il principio d`inerzia il principio d`inerzia

IL PRINCIPIO D’INERZIA
1. Una definiz ione statica di forza
La dinamica mette in relazione la descrizione del moto, svolta
dalla cinematica, con le cause che ad esso danno origine e che ne
modificano le caratteristiche. Tutta la dinamica si basa sul fatto che
numerose evidenze sperimentali indicano la possibilità di
introdurre, e misurare, una grandezza fisica, cui si dà il nome di
ll
forza, e legarla alle variazioni de o stato di moto di un punto.
l
Pr a pot r t zzar
im di e u i i
e questa grandezza è necessario però averne
f n z on op rat va ch pr sc n a co pl ta nt alla
na
u de i i i e
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cinematica. Con definizione operativa s’intende una serie di
l
istruzioni che consentano di individuare a grandezza in oggetto,
f
l
l
quanti icar a rapportando a ad una unità di misura e disporre di un
criterio per confrontarla con un’altra della stessa natura.
CINEMATICA
DESCRIZIONE DEL MOTO
1
s = s 0 + v0t + at 2
2
v = v0 + at
DINAMICA
CAUSE CHE ORIGINANO E
MODIFICANO IL MOTO
(tre principi)
SI DICE FORZA UN AGENTE IN GRADO DI MODIFICARE LA STRUTTURA (IL VOLUME, LA FORMA ETC) DI
UN CORPO QUANDO QUESTO SIA IMPOSSIBILITATO A MUOVERSI.
Come si osserva, corpi di natura differente reagiscono con deformazioni di entità differente all’azione della
f
f l
f
medesima orza. Operativaf mente necefssitiamo lquindi
di uno strumel nto che abbia aci ità di de ormazionde, èe
f
che ci consenta di quanti icare e con rontare e de ormazioni . Ta e strumento è detto dinamometro, e
costituito da una molla ed una scala graduata, così che ad allungamenti uguali della molla corrispondano
forz d’ugual ntità. Sc lto un allungam nto corrispond nt all’ unità di misura una forza di valor doppio
e
ee
e
e
e e
,
e
o triplo sarà in grado di allungare del tratto unitario due
o tre dinamometri identici simultaneamente quando
ò
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questi sono posti opportun ente vicini. Si pu in
m d f a
a a a g ad a a
questo o o iss re un sc l r u t e ripetere
’l sp rim nto di misura tutt l volt ch occorr .
e e e
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e
2. La dinamica prima di Galileo
Aristotele (384-322 a.C.) sosteneva, suffragando la sua affermazione con numerose evidenze
sperimentali, che per mantenere un corpo in uno stato di moto è necessario applicargli continuamente una
forza. Un carro, ad esempio, si muove a velocità costante se trainato da cavalli, cioè se su di esso è applicata
una forza, e non appena la forza viene meno il carro si ferma. Limitandoci all’effetto di una forza non tanto
su di un corpo esteso, ma più semplicemente su di un punto materiale, cioè un corpo le cui dimensioni siano
molto minori delle lunghezze e delle distanze caratteristiche del fenomeno in studio, la dinamica aristotelica
può essere così riassunta:
velocità ∝ Forza (?)
Questa assunzione di Aristotele ebbe delle importanti ripercussioni sul pensiero occidentale per
circa venti secoli. In particolare, considerato che anticamente l’unica forma di forza concepibile era quella a
contatto, il fatto che la velocità di un corpo fosse proporzionale alla forza venne adoperata per dimostrare
che la Terra non compie alcun moto di rotazione. Presso gli antichi, e per tutto il medioevo, appariva
alquanto innaturale sostenere che il nostro pianeta fosse dotato di un moto di rotazione, e suscitava
notevole impressione l’argomento qui di seguito esposto. Se la Terra veramente ruotasse, salendo in cima ad
una torre con una pietra in mano, la torre, noi stessi e la pietra procederemmo trascinati nel moto di
rotazione complessivo. Ma non appena lasciassimo cadere la pietra a terra – si argomentava - verrebbe
1
meno la forza che la tiene solidale al moto di rotazione, ed essa resterebbe indietro. In conclusione si
dovrebbe osservare un punto di caduta della pietra stessa non ai piedi della torre ma molto più ad ovest.
Seguendo fino in fondo un tale ragionamento erroneo, per una caduta da un’altezza di 50 metri, la cui durata
è di t =
2h
=
g
2 × 50
≈ 3.2 s , adottando il valore corretto della velocità lineare di rotazione della
9.81
Terra in prossimità dell’equatore – oltre 400 metri al secondo -, dovremmo trovare al pietra non sotto alla
torre ma almeno 1200 metri ad ovest della verticale. Poiché nessuno ha mai osservato un tale, macroscopico
effetto, se ne conclude che l’evidenza sperimentale mostra che la Terra non ruota su sé stessa.
3. Il primo principio della dinamica (o principio d’inerzia)
Per comprendere come mai la smentita delle conclusioni aristoteliche abbia dovuto attendere 20
secoli l’avvento della rivoluzionaria metodologia osservativa di Galileo Galilei (1564-1642) non bisogna
perdere di vista il fatto che il compito di chi si accinge a tale confutazione è estremamente arduo. Si tratta
infatti di dimostrare inequivocabilmente che non è utile descrivere il mondo così come ci appare. O meglio
che non è utile descriverlo come appare ad osservazioni superficiali e non guidate dall’intuito
dell’osservatore, il quale ha come primo dovere individuare:
QUALE INSIEME DI FENOMENI DIFFERENTI COSTITUISCONO L’OGGETTO DELLA SUA OSSERVAZIONE E
COME SIA POSSIBILE SCOMPORLA IN EVENTI ELEMENTARI.
Galileo, ad esempio, direbbe: dei processi che governano la caduta dei gravi, alcuni sono legati
all’attrazione da parte della Terra, altri alla viscosità dell’aria: studiamo prima questi e poi quelli e, solo
successivamente, dopo che entrambi i fenomeni siano stati ben compresi, analizzeremo l’effetto complessivo
della loro azione congiunta. Studiando il moto di un corpo immaginiamo pertanto la più semplice delle
situazioni: uno spostamento in linea retta, senza la presenza dell’aria e senza effetti dovuti all’attrito. Galileo
si concentrò su di un ideale piano, levigato ed infinito, sul quale scorra una palla di bronzo. Il tutto in uno
spazio completamente vuoto. Si tratta di astrazioni della cui portata difficilmente ci si può rendere conto
oggi. Pensiamo ad esempio al solo concetto di vuoto, oggi familiare, ma assolutamente estraneo alla cultura
seicentesca che, anzi, aveva elaborato una teoria, quella dell’ horror vacui, per spiegare come mai in natura
non fosse possibile mantenere una condizione di vuoto. Ma vediamo come lo scienziato pisano, nella sua
opera del 1632, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, presenta il problema delle cause del moto nella
conversazione fra l’interlocutore di fede aristotelica, Simplicio, e l’alter ego di Galileo stesso, Salviati:
superficie "declive"
SALVIATI Ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima
come uno specchio e di materia dura come l'acciaio, e che fusse non
la velocità aumenta
parallela all'orizonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi
poneste una palla perfettamente sferica e di materia grave e durissima,
come, verbigrazia, di bronzo, lasciata in sua libertà che credete voi che
ella facesse?
SIMPLICIO Ho per sicurissimo ch'ella si moverebbe verso il declive
spontaneamente . Che dubbio?
superficie "acclive"
SALVIATI Così sta. E quanto durerebbe a muoversi quella palla, e con
che velocità? E avvertite che io ho nominata una palla
la velocità diminuisce
perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per
rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii: e così voglio che
voi astragghiate dall'impedimento dell'aria, mediante la sua resistenza
all'essere aperta, e tutti gli altri ostacoli accidentarii […]
SIMPLICIO Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi
in infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato continuamente; […] e quanto
maggior fusse la declività, maggior sarebbe la velocità.
2
SALVIATI Ma quand'altri volesse che quella palla si movesse all'insù sopra quella medesima superficie, credete voi che
ella vi andasse?
SIMPLICIO Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con violenza gettatavi.
SALVIATI E quando da qualche impeto violentemente impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto?
SIMPLICIO Il moto andrebbe sempre languendo e ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe più lungo o più
breve secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore acclività.
SALVIATI Parmi dunque sin qui che voi mi abbiate esplicati gli accidenti d'un mobile sopra due diversi piani; e che nel
piano inclinato il mobile grave spontaneamente descende e va continuamente accelerandosi, e che a ritenervelo in quiete
bisogna usarvi forza; ma sul piano ascendente ci vuol forza a spignervelo ed anco a fermarvelo, e che 'l moto impressogli
va continuamente scemando, sì che finalmente si annichila. Dite ancora di più che nell'un caso e nell'altro nasce
diversità dall'esser la declività o acclività del piano, maggiore o minore; sì che alla maggiore inclinazione segue maggior
velocità, e, per l'opposito, sopra 'l piano acclive il medesimo mobile cacciato dalla medesima forza in maggior distanza si
muove quanto l'elevazione è minore.
a ditemi quel che accaderebbe del medesimo mobile sop ra una superficie
Or
che non fusse né acclive né declive.
superficie né "acclive" né "declive"
cosa succede alla velocità?
Riflettiamo sul fatto che la fisica non è la disciplina di chi sa trovare le risposte ma di chi sa porre le
domande giuste. Quella qui evidenziata è la prima domanda giusta mai posta sul moto rettilineo: se è la
pendenza ad aumentare la velocità in discesa ed è sempre la pendenza a diminuire la velocità in salita,
eliminata la pendenza cosa accade di un oggetto dotato di velocità? Sentiamo la replica di Simplicio:
SIMPLICIO Qui bisogna ch'io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere inclinazione
naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser resistenza all'esser mosso, talché verrebbe ad essere
indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e' dovrebbe restarvi naturalmente fermo. .
SALVIATI Così credo, quando altri ve lo posasse fermo, ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?
SIMPLICIO Seguirebbe il muoversi verso quella parte.
SALVIATI Ma di che sorte di movimento? di continuamente accelerato, come ne' piani declivi, o di successivamente
ritardato, come negli acclivi?
SIMPLICIO Io non ci so scorgere causa di accelerazione né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.
SALVIATI Sì. Ma se non vi fusse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque
vorreste voi che il mobile durasse a muoversi?
SIMPLICIO Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china.
SALVIATI Adunque se tale spazio fusse interminato, il moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo?
SIMPLICIO Parmi di sì, quando il mobile fusse di materia da durare.
Per Galileo quindi lo stato di moto con velocità costante in direzione ed intensità, è altrettanto naturale
quanto quello di quiete, ed anzi una distinzione fra i due concetti risulta addirittura fuorviante. Un oggetto
in moto rettilineo uniforme non richiede né causa né fine ma, al contrario, è una condizione fisicamente
indistinguibile da quella di quiete assoluta. Possiamo a questo punto enunciare:
PRIMO PRINCIPIO DELLA DINAMICA (O PRINCIPIO D’INERZIA)
LO STATO DI MOTO RETTILINEO UNIFORME È UNA CONDIZIONE NATURALE PER UN PUNTO MATERIALE,
COSÌ COME LO È LO STATO DI QUIETE. UN PUNTO MATERIALE CHE SI TROVI IN QUIETE, OD IN MOTO
RETTILINEO UNIFORME, MANTIENE INDEFINITAMENTE QUESTA CONDIZIONE: PER PRODURRE DEI
CAMBIAMENTI, CIOÈ DELLE MODIFICHE NELLA INTENSITÀ DELLA VELOCITÀ OPPURE NELLA DIREZIONE
DELLA VELOCITÀ, È NECESSARIA UNA INTERAZIONE CON ALTRI OGGETTI.
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A questo punto possiamo affiancare e completare la definizione statica di forza con una che parta da effetti
misurabili di tipo dinamico:
SI DICE FORZA QUALUNQUE AGENTE IN GRADO DI MODIFICARE LA DIREZIONE DELLA VELOCITÀ OPPURE
L’INTENSITÀ DELLA VELOCITÀ DI UN PUNTO MATERIALE
Sperimentalmente si osserva poi che le due definizioni – statica e dinamica - di forza individuano una stessa
grandezza fisica, cioè che un agente in grado di deformare un corpo può anche modificarne la velocità.
Come si vede, il punto di vista aristotelico è completamente ribaltato. La domanda corretta da porsi non è
“Che cosa mantiene in moto rettilineo un oggetto con velocità costante?”. La condizione di moto rettilineo
con velocità costante è del tutto naturale: non occorre intervenire dall’esterno perché l‘oggetto la mantenga
indelebilmente. Piuttosto, bisognerà chiedersi: “Che cosa modifica lo stato naturale di moto rettilineo
uniforme di un oggetto? Quali sono gli agenti che ne cambiano la direzione o l’intensità della velocità?”. Le
forze, per Galileo, sono cruciali ai fini della variazione dello stato di moto e non del suo mantenimento a velocità
costante. Alcune semplici osservazioni permettono di apprezzare meglio:
1) Pensiamo ad un carrello del supermercato carico di merce. Si fatica molto per avviarlo, ma una volta in
moto sembra quasi che possa andare avanti in linea retta solo con piccole spinte da parte nostra. Per curvare
o per frenare, invece, dobbiamo sforzarci. Il fatto è che un rallentamento od una deviazione sono modifiche
della velocità, per eseguire le quali occorre intervenire con una forza
dall’esterno, mentre il proseguimento in avanti di moto rettilineo è una
condizione naturale, il carrello procederebbe da solo, basta compensare con v
piccole spinte il freno dovuto all’attrito degli ingranaggi delle ruote.
2) Un’auto che frena permette al passeggero di sperimentare la sua tendenza
a proseguire il moto in avanti con la medesima velocità di prima della
frenata, analogamente quando l’auto accelera al passeggero sembra di
v
essere tirato indietro ma sta provando la sua tendenza a proseguire con al
velocità che possedeva.
3) Un passeggero su di un’auto in curva crede di essere tirato verso l’esterno,
in realtà sta sperimentando la propria tendenza a mantenere la stessa
direzione di velocità, che è in ogni istante tangente alla traiettoria circolare.
Lo spostamento dell’auto crea quest’illusione del moto verso l’esterno, come
si vede in figura.
4) Oggi sappiamo bene che nello spazio vuoto le sonde spaziali proseguono
indisturbate una corsa a velocità costante (direzione ed intensità) senza
necessità d’alcun propellente, una volta avviate.
Tornando alla pietra lasciata andare dalla torre, considerando che il raggio del pianeta (6400 Km) è molto
grande rispetto alle distanze in gioco nel fenomeno che si vuole studiare, potremo assumere che il moto della
torre sia rettilineo. In effetti è solo approssimativamente rettilineo, dato che in realtà sta descrivendo la
circonferenza terrestre. Ma visto che il raggio del nostro pianeta risulta enorme rispetto alle nostre
dimensioni, questa approssimazione è più che buona. Ad Aristotele rispondiamo allora che non occorre che
la nostra mano trascini la pietra nel moto di rotazione quando essa sta in
cima: se la cava benissimo da sola, e non importa affatto che la sua velocità
sia di oltre 400 metri al secondo! Semplicemente la pietra prosegue il suo
moto lungo la direzione orizzontale con la stessa velocità di quando viene
lasciata e la torre si sposta orizzontalmente con lei a pari velocità. Quel che
accade si spiega con un principio scoperto ancora da Galileo, per il quale i
moti in direzioni perpendicolari sono indipendenti: al moto orizzontale della
Polo
pietra si compone, senza influenzarlo, il moto verticale di caduta, e così essa
Nord
tocca il suolo ai piedi della torre lungo la traiettoria in figura, (dove le
dimensioni della torre sono esagerate). Essa, vista dalla Terra, è una linea
retta verticale, mentre, vista dallo spazio, è un arco di parabola.
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Da ultimo, il fatto che anche in questo momento ci si stia movendo a 463 metri al secondo ma non si
percepisca alcuna sensazione di ciò, è imputabile proprio all’essere il moto rettilineo a velocità costante una
condizione tanto naturale quanto lo è la quiete.
Va precisato che nel medioevo si riteneva che l’oggetto in moto fosse animato in ogni
FORZA DEL CORPO
istante da una “forza” ma il senso che si dava a questo concetto era differente da
quello attuale. La “forza” era una caratteristica del moto del corpo, era qualcosa che
qualificava e quantificava il suo stato: non un’azione dall’esterno ma piuttosto una
proprietà intrinseca. Quando sopra si è detto che per la dinamica aristotelica occorreva
una forza per mantenere lo stato di moto rettilineo uniforme va inteso nel senso che FORZA SUL CORPO
appariva innaturale il fatto che il corpo in moto perdesse la sua “forza” strada facendo.
Il salto intellettuale cruciale fu quello di passare dall’idea di forza del corpo all’idea di forza sul corpo, cioè che su di
esso agisce e ne modifica lo stato di moto.
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