Test d`ingresso a.a. 2013/2014

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UNIVERSITA’ DEL SALENTO
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
PROVA DI VERIFICA DELLA PREPARAZIONE INIZIALE
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE, A CICLO UNICO, IN GIURISPRUDENZA
BRANO n. 1
U. Breccia, Clausole generali e ruolo del giudice, in Lavoro e diritto, 2007, 443 ss.
La prima immagine di successo, quale si trae da alcuni scritti che appartengono ormai alla
storia, vede il giurista, il quale sia alle prese con le clausole generali, nella singolare posizione
di colui che è in fuga: fuga dalle vaghezze retoriche, che non si addicono alla precisione
asettica del lessico giuridico, oppure, sul versante diametralmente opposto, fuga dalle forme
giuridiche immobili, che reclamano, per contrasto, un ordine normativo cangiante con il
mutare della realtà e aperto all’ambiente sociale del diritto.
L’immagine della fuga si associa all’idea di una minaccia che ha i volti opposti e alquanto
manierati dell’implacabilità della dura lex ovvero dell’arbitrio illimitato del giudice (fiat
iustitia pereat mundus).
Come tale, è un’immagine che ebbe una sua forza innegabile in tempi lontani, ma che tende
ormai a scolorire sia quale riflesso di un approfondimento dei profili di discrezionalità che già
sono immanenti all’interpretazione delle puntuali disposizioni della legge sia quale riflesso di
una nuova presa di coscienza del fatto che le vere difese contro le prevaricazioni legalistiche o
giudiziarie non possono essere affidate soltanto alla duttilità o alla rigidità degli enunciati
normativi.
La storia ormai ci ha insegnato, anche in maniera tragica, che la vera insidia da cui fuggire o a
cui resistere sta nella totale strumentalizzazione del diritto da parte di poteri dominanti. Così,
nulla è meno clausola generale della puntuale legislazione di discriminazione razziale che fu
introdotta in Italia verso la fine degli anni ’20, eppure nulla, al giorno d’oggi, ci appare più
incompatibile con i tanti aspetti del mestiere di giurista.
Sull’altro versante, in cui si dispongono gli enunciati normativi indeterminati, nulla suona più
sinistro all’orecchio di chi abbia una pur minima cultura giuridica moderna del “principio del
Fuhrer ”, quale fonte del diritto penale e della conseguente privazione della libertà o della vita
di chi a quel principio si ribelli. Quando il diritto diventa totalmente disponibile da un potere
incontrollato, qualsiasi tecnica giuridica degrada a mezzo arbitrario, sia che abbia una
formulazione certa e puntuale, la quale derivi da un assoluto monopolio della sua produzione
e della sua interpretazione variamente coatta, sia che declami, con aperta arroganza, la sua
immediata dipendenza dagli apparati di dominio.
Non di fuga dalle braccia o nelle braccia di questa o di quella modalità di produzione
dell’ordine giuridico si tratterà allora, ma piuttosto di resistenza ovvero di piena presa di
coscienza del pensiero dei giuristi: la resistenza dipenderà dalla critica radicale della piena
legittimazione dei poteri che a sé abbiano piegato il diritto in maniera arbitraria; la piena
presa di coscienza (con il conseguente rifiuto di fingerne l’inesistenza e di negarne la
vincolatività) dipenderà anche dalla contestazione del fondamento teorico degli orientamenti
interpretativi, quando siano oggettivamente conformi ai poteri che cerchino di piegare le
clausole a sé stessi, ovvero di occultarle o di negarle in maniera apodittica.
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Mentre sbiadisce l’immagine della fuga, persa nella memoria di un tempo giuridico del tutto
statico o del tutto asservito, conserva tutta la sua attualità, e perfino si rafforza, l’istanza della
ricognizione critica. E questa presuppone uno stretto contatto con la casistica, così da
coinvolgere in maniera integrale la formazione culturale e il ruolo degli interpreti.
Al giudice, a ben vedere, l’immagine della fuga dalle clausole generale o della fuga nelle
clausole generali non dovrebbe mai attagliarsi, poiché la cultura moderna, solennemente
trasposta nelle carte costituzionali contemporanee, impone all’organo che è chiamato a
rendere vivente il diritto nella fase applicativa, un vincolo, e soltanto un vincolo, che è, per
l’appunto, la soggezione alla legge, ossia al diritto stesso, quale ordine che comprende
disposizioni formulate, almeno in parte, in termini di principio o di clausola generale (art. 101
Cost.).
La fuga qui neppure sembra concepibile, sia in senso logico sia in senso deontologico. Fin dalle
prime letture dei manuali, infatti, gli studenti di giurisprudenza apprendono che il dubbio e la
lacuna, già ai tempi del code civil , più non consentono di allontanare da sé, con un non liquet ,
o di delegare al potere legislativo, la responsabilità che la legge mal formulata, la disposizione
vaga e i vuoti normativi inevitabilmente fanno gravare, in età moderna, su coloro che sono
tenuti a giudicare.
La fuga, nelle due opposte direzioni sopra segnalate, soltanto può concepirsi, dunque, quale
fuga non trasparente.
Nel caso della fuga dalle clausole generali, per esempio, la stessa deve necessariamente porsi
al riparo di una decisione che conduca al risultato di negare l’effettiva forza normativa di un
enunciato formulato in termini di clausola generale, oppure deve declamarne l’applicazione in
maniera ridondante e al solo scopo di munire una regola del tutto autosufficiente di una sorta
di aura enfatica non strettamente necessaria né utile. In entrambi i casi, la clausola generale è
posta al centro della fase applicativa del diritto, ma le vie prescelte conducono al risultato di
una disapplicazione mascherata, per difetto o per eccesso.
Questi due modelli apparentati da esiti elusivi, non necessariamente consapevoli, erano
sotterraneamente percepibili nella trama delle rassegne di giurisprudenza, comunque
quantitativamente non cospicue, che furono redatte nei primi anni successivi al secondo
conflitto mondiale.
Più complessa è la ricerca sulla fuga occulta dalle clausole generali o sulla fuga nelle clausole
generali e sui caratteri che esse assumano ai nostri giorni, sempre nella fase dell’applicazione
giudiziale del diritto.
Ogni tentativo di risposta presuppone un sufficiente inventario di decisioni che, in maniera
non trasparente o comunque in maniera sistematicamente opinabile, finiscano con il ridurre
ovvero con l’espandere, all’atto del decidere, la forza normativa delle clausole generali, così da
mascherare, anche in questo caso in via non necessariamente intenzionale, un ruolo giudiziale
meno incisivo o più incisivo nella produzione e nella innovazione del diritto.
A questo punto, si può complessivamente osservare, tuttavia, che ormai ci troveremmo sul
versante opposto rispetto alle applicazioni elusive e alle applicazioni vuote. Saremmo, infatti,
sul versante delle applicazioni “effettive”.
Considero tali, con gradi diversi, quelle applicazioni che: a) non richiamino una clausola
generale più pertinente al giudizio e si avvalgano, con lo stesso esito, di una disposizione
puntuale, ma meno pertinente (effettività occulta); b) individuino in una disposizione
specifica la ratio conforme a una clausola generale, così da suggerire un possibile fondamento
di future decisioni imperniate sull’analogia (effettività debole o indiretta); c) attribuiscano
alla clausola generale una forza normativa, costruttiva o limitativa, parzialmente
autosufficiente (effettività adeguata); d) ascrivano alla clausola generale una forza normativa
di segno proibitivo, parzialmente antinomica con un principio, e tale da sconfinare nel
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giudizio d’equità, anche nel difetto di conferme sistematiche ulteriori e di segno univoco
(effettività discussa per eccesso).
DOMANDE SUL BRANO n. 1
1) Secondo l’Autore del testo:
a) per difendersi dal rischio di prevaricazioni legislative e giudiziarie è necessario che i
testi normativi siano duttili
b) il diritto può diventare strumento delle classi dominanti perché si avvale di clausole
generali
c) i giuristi debbono rifugiarsi nelle clausole generali per evitare il c.d. principio del
Fhurer
d) i giuristi devono opporsi a qualsiasi tentativo di piegare o occultare le clausole generali
per sostenere orientamenti interpretativi precostituiti
2) Dalla lettura del brano si evince che per l’Autore:
a) il giudice è soggetto alla legge, cioè al diritto, e il diritto comprende anche le clausole
generali
b) se il giudice riscontra una lacuna normativa è tenuto a chiedere al legislatore di
colmarla
c) il giudice in virtù del principio “non liquet” non può applicare una legge mal formulata
d) il giudice avvalendosi delle clausole generali deve rafforzare un enunciato normativo
autosufficiente
3) Nell’ottica dell’Autore, si ha fuga occulta dalle clausole generali quando:
a) una clausola generale pertinente venga accantonata a favore dell’impiego di una
disposizione puntuale meno aderente alla specificità del caso concreto
b) il giudice per decidere il caso concreto si avvalga dell’equità
c) un enunciato normativo venga applicato per analogia
d) per superare un divieto posto da un principio di diritto si usi una clausola generale
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BRANO n. 2
Art. 2900 c.c.
Il creditore, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le sue ragioni, può esercitare i
diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che questi trascura di
esercitare, purché i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e non si tratti di diritti o
di azioni che, per loro natura o per disposizione di legge, non possono essere esercitati se non
dal loro titolare.
Il creditore, qualora agisca giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale intende
surrogarsi.
DOMANDE SUL BRANO N. 2
4) Ai sensi dell’art. 2900 c.c.:
a) Il creditore non può esercitare diritti ed azioni che spettano al debitore
b) Il debitore può incaricare il creditore di esercitare diritti ed azioni di cui ha la titolarità
c) Il creditore può chiedere al debitore di essere autorizzato ad esercitare i diritti di
credito che egli vanta verso un terzo
d) Il creditore può esercitare diritti ed azioni che il debitore ometta di esercitare
5) Dall’art. 2900 c.c. si evince che:
a) Se la legge non dispone diversamente il creditore può sostituire il debitore
nell’esercizio dei diritti di credito che egli trascuri di esercitare
b) Il debitore può essere esonerato dall’esercizio dei diritti e delle azioni di cui è titolare
c) I diritti di contenuto patrimoniale possono essere esercitati solo dal titolare
d) I diritti di natura non patrimoniale possono essere esercitati dal creditore in nome e
per conto del debitore
6) Ex art. 2900 c.c.:
a) Il creditore può esercitare solo giudizialmente i diritti e le azioni che il suo debitore
ometta di esercitare
b) Il creditore non può agire in giudizio per esercitare i diritti e le azioni che il suo
debitore ometta di esercitare
c) Il debitore deve essere citato in giudizio ove il creditore eserciti in via giudiziale
l’azione surrogatoria
d) Il creditore può citare in giudizio il debitore che ometta di esercitare i diritti e le azioni
vantate verso i terzi
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BRANO N. 3
Corte Costituzionale, 19 luglio 2013, n. 220 (Riordino delle province)
(…)
1.– Le Regioni Piemonte (…), Lombardia (…), Veneto (…), Molise (…), Lazio (…) e Campania
(…), e le Regioni autonome Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (…), Sardegna (…) e Friuli-Venezia
Giulia (…), con nove distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di
alcune disposizioni del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la
crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 (…) nonché degli artt. 2, primo comma,
lettera b), 3, primo comma, lettera f), e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4
(Statuto speciale per la Valle d’Aosta), dell’art. 3, primo comma, lettere a) e b), della legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), degli artt. 4, primo
comma, n. 1-bis), 11, 51, 54 e 59 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto
speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), e degli artt. 2 e 9 del decreto legislativo 2
gennaio 1997, n. 9 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Friuli-Venezia
Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni), nonché del
principio di leale collaborazione (…).
2.– Le Regioni Molise (…), Lazio (….), Veneto (….), Campania (…), Lombardia (…), Piemonte
(….) e Calabria (…), e le Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia (…) e Sardegna (…), con nove
distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni
del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale
delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 7 agosto 2012, n. 135 (…).
3.– I giudizi, così separati e delimitati, in considerazione della loro connessione oggettiva
devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia (…).
4.– In via preliminare deve essere confermata l’ordinanza (…) con la quale sono stati
dichiarati inammissibili gli interventi spiegati: dall’Unione delle Province d’Italia (…); dalle
Province di Isernia, Latina, Frosinone e Viterbo (…); dalle Province di Isernia e Avellino (…) ;
dal Comune di Mantova (…).
Il giudizio di costituzionalità delle leggi (…) si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di
potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle
rispettive posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali
ed eventualmente innanzi a questa Corte in via incidentale.
Pertanto, alla stregua della normativa in vigore e conformemente alla costante giurisprudenza
costituzionale in materia (…), deve ritenersi inammissibile l’intervento, nei giudizi di
costituzionalità in via principale, di soggetti privi di potere legislativo.
5.– Prima di esaminare il merito delle singole censure, questa Corte è chiamata a risolvere
alcune questioni preliminari.
5.1.– Innanzitutto, deve essere esclusa la fondatezza dell’eccezione sollevata dall’Avvocatura
generale dello Stato, secondo cui i ricorsi dovrebbero essere dichiarati inammissibili in
quanto le Regioni non sarebbero legittimate ad agire a tutela delle attribuzioni degli enti
locali.
Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che «le Regioni sono
legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali,
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indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa
regionale» (…).
10.– (…) il nucleo principale delle questioni promosse riguarda la normativa recante la
cosiddetta riforma delle Province (…).
1.3.– Nei casi oggetto dei presenti giudizi, risulta evidente che le norme censurate incidono
notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori, sulla
composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con i Comuni e con le
stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una parte del sistema delle autonomie
locali, destinata a ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità
territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione.
Questa Corte deve quindi valutare la compatibilità dello strumento normativo del decretolegge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie, ai
fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma)
che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia
sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti,
considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e alle Regioni,
elementi costitutivi della Repubblica, «con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi
fissati dalla Costituzione».
12.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del
d.l. n. 201 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalle ricorrenti per
violazione dell’art. 77 Cost., sono fondate nei termini di seguito specificati.
12.1.– Si deve osservare innanzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost.
attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei seguenti ambiti:
«legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane».
La citata norma costituzionale indica le componenti essenziali dell’intelaiatura
dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel
tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di
svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale
ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme
ordinamentali, che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al
punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal
secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi
specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di
necessità e d’urgenza».
Da quanto detto si ricava una prima conseguenza sul piano della legittimità costituzionale:
ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli
enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e
composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo
sottoposte al vaglio successivo del Parlamento. Si ricava altresì, in senso contrario, che la
trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale
territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e
giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero
sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che
certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e
d’urgenza».
I decreti-legge traggono la loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad
operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose
di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità. Per
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questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto che il
decreto-legge debba contenere «misure di immediata applicazione» (…). La norma citata, pur
non avendo, sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve
ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge (…), che entrerebbe in contraddizione
con le sue stesse premesse, se contenesse disposizioni destinate ad avere effetti pratici
differiti nel tempo, in quanto recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla
costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa
siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa.
Del resto, lo stesso legislatore ha implicitamente confermato la contraddizione sopra rilevata
quando, con l’art. 1, comma 115, della legge n. 228 del 2012, ha sospeso per un anno – fino al
31 dicembre 2013 – l’efficacia delle norme del d.l. n. 201 del 2011, con la seguente formula:
«Al fine di consentire la riforma organica della rappresentanza locale ed al fine di garantire il
conseguimento dei risparmi previsti dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nonché quelli derivanti dal processo di
riorganizzazione dell’Amministrazione periferica dello Stato, fino al 31 dicembre 2013 è
sospesa l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del decreto-legge
6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214».
Dalla disposizione sopra riportata non risulta chiaro se l’urgenza del provvedere – anche e
soprattutto in relazione alla finalità di risparmio, esplicitamente posta a base del decretolegge, come pure del rinvio – sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme
dello stesso decreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficacia
operativa. Tale ambiguità conferma la palese inadeguatezza dello strumento del decreto-legge
a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in
esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente
protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e
sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata
al decreto-legge, secondo il disegno costituzionale.
Le considerazioni che precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore
e non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo
con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti
dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più
limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per
introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente
organizzative.(…).
12.2.– Si deve ancora osservare che la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali
richiede, a norma dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che
deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed il parere, non
vincolante, della Regione.
Sin dal dibattito in Assemblea costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le
circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o
semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori – fosse il frutto di iniziative nascenti
dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il
portato di decisioni politiche imposte dall’alto.
Emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che
va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decretolegge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la
necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette
situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una
maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della
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straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla
Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali.
Questa Corte ha ammesso che l’istituzione di una nuova Provincia possa essere effettuata
mediante lo strumento della delega legislativa, purché «gli adempimenti procedurali destinati
a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della
Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di
delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della
legge delegata» (…). In sostanza, (…) l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione si
pongono, in caso di delega legislativa, come presupposti necessari perché possa essere
emanato da parte del Governo il decreto di adempimento della delega. La stessa inversione
cronologica non è possibile nel caso di un decreto-legge, giacché, a norma dell’art. 77, secondo
comma, Cost., il Governo deve presentare alle Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il
disegno di legge di conversione. Non vi è spazio quindi perché si possa inserire l’iniziativa dei
Comuni. Né quest’ultima potrebbe intervenire nel corso dell’iter parlamentare di conversione;
non si tratterebbe più di una iniziativa, ma di un parere, mentre la norma costituzionale ben
distingue il ruolo dei Comuni e della Regione nel prescritto procedimento “rinforzato”.
(…)
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE (…)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20, del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011
(…), degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma
1, della legge n. 135 del 2012 (…) dell’art. 23, comma 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011,
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 21, del
d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del
2011 (…);
5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011
(…);
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 22, del d.l.
n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011
(…)
DOMANDE SUL BRANO N. 3
7) Secondo la Corte Costituzionale:
a) le Province, le Unioni di Province, i Comuni e le Regioni non sono legittimati a proporre
questioni di legittimità costituzionale
b) è infondata l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato secondo cui le regioni non
possono agire a tutela delle attribuzioni degli enti locali
c) le Regioni possono prendere parte ad un giudizio dinanzi alla Corte Costituzionale solo
là dove una legge statale violi precise competenze regionali
d) i soggetti privi di potestà legislativa non godono di alcuna forma di tutela
giurisdizionale
8) Nella sentenza del giudice delle leggi si afferma che:
a) un provvedimento di natura contingente può incidere se vi sono ragioni di necessità e
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urgenza sull’assetto ordinamentale dello Stato
b) attraverso al decretazione di urgenza non si può incidere sulla struttura di un ente
territoriale previsto dalla Costituzione
c) se sono ravvisabili concreti risparmi di spesa destinati a durare nel tempo si può
modificare un ente territoriale anche con un decreto legge
d) il decreto legge può modificare le attribuzioni delle province purchè le relative
disposizioni entrino in vigore immediatamente
9) Per i giudici della Corte Costituzionale:
a) le circoscrizioni provinciali possono essere modificate con decreto legge purchè siano
sentiti i Comuni interessati
b) il decreto legge è incompatibile in via logica e giuridica con quanto previsto dall’art.
133 Cost. in merito alla modifica delle circoscrizioni provinciali
c) la nascita di nuova Provincia non può essere disposta né con decreto legge né con
decreto delegato
d) una nuova Provincia può essere disposta con legge regionale
10) Dalla lettura del testo della sentenza si evince che:
a) l’istituzione di una nuova Provincia può essere disposta con decreto delegato adottato
con procedura rinforzata
b) per istituire una nuova Provincia è necessario il parere della Regione e dei Comuni
interessati
c) per istituire una nuova Provincia è sufficiente un decreto legge, seguito
dall’acquisizione del parere dei Comuni interessati
d) il parere dei Comuni interessati integra gli estremi della situazione di necessità ed
urgenza richiesta per avviare l’istituzione di una nuova Provincia tramite decreto legge
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BRANO n. 4
F. Galgano, Il contratto, in Contratto e impresa, 2007, 717 ss.
(…) La filosofia sottostante alla categoria del negozio giuridico, quale era stato fondato dai
giusnaturalisti tedeschi del Settecento e poi rielaborato dalla pandettistica tedesca della
prima metà dell’Ottocento, risiede nella esaltazione della volontà dell’uomo, assunta come il
fattore generatore di ogni modificazione della realtà giuridica (cosiddetto "dogma della
volontà"). Esso è, afferma Savigny, la manifestazione della "capacità naturale della persona di
indurre mutamenti mediante atti di volontà” è, ribadisce Windscheid, espressione della "forza
creatrice della volontà”.
Il processo di astrazione, dal quale nasce la categoria, si inquadra nel più vasto processo che
attraverso l’astrazione mira all’uguagliamento del diritto. È il processo iniziato dalla
codificazione francese: l’obiettivo è di realizzare un diritto uguale per tutti i cittadini, senza
distinzione di condizione sociale o economica o professionale; un diritto pensato in funzione
della unità del soggetto giuridico. Il processo di astrazione, che in Francia si era arrestato con
la codificazione della categoria generale del contratto, prosegue in Germania oltre il contratto.
Se il contratto evoca, quanto meno, l’immagine di una duplicità di soggetti e, come suo
referente economico, l’atto di scambio, il negozio giuridico, che è pensabile come l’atto di un
solo individuo, realizza nel modo più completo l’unità del soggetto di diritto, e finisce con
l’eliminare, per il suo massimo grado di astrattezza, ogni possibile riferimento al sottostante
rapporto economico o sociale (…).
Tutt’altro discorso vale per i paesi anglo-sassoni. Al razionalismo francese ed all’idealismo
tedesco si contrappone l’empirismo inglese, che induce quei giuristi a rifuggire il più possibile
dalle astrazioni concettuali. A ciò si aggiunge la strutturale differenza fra civil law e common
law, il diverso modo di elaborare categorie giuridiche, in dipendenza della loro diversa fonte,
prevalentemente legislativa nel primo, prevalentemente giudiziaria nel secondo. Il civil law è,
quanto meno quello prodotto dalle codificazioni, il "diritto dei professori": il suo pregio è la
"scientificità", intesa come sistemazione del materiale normativo entro vaste categorie
ordinanti, caratterizzate da alto grado di astrazione. Il common law, per contro, è diritto
creato dai giudici, a partire dalla esperienza concreta, ed elabora categorie giuridiche di gran
lunga meno estese, più aderenti alla tipologia della realtà. Si può dire, nei termini della
filosofia analitica, che il linguaggio giuridico dei common lawyers è il linguaggio cosale, che ha
per oggetto le cose che arredano il mondo; quello dei giuristi dell’area romanistica è,
piuttosto, un metalinguaggio, che ha per oggetto non cose, ma altri linguaggi.
Il diverso grado di astrazione che caratterizza, in ordine crescente, i sistemi anglosassone,
romano-francese e romano-tedesco può essere reso evidente con una esemplificazione.
– primo grado di astrazione:
la vendita e la locazione sono entrambe accordi per lo scambio di prestazioni, quantunque si
tratti di prestazioni diverse nell’una o nell’altra; se ne può ricavare, per astrazione, il concetto
di contratto, quale accordo per lo scambio di prestazioni;
– secondo grado di astrazione:
la donazione ha in comune con la vendita il fatto d’essere un accordo per l’esecuzione di una
prestazione, ma non c’è scambio con una controprestazione. Se ne può ricavare, per
astrazione, un concetto di contratto che prescinde dallo scambio di prestazioni e che presenta
due sottospecie: il contratto a titolo oneroso, basato sullo scambio, e il contratto a titolo
gratuito, non basato sullo scambio;
– terzo grado di astrazione:
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la vendita, la donazione e il testamento hanno in comune il fatto di essere dichiarazioni di
volontà con le quali si dispone di propri diritti; ma il testamento non richiede, come la vendita
e la donazione, due concordanti dichiarazioni di volontà destinate a formare un accordo: basta
la volontà del solo disponente. E allora si può ricavare, per astrazione il concetto di
dichiarazione di volontà, o negozio giuridico, del quale sono sottospecie il negozio unilaterale
e il contratto, che a sua volta ha come sottospecie il contratto a titolo oneroso e il contratto a
titolo gratuito.
Orbene, il common law si è fermato al primo grado di astrazione: è contract solo quello che in
civil law è definito contratto a titolo oneroso.. Il linguaggio giuridico corrisponde al linguaggio
cosale; è contratto, per common law, ciò che è tale per senso comune, ossia l’accordo per lo
scambio di una prestazione e di una controprestazione. Il sistema romano-francese si è
fermato al secondo grado di astrazione: il contratto può essere a titolo oneroso o a titolo
gratuito. Il sistema romano-tedesco è pervenuto al terzo grado di astrazione: il negozio
giuridico può essere unilaterale o bilaterale.
Né il contratto in generale del diritto francese, né tanto meno il negozio giuridico del diritto
tedesco hanno referenti nel mondo della realtà; esistono solo nel mondo del diritto, solo sulla
scena giuridica verbalizzata, come direbbe la filosofia analitica. Il contratto in generale, pur
nella limitata accezione dei common lawyers, mal si addice all’empirismo anglosassone, e la
letteratura giuridica lo impiega come categoria descrittiva, mentre in chiave operativa
continua a fare riferimento ai singoli tipi contrattuali. La locuzione contract è entrata
nell’Uniform Commercial Code americano, ma solo per designare la vendita, come sinonimo di
sale, di vendita.
Valga anche un’altra esemplificazione: in civil law si suole attribuire al contratto la virtù di
trasformare una pluralità di dichiarazioni individuali in un’unica e superiore volontà, che è la
"volontà contrattuale", distinta da quella dei singoli contraenti: si è scritto che "le varie
volontà si fondono in una e sorge la volontà obiettiva, superiore alle singole volontà dei
contraenti” (…)
DOMANDE SUL BRANO N. 4
11) Dalla lettura del brano può desumersi che:
a) per dogma della volontà si intende la possibilità di produrre modificazioni della realtà
giuridica attraverso un atto di volontà
b) l’empirismo che caratterizza i sistemi di common law contrasta con l’uguaglianza
giuridica
c) i sistemi di civil law rifuggono dalla nozione di negozio giuridico
d) nei sistemi di civil law il diritto è creato prevalentemente dai giudici
12) Stante le varie accezioni di astrazione descritte nel brano, può concludersi che:
a) il contratto di vendita e il contratto di locazione sono contratti non onerosi
b) il testamento è un atto di volontà unilaterale
c) il contratto di vendita e il contratto di locazione sono contratti senza controprestazione
d) il contratto di donazione e il contratto di locazione sono contratti che hanno per
oggetto lo scambio delle medesime prestazioni
13) Il brano consente di ritenere che:
a) il contract inglese può essere a titolo oneroso o gratuito
b) il negozio giuridico è solo unilaterale
c) il negozio giuridico rappresenta il massimo grado di astrazione
d) il contratto in generale è indispensabile per la disciplina contrattuale nei sistemi di
common law
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BRANO n. 5
Articolo 77 Costituzione
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di
legge ordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli
per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni
dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici
sorti sulla base dei decreti non convertiti.
DOMANDE SUL BRANO N. 5
14) Ai sensi dell’art. 77 Cost., il Governo:
a) non può emanare decreti aventi forza di legge ordinaria
b) non può adottare atti aventi forza di legge se le Camere sono sciolte
c) può emanare solo provvedimenti provvisori
d) può adottare, in casi straordinari di necessità ed urgenza, atti aventi forza di legge
15) I decreti adottati ai sensi dell’art. 77 Cost. comma 2:
a) non devono essere pubblicati
b) devono essere pubblicati entro sessanta giorni
c) non sono efficaci prima della conversione in legge da parte delle Camere
d) devono essere presentati alle Camere per la conversione
16) Dall’analisi del testo dell’art. 77 Cost. si desume che:
a) le Camere se convocate entro 5 giorni sono tenute e convertire in legge gli atti adottati
dal Governo
b) le Camere possono delegare il Governo ad emanare decreti aventi forza di legge
c) le Camere devono convertire in legge i decreti emanati ai sensi dell’art. 77 Cost.,
comma 1
d) la mancata conversione del decreto entro sessanta giorni attribuisce al provvedimento
adottato dal Governo efficacia definitiva
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BRANO n. 6
V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, Introduzione al diritto costituzionale italiano (Gli
ordinamenti giuridici – Stato e costituzione – Formazione della Repubblica italiana), II ed.
riveduta e accresciuta, Milano, 1970, pag. 1-2.
Gruppi e ordinamenti sociali.
“In linea di primo approccio, quello che noi chiamiamo “Stato” non è che uno tra gli
innumerevoli e svariati gruppi sociali organizzati, nei quali sempre, per quanto addietro nel
tempo e attorno a noi nello spazio si spinga lo sguardo, ci si presenta articolata la vita
dell’uomo. Ma dire gruppo sociale organizzato significa dire gruppo ordinato, secondo
determinate norme o regole, che sono ad un tempo prodotto e condizione necessaria della
esistenza stessa del gruppo. L’idea di “organizzazione” richiama ed implica quella di “ordine”,
poiché organizzazione è, in termini generalissimi, regolarità prestabilita di contegni umani
per la realizzazione di interessi che trascendono gli interessi particolari dei singoli
componenti il gruppo: coordinazione e subordinazione di attività in rapporto tra loro, regola
di relazioni intersoggettive e, prima ancora, della posizione di ciascuno nei confronti degli
altri e del gruppo, complessivamente riguardato.
Al limite, qualunque forma di convivenza e di aggregazione umana, pur se elementarissima ed
effimera, costituisce un gruppo in qualche modo organizzato e quindi ordinato. Persino una
semplice riunione, momentanea ed episodica, purché non meramente casuale, che sia
determinata da un movente comune agli individui tra loro riuniti, e perciò dall’esigenza di
soddisfare un comune interesse, potrebbe farsi rientrare in un larghissimo concetto di gruppo
sociale. Tale, ad esempio, il pubblico convenuto ad una conferenza o ad uno spettacolo
teatrale, che sarebbe inconcepibile senza la presenza di certe regole fondamentali da tutti
accettate, anche se implicitamente ed inavvertitamente, che a loro modo gli danno un ordine e
perciò lo organizzano, rendendolo praticamente possibile. Tale anche il fenomeno che si
riscontra quando più persone si accordano tra loro per compiere un’azione criminosa,
variamente partecipandovi secondo certi criteri, che non possiamo non dire organizzativi,
dandosi così un ordine, congruo rispetto al fine, che vogliono e devono osservare: dove c’è,
anche, spesso, una ripartizione di compiti tra i partecipanti (tra chi promuove, dirige, esegue
materialmente, resta a far da “palo”, e via dicendo).”
DOMANDE SUL BRANO N. 6
17) Secondo l’Autore, il gruppo sociale, in senso lato, deve :
a) essere casuale
b) connotarsi per un movente comune ai suoi componenti
c) avere una durata effimera
d) soddisfare un interesse individuale
18) Il promuovere, il dirigere, l’eseguire materialmente ed il far da palo sono funzioni
nel testo attribuite:
a) agli spettatori di una rappresentazione teatrale
b) al pubblico di una conferenza
c) ai partecipanti ad un congresso
d) ai soggetti intenzionati a compiere un’azione criminale
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19) La definizione corretta di gruppo sociale ordinato, che si evince dal documento che
precede, è quella di:
a)uno Stato
b) un’organizzazione
c) un’aggregazione casuale
d) una riunione
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BRANO n. 7
E. Betti, Teoria generale della interpretazione, Milano, Giuffrè, 1955).
L’interpretazione che interessa il diritto è un’attività volta a riconoscere e a ricostruire il
significato da attribuire, nell’orbita di un ordine giuridico, a forme rappresentative, che sono
fonti di valutazioni giuridiche, o che di siffatte valutazioni costituiscono l’oggetto. Fonti di
valutazioni giuridiche sono norme giuridiche e precetti ad essa subordinati, posti in vigore in
virtù di un’apposita competenza normativa. Oggetto di valutazioni giuridiche possono essere
dichiarazioni o comportamenti, che si svolgono nella cerchia sociale disciplinata dal diritto, in
quanto abbiano rilevanza giuridica secondo le norme e i precetti ivi in vigore: in particolare
quelle dichiarazioni e quei comportamenti, che abbiano a loro volta contenuto e carattere
precettivo, siccome destinati a determinare una ulteriore linea di condotta…L’interpretazione
non ha una funzione meramente ricognitiva del pensiero, ma ha la funzione di svilupparne
direttive per l’azione pratica, o per un’opzione; e così assolve il compito di mantenere sempre
in vita, mediante l’intendere, le esigenze di un ordine dell’operare, e precipuamente assolve il
compito di conservare in perenne efficienza nella vita di una società, norme, precetti e
valutazioni normative, che sono destinate a regolarla o a servirle di orientamento…Il canone
della corrispondenza ermeneutica inserisce nel processo interpretativo, accanto al compito di
ricognizione, un ulteriore compito di adeguazione e di adattamento: il quale porta
nell’interpretazione giuridica a un risultato essenzialmente diverso da quello cui mira
l’interpretazione storica…Nell’interpretazione giuridica di un ordinamento in vigore il giurista
non si può arrestare a rievocare il senso originario della norma – come se si trattasse di
un’entità storica, di un fatto del passato, avente un senso in sé concluso – ma deve fare un
passo avanti: perché la norma, lungi dall’esaurirsi nella sua primitiva formulazione, ha vigore
attuale in una con l’ordinamento di cui fa parte integrante, ed è destinata a passare e
trasfondersi nella vita sociale, alla cui disciplina deve servire. Qui, pertanto, l’interprete non
ha ancora finito di adempiere il suo compito, quando ha ricostruito l’idea originaria della
formula legislativa, ma deve, dopo ciò, mettere d’accordo quell’idea con la presente attualità,
infondendovi la vita di questa, perché appunto a questa la valutazione normativa dev’essere
riferita
DOMANDE SUL BRANO N. 7
20) Dalla lettura del brano si evince che l’interpretazione della norma:
a) è un’attività esclusivamente ricognitiva
b) deve ricostruire soltanto il senso originario delle norme
c) deve attenersi rigorosamente al tenore letterale delle espressioni contenute nelle
norme
d) deve ricercare il senso più autentico delle norme, in armonia con i valori
fondamentali dell’ordinamento, aila luce delle nuove esigenze imposte dalla vita
sociale
21) Possono costituire oggetto di valutazioni giuridiche:
a) solo le dichiarazioni giuridicamente rilevanti
b) le dichiarazioni tradotte in forma scritta
c) tutti i comportamenti umani purché non illeciti
d) dichiarazioni e comportamenti di carattere precettivo
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BRANO n. 8
C. Ghisalberti, Unità nazionale e unificazione giuridica in italia, Bari, Laterza, 1998
All’unificazione legislativa, come è noto, si giunse tra il 1859 e il 1865, attraverso una serie di
tappe ben definite. Che, però, apparivano nel loro delinearsi sicuramente condizionate dal
precedente svolgimento delle vicende giuridiche italiane, e, soprattutto, ispirate ad una
particolare interpretazione, coerente nei suoi contenuti e progressiva nel suo svolgimento, di
quelle. La mitizzazione, avvenuta dalla Restaurazione in poi, della codificazione napoleonica
come la migliore e la più avanzata di quante elaborate o concepibili; la consapevolezza del
profondo legame esistente tra questa e la tradizione romanistica sulla quale si erano svolti per
secoli i rapporti civili della popolazione della penisola; il rifiuto, accompagnato dalla reiezione
palese, dei postulati della Scuola Storica del diritto, di ogni forma normativa alternativa a
quella codicistica e di ogni fonte giuridica diversa dallo Stato legislatore; il collegamento
diretto, tra l’idea di Stato nazionale e la correlativa nozione di una legislazione unitaria; la
visione del codice, come strumento, anche pedagogicamente, utile e valido per accostare il
popolo allo Stato, diffondendo con la conoscenza delle sue leggi, il senso del diritto;
l’immagine, diffusa dalla pubblicistica e dalla dottrina di una perfetta simmetria tra l’assetto
pubblicistico del diritto costituzionale fissato dallo Statuto del nuovo Regno e la disciplina
normativa del diritto privato, sancita dal codice; ed infine, la coscienza dell’insostituibilità di
una normativa di garanzia dell’autonomia privata e dell’autonomia negoziale contro ogni
turbativa da parte dei pubblici poteri o di altri soggetti, viepiù rafforzata col trionfo del
costituzionalismo liberale e col recupero della libertà politica a lato di quella civile, furono
altrettanti motivi che determinarono la formazione dei codici dello Stato risorgimentale.
Questi nacquero, in modo coerente con i presupposti ideologici che li avevano ispirati e
fondati e vennero così alla luce senza creare soluzioni di continuità in quella storia del diritto
che si era svolta dalla fine dell’antico regìme in poi, anche se per le particolari vicende che ne
accompagnarono la redazione e la promulgazione, parvero a taluno urtare contro aspetti di
quella tradizione, o contraddire alcune attese particolari. Questo obiettivo fu raggiunto perché
la derivazione napoleonica dei nuovi testi che attuavano l’unificazione legislativa garantì la
loro facile accettazione da parte della popolazione italiana ormai assuefatta a quella disciplina
codicistica dei rapporti giuridici introdotta al principio del secolo. Né, peraltro, i nuovi codici,
avrebbero potuto deludere le attese e contrastare le esigenze di una società civile, che, nei
modelli ai quali questi erano ispirati, aveva individuato, durante l’intero processo
risorgimentale, la via per il proprio sviluppo e per il proprio progresso .
DOMANDE SUL BRANO N. 8
22) Dalla lettura del brano emerge che l’unificazione legislativa:
a) era in linea con le proposte della Scuola Storica del diritto
b) contrastava con i valori delle tradizioni giuridiche italiane
c) si appiattiva sul più collaudato modello francese
d) rispondeva alle esigenze politiche prioritarie del processo unitario
23) Il Codice dello Stato risorgimentale, secondo l’autore del testo:
a) fu generalmente accettato dalla coscienza giuridica italiana
b) rappresentava una rottura, rispetto alla storia del diritto
c) contrastava con le istanze di rinnovamento della società civile
d) fu unanimemente avversato, perché creava soluzioni di continuità con la tradizione
giuridica, sviluppatasi dalla fine dell’antico regime
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BRANO n. 9
Art. 10 c.p.c.
Competenza del tribunale
Il tribunale è competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice.
Il tribunale è altresì esclusivamente competente per tutte le cause in materia di imposte e
tasse, per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la
querela di falso, per l’esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore
indeterminabile.
DOMANDE SUL BRANO N. 9
24) Ai sensi dell’art. 10 c.p.c.:
a) Il tribunale è competente anche delle cause che sono di competenza del giudice di
pace
b) Se di una causa non è competente il giudice di pace è competente il tribunale
c) Se la competenza di una causa è del giudice di pace il tribunale non è competente
d) Il tribunale è incompetente se la causa ha valore determinato
25) Dall’art. 10 c.p.c. si desume che:
a) Se la causa ha un valore indeterminabile non può essere individuato il giudice
competente
b) Per le cause in materia di tasse il tribunale è competente se nessun altro giudice
risulta competente
c) Se si controverte di querela di falso ci si può rivolgere al tribunale
d) Se si controverte di querela di falso il tribunale è il giudice competente
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