non viene rappresentata bensì abitata dagli oggetti, dalle
memorie e dai soggetti superstiti di una storia deflagrata.
Altro autore, completamente diverso, di cui si avverte il segno è Milo De Angelis, specie nella sezione intitolata Tema di S. Una evidente
resa alla liquefazione dell’esperienza e una vocazione alla resistenza dell’io come inappagato soggetto di una storia iniqua.
Infine un richiamo “dal sud” sentirei di farlo con il poeta Leonardo Sinisgalli, che riuscì a far convivere cultura umanistica e cultura
scientifica, le parole e i numeri in quel fulminante compendio in poesia e prosa che è Furor mathematicus, un’autobiografia intellettuale
nella quale confluiscono e s’incontrano la poesia, la geometria, la filosofia, la matematica, l’architettura, il design.
Non sono pochi quindi i rimandi a Sinisgalli nell’opera di Bux: una predilezione per il tema dell’origine, per l’appartenenza ad una «civiltà
delle macchine» in progressione (nome della rivista che Sinisgalli fondò nel 1953) e delle ombre in regressione.
Diviso in sette sezioni nel Furor si passa dai versi alla prosa memoriale, dalla critica d’arte ai “dialoghetti” filosofici. E questa
diversificazione dei temi, questo stile contaminato eppure rigoroso, questa disponibilità alla frammentazione della conoscenza assemblata
e riorganizzata, lega i due autori lontani altrimenti per generazione e tempi.
La Trilogia dello Zero di Antonio Bux è questo ed altro ancora e possiede quella capacità di sorprendere e dunque di durare. Un linguaggio
liquido, assorbente e al tempo stesso dilatante, che promette al lettore di recuperare in versi quelle energie segrete che inevitabilmente,
senza l’ausilio sottotraccia di molti dei testi poetici qui proposti, andrebbero disperdendosi nella quotidianità di tutti i giorni.
Lidia Riviello, da Nella macchina dello sguardo (genesi dello zero), postfazione a Trilogia dello zero
***
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Già da questo fascinoso titolo, Raices de zero, che mescola le due lingue, italiano e castigliano, si avverte il debito della poesia di Antonio
Bux verso tutto quel ‘concettismo’ di marca iberica (lui ottimo traduttore dallo spagnolo, non a caso dedica una sezione del libro ad
un’emulazione di stampo Paneriana) che molta fortuna ha avuto anche presso la nostra critica, penso in special modo alla generazione del
‘27 dei vari Lorca, Salinas, Aleixandre ed a riconosciuti maestri quali Góngora e Machado, alla loro “umbratilità”, in particolare al celebre
sonetto di quest’ultimo, intitolato Al gran Cero … ; poi ripreso da un altro modello del nostro, ovvero … Bartolo Cattafi…
Bux si inserisce in questo solco, dando conto, fin dall’inizio, sia della propria condizione di sradicato (dai modelli letterari in voga,
dall’esistenza stessa?), che di una sorta di svuotamento interiore - lo zero appunto - come unico punto di partenza possibile per discendere
al vero nucleo della realtà, alla profonda essenza che la tiene ancorata alla nostra, pur limitata e limitante, percezione: «È qui morta natura.
Caduta, / ricade, sospinge, si innalza / ci finge. / […] non più canta, sospesa… / […] assaltare / il nero divenire, il buco ovale.». In un
siffatto scenario di precarietà, l’azione poetica non può che incedere per lacerti frastagliati, in cui le improvvise folgorazioni di senso non
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Antonio
Bux
giungono come superiori ed altere epifanie ma avvertono, ad ogni respiro, del modo affannato con cui tentano di squarciare il velo
dell’assoluto per restituirci porzioni di verità.
Possiamo allora - senza remore - dar conto di una spiccata forma mentis barocca che percepisce ed organizza il mondo per via di complessi
sistemi metaforici, in cui domina il ricorso alla più grande metafora esistente, ovvero madre natura. Il linguaggio che la esalta è
particolarmente affine a quello non simbolico ma primigenio di un Nino De Vita, oppure allo pseudo-scientifico rintracciabile, ad esempio,
in certi trattati botanici del XVI secolo di un Charles Plumier, di un Linneo, di un Nicolò Serpetro: «L’involuzione incisa dal limite / - la
forza che spinge l’io nel tutto - / è l’istinto della fine, il principio del lutto.».
Si assiste così ad una sistematica meccanizzazione ecolalica del dettato per via di ripetuti ‘inceppamenti’ anaforici e, soprattutto,
allitterativi che lasciano trasparire questo senso di disagio, un «esperire a singhiozzi» eternamente incompiuto, continuamente in bilico
sull’orlo del nulla.
E qui veniamo al grande tema che pervade l’intera raccolta, individuabile nel Tempo come reductio ad umbram, dove la proiezione
immateriale del sé - in senso fisico ma, principalmente, intellettivo - diviene sofferente salto nella memoria («Bisogna tagliare via questo
filo invisibile / slegando l’anima dal principio delle cose… / […] quando l’altrui caduta serve a riconoscere / l’esatta distanza dello sguardo
da tutto.»); melanconico rimpianto («Il nostro cammino era già indietro. / Da allora fino ad ora, orma nell’orma / il tempo, l’ombra che
sfioriva nei passi.»); o perfino universale rimuginazione («Il mare come sputo / dell’universo sulla terra, / le lacrime raccolte del mondo»).
Dunque, non è più possibile pensare agli attimi passati come ad un’ombra “del” Tempo, quindi oblio, dimenticanza, ma come un’ombra
“nel” Tempo, una nebbia dolorosa ma necessaria che riesce ad insinuarsi nei meccanismi insoluti ed inaccessibili della memoria, nel
tentativo di assemblare le tessere di un mosaico in continuo mutamento, pertanto sempre sfuggente. Un’eterodossa dentatura che rallenta
ed equilibra questi ingranaggi acherontei al fine di stillarne l’olio del ricordo - strappandolo all’assoluto - per farne forza di resistenza
universale, attestazione di presenza consapevole nel mondo. E se le ombre in Pascoli o in Montale si riallacciavano al tema delle anime
trapassate, di ascendenza dantesca, in Bux assumono la connotazione più strettamente filosofica di psicopompi e, inoltre, di ladre o
guardiane del pensiero (a seconda che si patteggi per lo schieramento umano-fisico o temporale-aleatorio di concepire una presunta
verità). Esse rappresentano, in sostanza, l’unico modo dato alla stirpe umana per ‘afferrare’ pezzi di Assoluto strappandoli al Nulla,
quindi mossa estrema per tornare alle «radici dello zero» e suggerne quel poco di senso rimasto inalterato attraverso le ere…
[…]
Diego Conticello, da Le radici dello zero. Nota a Raices de zero, terza sezione della Trilogia dello zero
***
131
La poesia di Antonio Bux pare muovere da una matrice naturalistica e raziocinante che erge ad oggetto il fenomeno o l’evento naturale, al
fine di dotarsi di un punto d’origine dal quale dipanarsi in una sorta di moto a raggiera che crea spirali verbali di senso. Il poeta, in questa
sua peculiarità preponderante, mostra certo una struttura culturale ben definita e una radice strettamente cogitante del proprio pensiero
poetico, così come, d’altro canto, una tendenza ad aggirare l’oggetto biografico esistenziale a profitto dell’osservazione-esplorazione del
fenomeno elementale e scientifico, dal quale prende sviluppo la sua particolarissima scrittura. Non estraneo a questo modo di scrivere
appare il singolare sistema d’impaginazione assunto, che alterna dimensioni epigrafiche a masse fluttuanti di testo giustificate al margine
sinistro, ciò al fine di trattare la materia verbale come un elemento fisico la cui forma contribuisce all’evidenziazione di corpi del senso ora
giustapposti o dialoganti, ma reciprocamente diversi, come anche attesta il ricorso a lacerti in corsivo alternati ad altri in carattere tondo. Il
testo muove dalla materia organica marina o ctonia e il poeta-scienziato (il pensiero può andare a Valéry o a Michaux) si china su quei
corpi in trasformazione usando spesso la forma impersonale atta a garantirgli una visione più lucida e distaccata dall’evento evocato o
descritto o immaginato. In Turritopsis - che non a caso prende come pretesto letterario il nome scientifico di un animale la cui specie è
ritenuta immortale - la metamorfosi marina da polipoide a medusa o viceversa, allude indubbiamente a uno dei miti primari della
scrittura di Bux, ovvero quel ritorno all’origine di benjaminiana memoria che situa lo scrivere nel solco della nostalgia di una nascita e di
un ritorno. Tale nostos è il volto visibile di un sommerso mnestico assai profondo e radicato in una cultura biologicomitica che avvicina
vari ambiti del pensiero per volontà di ampliamento e concentrazione, di straniamento e radicamento (di qui la reiterazione della struttura
dialogicobinaria della pagina, che s’apre su una sorta di enunciazione del tema, più prosastica, cui segue una sua trattazione in versi, versi
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Antonio
Bux
i quali però sono leggibili anche come segmentazioni di una prosa sintatticamente coesa e piuttosto piana nelle sue articolazioni e
costruzioni frasali). Ne risulta un flusso d’immagini e riflessioni (forte e prevalente la matrice di tal pensiero, a tratti non priva di qualche
autocompiacimento lessicale specialistico che potrebbe disorientare, forse volutamente, il lettore) i cui ascendenti poetici sono resi confessi
dall’Autore nei Ringraziamenti finali, ma che ha sicuri elementi di originalità di dettato per la coerenza d’assieme, la costante tensione
espressiva e una laconicità della forma densa di spunti ben riusciti e significativamente contundenti e materici. Il soggetto ha
definitivamente abbandonato la sua esperienza individuale e testimoniale di adesione al dato esistenziale, per aderire a una trama
sostitutiva che lo nasconde o lo rifonda nell’azzeramento emotivo, e che lo rimpiazza col fluire magmatico della «natura infinita» sia del
testo qui proposto, che del mondo circostante a cui fa riferimento.
Fabio Scotto, La natura infinita del testo (e del mondo), introduzione a Turritopsis
***
«La visione potrebbe essere l’effetto collaterale di un sogno che si tramuta in variante, porzione mancante del reale. Un sogno sognato a
metà, più precisamente una realtà bidimensionale. Come entrando in un labirinto conoscendone le estremità, ma perdervisi ugualmente,
solo per il gusto di provare a non sapere che il tracciato, poi, si richiude sempre». Notoriamente, lo scotoma è un’area di cecità, parziale o
completa, del campo visivo; un titolo come Scotomi comporta come primo richiamo mnemonico lo zanzottiano Fosfeni, ma il debito per
così dire termina (a parte il viaggio verso un effettivo e comune iperuranio, ma kantiano per Zanzotto, del tutto platonico per Bux) nella
superficie, perché il movimento visionario che genera il gesto poetico è di direzione opposta: i segni luminosi zanzottiani si avvertono
tenendo gli occhi autoreferenzialmente chiusi, e forse sono un residuo del cielo stellato, mentre l’area di cecità parziale di Bux appartiene
all’occhio in quanto proiezione, ed è la realtà stessa. C’è infatti un vizio originario nella forma della conoscenza, e dunque della scrittura
poetica: «le cose esistono solo se le si guarda», afferma l’autore, ma questo guardarle non è un vederle, bensì un proiettarle dall’occhiomente verso l’esterno («Dell’occhio come un fungo: / si sparge l’orizzonte quasi a muffa»); di conseguenza, «la vista è un effetto collaterale
del senso», o di un sogno, appunto, che ogni uomo sogna nella più completa delle solitudini esistenziali, perché alla domanda «se fossero
le cose osservate / solo un fenomeno della memoria?» risponde immancabile il sentore di chiuso, di muffa, che pervade tutta questa
sezione del libro. Gli occhi “chiusi” di Bux, però, non sono affatto chiusi, non hanno nulla di autoreferenziale, ma allegoricamente sono
aperti e soggetti alla costitutiva necessità di farsi porta che proietta un pensiero che nasce già ammuffito, in quanto figlio del «passaggio
tra il messaggio della visione e lo stimolo che pulsa nella mente». Allora, quale conoscenza è mai possibile, se esiste appunto un equivoco
coincidente (ed è questa la zona d’ombra) «tra ciò che si pensa e ciò che si guarda»? Quale la via di fuga da un universo epistemologico
che risente così tanto delle formidabili e ancora attuali intuizioni di Michelstaedter, e laddove anche la scrittura poetica si configura come
statica («Nel sonno sbiadito della pagina / lenta si apre la palpebra del verso» - tra i passi in cui le suggestioni metaforiche alla Magrelli si
fanno più tangibili)? Esistono i margini, le crepe luminose, le intuizioni presenti nella notte o al mattino presto …; ma specialmente esiste
l’immagine interiore, capovolta (impossibile non sentire echi della caverna platonica attraversati dal fruscio d’ali dell’Angelus novus) … In
questo senso, il futuro, la possibilità di una vita, è all’interno, come afferma in epigrafe Bux, ed è conservazione. Cioè anche tradizione.
Perché se noi non sappiamo ancora quale oscura catastrofe storica incombe di nuovo sull’Occidente, quel che è certo è che nella poesia
italiana più lungimirante i segni ci sono tutti.
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Giovanna Frene, da Scotomi: una visione senza vista. Nota a Scotomi, prima sezione di Sistemi di disordine quotidiano
***
All’interno del panorama letterario italiano ultracontemporaneo, la figura di Antonio Bux si staglia come una colonna autonoma, ben
scolpita, recante il margine di definizione di una reale poetica personale e proprio per questo atipica, senza rastremazioni verso il basso e
cadute di stile. L’autore appare infatti un poeta sui generis, dotato di una voce singolare e articolata che si distacca in egual misura sia
dalle conventicole letterarie, sia dai gruppi poetici classificati botanicamente per la semplice età anagrafica, per un indistinto
raggruppamento generazionale o per uno sperimentalismo genericamente identificato in quanto tale. Per questo, Bux riesce a trarsi
compiutamente fuori dalle dinamiche proprie di quelli che, altrove, abbiamo avuto modo di definire gruppi poetici “di Cantor” in quanto
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Antonio
Bux
[1] Sonia Caporossi, I
gruppi poetici e gli
insiemi di Cantor, su
“Critica
Impura”,
18/03/2013.
[2] W. Benjamin,
Gesammelte schriften,
vol. II, Frankfurt am
Main, 1972.
[3] M. Heidegger,
Der Ursprung Des
Kunstwerkes,
Stuttgart 1960, p. 99.
[4] Di “horror vacui”
in questo senso ha
giustamente parlato
Davide Nota, in La
geometria calda di
Antonio
Bux,
su
“Fonti coperte” de
L’Unità,
il
17/06/2013.
[5]
E.
Garroni,
Estetica. Uno sguardo
attraverso,
Milano
1992, p. 197.
133
caratterizzati da «una polvere, un’indistinzione, fino al punto che ci si domanda se all’interno dell’insieme sia presente davvero qualcosa».
Se non c’è infatti alla base dell’opera di un autore una poetica predeterminata, chiara e distinta, «si giunge al punto che risultano carenti i
contenuti stessi, ovvero la stessa distinzione stilematica, di poetica, di intenzioni, di ragioni.» [1]. È proprio questo il rischio che Bux non
può correre, abituato com’è ad una riflessione interna alla poesia di natura eminentemente trasversale che si dipana nelle mutevoli forme
della riflessione filosofica e dell’immaginismo concreto, all’infusione di un vibrante registro intellettuale e teoretico su quello pratico e
corporeo del verso, realizzati, sulla carta, attraverso uno schematismo di tipo geometrico, chiarificatore e performativo. Infatti, il motivo
strutturale sotteso all’intero suo lavoro, dalla silloge d’esordio Trilogia dello zero (Marco Saya, 2012) a Disgrafie (Oèdipus, 2013), passando
poi per Turritopsis (Di Felice, 2014), svolge il compito di uniformare una materia poetica che trae spunto dalle più varie suggestioni
idiolettiche di tipo metalirico e ragionativo, facendole collimare con un anelito all’imago di tipo magrelliano: Bux è un poeta che pensa, che
spiega e che ragiona in versi. All’autore piace commentare questa sua predisposizione citando Benjamin: «La vera spiegazione [Deutung],
afferra l’estrema superficie delle cose, la loro più pura materialità [Sinnlichkeit]; spiegazione [Deutung] è superamento del senso» [2]. Il
senso è, del resto, nella definizione di Heidegger, ciò che rimanda in sé al di là di sé, il fondamento estetico della possibilità d’esperienza in
genere, essendo la poesia un “dire” (“Sagen”) come basamento originario del linguaggio: «il dire progettante [das entwerfende Sagen] è
quello che nell’elaborazione [Bereitung] del dicibile porta al mondo nello stesso tempo l’indicibile come tale» [3]. Se l’esigenza della
modernità era di ritrovare una mitologia della Ragione attraverso un linguaggio fantastico che esprimesse nell’esercizio
dell’immaginazione anche contenuti intellettuali inesprimibili in altro modo che in quello poetico, potremmo dire che nella poesia di Bux
quest’esigenza, già di Hegel, risulta compiutamente realizzata, attraverso una codificazione della lingua poetica che fonde istanze
epistemologiche e ontologiche. Anche e proprio perché non è mai possibile una comprensione definitiva del reale, a meno di non ricadere
nell’individuazione, abbastanza aleatoria, del cosiddetto “tratto pertinente” di cui parlava anche Wittgenstein, cioè nella metafisica; Bux,
versificando, non fa altro che perseguire dei realia, gli unici realia disponibili nell’arte della parola, ovvero le parole stesse e le idee ad esse
retrostanti, giacché nella letteratura la vera realtà è la poiesis del linguaggio. È solo quindi attraverso la poesia, per Bux, che l’individuo
riesce a riconoscere le percezioni che gli provengono dal mondo esterno, e proprio perché la poiesis determina infinite possibilità di
interpretazione e comprensione da parte del lettore a causa dell’interna struttura analogica del linguaggio, l’autore, come per una sorta di
horror vacui [4], mostra continuamente l’esigenza di classificare e porre ordine all’interno della propria semiosfera, attraverso l’utilizzo di
un sistema metaforico che, partendo da riferimenti sensoriali, rimanda continuamente ad altro, ad un senso mai definitivo perché sempre
in fieri e, ciononostante, disposto a farsi interpretare. È quindi di natura squisitamente estetica il Bestimmungsgrund dell’arte poetica
buxiana. Il sentimento come aisthesis, in cui risiede il senso preistorico e preteoretico della realtà che il poeta in quanto tale riesce a
cogliere, non è riducibile ad un significato univoco; così come il principio della facoltà di percepire la bellezza non è esprimibile a parole.
Eppure, la funzione precipua della poesia è proprio questa: ricondurre sul sentiero della significanza, o meglio, della polisignificanza, gli
oggetti smarriti, gettati sul selciato della percezione e della memoria. Nel dipanarsi puntuale e preciso di questa poetica, il bello, come
direbbe Emilio Garroni, «in una esperienza determinata» (quella, ad esempio, della lettura silente o vocale di una poesia) «fa sentire la sua
possibilità, la condizione del suo far-senso» [5]: nella poesia di Bux il senso viene sempre e solo esibito, non esposto. Ed è proprio
all’interno di questa circolarità ridondante di senso e significato che matura il dramma del rischio della perdita di quel senso a cui l’essere
umano disperatamente s’aggrappa nelle proprie relazioni quotidiane per raccapezzarsi di essere-nel-mondo. I sistemi di disordine
quotidiano di cui parla il poeta fin dal titolo della presente raccolta sono insomma quel grumo, quel coacervo indistinto di pensiero e
sensazione che l’uomo si riconosce essere, nell’auscultazione interiore delle proprie scabre e rafferme identità. Il poeta outsider risulta
vivere, in definitiva, sul «discrimine invisibile che separa senso e non-senso» (è ancora Garroni che ce lo suggerisce), e la propria
malleabile difformità gli plasma una maschera da hypokritès, nel senso in cui lo diceva il grande Alberto Savinio: lo hypokritès è colui che
esamina la realtà da sotto la maschera, e che attraverso il filtro di questa fibrillante membrana ermeneutica attribuisce un senso
perpetuamente provvisorio all’esperienza. È questo e nessun altro, in definitiva, il compito dell’arte e, specialmente, per Antonio Bux,
della poesia.
Sonia Caporossi, Antonio Bux o la malleabile difformità del poeta outsider. Nota a Muri Palindromi, terza sezione di Sistemi di disordine
quotidiano
Inediti. Da Un luogo neutrale
Antonio
Bux
134
*
La via d’entrata
è riconoscersi pietra,
e cedere alla metà
dell’acqua pensante
il cuore e farlo giara
incline nel tempo
per chi vorrà bere.
Così simile l’amore
percorre il corpo,
cresce umido dentro,
e di noi lo alimenta
fino a bruciare nel nucleo.
Poi resta la pietra, resta a metà
l’entrata e bagnata la fuga.
Bisognerebbe ricrescere nell’amore
ogni volta che qualcosa lì si spegne
e cercare di strappare poi le ali
alle farfalle prima che si involino
via dallo stomaco; e non invece
lasciarle intatte e ferme su ogni
volto di donna o di uomo
che nasconde in un suo bacio
il verme fingendo nella mela
quel bisogno reciproco di stare
come torsoli nudi e senza semi
nella bocca e nel volto di quell’altro
ignorando il retrogusto della buccia
che protegge nel suo frutto la paura.
*
Antonio
Bux
135
La stanchezza abita le persiane
mentre i muri prendono misura
dell’uomo che se ne resta in disparte
a scrivere memorie sui soffitti, traducendo
il corridoio del salone fino al bagno;
lui vorrebbe annegare nel water o impalarsi
nella doccia al ritmo di un’acqua spenta,
e invece torna a sedersi nel buio del sofà,
a infilare le dita nel telecomando, a rompere
un pezzo di pane sbuffando, mentre con l’altra mano
a fare scorrimento del palinsesto, di ciò che resta
da guardare di sé, nello specchio della memoria:
quell’ultima scoria di tempo fargli eco da dentro.
È successo all’improvviso
che praticamente è morto
il vicino mentre mangiava;
beato lui - pensò mio nonno almeno se l’è goduta (ed io pensavo
cosa, la mela o la vita?); invece
lui, il vecchio, se ne sta seduto
in panciolle col bicchiere in mano
quasi fosse un mappamondo,
e a scelta ogni sorso è un viaggio
diverso da quello precedente; basta
puntare la lingua come un dito
e scegliere la meta alcolica preferita,
e ricomincia un altro tempo, un altro luogo
dove non conta il treno in ritardo,
il cielo diverso, un universo più profondo,
ma solo un fondo chiuso nella bottiglia.
Poi è successo un giorno che mio nonno
è morto mentre sceglieva con la lingua
di andare verso un altro continente,
una regione, mi pare, piuttosto bianca
e strana, fatta di pillole ed effervescenze;
è partito alzando il mento, e schiumando bava:
l’ultima cosa che ricordo di lui fu il suo sorriso
mentre con gli occhi sognava l’Antartide,
coi suoi tranquilli occhi color di bicchiere.
Inediti. Da Biografia tagliata
Antonio
Bux
136
*
Per avere i condotti distrutti
e la parsimonia vegetale
delle piante distese spianate
ecco l’offerta del sole discount
mentre spacca radice al passo
universale interrotto
ciascun essere ed è nel dunque
cercando il proprio lavabo
che si intarsia nessuna vicenda
perché sudari già non vi sono
in terra ma riferendosi al cielo
più scoccata la distanza
torna e diventa scossa interna
l'occhiata terrena, senza dirupo.
Ci sono fiori che non esistono
dentro alberi in frattaglie di verde
con tutto un fruscio d’inestinto e giovane
mentre l’uomo cammina così
male incespicando nel parco
del globo chiuso al volto dal mondo
che non vi si accorge di stare
giù per il grembo d’intorno
della vita non per l’oscura
distanza riuscita a mancare
ma per l’alterna presenza tradita
della morte che come il cielo
lascia il suo perenne in un ciclo.
Inediti. Da Sativi
Antonio
Bux
7.
Se il legno fosse
come il corpo
e se il corpo fosse
così istinto
come il fuoco allora
tutto incendierebbe
daccapo
ché senza fiamma
non vi è istinto
8.
Vivono di bugie i rami
guardali attraversare l’aria
come questi mentono
così le foglie così i fiori
muti tra le corolle
137
umane di cervelli d’alberi
e sentieri donne
Inediti. Da La voce nemica
Antonio
Bux
COLORE DEI CANI
Vorrei piangere con i miei amici
almeno una volta essere come loro
al fischio della chiamata. Così
da perdermi l’esecuzione
ogni giorno, quando i miei cani
diventano neri e se ne vanno
senza più strada. Ma gli amici miei
piangono dopo, se poi rimangono
un po’ più da soli, i loro cani
ancora al guinzaglio, questi lo sanno
di che colore è la fuga.
138
Antonio
Bux
139
SCRIVERE POESIE PERCHÉ LA SOLITUDINE
Scrivere poesie perché la solitudine.
Il sogno di un biancore o l’eco
di un nero a salvare. Ma
non ha scampo la scrittura
non dà scampo. È solo scalpo
del taglio primordiale. Non resta
che sapere. Scrivere poesie
fa la solitudine. Sapere che
la solitudine col tempo
diventa una mano e prende
a schiaffi il silenzio poi
con la vita gioca a spingere tutti
senza corpo né pensiero oltre
il vero peso del resto ma cade
con ciò che non riesce più a dire
contro ogni risposta cade
ecco la differenza
è questa: tacere aumenta
il vuoto sospeso, ché uno parla
quando cancella solo un perché
ed è sempre silenzio preferendo sé
solo, nella sua gratitudine.
Inediti. Da Naturario
Antonio
Bux
RICORDO CENTRALE
140
Presso un lido qualunque
lì sulla spiaggia distrutta
Marina di Lesina pareva
una nube. I tuoi occhi
erano la spiaggia.
Nella spiaggia vi erano
persone distanti e bambini
giocare sul molo aspettando
il ritorno in superficie
della biscia. La biscia erano
i tuoi capelli. Così i tuoi capelli
nel lago di Lesina, sulla spiaggia
arsa di bimbi e di magie nei voli
di aironi stanchi. E le mie gambe
sottili anguille, e le braccia ranocchie.
Eravamo piccini, diventati granelli.
Poi ti ho vista rinascere battigia
adulta nel boschetto anni dopo
quercia a metà d'un polmone di vento.
Eri diventata dell'aria, di tutto il silenzio.
E io tornato a quel lido, spiaggia qualunque.
PER UN POETA PIETRA
Parliamo Alfonso dei prati
rubati alla cenere. I poeti
chiusi nei vortici sono beati
vivono il nucleo insperato
non arrivano al palmo
della vita ma toccano
le corde dei pianeti morti
nel celeste il profondo vizio
la continua nostra mutazione.
Il desiderio, escluso questo
resta polvere aprendo l'occhio;
amico quella polvere serena
schiarisce tutte le tombe.
Antonio
Bux
Caro Alfonso il tempo
è tutto politico.
Ma tu sai che non esiste
come l’ombra è una marea
che arriva solo ai piedi.
ora apre il suo blu
di un fondale comune.
Ecco i cipressi marini,
le montagne conchiglie,
ecco i denti delfini.
Nonostante d’acqua.
141
Questo trasporto ne è
il dove necessario
la pietra trattenuta eppure
il distacco estremo da noi
poiché proprio in questo
vive l’incredulo.
Ecco, la cara caverna
a cui apparteniamo
E di ritorno restando
ecco tre soli
nell’occhio del miope.
Non ci sono ricordi
che salvano.
Tu l’hai capito molto prima
difatti parli di luce
crescendo protetto
in un buio infezione.
GRÀCIA
a Leopoldo María Panero
Antonio
Bux
Il cervo ferito non desidera
la chiara fonte. Ancora March
travestito da passante.
È stato chiaro con me,
mi ha baciato la fronte.
Una fossa, poi Gran de Gràcia:
giallori di gente, ramificazioni
ed echi.
Sangue ovunque, occhi
bifidi. Ma il cervo è nelle vene,
ha ali profondissime,
le corna poco cresciute.
Incontro per caso, in Carrer Verdi,
lo zombi di Leopoldo María.
Piscia in un angolo. Gli dico:
“sei tu, Panero?”. E lui: “Sono solo
l’ombra del cervo”. Continuo.
142
La strada è una piscina. Uno scortichio
d’anime. Mi fermo, orino in piazza.
Ho le braccia sudate. Lo sguardo
ricolmo di peli. Sono l’ultimo cervo.
CASA BATLLÓ
a Pere Gimferrer
Pere Gimferrer
non l'ho mai visto,
però mi ha detto
una volta che Casa
Batlló non esiste.
“È un'immagine
di rose cadute,
un giardino tradito”.
Gli risposi che “da qui
l'aria è una vertigine
misteriosa, soggiorna
e fa luce più sotto.
E questa casa, casa morta,
volta a un emisfero di crani
rimedia il paesaggio
come un gatto miracolato”.
La mia risposta non gli
piacque, e scomparve
dietro la mia giacca.
Però ho tradotto cinque
poesie di Gimferrer.
Una proprio davanti
a questa casa. Ne ricordo
ancora la chiusa: "Al vertice
dell’aria vivrà l’aria, nel cerchio
a cupole del vento“.
CIELO IPOTETICO
(Preparadiso)
Antonio
Bux
143
1.
Che colpa ne ho io se il sonno dei baci è arrivato
prima del parto e mi ha tagliato la testa. È stato
uno specchio a rivelare cigni feriti. La prima sera
invece bare sociali, tutte insinuatesi dopo. Ma io
non ho avuto tempo di crescere funghi. Non ho avuto
modo di sapere la vista se è un bosco o se solo diviene
fango avanzando. Non ho saputo creare dai gatti calmi
il reale desiderio del balzo. Non ho potuto temere l'airone
paterno o la serpe vicina, non ho tradito gli amici zanzare.
Ma il lago interno è mutato lo stesso. E allora è bastato
restare sdraiati cervelli all'aria per sterilizzare ogni
aurora prima del vento. È bastato credere al vulcano
spento o alla cenere impazzita del corpo, che subito
la maggioranza ha eruttato bestemmie. Ed è servito
cadere ogni giorno, è servito succhiare la montagna di Dio
per precipitare sotto, è servito sognare alberi corti, è servito
sapersi bonsai, dio quanto è servito soffrire il verde completo
che ora è sera e nessuno riesce a vederlo, che ora è per sempre
notte sazia di pipistrelli. Ma le stelle lo sanno, sono il citofono
e il cielo il palazzo, dove noi non entriamo. Piuttosto ci stiamo
a zerbino, nell'aria impolverata, piuttosto spariamo ma l'alba ferisce
più forte. È un gioco meschino? Niente come le carte che giriamo
fa la truffa, niente fa l’uomo come una mano al tavolo sparecchiato.
Antonio
Bux
144
2.
Io non so se l’avorio supererà il bianco clandestino
della mia vita notturna non so se sarà daltonico il vino
o se la fantastica selva fiorirà dappertutto. E tu non sai
chiaramente la lotteria del capitato o del fecondo dove
combacia, se nella steppa del materiale o se nell’imbuto
del giorno. Come non sappiamo il quadro dell’occhio
quanti soli frammenta al minuto, o se diventa tenebra
incinta. Ma io sogno di esser vivo se tu sogni di esser
meno. E se tu sogni di esser meno io vivo del tuo sogno.
Ma se nel sogno io rifiuto il manto caprino, allora un volto
esagonale si dilata. E se non sogno più diamanti è per colpa
del mestiere che frantuma ogni promessa. Se tu non sogni
delle case o se non entri nei fantasmi allora è vano il mio
distacco. E se mia madre è stata un sogno, una cicogna nera
ora vola sul mio braccio e sulla pelle. E se tua madre non è stata
in grado di sognare a cosa serve la preghiera che cosa stringe
nella pietra se non fa male la tua mano. Se la tua mente
non esplode quale miccia si commuove quale fiamma cade
invano ma gentile, quale ragno tappa i buchi quale fonte cede
i segni, quale mare attraversa dentro. Se nella mano si conclude
il sogno di una vita è per forza d’ogni bene è per vincere la fame
di un povero caduto. Ma tu non puoi risolvere i nodi se sei nodo
non puoi la spada se sei scudo, non puoi girare a vuoto il tuo divieto.
CONTRADA CICERONE
Antonio
Bux
145
Le filiere abbandonate tra gli orzi
i gufi di pianura con gli spaventa passeri umani strappati
a morsi dal vento e dai doppi
filari tra le viti rotte gli spazi
della borragine. E non è tutto.
Un muro a croce maestro
dove filtra una luce di sonno,
vertebra della terra insegnando
che una montagna nasce vecchia
se guardata dall'alto. Ma nemmeno
questo è tutto. Le mani nei pozzi
tirare fuori acque invisibili, tra i denti
di pani spezzati senza moltiplicare
nessun pesce solo cactus di soli
sterrati. E cani guardiani di mosche
ferme nell'aria dove crogiola il fuoco,
tra sentieri vipere lì vive ancora
il topo viandante africano. Lombrichi
di occhi e formiche pensieri questo
è tutto. Deserto moderno a portata
d'uomo. E anche fosse davvero tutto
questa specie di paesaggio cresce
altrove la stessa pianta il rovescio
frutto della mano. Un cielo calpestato.
Antonio
Bux
33.
(Teoria del lupo indiretto)
146
C'è un lupo che ognuno cova
lontano da sé ma per davvero
tra i denti. In qualche luogo
più solo di dentro in un vago
momento si rizza di vita.
E non è paura, desiderio di fare
ma vista del bene mancato
ciò che dilania alla luna e che
nella luna manca guardando.
Cresce di lato, laggiù nel corpo
completo della fame: al vibrato
del male instancabile il ghigno.
E così d'ululato stimola e danza:
in un azzurro lontano il plenilunio
mormorato universale all'occhio
del comando umano innaturale.
Giostrare tutto allora di carne
senza il difetto o comando dal petto
ma in fitta di trame, il chiodo più lungo
che va di speranza, ficcato indiretto.
L'ISOLA DI VETRO
Antonio
Bux
147
Credo ad un'isola
di vetro, ad una fauna
precedente. D'infanzia non muore
nessuno. Hai mai visto
il sole battere
l'istante? Già nasce
caduto, come troppo
lucente. Si conoscono così
popoli sottomessi, sotto la coltre
hanno mani splendidamente rugose
e gioielli secchi. Se t'avanza del tempo
vai incontro alla loro fame.
Se t'avanza conoscenza diventa
questo fossile. Precediti.
Ché si muore spesso
di sogni ai margini.
Attraverso le sterrate africane
di una certa Africa perlata,
o nella steppa proibita siberiana,
dove i treni fantasma combaciano,
o tra i rottami viventi delle tundre
eschimesi. Avvolti nel bianco, vedrai
fiori di gesso e un freddo diverso
costringere le ere. Come non arrivando,
ti entreranno da tutte le parti.
Questi nuovi te di tempesta
col furore d'un primo isolamento.
Ti mancherà il cielo di Golconda.
DIALOGHI CON RIO (prima parte)
Antonio
Bux
148
Vedi, Rio, il peschereccio
è sdraiato sul mare. In bilico,
con la fune a torcicollo. Siamo
chiusi come quello. Dalla luce
dell'acqua filtra una murena
muovendosi fa venire fitte
alla visione. C'è odore
di cancrena, arriva dal rivolo
di un rovo spento. Passiamo
ore al mattino, negli occhi
diradando sulla battigia
come vuoti, alghe fetali.
Tu non sai di essere finito
ed io non so la fine come arrivi
se da un profondo mal di schiena
o da un sorriso avvolto nel piombo.
So che farà male, che sarà come
fumarsi una stagnola, tradendo gli altri
cresciuti a pasticche. Dentro il mare
barcheggia il rifiuto, la storia svanita
e altri stupidi esseri facendosi a gara,
ma non si salverà il porto, solo una riva.
Rio, tutta questa fatica, lo sguardo
incagliato alle navi, è per una sponda.
È per una sponda morta, che si erode.
DIALOGHI CON RIO (seconda parte)
Antonio
Bux
149
Guarda, Rio, è come senti. Sibila tutto
al mondo. Questo lo dice chi sta sotto.
E le chiazze della mente come spirali
si concentrano in più punti, confondendo.
Ma al di sopra un pensiero ricresce
perenne; è l'unità. Ecco allora
i cannolicchi avvolti nelle sabbie
insistono, investiti dal colore
del fondale. Vivono la polpa,
la indugiano perfettamente
come ostriche, ferendosi
per dare perle, e schiudere il foro
marino. Da un altro buco rientra
invece il calamaro, con la seppia
al buio, imitando l'aragosta, vibra
della migrazione salina. Così ascolta
il mare, pieno di solchi. Di onde interne
che si fondono in trasporti. Crea nuove
luci. Per questo si concentra tutto sotto.
Dove gli esseri che lo popolano, splendono
sbiaditi, vedono oltre il dono. Sono occhi
rapiti alla corrente. Sono falde precedenti.
Vedi, Rio, tutto questo, da solo si porta
fino al principio. E per i fiumi è lo stesso.
Solo l'uomo si nega, in cerca del sibilo.
DIALOGHI CON RIO (terza parte)
Antonio
Bux
150
Rio, ti ascolto. Sai, noi umani
abbiamo bisogno di teorie.
I nostri muscoli sono muffe,
cadono a pezzi se reagiscono,
poi cedono, di fronte l'universo.
È una creatività del male, fissa
sempre un dominio alla lontana.
Le cose del mondo invece a caso
si rimpiazzano con gioia, fresche.
Non come noi, che in cerca
del diverso non mutiamo.
Sapessi spiegarti per cosa davvero
si ricresce, ti direi che è per unità,
ma non è così. Staccata, la realtà
mette in ordine senza il sublime.
Cambia percezione, non si raggiunge
di sua volontà, fa maschera del naturale.
L'essere umano camuffato in questa
disciplina, compra e spende senza
mitezza. Diventa finta attività. Invece
Tu, che scorri, grande invisibilmente,
sai che la forza non è nel raggiungersi.
E domini la terra, poiché fatto di quella.
Il tuo controllo è nel divino fraintendersi,
Rio, questa è l'azione. Chi custodisce
pietre per secoli, lo rimuove. Ma l'uomo
freddo calcolo di vita, muore contrario.
Sugli inediti
Antonio
Bux
151
DA MURO A MURO
Lettera aperta ad Antonio Bux su Naturario
Da muro a muro, mi sento un po’ barcollare. Sono felice ci sia anche il mio nome in questa tua bellezza, inesauribile e netta, caro Antonio,
in questo tuo Naturario. È quanto di meglio io abbia letto negli ultimi tempi. Sono poesie autentiche dove, senza reticenze, ma con pudore,
metti a nudo la tua verità, meravigliosa grotta di Lascaux. Io mi sono messo a piangere pensando alle tue poesie. Tu m’insegni molto. In
uno dei tuoi versi mi dici «in un buio infezione»: hai detto tutto. Sa dire tutto con poco, chi si traghetta o è stato già traghettato e lo sa o
non lo sa del tutto. «Senza sapere» (come tu dici) abitiamo la necessità della distanza, l’uno dentro l’altro, l’uno accanto all’altro, e la casacaverna ci è lontana. «La casa è ciò da cui si è tolti», è un verso di Antonella Anedda. O ancora, «La casa è fuori / nella notte», è un verso di
Marina Cvetaeva. Da dove, Antonio? Dove? Il margine si confonde sempre più al centro. Ma, rispetto al centro, che è una regalità
inavvicinabile e ferma, il margine, senza sceglierlo o volerlo, si rende distinguibile, almeno all’occhio di chi va in cerca della vita. Le città
non sono diverse. Si tace ovunque sulla storia, c’è una rimozione generale delle persone nella storia. Lo si dice da secoli, nella letteratura e
non. In letteratura forse con un po’ più di verità. Lo si denuncia da secoli. Tu ed io seguiamo questa traiettoria. Non si cambia il mondo
con le idee di un tavolino d’impiegato. Qualcosa cambia, attimo per attimo. Forse la nostra delinquenza morale dileguerà dinanzi a una
povera morte diseredata. Verga o Dostoevskji? Io non lo so, ma tu devi dirmi dove abita la pioggia o da chi ne è abitata. Dunque grazie,
Antonio. Ancora e per sempre grazie. Ti dico grazie perché ammiro il tuo impegno quotidiano, la tua ricerca; sei un ragazzo, sei un uomo,
sei un poeta e fra tante realtà ne scelse una... Quest’ultimo, te lo ricordi? È un verso della nostra amata Amelia Rosselli. Sai, è da quando
sono diventato uomo che cerco la porta stretta di cui parla Matteo, a te posso dirlo. In te vedo qualcosa di simile. Tu vai all’origine, come
se le radici ridessero con te. Io mi fermo sempre molto prima. Il buio si è cristallizzato. È diventato un cristallo, un allume di rocca, le sue
rive murarie arginano la violenta, torrenziale parola. Da ogni giorno verso ogni giorno. Questo tu, grande, lo hai capito. Come quei pochi
veri amici non poeti o quei pochi poeti del fondo muto. Mi chiedevo perché ci voglia una immensa pazienza ad amare una sola ferita.
Tutte le tue poesie hanno questo, e molto altro: come la prontezza e lo scatto di una forza o di un mucchio di forze che finora ho
riscontrato solo nelle perfette rappresentazioni pittoriche delle monomanie di Gericault. I tuoi versi sono di una purezza e di una
vorticosità che, te lo confesso, ho provato solo davanti a quelli della Claudia Ruggeri. Siete diversi, lo so. Ma i tuoi conti li fai, con una
certa urgenza, anche tu, proprio come faceva lei. E, come in lei, in te ho sentito la voce sibillina di un amore che tramonta nei secoli e non è
più da tempo del mondo degli uomini. Antonio, tu sei il testimone affollato di quest’ultimo mondo. Le tue poesie hanno una lucentezza
che è propria del sole. Riconosco i tuoi versi, i tuoi paesaggi, quello che sei. Abbiamo una lingua comune e il territorio sublinguale dove si
stagliano caverne mongole è comune. Tu sai cos’è la solitudine. Ti ho riconosciuto. Sei vero davanti a te stesso, più che davanti agli altri,
non hai l’infinito, questo abuso, ma una morte interminabile che ha il passo di una fuga e la passione di una sete. Non è poco, non sei
poco. Questo segreto che viene da un altro grande segreto, è il mezzo stesso del segreto. Perché la poesia è comunicare da segreto a
segreto, come diceva Ungaretti. E la tua, Antonio, è una poesia bellissima, figlia di questo mistero. È una poesia densa, oscura, allucinata,
alta. E tu, Antonio, ne sei il trono e l’invocazione. Non mi sia chiesto il perché. E mi viene anche in mente il fannullone viziato nei giardini
del sapere di cui parlava Nietzsche. Sono immagini, nient’altro. Sono la valida, violenta fucilata di una sola immagine. Antonio, non
uccidermi più. La tua parola uccide. Le tue poesie per me hanno un dolore che non merito. Non è per fare la vittima, ma c’è una sacralità
in quello che dici, in ogni interpunzione, in ogni orizzonte. Sei tu la vastità, Antonio. Tu sei. Ed è ciò che mi rende più felice. Perché tu sai
coltivare questo giardino immenso, dove ci sono le pesche e un libro di favole giganti. E quest’orto, dove vanno a finire tutte le lacrime
(ecco ancora la Anedda). Dove vi sono anche le tue pietre, sacre. A ricordarci di continuo l’origine dell’uomo e la necessità di perdere e,
forse, di ricreare. Perché uomo è quando smette di essere.
Non ti ho voluto parlare, però, esclusivamente della morte, delle sue fascinazioni semplici e complesse, no; ho esitato sulla soglia dove, per
Bonnefoy, come ben sai, si nasconde l’insidia. Volevo solo ringraziarti. È edificante la morfologia della diserzione. Le nostre verità sono
vicine. Un matrimonio mistico, la "sponsa", almeno. Come tu sai, la poesia è una stretta di mano. Dunque grazie per queste tue parole.
Grazie per questa continua morte. Col grande affetto che a te mi unisce.
Alfonso Guida
Antonio
Bux
152
http://www.edizionijoker.com/la_clessidra.html
http://www.edizionidifelice.it/2013/41smerilliana15.htm
Collage Anne Sexton
To a Friend Whose Work Has Come to Triumph
153
Consider Icarus, pasting those sticky wings on,
testing that strange little tug at his shoulder blade,
and think of that first flawless moment over the lawn
of the labyrinth. Think of the difference it made!
There below are the trees, as awkward as camels;
and here are the shocked starlings pumping past
and think of innocent Icarus who is doing quite well.
Larger than a sail, over the fog and the blast
of the plushy ocean, he goes. Admire his wings!
Feel the fire at his neck and see how casually
he glances up and is caught, wondrously tunneling
into that hot eye. Who cares that he fell back to the sea?
See him acclaiming the sun and come plunging down
while his sensible daddy goes straight into town.
Collage Anne Sexton
Anne Sexton reads For My Lover Returning to his Wife
https://www.youtube.com/watch?v=_Uxv7djrcF8
154
http://www.istmi.it/
http://www.atelierpoesia.it/
Arcipelago itaca prima apparizione. Giovanni Commare su Gianfranco Ciabatti, Adriàn Bravi, Maria Lenti, Nicola
Romano e Norma Stramucci. Collage Dino Campana. Riproduzioni di opere di Giorgio Bertelli e Lorenza Alba.
Arcipelago itaca seconda apparizione. Danilo Mandolini su Attilio Zanichelli, Lucetta Frisa, Ivano Mugnaini,
Adelelmo Ruggieri e Luigi Socci. Collage Guido Gozzano. Riproduzioni di immagini di Michele Rogani e di
un’opera di Pietro Spica.
Arcipelago itaca terza apparizione. Contributi da interventi di Maria Lenti e Gianfranco Lauretano su Tolmino
Baldassari, Danilo Mandolini su Renata Morresi, Maria Grazia Calandrone, Mauro Ferrari, Daniele Garbuglia e
Massimo Morasso. Inediti di Enzo Filosa. Collage Vladimir Majakovskij. Riproduzioni di opere di Silvana Russo e
Lucia Marcucci.
Arcipelago itaca quarta apparizione. Un ricordo di Leonardo Mancino (con un testo inedito di Biagio Balistreri),
Danilo Mandolini su Anna Elisa De Gregorio, Gianni Caccia, Massimo Gezzi, Franca Mancinelli, Liliana Ugolini.
Inediti di Marina Pizzi. Collage Charles Baudelaire. Riproduzioni di opere di Enzo Esposito, Giovanna Ugolini,
Cosimo Budetta, Alfredo Malferrari e Giordano Perelli.
Arcipelago itaca quinta apparizione. Un ricordo di Alfonso Gatto (con un saggio di Laura Pesola), Rossella Maiore
Tamponi (con note di Francesco Scaramozzino e Giorgio Linguaglossa), Linnio Accorroni (con note di Danilo
Mandolini e Adelelmo Ruggieri), Manuel Cohen (con una nota di Danilo Mandolini), Enrico De Lea, Evelina De
Signoribus, Stelvio Di Spigno ed Eva Taylor. Collage Cesare Pavese. Riproduzioni di immagini di Sauro Marini e
di un’opera di Adriano Spatola.
Arcipelago itaca sesta apparizione. Un brano dal discorso di Eugenio Montale pronunciato in occasione
dell’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura del 1975, un ricordo di Ferruccio Benzoni (con un articolo di
Francesco Magnani, un’intervista all’autore a cura di Gabriele Zani e una poesia di Francesco Scarabicchi), Cristina
Babino (con una nota di Danilo Mandolini), Francesco Accattoli, Guglielmo Peralta e Lucilio Santoni. Inediti di
Narda Fattori. Collage Arthur Rimbaud. Riproduzioni di opere di Agostino Perrini e di Emilio Tadini. Commento
all’opera di Agostino Perrini a cura di Marco Frusca.
Arcipelago itaca settima apparizione. Un ricordo di Giovanni Giudici (con brani da una nota commemorativa di
Goffredo Fofi), Alessandro Moscè (con una nota di Danilo Mandolini), Marco Ercolani, Fabio Franzin, Mariangela
Guàtteri e Annalisa Teodorani. Inedito di Giovanni Commare. Collage William Butler Yeats. Riproduzioni di
immagini di Mario Giacomelli.
Arcipelago itaca ottava apparizione. Un ricordo di Claudia Ruggeri (con un saggio di Stelvio Di Spigno),
Alessandra Cava e Natalia Paci (con note di Danilo Mandolini), Patrizia Cavalli, Gian Maria Annovi, Luca Ariano
e Anna Ruotolo. Inediti di Mauro Barbetti e Renata Morresi. Collage Giuseppe Ungaretti. Riproduzioni di opere di
Luigi Bartolini.
Arcipelago itaca nona apparizione. Un ricordo di Pier Paolo Pasolini (con una nota introduttiva di Danilo
Mandolini), Manuel Cohen, Anna Elisa De Gregorio, Francesco De Napoli (con note di Danilo Mandolini),
Gianni D’Elia, Marco Di Pasquale, Annamaria Ferramosca e Maria Grazia Maiorino. Inediti di Mariella De Santis
e Luigi Socci. Collage Giorgio Caproni. Riproduzioni di opere di Osvaldo Licini.
Arcipelago itaca decima apparizione. Un ricordo di Remo Pagnanelli (con una nota introduttiva di Danilo
Mandolini), Elisabetta Maltese (con una nota di Mauro Barbetti), Maria Lenti, Nicola Romano (con note di Danilo
Mandolini), Elio Pagliarani, Francesco Scarabicchi (con un’intervista a cura di Danilo Mandolini), Alessandra
Carnaroli e Roberto Deidier. Inediti di Loretta Zoppi (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Guillaume
Apollinaire. Riproduzioni di immagini fotografiche che testimoniano le lotte dei lavoratori e le proteste contro il
potere (sia questo economico/finanziario che non).
Arcipelago itaca undicesima apparizione. Violata? Giudicate voi! Sull’ormai nota “statua della discordia” di Ancona.
Simonetta Giungi (con una nota introduttiva inedita di Maria Lenti), un saggio inedito di Guglielmo Peralta su
Cesare Pavese (con alcune poesie scelte), [ancora su] Leonardo Mancino (con un brano da un saggio ed una lirica di
Luisa Rossi), Mauro Barbetti (con una nota di Danilo Mandolini), Maurizio Landini (con un intervento di Martina
Daraio), Andrea Zanzotto, Damiano Abeni (con un brano da una nota di Massimo Gezzi), Andrea Longega e
Marco Srebernic (con una nota di Danilo Mandolini). Collage Charles Bukowsky. Riproduzioni di nove immagini
fotografiche che rappresentano altrettanti atti d’accusa contro la pena di morte.
Arcipelago itaca dodicesima apparizione. Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca. Con
l’introduzione di Giovanni Raboni, le traduzioni di Carlo Bo, Elio Vittorini, Giorgio Caproni, Leonardo Sciascia e
Oreste Macrì e con un recente articolo di Alessio Piras; Irene Paganucci (con una nota di Mauro Barbetti);
Alessandro Seri e Norma Stramucci (entrambi introdotti da Danilo Mandolini); Eugenio Montale (nella
presentazione di Dante Isella); Rachel Blau DuPlessis (con un brano dal saggio introduttivo di Renata Morresi a
Dieci bozze); Manuel Caprari (con una nota sempre di Renata Morresi); Alberto Toni. Collage Jorge Luis Borges.
Riproduzioni di undici immagini tratte dal volume fotografico Un secolo di guerre.
Arcipelago itaca tredicesima apparizione. Ricordo di Maria Grazia Lenisa [con testo introduttivo inedito (Un mondo
di là da venire) di Danilo Mandolini. Scheda bio-bibliografica e scelta delle liriche a cura di Marzia Alunni. Tre (più o
meno) recenti contributi critici], carteggi tra Celan e Vittorio Sereni e tra quest’ultimo e Andrea Zanzotto (nota
introduttiva di Giovanna Cordibella), da Dopo Campoformio di Roberto Roversi, Adriàn N. Bravi, Lella De Marchi e
Lorenzo Mari. Collage Thomas Stern Eliot. Riproduzioni di dieci immagini di Marco Baldinelli.
Arcipelago itaca quattordicesima apparizione. Vittorio Reta: testi da Visas (introduzione a cura di Danilo Mandolini
e un ampio estratto da Una rete per Reta di Luciano Nanni); Sebastiano Timpanaro legge Leopardi (brani scelti da
Giovanni Commare) [introduzione a cura di Danilo Mandolini e (Sebastiano Timpanaro) Il materialismo per la lotta di
classe di Giovanni Commare]; Amelia Rosselli (da Variazioni belliche); Maria Lenti: da Effetto giorno - scritti diversi
(1993-2012) (breve introduzione a cura di Danilo Mandolini e La parola scritta di Maria Lenti di Vitaliano Angelini);
Narda Fattori; Andrea Lanfranchi. Collage Iosif Aleksandrovič Brodskij. Riproduzioni di tredici immagini di
Danilo Mandolini.
Arcipelago itaca quindidicesima apparizione. Fernanda Romagnoli: testi da Il tredicesimo invitato e altre poesie ed
estratti dall’Introduzione allo stesso volume e da La fortuna critica di Fernanda Romagnoli e gli inediti (entrambi a cura di
Donatella Bisutti); versi da La deriva di Luca Canali ed un brano dalla Nota introduttiva alla stessa opera (a cura di
Giacinto Spagnoletti); L’albero e la vacca di Adriàn Bravi (con L’evoluzione della narrativa di Adriàn Bravi oltre il
confine delle ossessioni di Danilo Mandolini); Parlando d’altro di Rodolfo Cernilogar (con Parlando d’altro si fa poesia
di Mauro Barbetti); Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato di Andrea Inglese (con La rappresentazione
del sentimento dell’attesa di Danilo Mandolini); Femminile plurale - Le donne scrivono le Marche (con brani da Una
regione al femminile plurale di Cristina Babino, Dalle Marche: una possibile “mappa” del sentire e del vedere peculiare delle
donne di Danilo Mandolini ed un estratto da Viaggi minimi con Luigi Di Ruscio di Luana Trapè); Suono del vento
primo di Enrico De Lea; antologie delle opere e della critica di e su Francesca Perlini (con «L’esistenza entra nella vita»
di Danilo Mandolini) e Marco Simonelli. Collage Marina Ivanovna Cvetaeva. Riproduzioni di quattordici
immagini fotografiche testimonianti lo stato di inarrestabile degrado ed inquinamento del pianeta (e relativi link di
articoli correlati). In copertina: immagine di Jan Smith.
Arcipelago itaca sedicesima apparizione. Lo scorso 17 febbraio è formalmente nata Arcipelago itaca Edizioni. Michail
Jur’evič Lermontov: una presentazione di Danilo Mandolini, versi da Quaranta poesie ed un estratto dalle Note ai testi
(dal medesimo volume) entrambi a cura di Roberto Michilli. Da Lunga un anno di Francesco Accattoli, Musa fitta
nell’azzurro di Davide Argnani, La cordialità di Mariella De Santis, Quaderno millimetrato di Dorinda di Prossimo e
note di presentazione di Danilo Mandolini. Testi di Francesca Monnetti e Nota introduttiva di Mauro Barbetti. Da
TerraeMotus / [voci, traccia] di Fabio Orecchini e nota di commento dello stesso autore. Piccola antologia dell’opera
e della critica di e su: Alessio Alessandrini e Antonio Bux. Collage Anne Sexton. Riproduzioni di ventisette
immagini che rimandano soprattutto alle copertine di molte tra le più note riviste italiane di letteratura. In copertina:
“Solaria” e “Officina”.
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga
fertile in avventure e in esperienze.
Costantino Kavafis, Itaca
Per ricevere, a ½ e-mail, le apparizioni (incluse quelle arretrate) di “Arcipelago itaca” blo-mag,
inoltrare relativa richiesta a [email protected].
I contributi
di Anna Elisa De Gregorio,
Leandro Di Donato
ed Alessandro Fo
(98 - 100) relativi a
Somiglia più all’urlo di un animale
di Alessio Alessandrini sono, ad oggi, inediti.
***
Il contributo
di Alfonso Guida (151 - 152) relativo a
Naturario
di Antonio Bux è, ad oggi, inedito.
Sexton
Accattoli
Monnetti
Barbetti
Orecchini
Di
Prossimo
Argnani
Michilli
Bux
Mandolini
De Santis
Alessandrini
Lermontov
letterature, visioni ed altri percorsi
ideatore e curatore: Danilo Mandolini
La piccola immagine
in basso a destra
nella seconda di copertina
e in alto a sinistra
nella terza di copertina
raffigura
la sagoma dell’isola di Itaca.
Arcipelago itaca Edizioni
di Danilo Mandolini
Via Mons. Domenico Brizi, 4 60027 Osimo (AN).
www.arcipelagoitaca.it