La sragione 2003-04 - Conservatorio della Svizzera Italiana

2003
2004
LUGANO
AUDITORIO
STELIO MOLO
DELLA RSI
DOMENICA
ore 17.30
20
2
16
7
21
18
1
22
7
settembre
novembre
novembre
dicembre
dicembre
gennaio
febbraio
febbraio
marzo
ENTRATA LIBERA
9 concerti
per ascoltare e capire la musica
degli ultimi cento anni
Studenti e insegnanti
della sezione professionale del
Conservatorio
della Svizzera italiana
diretti da
Giorgio Bernasconi
Presentazioni
di Giovanna Riva
Un progetto di
CONSERVATORIO
DELLA SVIZZERA ITALIANA
con il sostegno di
Commissione culturale
cantonale
Entrata libera
2003
2004
Giunto al quinto anno il ciclo Novecento, passato e presente sembra essersi conquistato una posizione di riferimento primaria nel campo della musica moderna e
contemporanea nella nostra regione, sia in rapporto col pubblico sia in relazione con
i compositori e gli interpreti. Diventato una specificità nel programma didattico del
Conservatorio della Svizzera italiana, che ne ospita lo stadio preparatorio prima dei
concerti, una delle ragioni della sua crescita sta senza dubbio nell’aspetto interdisciplinare.
È indubbio che, anche di fronte all’accelerazione delle comunicazioni (responsabile
di ogni forma di sincretismo nell’universo audiovisivo elettronico da cui siamo inondati), l’organizzazione della cultura ha ancora grandi difficoltà ad uscire dalla
categorizzazione delle discipline artistiche com’è stata ereditata dall’Ottocento.
Venuta meno l’unità del verbo musicale tentata per l’ultima volta dall’esperienza di
Darmstadt negli anni Cinquanta, conclusasi con il riconoscimento di tanti linguaggi
quanti sono gli individui creatori (addirittura di codici validi solo per singole opere), la
musica si è trovata a ridare senso ad ogni singolo suono ripercorrendo le sue relazioni
con il mondo. L’astrazione, coltivata come sforzo epurativo di ogni scoria e ipoteca
di ordini imposti, anziché approdare a una dimensione assoluta (che per essere tale
richiederebbe un grado di spiritualità e di utopia vietata a un’epoca quale la nostra
caratterizzata dalla caduta delle ideologie), ha semplicemente ritrovato la via delle attribuzioni di senso nel cucire nuovi rapporti tra l’esistente. Il suono è tornato quindi
a contaminarsi con le idee e con le rappresentazioni, a ricercare il nuovo non tanto
nel mai udito quanto nella ricombinazione dei suoni, al di là di ciò che non si è ancora sperimentato ma nella memoria degli ascolti che essa è riuscita a trattenere.
Il campo che si apre oggi davanti al compositore non riguarda quindi solo la dimensione del suono, ma ogni sua possibile applicazione. Di qui l’interesse per il rapporto
con l’immagine, con la parola, con il gesto, con i corpi in movimento, nel recupero della
dimensione letteraria, teatrale, visiva, ecc. alla ricerca di nuove unità e in un quadro
multidirezionale che esige la riscrittura dei criteri di giudizio. In verità tale processo obbliga a rivedere anche il secolo che ci sta alle spalle, responsabile non solo del radicalismo che ha innescato il processo di evoluzione linguistica che ci ha portati a questo stadio, ma anche della ramificazione delle ipotesi compositive testimoniata
dall’avanguardia fin dall’origine (nelle soluzioni alternative sperimentate sulla scena,
sullo schermo filmico e attraverso altre vie alla ricerca di un ruolo all’altezza dei tempi).
Il quinto ciclo di Novecento, passato e presente offrirà quindi alcuni significativi spunti
di riflessione su opere del passato novecentesco che testimoniano tale ambito di
relazioni, in presentazioni diramate in allestimenti veri e propri realizzati in collaborazione con la Scuola Dimitri e con il Dipartimento arti applicate della SUPSI. Lo spettro della manifestazione quest’anno si allarga anche grazie all’identificazione di un’unità d’intenti nel vicino Conservatorio di Como, ospitando una produzione del suo
Triennio superiore sperimentale di Musica elettronica e tecnologie on line, così come
le opere premiate al Concorso di composizione “Città di Como”.
Infine il ritorno dopo ben 20 anni nella Svizzera italiana dell’annuale Festa dei Musicisti svizzeri, permettendo di contare sulla presenza di un pubblico aggiuntivo di intenditori e di professionisti provenienti dal resto del paese, ci ha indotto a far coincidere il nostro primo appuntamento con un concerto offerto in quell’ambito,
integralmente dedicato a compositori svizzeri contemporanei. L’occasione è quindi
anche quella di mostrare agli amici di oltralpe i progressi intercorsi negli ultimi due
decenni nella vita musicale della nostra regione.
Carlo Piccardi
Giorgio
Bernasconi
Nato a Lugano, si è diplomato in corno
al Conservatorio G. Verdi di Milano.
Ha proseguito gli studi presso
la Hochschule für Musik di Friburgo in Germania
dove ha studiato composizione con Klaus Huber
e direzione d’orchestra con Francis Travis,
diplomandosi nel 1976.
È stato per anni animatore e direttore
del Gruppo Musica Insieme di Cremona,
con il quale ha svolto un’intensa attività concertistica.
Ha collaborato con la cantante Cathy Berberian
con cui ha effettuato numerosi concerti
in Italia e all’estero.
Dal 1982 è regolarmente invitato a dirigere
l’Ensemble Contrechamps di Ginevra con il quale,
oltre ad essere costantemente presente
nelle più importanti sedi concertistiche europee,
ha effettuato tournées in Sudamerica,
India, Giappone, Russia.
Parallelamente a questa attività è spesso ospite
di diverse orchestre italiane e straniere quali
l’Orchestra della Svizzera italiana,
l’Orchestra Sinfonica dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini”,
l’Orchestra Nazionale Belga, la Tokyo Symphony Orchestra,
l’Orchestra Filarmonica di Radio France.
Dal 1999 si occupa dei concerti di musica da camera
dedicati al repertorio noceventesco presso
il Conservatorio della Svizzera, dove da quest’anno è titolare
dell’insegnamento della direzione d’orchestra
della musica contemporanea.
20 settembre
Auditorio
del Conservatorio
della Svizzera italiana
Inizio ore 15
Sándor Veress
1907-1992
Introduzione e coda
per clarinetto, violino e violoncello
Klaus Huber
*1924
Auf die ruhiger Nacht-Zeit
per soprano, flauto, viola e violoncello
Heinz Holliger
*1939
Vier Lieder ohne Worte
per violino e pianoforte
Thüring Braem
*1944
Alleluja
per voce sola
Stefano Gervasoni
*1962
Quattro voci
per voce, flauto, clarinetto e pianoforte
Barbara Zanichelli
soprano
Direzione
Giorgio Bernasconi
Francesco Angelico (allievo del corso)
novembre 2
Concerto dei premiati
al Concorso di composizione
Città di Como
Programma da definire
Ensemble
Laboratorio di musica contemporanea
diretto da
Guido Boselli
In collaborazione
con la Fondazione Giuditta Pasta
16 novembre
Michael Jarrell
*1958
Résurgences
per sassofono e strumenti
Solista
Laurent Estoppey
Arnold Schoenberg
1874-1951
Verklaerte Nacht op.4
per sestetto d’archi
Gian Carlo Menotti
*1911
Il telefono
l’amore a tre
opera buffa in un atto
Libretto dell’autore
Personaggi e interpreti
Lucy
Akiko Takiguchi
soprano
Ben
Davide Fersini
baritono
Regia
Barbara Bernardi
In collaborazione con la SUPSI
dicembre 7
Sylvano Bussotti
*1931
Lachrimae
per voci sole
Karlheinz Stockhausen
*1928
Refrain
per tre esecutori
(pianoforte, celesta, vibrafono)
Rudolf Kelterborn
*1931
Seismogramme
per quattro viole da gamba
Gabriel Fauré
1845-1924
Messe basse
per coro di voci bianche e organo
Maki Ishii
1936-2003
Black Intention IV
per quattro flauti dolci
Claudio Pontiggia
*1963
Isetnis
Improvvisazione per corno e strumenti
Claudio Pontiggia
corno
Jean-Christophe Cholet pianoforte
Coro Clairière
diretto da
Brunella Clerici
21 dicembre
Elettrosensi
Giorgio Colombo Taccani
*1961
Chant d’hiver
1995
per violino e elettronica
Fabio Cifariello Ciardi
*1960
Finzioni
1991
per violino e nastro magnetico a quattro piste
Gabrio Taglietti
*1955
Aria
1994
per violino e nastro magnetico
Giovanni Cospito
*1955
Microcromie e interferenze
2003
per violino elettroacustico e elettronica
Steve Reich
*1936
Violin Phase
1979
for violin and pre-recorded tape
Giuseppe Crosta
Giovanni Cospito
violino elettroacustico
elettronica e regia del suono
In collaborazione con il
Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Como
Triennio Superiore Sperimentale
di Musica Elettronica e Tecnologie on Line
e con la Fondazione Giuditta Pasta
gennaio 18
Igor Stravinsky
1882-1971
Pribautki
per voce e 8 strumenti
Quattro canti paesani russi
per coro a cappella
Pastorale
per violino e quattro strumenti a fiato
Berceuse du chat
per voce e 3 clarinetti
Les noces
scènes chorégraphiques russes
per soli, coro, 4 pianoforti e percussione
Luisa Castellani
soprano
Coro da camera
dell’Università di Friburgo
diretto da
Pascal Mayer
1 febbraio
Claudio Monteverdi
1567-1643
Il combattimento di Tancredi e Clorinda
dalla
Gerusalemme liberata
di Torquato Tasso
versione a cura di
Luciano Berio
per 3 viole, violoncello,
contrabbasso e clavicembalo
Testo
Clorinda
Tancredi
Alfredo Grandini, baritono
Barbara Zanichelli, soprano
Davide Fersini, baritono
Luciano Berio
1925-2003
Laborintus II
Testo di Edoardo Sanguineti
per voce recitante, tre voci femminili,
otto attori, strumenti e nastro magnetico
Voce recitante
Federico Sanguineti
Preparazione
delle voci
e regia
Antonella Astolfi
In collaborazione
con la Scuola Dimitri
febbraio 22
Hanns Eisler
1898-1962
Suite n. 2
dal film Niemandsland
trascrizione per piccolo complesso
di Steffen Schleiermacher
Suite n. 3
dal film Kuhle Wampe
trascrizione per piccolo complesso
di Steffen Schleiermacher
Suite n. 4
dal film Die Jugend hat das Wort
trascrizione per piccolo complesso
di Steffen Schleiermacher
Arthur Honegger
1892-1955
L’idée
musica per il film d’animazione
di Bertold Bartosch
7 marzo
Jean Cocteau
1889-1963
Les Mariés de la Tour Eiffel
per due voci recitanti e mimi
con le musiche di scena
di
George Auric
1899-1983
Ouverture
Darius Milhaud
1892-1974
Marche Nuptiale
Francis Poulenc
1899-1963
Francis Poulenc
Darius Milhaud
Germaine Tailleferre
1892-1983
Discours du Général
La Baigneuse de Trouville
Fugue du Massacre
Valse des Dépêches
Arthur Honegger
1892-1955
Germaine Tailleferre
Marche Funèbre
Quadrille
Georges Auric
Darius Milhaud
Ritournelles
Sortie de la Noce
versione per orchestra da camera
di
Marius Constant
Claudio Moneta
Federico Caprara
speaker
speaker
Scene e costumi
Michel Gorsatt
Regia di
Jean Martin Roy
In collaborazione con
la Scuola Dimitri e la SUPSI
Conservatorio
della Svizzera italiana
Il Conservatorio della Svizzera italiana
nasce come Accademia di Musica della Svizzera Italiana,
nel luglio 1985, su iniziativa privata con lo scopo
di offrire ai giovani ticinesi un insegnamento musicale
qualificato, sia a livello professionale, sia a livello amatoriale.
La sezione professionale raggiunge entro breve tempo
un ottimo livello ottenendo già nell’aprile 1988
il riconoscimento dei suoi diplomi a livello federale
dalla Conferenza dei Direttori dei Conservatori Svizzeri.
Segue il riconoscimento da parte del Cantone Ticino.
Da allora il Conservatorio ha guadagnato prestigio,
ha continuamente migliorato la qualità della formazione,
diventando – grazie anche alla fama dei suoi docenti –
una meta per studenti provenienti da tutto il mondo:
tra gli studenti che hanno svolto i loro studi a Lugano troviamo
giovani russi, giapponesi, coreani, statunitensi, australiani,
argentini, colombiani, canadesi e naturalmente tanti europei,
svizzeri e ticinesi.
Nel gennaio del 2000 è stato superato un traguardo importante
con il riconoscimento provvisorio quale Scuola universitaria
di musica, passo indispensabile per poeter offrire anche in futuro
una formazione musicale professionale di livello internazionale.
In questo senso esiste pure un dipartimento di ricerca
e sviluppo, anch’esso fondamentale per il consolidamento
quale Scuola universitaria di musica.
interpreti
Francesco
Angelico
Nato nel 1977 a Caltagirone, è diplomato in violoncello. Dal
1999 al 2002 ha suonato nell’Orchestra Giovanile Italiana sotto
la direzione di Yuri Ahronovitch, Zubin Mehta, Claudio Abbado, Carlo Maria Giulini, Gianandrea Noseda. Ha frequentato
corsi di direzione d’orchestra con Carlo Maria Giulini, Deian
Pavlov e Jorma Panula. Dal 2002 approfondisce il repertorio
del XX secolo con Giorgio Bernasconi presso il Conservatorio
della Svizzera italiana, ottenendo una borsa di studio della
Fondazione G. Camozzi. È stato selezionato per l’ammissione
al Corso internazionale di direzione d’orchestra organizzato
dalla Fondazione “Orpheum” di Zurigo.
Antonella
Astolfi
Dopo essersi diplomata nel 1979 all’Istituto delle Arti di Monza ha conseguito nel 1981 il diploma in drammaturgia al Piccolo Teatro di Milano. Dal 1982 si è volta alla formazione in
training di voce e in canto jazz classico e lirico. Dal 1986 insegna alla Scuola teatro Dimitri.
Barbara
Bernardi
Bolognese, regista di teatro e di programmi radiotelevisivi,
specializzatasi all’inizio degli anni ‘80 nella regia lirica con
il progetto “Teatro Studio” (che ha diplomato, tra gli altri,
Carlo Rizzi e Luisa Castellani e dove ha studiato con Götz
Friederich e Renate Ackermann). Ha curato numerose regie
d’opera in teatri italiani. Si dedica da anni soprattutto alla
didattica e insegna in numerosissimi corsi di formazione, oltre
che al Conservatorio della Svizzera Italiana e all’Accademia
Internazionale della Musica di Milano. Dal 2003 è docente nei
Master sull’ Opera Buffa dell’Associazione ‘700 Musica di
Brescia.
Federico
Caprara
Nato a Venezia nel 1964, si è formato alla Scuola di teatro
“Avogaria” di Giovanni Poli, frequentando in seguito il Laboratorio di esercitazioni sceniche di Roma diretto da Luigi
Proietti. Ha partecipato anche all’”atélier” del Centro di arte
scenica contemporanea “Arsénique” di Losanna. Ha lavorato
con vari registi (G. Perelda, L. Proietti, B. Morassi, A. Marchetti, S. Piccardi, A. Ballerio) ed ha partecipato anche a produzioni cinematografiche e televisive.
Luisa
Castellani
Interprete particolarmente apprezzata per l’estrema duttilità
della tecnica vocale, affinata con insegnanti come Gina Cigna
e Dorothy Dorow, si dedica in particolare al repertorio contemporaneo. La curiosità intellettuale l’ha portata e realizzare
anche concerti-spettacolo, a voce sola o con altri solisti (ad
esempio Atopos con Antonio Ballista). Luciano Berio l’ha voluta per dar voce alla nuova edizione del suo Calmo, che Luisa Castellani ha portato nei principali teatri e festival insieme
con Sequenza III e Folksongs.
Ha assicurato “prime assolute” di composizioni di autori quali
Berio, Cage, De Pablo, Donatoni, Ferneyhough, Francesconi,
Gervasoni, Kurtag, Panni, Pennisi.
Ha interpretato le opere dei più importanti compositori del 900
storico, sotto la direzione di maestri come Berio, Eötvos,
Ferro, Gelmetti,Robertson, Sinopoli, Tamayo.
Ha ricoperto ruoli in Esequie della Luna e Tristan di F. Pennisi,
Anton di E. Scogna, The turn of the screw di B. Britten, Outis
e La vera storia di L. Berio, La madre invita a comer di L. De
Pablo, Il velo dissolto di F. Donatoni, in teatri come La Scala
di Milano, il Teatro Comunale di Firenze e la Fenice di Venezia
e ha ricevuto, nel 1991 il premio Gino Tani per la lirica.
Ha collaborato con varie orchestre e vari ensembles (London Sinfonietta, Wien Modern, Ensemble Intercontemporain,
ASKO Ensemble di Amsterdam, Copntrechamps, ecc.) e partecipato a festival importanti (Helsinki, Berlino, Venezia, Bruxelles, Holland Festival e altri).
Come didatta, è stata invitata a tenere corsi di perfezionamento e conferenze in molti paesi (Bolivia, Cina, Stati Uniti, Svizzera, Ungheria), oltre che in Italia, come responsabile della Classe
di Vocalità Contemporanea dei Corsi di formazione della CEE.
Ha registrato per radio e televisioni in molti paesi e numerosi CD.
JeanChristoph
Cholet
È nato nel 1962 a Bhül in Germania. Di formazione classica, egli
si consacra definitivamente al jazz a 23 anni. Allievo di Bill Dobbins, Kenny Barron e Richie Beirach, ha vinto per due anni consecutivi il Concours National de Jazz de la Défense ed è stato
finalista per la direzione dell’Orchestre National de Jazz (ONJ).
È leader e compositore dell’Odéjy (Orchestre départemental
de Jazz de l’Yonne) con la quale ha registrato, nel 1995, la Suite
alpestre ispirata al folclore musicale transalpino e realizzata in
coproduzione con Mathias Rüegg (Vienna Art Orchestra). Tale
registrazione ha ricevuto il giudizio “Choc” del mensile specializzato “Jazzman”.
Ha composto musica per spettacoli di danza, per il circo, il teatro e musica sinfonica. Ha suonato con W. Puschnig, L. Sclavis, M. Portal, F. Jeanneau, P. Fresu, M. Michel; è stato membro del Claudio Pontiggia Sextet (CD Espoir nel 1999) e de Il
Trio (CD Aspetti nel 2000 e CD Immagini e percorsi nel 2001)
con C. Pontiggia, H. Keanzig e M. Papaux.
Dal 2000 al 2003 è stato responsabile del Teatro di Auxerre
(Bourgogne).
L’identità della sua scrittura, dalle melodie raffinate e ricche di
colori, si è manifestata già dal suo primo disco del 1992 Ostinatologie che gli ha fatto guadagnare la stima di tanti jazzisti
in Francia e all’estero.
Coro
Clairière
Il Coro di Voci Bianche Clairière nasce all’interno della Scuola
di Musica del Conservatorio della Svizzera Italiana ed è composto da ragazzi e ragazze dai 5 ai 16 anni.
Tre sezioni corrispondenti all’età e al livello di preparazione
compongono un gruppo di una settantina di elementi che presenta un repertorio molto variegato che spazia dalle sequenze gregoriane a pagine del romanticismo tedesco e francese,
privilegiando gli autori del 900.
Interpreta pure brani di musica popolare, in particolare dell’Est
europeo, che canta in lingua originale.
Ha al suo attivo numerosi concerti nella Svizzera Italiana e all’estero. Nell’estate 2002 ha partecipato, con 6 rappresentazioni, alla Carmen di Bizet messa in scena al Castelgrande di
Bellinzona.
Sulla base di alcune registrazioni è stato selezionato quale
rappresentante della Svizzera Italiana insieme ad alcuni prestigiosi cori europei per partecipare alla 39.ma edizione del
Festival di musica corale di Montreux, che si è svolto dal 4 al
7 aprile 2002, ottenendo una menzione e riscuotendo un notevole successo di pubblico e critica.
Brunella
Clerici
Nata nel 1967, ha compiuto gli studi musicali al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, diplomandosi in pianoforte,
composizione, musica corale e direzione di coro. La sua pratica è prevalentemente rivolta alla coralità giovanile: dal 1994
dirige il coro di voci bianche al Conservatorio della Svizzera
italiana, con il quale ha tenuto numerosi concerti in Svizzera e
all’estero. Alcune sue composizioni sono state eseguite nella
rassegna Musica e Metrò di Milano, presso la Sala di Como e
nel ciclo Novecento, passato e presente.
Laurent
Estoppey
Sassofonista svizzero nato a Try (VD) nel 1970. Ha studiato al
Conservatorio di Losanna, dove si è diplomato, con Michel Surget e Georges Koerper. Ha svolto attività di insegnante in vari
conservatori svizzeri (Vevey, Morges, Neuchâtel, La Chaux- deFonds). Dal 2000 insegna al Conservatorio della Svizzera italiana. Dal 2001 è direttore della Scuola di Musica della Città di
Losanna. Si esibisce come solista e in formazioni cameristiche
(Duo Dilemme, Quatuor Marquis de Saxe, EC2 Sextet, Duo Degré 21, 1+1=1+1 concerts-concepts con la flautista Anne Gilliot). Collabora con varie orchestre e gruppi strumentali (Orchestre de chambre de Genève, Orchestra della Svizzera italiana,
Sinfonietta de Lausanne, Ensemble Contrechamps, Verbier Festival Youth Orchestra). Dei concorsi a cui ha partecipato sono
da menzionare il primo premio al Concorso Léopold Bellan di
Parigi (1990) e il primo premio al Concours national d’exécution
musicale di Riddes (1993). È molto attivo nel campo della
musica contemporanea ed ha collaborato con molti compositori svizzeri assicurando l’esecuzione di una ventina di opere
(P.Grella-Mozejko, G. Nicholson, D. Visvikis, L. Mettraux, F. Maffei, M. Guerandi, A. Albanese, C. Charrière, J.-L. Darbellay, A.
Kovach, C. Taranu, A. Chalier, J. Balissat, I. Gotovsky).
Davide
Fersini
Nato a Milano nel 1976. Dopo essersi laureato in psicologia
nel 2001 ha intrapreso lo studio regolare del canto sotto la guida del baritono Roberto Coviello presso l’Accademia Internazionale della Musica di Milano (ex Scuola Civica Musicale). Nel
2003 ha iniziato ad esibirsi in concerti operistici, debuttando
come Brighella in un allestimento dell’Arlecchinata di Antonio
Salieri allestita dall’Associazione 700 Musica di Brescia.
Michel
Gorsatt
Nato a Vevey nel 1963. Dopo aver frequentato l’anno introduttivo all’École de Beaux-Arts di Sion e dopo la maturità artistica, ha frequentato l’Accademia di Brera dove si è diplomato in
scenografia nel 1991. Attualmente frequenta l’ultimo semestre
del DAA (architettura d’interni) presso la SUPSI a Lugano. Dal
1995 insegna scultura su creta privatamente e per conto del
Dipartimento Istruzione e Cultura del Canton Ticino (corsi per
adulti). Nel 2001 ha realizzato per la SUPSI la scenografia di
Marie Curie, una donna di Lunari-Piccardi al Teatro Cittadella
di Lugano.
Alfredo
Grandini
Baritono formato nei Conservatori di Pesaro e di Firenze.
Dopo essersi laureato all’Università di Bologna si dedica anche alla ricerca musicologica. È autore di saggi pubblicati su
riviste specializzate e di uno studio sull’attività del Teatro Petrarca di Arezzo pubblicato da Olschki. A questa città è legato
anche per aver fatto parte per oltre dieci anni della commissione artistica della Fondazione “Guido d’Arezzo” organizzatrice
dell’omonimo Concorso Polifonico Internazionale di cui è stato direttore esecutivo. Dal 2000 al 2002 ha diretto anche il Settembre Musicale Aretino, da lui ideato.
La sua attività concertistica si svolge prevalentemente in ambito cameristico ed oratoriale con esibizioni in Italia e all’estero
(Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Svizzera, Austria, Canada), soprattutto nei festival di musica antica. Partecipa regolarmente alle produzioni del Coro della RTSI diretto
da Diego Fasolis. In altre occasioni ha collaborato con complessi quali I Solisti del Madrigale, Nova Ars Cantandi, Odhecaton, L’Homme armé, King’s Consort, The Harp Consort, la
Stagione Armonica, Cantar lontano.
Pascal Mayer
Fondatore del Chœur de l’Université et des Jeunesses musicales di Friburgo, che ha diretto fino al 2000, ha studiato
canto e direzione di coro nei Conservatori di Friburgo e di Zurigo. Nel corso degli studi è stato membro dell’Ensemble Vocal de Lausanne (sotto la direzione di Michel Corboz), del
Chœur de la Radio Suisse romande (sotto la direzione di André
Charlet) e del Coro da camera di Stoccarda (sotto la direzione
di Frieder Berius). Pauls Sacher l’ha chiamato a dirigere per
cinque anni il Basler Kammerchor, mentre è stato condirettore
del Chœur de Chambre Romand dal 1987 al 1997 a fianco di
Charlet. Nel 1995, con il collega vallesano Hansruedi Kämpfen, ha costituito il Chœur suisse des Jeunes sotto l’egida
della Federazione Europa Cantat. Da 19 anni dirige la Maîtrise
de Saint-Pierre-aux-Liens di Bulle. A Losanna è direttore del
coro Faller e, dal 1999, del coro Pro Arte. È professore di musica al Collège Sainte-Croix di Friburgo. È spesso invitato a
Monaco e a Dresda, come preparatore dei rispettivi cori radiofonici.
Claudio
Moneta
Nato a Milano nel 1967 si è formato presso il Centro Teatro
Attivo di N. Ramorino e N. Bonati. Ha iniziato l’attività di attore
professionista nel 1989, facendo parte di varie compagnie
(Calindri-Feldmann, Mantesi-Migneco, Teatro dell’Elfo, Chiediscena, Lugano Teatro, Nuovo Piccolo Teatro, ecc.). Svolge
un’intensa attività di doppiatore. Collabora alla RTSI dal 1994,
tra l’altro prestando la voce al pupazzo Peo nella fortunata serie televisiva per bambini.
Jean-Martin
Roy
Dopo la formazione di attore è stato membro fondatore del
Théâtre-Création di Losanna. Dal 1972 ha lavorato come docente alla Schauspielschule di Amburgo e tenuto corsi in tutta
la Germania. Dal 1977 al 1980 è stato insegnante di “improvvisazione teatrale” presso la Scuola Teatro Dimitri, di cui è stato
direttore nel periodo 1983-1986. Come libero professionista
lavora in qualità di attore e di regista in tutta la Svizzera.
Federico
Sanguineti
È nato a Torino il 19 dicembre 1955 e attualmente insegna Filologia italiana presso l’Università degli studi di Salerno.
Nel1973-74 ha studiato recitazione e regia presso il Teatro Stabile di Genova, avendo come maestro Carlo Cecchi.
Nel 1990-1, ha messo un scena, insieme a Nicla Carbone (Flora) e a Gennaro Scala (Edward), Un leggero malessere di Harold
Pinter in versione lucano-napoletana. È coautore, insieme a
Rosanna Benvenuto, di un testo narrativo, Marrakech, costruito su monologhi e dialoghi concepiti, inter alia, come realizzabili sulla scena da uno o più attori.
Akiki
Takiguchi
Soprano giapponese, diplomatasi nel 1997 presso l’Università statale di Belle Arti e Musica di Tokyo, dove ha partecipato anche ad alcuni stage di musicoterapia. Nel 1998 si è trasferita in Italia per perfezionarsi con i maestri M. Dal Piva,
L. Gorla, R. Ely, e con G. Malatesta in arte scenica presso la
Scuola di Musica di Milano. Nel 2001 è entrata nella classe di
perfezionamento di Luisa Castellani presso il Conservatorio
della Svizzera italiana, ottenendo una borsa di studio dalla Rotary International Foundation, presso cui si è anche esibita in
concerto. Svolge attività concertistica in Giappone, Italia e
Svizzera.
Barbara
Zanichelli
Soprano leggero di coloratura. Nata a Parma, si è diplomata
in violino nel Conservatorio della sua città. Si è in seguito dedicata al canto, studiando tecnica vocale con Anatoli Goussev
a Milano e perfezionandosi prassi esecutiva della musica barocca presso la Civica Scuola di Musica di Milano con C. Miatello e R. Gini. Ha seguito i corsi sul repertorio belcantistico
tenuti da Luciana Serra e Sergio Bertocchi.
Si sta perfezionando con Luisa Castellani presso il Conservatorio della Svizzera Italiana a Lugano.
Come soprano del quintetto vocale Vox Altera, ha vinto il PrimoPremioal Concorso internazionale “Luca Marenzio” per formazioni vocali madrigalistiche. Ha tenuto concerti in importanti
sale e rassegne italiane ed estere quali l’Accademia di S. Cecilia (parte del Pastorello nel “Tannhäuser” di Wagner, nella stagione 2001-2002, direttore M.W. Chung), Nuova Consonanza
a Roma, Milano Musica e Musica e poesia a S.Maurizio a Milano, Abbazia di Rouyemont a Parigi, Festival internazionale di
musica a Brno, Festival di Saintes, Konzerthaus a Vienna, Festival di Innsbruck, Festival di Anversa, Festival di Utrecht e ha
partecipato a registrazioni televisive e radiofoniche italiane ed
europee. Ha registrato per le case discografiche ERATO, ARCANA, TACTUS, VIRGIN, CHANDOS, BONGIOVANNI.
Luciano BERIO
1925-2003
Vi sono autori che hanno fatto della ricerca, della sperimentazione, la loro prima ragione d’essere. Sono compositori complessi, articolati, profondi, ricolmi di novità e di fascino. Sono musicisti che hanno segnato, in lettere di fuoco, i destini della storia della
musica. Tra questi, nel vasto panorama italiano, Claudio Monteverdi (Cremona 1567 Venezia 1643) e Luciano Berio (Oneglia, Imperia 1925 - Radicondoli, Siena 2003) sono
tra i maggiori rappresentanti. Vi è, nella loro musica, un gusto naturale per l’espressione profonda, ricca, colorata, audace; vi è, nei loro inconfondibili suoni, un desiderio
inesausto d’istrospezione, ricerca, contaminazione. Così Monteverdi, nella massima
maturazione del Rinascimento, tra Mantova e Venezia, ha saputo convogliare le più diverse voci in una mirabile sintesi strumentale e drammatica; così Berio, nel cuore del
Novecento, quando nei primi anni cinquanta fondò con Bruno Maderna lo Studio di
Fonologia della Rai di Milano e partecipò da protagonista alla straordinaria officina sonora di Darmstadt – senza mai imprigionarsi in rigidi schemi, e sempre con un gioioso senso empirico – ha voluto rivisitare le più disparate tendenze: mescolando in una
originale visione il piacere per il folclore con gli esempi più colti, le sollecitazioni popolari con una tecnica magistrale, gli influssi più disparati: dal pop, al rock, alle musiche extraeuropee, ai modelli più alti della tradizione, con un gusto per la sperimentazione senza uguali che sbocciano ogni volta in limpidi risultati fonici.
Quando nel 1624 Monteverdi compose Il combattimento di Tancredi e Clorinda, madrigale in forma rappresentativa pubblicato più di dieci anni più tardi nella prima parte
dell’Ottavo libro, la polemica con gli accademici rinascimentali e soprattutto con Giovanni Maria Artusi, si era già dissolta in una nube d’indifferenza. Con la Seconda pratica, ovvero perfettione della moderna musica, Claudio Monteverdi ed il fratello Giulio
Cesare, anche teoricamente, avevano giustificato le sue nuove opere, più melodiche,
più drammatiche e più vicine all’espressione della parola. L’espressione accesa, vibrante, unica che ascoltiamo scaturire dai toccanti versi di Torquato Tasso, tratti dal XII
canto della Gerusalemme liberata, in cui i paradossi della guerra e dell’amore, dell’odio
e della pace esplodono in uno strazio infinito: il cristiano Tancredi non si accorge di
combattere contro l’amata Clorinda, non riconoscibile sotto le vesti di una guerriera
pagana; solo più tardi, feritala a morte, il tragico riconoscimento: e la dolce Clorinda
morente che gli implora il battesimo cristiano. Una scena teatrale ricolma di tensione,
commozione, e acuita splendidamente dalle parole del narratore e dal nuovo stile concitato, messo a punto da Monteverdi proprio per questo lavoro, che moltiplicando freneticamente i valori ritmici della sillabazione, prelude visionariamente agli inediti intarsi
vocali di Berio, cui dobbiamo questa particolare versione.
Con Laborintus II, del 1965, quella tensione, quella sperimentazione, è dilatata in una
sontuosa partitura. Su testo di Edoardo Sanguineti, “come già nell’omologa raccolta
di poesie dello stesso autore, vi vengono sviluppati alcuni ‘temi’ danteschi della Vita
Nuova, del Convivio e della Divina Commedia. Attraverso analogie formali e semantiche questi ‘temi’ sono combinati con testi biblici e testi di Eliot e Pound. Uno dei principali riferimenti formali è il ‘catalogo’ (in senso medioevale, come stanno a dimostrare
i riferimenti alle Etimologie di Isidoro di Siviglia) che collega i due centrali ‘temi’ danteschi della memoria e dell’usura. Il principio del ‘catalogo’ coinvolge anche alcuni
aspetti della struttura musicale, infatti Laborintus II è anche un catalogo di riferimenti
(non citazioni) a Monteverdi, Stravinsky e a modi di esecuzione tipici del jazz. Le parti
strumentali sono spesso sviluppate come un’estensione delle azioni vocali delle tre
cantanti e dei mimi-attori. Un breve inserto di musica elettronica è concepito come una
estensione dell’azione strumentale. Parte integrante della struttura del lavoro sono i
diversi gradi di intellegibilità del testo: le parole singole e le frasi talvolta sono percepibili come tali, tal’altra come ‘timbri’ della ‘struttura’ sonora globale. Laborintus II si
configura come un discorso ininterrotto (la voce umana vi è sempre presente in vari
modi e con varie funzioni), una sorta di theatrical speech, una ‘conferenza’ a più livelli,
una eterofonia di ‘arie’, la cui struttura musicale perfettamente determinata suggerisce di volta in volta diversi modi – reali e virtuali – di drammaturgia” (Berio). E un mondo
sempre più ricolmo di mistero e di suono.
Paolo Repetto
*1944
Thüring BRAEM
Nato nel 1944 a Basilea. Dopo la sua formazione di pianista, direttore d’orchestra e
compositore a Basilea, Siena e Salisburgo, contemporaneamente a quella musicologica nelle università della città natale e di Heidelberg, ha vissuto dal 1970 al 1973 negli
Stati Uniti (Curtis Institute of Music di Filadelfia, Santa Fe Summer Opera, University
of California Berkeley). Dal 1973 al 1987 ha diretto la Musik-Akademie di Basilea. Nel
1987 ha assunto la direzione del Conservatorio di Lucerna. Dal 1999 al 2001 è stato
rettore della Musikhochschule di Lucerna dove insegna anche nella classe di direzione
d’orchestra. La sua attività compositiva, inizialmente influenzata da Webern, poi da
Pierre Boulez e John Cage, si estende su un centinaio di opere circa, in tutti i generi.
Le ultime più importanti: Il gong magico (mimopera), Litteri un Schattä (oratorio), Dirge
(concerto per violino e dieci strumenti a fiato).
Alleluja per voce sola è stata scritta per un’occasione, come accompagnamento di una
cerimonia nuziale per la chiesa di Bellelaye nel Giura svizzero. Si tratta di un pezzo per
una “nobile epoca”: il testo su cui si basa parla della necessità di mantenersi vitale grazie al calore umano (Thoreau). Musicalmente traccia un arco dalla bucolicità di Syrinx
di Debussy alla chiarezza di un corale bachiano, che è riconoscibile come tale attraverso l’eco simile all’effetto di pedale tenuto, specialmente in un ambiente risonante come
quello per il quale è stato concepito.
*1931
Sylvano BUSSOTTI
Opera per voce del 1978, Lachrimae di Sylvano Bussotti testimonia di alcune caratteristiche fondamentali della sua estrosa personalità. Da una parte si rileva un gusto eminentemente grafico e “pittorico” della partitura, in cui la notazione si sviluppa in un vortice finemente decorativo: note che si trasformano in liberi puntini; valori
ritmici che si sciolgono in filamenti preziosi; pentagrammi che si moltiplicano in orizzonti di una astratta geometria; un testo plurilingue (italiano, francese, inglese, tedesco), che galleggia su un mare grafico di difficile interpretazione. Dall’altra, si è catturati da un sensualissimo gusto vocale che si profila in una dimensione riccamente
melodica.
Diversamente dai compositori della sua generazione, attivi soprattutto intorno all’officina di Darmstadt, Bussotti ha sempre privilegiato una musica istintiva, sensuale, libera, molto lontana da qualsiasi geometrica prefigurazione; un’arte del suono in cui la
dirompente forza dell’eros domina sovrana. Dalle opere strumentali, a quelle soprattutto vocali e teatrali, il suo istinto compositivo lo ha sempre portato ad esaltare le forze
di una raffinata corporeità. A partire dai balletti – in cui dà sfogo a tutti i suoi furori coreografici – passando per le fondamentali opere teatrali: La Passion selon Sade (1965),
Lorenzaccio (1972), Nottetempo (1976), egli ha compendiato la sua originale visione
di un’opera d’arte totale – costituitasi intorno all’idea di “Bussottioperaballet” – dove
memoria, autobiografia, desiderio, metamorfosi, gioco, erotismo, finzione, si intrecciano in una festa riccamente sensuale. Una festa, quasi un rito pagano, dove la sua dimensione personale ha saputo mescolare le più svariate e intime forme dell’espressione, unendole ad una concezione sonora – ora vocale, ora strumentale, ora melodica
ora sperimentale – sempre riccamente lirica. Caso pressoché unico nella storia della
musica, Bussotti ne rappresenta il suo aspetto più “licenzioso”, dannunziano, in cui
ogni gesto, ogni espressione, pur partendo dalla mente, è sempre filtrata dalle nude
forze dell’eros.
Paolo Repetto
Fabio CIFARIELLO CIARDI
*1960
Nato a Roma, da anni divide il suo impegno fra la musica strumentale e quella elettroacustica. Le sue composizioni sono state premiate in diversi concorsi internazionali:
Ennio Porrino (Cagliari 1989), Luigi Russolo (Varese 1992), Musica Nova (Praga 1993),
SIMC selezione CD (Tokyo 1993), Olympia (Atene 1993), Spectri Sonori 93 (Tulane
USA), Concours international de musique electroacoustique (Bourges 1998). Collabora
regolarmente con il Dipartimento di psicologia dell’Università di Roma La Sapienza ed
è membro di ECONA – Interuniversity Centre for the Research on Cognitive Processing in natural and artificial systems. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni dedicate
alla psicologia della musica, alla musica contemporanea e alla politica musicale. È docente di composizione al Conservatorio di Perugia. È direttore responsabile della rivista on-line www.nuovaconsonanza.it.
1889 - 1963
Jean COCTEAU
“È la poesia dell’infanzia raggiunta da un magistrale tecnico”. Così Jean Cocteau concludeva il suo felice commento su Parade di Erik Satie, il precursore, il maestro ideale,
il padre spirituale del cosiddetto “Gruppo dei Sei”. Parigi anni 1920; un grande desiderio di evadere dalla Germania; una grande irritazione verso tutto quello che sapeva di
romantico, malinconico, intimistico, sinfonico, nostalgico; un rifiuto totale verso tutta
quella musica “che si ascolta con la testa tra le mani”, addirittura di un certo Debussy
(quello soprattutto del Pelléas) e di un certo Stravinsky (quello teatralmente estroverso
de Le sacre du printemps). Un fervente desiderio di ritornare giovani, più che giovani,
bambini. Una elegante, astratta, anche felicemente comica volontà di essere estremamente immediati, solari, spensierati, genuini. Una nuova, maliziosa corrente di candida semplicità, di irruente freschezza, contro la geriatrica malinconia del tardo romanticismo; contro un prepotente wagnerismo che aveva inghiottito, nei suoi fumi
religiosamente ipnotici e sentimentali, troppi talenti. Voglia d’inedite fonti, brama di
nuove realtà: il primo, impareggiabile jazz (quello davvero povero e “osceno” nei suoi
improvvisati arabeschi melodici e nei suoi irrazionali guizzi ritmici); la musica comica
e pungente del circo; i timbri e le melodie stralunate del luna-park; le note sapide e
stonate dei saltimbanchi; infine, il mondo felicemente sonoro dei nuovi caffè come luoghi per il music-hall.
Darius Milhaud, Francis Poulenc, Arthur Honegger, Geores Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre, tutti nati intorno all’ultimo decennio del 1800 e tutti residenti a Parigi, furono definiti i Sei francesi; furono per alcuni anni vicini, riconoscendo in Erik Satie
il loro maestro spirituale. Non avevano un preciso programma; non volevano cambiare
il mondo; non erano ancorati a particolari ideologie, ma erano convinti, ciascuno a suo
modo, che la musica aveva bisogno di maggior semplicità e freschezza. Amici di Jean
Cocteau, avevano trovato nella sua brillante estroversione un piacevole altoparlante.
Forse, meno di lui amavano i simboli, ma tra i travestimenti di Arlecchino e l’autenticità del Gallo, anche loro non avevano dubbi. Se un eccesso di pensierosità e di coscienza aveva abbattuto la civiltà e la musica in un torbido soliloquio – sfociato tragicamente
nella follia della Grande Guerra – molto meglio era pregredire nei luoghi dell’incoscienza e della grazia, della pre-razionalità e del gioco. Idealmente molto vicini al gruppo
dada – di cui Satie anticipò i temi centrali – come allegri saggi taoisti capirono che solo
la mobilità e la morbidezza, la flessibilità e la naturalezza garantiscono la linfa vitale.
Soprattutto per questo collaborarono con i più giocosi pittori dell’epoca, Braque e
Picasso; e con i coreorafi più dinamici e innovativi.
Certo, non tutti ebbero la stessa statura artistica; dei Sei, soltanto Milhaud, Honegger
e Poulenc hanno conquistato un posto al sole nell’esclusivo panorama della storia
della musica; ma, ad eccezione di Durey (che non condivise alcune idee), tutti collaborarono per le musiche de Les mariés de la tour Eiffel, un originale spettacolo rappresentato per la prima volta la sera del 18 giugno 1921 al Teatro dei Champs-Elysées per la
compagnia dei balletti svedesi di Rolf de Maré, con coreografie di Jean Cocteau, che
ascolteremo nella versione per orchestra da camera di Marius Constant. Come una
farsa dadaista, il testo di Cocteau narrato dalle due voci recitanti elude ogni preciso
significato, ogni logica, ogni senso. Vi è, al contrario, un divertito gusto per il gioco, per
l’improvvisazione, per un infantile divertimento; vi è, senza tregua, un succedersi di
cose che appaiono senza senso, una storia di realtà irreali, una fragile, solenne grazia
da cinema muto. Sulla prima piattaforma della torre Eiffel due uomini narrano di cose
divertenti e impossibili: di un cacciatore che ha sbagliato preda; di una festa di nozze;
del discorso di un generale; di un ciclista che chiede la strada per Chatou; di una bagnante che esce da una macchina fotografica e si mette a danzare; di uno struzzo irriverente; di un grosso bambino che diventerà pugile, poeta, architetto? di telegrammi;
di un leone che inghiotte il generale; di una marcia funebre; di nuovo dello struzzo che
non ne vuole sapere di rientrare nella macchina fotografica; di una splendida rappresentazione delle nozze stesse scambiate per un grande capolavoro primitivo; della
successiva scomparsa dei vari personaggi e della macchina fotografica stessa. Gioco,
farsa, non-senso, visione. L’apparire della realtà come la più irreale delle cose. La spuma incomprensibile sul mare del tempo. Con le musiche gioiose e sapienti di Georges
Auric (Ouverture), Darius Milhaud (Marcia Nuziale), Francis Poulenc (Discorso del
generale e La bagnante di Trouville), Germaine Tailleferre (Valzer dei telegrammi), Arthur Honegger (Marcia funebre), e ancora Tailleferre (Quadriglia) e Milhaud (Ritornello
e Uscita).
Paolo Repetto
Giorgio COLOMBO TACCANI
*1961
Nato a Milano, si è laureato all’Università statale di Milano con una tesi su Hyperion di
Bruno Maderna, alla quale nell’ottobre 1993 è stato attribuito il Premio Missiroli in occasione di un convegno dedicato al teatro musicale italiano del dopoguerra a Bergamo. Si è parallelamente diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte (1984) e
composizione (1989) sotto la guida di Pippo Molino e Azio Corghi. Ha conseguito il
diploma al corso di perfezionamento biennale in composizione tenuto da Franco Donatoni all’Accademia di S. Cecilia a Roma. Ha seguito corsi di perfezionamento con
Corghi e Ligeti ed è stato selezionato per partecipare al laboratorio estivo dedicato all’informatica musicale dall’IRCAM nel 1995. È stato premiato e segnalato in vari concorsi internazionali. Dal 1991 si occupa di musica elettronica presso lo studio AGON
– acustica informatica musica del quale è divenuto socio nel 1993. Dopo aver insegnato dal 1992 al 1999 composizione alla Civica Scuola di Musica di Milano, dal 1999 insegna composizione presso il Conservatorio di Torino.
Giovanni COSPITO
*1955
Si è diplomato in chitarra classica e fagotto. Ha studiato composizione al Conservatorio di Milano e conseguito il diploma di musica elettronica presso il Conservatorio di
Venezia. Ha lavorato presso vari centri di informatica musicale: il CSC dell’Università
di Padova, Agon-acustica informatica musica di Milano, il LIM dell’Università statale
di Milano, il LIMB della Biennale di Venezia, il DIST dell’Università di Genova, l’IRCAM
di Parigi. Ha contribuito alla nascita del Laboratorio per la sperimentazione e la didattica dell’informatica musicale presso la Civica Scuola di Musica di Milano. Dal 1990 la
sua produzione musicale si avvale di strumenti informatici e i suoi lavori sono stati eseguiti in vari festival, in trasmissioni radiofoniche, in convegni, in rassegne e concerti.
Nel 1995 ha creato lo Studio sincretica.
1898 - 1962
Hanns EISLER
Quando nel 1923 Hanns Eisler completò i suoi studi presso l’Accademia musicale
di Vienna, sotto il magistero di Arnold Schoenberg e di Anton Webern, sarebbe potuto diventare uno dei massimi rappresentanti della corrente dodecafonica: così ricca,
così astratta, così difficile e metafisica. Avrebbe potuto, come Krenek, come Dallapiccola, continuare quella visione di un sogno geometrico, di una nuova armonia
pitagorica, lontana dalle irrazionali e bizzarre presenze del mondo. Nelle sue prime
opere, soprattutto da camera, aveva dimostrato di poter innestare su quel ferreo tronco
nuovi germogli d’inediti lirismi, capaci di sviluppare la meravigliosa ramificazione di un
canto elegante e sobrio. Al contrario, subito dopo qualche riuscito esperimento, decise di percorrere un’altra strada. Convintosi che quegli innesti avevano qualcosa di
eccessivamente ibrido, decise risolutamente di dedicarsi a nuovi organismi. Trasferitosi nel 1924 a Berlino, grazie soprattutto all’amicizia con Brecht, Busch e Becher, divenne uno dei più importanti artefici di un’arte e una musica semplice, immediata, popolare – in un’epoca in cui soprattutto le avanguardie musicali si allontanavano sempre
di più dal pubblico. Abbracciò i principi del marxismo-leninismo, diede vita alla Lega
degli scrittori proletari rivoluzionari, e divenne “il primo compositore della classe operaia”. Ma era possibile conciliare il magistero di una musica ben fatta, raffinata, con i
gusti spesso banali di un ampio strato sociale completamente digiuno di ogni espressione estetica? Era possibile trovare un equilibrio tra ciò che si pensava e si produceva e una capacità percettiva, quella della gente meno istruita, che aveva ancora
molto da maturare? Infine, si poteva ripristinare la difficilissima unione tra l’astrazione
del concetto e il desiderio di concretezza? Il compagno Zdanov, dall’Unione Sovietica,
predicava la massima semplicità ed esigeva da ogni artista il sacrificio di qualsiasi
ricerca o sperimentalismo a favore di un’arte assolutamente immediata e popolare.
Ma Hanns Eisler, con i famosi colleghi Bertold Brecht, Ernest Bloch e Walter Benjamin,
allontanandosi dalla linea ufficiale del partito, ricercò per tutta la vita una difficile
mediazione.
In verità, quando ascoltiamo la sua musica, quella soprattutto vocale-corale e quella
per i film, abbiamo la netta sensazione che un’immensa voglia di semplicità lo nutrisse, che una grande volontà di comunicazione lo dominasse. Vi è sempre, in questi suoni, un ottimismo, un’allegria, un vivace sentimento dell’essere; vi è sempre, nel progetto di quest’arte nobilmente popolare, “uno stile che al più alto livello artistico, riesce a
raggiungere le grandi masse”. Eisler credeva fermamente nell’unione delle arti, nella
loro organica collaborazione, nell’idea centrale di arte-totale; ed era convinto che
anche per il cinema la musica potesse esprimere il proprio meglio. Per questo compose colonne sonore per circa 40 film – soprattutto durante il suo esilio negli Stati Uniti
– fra cui l’insuperabile gioiello de Il circo di Charlie Chaplin; per questo, nel 1947, con
Adorno scrisse il libro Comporre per il film. Così, le tre Suite – scritte tra il 1931 ed il
‘32 – tratte dalle musiche dei rispettivi film, e articolate tutte in quattro parti nelle
trascrizioni di Steffen Schleiermacher, testimoniano della più alta volontà di un felice
musicista che ha saputo coniugare il più alto magistero compositivo con la massima
semplicità e grazia.
Gabriel FAURÉ
1845 - 1924
Quando nel 1907 Gabriel Fauré completò questa piccola Messe basse – un intimo
gioiello di soavità e di grazia – aveva già raccolto i notevoli frutti della sua lunga carriera. Dopo aver svolto l’attività di organista nelle principali chiese di Parigi: Notre-Dame
de Clignancourt, Saint-Honoré d’Eylau, Saint-Sulpice, la Madeleine, era diventato
dapprima professore di composizione, poi direttore del Conservatorio della capitale
francese. Da bambino, aveva studiato alla severa scuola Niedermeyer, sotto la guida
di Camille Saint-Saens, di cui divenne intimo amico e con il quale condivise una netta
antipatia per ogni forma di sperimentalismo e di avanguardia. Cresciuto alle fonti di
una limpida tradizione classicista, educato sugli impareggiabili modelli di Bach, Mozart, Beethoven e del romanticismo tedesco, non fu mai tentato da una musica particolarmente nuova e originale. Certo, ascoltò con simpatia i lavori più suggestivi e moderni del suo allievo Ravel, ma vide sempre con antipatia le nuove alchimie sonore
dell’estroso Debussy. Come l’autore de La Mer, amò intensamente il canto gregoriano,
ma mentre per Debussy il ritorno alla modalità medievale è sempre il catalizzatore che
fa reagire la grande invenzione del moderno, per lui rimane il prezioso aroma, la fine
angostura, nell’intimo alveo di una forma classica. Scrisse moltissime opere: vocali,
da camera, per pianoforte e per orchestra; e alcuni lavori di argomento sacro, come il
famoso Requiem op. 48, del 1888, il giovanile Cantico di Jean Racine, e questa deliziosa Messa bassa, dove i ricordi di una liturgia antica s’intrecciano al suo paziente
mestiere di organista. Quattro estatici tempi: Kyrie, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei,
per coro di voci bianche e organo, in cui la casta fanciulla del modalismo medioevale
si sposa con il fine cavaliere del sentimento classico.
Paolo Repetto
*1962
Stefano GERVASONI
Nato a Bergamo, è stato incoraggiato alla composizione da Luigi Nono. Nel 1980 si è
iscritto al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove ha studiato con Luca Lombardi, Niccolò Castiglioni e Azio Corghi. Dopo aver seguito i corsi di György Ligeti in Ungheria (1990), ha completato la sua formazione all’IRCAM di Parigi dove ha frequentato il corso di composizione e informatica musicale. La sua carriera internazionale si è
consolidata negli anni di permanenza a Parigi (1992-95), dove ha ricevuto diversi incarichi di composizione dalle istituzioni culturali francesi, fino a diventare “pensionnaire”
all’Accademia di Francia a Roma. Gervasoni ha ricevuto anche numerosi riconoscimenti internazionali: il Premio Goffredo Petrassi (1987, 1989), il Premio Lario Musica
(1988), il Premio Mozart (1991), il Premio del Forum 91 (Université de Montréal), il Premio del Kompositionsseminar di Boswil (1995). Fin dagli esordi la sua produzione è
pubblicata da Ricordi. Per orchestra ha composto: In Eile zögernd III, Sensibile, Adagio
für Glasorchester, Sonata sopra Sancta Maria. Per complesso da camera: Concertino
per contrabbasso, An, Macchina del baccano sentito, Su un arco di bianco, Animato,
Dal belvedere di non ritorno, Concerto pour alto, Lilolela, Descdesesasf, Bleu jusqu’au
blanc, Parola, Atemseile, Far niente, Pas si, Antiterra, Eyeing, Rigirio; e per voce e ensemble: Die Aussicht, Un recitativo, Quattro voci, Least Bee, L’ingenuo, Due poesie
francesi di Ungaretti, Due poesie francesi di Rilke, Due poesie francesi di Beckett.
Così l’autore presenta la sua composizione dal titolo Quattro voci per soprano, flauto,
clarinetto e pianoforte del 1988:
Ho scelto di musicare quattro testi, molto diversi tra loro, di poeti contemporanei (Vittorio Sereni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni), perché uno di temi che
mi interessa approfondire nel mio lavoro è quello della differenza.
È in questa direzione che, mi accorgo, si sta evolvendo la mia musica. Se prima ogni
composizione era per me un’esperienza di riunificazione – instabile, momentanea – di
elementi diversi in un “universo” nel quale restavano solo lontani echi di conflitti, ora
questa possibilità è persa: emergono sempre più le differenze, le opposizioni diventano
inconciliabili, le contrapposizioni si fanno nette, brusche, violente, i salti di registro sempre più frequenti, gli equilibri si rompono in favore di dualismi senza mediazioni.
Così ho composto questi quattro pezzi, preoccupandomi di trasferire musicalmente la
diversità dei testi non tanto adottando piani stilistici diversi o diversi materiali, quanto
elaborando forme le cui strutture rispondessero ai principi differenziatori di cui ho
detto.
Le quattro poesie, indipendenti e distanti, compongono un piccolo ciclo il cui elemento
unificatore è costituito dalla differenza.
Il poggio
Quel che di qui si vede
– mi sentite? – dal
belvedere di non ritorno
– ombre di campagne scale
naturali e che rigoglio
di acque che lampi che fiammate
di colori che tavole imbandite –
è quanto di voi di qui si vede
e non sapete
quanto più ci state.
Vittorio Sereni
Stella variabile
(in “Tutte le poesie” Garzanti 1986)
Prima o dopo l’esperienza?
di là o di qua dal macigno?
Niente, non ha ombra
né luce negli occhi
di lei quella differenza.
Tutto perso? o tutto parificato?
ugualmente assolto
dal non essere o dall’essere stato?
Oh storia umana, oh sangue dilapidato.
Mario Luzi
Per il battesimo dei nostri frammenti
(Garzanti 1985)
C
cascato è il cavo cielo & la cometa
cresta è di cotte croste & cruda creta:
celibe è il cosmo, in chiara crisi cronica,
cubo cilindro & circumsfera conica:
crocida il corvo, cuculia il cuculo,
chiucchiurla il chiurlo & crepita col culo:
cecato mi è il colòn, cacato ho il cazzo,
chiudi sta cantilena, can cagnazzo:
Edoardo Sanguineti
Alfabeto Apocalittico (1982)
(in “Bisbidis” Feltrinelli 1987)
asparizione
In una via di Lima.
O di qui.
Non importa.
In sogno forse.
In eco.
Nel battito già perdutamente
dissolto di una porta.
Giorgio Caproni
Il franco cacciatore (1973 - 1982)
(in “Tutte le poesie” Garzanti 1983)
*1939
Heinz HOLLIGER
Nato a Langenthal, ha studiato contemporaneamente composizione, oboe e pianoforte a Berna, Parigi e Basilea. Vincitore di numerosi premi internazionali, virtuoso dell’oboe universalmente apprezzato, ha avviato anche un’importante carriera di direttore
d’orchestra. Come compositore si è sviluppato all’ombra dello strumentista prestigioso, realizzando subito una sintesi originale tra l’eredità di Berg e di Bartók (attraverso
l’insegnamento di Sándor Veress), lo strutturalismo bouleziano e la sperimentazione
radicale del materiale strumentale. Unendo rigore estremo ed espressività esacerbata,
la sua musica si situa sempre ai limiti dell’espressione. Ossessionata dalle immagini
della follia e della morte, essa si carica di significati esistenziali, nutrita dalla presenza
di figure visionarie e dal destino degli esclusi dalla società. “La composizione è per me
come un viaggio in un territorio sconosciuto”.
Vier Lieder ohne Worte, composti nel 1981, fanno riferimento allo spirito del Romanticismo tedesco. L’opera è basata su un testo sottinteso, un “diario” il cui contenuto serve
da fondamento alla genesi delle strutture musicali. È in qualche modo un crittogramma
del “diario” attraverso il simbolismo cifrato delle parole e delle lettere (in ciò Holliger si
rifà a una lunga tradizione musicale che va da Josquin a Berg, passando per Bach e
Zelenka). Il contenuto verbale è nel contempo trasfigurato dalla musica. I Vier Lieder
ohne Worte hanno un carattere intimistico, non nel senso della musica romantica da
salotto, ma piuttosto in quello della poesia di un Paul Celan. Il lirismo e la violenza dei
gesti musicali, specialmente nel terzo movimento, si iscrivono nel vuoto. L’ultimo movimento accentua questo carattere: gli elementi “motivici” dell’opera sono colti da un
processo inesorabile di dissoluzione. La composizione tende al silenzio come a una
forma suprema della verità espressiva. Le tecniche esecutive non tradizionali, specialmente i suoni prodotti nel corpo del pianoforte, allargano il campo musicale alle diverse qualità di rumori: sono integrate a una scrittura precisa nei minimi dettagli.
Philippe Albéra
Arthur HONEGGER
1892 - 1955
Diversamente da Eisler, Arthur Honegger considerava la musica per film un genere minore, una banale arte applicata. Credendo che nessuno va al cinema per ascoltare dei
suoni, convinto che nessuno in quel luogo d’immagini può prestargli qualche significativa attenzione – ma quanto si sbagliava! – una volta scrisse che il comporre per la
nuova industria di Hollywood era “un compito ingrato”, ma uno dei pochi lucrativi che
gli avrebbero permesso di consacrarsi alla creazione di sinfonie, per la gloria del suo
nome. Spirito estremamente dinamico, grande amante di svariati sport e della sua lussuosa Bugatti – con la quale sfrecciava anche a 120 chilometri l’ora! – concepì tutta la
sua produzione musicale nel segno di un libero e fascinoso eclettismo, ricco di fermenti e di vitalità, che lo portò a scrivere molte opere da camera, svariate liriche per pianoforte, molta musica per orchestra, tra cui 5 vivaci sinfonie, e numerose composizioni
per il teatro – oscillando, con sorprendente facilità, tra miti moderni (Skating Rink,
Pacific 231) e miti biblici e antichi (Judith, Saul, Prométhéé, Antigone). Tuttavia la
musica per L’idée, del 1934, e di altri film come Napoléon di Abel Gance e Les misérables di Raymond Bernard, sconfessano, almeno in parte, il suo pessimismo. Certo,
il più alto Honegger risiede tra le vette di lavori come Il re Davide, Giovanna D’Arco al
rogo, il dinamico Pacific 231 e il Concertino per pianoforte e orchestra; ma anche questa musica da film, ispirata da una serie di xilografie di Frans Masereel, evoca qualcosa di più che piacevole. E, utilizzando nell’organico orchestrale anche le onde Martenot – in quegli anni un nuovissimo strumento elettro-acustico – per rappresentare il
concetto dell’Idea come assoluta purezza, libertà, uguaglianza e fraternità, simbolizzata nel film da una ragazza pudicamente nuda, riesce a strutturarsi in una limpida
panna melodica.
Paolo Repetto
Klaus HUBER
*1924
Nato a Berna ha studiato violino con Stefi Geyer e composizione con Willy Burkhard
(Zurigo) e Boris Blacher (Berlino). La sua affermazione avvenne nel 1959 in occasione
delle giornate musicali mondiali della Società Internazionale di Musica Contemporanea a Roma. Dopo l’attività di insegnamento a Zurigo, Lucerna e Basilea assunse nel
1973 la cattedra di composizione all’accademia musicale di Friburgo in Brisgovia. La
sua frequentazione della teologia della liberazione secondo Ernesto Cardenal lo condusse a un impegno compositivo ancorato ad un’etica cristiana e politicamente profilato (Erniedrigt - Gecnechtet - Verlassen Verachtet ..., La Terre des Hommes). Dal 1990
la sua attività didattica si svolge liberamente in corsi e seminari per i quali è invitato in
tutto il mondo. A partire dal trio per archi Des Dichters Pflug (1989) Huber sperimenta
i terzi di tono e i modi arabi. Contemporaneamente il suo pensiero viene fortemente
marcato dalla poetica dello scrittore russo Ossip Mandelstam, a cui ha dedicato un’opera scenica. Huber è uno dei pochi compositori del nostro paese la cui reputazione
in patria sia eguagliata da quella di cui gode all’estero. Il suo corpus compositivo ab-
braccia tutti i generi, dal teatro al grande oratorio fino alla musica da camera e ai pezzi
per un solo strumento. Prassi musicale, riflessione teorica e mediazione pedagogica
formano per lui un unico complesso. I suoi saggi sull’arte, sugli artisti e sulla società
lo rivelano come acuto analista e critico uomo del nostro tempo.
La composizione Auf die ruhige Nacht-Zeit (nelle tranquille ore notturne), per soprano,
flauto e trio per archi, risale al 1958, a un periodo in cui Huber era interessato alle soluzioni vocali e ai testi mistici del tardo barocco. In relazione alla sua adesione alla dodecafonia l’opera ha una sua importanza poiché afferma un elemento di distinzione rispetto al metodo schönberghiano. Intesa in modo ortodosso la pratica seriale parte
dal riconoscimento delle 12 note come sono date nel sistema temperato. Auf die ruhige Nacht-Zeit è costruita sulle seste minori intonate come puri intervalli, consonanti.
Dichiara il compositore: “Già in occasione della prima esecuzione mi sono accorto che
questa musica non risuona come dovrebbe se è intonata in modo temperato. Solo se
si intonano seste minori pure, questa musica prende effettivamente quota. Ci fu poi un
certo periodo in cui io non riuscivo più a sopportare l’onnipresente intonazione temperata dei 12 suoni”.
1936 - 2003
Maki ISHII
Nato a Tokio, ha studiato composizione e direzione d’orchestra dal 1952 al 1958 trasferendosi poi a Berlino per seguire i corsi di composizione di Boris Blacher e Josef Rufer.
Nel 1962 è ritornato in Giappone dove ha svolto un’intensa attività come compositore
e direttore d’orchestra. Le sue composizioni sono eseguite in tutto il mondo. Il Festival
d’automne di Parigi, nel 1978, gli dedicò il “Portrait Maki Ishii”. Considerato uno dei più
importanti compositori giapponesi, ha diviso la sua attività tra il suo paese d’origine e
l’Europa, in particolare la Germania, facendosi apprezzare per la sua capacità di sintesi tra la cultura orientale e quella occidentale. È morto nel mese di giugno di quest’anno.
Black intention designa una speciale concezione musicale che vuole indagare l’oscurità, il maligno; il lato negativo del nostro subconscio. È il titolo di una serie di composizioni che tentano di incorporare un nuovo, unico senso del ritmo, del suono e delle
tecniche esecutive.
*1958
Michael JARRELL
Nato a Ginevra, ha studiato composizione nella classe di Eric Gaudibert al Conservatorio di Ginevra e in occasione di diversi soggiorni negli Stati Uniti (Tanglewood, 1979).
Ha completato la sua formazione alla Staatliche Hochschule für Musik di Friburgo in
Brisgovia sotto la guida di Klaus Huber. Dal 1982 la sua attività di compositore è stata
coronata da numerosi premi: Premio Acantes (1983), Beethovenpreis della città di
Bonn (1986), Premio Marescotti (1986), Gaudeamus e Henriette Renié (1988), Sie-
mens-Förderungspreis (1990). Tra il 1986 e il 1988 soggiorna alla Cité des Arts a Parigi e partecipa allo stage di informatica musicale dell’IRCAM. Nel 1988-89 gli è concesso il soggiorno a Villa Medici a Roma. Successivamente (1989-90) è membro
dell’Istituto Svizzero a Roma. Dall’ottobre 1991 al giugno 1993 è compositore “in residence” dell’Orchestra di Lione. Dal 1993 è professore di composizione presso la
Hochschule für Musik di Vienna. Nel 1996 è accolto come compositore “in residence”
al Festival di Lucerna.
Résurgences è una composizione del 1996. Così ne spiega la genesi il compositore:
“Una ‘risorgenza’ è una riapparizione in forma di sorgente, è il riemergere, la riapparizione di una falda acquifera. La scelta del titolo non è stata difficile, poiché quando mi
accinsi a scrivere questo pezzo, l’idea era proprio quella di una musica sotterranea, di
una musica che apparirebbe di quando in quando, ma che sarebbe anche la sorgente
di tutto ciò che apparirebbe in superficie”.
Résurgences è il risultato di un incarico di composizione congiunto dell’ensemble Court-Circuit, del Conservatorio di Parigi, della Cité de la Musique, di Ars Mobilis e del
Conservatorio ed Musik Hochschule di Zurigo. La prima esecuzione è avvenuta il 9
maggio 1996 all’Auditorio Colbert della Biblioteca nazionale di Francia.
Rudolf KELTERBORN
*1931
Rudolf Kelterborn è uno dei compositori elvetici più rappresentativi della scena contemporanea ed è tra i pochi a godere di una reale reputazione internazionale. È nato a
Basilea. Ha insegnato all’Accademia di Basilea, di cui fu anche direttore e poi anche
al Conservatorio di Zurigo. È stato poi per numerosi anni direttore del dipartimento musicale della DRS e anche il redattore della Schweizerische Musikzeitung. Kelterborn ha
fatto pure il direttore d’orchestra, dirigendo principalemente sue proprie composizioni
e ha anche scritto parecchio di musica, specialmente contributi di carattere analitico.
Sono scritti che testimoniano bene il suo ampio orizzonte culturale. E questo lo si vede
anche nella sua produzione musicale, nelle scelte, negli indirizzi che essa manifesta,
per esempio nella sua musica teatrale. Una delle cose più significative in questo ambito fu, nel 1974, la trasformazione in opera di un lavoro di Dürrenmatt, Ein Engel kommt
nach Babylon, che fu un lavoro in cui lo stesso drammaturgo si mostrò disponibile a
rielaborare il proprio testo per renderlo adatto a questa nuova destinazione teatral-musicale.
Seismogramme è stata scritta nel 1992 per il Yukimi Kambe Viol Consort e fu eseguita
lo stesso anno a Tokyo. Sul brano ecco il commento del compositore stesso:
Mi ha sempre intrigato l’idea di comporre per strumenti storici, soprattutto per la delicatezza dei loro timbri (tra l’altro un brano per voce solistica e strumenti rinascimentali in un organico piuttosto corposo, un brano per flauti a becco barocchi, ecc.). Il titolo
“Seismogramme” evoca naturalmente associazioni al sismografo, capace di registrare
con estrema sensibilità le scosse (della terra). I sette brevi movimenti in cui si articola
la composizione sono in una certa misura da intendere come la sensibile registrazione
di scosse emozionali; essi si svolgono per lo più in registri tenui, commisurati alle caratteristiche delle viole da gamba. Solo raramente (ad esempio nel secondo e nel sesto)
si giunge ad esiti violenti.
*1911
Gian Carlo MENOTTI
In un’epoca invasa da quelle strane macchinette che chiamiamo telefonini – così utili,
così maleducati – è simpatico, è particolarmente attuale riascoltare un’opera come Il
Telefono o l’amore a tre dell’italo-americano Gian Carlo Menotti, ben noto personaggio
dell’Italia musicale, di formazione statunitense, ideatore e direttore del celebre Festival
spoletiano “dei due Mondi”. Su un libretto scorrevole, piacevole, lo stesso compositore ha dipanato una storiella breve, paradossale: Ben (baritono) vorrebbe parlare con
la propria ragazza, Lucy (soprano), ma, di fatto, al di là di qualche frammentario tentativo, non ci riesce: Lucy è sempre impegnata a rispondere e a parlare al telefono: ora
chiacchierando con l’amica Margaret, che le parla di Jane e di Paul, di John e di Jean,
di Bets e di Bob, di ... ecc.; ora raccontando di altre telefonate che ha ricevuto e di altre storie; ora rispondendo a George che la rimprovera per un suo pettegolezzo; ora
chiamando Pamela per dirle di George; infine, esasperato, Ben se ne va, deve prendere il treno: soltanto al telefono potrà dire a Lucy che l’ama e che vuole sposarla.
Scritta nel 1946, quest’operetta leggera, comica, incentrata su di un curioso particolare, sembra volutamente ignorare la tragedia della guerra e le sue drammatiche realtà.
Con un linguaggio sonoro eclettico, tradizionale, tonale – che si rifà ai nobili modelli
ottocenteschi – Menotti sembra ignorare anche le profonde problematiche del linguaggio musicale del suo tempo. Se la musica del Novecento è stata soprattutto ricerca,
profondità, sperimentazione, volontà del nuovo, il suo gesto sonoro – circoscritto, melodico, isolato – sembra eludere totalmente il Novecento stesso. Una piccola isola appare nel cuore di un immenso mare; pochi decenni or sono altri isolotti sono apparsi,
i cosiddetti neo-romantici, componendosi in un piacevole, fragile arcipelago. Fino a
quando questi felici atolli di una musica quasi sempre senza dolore e senza profondità, resisteranno alla potenza dell’oceano?
Paolo Repetto
*1963
Claudio PONTIGGIA
Cornista, nato a Lugano. Ha conseguito il diploma di virtuosità presso il Conservatorio
di Losanna nel 1982. Dal 1989 al 1991 ha insegnato corno presso il Conservatorio di
Sion e, attualmente, è professore presso i Conservatori di Friborgo, La-Chaux-deFonds e Lugano. Fin dall’inizio della sua carriera ha affiancato all’attività didattica collaborazioni con le maggiori orchestre svizzere. È stato primo corno dell’Orchestre de
Chambre de Génève, dedicandosi contemporaneamente anche alla musica improvvisata. In questo ambito egli vanta collaborazioni con i maggiori jazzisti americani ed europei (Palle Danielson, Marc Johnson, Miles Davis, Giorgio Gaslini, Enrico Rava…); è
stato per otto anni musicista della Vienna Art Orchestra.
Dal 1999 è membro dell’Ensemble OggiMusica. Ha partecipato a numerose registrazioni discografiche, sia in ambito classico sia in quello jazzistico.
Ha in seguito dato vita a propri gruppi, incidendo alcuni pregevoli CD per Altri Suoni.
È spesso chiamato a tenere master class sull’improvvisazione per strumenti a fiato.
Nel 2002 gli è stato assegnato il Premio della Fondazione Suisa per la Musica per la
sua attività artistica.
L’idea di questa composizione è stata suggerita da Giorgio Bernasconi, con il quale
egli collabora nell’ambito dell’Ensemble OggiMusica, e il quale desiderava la creazione
di un’opera che riprendesse alcuni spunti, temi, idee musicali, passaggi che il pubblico
avesse avuto modo di ascoltare durante l’esecuzione del programma.
Quest’ultimo, di conseguenza, è stato pensato in maniera piuttosto variegata, con la
partecipazione di un Quartetto di flauti dolci, di un Quartetto di viole da gamba e di un
Coro di voci bianche. Il concerto prevede che tutti i musicisti partecipanti restino sul
palco per la sua intera durata e che vengano tutti coinvolti in un gran finale.
A Jean-Christhope Cholet e Claudio Pontiggia, jazzisti di chiara fama, è affidata la parte compositiva e d’improvvisazione.
Steve REICH
*1936
Nato a New York, ha studiato musica e filosofia alla Cornell University di Ithaca e alla
Julliard School di New York. Appassionato di jazz, di cinema e di arti figurative, ha seguito attivamente gli esperimenti delle avanguardie nelle capitali delle due coste degli
Stati Uniti (New York e San Francisco, dove iniziò la sua carriera di compositore con
Its Gonna Rain per nastro magnetico). Lavorando sul procedimento del cosiddetto
tape-loop è pervenuto agli esiti che ne hanno fatto uno dei maggiori esponenti del minimalismo. Il suo saggio Music as a gradual process del 1968 è considerato il punto di
riferimento teorico della “musica ripetitiva” come si è sviluppata negli Stati Uniti. Dopo
un periodo di applicazioni dimostrative Reich è riuscito a sottrarre i processi minimalistici all’iterazione dirigendosi verso l’esplorazione delle dimensioni timbriche e armoniche.
Violin Phase risale al 1967: è una delle sue prime composizioni basate su formule ripetute e gradualmente progredenti da una fase all’altra. Fondamentalmente la tecnica su
cui si basa è una variazione del canone tradizionale. L’esecutore al violino suona contro uno, poi due e finalmente tre sezioni preregistrate su nastro da se stesso. Ogni cambiamento graduale di fase è compiuto dall’esecutore allontanandosi lentamente dal
nastro stazionario.
1874 - 1951
Arnold SCHOENBERG
Arnold Schoenberg scrisse il poema sinfonico per sestetto d’archi Verklaerte Nacht
(Notte trasfigurata) op. 4, nel 1899, ispirandosi alle forti visioni di una poesia di Richard
Dehmel – più tardi, nel 1917, ne fece una sontuosa trascrizione orchestrale. Uno dei
massimi compositori del Novecento, uno dei più grandi innovatori dell’arte del XX
secolo, con quest’opera pagava idealmente il suo tributo ad una tradizione ricchissima
ed imponente. Brahms e Wagner, come due solenni cariatidi, ne reggono la poderosa
forma. “Divenni brahmsiano incontrando Zemlinsky. Il suo amore abbracciava Brahms
e Wagner e perciò divenni presto anch’io un loro convinto seguace. Nessuna meraviglia, quindi, se la musica che composi a quel tempo rispecchia l’influenza di quei
due maestri. (...) Questa è la ragione per cui nella mia Verklaerte Nacht la costruzione
tematica è basata da un lato su un ‘modello’ e su una ‘sequenza’ sopra un’armonia
circolare di tipo wagneriano, e dall’altro su una tecnica di sviluppo della variazione
brahmsiana. Pure a Brahms può essere accreditata la disparità delle misure (...). Ma il
trattamento degli strumenti, il modo della composizione e gran parte delle sonorità
sono strettamente wagneriani. Penso però che qualche elemento schoenberghiano
possa ritrovarsi nella lunghezza di alcune melodie, nella sonorità, nelle combinazioni
contrappuntistiche e dei motivi, in certi movimenti armonici semicontrappuntistici e dei
bassi verso la melodia. Finalmente c’erano già alcuni passaggi di tonalità imprecisa
che possono essere considerati premonitori del futuro.” Un futuro che scorgiamo ben
chiaro anche noi, tra le pieghe di questo possente e raffinato lavoro che, insieme ai
Gurrelieder (1900-’11) e al poema sinfonico Pelleas und Melisande (op.5, 1903), ci testimonia della farfalla Schoenberg che lentamente, ma perentoriamente, sta abbandonando la crisalide dell’ultimo romanticismo per volare nei rarefatti cieli dell’atonalità.
Paolo Repetto
*1928
Karlheinz STOCKHAUSEN
Nel cuore della musica più nuova, più moderna, a volte anche più difficile, ci sono opere
che riescono ad imporsi facilmente, con una grazia quasi mozartiana. È il caso di Refrain di Karlheinz Stockhausen, un’opera per tre esecutori: al pianoforte, alla celesta,
al vibrafono e alle percussioni, anche con brevissimi interventi vocali, scritta nel 1959.
Una splendida decorazione spaziale; un gioco rarefatto di estatici timbri e profondi silenzi. Un percorso rituale di presenze e magiche assenze. Un pulviscolare ritorno a
probabili meditazioni orientali. Un’opera anche parzialmente aleatoria, in cui le infinite
possibilità del caso sono indicate da un sottile quadrante di plastica che viene fatto
ruotare sopra i semicerchi della partitura suggerendone l’esecuzione dei ritornelli. Una
raffinatissima commistione di predeterminazione e casualità, forma e astrazione, timbri e silenzi.
Allievo di Frank Martin a Colonia, poi di Milhaud e Messiaen a Parigi, Stockhausen,
nelle sue opere, oscilla sempre tra geometria e lirismo, ordine e visione, struttura e preghiera. Partito negli anni Cinquanta da posizioni iper-strutturalistiche – come tutti i protagonisti del periodo di Darmstadt – in cui tutto il materiale compositivo è ordinato secondo una ferrea logica seriale, predeterminata; passando per la “Gruppen-Technik”
– dove il materiale sonoro viene individuato e utilizzato soprattutto per le sue valenze
spaziali, dislocando in diversi punti della sala la provenienza e le durate del suono –
una tecnica di “campi temporali” utilizzata soprattutto in Gruppen per tre orchestre
(1956), Gesang der Junglinge, (1955-’56) e in Carré (per quattro cori e quattro orchestre, 1959-60); e dopo il citato periodo aleatorio e quello elettronico – in cui sempre
più il suono viene dilatato in una magica dimensione virtualmente metafisica e atemporale – Stockhausen è infine approdato ad un personalissimo eclettismo che gli ha
permesso, in varie opere – da Momente (1962-64, 1972) a Inori (1973-74), da Hymnen
(1966-67, 1969) a Mantra (1969-70) da Kontakte (1960) agli splendidi Klavierstucke,
fino al grandioso ciclo operistico Licht (Luce) di sette opere teatrali, ancora in fase di
completamento – di esplorare con infinita varietà ogni sfera del suono: dal puntillismo
più rarefatto, al ritorno della tonalità; dal recupero del folclore e di citazioni universali
alle più visionarie efflorescenze elettroniche.
Paolo Repetto
Igor STRAVINSKY
1882 - 1971
Poco prima dello scoppio della Grande Guerra, poco prima del suo lungo ritiro nella
neutrale e accogliente Svizzera – già conosciuta grazie ad altri soggiorni con l’intera
famiglia – nel 1913 Stravinsky volle rivedere la sua cara Russia. Erano trascorsi alcuni
mesi, da quando aveva conosciuto i deliri della febbre tifoidea, e per un soffio era scampato alle nere spirali della morte, che di lì a poco inghiottirono suo fratello Gurij e la sua
seconda mamma, la balia Berta. Soprattutto per controbilanciare il peso e la violenza
di quell’Ignoto, aveva sentito il profondo desiderio di riassaporare la certezza delle origini: la linfa delle radici. Così rivide i luoghi della sua infanzia; così riaffondò le vibranti
mani nel grande tesoriere del folclore slavo. Al suo ritorno portò con sé alcune raccolte
di poesie popolari russe, tra cui quella ricchissima di Kireevskij (da cui è tratto il testo
per Le Nozze); molti ricordi, e molte melodie arcaiche, misteriose e felici, che riaffioravano alla sua mente come spuma di un mare scintillante e immenso. In più, appena rientrato in Svizzera, si fece spedire un’altra antologia sul folclore della sua patria che
sua padre aveva gelosamente custodito.
Si dice giustamente che alcuni compositori del Novecento – soprattutto del secondo Novecento – talvolta sono troppo astratti e cerebrali, poiché hanno smarrito il contatto con
l’humus storico, con le radici di una tradizione antichissima e vitale. Al contrario, nessun
musicista come Stravinsky, lungo l’ampio arco della sua prodigiosa attività compositiva,
si è tanto riccamente alimentato alle inesauribili fonti dei popoli e della storia. Come Picasso, anch’egli capì subito che la creazione dal nulla, l’invenzione ex nihilo è una trovata della presunzione umana, o il suggerimento di un’entità sterile e diabolica. In verità,
come ci dimostrano le loro variegatissime opere – in cui tutta la storia e tutta la tradizione,
anche di lontane culture, viene rimescolata e trasfigurata in un impareggiabile arcobaleno di forme e di suoni – nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Invenzione come metamorfosi, trasformazione come creazione. Con l’esaltazione timbrica e ritmica de La Sara della primavera, terminata nel 1913, Stravinsky aveva fatto
esplodere l’ipertrofica orchestra tardoromantica in un vortice abbagliante di lampi e di
suoni, di visioni e di bagliori, ispirandosi ai ricchi aromi di antiche melodie slave: ora
imitate, ora trasformate, ora reinventate in un tessuto sonoro completamente nuovo.
Subito dopo, a partire dalle Tre liriche giapponesi – suggerite dalla freschezza delle
stampe orientali e scritte sotto il benevolo influsso del Pierrot Lunaire di Schoenberg
– aveva sentito il bisogno di nuove ricerche timbriche, di nuovi percorsi attraverso un
universo musicale più intimo e rarefatto. L’intimismo del ritorno alle proprie origini russe; la raffinatezza d’inedite voci. Ad eccezione della Pastorale, del 1908, Pribaoutki,
Quattro canti paesani russi e le Berceuses du chat, sono tutte opere concepite in Svizzera, tra il 1914 ed il 1917; sono piccoli capolavori da camera, che diversamente dal
gigantismo sonoro della Sagra, sono stati concepiti con i colori pastello della leggerezza e della trasparenza, dell’ironia e della grazia: i giochi dell’allegria e di un “rustico
umorismo”, con candide marezzature infantili, nelle Canzoni piacevoli di Pribaoutki; i
quattro brevi cori femminili a cappella: Presso la chiesa di Chigisakh, Ovsen, Il luccio,
Mastropancia, dei Quattro canti paesani russi, su parole di antiche contadine che predicavano il futuro leggendo gli improbabili simboli delle foglie di tè versate con ritualità in preziose sottocoppe; la lirica romanza senza parole della Pastorale, nella seconda
versione per soprano e strumenti del 1923; e le squisite moine delle Berceuses du chat,
che attraverso la voce e tre diversi clarinetti: quello in mi bemolle, quello in la e quello
basso, descrivono la presenza misteriosa di un gatto: ora flessuoso, ora immobile, ora
agile, ora ipnotico, ora affettuosamente soffice.
Anche Le Nozze, composte tra il 1912 ed il ‘17, appartengono al periodo svizzero, ma
videro la loro veste strumentale definitiva soltanto nel 1923. Dapprima furono concepite per un’enorme orchestra: due opposte compagini che avrebbero dialogato con il coro e le voci soliste; poi vennero pensate per un organico più piccolo, secondo il modello
del tutto originale vicino alle orchestrine del circo e del luna-park di Renard e de L’Histoire du soldat; poi per un’altra versione con l’accompagnamento principale di un armonium e di una pianola, entrambi amplificati elettricamente, sopra il tessuto degli archi; infine, si cristallizzarono nella definitiva, adamantina versione per soli, coro, quattro
pianoforti ed un gruppo nutritissimo di percussioni. Quale festa di luci, quale fasto di
suono! in una timbrica eminentemente percussiva. Quale ferrea tensione! Mai, nella storia della musica occidentale, si era udito un brano strutturato secondo una dimensione
tanto riccamente ritmica, dove anche il suono dei pianoforti e il colore delle diverse voci
trasformano la loro naturale vocazione lirica in una macchina sontuosamente martellante, in una possente e fulgida icona minerale. Quattro ininterrotti “quadri” che celebrano i riti matrimoniali di una Russia arcaica: 1) il lamento della sposa, i singhiozzi della
madre, le declamazioni salmodiche delle compagne; 2) le drammatiche raccomandazioni dei genitori dello sposo, i commenti divertiti dei compagni; 3) l’accompagnamento
della sposa verso l’altare, lo schiamazzo degli amici, l’invocazione ai santi Cosimo e Damiano per la benedizione della cerimonia; 4) la caotica euforia del banchetto nuziale,
con brandelli di canzoni, auguri, chiacchiere, invocazioni, brindisi, e la finale unione ero-
tica dei due sposi. Il tutto mescolato in un abbagliante, percussivo turbine d’invenzione
e citazione, modernità e tradizione – alcuni temi sono ispirati all’antico repertorio slavo
– dove la sacra liturgia del matrimonio si trasforma nel più alto simbolo dell’abbandono
e dell’unione, del rinnovamento e della rinuncia, della morte e dell’amore.
Paolo Repetto
Gabrio TAGLIETTI
*1955
Ha iniziato gli studi di composizione con Franco Margola al Conservatorio di Parma,
proseguendoli al Conservatorio di Milano con Davide Anzaghi e dimplomandosi nel
1981 con Giacomo Manzoni. Nel 1978 ha ottenuto il primo importante riconoscimento
con il quartetto per archi Le rondini, unica opera italiana selezionata al 5° Seminario internazionale dei compositori di Boswil. Da allora le sue composizioni sono state
eseguite nei più importanti festival e premiate in vari concorsi, fra cui il Franco Evangelisti (1987), Guido d’Arezzo (1989), Mario Zafred (1990), Valentino Caracciolo (1991).
È diplomato anche in pianoforte e, come pianista, svolge un’intensa attività col Gruppo Musica Insieme di Cremona, con cui organizza il festival Spazionovecento. Ha inoltre lavorato a molte traduzioni di saggi e libri di carattere musicale, fra cui il carteggio
Schönberg-Mann (Archinto 1993), quattro saggi di Adorno (Einaudi 2001). Dal 1997 insegna composizine presso il Conservatorio di Mantova.
Sándor VERESS
1907 - 1992
Nato a Kolozsvár (Ungheria) ha studiato al conservatorio di Budapest con Bela Bartók
(pianoforte) e Zoltán Kodaly (composizione). Dopo essere stato assistente di composizione di Laszlo Lajtha, divenne direttore della sezione dedicata alla musica popolare
del museo etnografico ungherese, per il quale condusse ricerche in Ungheria, Transilvania e lungo la Moldava. Veress partecipò attivamente al movimento di riforma della
pedagogia musicale nell’Ungheria dell’anteguerra. Dal 1935 al 1943 fu assistente di
Bartók nella sezione di musica popolare dell’Accademia ungherese delle scienze. Dal
1943 al 1949 fu professore di composizione nel Conservatorio di Budapest. Nel 1949
lasciò l’Ungheria e, dopo soggiorni a Stoccolma e a Roma, trovò in Svizzera la sua seconda patria. Dal 1950 insegnò composizione, teoria e pedagogia musicale al Conservatorio di Berna, diventando anche professore nella locale Università nel 1968.
Il titolo Introduzione e coda indica che si tratta della cornice di una composizione concepita in più parti. Non è tuttavia un’opera incompiuta, bensì un’opera che ha trovato
la sua compiutezza secondo la volontà dell’autore. Il titolo non è dunque uno scherzo,
ma un accenno al non detto.
Nell’Introduzione il gruppo cromatico dei tre suoni mi -fa - fa diesis (battute 1-2. 38-41.
97) costituisce il nucleo strutturale da cui partono le tesissime linee melodiche. Nella
battuta 52 la melodia s’innalza in un parlando-rubato, gesto sentito nella maniera ornata del canto popolare ungherese.
Nella Coda il gruppo dei sei suoni re bemolle - fa -mi / fa diesis - re -mi bemolle ne è
il nucleo strutturale. Solo nella battuta 36 traggono origine dal precipitoso movimento
strutture ritmiche che sfociano nel gesto febbrile del Tempo-giusto. Questi due gesti
polarizzati della musica popolare non risuonano immediatamente, ma come se fossero riflessi; ricordo e pensiero musicali si intrecciano.
Elettrosensi
Questo concerto è il primo di una rassegna che frequenterà i repertori contemporanei
destinati ai nuovi strumenti musicali elettroacustici: nuovi strumenti musicali per rinnovate forme espressive che utilizzano tutto il potenziale del gesto esecutivo degli strumenti acustici della tradizione, in un mondo di nuovi suoni e di cura compositiva della
loro dimensione spaziale.
Il violino elettroacustico, producendo direttamente un segnale audio elettrico, può
connettersi direttamente a tutti i dispositivi elettronici di trattamento e diffusione del
suono conservando, nello stesso tempo, tutte le possibilità esecutive del violino acustico. Questo permette una interazione immediata ed efficace con tutti i dispositivi elettronici creando variazioni continue di timbri, di dinamiche e di penetrazione sonora degli spazi architettonici. La compenetrazione poi, fra i suoni dello strumento e quelli
puramente elettronici, è totale in tutte le sue dimensioni senza alcuna disparità di livelli o di mobilità sonora: si tratta finalmente di vere e proprie forme concertate fatte di
omogeneità e contrapposizioni, di staticità e mobilità, di sonorità minime e sonorità
piene, di esplosioni di masse e di linee liriche.
Gli autori delle composizioni presentate, appartengono alla generazione di musicisti
che ha pienamente vissuto l’evoluzione delle nuove tecnologie elettroniche ed informatiche, inserendo costantemente nelle proprie produzioni musicali l’uso di questi
strumenti. Ormai superata ogni fase puramente sperimentale e, in qualche modo, liberi da qualsiasi deferenza alla tecnologia fine a se stessa, questi lavori compositivi si integrano perfettamente nelle identità espressive e stilistiche di ogni singolo autore.
Ognuno di essi arriva alle nuove tecnologie da percorsi diversi e con una propria identità che si manifesta, nel programma presentato, con una ricca varietà di tecniche, stili
e poetiche.
Grafica : RTSI - Raffaela Casasopra
Stampa : Tipo-Offset Aurora