PERCORSI DI ETICA SAGGI Direttore Luigi A Università degli Studi di Macerata Comitato scientifico Antonio D R Università degli Studi di Padova Francesco M Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Marie-Anne V Université “Paul Verlaine” de Metz Comitato redazionale Carla C Università degli Studi di Macerata Donatella P Università degli Studi di Macerata Maria Teresa R Università degli Studi Roma Tre PERCORSI DI ETICA SAGGI La collana presenta percorsi di riflessione che attraversano le frontiere — antiche e nuove — dell’etica, analizzando questioni emergenti all’incrocio tra filosofia e vita, e cercando di coniugare, in prospettiva interdisciplinare, il lessico della responsabilità, le forme della reciprocità e le ragioni del bene. La collana si articola in due sezioni: la prima (“Saggi”) ospita studi monografici come risultato di ricerche personali; la seconda (“Collo qui”) raccoglie dialoghi a più voci, costruiti a partire da un progetto organico, verificato e condiviso nell’ambito di seminari e gruppi di discussione. La ricerca di una coerenza di fondo fra i nuclei tematici presi in esame e il metodo dialogico della loro elaborazione fa della collana un prezioso strumento critico, in grado di alimentare il dibattito etico contemporaneo alla luce di istanze fondamentali di cura e promozione dell’umano. Carlo Leonardi Alasdair MacIntyre Sul crocevia tra etica, filosofia della religione e teologia Prefazione di Mario Micheletti Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: febbraio Indice 9 Prefazione di Mario Micheletti 17 37 Introduzione PARTE PRIMA Etica 39 Capitolo I La rinascita dell’“etica delle virtù” Aporie metaetiche – Tradizione, razionalità pratica e telos umano – Il paradigma normativo delle virtù 55 Capitolo II “Versioni rivali” di Aristotele? Etica delle virtù e coeva “riabilitazione della filosofia pratica” – La controversa eredità di Heidegger interprete di Aristotele – La parabola aristotelica di MacIntyre 69 Capitolo III Il primato della tradizione aristotelico–tomista Etica delle virtù quale “migliore teoria morale sinora formulata” – Principia ethica, crisi epistemologiche e progresso nelle scienze umane – “Tomismo analitico” v. “teoria ermeneutica”: concordia discordans? 85 PARTE SECONDA Filosofia della religione 87 Capitolo IV MacIntyre, filosofo della religione Lo status epistemologico della credenza religiosa – Difficoltà logiche nel cristianesimo – A quale Dio dover ubbidire e perché? 7 101 Capitolo V “Teleologia pratica” e Weltanschauung cristiana La fallacia della deontologia kantiana – Teleologia pratica v. teleologia normativa – “Costruzione teologica” del mondo e della storia umana 121 Capitolo VI Sulla possibilità di un fondamento teologico dell’etica Il potenziale della teologia in W. Frankena – L’“etica teocentrica” di J. Gustafson e il “comunitarismo confessionale” di S. Hauerwas – MacIntyre: perché la ricerca dei fondamenti dell’etica è divenuta così frustrante? 143 PARTE TERZA Teologia 145 Capitolo VII Excursus teologico intorno all’opera di MacIntyre Il fallimento della “teologia della secolarizzazione” – La “teologia post– secolare” di J. Milbank – Escatologia e “teologia della prassi” 159 Capitolo VIII “Teologia narrativa”, ontologico prassi cristiana e radicamento “Narratività”: nuova panacea dei problemi teologici e morali? – Ermeneutica biblica quale “ermeneutica della prassi ebraico–cristiana” – Racconto fondatore e radicamento ontologico 175 Capitolo IX La tradizione nella riflessione filosofica e teologica cristiana Eclissi o reviviscenza della tradizione? – La “concezione” della tradizione nell’odierna teologia cristiana – Il modello di “tradizione cristiana” insito nella teoria morale di MacIntyre 185 Conclusione 199 Bibliografia 219 Indice dei nomi 8 Prefazione Nel recente volume God, Philosophy, Universities, MacIntyre difende con decisione la tesi tommasiana dell’identità in Dio di essenza ed esistenza (Dio come ipsum esse subsistens), sostenendo che nel pensare Dio in questo modo Tommaso d’Aquino ha trasceso i limiti dei modi aristotelici di pensare e ha riconosciuto possibilità concettuali che erano ignorate dai filosofi del mondo antico e a loro estranee. «È qui — egli osserva — che la teologia di Tommaso d’Aquino risulta importante. Senza quella teologia Tommaso non avrebbe potuto porre alcune delle questioni filosofiche cruciali che ha in realtà affrontato: ad esempio, quale ragione abbiamo di asserire che il Dio che si rivela esiste? Com’è che gli esseri umani sono diretti dalla loro natura verso un fine trascendente la natura, e che, pur essendo Dio onnipotente, gli esseri finiti, compresi gli esseri umani, sono dotati tuttavia di facoltà indipendenti di attività causale? Affrontando tali questioni, Tommaso trovò necessario anche indagare questioni concernenti il significato, la verità, e la razionalità»1. Credere nella realtà divina — afferma MacIntyre — significa credere che esiste un essere da cui dipende tutto ciò che ha per noi valore e che richiede da noi una fiducia e un’obbedienza incondizionata, di modo che «non possiamo restare indifferenti di fronte ad affermazioni che riguardano la sua esistenza e la sua natura»2. Quando mi occupai di MacIntyre nei due volumi del 1971–1972 su Il problema teologico nella filosofia analitica3 non potevo certo immaginare uno sviluppo del suo pensiero in questa direzione. In Visions (1955) e in The Logical Status of Religious Belief (1957) MacIntyre 1 A. MACINTYRE, God, Philosophy, Universities, Rowman & Littlefield, Lanham 2009, pp. 85–6. 2 Ibid., p. 8. 3 M. MICHELETTI, Il problema teologico nella filosofia analitica, La Garangola, Padova 1971–1972, vol. I, pp. 248–52; vol. II, pp. 161–79, 341–42. 9 10 Mario Micheletti sosteneva che le esperienze religiose non possono essere addotte come evidenze delle credenze religiose né possono essere autocertificanti, anche se un appello all’esperienza religiosa, al suo carattere autorevole, è inevitabile quando si tratta dell’origine di una tradizione religiosa4. In The Logical Status of Religious Belief , l’intraducibilità del linguaggio religioso, una prospettiva che in qualche modo era propria dei filosofi della religione di ispirazione wittgensteiniana, assumeva decisamente i connotati della presentazione barthiana della fede. «Si può accettare la religione nei suoi propri termini o rifiutarla; non c’è alcun modo di giustificarla col tradurla in altri termini. Questo è il correlato logico del barthismo in teologia»5. Questa fase del pensiero di MacIntyre culmina in Difficulties in Christian Belief (1959), dove tra le “difficoltà” cruciali sono da annoverare le obiezioni alla stessa possibilità di giustificare razionalmente, senza circolarità, la credenza nella realtà divina. Nell’introduzione alla seconda edizione di Marxism and Christianity (1995), MacIntyre rende conto così, retrospettivamente, della crescente problematicità che ai suoi occhi aveva assunto la fede cristiana in quella fase del suo sviluppo intellettuale: «Il cristianesimo era diventato problematico per me come conseguenza del fatto che avevo supposto che la teologia, nei termini della quale le affermazioni di fede dovevano essere intese, era quella di Karl Barth. Ma ciò che la teologia di Barth si mostrò incapace di procurare era una considerazione praticamente adeguata della vita morale, ed erroneamente presi come un difetto del cristianesimo come tale quello che era un difetto della teologia di Barth»6. A me questa sembra un’ammissione importante per capire il ruolo che la svolta nell’etica ebbe poi, per MacIntyre, anche nel senso di un ripensamento della teologia cristiana e di un avvicinamento al tomismo. 4 A. MACINTYRE, Visions, in A. FLEW – A. MACINTYRE (eds.), New Essays in Philosophical Theology, SCM, London 1955, pp. 254–60; ID., The Logical Status of Religious Belief, in S. TOULMIN – R.W. HEPBURN – A. MACINTYRE, Metaphysical Beliefs (1957), SCM, London 19702, pp. 167–211. 5 A. MACINTYRE, The Logical Status of Religious Belief, cit., p. 202. 6 A. MACINTYRE, Marxism and Christianity (1968), Duckworth, London 19952, p. xx. Prefazione 11 In Is Understanding Religion Compatible with Believing? (1964), la “storicizzazione” del conflitto sui criteri di intelligibilità tra quelli che venivano allora chiamati “fideisti wittgensteiniani” e filosofi di matrice empiristica, portava infine MacIntyre ad affrontare il problema religioso in termini storico–sociali e di progressiva “secolarizzazione”. In quel saggio MacIntyre sosteneva che comprendere il cristianesimo è incompatibile col credere, non perché il cristianesimo sia vulnerabile alle obiezioni scettiche, ma perché la sua peculiare invulnerabilità gli appartiene in quanto è una forma di credenza che ha storicamente perduto il contesto sociale che un tempo la rese comprensibile. «Il credente, se vuole, può sempre affermare che possiamo discordare da lui solo perché non lo comprendiamo. Ma le applicazioni di questa difesa della credenza sono per essa più fatali di qualsiasi concepibile attacco»7. La conciliabilità dell’invulnerabilità logica della fede cristiana con la rivendicazione della sua significanza fattuale diventava impossibile allora alla luce dello sviluppo storico, intellettuale, sociale. Il prezzo da pagare per l’invulnerabilità logica del cristianesimo era la sua vuotezza. È curioso che la direzione che prese a quel punto il pensiero di MacIntyre, con una marcata attenzione alla storia e allo sviluppo dei contesti sociali, mentre favorì una lettura sempre più problematica del linguaggio religioso, alla luce di una “secolarizzazione” che — osserva Leonardi in questo volume — per MacIntyre «faceva esplodere le aporie interne al teismo cristiano», segnò nel contempo una svolta verso una considerazione storica dell’etica, che culminò poi in A Short History of Ethics (1966), anche in seguito alle critiche mosse alle pretese della metaetica analitica, e infine nella ricostruzione storica che sostiene l’opera della maturità, con la sua originale riproposizione del tema delle virtù, After Virtue (1981). Il progressivo avvicinamento al tomismo, non solo nella filosofia pratica ma anche nell’orizzonte teologico, sarà poi paradossalmente il risultato di questo processo, che passa attraverso la riscoperta 7 A. MACINTYRE, Is Understanding Religion Compatible with Believing? (1964), in J. HICK (ed.), Faith and the Philosophers, Macmillan, London 1966, pp. 115–33 (spec. p. 133). Cfr. anche ID., Secularization and Moral Change, Oxford U.P., London 1967; ID., The Debate about God, in A. MACINTYRE – P. RICOEUR, The Religious Significance of Atheism, Columbia U.P., New York 1969, pp. 1–55. 12 Mario Micheletti dell’etica aristotelica, la sua riproposizione nell’ambito contemporaneo e l’approfondimento appunto della posizione di Tommaso d’Aquino. Alla luce di queste considerazioni è importante notare che una caratteristica della monografia su MacIntyre che qui presento è che in essa l’autore compie un attento esame appunto degli scritti di filosofia della religione di MacIntyre, cercando di cogliere il rapporto, problematico, con gli scritti di etica. Certamente è notevole la circostanza — sottolineata da Leonardi — che i principali scritti di filosofia della religione di MacIntyre, che appartengono al periodo 1951–1971, sono coevi a quegli scritti di etica che appartengono all’indagine “genealogico–sovversiva” dei canoni metaetici. È da sottolineare che in questo ambito di filosofia della religione, come ho sopra ricordato, alla fine MacIntyre è giunto ad esprimere una prospettiva di teologia naturale, che è di tipo marcatamente tomistico. Lo stesso Leonardi, che pure mette in rilievo la sintonia di molte riflessioni di MacIntyre con la teologia della prassi e in particolare con Schillebeeckx, osserva giustamente che l’anelito di MacIntyre verso un “radicamento ontologico” trova tuttavia il suo appagamento nel principio dell’ipsum esse subsistens, tanto discusso anche nel contemporaneo tomismo analitico, e non certo nel “Dio senza essere” di Marion o nell’ “ultimo Dio” heideggeriano. L’itinerario che ho schematicamente presentato all’inizio, sulla base della mia personale esperienza di studioso della filosofia analitica della religione, è solo uno dei diversi itinerari che si potrebbero indicare nello sviluppo del pensiero di MacIntyre. Un altro potrebbe essere quello che dall’iniziale adesione al marxismo, per quanto sui generis, di MacIntyre, attestato soprattutto da Marxism: An Interpretation (1953), e da una particolare interpretazione del rapporto fra marxismo e cristianesimo (Marxism and Christianity, 1968, 1995²), che vede il marxismo come una sorta di “eresia cristiana”, giunge fino alle posizioni di After Virtue e degli scritti successivi, nei quali la critica all’individualismo liberale persiste sì, ma in un contesto filosofico completamente diverso. Un altro itinerario — cui Leonardi in questo libro dà ampio spazio, insieme alla considerazione dello sviluppo della filosofia della religione di MacIntyre — è quello che dalla critica mossa da MacIntyre ad aspetti rilevanti della metaetica analitica di tipo emotivistico e prescrittivistico negli scritti degli anni 1957–1971, Prefazione 13 soprattutto What Morality Is Not (1957), Hume on “Is” and “Ought” (1959), Imperatives, Reasons for Action, and Morals (1965), “Ought” e Some More about “Ought”(1971), raccolti in Against the Self– Images of the Age (1971), giunge poi all’esito di una matura etica delle virtù, in consonanza con sviluppi interni alla scuola wittgensteiniana, con i contributi in particolare di Peter Geach e di G.E.M. Anscombe, del cui famoso articolo Modern Moral Philosophy (1958) è difficile sopravvalutare l’influsso su MacIntyre, un influsso che questi riconobbe apertamente, pur rimarcando la differenza delle sue posizioni da quelle della Anscombe8. Leonardi mette in evidenza la continuità di After Virtue (1981) con i saggi di etica pubblicati fra il 1957 e il 1971, mostrando come in questi scritti siano espressi in nuce argomenti che avranno diffusa trattazione nella fase più matura della riflessione etica di MacIntyre. Gli studi sul pensiero di MacIntyre generalmente privilegiano la sua filosofia morale e in questo ambito la sua opera principale, After Virtue. L’ipotesi da cui muove Leonardi è che chi si occupa dello sviluppo complessivo del pensiero di MacIntyre deve necessariamente confrontarsi col rapporto in MacIntyre tra la teoria morale e la riflessione sulla religione, nonché col rapporto fra l’etica filosofica e la teologia. Leonardi sottolinea inoltre i riflessi dell’opera di MacIntyre sulla teologia morale, sulla teologia fondamentale e sulla teologia dogmatica. Il significato profondo della linea etica di After Virtue emerge quindi più chiaro dal confronto con l’intero contesto intellettuale in cui si muove MacIntyre. Per quanto riguarda la teoria morale di MacIntyre, la sua originalità è vagliata non solo nel confronto, ovvio ma necessario, con la metaetica analitica e il non–cognitivismo, ma anche in modo originale nel confronto con la coeva “riabilitazione della filosofia pratica” in Germania. L’influsso di MacIntyre inoltre è esaminato anche in rapporto a posizioni teologiche diverse, come la teologia narrativa, la teologia della storia e la teologia della prassi. Aspetti di continuità all’interno della produzione filosofica di MacIntyre sono messi in evidenza insieme a significative differenze. Per 8 Cfr. A. MACINTYRE, After Virtue. A Study in Moral Theory (1981), University of Notre Dame Press, Notre Dame 20073, p. 53 (trad. it., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando, Roma 20072). 14 Mario Micheletti esempio, dopo aver citato un brano importante di una delle opere più recenti di etica di MacIntyre, Dependent Rational Animals (1999), in cui si rileva (in modo analogo a quanto sostenuto in Three Rival Versions of Moral Enquiry del 1990) che, sebbene indispensabili, le norme «non possono costituire da sole una guida sufficiente per l’azione», di modo che «sapere come agire virtuosamente implica sempre qualcosa di più del mero seguire una regola»9, Leonardi fa notare che tutto questo era contenuto in nuce in un saggio pubblicato nel 1979, due anni prima di After Virtue, cioè Theology, Ethics, and the Ethics of Medicine and Health Care. In questo saggio MacIntyre contestava qualsiasi lettura consequenzialistica della teleologia aristotelica e giungeva a formulare la tesi fondamentale secondo cui la teologia morale cristiana riesce ad esprimersi nel modo migliore quando adotta uno schema genuinamente aristotelico, sulla base di un’evidente affinità tra l’etica biblica e la teleologia pratica aristotelica, irriducibile appunto a posizioni di tipo consequenzialistico. In questa prospettiva di etica cristiana l’etica filosofica delle virtù è salvaguardata, anche se collocata all’interno dello schema antropologico di creazione, caduta e redenzione. Particolarmente interessante è l’esame dell’appropriazione di Aristotele compiuta in parallelo da MacIntyre e Gadamer. Il confronto è fondato non solo su basi teoriche, ma, in modo storiograficamente corretto, su testi di MacIntyre riguardanti Gadamer e sull’importante recensione che Gadamer scrisse di After Virtue. Leonardi coglie somiglianze fra i due pensatori, ma anche differenze essenziali (e parla quindi di una concordia discordans), individuando nel tributo reso da MacIntyre a Tommaso d’Aquino, quale principale continuatore e interprete originale della tradizione aristotelica, la caratteristica che di- 9 A. MACINTYRE, Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Virtues, Open Court, Chicago 1999 (trad. it., Animali razionali dipendenti: perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 91). Cfr. ID., Three Rival Versions of Moral Enquiry: Encyclopaedia, Genealogy, and Tradition, Duckworth, London 1990 (trad. it., Enciclopedia, Genealogia e Tradizione: tre versioni rivali di ricerca morale, Massimo, Milano 1993, p. 199); ID., Politics, Philosophy and the Common Good (1997), in K. KNIGHT (ed.), The MacIntyre Reader, Polity, Cambridge 1998, pp. 235–52 (spec. p. 247). Prefazione 15 stanzia in maniera drastica MacIntyre da Gadamer. Per MacIntyre, infatti, la filosofia tomista ha costituito un autentico progresso rispetto all’aristotelismo originario, perché è riuscita a tradurlo e incorporarlo all’interno della concezione antropologica e religiosa propria del cristianesimo. In questa prospettiva, la cifra principale del pensiero di MacIntyre — per Leonardi — viene a consistere nella sua pretesa che la razionalità pratica sia costituita e guidata da una tradizione di appartenenza e che, ciò nonostante, sia possibile, anzi doveroso, perseguire per questa via verità e principi universali. Storicismo e non– fondazionalismo in MacIntyre sono disgiunti dal relativismo. È questo forse il punto che ha suscitato le maggiori perplessità in taluni ambiti del tomismo contemporaneo. Vorrei sottolineare che John Haldane, al quale si deve la fortunata espressione “tomismo analitico” (per la prima volta usata proprio nelle lectures tenute alla Notre Dame University nel 1992 su invito di MacIntyre), ha sostenuto fondatamente che non c’è contraddizione nel riconoscere la varietà dei punti di partenza razionali e insieme la trascendenza della verità rispetto alle prospettive “locali” o “particolari”10. In una ricerca come questa, che è sorretta da una conoscenza completa degli scritti di MacIntyre, trovo significativo infine l’utilizzo di un testo, che io considero interessante, e in genere scarsamente menzionato: What More Needs to Be Said? A Beginning, Although Only a Beginning, at Saying It11, un testo nel quale, rispondendo a saggi critici a lui dedicati, compresi nello stesso volume, MacIntyre riesamina tutto il suo percorso filosofico, mettendo in evidenza discontinuità, ma anche linee di continuità, per quanto riguarda le posizioni etiche di After Virtue, e in particolare il ruolo della metafisica. Mario Micheletti 10 J. HALDANE, Virtue, Truth and Relativism, in D. CARR – J. STEUTEL (eds.), Virtue Ethics and Moral Education, Routledge, London–New York 1999, pp. 155– 68 (spec. p. 166). 11 A. MACINTYRE, What More Needs to Be Said? A Beginning, Although Only a Beginning, at Saying It, in K. KNIGHT – P. BLACKLEDGE (eds.), Revolutionary Aristotelianism: Ethics, Resistance and Utopia, Lucius, Stuttgart 2008, pp. 261–76. Introduzione Nel 1943, poco prima di morire, Simone Weil scrisse: «Il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale, all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire»1. Ebbene, quale significato dobbiamo oggi attribuire a termini quali “virtù”, “comunità” e “tradizione”, quando la profezia sull’affermazione della voluntas nichilistica dell’“ultimo uomo” nietzschiano sembra essersi inesorabilmente compiuta2? Intorno a tale imbarazzante dilemma, ruota l’originale riflessione morale di uno dei filosofi più discussi e, per questo motivo, più fecondi del nostro tempo: Alasdair MacIntyre. Nato a Glasgow nel 1929, MacIntyre, la comunità e la tradizione, le ha vissute ben prima di teorizzarle: nell’ambiente in cui è cresciuto, le tradizioni e i racconti popolari scozzesi costituivano autentici modelli– narrazioni di vita buona, capaci di informare le azioni morali dei membri di una stessa comunità, ed erano perciò condivisi e conservati gelosamente dagli anziani del luogo, che spesso si esprimevano ancora in lingua celtica. «I fatti importanti di questa cultura erano alcune forme di lealtà e il legame con i parenti e con la terra. Essere giusti 1 S. WEIL, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être umaine, Gallimard, Paris 1949 (trad. it., La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano 1990, p. 49). 2 La profezia di F. NIETZSCHE (Nachgelassene Fragmente 1887–1888, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, vol. VIII/2, Walter de Gruyter, Berlin– New York 1970, trad. it., Frammenti postumi 1887–1888, Adelphi, Milano 1971, p. 266) sembra essersi avverata in maniera perfetta: «Quella che racconto — egli dichiarò con una preveggenza che fa rabbrividire — è la storia dei prossimi due secoli». Per approfondimenti sul tema, si rinvia a P. NEPI, Individui e persona. L’identità del soggetto morale in Taylor, MacIntyre e Jonas, Studium, Roma 2000, pp. 33 ss. 17 18 Alasdair MacIntyre. Sul crocevia tra etica, filosofia della religione e teologia significava giocare il ruolo a cui ciascuno era stato assegnato dalla comunità locale. L’identità di ciascuno derivava dal posto che l’individuo occupava nella comunità»3. Di diverso tenore fu, invece, l’educazione “stereotipata”, ancorché “liberale”, ricevuta da MacIntyre nel corso degli studi universitari, la quale divenne una sorta di segno premonitore del conflitto che egli avvertirà sempre più drammaticamente in seguito, alla luce di una matura consapevolezza filosofica: «In contrapposizione a tutto ciò, mi fu insegnato che imparare a parlare o a scrivere in celtico era un passatempo inutile e antiquato […]. Il mondo moderno era una cultura di teorie e non di storie»4, e, la morale, il frutto di un “ethos minimalista”, disciplinato da regole formali–procedurali, piuttosto che da una “conoscenza–saggezza pratica” (phronesis), incarnata e vissuta all’interno di una comunità–tradizione di ricerca morale. Il conflitto così delineato segnerà l’inizio di un percorso inquieto — a tratti, e all’apparenza, persino erratico —, che condurrà MacIntyre a confrontarsi con indirizzi filosofici assai disparati: da un iniziale storicismo marxista, anti–stalinista e “cristianeggiante”, fino ad un fideismo barthiano, per poi congiungersi all’aristotelismo e, infine, al tomismo5. Costante in MacIntyre è stata, tuttavia, l’opposizione verso l’“etica liberale”, nelle diverse accezioni di Kant, Mill e dei loro epigoni contemporanei6. In particolare, nonostante il comune rifiuto dell’utilita3 G. BORRADORI, Conversazioni americane, Laterza, Roma–Bari 1991, p. 172. Ibidem. 5 Cfr. A. SCIANCA, Alasdair MacIntyre, o dell’ambiguità della tradizione, pubblicato nel 2005 su http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1321. 6 Cfr. T. PEARSON, An Interview with Alasdair MacIntyre, in «Kinesis», 23 (1996), pp. 34–47: «My critique of liberalism — ha affermato MacIntyre — is one of the few things that has gone unchanged in my overall view throughout my life» (p. 43); e, ancora, A. MACINTYRE, Political and Philosophical Epilogue: A View of The Poverty of Liberalism by Robert Paul Wolff, in ID., Against the Self–Images of the Age: Essays on Ideology and Philosophy (1971), Duckworth, London 19832, pp. 280–4: «The vice of liberalism derives from the continuous refusal of liberals to recognize the negative and incomplete character of their liberalism. The precepts of liberalism enjoy upon us certain constraints upon our political activities; but they set before us no ends to pursue, no ideal or vision to confer significance upon our political action. They never tell us what to do. Hence no institution, no social practice can be inspired solely or even mainly by liberalism; and every institution or social 4 Introduzione 19 rismo, MacIntyre ha tenacemente avversato la “teoria della giustizia” di John Rawls, ossia quella visione meramente formale–procedurale dell’etica e del patto sociale, mediante la quale si ritiene possibile individuare i “principi primi di giustizia”, che tutti gli individui liberi e razionali sceglierebbero, qualora fossero in grado di accordarsi sotto un “velo di ignoranza” — ignorando, cioè, quale sarà la loro posizione sia naturale (sesso, razza, etc.), sia sociale (classe, ceto, etc.), nella società a venire —, vale a dire: I) il “primo principio di giustizia”, che sancisce l’eguale diritto alla più estesa libertà personale, compatibile con l’esigenza che una simile libertà sia garantita a tutti; e II) il “secondo principio di giustizia”, che sancisce come le disuguaglianze sociali ed economiche siano ammesse soltanto quando: a) realizzano il maggior beneficio per i più svantaggiati e b) sono collegate a ruoli e posizioni aperti a tutti in condizione di pari opportunità7. practice that claims to be so inspired — such as the liberal university or the liberal state — is a fraud» (p. 283). È qui ravvisabile — a nostro giudizio — un’eco nascosta, ma suggestiva, del celebre “paradosso” di E.W. BÖCKENFÖRDE (Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularization, in Säkularisation und Utopie. Ebracher Studien. Ernst Forsthoff zum 65. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart 1967, pp. 75– 94, trad. it., La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006), secondo cui “lo stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che non può garantire”. In quanto dottrina giuridico–politica, che favorisce l’esercizio e il controllo democratico dei poteri costituzionali, il liberalismo rappresenta certamente un progresso. Tuttavia, come afferma S. MALETTA (Biografia della ragione. Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 65–7): «Il liberalismo politico ha per MacIntyre un carattere essenzialmente negativo e necessita di un’integrazione a livello di ontologia sociale, di filosofia morale e di teoria economica […]. Dal punto di vista morale il liberalismo politico non è in grado di fornire fini da perseguire, ideali che conferiscano significato all’azione […]. Dal punto di vista sociale esso si è spesso caratterizzato per una visione che pone l’individuo come fonte di ogni valore a confronto con il dominio dei fatti privo di alcuna dimensione assiologica. [… In definitiva, il liberalismo politico] impedisce la concezione di un bene comune diverso dalla somma delle preferenze individuali. Per MacIntyre, inoltre, il liberalismo politico è incoerente, perché le dottrine con cui esso s’è storicamente alleato sono tra loro incompatibili, vale a dire minano alcune delle istanze fondamentali del liberalismo stesso, in primis quella della libertà e della responsabilità individuali». 7 Cfr. J. RAWLS, A Theory of Justice (1971), Oxford U.P., Oxford 19992 (trad. it., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 20082). 20 Alasdair MacIntyre. Sul crocevia tra etica, filosofia della religione e teologia È evidente che tale teoria — definita dal suo stesso autore deontologica — privilegia il primato del “giusto” sul “bene”8; prescinde completamente dalla ricerca della vita buona, quale telos che più si addice al soggetto morale in quanto essere umano; trascura il ruolo che la comunità e la tradizione di appartenenza esercitano sia nella formazione dell’identità personale, sia nella concezione della “virtù pubblica” della giustizia. A tale proposito, MacIntyre eccepisce — contra Rawls — che la ricerca dei principia ethica e l’esercizio delle virtù sono in realtà praticabili unicamente nell’ambito di una determinata comunità– tradizione di ricerca morale: Le tematiche della filosofia morale (i concetti, le massime, gli argomenti e i giudizi assiologici e normativi su cui i filosofi morali indagano) non si trovano se non incarnati nella vita storica di gruppi sociali particolari e possiedono quindi le caratteristiche tipiche dell’esistenza storica: identità e insieme mu8 Cfr. A. DA RE, Il ruolo delle virtù nella filosofia morale, in F. COMPAGNONI – L. LORENZETTI (a cura di), Virtù dell’uomo e responsabilità storica: originalità, nodi critici e prospettive attuali della ricerca etica della virtù, San Paolo, Milano 1998, pp. 55–79: «Come è noto, le teorie della giustizia propongono una separazione tra la ricerca del “bene” e la determinazione del “giusto”: sul piano personale ciascuno è libero di perseguire il proprio bene e di assecondare le aspirazioni della propria visione di vita, mentre per garantire la giustizia sul piano pubblico è necessario astrarre da tali prospettive particolari ed esigere da tutti l’osservanza di norme pubbliche concordate […]. La forza di questo argomento è, potremmo dire, la forza stessa del formalismo, ovvero l’invito ad astrarre da contenuti particolari, sospettati di scadere nel soggettivismo e nell’arbitrarismo, per riconoscere unicamente l’indispensabilità di un minimum, in questo caso di una procedura neutrale, riconoscibile da tutti, per garantire il giusto» (p. 59). Per un’esposizione critica dell’opera di Rawls, si rinvia a: A. MACINTYRE, Review of John Rawls, A Theory of Justice, in «Boston University Law Review», 52 (1972), pp. 330–4; M.J. SANDEL, Liberalism and the Limits of Justice (1982), Cambridge U.P., Cambridge 19982 (trad. it., Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano 1994); M. D’AVENIA, L’etica del bene condiviso: la teoria dell’intelligibilità sociale dell’azione di Alasdair MacIntyre e la sua critica alle società liberali, in G. DALLE FRATTE (a cura di), Concezioni del bene e teoria della giustizia: il dibattito tra liberali e comunitari in prospettiva pedagogica, Armando, Roma 1995, pp. 163–98; ID., L’aristotelismo politico negli Stati Uniti, in A. CAMPODONICO (a cura di), Tra legge e virtù: la filosofia pratica angloamericana contemporanea, il Melangolo, Genova 2004, pp. 69–86; S. MAFFETTONE, Introduzione a Rawls, Laterza, Roma–Bari 2010, etc. Introduzione 21 tamento attraverso il tempo, espressione tanto nella pratica istituzionalizzata quanto nel discorso, interazione e interrelazione con svariate forme di attività»9. Ciò detto, non vi è, però, alcuna connessione necessaria fra l’“etica delle virtù” e il comunitarismo, inteso come teoria politica: «La comunità è in primo luogo un’istanza morale, è la naturale espansione della persona, della sua strutturale relazionalità e socievolezza; è insieme il dato di partenza dell’esperienza morale e un compito e un progetto, ed è connessa alle qualità morali della persona, alle sue virtù (e ai suoi vizi)»10. MacIntyre, del resto, si è dissociato pubblicamente dalle “versioni organicistiche” del comunitarismo, avanzate in chiave politica dai moderni fautori dello stato–nazione, e ha invitato in più occasioni a non confondere la concezione romantica, burkeana, della comunità e della tradizione — a ragione avversata dai teorici liberali, perché passibile di condurre a forme velate o manifeste di “totalitarismo” — con la concezione aristotelica e personalista, propria dell’etica delle virtù11. 9 A. MACINTYRE, After Virtue, cit., p. 265 (citiamo dalla trad. it., p. 317). M. MICHELETTI, Persona e comunità nella prospettiva di un’etica delle virtù, in S.S. MACCHIETTI (a cura di), Alla “scuola” del personalismo, Bulzoni, Roma 2006, pp. 275–96 (spec. p. 283). 11 Cfr. A. MACINTYRE, A Partial Response to My Critics, in J. HORTON – S. MENDUS (eds.), After MacIntyre. Critical Perspectives on the Work of Alasdair MacIntyre, Polity, Cambridge 1994, pp. 283–304 (spec. pp. 302–3) e K. KNIGHT, Aristotelianism versus Communitarianism, in «Analyse & Kritik», 27 (2005), pp. 259–73. Vero è che, altrove, il filosofo scozzese (Politics, Philosophy and the Common Good, cit., p. 244), interpreta il comunitarismo quale «a diagnosis of certain weaknesses in liberalism, not a rejection of it». S. MALETTA (Biografia della ragione, cit., pp. 28–31 e 85–8) sostiene, in proposito, che la partecipazione ad una comunità di ricerca morale costituisce — per MacIntyre, et al. — un pre–requisito, una condizione di possibilità dell’humanum, e rappresenta una difesa naturale delle liberal–democrazie di fronte a concezioni totalitarie dello stato: «[Difatti,] secondo alcuni importanti teorici del totalitarismo, tra cui Hannah Arendt, il presupposto necessario per la nascita di fenomeni totalitari è la massificazione della società, la diffusione di una condizione di isolamento, di sradicamento, di mancanza di normali relazioni sociali di tipo comunitario» (p. 29). 10 22 Alasdair MacIntyre. Sul crocevia tra etica, filosofia della religione e teologia Risulta quindi convincente — a nostro avviso — l’opinione di quanti insinuano che la teoria morale di MacIntyre possa essere veramente compresa, soltanto se collocata all’interno della vicenda storica del liberalismo, che egli stesso inabita e de facto promuove, attraverso l’elogio della virtù della tolleranza e del confronto tra le diverse tradizioni di ricerca morale: MacIntyre verrebbe, pertanto, meglio interpretato, qualora fosse riconosciuto nella veste di un radicale riformatore, piuttosto che di un sovvertitore, dello stato e dell’etica liberali12! 12 Esula dall’ambito del presente lavoro la puntuale ricostruzione del contributo reso dal filosofo scozzese alla filosofia politica, attraverso un cospicuo numero di saggi, tra cui merita senz’altro ricordare: A. MACINTYRE, Marxism: An Interpretation, SCM, London 1953; ID., Marxism and Christianity, cit., ivi inclusa la densa introduzione alla seconda edizione dell’opera del 1995, intitolata Three Perspectives on Marxism: 1953, 1968, 1995; ID., Against the Self–Images of the Age, cit.; ID., Ideology, Social Science, and Revolution, in «Comparative Politics», 5 (1973), pp. 321–42; ID., The Indispensability of Political Theory, in D. MILLER – L. SIEDENTROP (eds.), The Nature of Political Theory, Clarendon, Oxford 1983, pp. 17–33; ID., The Privatization of Good. An Inaugural Lecture, in «Review of Politics», 52 (1990), pp. 344–61; ID., The Theses on Feuerbach. A Road Not Taken, in C.C. GOULD – R.S. COHEN (eds.), Artifacts, Representations and Social Practice, Kluwer, Dordrecht 1994, pp. 277–90; ID., Politics, Philosophy and the Common Good, cit., e ID., Ethics and Politics: Selected Essays, Volume 2, Cambridge U.P., Cambridge 2006. Riteniamo, comunque, in linea di massima condivisibile, quanto afferma L.P. HINCHMAN (Virtue or Autonomy: Alasdair MacIntyre’s Critique of Liberal Individualism, in «Polity», 21, 1989, pp. 635–54): «Some of MacIntyre’s desiderata, such as the rule of law, or the struggle against injustice and avoidable suffering, could not have been attained even to the extent they have without the quest for autonomy in the Enlightenment sense and, therewith, the liberation of the self from long–established social relationships. What we must recognize, and herein lies one of the many great merits of MacIntyre’s work, is that the struggle for autonomy will have been meaningless and self–defeating if it only culminates in empty, abstract freedom, i.e., emotivism conjoined to bureaucratic rule. But MacIntyre’s arguments need not necessarily entail, as he claims, a sweeping rejection of the whole Enlightenment [and liberalism] project» (p. 652, corsivo aggiunto). Concorda sul punto, J. PORTER, Openness and Constraints: Moral Reflection as Tradition–Guided Enquiry in Alasdair MacIntyre, in «The Journal of Religion», 73 (1993), pp. 514–36. Più in generale, sulla possibilità stessa di poter evincere una precisa “teoria politica” dagli scritti di MacIntyre, cfr. J. STOUT, Homeward Bound: MacIntyre on Liberal Society and the History of Ethics, in «The Journal of Religion», 69 (1989), pp. 220–32; E.R. GILL, MacIntyre, Rationality, & the Liberal Tradition, in «Polity», 24 (1992), pp. 433–57; G. ABBÀ, MacIntyre e l’etica tomista, in «Studi Perugini», 2 (1997), pp. 135–54; M.