RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XIX NUOVA SERIE - N. 55 - MAGGIO-AGOSTO 2005 Pubblicazione quadrimestrale promossa dal Dipartimento di filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma. Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, e dello stesso Dipartimento. 2 Direttore responsabile: Giovanni Invitto Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce), Antonio Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno), Antonio Ponsetto (München), Mario Signore (Lecce). Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Maria Lucia Colì, Daniela De Leo, Lucia De Pascalis, Alessandra Lezzi, Giorgio Rizzo. Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università degli Studi - Via M. 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Pouillon HUSSERL, LE COSE, L’INTENZIONALITÀ Conversazione con Jean-Paul Sartre 25 Pierre Taminiaux SARTRE E IL NOME DEL MALE 40 Pierpaolo De Giorgi IL RITORNO DI DIONISO A proposito di un libro di P. Pellegrino 47 Delfo Cecchi DELEUZE LETTORE DI SPINOZA 70 Angela Ales Bello PSICOPATOLOGIA FILOSOFIA POESIA IN LUDWIG BINSWANGER 73 Bruno Callieri LA CATTEDRALE SOMMERSA Bianca Maria D’Ippolito legge Binswanger 76 Franca Mazzei Maisetti L’ORIZZONTE SIMBOLICO E LA PSICOANALISI DELL’ARTE SECONDO IL PENSIERO DI FRANCO FORNARI 92 Pietro Birtolo IL TERRORISMO RELIGIOSO 119 Antimo Negri L’ONTOLOGIA ELEGIACA DI MAURO FABI 3 124 Antonio Tursi E-GOVERNMENT: RETORICHE ED OPPORTUNITÀ 140 Marianna Pankiewicz IL DIRITTO AD UNA BUONA AMMINISTRAZIONE L’ATTIVITÀ DEL MEDIATORE EUROPEO 161 Recensioni 175 Libri ricevuti 4 NOTE PER GLI AUTORI I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/o Dipartimento di Filosofia e scienze sociali – Via V. M. Stampacchia 73100 Lecce. I testi debbono essere inviati in duplice copia, su carta formato A4, dattiloscritta su una sola facciata, a doppia interlinea, senza correzioni a mano. Ogni cartella non dovrà superare le duemila battute. Il testo deve essere inviato assolutamente anche su “floppy disk”, usando un qualsiasi programma che, però, dovrà essere indicato (Word, Windows, McIntosh). Il materiale ricevuto non verrà restituito. Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle comprese le note bibliografiche, per la sezione “Note” non dovranno superare le sette cartelle, per la sezione “Recensioni” e “Notizie” le tre cartelle. Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva il diritto di apportare eventuali modifiche, previa comunicazione e approvazione dell’Autore. Agli Autori saranno inviate tre copie del fascicolo in cui appare il loro lavoro. UNA VITA PER LA FILOSOFIA conversazione con Jean-Paul Sartre DOSSIER SARTRE Questa intervista era apparsa nel “Magazine Littéraire”, n. 384, février 2000, a cura di Michel Rybalka e con il titolo Une vie pour la philosophie, un entretien avec Jean-Paul Sartre. La traduzione di Lucia Angelino riporta i volumi sartriani con il titolo della edizione italiana. Tutte le note sono della traduttrice. “Segni e comprensione” ringrazia Michel Rybalka e “Magazine Littéraire” che hanno concesso i diritti per la traduzione italiana. di Michel Rybalka Intorno al 1972 Paul A. Schilpp, che dirigeva negli Stati Uniti la collezione The Library of Living Philosophers, ebbe l’idea di fare un libro su Sartre, ottenendo da questi la promessa di una breve autobiografia e riunì una trentina di testi critici che trattavano i molteplici aspetti della sua filosofia. In seguito Sartre, essendo diventato cieco, non poté mantenere la promessa, e decise allora di sostituire l’autobiografia con delle conversazioni. Queste, della durata di circa sette ore, si svolsero il 12 e il 19 maggio 1975, in compagnia di Oreste Pucciani, professore alla U.C.L.A., Susan Gruenheck, professoressa al Collège Americain di Parigi, e Michel Rybalka che aveva curato con Michel Contat gli Ecrits di Sartre e l’edizione dei suoi romanzi nella collana La Pléiade. Sartre rifiutò di accettare la partecipazione di un filosofo dell’università francese. Il testo integrale di queste conversazioni, trascritto e poi tradotto da S. Gruenheck, riveduto da Michel Rybalka, è uscito nell’ottobre 1981 nel volume: Schilpp, Paul A., ed. The Philosophy of Jean-Paul Sartre, The Library of Living Philosophers, vol. XVI. Open Court Pub.Co. Pubblicati per la prima volta in francese sul Magazine littéraire nº 182 del marzo 1982, i brani che seguono sono stati estratti dal testo francese originale, con qualche modifica secondaria, e sono stati scelti da M. Rybalka. Essi si propongono soprattutto di ripercorrere la biografia filosofica di Sartre e tralasciano gli aspetti più tecnici delle conversazioni, dal punto di vista filosofico. Sono stati raccolti e pubblicati alcuni passaggi sul marxismo, sul maoismo e sulla coscienza degli animali, inediti nella versione francese. – Michel Rybalka1. Il suo progetto iniziale era di scrivere, di fare della letteratura; come è arrivato alla filosofia? – Jean-Paul Sartre. Non mi sono appassionato alla filosofia quando seguivo le lezioni di filosofia. Avevo un professore che si chiamava Chabrier e che era soprannominato «Cucu-Filo»2; non mi ha mai trasmesso la voglia di fare filosofia. Questo desiderio non mi è venuto nemmeno durante l’hypokhâgne 3; il mio professore –che si chiamava Bernes– si esprimeva in modo particolarmente difficile e non capivo quello che diceva. 5 6 È stato durante la khâgne4 che mi sono deciso, grazie ad un altro professore, Colonna d’Istria, un uomo invalido, piccolo, molto piccolo, che era stato ferito. In khâgne si raccontava che fosse stato investito da un taxi e che la folla gli si fosse avvicinata dicendo: «Che orrore!». In realtà era così da sempre. Il primo argomento che ci ha proposto per il tema, suggerendoci di leggere Bergson è stato: «Che cosa significa durare?». Così ho letto Il saggio sui dati immediati della coscienza ed è senza dubbio questa lettura che all’improvviso mi ha dato la voglia di interessarmi alla filosofia. In quel libro ho trovato la descrizione di quello che mi pareva fosse la mia vita psichica. Ne sono stato catturato, quello è diventato per me un tema di riflessione. Mi sono detto che mi sarei dedicato alla filosofia, allora la consideravo semplicemente come una descrizione metodica degli eventi mentali dell’uomo, della sua vita psichica, tutto questo doveva costituire un metodo e uno strumento per le mie opere letterarie. Desideravo ancora scrivere romanzi e a volte desideravo scrivere saggi, ma pensavo che passare l’agrégation 5 di filosofia, diventare insegnante di filosofia, mi avrebbe aiutato a sviluppare i miei temi letterari. – R. In quel periodo, lei era già incline a vedere la filosofia come una base per l’opera letteraria. Ma non provava anche questo bisogno d’inventare una filosofia per rendere conto del suo vissuto? – Entrambe le cose. Desideravo interpretare il mio vissuto –la mia vita interiore, come la chiamavo allora– e questo doveva servire come base ad opere che avrebbero trattato non so bene di cosa, ma sicuramente temi strettamente letterari. – R. Nel 1924, quando lei entra alla Ecole Normale 6, la decisione è quindi già presa. – Proprio così: avrei fatto della filosofia una materia di insegnamento. Consideravo la filosofia come uno strumento, ma non la vedevo come un campo in cui avrei potuto creare un’opera personale. Probabilmente, pensavo, ne avrei ricavato delle verità nuove, ma queste verità non mi sarebbero servite a comunicare con gli altri. – R. Si tratta insomma di una conversione? – No, ma era qualcosa di nuovo, che mi spingeva a studiare seriamente la filosofia. Punto di partenza e fondamento di ciò che avrei scritto, la filosofia non mi sembrava qualcosa che dovesse essere scritta da se stessa e per se stessa, ne conservavo delle annotazioni eccetera. Prima di leggere Bergson, provavo interesse per quello che leggevo e scrivevo dei pensieri che mi sembravano filosofici. Avevo anche un taccuino da medico, diviso alfabeticamente, che avevo trovato in metropolitana e nel quale scrivevo questi pensieri. – R. Torniamo indietro. C’era una tradizione filosofica nella sua famiglia? – No, assolutamente. Mio nonno, che era professore di tedesco, non capiva niente di filosofia e la ridicolizzava. Per il mio patrigno, che era ingegnere uscito dal Politecnico, la filosofia non era, in un certo senso, altro che filosofia della scienza. – R. Nel prendere la sua decisione, è stato influenzato da qualche amico come Nizan? – No, anche se non saprei spiegare perché Nizan si sia dedicato alla filo- DOSSIER SARTRE sofia nello stesso periodo in cui mi ci dedicai io e sia diventato anche «agrégé»8 in filosofia qualche anno dopo di me. Lui compì questa trasformazione nello stesso momento e la filosofia giocò per lui più o meno lo stesso ruolo che svolse per me. – R. Voi non vi eravate consultati? – Sì, certamente. – P. Che cosa ad una prima lettura di Bergson ha suscitato il suo interesse per la filosofia? – Sono stati i dati immediati della coscienza a sorprendermi. Già in terza superiore9 avevo un insegnante molto bravo che mi aveva un po’ guidato verso lo studio dell’io; da allora mi sono interessato ai dati immediati della coscienza, allo studio di quello che passa per la testa, alla maniera con cui si formano le idee, al modo con cui i sentimenti appaiono, scompaiono eccetera. In Bergson ho trovato delle riflessioni sulla durata, sulla coscienza, su che cosa sia uno stato di coscienza, eccetera, e questo mi ha certamente influenzato molto. Ciononostante mi sono staccato da Bergson molto presto perché l’ho abbandonato l’anno stesso in cui frequentavo ancora la khâgne. – R. E nell’Immaginazione d’altra parte lei lo attacca abbastanza duramente, tanto che Merleau-Ponty glielo rimprovera. – Non sono mai stato bergsoniano, ma il mio primo incontro con Bergson mi ha rivelato una maniera di studiare la coscienza che mi ha convinto a fare filosofia. – R. Il suo primo lavoro filosofico importante, il diploma di studi superiori che ha presentato nel 1927, verte sull’immagine. Perché questo interesse piuttosto che un altro? – Perché, in definitiva, per me la filosofia era psicologia. Mi sono liberato di questa concezione più tardi. C’è la filosofia, e quindi non c’è la psicologia. Quest’ultima non esiste; è una chiacchiera oppure è uno sforzo per cercare di stabilire che cos’è l’uomo a partire da nozioni filosofiche. – R. Quali sono i filosofi che, dopo Bergson, l’hanno interessata? – Be’, sono i filosofi classici: Kant, molto Platone, Cartesio in modo particolare. Mi considero un filosofo cartesiano, almeno nell’Essere e il Nulla. – R. Ha studiato questi autori in modo sistematico? – In modo assolutamente sistematico, perché dovevo seguire i programmi della licence10 e quelli dell’agrégation. I filosofi a cui mi sono appassionato, Cartesio o Platone, per esempio, mi sono stati insegnati all’università della Sorbonne. In altre parole, la formazione filosofica che ho ricevuto durante quegli anni è una formazione scolastica. Del resto questo è naturale perché si finisce di studiare con l’agrégation. Una volta che si è «agregé»11, si diventa immediatamente insegnanti di filosofia e tutto finisce lì. – R. C’è stata un’influenza di Nietzsche? – Mi ricordo di aver preparato una relazione su di lui per il professor Brunschvicg al terzo anno della Ecole Normale. Mi interessava, come molti altri, ma per me non ha mai rappresentato niente di importante. – R. Questo mi sembra un po’ contraddittorio. Da un lato, si sente che lei subisce una certa attrazione perché nell’Empédocle, Une défaite identifica in 7 8 Nietzsche il personaggio del «patetico Federico». Tuttavia, nello stesso periodo, lancia delle bombe ad acqua sui nietzschiani della Scuola gridando: «Così pisciava Zarathustra!». – Credo che in tutto questo non sia contraddizione. Nell’Empédocle, ho voluto riprendere in chiave romantica la storia Nietzsche-Wagner-CosimaWagner, dandole un carattere molto più forte. Non ho voluto rappresentare la filosofia di Nietzsche, ma semplicemente la sua vita d’uomo: egli è stato innamorato di Cosima nello stesso momento in cui era amico di Wagner. Friedrich è diventato uno studente della Ecole Normale e finalmente mi ci sono identificato; avevo dei referenti anche per gli altri personaggi. Non ho mai terminato questo romanzo breve. – R. E Marx? – L’ho letto, ma in quel preciso momento non ha giocato nessun ruolo. – P. Lesse anche Hegel? – No. Lo conoscevo da alcune opere e dai corsi, ma non l’ho studiato che molto più tardi, intorno al 1945. – R. Ci stavamo proprio domandando a che data risale la sua scoperta della dialettica. – Tardi. Dopo L’Essere e il Nulla. – P. (con un’aria meravigliata). Dopo L’Essere e il Nulla? – Sì. Conoscevo il concetto di dialettica dalla Ecole Normale, ma non lo utilizzavo. C’è qualche passaggio ne L’Essere e il Nulla che richiama un po’ la dialettica, ma la maniera di procedere non era specificamente dialettica e pensavo che non ce ne fosse una. Invece, a partire dal 1945… – R. Ci sono molti critici che ritengono che lei sia stato dialettico sin dall’inizio… – È affar loro. Da parte mia non vedevo le cose in questo modo. – P. Ma c’è comunque ne L’Essere e il Nulla una dialettica dell’in-sé e del per-sé? – Sì, ma in quel senso, c’è una dialettica in tutti gli autori; si trovano ovunque delle contraddizioni che si oppongono, che si trasformano in qualcos’altro, eccetera. – R. Le si è spesso rimproverato di non dedicarsi al pensiero scientifico e all’epistemologia. Queste discipline hanno avuto un’importanza nella sua formazione? – Sì, sono stato costretto a studiarle al liceo e alla Ecole Normale (ci si occupava molto delle scienze), e successivamente sono stato costretto, per la preparazione dei miei corsi, a leggere dei testi particolari. Ma questo non mi ha mai appassionato, in una parola. – P. E Kierkegaard, quando l’ha scoperto? – Intorno al 1939-40. Prima di allora, sapevo che esisteva, ma per me non era che un nome e questo nome, non so perché, non mi piaceva. A causa delle due a, penso… Questo mi toglieva la voglia di leggerlo. Per continuare questa biografia filosofica, vorrei dire che quello che è stato molto importante per me, è stato il realismo, vale a dire l’idea che il mondo quale io lo vedo esiste e che gli oggetti che percepisco sono reali. Questo realismo non aveva trovato un’espressione valida perché, per essere realista, era necessario avere allo DOSSIER SARTRE stesso tempo un’idea del mondo e un’idea della coscienza –ed era precisamente quello il mio problema. Ho creduto di trovare una soluzione, o qualcosa come una soluzione, in Husserl, o piuttosto in un piccolo libro uscito in francese sulle idee di Husserl. – R. Il libro di Lévinas? – Sì, ho letto Lévinas un anno prima di andare a Berlino. Nello stesso periodo, Raymond Aron, che ritornava dalla Germania, mi diceva che secondo lui era una filosofia realista. Non era affatto così, ma ero assolutamente desideroso di conoscere quella filosofia e nel 1933 sono partito per la Germania. Là ho letto le Idee nella versione originale e ho davvero scoperto la fenomenologia. – R. Taluni distinguono un Sartre fenomenologo e un Sartre esistenzialista. Le sembra che questa distinzione sia fondata? – No, non vedo la differenza. Husserl faceva dell’«io», dell’«ego» un dato interno alla coscienza, invece, già nel 1934, ho scritto un articolo, La Trascendenza dell’ego, nel quale ritengo che l’ego sia una specie di quasi-oggetto della coscienza e che, di conseguenza, esso si trovi escluso dalla coscienza. Ho mantenuto questo punto di vista fino a L’Essere e il Nulla, e lo manterrei ancora oggi, ma non è più il tema delle mie riflessioni, in questo preciso momento. – P. Questa questione dell’ego costituisce una difficoltà per molti dei suoi critici. – Sono critici che si limitano alla tradizione. Perché l’ego apparterebbe al mondo interiore? Se è un oggetto della coscienza, allora esiste all’esterno; se esiste nella coscienza, questa cessa di essere straordinariamente lucida, di essere coscienza di se stessa, per ripiegarsi su un oggetto all’interno di se stessa. La coscienza è all’esterno, non c’è interno della coscienza. – P. La difficoltà dipende dal fatto che non è una cosa… – No, ma nemmeno lei lo è, lei non è una cosa e nello stesso tempo è anche un oggetto della mia coscienza. La soggettività non è nella coscienza, essa è la coscienza; è attraverso questa via che si può trovare un senso della coscienza che corrisponda nel soggetto ad una oggettività. L’ego è un oggetto vicino alla soggettività, ma non è interno alla soggettività. Non può esserci niente nella soggettività. – P. Simone de Beauvoir scrive che questa rimane una delle sue convinzioni più solide. È una convinzione o un fatto? – Ritengo che sia un fatto. In un pensiero non riflessivo, non incontro mai l’ego, il mio, incontro quello degli altri. La coscienza non riflessiva è completamente alleggerita dell’ego che appare soltanto in una coscienza riflessiva, o meglio in una coscienza riflessa, perché la coscienza riflessa è già un quasioggetto per la coscienza riflessiva. Alle spalle della coscienza riflessa, come una specie di identità comune a tutti gli stati che sono subentrati a una coscienza riflessa, c’è un oggetto che si chiamerà ego. – R. Nei suoi primi scritti filosofici, quando scriveva, per esempio, L’Immaginazione o Immagine e coscienza, aveva delle ambizioni di stile? – Non ho mai avuto ambizioni di stile per la filosofia. Mai. Ho tentato di scrivere chiaramente e nient’altro. Mi si è detto che c’erano passaggi ben scritti. È 9 10 possibile; quando ci si sforza di scrivere chiaramente, tutto sommato si scrive bene, in un certo qual modo. Non sono nemmeno orgoglioso di quei passaggi, se ce ne sono. Ho voluto scrivere in un francese il più semplice possibile; non l’ho sempre fatto, per esempio, ne La Critica della ragione dialettica (in cui questo è dovuto alle compresse di corydrane12 che ingerivo). – R. Quale sarebbe la sua definizione di stile? – Ho già parlato di stile altrove, nelle interviste. Lo stile è in primo luogo l’economia: si tratta di costruire delle frasi in cui coesistano molteplici significati e in cui le parole siano prese come allusioni, come oggetti piuttosto che come concetti. In filosofia una parola deve esprimere un concetto, e solo quello. Lo stile è un certo rapporto tra le parole, e rinvia a un senso che non si può ottenere per semplice addizione di parole. – R. Ci si pone spesso la questione di sapere se nel suo pensiero ci sia continuità o rottura. – C’è un’evoluzione, ma non penso che ci sia stata rottura. Il grande cambiamento nel mio pensiero è la guerra: 1939-40, l’occupazione, la resistenza, la liberazione di Parigi. Tutto questo mi ha fatto passare da un pensiero filosofico in senso classico a dei pensieri in cui la filosofia e l’azione, o il teorico e il pratico sono legati: il pensiero di Marx, quello di Kierkegaard, quello di Nietzsche, quello dei filosofi a partire dai quali si potrebbe comprendere il pensiero del XX secolo. – P. E Freud in quale momento è intervenuto? – L’ho conosciuto dopo il mio corso di filosofia. Poi ho letto qualche suo libro: ricordo di aver letto Psicopatologia della vita quotidiana al primo anno della Ecole Normale, poi finalmente L’Interpretazione dei sogni prima di finire l’Ecole. Ma mi urtava perché gli esempi che fa nella Psicopatologia della vita quotidiana sono troppo distanti da un pensiero razionale e cartesiano. Ho parlato di questo in un’intervista che ho rilasciato alla New Left Review. Poi durante i miei anni d’insegnamento ho approfondito la dottrina di Freud, sempre mantenendomi separato dalla sua idea dell’inconscio. Intorno al 1958, sono stato interpellato da John Huston che voleva fare un film su Freud; cadeva male perché non si sceglie qualcuno che non crede all’inconscio per fare un film in onore di Freud13. – R. Cumming dice che lei ha la tendenza ad esagerare la discontinuità del suo pensiero: annuncia ogni cinque o dieci anni che ha cambiato, che non farà più quello che ha fatto. Se si prende l’esempio che lei faceva un momento fa –quello del piccolo diario che teneva quand’era studente e che diventa ne La Nausea il diario dell’Autodidatta– è evidente che lei pensa contro se stesso. – Ma non è così: pensavo contro di me nello stesso momento e il pensiero che ne risultava era un pensiero contro il primo, contro quello che avevo pensato spontaneamente. Non ho mai detto che cambiavo idea ogni cinque anni. Al contrario, penso di avere seguito uno sviluppo continuo a partire da La Nausea e fino alla Critica della ragione dialettica. La mia grande scoperta, è il sociale durante la guerra, perché essere soldato al fronte è veramente essere vittima di una società DOSSIER SARTRE che ti tiene là dove non vuoi stare e che ti impone delle leggi che tu non condividi. Ne La Nausea non c’è il sociale, ma lo si intravede. – R. E sotto questo aspetto, L’Essere e il Nulla, ha rappresentato per lei la fine di un’epoca? – Certamente. Ne L’Essere e il Nulla la cosa più brutta sono i capitoli propriamente sociali, su il «noi», a differenza dei capitoli sul «tu» e gli altri. – R. Maurice Natanson si chiede, per l’appunto, qual è per lei la relazione tra l’ontologia e la sociologia. – Questa relazione non è in L’Essere e il Nulla, infatti, si trova nella Critica della ragione dialettica… – R. A questo proposito, lei considera la nozione di penuria [rareté] come ontologica? – No. Non è nemmeno antropologica; se preferisce, appare dal momento in cui c’è una vita animale. – R. Natanson pone la domanda: «Il per-sé ha un plurale o un genere?» – No, evidentemente. Esiste solo il per-sé, il vostro, il mio, ma questo non costituisce dei per-sé. – P. La forza del suo sistema, è di essere fondato su un’ontologia. Come è arrivato a questa nozione di ontologia? – Volevo che il mio pensiero avesse un senso in rapporto all’essere. Penso che l’idea di ontologia fosse nella mia testa a causa della mia formazione filosofica, delle lezioni che avevo seguito. La filosofia si interroga sull’essere o sugli esseri… Ogni pensiero che non arriva a interrogarsi sull’essere non è un pensiero valido. – P. Sono assolutamente d’accordo, ma vorrei ricordarle che un certo pensiero scientifico (i filosofi del circolo di Vienna per esempio) rifiuta totalmente, come una specie di fantasticheria, ogni nozione dell’essere. – Lo so, ma io penso proprio che, quando si parte da questo, si fa noi stessi della filosofia. In altri termini, non credo che il pensiero dei filosofi di Vienna (e quello delle persone a loro vicine) sia un pensiero valido e che abbia dato sucessivamente dei risultati validi. Bisogna partire dall’essere o ritornarvi, come fa Heidegger. Bisogna ad ogni modo che l’essere sia in questione; questo conduce a dei pensieri più precisi sui problemi della filosofia attuale. – R. Come domanda Natanson, si deve assumere un punto di vista retrospettivo e si può discutere oggi de L’Essere e il Nulla senza entrare in una dialettica? – Questo pone un problema difficile, quello di sapere come fare per interpretare un filosofo morto, che ha avuto tante filosofie. Come si può parlare, poniamo, di Schelling, che importanza dare alla sua prima filosofia e come comprenderla in rapporto alla successiva? Saper esattamente quali sono le fonti di una prima filosofia, proprio in quanto originaria e quali le fonti della seconda, sapere in che misura la prima interviene nella seconda, è una questione molto difficile alla quale non ho ancora risposto, non completamente. – P. Ma senza l’ontologia fondamentale, mi chiedo se avrebbe potuto porre il problema sociale come lo ha posto nella Critica. – Penso che non avrei potuto. È davvero in questo mi distinguo da un mar- 11 12 xista; quello che precisamente rappresenta per me una superiorità sui marxisti, è il fatto di porre la questione di classe, la questione sociale, a partire dall’essere che esce dai confini della classe, perché questo riguarda sia gli animali, sia gli oggetti inanimati. È a partire da questo che si possono iniziare a porre i problemi di classe, di questo sono certo. – R. Ci si chiede spesso qual è il posto dell’estetica nella sua filosofia. Ha un’estetica, una filosofia delle arti? – Se ne ho una (e ce l’ho a malapena), è completamente in quello che ho scritto e la si può trovare là. Non ho creduto che valesse la pena di creare un’estetica come Hegel ne ha creata una. – G. Ha pensato di fare una filosofia del linguaggio? – No. Il linguaggio deve essere studiato all’interno di una filosofia, ma non può essere la base di una filosofia. Penso che dalla mia filosofia si possa ricavare una filosofia del linguaggio, ma non c’è una filosofia del linguaggio che le si possa imporre. – G. Per ritornare al problema letteratura/filosofia, considera ancora la letteratura come una maniera di comunicare? – Sì, non vedo proprio cos’altro potrebbe essere. Non si scrive mai, o meglio non si pubblica mai qualcosa che non sia destinato agli altri. – R. Pensa che il filosofo, simile in questo allo scrittore, abbia un’esperienza particolare da trasmettere? – No. Anzi, forse. La sua funzione è di mostrare un metodo, un modo di concepire il mondo a partire dall’ontologico. – G. Cumming cerca di dimostrare che questo metodo è sempre stato per lei una dialettica. – In un primo tempo sono stato non-dialettico e solo intorno al 1945 ho cominciato a occuparmi veramente del problema. Mi sono inoltrato nella dialettica a partire da Sant Genet e penso che la Critica sia davvero un’opera dialettica. Adesso, ci si può divertire a dimostrare che prima ero dialettico senza saperlo; si può dimostrare allo stesso modo che Bergson era bergsoniano anche a sei anni, quando mangiava pane e marmellata. – G. Crede che esistano delle sintesi? – Sì, delle sintesi parziali, in ogni caso; l’ho dimostrato nella Critica della ragione dialettica. – G. Suppongo che rifiuti una sintesi assoluta, o mi sbaglio? – Sì, assoluta. Ma una sintesi dell’epoca, per esempio, no. La nostra epoca è di per se stessa la propria sintesi, e lo spiegherò nel secondo volume della Critica. È certo che bisogna superare il tipo di sintesi di cui dispongo nel primo volume per arrivare a delle sintesi riguardanti noi stessi e gli altri. Ognuno di noi può, in ogni momento, fare delle sintesi. Per esempio, posso fare la sintesi di voi tre e in un certo modo, immedesimarmi in questa situazione, e voi, potete fare la stessa cosa. Ma queste sintesi non sono a livello di una sintesi globale, e non esiste nessuno che la possa fare. Se si era in sei, si potrebbe ricominciare, ma se si era mille, questo non avrebbe più molto senso. Bisogna quindi cercare un altro modo di concepire quelle sintesi. – P. Eppure, ne L’Essere e il Nulla, lei dice che la coscienza è sintesi. DOSSIER SARTRE – Sì, è vero. Ma è la coscienza di ciascuno che costituisce la sintesi di quello che vedo. Io sono sintesi in rapporto a tutto quello che vedo, in rapporto a voi tre, ma a voi tre che siete in rapporto con me. Ma non sono sintesi di quello che accade per la strada e che non vedo. (In quell’istante, un rumore di sirene nella strada). Dato che credo solo a delle coscienze individuali e non ad una coscienza collettiva, mi è impossibile dare dunque una coscienza collettiva come sintesi storica. – R. Ha definito la Critica della ragione dialettica un’opera contro i comunisti e che si considera marxista. – Contro i comunisti, certamente. Ma marxista è una parola che in quel momento usavo con un po’ di leggerezza. All’epoca, consideravo la Critica un’opera marxista, ne ero convinto. Ma su questo punto mi sono ricreduto: oggi penso che la Critica si avvicini al marxismo sotto alcuni punti di vista, ma non è un’opera marxista. – R. Nelle Questioni di metodo, sottolinea una differenza tra l’ideologia e la filosofia, ed è una differenza che imbarazza i critici. – È perché pretendono di essere tutti filosofi! Mantengo la differenza ma il problema è molto complicato. L’ideologia non è una filosofia costituita, meditata e riflessiva, è un’insieme di idee che sta alla base di atti alienati e che li riflette, che non è mai completamente espressa e formulata, ma che appare nelle idee correnti di una data epoca o di una data società. Le ideologie rappresentano dei poteri e agiscono. Le filosofie si costituiscono contro le ideologie, anche se in una certa misura le riflettono, proprio nel criticarle e nel superarle. Notiamo che attualmente l’ideologia esiste tra coloro che dichiarano che bisogna mettere fine alle ideologie. – P. Anch’io ho provato imbarazzo davanti a questa differenza: consideravo l’esistenzialismo della Critica come un tentativo di sintesi del marxismo e come un superamento, invece lei direbbe che l’esistenzialismo non era che un ‘enclave’, del marxismo. – Sì, ma era questo l’errore. L’esistenzialismo non può essere un ‘enclave’ a causa della mia idea della libertà ed è quindi in definitiva una filosofia a parte. Non penso affatto che questa filosofia sia marxista. Non può ignorare il marxismo, è legata a questo come certe filosofie sono legate ad altre senza tuttavia entrarvi, ma adesso non la considero affatto come una filosofia marxista. – R. Allora quali sono gli elementi del marxismo che lei accetta? – La nozione di plus-valore, la nozione di classe, tutto rielaborato, del resto, perché la classe operaia non è mai stata definita da Marx e dai marxisti. Bisognerà rivedere queste nozioni, ma per me restano valide in ogni caso come elementi di ricerca. – R. E oggi non si riconoscerebbe più come marxista? – No. Penso del resto che assistiamo alla fine del marxismo e che, nei prossimi cent’anni, il marxismo non avrà più la forma che si conosce… – R. Il marxismo teorico o il marxismo come è stato applicato? – Il marxismo come è stato applicato, ma è stato applicato anche come marxismo teorico. Dopo Marx, il marxismo ha vissuto una certa vita e, nello stesso tempo, è invecchiato. Ora noi siamo nel periodo in cui l’invecchiamen- 13 14 to va verso la morte. Il che non significa che le nozioni principali del marxismo scompariranno; al contrario, saranno riprese… Ma per conservare il marxismo oggi ci sono troppe difficoltà. – R. E quali sono queste difficoltà? – In sintesi, dirò semplicemente che l’analisi del capitalismo nazionale e internazionale nel 1848 non ha nulla a che fare con il capitalismo contemporaneo. Non si può spiegare una società multinazionale nei termini marxisti del 1848. Bisogna introdurre una nozione nuova che Marx non ha previsto e che, quindi, non è marxista nel senso puro del termine. – P. La Critica è quindi già un superamento del marxismo? – In ogni caso, non è sul piano in cui si è situata, quello di una semplice interpretazione del marxismo, con qualche modificazione a destra e a sinistra. Non è contro il marxismo, è veramente non-marxista. – P. È stato superato dall’idea di serialità, di pratico-inerte, grazie a delle idee nuove che non avevamo mai sfruttato. – Ci sono delle nozioni che mi sembravano venute dal marxismo, ma che sono differenti. – R. E con chi si sente in sintonia in questa contestazione del marxismo? – Con quelli che si chiamano maoisti, i militanti della sinistra proletaria con i quali ho guidato La Cause du peuple . Inizialmente erano marxisti, ma hanno fatto come me: non lo sono più, o lo sono molto meno. Pierre Victor14, per esempio, con il quale lavoro nelle trasmissioni televisive, non è più marxista o, almeno, vede la fine del marxismo. – R. Alcuni critici cercano di vedere in lei un filosofo maoista. – È assurdo, io non sono maoista; del resto, questo non significa nulla. Si parlava un po’ di Mao quando scrivevo L’Essere e il Nulla. Per alcuni gruppi, questo aveva un senso, molto vago: si immaginavano forme di vita socialista come quelle che avevano visto o creduto di vedere in Cina e le volevano applicare qui. Questi gruppi sono stati maoisti quando la testa di Mao non compariva su La Cause du peuple ; hanno smesso di esserlo quando la testa di Mao ha fatto la sua apparizione. – R. Mi è sempre sembrato che nei maoisti francesi ci fosse un 10% di maoismo e un 90% d’altro genere, non molto facile da definire. – Difficile da definire, ma interessante. È quello che noi abbiamo cercato di fare in On a raison de se révolter. – R. E cosa diventerà questa filosofia della libertà che sta per nascere oggi? – È una filosofia che sarebbe sullo stesso piano, mescolando la teoria e la pratica, del marxismo, una filosofia in cui la teoria serve alla pratica, ma che assumerà come punto di partenza la libertà che mi sembra manchi al pensiero marxista. – R. In alcune conversazioni recenti, utilizza il termine socialismo «libertario». – È un termine anarchico e lo conservo, perché mi piace ricordare le origini un po’ anarchiche del mio pensiero. Sono sempre stato d’accordo con gli anarchici che sono i soli ad aver concepito un uomo completo, da costituire per mezzo dell’azione sociale, e la cui caratteristica principale è la libertà. Detto ciò, evidentemente, in politica, gli anarchici sono un po’ semplici. DOSSIER SARTRE – R. Forse anche sul piano della teoria? – Sì, a condizione che non si consideri solo la teoria e che non si lascino da parte intenzionalmente intuizioni che sono molto buone, e cioè quelle riguardanti la libertà e l’uomo completo. Queste intuizioni qualche volta si sono realizzate: gli anarchici hanno vissuto insieme, hanno formato delle società comunitarie, per esempio in Corsica intorno al 1910. – R. Se oggi dovesse scegliere tra due etichette, quella di marxista e quella di esistenzialista, quale preferirebbe? – Quella di esistenzialista. Gliel’ho appena spiegato. – R. Non preferirebbe un altro termine che esprima meglio la sua posizione? – No, perché non l’ho mai cercato. Mi hanno chiamato esistenzialista, ho accettato la definizione, ma non sono stato io a darla. – R. Robert Champigny, che ha dedicato un libro intero a questo tema, la accusa di razzismo umano, di antropomania. Quello che lo infastidisce nella sua frase famosa di I Comunisti e la pace, «Un anti-comunista è un cane», non è l’espressione di un’idea politica… – …È il cane? – R. È il cane. (Risate) – Veramente, non credo che se ne possa concludere che ce l’ho con i cani. È una formula molto banale che ho usato in quel momento. […] So bene che gli animali hanno una coscienza, perché non comprendo il loro comportamento se non ammettendo una coscienza. Di che tipo è la loro coscienza, che cos’è una coscienza non dotata di linguaggio? Non saprei. Forse arriveremo a decifrarlo più avanti, ma dovremmo sapere molto di più sulla coscienza. – P. I miei studenti mi chiedono continuamente: dove sono gli animali ne L’Essere e il Nulla? – Non ci sono. Perché ritengo che quello che si dice degli animali nella psicologia animale è in generale stupido, in ogni caso completamente slegato dalle nostre esperienze coscienti. La psicologia animale è da rifare. Ma è difficile dire su quali basi. – P. Attualmente negli Stati Uniti si fanno delle ricerche molto interessanti con delle scimmie alle quali si insegna a battere a macchina; esse possono pensare secondo simboli, ma non possono passare alla parola. – R. C’è una coscienza vegetale? – Non ne so assolutamente nulla. Non penso che vita e coscienza siano sinonimi. No, per me, la coscienza, è là dove la si nota, ed esistono degli animali che non ce l’hanno, i protozoi, per esempio. La coscienza appare nel mondo animale a un dato momento, negli uomini, sicuramente anche nelle scimmie. Ma come appare e che cos’è? – R. Pierre Verstrueten è rimasto colpito dallo statuto che lei ha dato nel III volume di «Flaubert» alla nevrosi storica del XIX secolo. Per lui, è una scoperta e si chiede a ragione quale sia lo statuto di questa potenza inventiva. In quale momento si produce questa scoperta? Quando, per esempio, ha scoperto l’idea di programmazione o quella di nevrosi storica? – Non lo so. Emerge nel corso delle mie riflessioni, ma non posso dire in che momento appare. Un’idea viene in questo modo: inizialmente si ha un’idea 15 16 vaga completamente non-affermata, e in seguito si cerca di determinarla, di creare delle funzioni; in quel momento si arriva ad una coscienza che non è più la pura coscienza-sentimento che c’era all’inizio. Dapprima si ha qualcosa che non chiamo conoscenza ma intuizione, e la conoscenza in un certo senso è radicalmente differente da ciò che è dato da questa prima intuizione. Questa determina delle cose che non erano determinate, ne sviluppa delle altre, ne sfuma altre che erano più evidenti inizialmente. Conserva un certo legame con la prima intuizione, ma è un’altra cosa e differente. – R. Per gli americani, lei è spesso il filosofo dell’anti-natura. – Sono un filosofo anti-natura, ma su alcuni piani solamente. So che all’inizio c’è stata una natura che indirettamente ha influenzato l’uomo. È certo che gli uomini primitivi intrattenevano dei rapporti reali con la natura, come gli orango o le formiche. Questo rapporto, in questo momento, esiste ancora, ma è superato da altri rapporti che non sono più rapporti materiali, o almeno rapporti in cui la natura non gioca più lo stesso ruolo. – R. La penuria, questa nozione che lei sviluppa nella Critica, è legata al desiderio o al bisogno? – Talvolta al bisogno, talvolta al desiderio. Data una causa qualsiasi che fa sì che si abbia bisogno di una certa sostanza o di un certo oggetto, questo oggetto non è dato nella proporzione in cui se ne ha bisogno; questa è la penuria. – R. Così, la penuria non ha tendenza a diventare una categoria ontologica piuttosto che storica? Oscar Wilde diceva, per esempio: “Dove c’è domanda, non c’è offerta”. – Non è una nozione ontologica, ma non è nemmeno una nozione semplicemente umana o una constatazione empirica. Tende verso l’ontologia, ma non è ontologica, perché gli uomini che noi prendiamo in considerazione nel mondo non sono da studiare solo secondo una prospettiva ontologica o su un piano di idee astratte particolari, come fanno le filosofie o le ontologie particolari. Bisogna studiarli empiricamente, come sono. E su questo piano, si constata che un uomo è circondato di penuria, che si tratti del gioco che il bambino non ha a sua disposizione quando lo vorrebbe o dei prodotti alimentari che un gruppo umano reclama e di cui non ha a disposizione che una sola parte. Ad ogni modo, c’è una differenza tra la domanda e l’offerta, che deriva dalla maniera in cui è fatto l’uomo, che deriva da quello che l’uomo domanda ancora quando l’offerta è limitata. – R. Oggi si vede chiaramente che l’idea di abbondanza che si è potuta avere negli Stati Uniti è una mistificazione. – Certamente. Completamente. Viviamo in un mondo di penuria e di quando in quando possiamo immaginarci di trovare l’abbondanza cambiando il nostro desiderio di natura. Non avendo quel che ci occorre in un campo, trasferiamo il desiderio in un altro campo. Ma è ugualmente la penuria che è all’origine di questa concezione. – P. Ciononostante ho sempre inteso la penuria nella Critica della dialettica come il risultato di una oppressione sociale. – Può essere, è sempre un fatto di oppressione sociale. Ma ci sono delle penuria che provengono semplicemente dal rapporto di domanda dell’uomo DOSSIER SARTRE –una domanda libera, per niente assoggettata a un’altra– con la quantità offerta. – P. Ma se c’è una mancanza oggettiva, è anche una penuria? – Certamente. In origine, la penuria era proprio questo. Il desiderio, la volontà, la necessità di utilizzare il tale oggetto come mezzo per creare una domanda che può essere qualche volta illimitata, mentre l’oggetto domandato è disponibile su un territorio o sul globo in quantità limitata. Quindi, per me, la penuria è un fenomeno di esistenza, un fenomeno umano, e naturalmente, la più grande penuria è sempre quella fondata sull’oppressione sociale. Ma all’origine c’è la penuria; noi creiamo circondati da un campo di penuria. – P. Per passare a un altro problema, il professor Frondizi ritiene che la sua riflessione morale sia stata soprattutto negativa e che si finisca per cadere in una morale dell’indifferenza. – Non ho mai avuto una morale dell’indifferenza. Quello che rende le morali difficili, non è questo, sono i problemi concreti e politici, per esempio, che bisogna risolvere. Come ho già sottolineato in Sant Genet, penso che attualmente non siamo in un tale stato, la società e le conoscenze non sono tali da permetterci di ricostruire una morale che abbia lo stesso tipo di valore di quella che abbiamo superato. Non si può, per esempio, fare una morale su un piano kantiano che abbia lo stesso valore della morale kantiana. Perché le categorie morali dipendono fondamentalmente dalle strutture della società nella quale noi viviamo e dal fatto che queste strutture non sono né abbastanza semplici, né abbastanza complesse perché noi possiamo creare dei concetti morali. Siamo in un periodo senza morale o, se si vuole, ci sono delle morali, ma queste sono superate o molto particolari. – R. La morale è impossibile? – Sì. Non lo è sempre stata, ma lo è oggi. Non lo sarà sempre, lo è attualmente. Detto questo, penso che all’uomo sia necessaria una morale. – P. C’è compatibilità tra la sua filosofia e quella di Merleau-Ponty, in particolare quando sviluppa la nozione d’«intramondo»? – Credo che ci sia un’incompatibilità fondamentale, perché dietro alle analisi di Merleau-Ponty c’è sempre il riferimento a un tipo di essere per il quale evoca Heidegger e che non è assolutamente qualcosa che io consideri valido. Tutta l’ontologia che si sviluppa dalla filosofia di Merleau-Ponty è distinta dalla mia: si tratta piuttosto di continuismo. Io non sono tanto un continuista: l’in-sé, il per-sé e le forme intermedie di cui si parlava poco fa, questo mi basta. In Merleau-Ponty c’è un rapporto con l’essere che è molto differente, un rapporto nel fondo di se stesso. Ho parlato di questo in Merleau-Ponty vivant. – R. L’esempio di oggi lo conferma, credo che in generale lei impari molto poco dagli altri sulla sua opera. – Fino ad ora molto poco. Mi hanno sempre detto, quando avevo diciassette o diciotto anni, che si impara molto dai critici. Quindi sono cresciuto con delle buone idee su questo, delle idee disciplinate, sagge. Leggevo i critici e pensavo: «Che cosa mi insegnano?», ma non mi insegnavano nulla. – R. Non c’è un confronto con altri pensieri che la spinge a rivedere certe sue idee? 17 18 – Non mi sono mai sentito spinto a rivedere le mie idee. Forse sono un filosofo ostinato! Ho letto, ho visto effettivamente che c’erano delle cose da dire, e poi ho continuato a fare quello che facevo. – R. Il suo pensiero si sviluppa così su un piano relativamente autonomo? – In rapporto al pensiero dei critici scrittori, sì. Se degli amici mi fanno notare qualche cosa, questo sì che può essere più importante. Tra i critici, i migliori che abbia incontrato sono quelli che dicevano quello che avevo voluto dire. – R. La irrita vedere spesso il suo pensiero semplificato? – No. Lo scrivono, tutto qui. – R. Lei stesso ha detto che servirebbero dei mediatori per il «Flaubert». Come prevede una critica possibile della sua opera? – Per cominciare bisognerebbe leggerla. Molti commentatori si fermano a metà strada. – R. Leggere l’insieme? – Be’, insomma, sì. Non lo chiedo al lettore in generale, ma ai critici specializzati: che si prendano il tempo. Bisogna poi esporre l’opera, vedere se un punto di vista si prolunga per tutta la vita o cambia a metà, cercare di spiegare gli sviluppi, le rotture, tentare di ritrovare la mia scelta originale, che è la cosa più difficile: che cosa ho deciso di essere scrivendo la tal opera, perché ho deciso di scrivere? – R. Il critico rischia di non immedesimarsi in lei tanto quanto lei vorrebbe e, così, di non renderle totalmente giustizia. – Nonostante tutto, che faccia un po’ quello che faccio io su Flaubert; non pretendo di avergli reso giustizia, completamente, ma spero di aver trovato certe direzioni, certi temi. – R. Le farebbe piacere quindi che si facesse su di lei un lavoro come quello che ha fatto su Flaubert? – Sì, proprio così. Il senso della critica mi sembra proprio questo. Ecco dei libri, un uomo li ha scritti. Che cosa significa? Chi è quest’uomo, che cosa sono questi libri? Il punto di vista estetico mi sembra talmente variabile che è proprio questo aspetto che trovo interessante. – R. Attribuisce una grande importanza alla documentazione? – Sì. Lo posso dire, perché so quello che c’è voluto per Flaubert. – P. Ciononostante, non c’è molta documentazione su di lei. Se si confronta quello che ha messo ne Le Parole con quello che si conosce dell’infanzia di Flaubert, c’è una grande differenza. – Questo è dovuto anche al periodo attuale. Oggi si danno molti meno dettagli sulle persone, si sa molto meno su di loro che nel secolo scorso, proprio perché i problemi della sessualità, i problemi della vita, diventano individuali e scompaiono. Per esempio, quello che si sa di Solženicyn, sono cose che in fondo riguardano tutta la Russia. Si sa che è stato esiliato in un campo; subito si riflette sui campi, ci si ricorda che cosa significa questo, eccetera. Ma quanto a sapere se amava il caffè, e quale fosse la sua sessualità, mistero. Si potranno forse individuare certi elementi a partire dai suoi libri, ma bisognerebbe che qualcuno lo facesse. Tutto questo non è nascosto, in effetti. Penso che il mio amore per il caffè e la mia sessualità siano nei miei libri. Non c’è da fare altro che ritrovarli e que- (traduzione dal francese di Lucia Angelino) DOSSIER SARTRE sto è compito dei critici. Detto altrimenti, questi dovrebbero, a partire dai libri, e nient’altro che secondo i libri, aggiungendo la corrispondenza, capire la persona che li ha scritti, ricostruire le correnti, vedere a quali dottrine si collega… – R. Nel suo caso c’è molta corrispondenza? – No, o molto poca. – Quello che vuole quindi, è una biografia? – Sì, una specie di biografia che si può fare soltanto con dei documenti. Una biografia letteraria, vale a dire l’uomo con i suoi gusti, i suoi principi, la sua estetica letteraria… e ritrovare tutto questo in lui, a partire dai suoi libri e in lui. Ecco, mi sembra che sia questo il lavoro che deve fare la critica. – R. Stranamente, nessuno degli articoli che abbiamo davanti ci parla dell’insegnamento della filosofia, della maniera in cui potremmo insegnare il suo pensiero. Come insegnava la filosofia? – Tenevo un corso professorale, un corso ex cathedra, come si dice, ma mi interrompevo in continuazione per fare delle domande o per rispondere alle domande che mi venivano poste. Penso che l’insegnamento non consista nel far parlare un signore davanti a delle persone giovani, ma nel discutere con loro a partire da problemi concreti. Se dicessero: «Quel tipo è un idiota. Dice questo, ma io da parte mia ho vissuto un’altra cosa», bisognerebbe spiegargli che si può pensare la cosa diversamente. – R. Riusciva a stabilire un inizio di reciprocità, perché non si ha mai una reciprocità completa? – Era una reciprocità molto forte. Bisogna dire che facevo anche altre cose con i miei allievi, anche della boxe, e questo, questo aiuta. Passavo anche molto tempo a estirpare le idee che avevano nella testa. – R. Questo modo di insegnare non è stato considerato un po’ scandaloso, all’epoca? – Sì. Ho scatenato le reazioni dei colleghi, di un censore, di tutte le persone di quel tipo. Inoltre, permettevo ai miei allievi di fumare in classe, cosa che era considerata molto male. – R. Come vedrebbe l’insegnamento della filosofia oggi? – Come sapete, nel progetto di riforma che deve essere votato, la filosofia è eliminata dall’insegnamento secondario. – R. Lei sa che negli Stati Uniti non si insegna la filosofia nelle scuole superiori, ma soltanto all’università. – Ma, a mio modo di vedere, bisognerebbe fare il contrario. Penso, come ha proposto qualcuno, che la filosofia potrebbe essere insegnata fin dalla terza superiore, un po’, per permettere di capire gli autori insegnati; tre ore alla settimana, per esempio. Per me, la filosofia è tutto. È come si vive. Si vive in modo filosofico. Io vivo da filosofo; questo non significa che vivo da buon filosofo, ma le mie percezioni sono percezioni filosofiche, anche quando guardo questa lampada o quando guardo voi. Di conseguenza, è un modo di vivere e ritengo che lo si dovrebbe insegnare il più presto possibile, senza paroloni. 19 20 1 Nel seguito della conversazione, G. indica Gruenheck (Susan), P. Pucciani (Oreste), R. Rybalka (Michel). 2 Questa parola, si compone di due termini, «Cucu», che vuol dire «stupido, sciocco» e «Filo» che è vuol dire, in forma abbreviata, filosofo. 3 Questo termine dell’argot scolastico designa il primo anno del corso preparatorio alla Ecole Normale Supérieure. 4 Con questo termine gli studenti chiamano scherzosamente gli anni di preparazione al concorso d’ammissione alla Ecole Normale. A Parigi funzionano quattro khâgnes: le due più importanti sono collocate l’una presso il Liceo Louis-le-Grand, l’altra presso il Liceo Henry IV, le altre due, di minore importanza, si trovano presso il liceo Condorcet sulla riva destra della Senna, e presso il Liceo Lakanal a Sceaux, in periferia. 5 L’agrégation è un esame di concorso per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Una volta superato, esso dà il diritto e la possibilità d’insegnare nelle scuole medie e superiori. 6 La Ecole Normale Supérieure è una prestigiosa istituzione, creata il 9 brumaio dell’anno III (30 ottobre 1794) dalla Convenzione, per iniziativa del Comitato di salute pubblica, e sistemata, a partire dal 1847, nei locali appositamente costruiti nella rue d’Ulm a Parigi. Da questa «grande scuola» (o università a numero chiuso) è uscita la maggiore e la migliore parte della élite intellettuale e del personale politico francesi. Per ulteriori approfondimenti e precisazioni sulla storia di questa istituzione, rinviamo al libro celebrativo del 150º anniversario, realizzato da Alain Peyrefitte, raccogliendo testimonianze e scritti dei più famosi «normalisti», introdotto da Georges Pompidou: Rue d’Ulm. Chronique de la vie normalienne, Flammarion, Parigi, 1963. 7 “Ho parlato per la prima volta della contingenza in un quaderno raccolto in una metropolitana. Era un quaderno nuovo con su scritto ‘Supposte Midy’, era evidentemente un carnet distribuito ai medici, fatto come una rubrica con A-B-C-D ecc.”; J.-P. SARTRE, La mia autobiografia in un film. Una confessione, ed. it. a c. di G. Invitto, Marinotti, Milano 2004, p. 44. 8 L’agregé è un professore di ruolo nelle scuole medie inferiori e superiori o un docente ordinario in alcune facoltà universitarie. 9 Nell’ordinamento scolastico francese la classe de première corrisponde alla terza superiore, o terzo anno di liceo. 10 La licence è il diploma universitario che si consegue dopo tre anni di studi. 11 È questo il titolo che si attribuisce a chi ha conseguito l’agrégation. 12 Si tratta di una droga, ottenuta mescolando anfetamina e aspirina. 13 Sulla sceneggiatura freudiana di Sartre, mai diventata film, vedi Sartre, il cinema, la psicoanalisi, in G. INVITTO, L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema, Mimesis, Milano 2005, pp. 49-78. 14 Alain Geismar, leader dell’opposizione proletaria al potere politico, propose a Sartre nel 1973 Pierre Victor, giovane maoista, come segretario per parare le restrizioni che la polizia imponeva al giovane. Pierre Victor era lo pseudonimo di Benny Lévy, che fu l’ultimo segretario del movimento Sinistra Proletaria. DOSSIER SARTRE Queste pagine sono riprese da J.-P. SARTRE, La mia autobiografia in un film. Una confessione, trad. it. a c. di G. Invitto, apparso nella collana “Sartriana” dell’editore Marinotti di Milano (2004, pp. 160). Il testo è la trascrizione della sceneggiatura del documentario Sartre par lui-même, costituito da una serie di conversazioni di Jean-Paul Sartre con Simone de Beauvoir e con gli intellettuali che più erano stati vicini alle imprese culturali e politiche del filosofo francese. Girato per la maggior parte nel 1972, il documentario fu interrotto per motivi finanziari e fu completato tra il 1975 e il 1976. In quello stesso anno fu presentato in anteprima al Festival di Cannes, ottenendo unanimi consensi di critica e di pubblico. L’edizione francese della sceneggiatura fu pubblicata nel 1977 a Parigi da Gallimard, a c. di A. Astruc e M. Contat. “Segni e comprensione” ringrazia le Edizioni Marinotti che hanno permesso la pubblicazione di questo breve stralcio della traduzione italiana. Qui non sono riportate le note che sono, invece, nella traduzione integrale. HUSSERL, LE COSE, L’INTENZIONALITÀ Conversazione con Jean-Paul Sartre di A. Astruc, M. Contat, S. de Beauvoir J.-L. Bost, A. Gorz, J. Pouillon POUILLON – […] Lei ci ha detto che era tramite Nizan che ha scoperto la letteratura moderna. E il surrealismo? SARTRE – Io seppi cos’era, ma non mi ha sfiorato, no. So per esempio che questo ha avuto una importanza ma un’importanza ridotta, perché noi lo tenevamo a distanza. POUILLON – Husserl è stato molto più una scoperta? SARTRE – Sì, ma molto più tardi. Io sono entrato all’École nel ‘24, siamo stati ammessi all’agreg nel ‘29, ed è verso il ‘33… POUILLON – Non prima? SARTRE – Non prima. Io non sapevo chi fosse Husserl, egli non rientrava nella cultura francese… SIMONE DE BEAUVOIR – Si ignorava Hegel! SARTRE – Si ignorava Hegel. Era Lachelier che diceva: “Niente Hegel finché vivrò”. E Brunschvicg, in La Conscience occidentale, ha dedicato, in un capitolo, qualche pagina a Hegel, e nessuna a Marx. Il risultato, l’ho spesso detto, è che ero in ritardo rispetto ai miei compagni per i quali Freud e il surrealismo erano esperienze che essi potevano forse contestare su un certo piano, ma che in parte condividevano e che appartenevano al loro tempo. C’era anche un po’ di Claude Farrère nella mia preparazione. CONTAT – Per quale ragione lei scrive una tesi per un diploma di studi superiori sull’immaginazione? SARTRE – Suppongo di aver avuto in quel momento qualche idea sull’immagine –quindi in khâgne– e, dopo, di aver avuto l’impressione che era la prima cosa che dovevo fare; l’idea che la sensazione non fosse la stessa cosa dell’immagine, e l’idea che l’immagine non fosse una sensazione rinnovata. Tutto ciò l’ho sentito dentro di me. È legato alla libertà della coscienza poiché, 21 22 quando la coscienza immagina, essa si stacca dal reale per cercare qualche cosa che non è là o che non esiste. Questo passaggio all’immaginario è stato anche uno degli elementi per farmi comprendere cosa sia la libertà. Una persona è là, gli si dice: “Dove è il vostro amico Pietro?”, egli è a Berlino, per esempio, e lei immagina dove sia. C’è uno sganciarsi del pensiero che non può spiegarsi col determinismo. Il determinismo non può passare all’immaginario. Se è un fatto, creerà un fatto. POUILLON – Si ha, insomma, un po’ implicitamente la risposta alla domanda che si poneva poco fa: il motivo per cui non fossero né Freud né Marx né Breton ad attirarla, è perché lei aveva il suo problema dentro di sé ed essi non erano di aiuto. SIMONE DE BEAUVOIR – Certo, credo che sia molto giusto. SARTRE – Era l’epoca del realismo, c’era l’idea di fare una filosofia nella quale si sarebbe stati realisti. E realista non era né materialista né idealista. POUILLON – Era già Husserl, “le cose stesse”… SARTRE – È vero, era Husserl. È per questo che quando Aron m’ha detto “Ma si può ragionare su questo bicchiere di birra”… SIMONE DE BEAUVOIR – No, non era un bicchiere di birra, era un cocktail all’albicocca. [Risate] SARTRE – Ebbene, ciò mi ha stupefatto, mi sono detto: “Ecco finalmente la filosofia”. Noi pensavamo molto a una cosa: il concreto. C’era un libro di Wahl che s’intitolava Vers le concret, che ci aveva fatto tutti sognare, perché il concreto, sebbene non quello di Wahl (si trattava piuttosto di pluralismo nel caso di Wahl), si pensava che esistesse… Tutti volevamo sapere cosa era un tavolo, parlando filosoficamente, cioè tentare di astrarne un’essenza che non è quella che le scienze potranno darci, vale a dire le scienze sociologiche per studiare il lavoro ecc., e poi le scienze fisiche per spiegare la materia. C’era qualcos’altro da imparare. CONTAT – E perché si orientò verso la filosofia piuttosto che verso la letteratura? SARTRE – Ah, questo, è a Bergson che lo devo. Quando sono entrato in khâgne, avevamo un professore che era invalido e che si chiamava Colonna d’Istria. Ci ha dato come prima dissertazione “la sensazione di durare”. Dico “durare” e non “durata”. Allora io avevo letto il libro di Bergson l’Essai sur les données immédiates de la conscience. E là ero stato catturato. Mi ero detto: “Ma, la filosofia è formidabile, vi si apprende la verità”. Notate che è un libro che ha una tendenza concreta, malgrado tutto, poiché tenta di descrivere concretamente ciò che accade in un coscienza. Penso che sia stato questo che m’ha orientato verso l’idea di coscienza, così come l’ho presentata. Naturalmente, anche Husserl, che è venuto dopo. Ma, infine, la coscienza di durare è stato uno degli elementi. Ricordo che ho fatto una dissertazione in cui trascrivevo Bergson. Non era mia abitudine trascrivere altri, ma mi dicevo: “Visto che egli ha detto la verità, perché io dovrei dire cose diverse?”. Allora ho elaborato una dissertazione che era un riassunto, se vuole… SIMONE DE BEAUVOIR – Quale giudizio ha avuto? SARTRE – Mediocre. E in quel momento, ciò ha prodotto qualche cosa. Era DOSSIER SARTRE la prima volta. Non amavo quel professore, ma, davanti alla verità scesa dal cielo, come questa in un libro, mi sono detto: “Bisogna farne discendere delle altre!”. La filosofia è divenuta una cosa che mi interessava profondamente. Tra l’altro io non ero neanche un buon allievo di Colonna d’Istria, dovevo essere settimo o ottavo. Ma, infine, ho sentito che era quello che dovevo fare. L’anno precedente, al contrario, o piuttosto due anni prima, nella classe di filo, non comprendevo neppure come si potesse essere filosofi. Sono sempre stato prima scrittore, e poi filosofo, è accaduto così. D’altra parte c’è stata tutta un’epoca in cui lei [Simone de Beauvoir] mi sconsigliava di passare molto tempo con la filosofia, dicendo: “Se non è dotato, non se ne occupi!”. È molto semplice, è divenuta una vocazione a partire da Bergson, vale a dire che ho sentito il bisogno di far questo, pur non sapendo molto bene quale fosse il rapporto tra filosofia e letteratura. È certo che soprattutto La Légende de la vérité è stata una specie di tentativo di trovare un rapporto tra letteratura e filosofia. In quel momento, la filosofia aveva qualcosa di letterario, nei miei libri, o perlomeno credevo, che fosse espressa letterariamente, cosa che ho cambiato del tutto. Non penso che la filosofia possa esprimersi letterariamente. Essa deve parlare del concreto, ch’è altra cosa. Ma ha un linguaggio tecnico che occorre impiegare. Considero ugualmente la filosofia oggi come l’unità di tutto ciò che faccio, cioè, se volete, la sola unità che può esserci tra i differenti libri che ho fatto in un’epoca data, è l’unità filosofica. Sono tutti orientati verso un medesimo centro, o, se preferite, sono tutti ricoperti da un medesimo guscio: è la mia filosofia dell’epoca. In modo che, così, scopro anche un altro genere di unità tra le varie cose che scrivo; come, per esempio, si potrebbe trovare unità scrivendo un romanzo che fosse interamente fatto sulla vita di provincia o di Parigi, oppure dei romanzi come quelli di Zola su una famiglia sotto il Secondo Impero. No, l’unità, è la filosofia. GORZ – Da dove le è venuta l’idea di andare a Berlino per studiare Husserl? SARTRE – Perché Aron mi aveva facilitato le cose. Mi aveva presentata la teoria di Husserl, in grandi linee però. Ho letto in quel momento un’opera di Gurvitch1 sull’intuizione delle essenze in Husserl, e ho visto che era molto importante. Ed egli [Aron] mi ha nello stesso tempo facilitato il cammino, poiché lui era stato all’Istituto di Berlino. Lì, a Berlino, leggevo Husserl prendendo degli appunti. Dunque sono arrivato senza sapere niente, neanche l’intenzionalità, sapevo alcune piccole cose attraverso Gurvitch, ma occorreva leggere Ideen. POUILLON – E ha preso, cronologicamente, prima Ideen, oppure prima le Logische Untersuchungen? SARTRE – Le Ideen, niente altro che le Ideen, per me che sono lento un anno è stato sufficiente per leggere le Ideen. La Transcendance de l’Ego l’ho scritta in Germania quando ero alla Maison Française, e l’ho scritta direttamente sotto l’influenza di Husserl; per quanto io sia ancora contro Husserl in quell’opera, ma perché, in una certa maniera, non ho mai accettato niente senza contestare. Il che vuol dire che non sono intelligente, allora il risultato è che ci 23 vuole molto tempo perché io comprenda le cose, occorre che siano completamente dentro di me e disossate. Mi occorre più tempo, per esempio, che al Castoro [Simone de Beauvoir]. Il Castoro procede molto più svelta. Ma a me occorrono tempi lunghi. Quando ciò avviene, c’è sempre uno strascico di contestazioni, poiché la cosa è stata smembrata, disossata ecc. Quindi, per questo ero assolutamente per Husserl su certi piani, vale a dire sul piano della coscienza intenzionale, là lui mi aveva fatto scoprire qualcosa; questo è stato il momento della scoperta. 1 Si tratta in realtà di un’opera di Emmanuel Lévinas, apparsa nel 1930: La Théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (Alcan, Paris). 24 di Pierre Taminiaux “Une Victoire”1: questo è il nome che Jean-Paul Sartre dava, nel marzo del 1958, al suo commentario su La Question d’Henri Alleg2. Rileggendo oggi questi due testi che costituiscono un insieme indivisibile, mi ritrovo non solo di fronte alla storia della Guerra d’Algeria (la guerra coloniale che si dispiegherà dal 1954 al 1962, fino agli accordi di Evian), ma anche di fronte alla contemporanea vicenda di una guerra, quella post-coloniale, che travaglia un altro paese a maggioranza araba e musulmana, ovvero l’Iraq. La cruda violenza che attraversa il racconto di Alleg ci riporta, in effetti, a certe forme di violenza perpetrate verso il popolo iracheno, verso la sua esistenza sia politica che strettamente fisica. Le recenti rivelazioni sui soprusi commessi da soldati americani, membri delle forze d’occupazione, contro i prigionieri iracheni nella prigione di Abou Ghraib sembrano ripercuotere come un’eco lo stesso contenuto del racconto d’Alleg e del saggio di Sartre che l’accompagna. La Question chiama in causa, dunque, delle nuove vittorie, quelle d’uomini e donne pronti a resistere all’intimidazione dell’occupante e all’umiliazione collettiva che questa inevitabilmente genera. Come scrive Sartre: “Alleg ci risparmia dalla disperazione e dalla vergogna perché è una vittima che ha vinto la tortura”3. L’ ottimismo deciso di questi due testi risiede, così, malgrado tutto, nell’affermazione dell’uomo (dell’umano) esattamente verso chi lo nega in modo radicale. Colui che si sforza, con i suoi propri mezzi di sopravvivere alla tortura non fa che ripetere la seguente affermazione: “L’uomo esiste, l’ho incontrato, sono un uomo nient’altro che questo”. Purtroppo, però, come Sartre mette ben in evidenza, non tutti possono essere uomini allo stesso tempo né in modo simile. “Nella tortura, questo insolito scontro, la posta in gioco sembra radicale: è per la qualifica di uomo che il torturatore si misura col torturato e tutto avviene come se entrambi non potevano, entrambi, appartenere alla specie umana”4. In questo senso, paradossalmente, la questione non è inumana: uomini appartenenti alla medesima specie si competono il diritto di ribadire la propria identità sia singolare che comune. Alleg e Sartre, quindi, condividono il rifiuto di un’apparente fatalità: quella dell’inumanità dell’uomo. Poiché il sentimento della inumanità, così come spiega Sartre, non ha altro scopo che quello di convincerci della nostra impotenza di fronte al male. “L’inumano non esiste da nessuna parte, tranne che negli incubi che genera la paura”, sottolinea ancora Sartre5. Non si può considerare la questione come un semplice sogno cattivo da dimenticare il prima possibile. Una tale prospettiva sarebbe troppo facile: permetterebbe, infatti, di liberarsi del male, della sua troppo insistente presenza, del suo nome troppo inquie- DOSSIER SARTRE SARTRE E IL NOME DEL MALE 25 26 tante, della sua inadeguatezza al reale, del suo non appartenere al mondo concreto e vero. La Question, dunque, non è un racconto kafkiano: tutta l’entità della sua risonanza etica proviene precisamente dalla mancanza di qualsiasi pretesa metafisica. L’oppressione politica del soggetto non si dà a vedere che nella materia più tangibile. Inoltre, essa non può che sfociare nel potere della paura, nella misura in cui questo consacrerebbe proprio la legge dei carnefici e trasformerebbe, dunque, la vittoria in sconfitta. Non c’è alcun impressionismo, in questo senso, nel racconto d’Alleg: la rappresentazione della violenza nata dalla tortura consacra l’oggettività invalicabile e necessaria dei fatti senza la minima costruzione metaforica né il minimo eccesso d’emozione. Questi apparterrebbero ancora, in effetti, all’ambito della seduzione. Essi implicherebbero una sorta d’indebolimento del suo proposito ed un allontanamento, in qualche modo, del soggetto e della sua somiglianza a noi stessi. Pertanto la paura è proprio qui. Ma è allo stesso tempo tanto quella del carnefice che quella della vittima. Il carnefice interroga, così, perché ha paura dell’inumanità dell’altro, perché rabbrividisce all’idea che ci sia troppo dell’uomo nell’uomo. Non c’è spazio sufficiente su questa terra per tutto l’umano, pensa, ed è questo che suscita l’estrema brutalità dei suoi atti. La sua vittima non ha, del resto, davvero il tempo d’aver paura: non può che tentare di sopravvivere, al di là di ogni sentimento, nel semplice vissuto psichico d’ogni istante che lo pregiudica. Ma la paura, allora, è anche quella del popolo francese e dei politici che lo governano, la paura congiunta della moltitudine disarmata e dei potenti che non osano guardare in faccia la verità. All’inizio del suo testo Sartre evoca, così, brevemente, l’atteggiamento di una parte del popolo francese sotto l’occupazione, di questa Francia già ammutolita che guardava con noncuranza la polizia di Pétain compiere il suo preteso dovere e fingeva di non comprendere ciò che succedeva al Vel d’Hiv o altrove. Egli impiega, a giusto titolo, la parola stupore tentando, in questo senso, di cercare una spiegazione psicologica, e non solamente politica, a questa passività collettiva. Un tale processo di generale stupefazione si compie nell’incomprensione della realtà. Ma, come ben scrive a proposito di questo contesto storico particolare, “tutto è accaduto insensibilmente attraverso impercettibili trascuratezze, e poi, alzando la testa, abbiamo visto nello specchio un viso straniero, detestabile: il nostro”6. Lo stupore della massa riflette la paura dell’altro ma soprattutto di sé stessi. In queste circostanze, in effetti, “vittima e carnefice non formano che una sola immagine: la nostra”7. Un tale stupore fu, allo stesso modo, all’origine della profonda rimozione della guerra d’Algeria e della sua immagine negativa all’interno della cultura francese, rimozione che eserciterà la sua influenza ancora per molto tempo dopo l’anno ufficiale dell’indipendenza. In questo senso, la situazione congiunturale della guerra stessa non è la sola causa di questa intolleranza collettiva: questa si perpetuerà fino alla pace, all’interno di un mondo che tuttavia in teoria avrebbe dovuto favorire la libera espressione di tutto il discorso politico (un tale fenomeno si genererà, allo stesso modo, per l’affermazione della colpevolezza francese sotto Vichy). Si sa che l’opera di Henri Alleg fu sequestrata dal governo francese qualche settimana dopo la sua pubblicazione, esattamente DOSSIER SARTRE il 27 marzo del 1958, quando si apprestava a conoscere un considerevole successo a livello di vendite. Questo suscitò, in particolare, la risposta d’intellettuali e scrittori, come André Malraux, Roger Martin du Gard, François Mauriac e naturalmente Sartre, in una petizione indirizzata al Presidente della Repubblica. L’autore del libro era stato per più anni il redattore principale de L’Alger Républicain (il solo quotidiano del paese ad essere autenticamente democratico data la sua apertura a tutte le tendenze politiche), dal 1950 al 1955 fino alla sua ufficiale interdizione nel settembre del 1955. Membro, peraltro, del Partito Comunista Algerino, egli fu in seguito ricercato ed infine arrestato il 12 giugno 1957. Il suo esempio sarà accompagnato da molti altri: non solo perché altre donne e altri uomini, sconosciuti e meno, dovranno subire delle sedute di tortura ripetute e sistematiche, da Maurice Audin, sostenuto da Pierre Vidal-Naquetin L’Affaire Audin, a donne algerine quali Djamila Boupacha, difesa da Simone de Beauvoir e Giséle Halimi, ma anche e forse soprattutto perché i poteri successivi gollisti e post-gollisti manterranno deliberatamente il segreto sui metodi più che dubbi dell’esercito francese in Algeria. I titoli di opere letterarie censurate, interdette o semplicemente intralciate nella diffusione pubblica per i riferimenti troppo critici alla guerra abbonderanno: da Petit Soldat di Godard al film francese senza dubbio più direttamente impegnato contro questa guerra, Avoir vingt ans dans les Aurès di René Vautier8, la cui fruizione fu per lungo tempo ridotta al circuito dei ciné-club, passando attraverso il film del cineasta italiano Gillo Pontecorvo, La Battaglia d’Algeri9 e naturalmente attraverso La Question. Gli effetti culturali del fenomeno dapprima psichico dello stupore, dunque, si faranno sentire per un troppo lungo numero di anni: daranno come esito un soffocamento della rappresentazione critica accessibile alla maggioranza. Un tale soffocamento, certamente, sarà stato determinato dai differenti poteri in atto, ma ci si può legittimamente interrogare se taluni mezzi francesi non ne abbiano approfittato, tollerandolo per meglio incoraggiarlo. Lo stupore, in un certo senso, sarà certo stato ordinario: avrà permesso di confondere sotto molti aspetti gli interessi dei politici e quelli dell’uomo della strada. È in questo senso che il destino commerciale e giudiziale del racconto di Alleg ci interpella: non rivela solamente il ruolo politico della censura che viene dall’alto, ma anche quello dell’autocensura che viene dal basso. In entrambi i casi si tratterà di far regnare la legge del silenzio10. A tal riguardo, è interessante notare che nell’autunno del 2000 il primo ministro del governo francese dell’epoca, Lionel Jospin, espresse formalmente il suo sostegno ad una dichiarazione fatta da un gruppo di intellettuali che condannavano le violazioni dei diritti dell’uomo commesse durante la guerra d’Algeria. “L’appello dei dodici” fu, così, pubblicato nel quotidiano L’Humanité il 31 ottobre del 2000. Tuttavia, egli rifiutò ostinatamente di impegnarsi in una reale discussione dei fatti. In questo modo, egli rifletteva la posizione della maggior parte dei membri dell’élite politica francese, ad eccezione dei comunisti. Inoltre dichiarò che da parte sua non si sarebbe pentito ed aggiunse che non amava per niente la parola pentirsi. Queste sconcertanti affermazioni sottolineano inconsapevolmente l’importanza del problema della nominazione per il 27 28 riconoscimento del male, dal momento che non può esserci il pentimento senza una confessione preliminare della propria colpevolezza. Questo preciso problema è essenziale per la mia riflessione: in questo contesto, in effetti, eliminare una particolare parola significa cancellare la memoria d’una realtà storica specifica allo scopo di privarla del suo significato contemporaneo per la comunità. Più concretamente, la possibile filiazione politica tra la passata democrazia coloniale francese e la contemporanea democrazia post-coloniale è confutata in modo da evitare l’intera e profonda questione dell’eredità repubblicana. Nel tentativo di giustificare il silenzio dell’élite politica, Jospin fece notare in questo caso che le violazioni dei diritti dell’uomo in Algeria costituivano un problema strettamente storico e giuridico e non soltanto un problema politico. Da allora, una tale dicotomia tra il dominio storico e quello politico implicava una negazione della capacità del linguaggio d’esprimere una verità del passato nei termini linguistici del presente. Il processo di nominazione del male opera sia nel testo di Sartre che in quello d’Alleg; è precisamente grazie a questo processo che il male non solo è manifesto qui ed adesso ma anche, e più profondamente, è iscritto nella sua realtà storica. Il nominare il male torna, così, a definire prima di tutto il fatto politico come una realtà storica e a sottolineare in questo senso la necessità di una coscienza storica come fonte dell’intero discorso politico legittimo. Si può menzionare, di conseguenza, un’etica specifica associata a questa coscienza. La storia non si accontenta del silenzio: essa costituisce una voce che non cessa di parlare e che continuamente richiede al potere politico d’assumere la sua responsabilità morale nei confronti della comunità e della sua memoria collettiva. Il tema della censura affrontato attraverso La Question e la sua storia ben definisce uno spazio politico e culturale della rappresentazione. La democrazia ha, dunque, il potere di far tacere, in certe circostanze, chiunque essa non voglia ascoltare. Tutta la crudele ironia de La Question (il suo doppio senso filosofico) viene, così, chiarita. Il carnefice obbliga la sua vittima a parlare, ma peraltro egli agisce in nome d’un potere ufficiale e legittimo che la forza stessa mette a tacere. Perfetto Doppio legame11, questo: una stessa fonte dell’autorità (ma diversamente incarnata) esige simultaneamente il silenzio e la parola della sua vittima. L’autorità gli notifica che le sue parole devono essere ben evidenti, poi devono definitivamente svanire: la parola ed il silenzio sono qui, entrambi, d’oro. Di tutti i testi che Sartre consacra, a caldo, alla crisi algerina, Une Victoire si dimostra essere, senza dubbio, il più sottile e complesso; giacché oltrepassa la semplice denuncia unilaterale del colonialismo come modello storico d’oppressione dei popoli del terzo mondo (denuncia che si ritroverà certamente nell’introduzione ai Damnés de la terre, di Franz Fanon12), per interrogarsi, in modo più ampio, al di là degli avvenimenti, sul male e sulla sua identità nel suo relazionarsi alla natura umana. Qui il tono del testo di Sartre è quasi ovattato: l’autore non cerca né di accusare né di additare i responsabili dell’orrore. Non implica né un’invettiva né un attacco personale. Le sue parole non inten- DOSSIER SARTRE dono amplificare a grossi tratti l’impatto della realtà: finiscono, al contrario, per relativizzarlo. Infatti La Question è prima di tutto il racconto di un’esperienza singolare: una voce unica si è imposta nel mezzo delle tenebre, ed è risalita in superficie malgrado l’influenza di coloro che volevano ridurla a niente. I fatti raccontati da Alleg sono già sufficientemente sorprendenti per sé stessi: non necessitano di un’eco altisonante, piuttosto di una parola come un mormorio che nella sua riservatezza e modestia faccia meglio intendere l’appello alla dignità contenuto in questo racconto. È evidente che “lo strip-tease del nostro umanesimo”, per riprendere la celebre formula di Sartre nel suo testo su Fanon, è qui completo. Se l’inumanità non esiste, dunque, il simulacro d’umanesimo, che per lungo tempo ha legittimato l’avventura coloniale a partire da Jules Ferry, è ben messo a nudo, è il caso di dire, attraverso La Question. Con la tortura Alleg affronta non solamente i suoi carnefici, ma anche la pura illusione del discorso dell’(e sull’) uomo incluso nell’ideale della Repubblica francese. In tal senso è proprio l’uomo universale che scompare in questa esperienza: non c’è che un solo uomo che si oppone ad altri uomini particolari, escluso, dunque, dal sogno crudele di tutti gli uomini (sogno che aveva definito, in partenza, l’idea coloniale), un uomo che non ha più neanche il diritto alla consolazione d’una comunità astratta, divenuta inaccessibile. In tale misura il racconto d’Alleg non appartiene che a lui: è l’occasione, per l’autore, di rimpossessarsi di se stesso, in un mondo glaciale seguito all’uomo universale. Questo Sartre l’ha perfettamente compreso: non opera mai generalizzazioni o conclusioni globali, ma riflette sui dubbi e sulle contraddizioni nati dal carattere particolare degli avvenimenti. È per questa ragione che il discorso propriamente ideologico qui non ha luogo. Alleg stesso vi oppone resistenza, se ne allontana per far posto al resoconto di ciò che è avvenuto. Sartre risponde fedelmente a questa domanda: non insiste né sulla retorica anticolonialista, per quanto quasi inevitabile, né sull’identità politica di sinistra di Henri Alleg. In altri termini, non è un membro del Partito Comunista Algerino che è stato torturato da alcuni francesi, è un uomo che è stato torturato da alcuni francesi, e questo è sufficiente. Nei limiti in cui la tortura è assolutamente imperdonabile ed indifendibile, dovunque avvenga e qualsiasi siano le sue motivazioni politiche, essa interroga l’umano nella sua concretezza e la sua autentica esistenza. Essa non rinvia né a dei valori né a dei principi puramente politici che permetterebbero ancora di giustificarla, ma al fatto stesso d’essere un uomo, malgrado e contro tutto. È proprio ciò che costituisce la singolarità di questo testo nel fitto complesso degli scritti politici di Sartre. La crisi algerina non è qui per lui l’occasione per un discorso sul colonialismo come espressione privilegiata della lotta di classe nel terzo mondo. Una tale identificazione sarà, del resto, denunciata, nello stesso periodo, da Jean-François Lyotard nei suoi diversi articoli di “Socialisme ou Barbarie”, consacrati al problema algerino13, articoli che costituiscono, per molti aspetti, una risposta a Sartre sulla questione del colonialismo. Ciò che Lyotard mostrerà molto bene, in particolare, è, secondo le sue stesse parole, “l’affossamento degli antagonismi di classe nella società coloniale”14, nel senso 29 30 che, da una parte l’F.L.N. si definirà un movimento di raggruppamento nazionale (quello della classe contadina, degli impiegati, della piccola borghesia e della borghesia illuminata che assicurerà, in realtà, la direzione del movimento), e dall’altra parte la borghesia francese e i partiti di sinistra (particolarmente i comunisti) manifesteranno un’identica condiscendenza nei confronti dello sviluppo del conflitto. Più in particolare Lyotard insisterà sulla diffusa rinuncia della classe operaia francese: “la classe operaia non ha lottato energicamente contro la guerra”15, sotto l’influenza negativa di un P.C. che ufficialmente dichiara il suo sostegno all’indipendenza, ma, concretamente, è molto più preoccupato dall’idea di un’Algeria americana in caso di ritiro delle truppe e dell’amministrazione francese, e che si sforza, dunque, di frenare il processo di decolonizzazione. La guerra d’Algeria, in questo senso, consacrerà la collusione degli interessi della sinistra francese e della borghesia e la loro comune strategia16. Ma è proprio questo paradosso che permetterà, allora, di contestare la validità delle proposizioni sartriane incluse nel suo testo su Fanon, quelle di un divenire politico radicalmente rivoluzionario dell’Algeria fondato sul nuovo potere del piccolo popolo per troppo tempo oppresso dalla borghesia colonialista sottomessa alle leggi del capitale. In Une Victoire l’idea politica, tuttavia, è praticamente assente, perché il suo stesso soggetto ne esige il superamento in nome della ricerca d’un’etica del soggetto. Ma quest’etica non implica, nella sua urgenza, una forma d’ontologia, sebbene, evidentemente, tale parola non faccia parte del discorso sartriano? Si tratta d’affermare il trionfo dell’essere e della sua vita sulla morte, e della parola sul silenzio, prima che questa vita si possa trasformare in un’architettura teorica. Soltanto Henri Alleg ha ragione, qui, e nessun altro, neanche il filosofo. Solo quest’uomo è in grado di custodire una ragione profonda del politico, ammesso che esista ancora una ragione, dopo “la question”. Ma è precisamente la ragione per cui Une Victoire sembra più attuale e più prossimo a noi sotto molti aspetti che, per esempio, Les Communistes et la paix17 o lo stesso testo su Fanon. Sartre non cerca di proiettare sul terzo mondo un’astratta e superata verità occidentale, come ha fatto altrove, quella della rivoluzione marxista adattata alle realtà culturali, politiche, economiche e sociali dei paesi colonizzati. “Bisogna farla finita con un certo marxismo di patronato”18, scriveva così Lyotard nel 1957 nelle sue cronache algerine, sottolineando l’abisso che separava certi intellettuali francesi di sinistra dalla realtà quotidiana di un paese dove egli stesso aveva vissuto. Infatti questo “adattamento” si trasformerà presto in un disadattamento, come proveranno i fallimenti storici successivi del modello marxista applicato al terzo mondo, da Cuba al Nicaragua passando attraverso l’Angola, l’Etiopia, il Vietnam e la Cambogia. La lucidità di Sartre consiste, allora, nel non raffigurare l’Europeo, cioè il colono, come il solo colpevole del fenomeno della tortura: Ed io non pretendo, ben inteso, che gli Europei d’Algeri abbiano inventato la tortura, né che abbiano incitato le autorità civili e militari a praticarla; al contrario la tortura s’è imposta di per sé, essa era divenuta una routine prima che se ne prendesse consapevolezza. […] Così, di queste due coppie indissolubili, il colono ed il colonizzato, il carnefice Il proposito sartriano, così, evita ogni manicheismo. Il male arriva surrettiziamente, quasi all’insaputa di ciascuno. Esso si radica come una fatalità: l’odio è più forte dell’uomo, può dominare qualsiasi cosa. Non detiene alcun particolare bersaglio. All’interno di questo cerchio infernale, ci sono spesso degli uomini venuti dalla Francia ma che non hanno mai avuto, nel passato, il progetto dell’odio. Essi sono stati semplicemente travolti in un turbine che avrebbe potuto travolgerne altri. Il male che costituisce la tortura, in questo senso, è proprio meccanico, perché il suo esercizio non corrisponde ad un’idea preconcetta del politico, ma ad un sentimento distruttivo costituzionale all’uomo. È nella natura di questo, in lui ed intorno a lui, al di là di ogni verità e ragioni collettive, al di là di ogni pensiero preliminare della comunità e dell’alterità20. È questo che lega, a dispetto dell’ineguaglianza del loro rapporto di forza, il carnefice alla sua vittima e la vittima al suo carnefice. L’uomo ha paura e dunque odia e fa soffrire, ma ogni uomo può aver paura e quindi odiare e far soffrire. Uno dei grandi meriti di Une Victoire è precisamente quello di rifiutare la facilità di una dimostrazione alla lavagna e di un ragionamento che assegnerebbe ad una fonte particolare il monopolio della verità politica. Alleg stesso non si lascia mai andare a questo genere d’esercizio: diffida, da buon giornalista, dei concetti troppo ben elaborati, e preferisce appoggiarsi a ciò che è qui, ad una inconfutabile presenza dell’esistenza immediata. Il metodo de “la question” smaschera precisamente uno dei miti fondatori dell’eredità filosofica della Rivoluzione Francese: quello d’una coscienza universalizzante del politico la cui legittimità sarebbe quella propria di un solo popolo e d’una sola nazione (ma precisamente nella misura in cui tale popolo e nazione si fondono in un’unica origine). In La Question, dunque, non è la Francia che ha torto, come avrebbe potuto avere ragione in altre circostanze, né i francesi, ma alcuni francesi. Come Alleg stesso precisa nelle ultime righe del suo racconto, alcuni uomini agiscono “nel nome della Francia”. Sono questi i principali responsabili del razzismo e dell’odio. Le nozioni fondamentali del bene e del male sono più che mai determinanti, così in La Question: esse generano necessariamente il discorso critico che le accompagna. Ma non possono in alcun caso sfociare nell’identificazione indiscutibile di un’unica origine del bene o del male. L’articolo di Sartre ed il racconto d’Alleg rendono conto insieme di una tale confusione ed incertezza. L’autore de La Question non è un buon comunista secondo l’ideale proletario che affronta i cattivi parà fascistoidi nutriti dalla borghesia e dal grande capitale francese. Alleg non parla in nome di una classe né, allo stesso tempo, in nome di un popolo (così fanno i carnefici): egli parla in nome di ogni uomo (e, quindi, non solamente algerino) vittima della tortura nel mondo coloniale ma anche in gran parte non coloniale, in nome di tutti coloro che sono oggetto d’un odio cieco a causa delle loro idee o della loro razza e che non ne possono parlare. L’intelligenza di Sartre consiste, allora, nel sottolineare che i DOSSIER SARTRE e la sua vittima, il secondo qui non è che un’emanazione del primo. E, senza alcun dubbio, i carnefici non sono dei coloni, né i coloni dei carnefici. Questi sono in genere giovani persone che vengono dalla Francia e che hanno vissuto vent’anni della loro vita senza essersi mai preoccupati del problema algerino. Ma l’odio era lì un campo di forze magnetiche: esso le ha attraversate, corrotte, dominate. 19 31 carnefici costituiscono un gruppo d’individui intercambiabili ed anonimi senza una propria identità: Nessuno di questi uomini esiste per se stesso, nessuno resterà ciò che è: essi rappresentano i momenti di un’inesorabile trasformazione. Tra i migliori ed i peggiori, una sola differenza: questi sono matricole, quelli anziani. Ognuno finirà per andarsene e, se la guerra continua, altri li rimpiazzeranno, dei biondini del Nord o dei piccoli bruni del Centro, che riceveranno la stessa formazione e ritroveranno la medesima violenza e l’identico nervosismo. In questo affare gli individui non contano più: una sorta di odio errabondo, anonimo, un odio radicale dell’uomo s’impossessa contemporaneamente dei carnefici e delle vittime per degradarli insieme gli uni contro degli altri, creandosi i suoi propri strumenti21. 32 Qui il politico ed il suo potere prendono la forma neutra. Il carnefice non ha né nome né viso, egli è l’anonimo che ordina alla sua vittima di nominare. È proprio una fonte del male indifferente, poiché senza differenza. Egli è chiunque possa svolgere un preciso compito. Ma in questo processo di spersonalizzazione del luogo d’origine del male, la vittima stessa è implicata suo malgrado. Poiché se il male è senza forma né figura, chi parla, allora, chi pone le domande? O piuttosto chi fa parlare? L’etica della responsabilità umana di fronte all’opera di morte del politico si trova proprio contraddetta dalla modernità e più particolarmente dall’organizzazione segreta del potere che essa produce in democrazia così come nel totalitarismo. Nel primo caso, senza dubbio, si tratta di un’eccezione, dal momento che nel secondo si tratta molto più di una regola. Ma poco importa: l’effetto di quest’organizzazione è lo stesso sotto molti aspetti. Il male si ritrova ad essere “sradicato dalla realtà” o è reso più fittizio dal fatto stesso che non risponde più ad alcun’esigenza d’identità individuale. Questa perdita di realtà implica, si sa, secondo un movimento paradossale, un “in più di realtà” del potere nella sua opera di morte. Un tale fenomeno si ritrova oggi negli Stati Uniti nel processo giudiziario che mira a perseguire e a condannare i presunti responsabili degli abusi di violenza nella prigione d’Abou Ghraib. Questi uomini sono, nella maggior parte dei casi, soldati o ufficiali subalterni che non hanno fatto altro che obbedire agli ordini provenienti dall’alto e che non hanno agito, a dire il vero, di loro propria iniziativa. Ma l’opacità del funzionamento dell’esercito americano in Iraq è tale che l’autorità che dà gli ordini non è mai chiaramente identificata né ancor meno punita. Il destino della vittima, in La Question, spinge in un certo senso questa logica fino al suo termine: essa è, così, intimata a scomparire, eclissare la stessa traccia del proprio viso e del suo corpo e diventa, così, il perfetto simbolo dell’assenza del nome nel male, assenza che rinvia, pertanto, ad un imperativo della nominazione dell’altro (degli altri). Questo processo di scomparsa fu ben messo in luce dai vari documenti fotografici pubblicati per la stampa internazionale in occasione del recente scandalo di Abou Ghraib. Una delle caratteristiche più sorprendenti di queste immagini prese dai carnefici, in effetti, era nella generale assenza del viso delle vittime. Queste non erano altro che un mucchio di corpi nudi ridotti alla più brutale animalità e completamente fusi in questa stessa animalità. In questo senso le vittime erano non solamente private Questa chiama gli uomini a fare qualcosa. Ma se vuol essere ancora letteratura autentica, gli rappresenta questo qualcosa da fare, questo scopo determinato e concreto a partire da un mondo dove una simile azione rinvia all’irrealtà di un valore astratto e assoluto. Il “qualcosa da fare” così come può essere espresso in un’opera di letteratura non è che un “tutto si deve fare”, sia che esso s’affermi come questo tutto, cioè valore assoluto, sia che per giustificarsi e raccomandarsi DOSSIER SARTRE del proprio viso ma anche del proprio corpo divenuto non identificabile. La crudele ironia della posa fotografica forzata dai carnefici, veniva dal fatto che essa rappresentava in modo paradossale la radicale cancellazione dell’intera identità (e non solamente sessuale), come nel famoso esempio del detenuto messo sopra una cassa e collegato a dei fili elettrici, il cui viso, totalmente nascosto, era incappucciato. Nella tortura, in effetti, il soggetto che la subisce è soltanto un corpo senza nome né viso che contiene dei nomi. Non è un caso che le ultime righe del racconto di Henri Alleg terminino con parole che si rivolgono a tutti i francesi che le leggeranno: “essi devono conoscere ciò che è fatto nel loro nome”. Il male è, dopo tutto, usurpare il nome, il suo autentico senso politico e morale, negarlo, da quel momento in poi, proclamandolo. Il nome è qui il luogo essenziale di questo male, la sua posta più dolorosa e decisiva. Il corpo senza nome che deve nominare non può che reiterare la seguente affermazione: il nome di Francese è stato sequestrato per fini inaccettabili. Di conseguenza il carnefice è l’uomo che si è impossessato di questo in modo illegittimo: è, dunque, ugualmente l’anonimo perché pretende di possedere un nome che non può più essere il suo. Che vuol dire impegnarsi, allora, nel contesto de La Question? Qual è il significato dell’azione politica del soggetto che sembra, tuttavia, condannato a subire e a rimanere passivo? Qui l’impegno è quello di un corpo assoluto, totalmente dominato da una prova puramente fisica. Ma in questo rapporto, che non è che uno, quello del carnefice con la sua vittima, la trascendenza dell’Ego, qualunque cosa sia ferocemente negata dall’altro, è ancora possibile. Essa è persino, in un certo senso, più che mai possibile. Così la vittima esiste (non può sopravvivere) solo se dimentica proprio di esistere. Il soggetto deve negare persino la presenza materiale del suo proprio corpo per poter ancora e sempre vivere. È cosi, e così solamente, che egli può negare i molteplici assalti di cui è l’oggetto. Il corpo si impegna, in questo senso, perché si nega lui stesso come singolarità (come presenza di un soggetto singolare), pur essendo negato dall’altro. Il soggetto si dice: “io non esisto” per poter propriamente esistere ed essere, malgrado tutto, nel mondo22. Ma questo “io non esisto” impone la confessione di un “io non faccio niente”, confessione di non-reazione che costituisce la garanzia della sua resistenza al nemico e del suo mutismo. L’impegno è generato proprio da una doppia negazione. Ma in questo processo lo spirito del soggetto politico s’afferma irresistibilmente: il corpo puro si ricongiunge alla coscienza pura di un soggetto che ormai vive della sua sola forza mentale e della sua unica volontà interiore, a partire da un movimento radicale di superamento di sé. La letteratura impegnata, qui, non è una letteratura stricto sensu d’azione. Poiché questa implica un imperativo del “fare” nel linguaggio, come ha ben mostrato Blanchot in un importante testo consacrato ai rapporti della scrittura col Terrore: 33 abbia bisogno di questo tutto nel quale scompare. Il linguaggio dello scrittore, persino rivoluzionario, non è il linguaggio di un comandamento. Esso non comanda, esso presenta, e non presenta rendendo presente ciò che mostra, ma mostrandolo, dietro tutto, come il senso e l’assenza di questo tutto23. 34 Al di là, dunque, del sogno della totalità dell’azione e del suo comandamento nella rappresentazione del politico (ma questa, in Alleg, non è mai solo una presentazione, nel senso blanchottiano della parola), l’impegno qui risponde ad una logica specifica del dovere dell’indifferenza. La vittima deve, in effetti, restare indifferente alla sua pena (al suo corpo che lo scongiura di chiamare, di parlare), ma anche alla presenza dell’altro, ovvero del carnefice. Questo, peraltro, ha il dovere di essere indifferente alle grida di tale uomo. La legge dell’indifferenza rinvia, dunque, a quella dell’anonimo: “Io resto insensibile alla tua esistenza e perciò non ti darò nessun nome”, dice il torturato. Secondo una tale prospettiva si può affermare, allora, che ne La Question l’inferno non sono gli altri, ma al contrario lo stesso e doppiamente lo stesso, se così si può dire. Da una parte, in effetti, i visi dei carnefici non formano altro che un insieme indistinto. Essi si somigliano tutti ed è precisamente da questo carattere intercambiabile che essi ricavano il proprio potere, da questa generale oscurità nata dal loro essere indefiniti. Ma d’altra parte, come mostra bene Sartre, i carnefici appartengono allo stesso mondo delle loro vittime. Prima di tutto sono dei francesi a torturare un altro francese. Ciò non impedisce a Sartre, peraltro, di tracciare le linee essenziali tra l’odio e il razzismo nello sviluppo della guerra d’Algeria. Alcuni membri d’un esercito rappresentativo di uno stato democratico se la prendono con un altro democratico, un uomo di massmedia guidato nella sua professione dall’intoccabile principio della libertà di parola generato dal credo repubblicano. Un altro buon numero di ufficiali paracadutisti che dirigono queste sedute di tortura o ordinano di compierle sono essi stessi degli ex resistenti o soldati, talora esemplari ed eroici, che hanno combattuto il nazismo durante la seconda guerra mondiale. Degli ex-antifascisti, dunque, si battono contro un comunista di natura antifascista. È certamente questo che disturba la coscienza del lettore. Gli eroi di ieri (ma questi eroi allora avevano scelto il partito delle vittime e lottavano al loro fianco) sono divenuti i torturatori ed i vigliacchi di oggi. (È sufficiente pensare all’itinerario politico più che strano di un Massu o di un Gorge Bidault, dalla seconda guerra mondiale a quella d’Algeria, per rendersene conto). Questo rovesciamento dell’identità si produce all’interno di un contesto repubblicano: non lo oltrepassa ma vi si colloca in maniera quasi perfetta. Qui l’abiezione consiste nella confusione dei ruoli e dei valori. Il tempo precipitoso della storia ha fatto il suo corso: ha permesso una simile trasformazione sotto la pressione dell’ideologia colonialista. “Noi siamo tutti gli stessi”, così dice il carnefice verso e contro tutti. Ed è proprio per questo che può compiere il suo ingrato lavoro. Una simile affermazione giustifica la sua azione e lo rafforza nella sua buona coscienza. Il carnefice de La Question, come lo descrive Sartre, è ancora a modo suo un umanista. È in questo senso che bisogna comprendere l’idea sartriana, a prima vista strana, di una impossibilità dell’inumano nel racconto di Alleg. Qui non c’è più posto, in effetti, per un’alternativa all’umano, per qualcun altro diverso dal- DOSSIER SARTRE l’uomo, perché questo fondamentale rovesciamento ha già avuto luogo, essendo la condizione preliminare, necessaria e sufficiente della tortura. L’attualità del racconto di Alleg e di Une Victoire risiede in questa constatazione essenziale: il male può fondarsi su un movimento che va dallo stesso al medesimo, non c’è sempre bisogno di una rappresentazione fantasmatica dell’altro per esistere (mentre il contesto storico e culturale della guerra d’Algeria darebbe da pensare precisamente al contrario). La “victoire” della vittima, in questo senso, al di là della sua sopravvivenza puramente fisica, è quella di un uomo che giunge a preservarsi uno spazio sia esistenziale che politico della differenza, lo spazio di un’altra politica coloniale, d’un altro rapporto tra le razze, d’un’altra concezione dell’uomo –dell’umano– e della sua libertà. Nondimeno, Alleg non pretende di essere né un eroe né un superuomo. In lui non c’è una visione epica della sua avventura personale e politica, come in Malraux, per esempio, né l’afflato nietzschiano di natura profetica. Il suo coraggio è a malapena amplificato dalle parole: è quello d’un appassionato. Al contrario, coloro che un giorno sono stati degli eroi lo affrontano. L’eroismo è qui per lui una nozione più che dubbia, poiché ha troppo spesso fornito il mito al nemico nel suo progetto di espansione coloniale, concepito in origine dalla Francia come lo specchio di una “grandezza umanistica” della nazione (l’eroismo, allora, dell’uomo che porta volontariamente la civilizzazione e la cultura ai “selvaggi” che sono nel mezzo dell’ignoranza e della barbarie). Il suo racconto evita tanto il pathos di una forza indomabile che vince la sofferenza dell’essere, quanto il sensazionalismo d’una rappresentazione spettacolare della violenza estrema. Egli semplicemente scopre una perfetta geometria del terrore la sua trasparenza ancora pudica malgrado la schiacciante evidenza dei fatti. La Question, in questa misura, non si situa oltre il bene e il male ma proprio al di qua di questi due: essa rivela, così, lo stoicismo non di circostanza ma essenziale dello scrittore. L’appassionato è l’uomo che senza dubbio può meglio scrivere questo tipo d’esperienza. Da Primo Levi a Platonov, in effetti, abbondano gli esempi che provano la vanità d’una scrittura detta professionale quando s’applica a rappresentare la dimensione irrappresentabile del politico. Lo scrittore nasce dall’esperienza stessa (dalla sua intera esperienza narrativa) e da nient’altro. In un certo senso non può esserci un testo anteriore a questo: le prime parole sono sempre le più decisive e le più eloquenti. Il giornalista, qui, diventa scrittore, come altrove il chimico o il membro del Partito, poiché egli è, in un certo modo, senza passato, perché il suo linguaggio non esiste se non nel cuore della sua presente condizione. Il dovere della scrittura è certo senza antecedenti. Spesso ho pensato, a tal riguardo, che i testi più intensi consacrati all’esperienza del totalitarismo venissero da queste voci, queste voci originali, più viventi, senza dubbio, perché nate con l’evento. Si tratta certamente di un’esigenza morale di sincerità e di onestà di cui lo scrittore già pubblico, troppo cosciente della sua identità e di quella dei lettori, troppo abituato all’uso abile delle parole, non è più sempre capace quando deve raccontare una simile realtà. Lo si sarà compreso, La Question è in questo senso il libro di un innocente disperso tra i colpevoli. Ma questa innocenza è prima di tutto quella del 35 36 linguaggio, del nuovo linguaggio di un uomo che non ha niente da dimostrare e che si accontenta di far conoscere ciò che resta di più umano, malgrado tutto, nel confronto col male (e quindi nel suo riconoscimento), ciò che rimane dopo questo e che sopravvive a qualsiasi cosa arrivi, vale a dire le parole. Il turbamento dell’identità, di cui lui è testimone, appare in particolare nella conclusione. Alleg sente, dalla sua cella, le grida di un detenuto algerino nella corte della prigione. Quest’uomo è stato condannato a morte nello stesso momento in cui due dei suoi compagni e dei suoi guardiani lo conducono al patibolo. Allora egli grida, proprio prima di morire: “Viva l’Algeria!”. La sconcertante e cupa ironia di questo momento scaturisce dalla stessa natura del mezzo utilizzato per la sua esecuzione. Il simbolo storico della giustizia rivoluzionaria francese diviene, circa due secoli dopo, quello della giustizia colonialista. Non si potrebbe trovare una confusione simbolica più eclatante: il terrore si appoggia su uno stesso oggetto che permette la rappresentazione del bene e del male e dei termini distorti dal potere politico. Questo simbolo permanente allontana, così, l’immagine reale dell’emancipazione dei popoli e d’un divenire storico orientato nel senso dell’equità e della fraternità umana, e dunque la concreta attualità dei valori rivoluzionari per colui che Albert Memmi definiva “l’uomo dominato”. I giusti di ieri, che agivano nel nome della Francia e del suo popolo, ritrovano nei militari della fine della IV Repubblica, sempre al nome degli stessi, uno degli emblemi privilegiati della loro legge. Il carnefice si crede ancora puro e soprattutto umano. Non ha cessato d’esserlo, malgrado le tribolazioni della storia. È proprio così, nell’utilizzazione propriamente politica dei riferimenti simbolici, che si perpetua il sogno oscuro d’un uomo universale divenuto assoluto nel suo rifiuto del particolare, a partire da una filosofia morale che si è creduto essere condivisa da tutti. Il ritorno del terrore (“della più fredda e più piatta morte”, come Hegel diceva, della morte senza nome) corrisponde, dunque, prima di tutto al ritorno forzato dei segni più forti di questo. Si può vedere, quindi, in cosa Une Victoire e La Question interrogano la nostra verità democratica contemporanea. Giacché questo mondo del rovesciamento dei ruoli politici, questo mondo senza nome, stabilisce dove la vittima di ieri (quella della barbarie nazista o del fanatismo islamico) può divenire, a nostra insaputa, il carnefice di oggi e, viceversa, è quello che ci offre il Nuovo Ordine Mondiale nato dal crollo del comunismo dell’Est, da circa quindici anni. Il male non proviene più, adesso, da una sola fonte, o da un solo impero, Sovietico o Americano, com’era per molti, sia a destra che a sinistra, nel corso della Guerra Fredda. Ora si è disseminato, per meglio ingannarci. Ciò significa che, in effetti, le fonti del male sono sempre meno chiare (ma non le fonti del bene, poiché ufficialmente ne esiste solo una: quella della democrazia liberale e dell’economia di mercato che l’accompagna). È proprio ciò che s’afferma come il maggior pericolo, filosoficamente ed eticamente parlando, della nostra epoca, nella misura in cui le stesse nozioni di colpevolezza e responsabilità (individuali e collettive) si perdono spesso in un universo informe dove il nemico resta nascosto e a volte difficile da definire24. La Guerra Fredda, questa, poteva, all’opposto, offrire più rapide consolazioni alla sofferenza dei popoli e procurare facilmente una buona coscienza poiché le colpe erano per lo più DOSSIER SARTRE quelle di un nemico che si costituiva come un altro politico radicale. Ma all’alba di questo nuovo millennio, dove s’arresta il regno della ragione e dove comincia quello dell’irragionevolezza? E chi custodisce davvero le chiavi della verità, quando l’altro sembra perdere la sua totale figura? I Serbi responsabili dei massacri di Srebrenica non erano, dopotutto, i figli degli eroi della lotta contro il nazismo dell’ex Jugoslavia? Non è, così, a causa del ricordo dei partigiani di Tito (ma ugualmente di conseguenza a quello di Hitler e degli “oustachis” di Pavelic) che noi abbiamo per troppo lungo tempo chiuso gli occhi, noi europei, sulle loro estorsioni ed abbiamo potuto giustificare in gran parte la nostra inerzia collettiva? Il sentimento di un’ambiguità del male generato dal racconto di Alleg e dall’articolo di Sartre non deve cessare, quindi, di interessarci ed interpellarci25. Perché l’ufficiale dei parà che, nel giugno 1957 ad Algeri, “s’occupava” di Henri Alleg e di molti altri, uomini e donne, francesi ed algerini, non avrebbe potuto anche lui, malgrado le sue azioni, essere ignorato o persino discolpato, secondo questi termini? L’appello all’identificazione ed alla nominazione che questi due testi invocano deve farci riflettere, noi soggetti democratici conquistati da questo nuovo ordine che non osa pronunciare il suo vero nome (che non sempre utilizza il nome che occorrerebbe). In effetti, a volte, i torti sono condivisi, tuttavia non sono mai anonimi. Non li si nomina mai abbastanza: è ciò di cui Alleg e Sartre ci persuadono, poiché tutti i nomi possono finire per somigliarsi nel turbine della storia. Democrazia e totalitarismo non si escludono: a volte si completano, s’alimentano l’un l’altro fino alla presunta agonia dell’altro, fino al luogo comune di una libertà immediata e globale divenuta oggi il peggio degli alibi post-ideologici, quello dell’indifferenza. Le immagini vergognose dei corpi nudi ed ammucchiati gli uni sugli altri dei prigionieri iracheni d’Abou Ghraib ci ricordano, così, che nella moderna storia occidentale le peggiori azioni sono state spesso commesse nel nome della libertà dei popoli e del progresso dell’umanità. La presunta lotta contro il male (contro “l’asse del male”, più precisamente, se si considera la fraseologia del potere americano attuale) può essa stessa generare ciò contro il quale sostiene d’opporsi. Questo perverso rovesciamento delle cose non costituisce un semplice caso o una mera peripezia della storia: al contrario si inscrive nella logica di ogni potere a pretese universaliste per il quale l’Altro (con un’A maiuscola) non è che una figura neutra suscettibile d’esser ridotta in questo stato per un’apparente ragione sia pratica che simbolica. In questo senso dare un nome al male implica ugualmente dare un nome e far luce sullo spazio della sua apparente contraddizione politica. Non lo si nomina mai abbastanza, poiché si ha troppo spesso paura di nominarlo. In ciò sta il significato, per esempio, dei grandi processi che mirano a condannare i crimini di guerra e quelli commessi contro l’umanità. Tale significato non è nella punizione propriamente detta, ma nella nominazione dei colpevoli e delle loro colpe, ancora e sempre. Così l’obbligo di perseguire uomini come Karadzic e Mladic dinnanzi al tribunale de La Hayne non è legato al sogno di una qualsiasi riparazione dei loro crimini. Il male è fatto, non si può che pronunciarlo ed intenderlo, al di là di ogni sentenza. Se la comunità internazionale ha, fino al presente, mancato al suo compito e se questi due uomi- 37 ni restano liberi, è precisamente perché essa preferisce soprassedere a questo imperativo etico del nome e rifugiarsi nel silenzio, malgrado le belle intenzioni tradotte in parole (ma non in atti) e le promesse. “Parlate e tacete”, dicevano i parà francesi davanti ad Henri Alleg, nel 1957 ad Algeri. “Parlate e tacete”, dicevano due nostri uomini ai musulmani bosniaci, in una calda giornata d’estate, nel 1995 a Srebrenica. “Parlate e tacete”, dicevano ancora i soldati americani ai loro prigionieri iracheni nel 2003 e 2004. Sembrerebbe che oggi, allora, non siano le vittime, ma i giudici ad aver obbedito al loro ordine. La Question e Une Victoire ci invitano, così, a rompere il silenzio ovunque venga e qualunque sia la sua apparente ragione. Il nome che risuona e che si fa sentire da lontano è quello nato dal tribunale della storia. Tutti gli uomini sono membri di questo tribunale, e non solamente qualche eletto, scelto per le sue competenze giuridiche. Poiché il male più diffuso è senza dubbio il più lancinante e tenace. L’esigenza di un nome è, dunque, anche quella di un centro: essa rinvia ad un origine di questo silenzio, ad un punto di partenza definito e differenziato da dove necessariamente nasce l’immagine del carnefice e della sua vittima, in quel momento preciso dove l’uno non s’era ancora confuso con l’altra per rendersi indicibile. (traduzione di Donatella Morea) 38 1 In Situations V, Colonialisme et Néo-Colonialisme, Gallimard, Paris 1964, pp. 72-88. Pubblicato precedentemente nell’Express, n. 350, il 6 marzo 1958. 2 Editions de Minuit, Paris 1958. 3 J.-P. SARTRE, op. cit., p. 76. 4 Ivi, p. 84. 5 Ivi, pp. 76-77. 6 Ivi, p. 73. 7 Ivi, pp. 73-74. 8 Il film di René Vautier fu girato nel 1971. Il cineasta francese non ha mai abbandonato la sua ricerca della verità storica sulla tortura durante la guerra d’Algeria. Per lo stesso scopo ha realizzato un gran numero di interviste a vittime, tra gli anni sessanta ed ottanta. Egli ha potuto, così, mettere insieme più di sessanta ore di pellicole basate su resoconti personali dei fatti. Alcune di queste interviste sono state proiettate nella cineteca di Parigi la scorsa estate del 2003. 9 L’uscita di questo film in Francia, per la prima volta in versione integrale e non censurata, nella primavera del 2004, ha coinciso, del resto, con le rivelazioni sulla stampa delle azioni di tortura commesse dall’esercito americano in Iraq. La sua cocente attualità fu sottolineata ancora meglio. Del resto, bisogna aggiungere che una speciale proiezione di questo film fu organizzata contemporaneamente a Washington per i più alti responsabili del Pentagono. Lo scopo riconosciuto di questa proiezione era quello di mostrare alle autorità della difesa i metodi utilizzati dall’esercito francese nella sua lotta contro il terrorismo in terra araba e di discutere in seguito la loro possibile utilità per l’esercito americano in risposta ai numerosi attentati terroristi perpetrati dagli insorti in Iraq. 10 A tal riguardo, è necessario sottolineare che la diffusione delle immagini d’Abou Ghraib nell’attuale America è molto più rapida. Questa più grande trasparenza è legata essenzialmente all’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione a tempo reale di questa cultura di massa, e non ad una qualsiasi superiorità etica del potere politico americano o persino dell’uomo della strada nel suo rapportarsi alla verità dei fatti. A confronto, la Francia degli anni cinquanta non conosceva evidentemente né la televisione via cavo, né Internet. 12 DOSSIER SARTRE Double Bind: in inglese nel testo. N. d. T. In Situations V, cit., pp. 167-193, prima pubblicato insieme al testo di Fanon per la Maspero Editions nel 1961. 13 Tali articoli sono stati riuniti sotto il titolo La Guerre des Algérien, Galilée, Coll. “Debats”, Paris 1989, con una presentazione di Mohammed Ramdani. 14 Ivi, p. 90. 15 Ivi, p. 85. 16 Questa collusione s’è particolarmente affermata nella Francia degli anni cinquanta, sotto l’influenza di un politico moderato come Guy Mollet alla testa della S.F.I.O., ma anche sotto quella d’un Partito Comunista che accentuava la sua deriva piccolo-borghese in nome della ricerca prioritaria del benessere materiale della classe operaia francese all’interno di una società di consumo allora in pieno sviluppo. 17 In Situations VI, Gallimard, Paris 1964, pp. 80-394, pubblicato in origine da “Les Temps Modernes”, n. 81, luglio 1952, n. 84-85, ottobre-novembre 1952, n. 101, aprile 1954. 18 J.-F. LYOTARD, op. cit., pp. 86-87. 19 J.-P. SARTRE, op. cit., pp. 86-87. 20 Bisogna del resto riconoscere, per rispettare l’oggettività storica, che sfortunatamente certi membri del F.L.N. ricorsero alla tortura durante la guerra allo scopo di ottenere delle informazioni sulle attività del nemico. 21 J.-P. SARTRE, op. cit., p. 79 22 Sui rapporti, in Sartre, tra trascendenza dell’ego e teoria dell’impegno, si veda in particolare Denis Hollier, “Actes sans parole”, p. 51-53 e “Mimesi et castration 1937”, pp. 63-64, in Les Dépossédés, Minuit, Paris 1933, dove l’autore mostra bene il processo di spersonalizzazione e messa da parte della coscienza soggettiva provocato paradossalmente dall’implicazione totale del soggetto nel mondo. 23 M. BLANCHOT, “La Littérature et le droit à la mort”, in De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1970, p. 30. 24 Cosa rappresenta il terrorismo islamico, a tal riguardo, se non un movimento i cui artefici rimangono spesso senza viso né nome preciso per poter precisamente meglio colpire il popolo che attaccano? L’esigenza politica e militare della dissimulazione dell’identità all’interno della stessa violenza rinvia proprio, qui, alla strategia e al simbolismo compiuto di un combattente che rifiuta ogni rivelazione e la propria intera figura. 25 Una simile prospettiva filosofica costituisce una profonda contraddizione del manicheismo apparso agli Stati Uniti nel discorso politico ufficiale dopo gli attentati dell’11 Settembre. Questo, in effetti, conduce ad una negazione da parte dell’America della sua responsabilità nella crescita globale del terrorismo islamico, soprattutto se si considera la storia delle relazioni tra il governo americano ed il mondo arabo, e più precisamente la storia dei rapporti dell’America nei confronti del problema palestinese e della rispettiva politica di Israele. In questo specifico caso l’ostinato rifiuto a considerare le ambiguità politiche di questa situazione non può che portare a dei conflitti ancora più micidiali e ad un incremento della distanza psicologica che separa oggi l’America dalle masse arabe e musulmane. 11 39 IL RITORNO DI DIONISO A proposito di un libro di P. Pellegrino di Pierpaolo De Giorgi 40 La sorprendente fortuna della figura di Dioniso nella storia della civiltà occidentale, impensabile nelle sue proporzioni e caratteristiche per altre divinità pagane, si trova a costituire un problema culturale di notevole spessore e interesse, comune a molte discipline. Nella storia delle idee, quando le indagini sulle origini del nostro attuale modo di essere e di pensare lasciano l’epidermide per scavare in profondità, non di rado la vertiginosa figura del dio dell’ebbrezza dapprima balugina, poi s’afferma con decisione. Un parfum entetant di alterità sembra insinuarsi proprio là dove la ragione causale e ordinatrice ha appena finito di tracciare le sue sobrie e geometriche linee ermeneutiche. Allo stesso modo la trance, come stato modificato di coscienza, erompe da quei luoghi fisici e mentali dove si è maggiormente diffusa una calma improduttiva e terrificante: un tumultuoso mondo della vita, che in parte ricorda quello di Husserl, e che Dioniso da sempre incarna sic et simpliciter, preme per uscire. A compiere un’ampia e aggiornata ricognizione entro questo fertile terreno di ricerca, a fornire risposte ben ponderate e a porre nuovi quesiti, è l’estetologo Paolo Pellegrino, cui non sfugge la pregnanza tutta contemporanea di Dioniso. Tanto che il suo recente e agile volume Il ritorno di Dioniso: il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale1 si pone già come una pietra miliare sull’argomento. Con un excursus filologico e filosofico ineccepibile, Pellegrino utilizza un approccio storico, di ben estesa portata, che si avvale delle nuove prospettive di riflessione sul mito, soffermandosi in particolare sulla Mythosdebatte europea guidata da H. Blumenberg, del quale occorre qui ricordare almeno il volume Elaborazione del mito, tradotto in Italia nel 19912. L’estetologo prende le mosse dalle proprie precedenti ricerche sulle varie interpretazioni, sulle funzioni e sul lavoro del mito, culminate nella raccolta di saggi da lui stesso curata Mito e tarantismo 3. Egli ritiene urgente e necessario mettere a nudo le radici mitiche e mitologiche del mondo in cui viviamo, che si mescolano continuamente con i tentativi di decodifica della realtà elaborati dalla ragione argomentativa e strumentale. Nel viluppo di tali radici si fa notare, riaffiorando soprattutto nei momenti di crisi della ragione, il mitologema di Dioniso, cioè un’insieme di tradizioni mitiche in grado di creare e di alimentare la celeberrima tragedia greca, di riapparire nel Rinascimento, di essere presenti in forma palese o sotterranea in numerosi periodi storici, e quasi di dilagare in epoca romantica. Fino a riaffacciarsi decisamente nel nostro tempo, facendosi protagonista di un tentativo di vero e proprio reincanto dell’ormai troppo secolarizzato e disincantato mondo contemporaneo. Ripercorrendo le tracce del quasi periodico riaffacciarsi di questo mito mediterraneo legato all’ebbrez- NOTE za, al vino e alle sue tradizioni, e tastando il polso al rinnovato interesse degli studiosi, Pellegrino elabora una storia coerente e organica, sanando una vera e propria carenza del settore. Perché Dioniso? Va rimarcato che questa figura divina è una metafora della natura e delle sue caratteristiche estreme. La risorgenza di un mito siffatto deriva dal bisogno umano, quasi primario, di esprimere le qualità onnicomprensive e paradossali della natura stessa. Più di altre divinità, Dioniso “totipotente” penetra in rerum natura inglobando e metabolizzando la morte e la vita, il negativo e il positivo, cioè la doppiezza o meglio la dualità del cosmo. Più esattamente, egli accoglie in sé l’armonica compresenza unitaria di tale dualità opposta e complementare, per poter poi riaffermare con decisione il valore della vita. Non a caso, Pellegrino mette in rilievo che Dioniso, dio considerato «il dominatore del mondo», è in grado di «incarnare e far valere –là dove altri culti e altri miti separavano e condannavano– la geniale intuizione che traspare in un aforisma di Eraclito», l’armonia tra opposte tensioni, ritenuta fondamento del mondo 4. Per ciò che concerne il mito in generale, l’autore ricorda che quest’ultimo, sostenuto da un’esigenza cosciente, torna a svettare già nell’età di Goethe come supporto teorico di una neue Mythologie e, attorno al 1797, nel cosiddetto Systemprogramm di Hegel, Hölderlin e Shelling5. Il Systemprogramm, in dettaglio, si configura come il proclama etico, influenzato dalla rivoluzione francese, di una nuova “religione sensibile” e di una nuova politica, e come un progetto orientato da un idealismo nel quale la bellezza e la ragione riescano ad incontrarsi nell’estetica e nella poesia6. In questo denso periodo storico, ci ricorda Pellegrino, è la cultura tedesca a veicolare, exceptis excipiendis, sia il mito in generale che la ricomparsa epocale della figura di Dioniso, evento che nei versi del sommo poeta Hölderlin riveste un’“eccezionale importanza” per il nostro discorso7. Nel romanticismo, in aggiunta, se Schlegel nei primissimi anni dell’Ottocento, allo scopo di conciliare intelletto e sensibilità, postula deliberatamente la necessità ontologica della poesia (del «bel disordine della fantasia») e della mitologia come «reagente utopico del Moderno»8, ecco farsi strada entro queste posizioni la consapevolezza che gli antichi dèi possiedono una natura puramente metaforica. Utilmente Pellegrino mette l’accento sull’idea di Schlegel che una nuova mitologia possa e debba sorgere, allora, con tali valenze metaforiche, come un’operazione trascendentale, come un «pensare sé»9. La struttura semantica del discorso romantico si pone, pertanto, come un fatto estetico, ricco di poesia, di pensiero trascendentale metaforico e di mitologia. E l’estetica viene riconosciuta come la sede del mito, anche perché quest’ultimo appare «intimamente connesso alla produzione letteraria e infinitamente riproducibile anche nel Moderno»10. Come si può dedurre, si compie in questo periodo un notevolissimo passo in avanti nella rivalutazione del mito. È in questo clima che Hölderlin fa sì che l’antico trovi una via di penetrazione nell’attuale, teorizzando con forza il primato della mitologia. All’interno di tale primato culturale spunta la rilevanza gnoseologica del tragico e di figure come quelle di Dioniso e di Cristo, che al tragico appartengono totalmente. Puntualmente Pellegrino ricorda che, per Hölderlin, Dioniso e Cristo condivido- 41 42 no un destino di morte e resurrezione e, per questo, si pongono come straordinari paradigmi della condizione umana11. È lo stato di natura, incarnato sia da Dioniso che da Cristo, che, nella poesia di Hölderlin si mostra nella sua nuda verità. La saggezza tragica consiste nel fatto che l’Uno-tutto, pur essendo forte e totale, si manifesta nella debolezza, nel particolare, nella morte dell’individuo. Gli eroi tragici esprimono così la natura annientandosi. Hölderlin usa il topos, di ascendenza schilleriana, del mondo ormai abbandonato dagli dei e considera la modernità come una lunga e difficile notte cui, però, dovrà succedere un nuovo giorno12. Gli dei, infatti, nonostante siano fuggiti hanno lasciato all’uomo l’arte, il pane e il vino a garanzia del loro ritorno. Nella celebre lirica Pane e vino, il poeta tedesco canta qualche simbolico spiraglio di luce: il pane, frutto della terra, e il vino, dispensatore di gioia13. Ma, nel suo delirio doloroso e visionario, egli ritiene che Cristo, come Dioniso, debba morire per redimere gli oppressi e alla fine tornare al Padre, lasciando il cielo vuoto. Il dio che verrà è, invece, Dioniso. È forse anche questa assenza, ritenuta insopportabile, ad accompagnare il destino personale del poeta verso la follia. Nonostante tutto, Hölderlin aderisce ad una concezione ciclica della storia, ed è comunque certo che, al tempo giusto, gli dèi torneranno, finendo con l’influenzare fortemente filosofi del calibro di Heidegger. Orbene, sulla scorta del pensiero degli autori che precedono l’epoca in cui viviamo, dopo la novecentesca crisi della ragione, e per il fatto di avvertire l’inesausto meccanismo ciclico di avvicendamento della natura, anche oggi ci accorgiamo sempre più che il pensiero mitico, con le sue metamorfosi e con le sue oscillazioni, è una risposta per nulla trascurabile alle domande che la vita ci pone dinanzi. Siamo in presenza di una elaborazione culturale certamente simbolica e immaginifica, e lontana dalla forma euclidea e argomentativa della razionalità, ma ugualmente dotata di una capacità gnoseologica importante e funzionale. Tanto che, nel conflitto delle interpretazioni contemporanee sull’argomento, sottolinea Pellegrino, esemplare è la posizione di Horkheimer e Adorno, per i quali non si può negare che il sapere umano sia un «intrico di mito e illuminismo»14. È molto utile, poi, riconoscere che «tra il passato mitico e il presente razionale non interviene un salto drastico, ma si compie una specie di Aufhebung hegeliana di superamento e di integrazione, di contaminazione e di libera convivenza, sicché diventa arduo precisare le idee di antico e di moderno»15, sostiene Pellegrino. Pertanto, non solo possiamo considerare il mito come una forma di razionalità, ma possiamo giungere a comprendere il logos stesso come una forma eterna che traspare, così di sovente, dalle remote e dinamiche raffigurazioni del mito. Non meraviglia, allora, che i miti greci siano un patrimonio inestimabile, costantemente presente nella letteratura occidentale e dotato di funzioni destinate a perdurare nel tempo. È in quest’ottica che la serrata riflessione di taglio storico, filosofico ed estetico di Paolo Pellegrino giunge a rimarcare la presenza ineliminabile di Dioniso in vasti strati della nostra cultura, e a spiegare l’apologia che di questo dio costruisce Nietzsche. L’exploit ottocentesco de La nascita della tragedia di Nietzsche si basa sulla ripresa di un pensiero mitico e oracolare, all’interno del quale Dioniso, assieme ad Apollo, è figura centrale16. La nascita della tragedia, com’è noto, ruota NOTE interamente intorno all’idea che l’arte e il pensiero dell’Ellade siano imperniati su una radice duplice e complementare: lo spirito apollineo e quello dionisiaco, entrambi compresenti e in continua alternanza nelle diverse manifestazioni storiche. Senza dimenticare che la vita, per Nietzsche, che subisce l’influenza di Schopenhauer, è volontà di potenza, è desiderio di manifestare e aumentare tale potenza e, per questo, rimette in discussione ogni posizione dominante. Siffatta volontà di potenza, nota infatti Pellegrino, si incarna «in una figura del desiderio affermativo e traboccante, quella di Dioniso»17, producendo incontinenza delle passioni, trasgressione, estasi ed ebbrezza. Apollo interviene a ristabilire il sogno dopo le estreme sensazioni dell’ebbrezza, ma è soprattutto Dioniso ad esprimere l’eterno ritorno ciclico della vita, ossia della volontà di potenza. Per Nietzsche, Dioniso è il dio sempre rinascente che, mediante la consapevolezza del ritorno ciclico, toglie all’uomo la paura della morte e restituisce all’istante la dimensione dell’eternità18. Per contro, la speculazione del filosofo tedesco giunge, com’è risaputo, a teorizzare la morte di Dio, negando in sostanza valore di verità a Cristo. Eppure, secondo Pellegrino, proprio la sostituzione dialettica e la rivalutazione del dio dell’ebbrezza, cioè di un altro dio che muore e che ugualmente porta sulle spalle il destino dell’umanità, palesa, nell’opposizione, la prossimità analogica tra le due divinità, come già per Hölderlin e per Schelling19. Con il volume Il ritorno di Dioniso, la vicenda sempre risorgente di questo mito nella storia della civiltà occidentale trova un compendio sistematico, che rende conto non solo del lato culto della riproposizione, ma anche della sua presenza all’interno della tradizione popolare. Se la vicenda culta si specchia nel modello intellettuale offerto da Nietzsche e dal romanticismo, quella tradizionale e popolare trova il suo cardine nel fenomeno del tarantismo. Così lo studio di Pellegrino, mirato a svelare la figura di Dioniso nella sua molteplicità di significati, possiede quel coraggio raro che consente uno sguardo d’insieme davvero completo e soddisfacente. Nella rete di nessi e di significati che balzano evidenti dal volume, diviene più chiaro come il dionisismo, nelle sue diverse forme storiche e soprattutto come orfismo-dionisismo, abbia potuto manifestarsi anche nelle tradizioni popolari meridionali. Le analisi più recenti condotte sulla cultura del tarantismo correggono per molti versi la rotta già tracciata dall’illustre etnologo Ernesto De Martino ne La terra del rimorso 20, ugualmente diretta verso il dionisismo magnogreco ma incapace di comprenderne proprio la continuità storica di cui trattiamo e i simboli nella loro valenza estetica, mimetica e analogica. Le ricerche di Pellegrino, accanto a quelle di chi scrive compendiate nel volume Tarantismo e rinascita21, scoprono la pregnanza e la presenza sotterranea ma ininterrotta del dio dell’ebbrezza e della trance anche in questa cultura tradizionale fondata sulla iatromusica e sulla rinascita. Per entrambi gli autori il veicolo principale è rappresentato dalla religiosità orfica della Magna Grecia, e dei territori sottoposti alla sua influenza culturale, che nei riti musicali e nella vastissima ceramografia manifesta evidenti significati di rinascita. Non a caso Il ritorno di Dioniso nasce all’interno del progetto di ricerca “La memoria del tarantismo”, portato avanti dal Centro servizi educativi e culturali della Regione Puglia di Copertino e dal Centro interdipartimentale di studi di 43 44 estetica Eidos dell’Università degli Studi di Lecce. Paolo Pellegrino da anni condivide con lo scrivente non solo la ricerca sul tarantismo, ma anche la successiva operazione di spostamento dell’indagine sul fenomeno da una prospettiva etnologica ad una più corretta prospettiva estetica. I principali eventi rituali e terapeutici del tarantismo avvengono, infatti, all’interno, per mezzo e durante la musica e la danza. La cosiddetta pizzica pizzica, arcaica tarantella utilizzata come terapia musicale e coreutica, è un’opera d’arte tradizionale e funzionale che contempla atteggiamenti mimetici e analogici utili a portare all’inversione i ritmi psicologici degli adepti, favorendo la guarigione. Alla fine il mito della taranta e della musica che guarisce produce effetti reali, proprio come accadeva nelle danze e nelle musiche dionisiache. All’interno dello stesso progetto di ricerca poc’anzi menzionato, l’analisi dell’arte del tarantismo è argomento del recente volume dello scrivente L’estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo 22, che con Il ritorno di Dioniso si trova a costituire un’endiadi. L’analisi di Pellegrino, in particolare, mette allo scoperto alcune contraddizioni di De Martino, il quale, se per un verso delinea con forza la presenza dei culti orgiastici e dionisiaci nel tarantismo, per altro verso ne limita la portata collocando in epoca medioevale l’origine del fenomeno, considerandolo un frutto della miseria contadina, e isolandolo in una originale ma troppo angusta e superstiziosa “religione minore”. Secondo Pellegrino c’è una sorta di weberismo alla rovescia nella posizione di De Martino, il quale ultimo, così come Weber mette in luce i rapporti tra capitalismo ed etica del lavoro nel protestantesimo, tende a ridurre ingenuamente la questione meridionale alle superstizioni religiose e ai “relitti” dei sistemi mitico-rituali che fenomeni come il tarantismo portano con sé 23. Tra le più interessanti valutazioni critiche di Pellegrino vi è quella sul noto rapporto tra San Paolo e l’animale-totem detto taranta, che per De Martino è un innesto forzato, mentre per il nostro ha una sua logica storica incentrata sulla stessa figura culturale dell’Apostolo. A confortare l’inesistenza di soluzioni di continuità tra quest’ultimo e il fenomeno del tarantismo, Pellegrino analizza l’intrigante questione delle influenze orfiche, e quindi dionisiache, sul paolinismo studiata proprio dall’ex-suocero di De Martino, Vittorio Macchioro. I saggi di Macchioro, tra i quali gli ormai noti Zagreus: studi intorno all’orfismo e Orfismo e paolinismo, stranamente ignorati da De Martino, forniscono al contrario tutta una serie di giustificazioni teoriche e archeologiche alla questione24. Il Cristo di Paolo, che muore e risorge, possiede caratteri misteriosofici inconfondibilmente appartenenti all’orfismo e al dionisismo, filosofie di rinascita che l’Apostolo ha quasi certamente conosciuto durante la prima parte della sua vita, votata al paganesimo. D’altra parte l’archeologia contemporanea, va rilevato, e la ricerca di Macchioro, incalza l’estetologo, sempre più gettano luce sulla «presenza massiccia di religiosità misterica, e di pratiche rituali e riti funerari, in tutto l’ambito della Magna Grecia, segnatamente in Puglia»25, e in particolare proprio qui nel Salento, dove più forti sono le sopravvivenze della religione della taranta. Da non sottovalutare, infine, la rilevanza che per Pellegrino possiede il poeta egiziano Nonno di Panopoli e del suo capolavoro, il poema Dionisiache, noto a molti ma solo di recente parzialmente tradotto in Italia26. In questo travolgente “ritorno del dio”, Nonno tratteggia elementi rituali della passione di NOTE Dioniso e delle sue epifanie, quali la presenza della musica che guarisce eseguita con timpani, cembali, danze notturne, spade e specchi, elementi che incontriamo anche nel tarantismo. Ultimo grande poeta della letteratura greca, l’egiziano Nonno testimonia la sopravvivenza fino al V secolo d.C. di un sistema soteriologico analogo a quello cristiano. L’intreccio tra dionisismo e cristianesimo è più che mai evidente in Nonno, nota Pellegrino, ed è rafforzato dalla sua enigmatica successiva conversione alla nuova religione della salvezza27. Orbene, come abbiamo visto, la presenza di Dioniso non è un fatto meramente intellettuale né un frutto esclusivo della grande immaginazione poetica o teoretica di Nonno, Hölderlin, di Schelling e di Nietzsche, ma un bisogno dell’animo umano di esprimere la natura nella sua interezza ciclica e la speranza che attraverso tale ciclo, del tutto naturale, di morte e vita, malattia e salute, buio e luce, si possa pervenire alla rinascita continua. Se tutto avviene in modo duplice e complementare al tramonto dovrà sostituirsi necessariamente una nuova alba. A mio parere una simile vittoria sistematica della positività, un simile trionfo della vita, sul quale si basa la terapia musicale e coreutica del tarantismo, introduce la speranza, perché fa sì che, attraverso la stessa via ciclica della natura, l’uomo possa opporsi alla malattia devastante e all’annientamento definitivo. Il lavoro Il ritorno di Dioniso: il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale, dettagliato e in pari tempo efficacemente sintetico, giunge opportunamente a colmare un vuoto, in un periodo in cui anche in Francia le ricerche del sociologo e filosofo Michel Maffesoli teorizzano, già da qualche anno, il ritorno di questo mito, palpabile in quel reincanto del mondo, oggi sotto i nostri occhi con il riaffermarsi del mondo delle immagini, delle emozioni, degli atteggiamenti religiosi e del recupero della fantasia28. A ben guardare, nella letteratura filosofica del nostro passato più recente, ci dice Pellegrino, questo ritorno è stato presagito anche da Giorgio Colli che, nella sua Nota introduttiva a La nascita della tragedia di Nietzsche, già nel 1972 ha scritto che il fuoco acceso da Nietzsche, racchiuso nella duplice esaltazione dell’ebbrezza di Dioniso e del sogno di Apollo, è pronto a divampare in un incendio29. Anche i sommovimenti socioculturali e artistici, che intorno al Sessantotto e negli anni successivi hanno interessato la civiltà occidentale, non sono estranei ad un nuovo bisogno di natura, di mito, di emozioni, di apertura della sensibilità e di soddisfazione estetica. Possiamo compiendiarli nell’affermazione che fa Marcuse in un Frammento dagli appunti su À la recherche du temps perdu di Proust inserito nel saggio Che l’intollerabile esploda: inediti di Herbet Marcuse su arte e rivoluzione: «Quando la conoscenza viene posseduta dal piacere, essa si trasforma in una critica della normalità»30. L’estetica può offrire chiavi e strumenti davvero efficaci al pensiero contemporaneo. Una nuova sensibilità, ci ricorda Pellegrino, è proprio ciò che porta alla riscoperta e alla valorizzazione del mondo di Dioniso, e della forza vitale che questi reca con sé 31. Per altro verso, le tante forme di stravolgimento, anche irrazionale, della sobrietà quotidiana e del principium individuationis, come accade ad esempio nel triste fenomeno della droga, vengono esaminate come aspetti del nostro tempo da Elémire Zolla nella sua antologia dei moderni dionisiaci Il dio dell’ebbrezza 32. C’è, in definitiva, un bisogno di Dioniso nella postmodernità, quello stesso che Michel Maffesoli descrive nel 45 saggio L’ombre de Dionysos: contribution á une sociologie de l’orgie 33. Vengono così recuperati, in una sempre più diffusa ibridazione di passato e presente, l’aspetto incantato della realtà e la necessità di affrontare coraggiosamente l’ineliminabile presenza del tragico nella nostra vita. 46 1 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso. Il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale, Congedo, Galatina 2003. 2 H. BLUMENBERG, Elaborazione del mito, trad. it. di B. Argenton, Il Mulino, Bologna 1991. 3 AA.VV., Mito e tarantismo, a cura di P. Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce 2001. 4 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 55. 5 Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in F. HÖLDERLIN, Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996. 6 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 64. 7 Ivi, p. 68. 8 Ivi, p. 66. 9 Ivi, p. 67. 10 Ivi, p. 68. 11 Ivi, p. 69. 12 Ivi, p. 74. 13 F. HÖLDERLIN, Pane e vino, in ID., Poesie, saggio intr. e cura di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1963, p. 146. 14 Cfr. J. HABERMAS, L’intrico di mito e illuminismo. Osservazioni sulla Dialettica dell’illuminismo –dopo una rilettura, trad. it. di G. Pirola e A. Ponsetto, in ID., Dialettica della razionalizzazione, a cura di E. Agazzi, Unicopli, Milano 1983. 15 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 47. 16 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1972, p. XI. 17 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 98. 18 Ivi, p. 103. 19 Ivi, p. 105. 20 E. DE MARTINO, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961. 21 P. DE GIORGI, Tarantismo e rinascita, saggio intr. di P. Pellegrino, Argo, Lecce 1999. 22 P. DE GIORGI, L’estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo, Galatina 2004. 23 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 113; M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904), trad. it. di A.M. Marietti, Introd. di G. Galli, Rizzoli, Milano 1991. 24 V. MACCHIORO, Zagreus. Studi intorno all’orfismo, Laterza, Bari 1920; V. MACCHIORO, Orfismo e paolinismo. Studi e polemiche, Casa editrice cultura moderna, Montevarchi 1922. 25 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 148. 26 NONNO, Dionisiache, a cura di D. Del Corno, trad. it. di M. Maletta, note di F. Tissoni, voll. I e II, Adelphi 1999. 27 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 150. 28 M. MAFFESOLI, L’ombre de Dionysos: contribution à une sociologie de l’orgie, Le Livre de Poche, Paris 1991 (I ed. 1982), trad. it. di E. Scarpellini, L’ombra di Dioniso, presentazione di F. Alberoni, Garzanti, Milano 1990. 29 G. COLLI, Nota introduttiva a F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., p. XI. 30 H. MARCUSE, Frammento dagli appunti su À la recherche du temps perdu di Proust (1950), in Che l’intollerabile esploda. Inediti di Herbert Marcuse su arte e rivoluzione (1945-1979), a cura di G. Baratta e R. Casale, ne “L’Indice”, a. XVI (1999), n. 11, p. III. 31 P. PELLEGRINO, Il ritorno di Dioniso, cit., p. 98. 32 E. ZOLLA, Il dio dell’ebbrezza. Antologia dei moderni dionisici, Einaudi, Torino 1998. 33 M. MAFFESOLI, l’ombra di Dionisio, cit. DELEUZE LETTORE DI SPINOZA «Spinoza: è il filosofo assoluto, e l’Etica è il grande libro del concetto. Ma il filosofo più puro è al tempo stesso quello che s’indirizza rigorosamente a tutti: chiunque può leggere l’Etica, se si lascia trasportare a sufficienza da quel vento, quel fuoco»1. Con queste parole, nel 1988, Gilles Deleuze ritornava su uno dei suoi autori prediletti2. Il richiamo alla destinazione non filosofica della filosofia, contro l’opposta consuetudine di una non filosofia per filosofi, è un grande tema deleuziano, che trova nel pensatore olandese un precursore illustre. Spinoza, il razionalista più puro della storia del pensiero, l’autore di uno degli edifici concettuali più imponenti della modernità, è anche il filosofo dei non filosofi, il catalizzatore di aspettative e desideri che superano ogni confine disciplinare. Il fatto è che l’argomento e il fuoco dello spinozismo sono la vita stessa. Deleuze trova in Spinoza, nei pensieri del filosofo come nel corpo magro e sofferente dell’uomo, addirittura «una potenza identica alla Vita»3. Minato dalla malattia, esposto alla fortuna, Spinoza non nega certo la morte: nega piuttosto il culto o la passione della morte, l’idea che sia lei a dare senso alla vita e argomento al pensiero. La morte non è interessante: è quest’autentica eresia filosofica che nutre sia Spinoza che il suo interprete francese. Entrambi tentano l’impresa, impopolare e desueta, di togliere alla morte ogni fascino e ogni significato, per fare della vita l’oggetto esclusivo della filosofia. Non si parlerà, con ciò, di «vitalismo». Per Deleuze, la vita non è un principio o una sostanza, e ancor meno lo è per Spinoza. L’etica spinoziana, anzi, neppure riconosce al vivente uno statuto ontologico peculiare4. Il concetto di vita che Deleuze isola in Spinoza non è e non può essere biologico; come caratterizzarlo allora? Se non è una causa, in quanto non le compete una categoria propria, la vita è almeno un effetto. A partire da un’ontologia pura, concernente Dio e gli attributi, Spinoza approda senza soluzione di continuità a quel campo di effetti che è la vita del modo finito, intesa come ambito in cui si delineano le relazioni e si producono gli incontri tra gli individui. Ci si potrebbe domandare perché parlare qui di vita, anziché –ciò che eluderebbe in anticipo ogni possibile equivoco– semplicemente di «esistenza». Il punto è che Deleuze riferisce all’idea di vita una connotazione intensiva che nel concetto di esistenza manca. Vita è quel che, nell’esistente, si manifesta della sua propria essenza; è qualcosa come la faccia espressiva o la qualità pura dell’esistenza. «Vita» è un’espressione immediata dell’essenza. Il tema della vita, in Deleuze, costituisce quindi il filo conduttore per una lettura propriamente ontologica dello spinozismo5. NOTE di Delfo Cecchi 47 Deleuze è fortemente interessato all’ontologia, e appunto un’ontologia pura è ciò che trova in Spinoza. Per questa ragione, sebbene non priva di originalità, la lettura deleuziana non presenta alcuna esplicita finalità ermeneutica6: è nel cristallo perfetto della dottrina, piuttosto che nel significato culturale dell’opera, che essa ricerca il senso dello spinozismo. Per Deleuze, il valore di un filosofo si trova d’altronde nei suoi concetti e non altrove. In quanto segue, cercheremo dunque di non essere infedeli al compito di un’esposizione concettuale. «Espressione» 48 Parola-chiave del confronto di Deleuze con Spinoza, quest’idea rinvia, oltre che all’autore dell’Etica, alla filosofia di Leibniz. A parere di Deleuze, Spinoza e Leibniz sono i creatori di un vero e proprio «espressionismo in filosofia»7, il quale, oltre ad attestarsi come reazione critica al cartesianismo, pone le basi per un nuovo naturalismo filosofico. L’idea di espressione implica infatti che i vari aspetti della realtà costituiscano le manifestazioni di una natura comune, declinata in forme espressive omogenee. «Espressione» è quindi la forma in cui tutto ciò che è, a monte di ogni distinzione ulteriore, immediatamente si manifesta. Come Deleuze ci ricorda, quando Spinoza afferma che gli attributi sono ciò che l’intelletto coglie come costituente l’essenza della sostanza8 egli non intende dire che l’attributo «medi» la conoscenza della sostanza che appartiene all’intelletto, bensì, tutt’al contrario, che l’attributo è la forma in cui la sostanza si manifesta e l’intelletto immediatamente la intende così come essa è in se stessa. Dal punto di vista dell’espressione, l’intelletto e l’intelligibile hanno la stessa forma: la struttura di una cosa e il suo profilo in rapporto alla conoscenza sono identici. Soggetto e oggetto ricevono le loro determinazioni dal sistema comune dell’espressione, dal quale non possono essere separati. Sviluppandosi da questi presupposti, che implicano l’identità tra il piano dell’essere e il piano dell’espressione, l’«espressionismo filosofico» si presenta indubbiamente come una conoscenza di stampo metafisico; nel contesto spinoziano in cui Deleuze si muove, non avrebbe d’altronde alcun senso andare alla ricerca di atteggiamenti antimetafisici. Nella breve ricostruzione della storia del concetto di espressione che ci propone9, Deleuze mira piuttosto a indicare dei percorsi incompleti verso l’espressionismo (e dunque verso un saldo razionalismo). L’analisi di alcuni momenti cardinali della filosofia occidentale mostra come quest’ultima abbia prodotto, prima di Spinoza, un razionalismo solo parziale10, finalizzato all’edificazione di un ideale trascendente della razionalità piuttosto che all’elaborazione delle strutture di una ragione immanente. In questa prospettiva, il sistema della ragione si presenta inoltre come corredato di un prospetto assiologico e finalistico che, nello spinozismo, è del tutto assente. L’espressionismo filosofico è dunque una metafisica, ma una metafisica dell’immanenza. Ciò impone che la ragione sia un vero e proprio occhio interno all’essere, e che viceversa la realtà sia intelligibile fin nei suoi più intimi NOTE recessi. Spinoza non pretende certo di conoscere le cause di ogni evento11: suo interesse è semmai mostrare che le condizioni della produzione di qualcosa devono coincidere con le relative condizioni di conoscibilità; pensiero e produzione sono, in natura, omogenei e paralleli. In breve, l’espressionismo filosofico è possibile solo in quanto il pensiero sia un aspetto della natura, e in quanto l’ordine della natura sia l’oggetto immediato del pensiero12. La maniera più radicale di intendere ciò consiste nel pensare che le forme sotto cui le cose sono concepite siano le stesse forme entro cui sono prodotte. Perché l’espressionismo filosofico sia possibile, concetto, essenza, posizione e causalità devono dunque uniformarsi13: la ragione per cui una cosa è, ciò per cui essa è quel che è e la sua suscettibilità all’ordine della causazione devono cadere sotto una stessa idea. Questi passaggi hanno la loro radice ontologica nell’idea di una sostanza assolutamente infinita, le cui forme essenziali costituiscono in pari tempo le condizioni della conoscibilità delle cose e le condizioni ultime della loro produzione. Nello spinozismo, l’attributo svolge questo doppio ruolo: esso è ciò sotto cui qualcosa è concepito, ed è anche una struttura ultima della realtà. Lo spinozismo è la filosofia che, in modo del tutto originale, riallaccia il cordone arcaico della physis: «natura» nel senso di essenza o concetto e «natura» nel senso di pro-duzione sono un’unica cosa, natura rerum. Tale unità di significato si fonda sull’uguaglianza tra quelle che Deleuze chiama le due «metà» dell’assoluto14, la potenza del pensare e la potenza dell’esistere o agire15. È perché la sostanza soddisfa univocamente sia alla condizione della concepibilità per sé sia alla condizione dell’autocausazione che espressione e produzione si riflettono l’una nell’altra. Ogni metafisica è una filosofia dell’espressione, ma non ogni metafisica è un esempio di espressionismo filosofico, perché non ogni metafisica unifica le potenze di pensare e di agire, l’espressione e la produzione. In Platone, come Deleuze mostra, l’espressione compare come partecipazione o imitazione dell’Idea, ma l’Idea, il «partecipato», raggiunge il «partecipante» solo per intervento del Demiurgo, cioè in virtù di una causa esterna16. Questo significa che nella produzione è dato qualcosa che non è contemplato nell’espressione: la potenza di agire non coincide con la potenza di pensare. Per parte sua, il neoplatonismo fonda la metoché «nel partecipato come tale»17, che diviene però un principio: anziché causa prossima e idea matrice, l’Uno di Plotino è causa prima e origine ineffabile. Il concetto di espressione ha una lunga storia, ma questa storia è anche un travisamento, che impedisce la fondazione dell’espressionismo in filosofia. Esso rimane un ideale in seno alla tradizione platonica, e diviene addirittura un’icona18 nel creazionismo giudaico-cristiano, ove la «cultura dell’inesprimibile» rappresentata dalla Rivelazione e la «conoscenza confusa e relativa» offerta dalla profezia19 si sostituiscono alla chiarezza delle ragioni. La nuova veste della filosofia dell’espressione dev’essere dunque quella di un razionalismo conseguente. Resta il problema di come articolare questo razionalismo. Quello che si potrebbe ormai chiamare il principio dell’espressione richiede che la ragione di 49 una cosa e il suo essere siano tutt’uno. Sappiamo quindi che l’espressione deve poter assegnare tutte e sole le ragioni per cui qualcosa è, ma non sappiamo ancora come determinare queste ragioni: non conosciamo cioè la sintassi dell’espressione. Logica dell’assoluto 50 Deleuze osserva che il razionalismo di Spinoza sostituisce al tema dell’infinito il punto di vista dell’assoluto20. Questo mutamento di prospettiva implica un nuovo concetto di Dio e un argomento inedito a dimostrazione della sua esistenza21. A parere di Deleuze, tale argomento è solo formalmente debitore verso le prove ontologiche tradizionali. La prospettiva dell’Etica (a differenza di quella del Breve trattato22) è espressionistica: non si tratta di prendere le mosse da ciò che noi concepiamo (o crediamo di concepire) sotto il concetto di Dio, per dimostrare che quel qualcosa esiste; si tratta bensì di costruire il contenuto dell’idea di Dio secondo strutture comuni al pensiero esprimente e all’oggetto espresso, in maniera tale che l’esistenza di quest’ultimo risulti innegabile. L’idea di Dio nella mente dimostra l’esistenza di Dio solo se ciò che la mente pensa quando concepisce Dio è l’essenza reale di Dio, e non un insieme di proprietà come l’infinità o la perfezione, le quali potrebbero anche non costituire i predicati di alcun ente. Si tratta di mostrare che ciò che noi pensiamo sotto il concetto di Dio è un’essenza reale, la quale designa dunque la struttura di un ente esistente e non solo i propria di un ente postulato23. La prima dimostrazione spinoziana dell’esistenza di Dio consiste in sintesi nel mostrare che, l’essenza di Dio non potendo essere espressa se non da infiniti attributi24, e costituendo questi ultimi l’essenza della sostanza (alla quale appartiene di esistere25), Dio ha l’essere della sostanza, e dunque necessariamente esiste26. L’esistenza di Dio non è desunta dal fatto che esso è l’ente perfettissimo, ma viceversa dal fatto che le perfezioni riferite a Dio costituiscono non soltanto le proprietà di un ente assolutamente infinito, ma anche le strutture stesse della realtà27. In assenza di questo passaggio, resta del tutto impredicato se un ente infinito sia possibile, perché definire Dio in funzione di una natura perfetta o infinita non dimostra affatto che una tale natura non sia contraddittoria28. È interessante osservare, sulla scorta di Deleuze, il procedimento di Spinoza. L’identità tra i termini «Deus», «ens absolute infinitum» e «substantia constans infinitis attributis» è, in partenza, perfettamente nominale; a partire da questa convenzione terminologica si giunge tuttavia a dimostrare che la definizione di Dio è reale. Gli infiniti attributi che (da tutta prima e in maniera perfettamente teologica) eravamo disposti ad accordare a Dio si rivelano essere i costituenti reali di una sostanza attualmente esistente. Dietro l’apparenza di una concezione teologica, scopriamo un’ontologia pura, in cui si fa questione delle strutture comuni all’intera realtà e non delle proprietà di un ente superessenziale. Dio non è un oggetto trascendente, bensì è l’unità immanente delle nature esistenti: Dio è la totalità delle forme dell’essere. NOTE Qual è il rapporto tra assoluto e infinito in questa nuova logica? Il punto di vista dell’assoluto richiede di pensare che ogni forma della natura sia infinita, cioè che l’infinito sia la proprietà espressa dall’assoluto. L’infinito è il modo in cui l’assoluto si esprime, cioè è l’elemento ultimo dell’espressione. «Una certa essenza eterna ed infinita, un’essenza corrispondente al genere dell’attributo»29 è quanto è espresso da una forma della natura. Ciò che l’intelletto intende come costituente l’essenza della sostanza è una «qualità illimitata»30. Si tratta del terzo asserto della prima «triade della sostanza», secondo la dicitura impiegata da Deleuze nel suo libro spinoziano più importante: «La sostanza si esprime, gli attributi sono espressioni, l’essenza è espressa»31. La condizione prima dell’espressione è l’infinito, perché l’infinito è la qualità elementare della natura. Nulla che sia meno che infinito è necessariamente espresso, ovvero nulla che non sia infinito deve essere colto dall’intelletto come costituente la sostanza. L’infinità è la quantità propria della pura qualità, ossia la quantità che deve essere attribuita a tutto ciò che si presenta come forma ultima della natura. L’infinito è l’elemento dell’assoluto. Esso è la forma sotto cui un’essenza è conoscibile: nel caso di una cosa qualunque, qualche natura infinita è ciò attraverso cui essa è conosciuta; nel caso della conoscenza di Dio, la totalità delle nature infinite è anche ciò che costituisce l’essenza dell’oggetto conosciuto. Una cosa finita non ha per essenza una natura infinita, ma anch’essa si esplica attraverso qualche natura infinita. L’essenza di un ente qualunque non è costituita di attributi, ma gli attributi sono ciò senza di cui la sua essenza non potrebbe essere costituita. «Essere» vale espressione tanto per Dio quanto per una cosa finita, perché essere significa: implicazione di qualche natura infinita. Nel linguaggio di Deleuze: «essere, significa esprimersi, o esprimere, o essere espressi»32; l’espressione si chiarisce ora come implicazione dell’infinito. La differenza tra Dio e l’ente finito consiste in ciò, che quest’ultimo non ha quale essenza la natura che implica, mentre Dio sì. Tra Dio e i modi si tratta di una distinzione concernente non le nature, dal momento che le nature sono univoche, ma ciò che l’essenza significa in rapporto alle nature implicate. Questa più sofisticata distinzione conduce lo Spinoza di Deleuze più lontano che mai dalla teologia, senza però condannarlo a un monismo indifferenziato. Gli attributi costituiscono le «forme comuni» della realtà, le «forme di essere comuni alle creature e a Dio, comuni ai modi e alla sostanza»33, cioè le nature attraverso le quali ogni cosa, finita o infinita, si esplica34. Per Deleuze, laddove la tradizione giudaico-cristiana tende spontaneamente all’analogia entis, Spinoza tiene ben ferma l’univocità dell’ente35. La prospettiva dell’assoluto implica dunque, in sintesi, che l’infinito sia il carattere delle nature che costituiscono l’essenza della sostanza: Dio non è solo infinito, ma assolutamente infinito. Tuttavia, in quanto ogni attributo costituisce una natura di sostanza e una sostanza non è se non ciò che è conosciuto attraverso la sua natura, di ogni natura sembra doversi dare una sostanza, cioè sembra necessario che esistano tante sostanze quanti attributi. Si tratta della dottrina delle prime proposizioni de Deo. Esse definiscono, secondo Deleuze, una nuova logica della distinzione reale, che è il caso di ricostruire in dettaglio. 51 Espressione e distinzione 52 Cartesio afferma che la distinzione reale, la quale si dà «soltanto fra due o più sostanze», è riconoscibile «da ciò solo, che possiamo intendere chiaramente e distintamente l’una senza l’altra»36, cioè cogliere i loro «attributi principali» come reciprocamente escludentisi. La distinzione reale nonpertanto è una distinzione formale, la quale «basta per fare che una cosa sia concepita separatamente e distintamente da un’altra, per mezzo di un’astrazione dello spirito che concepisca la cosa imperfettamente, ma non per fare che due cose siano concepite talmente distinte e separate l’una dall’altra, che noi intendiamo che ognuna è un essere completo e differente da ogni altro»37. A tal fine, occorre una distinzione numerica: per Cartesio, «esistono distinzioni numeriche che sono allo stesso tempo reali o sostanziali»38, cioè la distinzione reale è «accompagnata da una divisione delle cose»39. Questa concezione salva i fenomeni, ma non ci consente di determinare a priori una sostanza, e quindi non dà ragione della molteplicità numerica degli esemplari. Che la sostanza non sia integralmente determinata in ragione della propria natura costituisce, in prospettiva spinoziana, una patente contraddizione al principio dell’espressione. Non a caso, Spinoza nega che la distinzione numerica sia reale. Due sono, al riguardo, gli argomenti dell’Etica isolati da Deleuze. Il primo40 mostra che la distinzione numerica non è reale perché è impossibile una distinzione reale che sia sottodeterminata rispetto alla natura di una cosa, in quanto si tratterebbe di una distinzione inintelligibile. Poiché due cose possono distinguersi o per differenza di attributi o per differenza di affezioni41, e poiché le sostanze devono distinguersi secondo ciò che costituisce la loro natura ossia secondo gli attributi, esse non possono essere distinte che così, cioè in particolare non può darsene più d’una per attributo42. Una distinzione reale è quindi di necessità (contro Cartesio) una distinzione formale; non sappiamo però ancora se una distinzione formale sia una distinzione reale. Per saperlo, dovremmo anche sapere che alla natura della sostanza appartiene di esistere. Il secondo argomento43 presuppone come nota questa conoscenza. Si sa che a essere espressa in una vera definizione è la sola natura della cosa, per cui nessuna definizione autentica dà a concepire «un certo numero di individui»: il numero non rientra mai nel concetto. Se una cosa che sia concepita per sé anche esiste per sé, essa esiste in virtù del proprio concetto, cioè non soltanto nulla che sia estraneo a questo compete alla sua natura, ma in più nulla di estraneo al concetto potrà essere affermato della cosa. Poiché una sostanza esiste per sé, essa esiste in ragione del proprio concetto; quindi, nessuna sostanza esiste in un certo numero, ma ve n’è soltanto una per ogni natura. La distinzione formale è una distinzione reale: esistono attualmente tante sostanze quante forme, cioè di ogni attributo vi è una e una sola sostanza. «Ora, a partire dalla proposizione 9, sembra che Spinoza cambi prospettiva. Non si tratta più di dimostrare che esiste una sola sostanza per attributo, ma che esiste una sola sostanza per tutti gli attributi»44. Il principio è che, se la NOTE distinzione numerica non è mai reale, «reciprocamente, la distinzione reale non è mai numerica»45. Poiché nessuna distinzione numerica è reale, una distinzione reale può solo essere formale. Viceversa, la distinzione formale è reale, perché, la sostanza esistendo per natura, le diverse forme sostanziali danno realmente luogo a una pluralità di sostanze. Allora, però, al di sotto delle nature sostanziali c’è una moltitudine di sostanze quanto a sé inconoscibili: se ciascuna è tale in virtù di una natura (e quindi di una ragione) diversa, il termine «sostanza» è equivoco, cioè le cose distinte dalle nature sostanziali sono solo gli esemplari di un genere comune46. Perché così non sia, la distinzione formale deve, pur restando reale, implicare l’unicità della sostanza. Posto che la distinzione reale non può essere che formale, la distinzione formale deve assumere il valore, che Deleuze trae da Duns Scoto47, di una «apprensione di quiddità distinte appartenenti però ad uno stesso soggetto»48. La distinzione reale distingue ancora le sostanze, ma, essendo formale, non può distinguerle altrimenti che distinguendo le forme della sostanza, le nature-di-sostanza o qualità sostanziali49. La distinzione reale distingue le sostanze nel senso che distingue tra ciò che è dell’ordine della sostanza (l’attributo) e ciò che non lo è (il modo). Deleuze interpreta l’oggetto della distinzione reale, l’attributo, non come esistente da sé, ma soltanto come ciò che «si concepisce per sé e in sé»50. Esiste dunque «una sostanza per attributo dal punto di vista della qualità, ma esiste un’unica sostanza per tutti gli attributi dal punto di vista della quantità»51. Esistono infinite nature sostanziali realmente distinte, le quali costituirebbero altrettante sostanze se ciò non implicasse la costitutiva indeterminazione imposta dalla diversificazione numerica. L’unica interpretazione possibile della distinzione reale-formale è pertanto quella che impone l’unicità della sostanza. Il carattere formale della distinzione reale mostra la profondità del razionalismo spinoziano. Spinoza intende perfettamente che, se la sostanza dev’essere integralmente conoscibile, è impossibile che le appartengano sia un aspetto numerico, sia la forma classica del sostrato. Le due evenienze sono connesse: se la sostanza fosse un sostrato, l’essenza non la costituirebbe realmente; ossia, il concetto di espressione non la esaurirebbe. Il principio dell’espressione impone al contrario la completa identità tra la ragione e l’essere: nessuna determinazione di una cosa può sfuggire alla ragione per cui essa è una cosa. La sostanza non è dunque un subiectum, e gli attributi non sono le sue differenze specifiche. L’attributo è un «attributore» piuttosto che un «attribuito»52: è ciò che attribuisce un’essenza, dice Deleuze, «a qualcos’altro»53. I primi due asserti della prima triade della sostanza sono dunque i seguenti: la sostanza si esprime, gli attributi sono espressioni. L’ordine degli asserti, così come Deleuze lo propone, considera la sostanza non dal punto di vista genetico della sua costruzione, ma dal punto di vista ontologico della sua composizione. Il terzo asserto, da noi già esaminato, ci mostra in che debba consistere un’essenza sostanziale; con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, tutti gli attributi si qualificano come espressioni dell’unica sostanza esistente. Poiché la distinzione numerica non è reale, l’essenza è una forma distinta, ossia è un’espressio- 53 ne autonoma; poiché la distinzione reale non è numerica, ogni espressione è autonomamente riferita a un solo oggetto. Porre l’attributo come espressione significa in ultimo affermare che l’espressione non è un segno, cioè che l’essenza non è un proprio. In questa duplice affermazione si riassume la distanza di Spinoza dalla teologia54. La prima triade della sostanza contiene tutti gli elementi per intendere la triade successiva55, che ne costituisce un approfondimento dal punto di vista della quantità. Come Deleuze osserva, «l’espressione non concerne la sostanza o l’attributo in generale in condizioni indeterminate; quando la sostanza è assolutamente infinita, quando possiede infiniti attributi, allora, e solo allora, gli attributi esprimono l’essenza, perché, allora, anche la sostanza si esprime negli attributi»56. Gli attributi sono espressioni della sostanza solo perché questa è assoluta, cioè solo in quanto esistono in numero infinito: nell’assoluto, l’unica divisione possibile è quella che dà luogo a un’infinità attuale di infiniti. Non si tratta solo di una infinità qualitativa, ma dell’infinito come quantità correlata all’assoluto. «L’infinitamente perfetto è la modalità di ogni attributo, ovvero il “proprio” di Dio. Ma la natura di Dio consta di infiniti attributi, cioè dell’assolutamente infinito»57. L’espressione culmina così in un nuovo aspetto dell’assoluto, che dobbiamo ora esaminare. 54 La potenza Il tema non nasce certo con Spinoza, ma Spinoza è tra i filosofi che rinnovano maggiormente il concetto di potenza. Deleuze riconosce nello spinozismo due potenze essenziali: il pensare e l’agire. È necessario non confondere la potenza di pensare di Dio con l’attributo pensiero, e la potenza dell’esistere o agire con l’attributo estensione58. La potenza dell’esistere-agire, secondo Deleuze, è infatti costituita dalla totalità degli attributi (pensiero compreso)59. Mentre il parallelismo tra pensiero ed estensione riguarda la relazione tra idee e corpi, il rapporto tra le potenze concerne la partecipazione di tutti gli attributi nella costituzione di cose. Una singola cosa è, in tal senso, una modificazione della potenza di agire che è propria di Dio, rifratta attraverso tutti gli attributi60. Le cose sono dunque veri e propri frammenti della potenza divina. A differenza di altre filosofie dell’immanenza, lo spinozismo radica la potenza dell’essere su un fondamento reale: l’essere è potenza non per una misteriosa autopoiesi, ma perché la realtà è sostanza, e per conseguenza ogni cosa è una parte della potenza di agire che appartiene a Dio. Altrimenti detto, l’ente è potenza proprio perché il modello della causalità è la causa sui 61. Dio è causa immediata di tutto ciò che è62: lungi dal negare la potenza delle cose, proprio questa tesi la avalla63. La realtà di una cosa è in se stessa potenza, sia nel senso che una cosa, esistendo, rivela la sua possibilità reale di essere, sia nel senso (ontologicamente speculare) che ogni cosa manifesta una intrinseca capacità di sussistenza e permanenza64. L’essenza non causa l’esistenza, ma afferma la realtà della cosa, cioè implica la potenza comportata dalla sua realtà. Le essenze delle cose esprimono la potenza in virtù di cui queste sono reali. NOTE L’essenza non è dunque una mera possibilità logica, ma una possibilità reale: la sola pertinente allo spinozismo65. Essa è indifferente all’esistenza, ma non alla realtà di una cosa, cioè alle condizioni a priori della sua esistenza. Si danno essenze di modi attualmente inesistenti66, le quali sono nondimeno perfettamente attuali o reali. Nell’interpretazione deleuziana, le essenze non esprimono in nessun senso una contingenza67: sebbene non implichi l’esistenza, l’essenza costituisce la configurazione espressiva o il «diagramma» di quella. L’essenza è il lato intensivo dell’esistenza. La sua astrattezza in rapporto all’esistenza fisica non è quella del possibile in rapporto al reale, ma quella dell’intenso in rapporto all’esteso, o dell’«implicato» in rapporto all’«esplicato». L’essenza è la vera vita dell’ente. A tal proposito, Deleuze focalizza una nozione spinoziana apparentemente marginale, ma essenziale all’espressionismo: quella della «capacità affettiva» di una cosa68. Esistere significa avere una qualche capacità di affezione, la quale esprime immediatamente la potenza che costituisce l’essenza della cosa esistente. La capacità affettiva è il «medio» tra essenza ed esistenza. Essa non esprime la vita affettiva del modo nella sua dimensione estensiva, cioè l’appartenenza dell’individuo a un mondo, bensì esprime questa stessa vita affettiva nel suo puro lato intensivo. La potenza del modo si «schematizza» in un certo grado di capacità affettiva, la quale costituisce dunque il risvolto implicato o espressivo di ciò che si esplica in forma estensiva nell’ambito dell’esistenza spaziotemporale. A ogni grado di capacità affettiva corrisponde una potenza perfettamente attuata, e in tal senso assoluta. Finita o infinita che sia, ogni cosa è perfetta, cioè capace di tutto ciò che è in suo potere. La formulazione deleuziana di questo principio è la seguente: «Ogni potenza reca con sé una capacità [pouvoir] di essere affetti che le corrisponde e che ne è inseparabile […] sempre e necessariamente colmata»69. La potenza è identica alla realtà ossia alla perfezione, in un senso che, dal punto di vista di Deleuze, sembra escludere una nozione proporzionale dell’ente: non tutte le potenze sono eguali, ma ciascuna potenza costituisce quanto a sé un valore assoluto70. Grazie all’eguaglianza delle due potenze (l’esistere-agire e il pensare) di Dio, la divisione dell’essere secondo la verità dell’idea e la divisione dell’essere secondo la realtà dell’essenza sono la stessa cosa. Ciò che si concepisce per sé e ciò che è causa di sé sono unum et idem, per cui l’espressione è sempre reale e la realtà è sempre espressa. Dio, esprimendosi, non può fare a meno di esprimere qualcosa di reale, ossia non può fare a meno di produrre, e non può produrre se non esprimendo ciò che produce. Come vedremo, il tema della potenza del pensare conduce a un’importante questione gnoseologica, perché, fatta salva l’uguaglianza delle potenze, Dio deve conoscere la propria espressione per produrre, ancorché l’intelletto non appartenga alla sua essenza71. Entrambe le potenze sono in Dio infinite. In particolare, che la potenza divina di agire sia infinita implica che infinita sia la capacità di essere affetto che è propria di Dio; e poiché ogni capacità d’affezione è sempre colmata, Dio è necessariamente affetto in un numero infinito di modi. Ma, dal momento che le 55 56 sue affezioni sono solo attive, ciò significa che «Dio produce necessariamente e attivamente infinite cose che l’affettano in un numero infinito di modi [façons]»72. Dio è producente perché infinite affezioni devono colmare la sua potenza infinita, e perché infinite affezioni implicano cose in numero infinito. La ragione per cui l’universo è costituito d’infinite cose o modi è che devono darsi in esso infinite modificazioni; e queste devono darsi affinché la potenza infinita di Dio sia assolutamente colmata73. Di qui deriva, secondo Deleuze, un nuovo argomento a sostegno della quantità infinita degli attributi. Se pensiero ed estensione, cioè le nature a noi note, «non bastano ad esaurire o a colmare una potenza assoluta di esistere»74, è perché due soli attributi non sono sufficienti a dare conto dell’infinita capacità di essere affetta che è propria della sostanza. Poiché «il modo è un’affezione di un attributo, la modificazione, un’affezione della sostanza»75, e poiché «i modi che differiscono secondo l’attributo formano una sola ed unica modificazione», un numero finito di attributi implicherebbe un numero finito di modi; ma da finiti modi non può derivare neppure una modificazione, e ancor meno l’infinità di modificazioni che è richiesta per colmare la potenza di esistere della sostanza. Deleuze così enuncia l’ultima triade della sostanza: «L’essenza della sostanza come potenza assolutamente infinita di esistere; la sostanza come ens realissimum esistente per sé; la capacità di essere affetti in infiniti modi, corrispondente a tale potenza, necessariamente colmata da affezioni di cui la sostanza è la causa attiva»76. La prima triade esponeva la struttura della sostanza, a partire dall’elaborazione della teoria dell’espressione. La seconda triade affermava l’assoluto come ragione dell’infinito, confermando ontologicamente i fondamenti dell’espressione. La terza triade determina l’identità di potenza e natura, deducendo la produzione dall’espressione. Questa deduzione segna il compimento del ciclo della sostanza e introduce all’universo dei modi77. Prima di volgerci a esso, è necessario sviluppare il precedente accenno al rapporto tra espressione e gnoseologia. L’idea espressiva La teoria spinoziana dell’idea prende le mosse da Cartesio, ma si discosta ben presto dal suo modello. Secondo lo Spinoza di Deleuze, Cartesio non si avvede che la natura dell’idea può essere intesa solo cogliendo la vera potenza del pensare. Ciò che fa difetto alla ratio cartesiana non è molto diverso da ciò che manca alla ragione classica: entrambe ignorano la nozione del pensiero come potenza, perché a entrambe rimane estraneo l’espressionismo filosofico. Cartesio e Spinoza sono accomunati da una concezione non intellettualistica dell’idea: idee non sono i soli concetti. La riduzione cartesiana dello spirito a pensiero, che segna l’ingresso della filosofia nella modernità, è pienamente approvata da Spinoza; non c’è una differenza di natura tra un concetto astratto, un affetto e una sensazione. Un’idea è, prima facie, semplicemente uno NOTE stato mentale. Le nostre rappresentazioni, nelle condizioni cui siamo esposti dal comune ordine della natura, sono idee confuse o inadeguate: conseguenze senza premessa, come dice Spinoza, oppure impressioni, tracce, segni che sono delle vere e proprie «grida», come dice Deleuze78. Che le nostre idee siano perlopiù inadeguate non implica però che esse siano come dei segni arbitrari79, perché un’idea non è mai disgiunta dall’affermazione (implicita o esplicita) di una causa reale per la presenza del suo oggetto80. Che l’ordine delle idee sia identico all’ordine delle cose deriva innanzi tutto dal fatto che l’ordine delle idee è identico all’ordine delle cause. Nulla di positivo è dunque dato in un’idea, perché essa sia falsa81: un’idea falsa significherebbe l’affermazione di una causa fittizia; ma una causa fittizia è in contraddizione con l’ordine della natura, e dunque o è oggetto di una finzione, o è riconducibile a un’idea inadeguata. Il falso è inefficace; non esiste una potenza del falso. Se esistesse un genio maligno, sarebbe il più impotente dei sovrani. Il falso non sta in piedi. Nulla che sia affermato in un’idea è dovuto al falso; sappiamo quindi che l’eventualità di un inganno trascendentale è illusoria, ma non sappiamo ancora se la scienza certa sia espressa dal pensiero. La nostra gnoseologia è sicura, ma la nostra epistemologia è ancor tutta da costruire. Intendiamo che l’intelletto possiede la facoltà di riconoscere il vero; ignoriamo però se e come possa produrre idee vere. Deleuze attribuisce a Spinoza il merito d’aver concepito un vero e proprio metodo di generazione delle idee, fondato sul concetto di idea adeguata. Quest’ultima non è semplicemente l’idea chiara e distinta, bensì è l’idea scientifica o «espressiva»82. L’esistenza di Dio non assicura la verità delle nostre idee, ma la possibilità dell’adeguatezza, ovvero della scienza83. L’esistenza di Dio fonda la completezza della nostra conoscenza. Il problema non è più gnoseologico, come in Cartesio, ma epistemologico: posta l’esistenza di Dio, l’intera realtà è deducibile attraverso una sequenza di idee necessariamente vere. Dio non è il garante della verità delle nostre rappresentazioni, ma il punto archimedeo dell’adeguatezza dei nostri concetti. Lo spinozismo implica un evidente primato del pensiero sulla coscienza, che secondo Deleuze significa un primato dell’adeguato sul chiaro-e-distinto. Il criterio cartesiano del chiaro e distinto consente di riconoscere il vero ma non di costruirlo, e per questo resta al di qua della potenza del pensiero84. La stessa idea di Dio, finché resta una mera traccia nella coscienza, non ci consente di fare illazioni sull’esistenza del suo oggetto. Viceversa, è solo perché la definizione di Dio è reale che noi possediamo l’idea di Dio nella mente. È il pensiero nel suo aspetto oggettivo a fondare le credenze contenute nella coscienza, le quali resterebbero altrimenti del tutto prive di significato. È l’adeguatezza dei nostri concetti a fondare la loro chiarezza e distinzione, e non viceversa. In tal senso, come il significato generale della lettura di Deleuze suggerisce, lo spinozismo non esprime alcun facile accesso a Dio. Spinoza non si limita a rinnovare profondamente la gnoseologia cartesiana, bensì imposta in modo del tutto originale il problema del rapporto tra idea e intelletto. L’idea di Dio è la prima espressione del pensiero: in quanto idea 57 58 matrice d’ogni altra idea, essa si esprime immediatamente nella forma del modo infinito dell’intendimento, ossia come intelletto infinito. Resta vero che all’essenza di Dio non appartiene l’intelligenza, ma la forma della potenza divina di pensare (l’idea di Dio) si esprime nell’attributo del pensiero come il modo che è proprio di questo (l’intelletto infinito). Dio, conoscendosi in un’idea, conosce tutte le proprie modificazioni, perché la conoscenza dell’idea implica la conoscenza di tutto ciò che accade nell’oggetto85. Dio conosce tutte le cose non per onniscienza, ma perché la forma intellettuale che dà accesso alla facies totius universi risulta attualmente costituita nell’attributo del pensiero. Con ciò, il mondo prodotto è raggiunto nel solo modo consono all’espressionismo filosofico: attraverso la dimostrazione della accessibilità della produzione dall’espressione. Si trattava di verificare se, assumendo l’antecedente (l’idea di Dio), il conseguente (l’universo empirico) potesse essere dedotto; il che è dimostrato dal fatto che ciò che sussume tutte le condizioni di produzione della realtà (l’intelletto infinito) è anche ciò che è necessariamente implicato da ciò cui l’idea di Dio inerisce (l’attributo del pensiero). Dio produce in quanto conosce, ma non produce perché conosce, bensì per una conseguenza correlata al conoscere; oppure si può anche dire che Dio produce «perché» conosce, con la postilla che ciò è vero unicamente in quanto la sua potenza di pensare, come Deleuze scrive, è di fatto condizionata dal solo attributo del pensiero86. Il nesso tra intelletto divino e produzione delle cose perde così ogni valenza teologica per acquistare il suo vero significato espressionista: Dio produce tutto ciò che dipende da una certa articolazione di sé semplicemente esprimendo tale articolazione. Esprimendosi in quanto sostanza infinita (prima articolazione), Dio si rappresenta in un’idea che è la matrice di tutte le idee (seconda articolazione); ma l’idea matrice è anche modo immediato del pensiero, cioè è intelletto infinito (terza articolazione), il quale sussume gli infiniti modi che compongono l’«aspetto dell’intero universo» (quarta articolazione)87. L’espressionismo di Spinoza è una teoria della accessibilità degli strati che compongono la realtà. Se uno strato è raggiungibile mediante una sequenza deduttiva, ciò cui esso apre è contemporaneamente prodotto e conosciuto. Si mostra la necessità del mondo prodotto semplicemente dimostrando che si può guadagnare, a partire dall’idea di Dio, l’accesso alla sfera della produzione. La conoscenza del prodotto –il fatto che si dia un’idea a partire dalla quale il prodotto è attinto– ci assicura che l’espressione è produzione, senza bisogno di mediazione alcuna. L’espressionismo filosofico è la negazione del concetto di mediazione. Se tutte le condizioni per la produzione del fenomeno sono date, la dimostrazione dell’attualità dell’idea che implica tali condizioni è quanto basta perché il fenomeno sia anche prodotto: nessuna causa ulteriore è richiesta. A questo titolo, la metafisica può essere ciò che aspira a essere: un’autentica filosofia della realtà. L’accesso dall’espressione alla produzione segna la deduzione del finito. Poiché Dio è causa immanente delle cose88 e in quanto ogni singola determinazione di una cosa dipende da Dio89, il finito cade completamente sotto l’espressione. Questo non è però tutto ciò che possiamo conoscere circa la finitezza. Spinoza non si limita a dimostrare che il finito cade sotto l’espressione, ma elabora i fondamenti dell’espressione nel finito. Il principio dell’espressione si specifica in forme distinte, senza perdere nulla della propria univocità. Resta vero che niente in natura sfugge all’espressione, ma da ciò non segue che tutto ciò che accade in natura sia direttamente e invariabilmente riferibile all’espressione. Le cose esprimono Dio, ma ciò non va sans dire. Le cose esprimono comunque Dio, e tuttavia solo sotto una certa condizione: è questo il principio dell’etica. L’etica si distingue dall’ontologia pura, se è lecito dire così, per il fatto che in essa le condizioni espressive non sono già date, ma devono essere raggiunte. Se le cose, esistendo, fossero nella condizione naturale contemplata dalla loro espressione, non ci sarebbe bisogno di alcuna etica. Per esempio, posto che il modo finito è sforzo costante verso il proprio potenziamento, e posto che questo potenziamento comporta la costituzione di un individuo il più possibile potente e razionale90, l’espressione imporrebbe, a partire dall’essenza modale, la creazione immediata della perfetta democrazia, la quale, secondo tutte le evidenze empiriche, è invero ancor di là da venire91. Il modo non «nasce» nelle sue condizioni espressive di base: la vita del modo non è da parte a parte espressiva. Nell’interpretazione deleuziana, la sfera dell’etica sembra rappresentare anzitutto il raggiungimento del primo livello ontologico che possa essere detto espressivo. Tutto ciò che è è determinato, ma non ogni determinazione è espressiva. Esiste una determinazione propriamente etica, ed è quella che concerne il raggiungimento, da parte degli individui, delle condizioni richieste per l’espressione. Il «comune ordine della natura»92 è un piano della realtà, ma non è un piano dell’espressione: nulla in esso è chiaro, nulla è esplicato. L’etica è lo sforzo di portare ordine in questa dimensione, in modo da ottenere il maggior numero di determinazioni espressive. Per questo, pur ritrosa alla meditatio mortis, l’etica spinoziana comprende una teoria assolutamente originale della morte: la nostra parte di eternità è la nostra parte espressiva. Con la morte, scrive icasticamente Deleuze, «siamo diventati totalmente espressivi»93, perché abbiamo perduto tutte le nostre note esistenziali, quelle che confondono od ostacolano la nostra espressione. La condizione della espressività del modo è l’attività. Per il modo, essere passivo significa implicare affezioni che non si esplicano attraverso la sua sola natura94, cioè non la esprimono: essere separato dalla propria potenza e quindi non libero. In breve, il modo finito ci fa scoprire che, seppure tutta l’espressione è determinazione e tutta la potenza è efficiente, esiste un ambito del determinato inespressivo o del potere «inefficace». Pur essendo tutto determinato, il modo non è tutto espressivo: ciò che non contraddice al principio d’espressione, il quale richiede soltanto che la natura di una cosa esprima NOTE Teoria del modo finito 59 60 necessariamente ogni possibile determinazione di questa, e non che, per converso, ogni determinazione di una cosa esprima necessariamente la natura di questa; qualche determinazione del modo può quindi, senza contraddizione, non esprimere ciò che appartiene alla natura dello stesso95. Anche il modo finito possiede dunque triadi nell’espressione96. Le essenze dei modi sono parti della potenza divina97, cioè quanta di intensità in cui si ripartiscono le qualità illimitate rappresentate dagli attributi98. A ciascun grado di potenza è associato un rapporto caratteristico99, che realizza nell’estensione una capacità determinata di affezione. Quando un’essenza viene sussunta da un rapporto, il modo a essa corrispondente si costituisce come individuo esistente: Deleuze ricorda che è il rapporto, e non l’essenza, a determinare l’esistenza del modo, perché le leggi di composizione dei rapporti non sono deducibili dalle essenze. Tuttavia, poiché un modo esistente non avrebbe potuto costruirsi secondo un rapporto diverso da quello in cui si costruisce, la relazione tra essenza e rapporto non è contingente. L’essenza non implica il rapporto, ragion per cui l’essenza del modo non involge l’esistenza; nondimeno, stante il determinismo universale, un certo rapporto è anche l’unico possibile per una certa essenza. La trasformazione del rapporto comporta infatti il passaggio a un nuovo individuo, o viceversa lo smembramento del vecchio100. Esterno all’espressione del modo è solo l’ordine degli incontri, cioè il «comune ordine della natura» entro cui hanno luogo le sue determinazioni fortuite. La casualità degli incontri fa sì che l’ordine in cui i corpi si relazionano possa non essere quello in cui i loro rapporti si compongono101: altrimenti, ogni incontro sarebbe un incontro felice, una simbiosi, un motivo di potenziamento vitale. Poiché, invece, non tutti gli incontri esprimono una composizione di rapporti, esistono determinazioni inespressive o spurie, le quali producono tra gli individui alchimie nocive o nefaste. In prospettiva deleuziana, l’etica è in ultima analisi la scienza generale della costruzione dei rapporti, finalizzata a rendere il maggior numero di determinazioni isomorfo all’ordine espressivo delle ragioni102. L’assenza di isomorfismo tra ragioni e determinazioni impone al modo una ininterrotta sperimentazione affettiva. La vita del modo è in tal senso una «prova», non però morale, bensì «fisico-chimica»103. Esistere significa selezionare affetti, discernere tra i buoni e i cattivi incontri, tra le occasioni di potenziamento e le congiunture dannose, fermo restando che il Bene e il Male sono soltanto nomi vuoti, contrassegni della peggiore ignoranza104. Lo Spinoza di Deleuze è apertamente materialista, immoralista, ateo105: la coscienza è l’illusione di una causa finale delle determinazioni materiali106; l’essere sta al di là del bene e del male107; Dio non trascende il mondo. La vera eredità dello spinozismo è l’immoralismo nietzscheano108, altra grande filosofia della selezione e della sperimentazione. Da che cosa si riconosce lo spinozismo? Gilles Deleuze non era un pensatore poetante postmoderno, ma uno strano tipo di filosofo «classico», amante dei princìpi e dei concetti. Le monografie NOTE deleuziane sono scritte con una nettezza quasi barbarica: pochi autori hanno saputo trasmettere, attraverso le loro opere, un così grande amore per la vita interna del concetto e per la sua scabra oggettività. Anche per questo, le riflessioni fin qui condotte possono essere ora riordinate, senza alcuna pretesa di completezza, a partire dalla categoria dello «spinozismo», per come essa occupa il discorso e le intenzioni di Deleuze. Lo spinozismo ci insegna anzitutto che un’ontologia pura è una filosofia dell’immanenza assoluta. Il problema non è di scegliere tra un’ontologia immanentista, ancorata al sensibile e al finito, e un’ontologia che riconosca l’esistenza di oggetti trascendenti: né l’una né l’altra opzione è spinoziana. Il problema è semmai che, dal punto di vista dell’immanenza, la realtà è un concetto assoluto, rispetto al quale ogni mediazione è una falsa espressione. L’immanenza è una critica all’idea di mediazione, un attacco anticipato alla dialettica: lo Spinoza di Deleuze è il filosofo dell’immediatezza, della genesi statica, del movimento sul posto. Da questo punto di vista, niente sembra meno spinoziano dell’incipit della Logica hegeliana, che defrauda l’ente a nulla per riscattarlo solo nel divenire. Lo spinozismo è una delle più conseguenti filosofie dell’immanenza anche perché ignora il tema, tanto platonico quanto cristiano quanto hegeliano (in breve: occidentale), del «parricidio» ontologico. Per nessun pensatore meno che per Spinoza vale l’idea –che ha in sé tutti i germi della dialettica, della secolarizzazione, dello storicismo– di un’origine abbagliante e ineffabile oppure astratta e vuota, precocemente tradita o inesorabilmente mediata. Di qui l’eccezionalità di Spinoza nella cultura, o, per il suoi detrattori, il suo irenismo. Ciò conduce a una seconda nozione, quella di potenza. Secondo Deleuze, lo spinozismo indica l’esistenza di una potenza propriamente ontologica: l’essere è potenza. Per dimostrarlo, occorre però far vedere che la causa sui è il modello di ogni causalità, ossia che Dio è causa immanente e non transitiva delle cose e che Dio causa così com’è. Senza di ciò, la potenza sarebbe solo l’intuizione indimostrata di una physis abissale. Come parlare di una genesi intrinseca alla realtà al di fuori del fondamento dato da una sostanza attualmente sussistente? In mancanza della dimostrazione dell’esistenza di Dio –che non significa se non questo, che la Natura è l’Assoluto– l’autopoiesi dell’essere resta un mito metafisico tra gli altri. Lo spinozismo sembra consistere, in terzo luogo, in un realismo estremo. Ciò significa che debbono valere due princìpi: quello della realtà intrinseca della causa e quello della verità intrinseca dell’idea. Una causa fittizia non può essere realmente affermata; ossia, una tale affermazione sarebbe contraddittoria rispetto alla necessità che ogni effetto dipenda da una causa. Se l’idea potesse esprimere il falso, saremmo in presenza nientemeno che di una naturae eversio109. Pertanto, il falso è improduttivo; è impossibile essere certi del falso, perché ciò significherebbe che in natura si dà qualche falsità. La possibilità di una rappresentazione positivamente scorretta della natura è negata dalla struttura stessa di questa. In quarto luogo, lo spinozismo rappresenta un essenzialismo radicalmente antiplatonico110. L’essenza non è un modello ideale, bensì un nocciolo di real- 61 62 tà costituito in seno alla potenza di Dio. Le essenze dei modi sono le forme ritagliate entro la potenza divina di agire. L’implicazione della realtà è quindi immediata, anche se tale non è l’implicazione dell’esistenza temporale111, la quale comporta, scrive Deleuze, una «posizione estrinseca» (ma non per questo esterna) rispetto agli attributi112. Un quinto aspetto è il carattere pratico dello spinozismo. Nella misura in cui l’esistenza del modo implica determinazioni inespressive, essa non può non assumere un carattere sperimentale. Il modo non è tutto espressivo non perché trascenda l’espressione, ma perché la sua appartenenza all’espressione è sottoposta a condizioni peculiari; altrimenti, la virtù del modo (la vita secondo ragione) sarebbe una conseguenza immediata della sua essenza. Così non è non perché il modo fuoriesca dall’ordo geometricus, ma perché la sua esistenza conosce l’ordine estrinseco dei rapporti. L’esistenza del modo è simile al destino di una figura geometrica tracciata sulla carta: la storia del suo supporto cartaceo, esposto all’usura del tempo, non la riguarda meno dei teoremi ai quali essa deve il proprio essere. L’etica è la consapevolezza di questa «doppia vita» del modo finito, divisa tra l’ordine esplicito delle ragioni espressive e l’ordine muto dei segni inespressivi. L’ultimo aspetto dello spinozismo potrebbe essere definito il suo carattere semiotico. Deleuze legge in Spinoza una semiotica originale della realtà: «se siamo spinozisti», egli scrive, «non definiremo alcunché né secondo la sua forma, né in base ai suoi organi e alle sue funzioni, né in quanto sostanza o soggetto»113. Tracceremo invece una sorta di mappa affettiva: ponendo su un asse gli specifici rapporti di moto e quiete dell’oggetto e, sull’altro asse, gli affetti corrispondenti. Deleuze ha sviluppato in proprio questo metodo, interessandosi alla possibilità di costruire un «piano di immanenza» dell’essere sia sfruttando alcune acquisizioni dello strutturalismo114, sia rinnovando profondamente le ragioni del naturalismo. La Natura come individuo115 e la filosofia come espressione di un «Grande Vivente»116 sono state le premesse ideali del suo lavoro, perfettamente individuabili anche nel suo grande predecessore olandese. G. DELEUZE, Pourparlers, Minuit, Paris 1990, p. 191. Il più importante libro spinoziano di Deleuze è Spinoza et le problème de l’expression, Minuit, Paris 1968; tr. it. di S. Ansaldi: Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata 1999 (d’ora in poi indicato come SPE), già tesi di dottorato complementare dell’Autore. L’altra monografia deleuziana dedicata al filosofo dell’Etica è Spinoza. Philosophie pratique, Minuit, Paris 1981; tr. it. di M. Senaldi: Spinoza. Filosofia pratica, Guerini, Milano 1991 (di qui in avanti: SPhP). I numeri dopo le sigle indicano le pagine dei testi originali di Deleuze; i numeri in parentesi indicano le pagine delle traduzioni italiane. Le opere di Spinoza sono citate dagli Opera, a cura di Carl Gebhardt (contrassegnati nel testo dalla sigla G, seguita da una cifra romana che indica il numero del volume e da una cifra araba che indica la pagina). Le versioni italiane delle opere di Spinoza vengono citate in parentesi, secondo i contrassegni seguenti: CM = Pensieri metafisici (Cogitata metaphysica), a cura di E. Scribano, Laterza, Roma-Bari 1990; E = Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (Ethica ordine geometrico demonstrata), a cura di S. Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Ep. = Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1951; KV = Breve trat1 2 NOTE tato su Dio, l’uomo e il suo bene (Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand), a cura di F. Mignini, Japadre, L’Aquila 1986; PPhC = Principi della filosofia di Cartesio (Principia philosophiae cartesianae), cura e luogo come CM; TIE = Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Tractatus de intellectus emendatione), a cura di E. de Angelis, Boringhieri, Torino 1962; TP = Trattato politico (Tractatus politicus), a cura di L. Pezzillo, Laterza, Roma-Bari 1995?; TTP = Trattato teologico-politico (Tractatus theologico-politicus), a cura di A. Dini, Rusconi, Milano 1999. I numeri arabi che compaiono dopo le sigle delle traduzioni citate indicano le pagine; nel caso della versione italiana dell’Etica, anziché il numero di pagina viene indicato il luogo di riferimento, secondo le seguenti convenzioni: a = assioma; c = corollario; d = definizione; dim = dimostrazione; p = proposizione; ps = postulato; sc = scolio. Un esempio di citazione è: E 1 p 8 sc 2 = secondo scolio della proposizione 8 della prima parte. 3 La descrizione di Deleuze merita d’essere letta per intero: «Questa vita frugale e senza proprietà, minacciata dalla malattia, questo corpo magro, debole, questo viso ovale e bruno con due sorprendenti occhi neri –come spiegare l’impressione che danno di essere percorsi dalla Vita stessa, di avere una potenza identica alla Vita? In tutto il suo modo di vivere come di pensare Spinoza eleva un’immagine di vita positiva, affermativa, contro i simulacri di cui gli uomini si accontentano. Non solo se ne contentano: ma l’uomo che ha in odio la vita, che se ne vergogna, l’uomo dell’autodistruzione che moltiplica i culti della morte, che fonda la sacra unione del tiranno con lo schiavo, il prete, il giudice e il guerriero, sono sempre impegnati a perseguitare la vita, a mutilarla, a farla morire a fuoco rapido o lento, a mascherarla o a soffocarla con leggi, proprietà, doveri, autorità: ecco ciò che Spinoza diagnostica nel mondo, questo tradimento dell’universo e dell’uomo»: SPhP, 20-21 (21-22). 4 Un’articolata discussione del tema è svolta da R. BOUVERESSE, Spinoza et Leibniz. L’idée d’animisme universel, Vrin, Paris 1992. 5 In Spinoza, scrive Deleuze, «la Vita, ossia l’espressività, è portata nell’assoluto»: SPE, 70 (60). Cfr. anche SPE 87 (77): «L’espressione è, in Dio, la vita stessa di Dio». 6 Osserva M. SENALDI, Scholium, SPhP (165): «Si eviterà di parlare di un’interpretazione particolarmente “forte” del testo, di un’ermeneutica deleuziana di Spinoza. Mentre potremmo parlare di uno Spinoza hegeliano, o gentiliano, non esiste un’immagine deleuziana di Spinoza […]. Il problema resta quello di creare libri spinozisti, o leibniziani, o nietzscheani, o anche cinematografici, anziché libri su questo o quel pensatore o argomento». 7 Il problema dei rapporti tra Spinoza e Leibniz esula dagli obiettivi del presente scritto. Basti qui citare la seguente affermazione di Deleuze: quali che siano «le differenze fra Leibniz e Spinoza, in particolare nell’interpretazione dell’espressione, è un dato di fatto che entrambi utilizzano questo concetto per superare quel che considerano l’insufficienza o la facilità del cartesianesimo e per restaurare l’esigenza di una ragion sufficiente che operi nell’assoluto. Questo non significa che ritornino al di qua di Cartesio: vi sono risultati del cartesianesimo che non possono più essere messi in discussione: ad esempio, le proprietà dell’infinitamente perfetto, della quantità di realtà, del chiaro e del distinto, del meccanicismo ecc. Spinoza e Leibniz sono postcartesiani nello stesso senso in cui Fichte, Schelling e Hegel sono postkantiani: devono raggiungere il fondamento da cui derivano tutte le proprietà precedentemente enumerate, riscoprire un assoluto che sia all’altezza del “relativismo” cartesiano»: SPE, 302 (255-256). 8 Cfr. G II, 45 (E 1 d 4). L’interpretazione deleuziana dell’attributo è, sin dall’inizio, radicalmente oggettivista: cfr. SPE, 14 (13). 9 SPE, 153-169 (133-146). 10 Osserva M. MESSERI, L’epistemologia di Spinoza. Saggio sui corpi e le menti, il Saggiatore, Milano 1990, pp. 45-46: «La scienza naturale degli antichi è […], secondo Spinoza, ingiustificatamente poco ambiziosa. Questa scienza si propone spiegazioni dimostrative per alcuni generi di fatti, ma lascia altri fatti nella situazione logica di una mera necessità condizionale: essa si costituisce sulla base del presupposto che non tutto possa essere dimostrato. Spiegazione causale e spiegazione dimostrativa restano al suo interno separate. La scienza di Spinoza si costituisce, invece, muovendo dalla certezza della completa dimostrabilità di ogni fatto». 11 Cfr. G IV, 166 (Ep. XXX, 164). 12 Cfr. G IV, 173-174 (Ep. XXXII, 170). 13 Cfr. in proposito G I, 237-238 (CM, 118-119). 14 SPE, 103 (92). 63 Cfr. G II, 89 (E 2 p 7 c). SPE, 153 (133). 17 SPE, 154 (133). 18 Deleuze sottolinea il carattere icastico (ossia non espressivo) del segno: «La Scrittura è sì la parola di Dio, ma una parola che è comandamento: essendo imperativa, non esprime nulla, perché non permette di conoscere nessun attributo divino»: SPE, 48 (42). Sul nesso tra profezia, segno e immaginazione cfr. segnatamente G III, 28 (TTP, 97). 19 SPE, 165 (143). 20 In SPE, 69 (60) si parla esplicitamente di «logica dell’assoluto». 21 Deleuze distingue talora tra assoluto e infinito, talaltra (in maniera equivalente) tra l’assolutamente infinito e l’infinitamente perfetto. Secondo Deleuze, gli argomenti di Spinoza a dimostrazione dell’esistenza di Dio sono in parte ascrivibili al tema tradizionale dell’«infinitamente perfetto», che resta tuttavia subordinato «alla posizione preliminare dell’assolutamente infinito»: cfr. SPE, 66 (57). 22 Scrive recisamente Deleuze in SPE, 66 (57): «La prova ontologica, così come si trova all’inizio del Breve Trattato, non serve assolutamente a nulla». 23 «Finché non si pone una definizione reale, che poggi sull’essenza di una cosa e non su propri (propria), si resta nell’ambito arbitrario di ciò che è semplicemente concepito ed è privo di qualsiasi relazione con la realtà della cosa quale è fuori dell’intelletto»: SPE, 63 (55). 24 G II, 52 (E 1 p 10 sc). 25 G II, 49 (E 1 p 7). 26 G II, 52 (E 1 p 11). 27 Cfr. M. GUEROULT, Spinoza, I, Dieu (Ethique, I), Aubier-Montaigne, Paris 1968, p. 160: «È impossibile conferire come attributi a una sostanza realtà che non siano concepite esse stesse come sostanze. Altrimenti detto, gli attributi che dobbiamo riconoscere alla sostanza infinitamente infinita non possono essere altri da quelli che sono stati fino a qui dedotti come sostanze a un solo attributo». 28 «Riguardo all’ente che ha la proprietà razionale di essere infinitamente perfetto, la domanda rimane sempre la stessa: è possibile?» (SPE, 62 (54)). Cartesio ritiene erroneamente «che la concezione chiara e distinta del proprio [la perfezione di Dio] sia sufficiente per garantire la possibilità della natura corrispondente» (SPE, 62 (53)). Viceversa, per Spinoza, «l’infinitamente perfetto è solo un proprio. Tale proprietà non ci fa conoscere nulla della natura dell’ente al quale appartiene, e non è sufficiente a dimostrare che questo ente non implichi contraddizione». 29 SPE, 9 (9). 30 SPE, 37 (32). «Vi sono due modi per riconoscere un attributo: o si ricercano a priori le qualità che si concepiscono come illimitate, oppure, partendo da ciò che è limitato, si ricercano a posteriori le qualità che possono essere portate all’infinito, cioè le qualità “implicate” nei limiti del finito. Così, da questo o quel pensiero, arriviamo fino al pensiero come attributo infinito di Dio; da questo o quel corpo, all’estensione come attributo infinito». Per i due metodi, Deleuze rinvia rispettivamente a E 2 p 1 sc e a E 2 p 1 dim. 31 SPE, 21 (19). 32 SPE, 232 (198). 33 SPE, 37 (33). 34 «Gli attributi sono per Spinoza forme di essere univoche, che non cambiano natura cambiando “soggetto”, vale a dire predicandoli dell’ente infinito o degli enti finiti, della sostanza e dei modi, di Dio e delle creature»: SPE, 40 (35). 35 Il lavoro di P. DI VONA, Studi sull’ontologia di Spinoza, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1960 e 1969, esprime (in maniera completamente autonoma) posizioni teoriche opposte a quelle deleuziane, sulle quali anche per questo è interessante soffermarsi. Secondo Di Vona, «in Spinoza non c’è un concetto dell’ente comune a Dio e alle sue conseguenze» (I, p. 252). Il genere di analogia che si dà tra l’ente in quanto predicato di Dio e in quanto predicato delle «creature» è per Di Vona in primo luogo di attribuzione estrinseca. In questo tipo di attribuzione, la stessa entità deriva alle creature, «senza nulla presupporre», dall’essenza divina (cfr. II, p. 19). Di Vona ritiene infatti che sia Spinoza che Cartesio (I, p. 254) –quest’ultimo, in particolare, in ragione dell’idea della creazione continua– si oppongano alla dottrina suareziana dell’ente analogo per attribuzione intrinseca (I, p. 224). 15 16 64 NOTE 36 RENÉ DESCARTES, I princìpi della filosofia, a cura di P. Cristofolini, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 101. 37 ID., Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, a cura di A. Tilgher, Laterza, Bari 1954, pp. 123-124. Il brano fa parte delle Prime Risposte, indirizzate a Caterus. 38 SPE, 24 (21). 39 SPE, 25 (22). 40 G II, 48 (E 1 p 5). 41 G II, 47 (E 1 p 4). 42 Cfr. GUEROULT, Spinoza, I, Dieu, cit., p. 119. 43 G II, 49 sgg. (E 1 p 8 sc 2). 44 SPE, 27 (24). 45 «Il problema diventa più chiaro se consideriamo che, per passare da una tematica all’altra, basta effettuare quello che in logica si chiama la conversione di una universale negativa»: SPE, 27 (25). La conversione è un’inferenza che si ottiene scambiando tra loro il soggetto e il predicato di una proposizione; nel caso della conversione di un’universale negativa, da «nessun S è P» deriva quindi che «nessun P è S» (cfr. I. M. COPI, Introduction to Logic, 1961?; tr. it. di M. Stringa: Introduzione alla logica, il Mulino, Bologna 1964, pp. 172-174). 46 «Se dividessimo la sostanza conformemente agli attributi, bisognerebbe considerare la sostanza come un genere, e gli attributi come differenze specifiche. La sostanza sarebbe un genere che non ci permetterebbe di conoscere nulla di particolare; sarebbe allora distinta dai suoi attributi, come il genere dalle sue differenze, e gli attributi sarebbero distinti dalle sostanze corrispondenti, come le differenze specifiche e le specie. Facendo della distinzione reale fra attributi una distinzione numerica fra sostanze, introduciamo nella realtà sostanziale semplici distinzioni di ragione»: SPE, 29 (26). 47 Non nascondendo l’azzardo del richiamo: cfr. SPE, 57, nota (49, nota). 48 SPE, 54 (47). 49 Secondo S. SPORTELLI, Potenza e desiderio nella filosofia di Spinoza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 43, «un’interpretazione di questo tipo riduce però la sostanza –potendo conoscerne solo le qualità– a qualcosa che in se stesso è inconoscibile». 50 SPE, 33 (29). Cfr. G IV, 7 (Ep. II, 39); G I, 24 e nota (KV, 147 e nota) e G I, 29 (KV, 157). F. ALQUIÉ, Le rationalisme de Spinoza, 1981; tr. it. di M. Ravera: Il razionalismo di Spinoza, Mursia, Milano 1987, p. 76 contesta a Deleuze questa lettura, richiamando G I, 116 (KV, 353): «All’essenza di ogni sostanza l’esistenza appartiene per natura». «È vero che Spinoza», scrive Alquié, «nell’appendice del Breve Trattato usa il termine sostanza per designare ciò che altrove chiama attributo; ma l’equivalenza dei due termini è totale, e proprio agli attributi Spinoza conferisce l’esistenza per sé». 51 SPE, 30 (27). 52 SPE, 36 (32). 53 SPE, 34 (30). 54 Cfr. SPE, 48 (41): «Mai si è andati così a fondo nella distinzione di due ambiti: la rivelazione e l’espressione. Come anche nella distinzione di due relazioni eterogenee: quella del segno e del significato, dell’espressione e di ciò che è espresso. Il segno si riferisce sempre ad un proprio; significa sempre un comandamento e fonda la nostra obbedienza. L’espressione concerne sempre un attributo; esprime un’essenza, vale a dire una natura all’infinito, e ce la fa conoscere». 55 Questa la sua formulazione per esteso: «1) Tutte le forme dell’ente sono uguali e ugualmente perfette, non c’è ineguaglianza di perfezione tra gli attributi; 2) ogni forma è dunque illimitata, ogni attributo esprime un’essenza infinita; 3) tutte le forme appartengono ad una sola ed unica sostanza, tutti gli attributi si dicono, senza limitazione alcuna, di una sostanza assolutamente infinita»: SPE, 70-71 (61). 56 SPE, 15-16 (14). 57 SPE, 60 (52). 58 «Come l’attributo dell’estensione non si confonde con la potenza di esistere, così l’attributo del pensiero non si confonde di diritto con la potenza di pensare»: SPE, 106 (94). 59 «L’attributo del pensiero sta alla potenza di pensare come tutti gli attributi (compreso il pensiero) stanno alla potenza di esistere e di agire»: SPE, 107 (95). 60 «I modi di attributi diversi non solo hanno lo stesso ordine e la stessa connessione, ma anche lo stesso essere; si tratta delle stesse cose che si distinguono solo attraverso l’attributo di 65 66 cui esse implicano il concetto. I modi di attributi diversi costituiscono una sola e unica modificazione che si differenzia solo secondo l’attributo»: SPE, 96 (85). 61 Cfr. SPhP, 78 (73): «Spinoza rovescia doppiamente la tradizione: poiché causa efficiente non è più il senso primario di causa, e poiché non è più causa di sé quella che si predica in un senso differente da quello di causa efficiente, ma è la causa efficiente che si predica nel medesimo senso della causa di sé». 62 «Una cosa esistente rinvia a un’altra cosa finita come causa. Ma si eviterà di dire che una cosa finita è sottoposta a una doppia causalità, l’una orizzontale costituita dalla serie indefinita delle altre cose, l’altra verticale costituita da Dio. Infatti in ogni termine della serie si è rinviati a Dio come a colui che determina la causa ad avere il suo effetto. Così Dio non è mai causa remota, ma è dedotto dal primo termine della regressione. E non vi è che Dio che sia causa, non vi è che un solo senso e una sola modalità per tutte le figure della causalità, benché queste stesse figure siano diverse […]. Presa nel suo senso unico e nella sua sola modalità, la causa è essenzialmente immanente: vale a dire, dimora in sé per produrre (in opposizione alla causa transitiva), e l’effetto non esce minimamente da essa (in opposizione alla causa emanativa)»: SPhP, 78-79 (73). 63 Deleuze ricorda il testo di G III, 276-277 (TP, 8-9): le cose naturali «hanno bisogno, per cominciare ad esistere, della stessa potenza che per continuare ad esistere. Dalla qual cosa segue che la potenza delle cose naturali, per la quale esse esistono e di conseguenza agiscono, non può essere altra che la stessa potenza eterna di Dio. […] Poiché Dio ha diritto su tutte le cose, e il diritto di Dio altro non è che la stessa potenza di Dio, in quanto venga considerata assolutamente libera, da ciò segue che ciascuna cosa naturale ha dalla natura tanto diritto quanta potenza ha di vivere e agire: poiché la potenza di ciascuna cosa naturale, per la quale esiste e agisce, non è altro che la stessa potenza di Dio che è assolutamente libera». «Per un certo verso», scrive Deleuze, «si potrebbe pensare che il testo intenda togliere ogni potenza che spetta alle creature. Così non è. Lo spinozismo nel suo insieme è concorde nel riconoscere agli enti finiti una potenza di esistere, di agire e di perseverare; e il contesto del Trattato politico sottolinea che le cose hanno una loro potenza, identica alla loro essenza e costitutiva del loro “diritto”. Spinoza non intende sostenere che un ente che non esiste per sé non ha potenza; vuol dire invece che ha una sua potenza solo se è parte di un tutto, ossia parte della potenza di un ente che esiste per sé»: SPE, 80 (70). Cfr. anche G I, 157 (PPhC, 29) e G I, 266 (CM, 160). 64 G II, 146 (E 3 p 7). 65 Cfr. SPE, 78 (68): «L’esistenza possibile (nell’essenza) è altro dalla “possibilità”, proprio perché l’essenza è potenza». 66 G II, 90 (E 2 p 8). 67 DI VONA, Studi sull’ontologia di Spinoza, cit., II, p. 131 ritiene invece «innegabile che, quando sia veduta dal lato dell’essenza, anche per Spinoza la contingenza è reale». L’Autore interpreta «il contingente spinoziano» come «il concetto obbiettivo di qualcosa, il quale astrae dall’esistenza in atto e dalla sua negazione, ed i cui predicati non implicano contraddizione» (II, p. 187). 68 I testi che Deleuze richiama a proposito di questa nozione sono quelli in cui Spinoza definisce il corpo come «atto» a qualcosa: cfr. G II, 97 (E 2 p 13 sc); G II, 139-140 (E 3 pss 1-2); G II, 304 (E 5 p 39). 69 SPE, 82 (72). 70 Di segno opposto è, di nuovo, l’interpretazione di DI VONA, Studi sull’ontologia di Spinoza, cit., I, p. 205, secondo cui la dottrina spinoziana della identità tra realtà e perfezione implica una teoria della analogia di proporzionalità della res. «Il concetto di “res” non è identico in Dio e negli altri esseri in modo assoluto, né in modo assoluto è uno. Ma è identico ed è uno “proportionaliter”. Pertanto, esso è un concetto analogo. L’analogia di proporzionalità esprime la verità fondamentale del concetto di “res”, in Spinoza, perché Dio e ogni altro ente ha la realtà, l’esse e l’esistenza che competono alla sua essenza». 71 G II, 63 (E 1 p 17 sc). 72 SPE, 90 (80). 73 «La sostanza […] non può essere una potenza assolutamente infinita di esistere senza che sia colmata, da infinite cose in infiniti modi [modes], la capacità di essere affetta che corrisponde a tale potenza»: SPE, 84 (73). 74 SPE, 104 (92). Cfr. G I, 17, nota (KV, 135, nota 8). SPE, 98 (86). SPE, 84 (73). 77 Deleuze ricava dall’ultima triade della sostanza una triade modale introduttiva («attributomodo-modificazione»): SPE, 98 (87). 78 Cfr. G. DELEUZE, Critique et clinique, 1993; tr. it. di A. Panaro: Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, p. 185: «I segni o affetti sono delle idee inadeguate e delle passioni […]. Il genere di conoscenza da essi costituito è a malapena una conoscenza; è piuttosto un’esperienza in cui si ritrovano in maniera casuale delle idee confuse di mescolamenti fra corpi, degli imperativi bruti di evitare la tale commistione e di cercarne un’altra, e delle interpretazioni più o meno deliranti di queste situazioni. È un linguaggio materiale affettivo piuttosto che una forma d’espressione, che assomiglia alle grida più che al discorso del concetto». 79 MESSERI, L’epistemologia di Spinoza, cit., pp. 15 e 195, interpreta la gnoseologia spinoziana in funzione del paradigma, direttamente anticartesiano, della semiotica naturale. 80 G II, 89 (E 2 p 7 dim). 81 G II, 116 (E 2 p 33). 82 Cfr. SPE, 118 (104) e SPE, 136 (119): «L’idea adeguata è l’idea che esprime la propria causa e che si spiega attraverso la nostra potenza. L’idea inadeguata è invece l’idea inespressiva e non spiegata: l’impressione che non è ancora un’espressione, l’indicazione che non è ancora una spiegazione». 83 Cfr. in particolare G II, 36 (TIE, 83): Dio è causa non della verità, ma piuttosto della sistematicità delle nostre conoscenze. Conoscendo Dio, «la nostra mente […] riprodurrà la natura nella misura massima: infatti ne avrà oggettivamente l’essenza, l’ordine e l’unione». Cfr. inoltre G I, 148149 (PPhC, 20): «Noi non possiamo essere certi di alcuna cosa non –per essere precisi– fintantoché ignoriamo l’esistenza di Dio […], ma fintantoché non abbiamo di Dio un’idea chiara e distinta». 84 «La dottrina della verità di Spinoza è inseparabile dalla polemica, diretta o indiretta che sia, contro la teoria cartesiana. Considerati in sé, il chiaro e il distinto ci consentono al massimo di riconoscere un’idea vera che abbiamo, vale a dire quel che di positivo c’è in un’idea ancora inadeguata. Formare un’idea adeguata ci porta però al di là del chiaro e del distinto. In sé, l’idea chiara e distinta non costituisce una vera e propria conoscenza, così come non contiene la propria ragione: il chiaro e il distinto hanno la loro ragion sufficiente solo nell’adeguato, l’idea chiara e distinta forma una conoscenza vera solo se deriva da un’idea in se stessa adeguata»: SPE, 137 (120). 85 G II, 92 (E 2 p 9 c). 86 «Non pare esserci, qui, nessuna contraddizione, ma soltanto un fatto estremo. […] “Il fatto è” che nessun attributo è sufficiente per colmare la potenza di esistere: qualcosa può esistere e agire, senza essere né esteso né pensante. Al contrario, tranne attraverso il pensiero, niente può essere conosciuto; la potenza di pensare e di conoscere è effettivamente colmata dall’attributo del pensiero»: SPE, 107 (94). 87 Non è raro che Deleuze, dopo l’incontro con Félix Guattari, paragoni Spinoza a Louis Hjelmslev. In che modo il filosofo dell’Etica e il padre della glossematica possano essere confrontati ci sembra poter essere chiarito nel modo seguente. Deleuze e Guattari mettono in relazione la struttura della sostanza di Spinoza con la concezione biplanare del segno, che prevede una bipartizione tra espressione e contenuto, a propria volta distinti secondo la forma e secondo la sostanza. Ci pare che alle quattro articolazioni della sostanza di Spinoza elencate nel testo potrebbero corrispondere questi concetti di Hjelmslev: alla prima (l’attributo e, quindi, la substantia constans infinitis attributis) corrisponderebbe la forma dell’espressione, alla seconda (l’idea di Dio) la sostanza dell’espressione, alla terza (il modo infinito immediato) la forma del contenuto e alla quarta (la facies totius universi) la sostanza del contenuto. 88 G II, 63 (E 1 p 18). 89 G II, 68 (E 1 p 26). 90 Cfr. G II, 233 (E 4 p 35 c 2). 91 M. HARDT, Gilles Deleuze. An Apprenticeship in Philosophy, 1993; tr. it. di E. De Medio: Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, a-change, Milano 2000, p. 161 mostra che il problema politico non soltanto appartiene alla filosofia di Spinoza, come è immediatamente ovvio, ma soprattutto possiede in essa un’espressione ontologica, alla quale si associano specifiche forme modali: «Se accettiamo l’interpretazione deleuziana del parallelismo, dobbiamo scoprire una nozione comune corporea che serve a organizzare gli incontri casuali, inadeguati e per lo 75 NOTE 76 67 68 più tristi dei corpi sociali in incontri coerenti, adeguati e gioiosi, proprio come la nozione comune intellettuale costituisce le idee adeguate (ragione) sulla base delle idee inadeguate (immaginazione). Spinto ai suoi limiti concettuali, il parallelismo ontologico significa che la costituzione della conoscenza, la costituzione intellettuale della comunità, deve essere uguagliata e integrata da una sua costituzione corporea. Alla nozione comune corporea, al corpo sociale adeguato, è data forma materiale nella moltitudine». Il riferimento esplicito è ad A. NEGRI, L’anomalia selvaggia, 1981; ora in ID., Spinoza, DeriveApprodi, Roma 1998. Scrive l’Autore: «Alcuni interpreti colgono la centralità del lavoro politico di Spinoza: ma è la sua centralità ontologica, dico ontologica, che va fatta risaltare» (p. 123). Negri coglie in Spinoza una «fenomenologia della prassi costitutiva» il cui orizzonte è la collettività, la multitudo (p. 48). Proprio perché immediatamente ontologiche, le nozioni di multitudo e di costituzione sottraggono Spinoza all’idealismo della tradizione della filosofia politica: «In ciò è il carattere rivoluzionario del suo pensiero: nell’esprimere assolutamente nella costituzione un rapporto sociale produttivo, la produttività dei bisogni naturali, e tutto ciò come egemone rispetto al politico, –nel sussumere assolutamente qualunque astratta funzione di dominio sotto la positività dell’espressione del bisogno di felicità e di libertà. La distruzione di ogni autonomia del politico e l’affermazione dell’egemonia e dell’autonomia dei bisogni collettivi delle masse: in questo consiste la straordinaria modernità della spinoziana costituzione politica del reale» (p. 253). 92 Cfr. G II, 114 (E 2 p 29 c). 93 SPE, 294 (248). «In noi non vi è più nulla di “implicato” o di “indicato”». 94 G II, 139 (E 3 d 2). 95 È il tema della corrispondenza con Guglielmo di Blyenberg. Cfr. in particolare G IV, 147 (Ep. XXIII, 148): «Affermo dunque […] che Dio è assolutamente la causa di tutte le cose che hanno un’essenza, qualunque esse siano. E se voi potete dimostrarmi che, per esempio, il male, l’errore, il delitto, ecc., sono alcunché che esprime un’essenza, io vi ammetto interamente che Dio è la causa del delitto, del male, dell’errore, ecc. Mi pare di avervi sufficientemente mostrato che ciò che costituisce la forma del male, dell’errore e del delitto non consiste in alcunché che esprima un’essenza, e che non si può dire, per conseguenza, che Dio ne è la causa». 96 Deleuze ne individua due: la prima (SPE, 191 (163)) comprende l’essenza, il rapporto caratteristico e le parti estensive; la seconda (SPE, 197 (169)) concerne essenza, capacità di affezione, affezione. 97 G II, 213 (E 4 p 4 dim). 98 «Gli attributi sono qualità eterne ed infinite, dunque indivisibili. L’estensione è indivisibile, come qualità sostanziale o attributo. Ogni attributo, come qualità, è indivisibile. Ma ogni attributoqualità possiede una quantità infinita, che è anch’essa, a certe condizioni, divisibile [qui, elle, est divisible sous certaines conditiones]. Tale quantità infinita di un attributo forma una materia, ma una materia che è soltanto modale. Un attributo si divide quindi modalmente e non realmente. Possiede parti che si distinguono modalmente: parti che sono modali e che non sono sostanziali. […] Abbiamo a che fare con parti di potenza, ossia con parti intrinseche ed intensive, veri e propri gradi di potenza o di intensità. Le essenze dei modi si definiscono infatti come gradi di potenza»: SPE, 173 (149). 99 «Ogni corpo ha delle parti, “un gran numero di parti”; ma queste parti non gli appartengono che sotto un certo rapporto (di moto o di quiete) che lo caratterizza. La situazione è assai complessa, poiché i corpi composti hanno delle parti di ordine differente che entrano sotto dei rapporti essi stessi variati; questi rapporti variati si compongono fra loro per costituire il rapporto caratteristico o dominante dell’individuo considerato a questo o a quel certo livello»: SPhP, 46-47 (45). 100 Cfr. SPhP, 47 (46): «Ciò accade quando questo rapporto, che è esso stesso una verità eterna, non si trova più effettuato da parti attuali. Ciò che è scomparso non è affatto il rapporto, eternamente vero, sono le parti fra le quali esso si era stabilito, e che hanno assunto ora un altro rapporto». 101 Cfr. SPhP, 48 (47). 102 Il problema del male è, eminentemente, un problema di anisomorfismo rispetto all’espressione: «Dal punto di vista della natura o di Dio, vi sono sempre dei rapporti che si compongono, e non vi è nient’altro che rapporti che si compongono secondo delle leggi eterne. Ogni volta che un’idea è adeguata, essa coglie almeno due corpi, il mio e un altro, sotto quell’aspetto secondo cui essi compongono i loro rapporti (“nozione comune”). Al contrario, non vi è alcuna idea adeguata dei corpi discordanti, del corpo che discorda con il mio, in quanto discordante. È in questo senso NOTE che il male, o piuttosto il malvagio, non esiste che nell’idea inadeguata e nelle affezioni di tristezza che ne derivano (odio, collera, ecc.)»: SPhP, 52-53 (50-51). Cfr. G II, 259 (E 4 p 64). 103 SPhP, 58 (55). 104 Non esistono il Bene e il Male, ma solo il buono e il cattivo: «Sarà detto buono ogni oggetto il cui rapporto si componga con il mio (concordanza); sarà detto cattivo ogni oggetto il cui rapporto decomponga il mio, salvo poi comporsi con altri (discordanza)»: SPhP, 48 (47). Cfr. G II, 239 (E 4 p 39). 105 SPhP, 28, 33, 37 (28, 33, 36). 106 «La coscienza è naturalmente il luogo di un’illusione. La sua natura è tale che essa raccoglie degli effetti, ignorando le cause. […] Siamo in una situazione tale che afferriamo solamente “ciò che accade” al nostro corpo, “ciò che accade” alla nostra anima, cioè l’effetto di un corpo sul nostro, l’effetto di un’idea sulla nostra. Ma ciò che è il nostro corpo sotto il suo proprio rapporto, e la nostra anima sotto il suo proprio rapporto, e gli altri corpi e le altre anime o idee sotto i loro rispettivi rapporti, e le regole secondo le quali tutti questi rapporti si compongono o si decompongono –di tutto questo noi non sappiamo nulla all’interno dell’ordine dato della nostra conoscenza e della nostra coscienza. […] La coscienza è soltanto un sogno ad occhi aperti»: SPhP, 29-31 (29-31). 107 SPhP, 45 (44). 108 Cfr. SPhP, 27 e 33 (27 e 32). 109 Sul tema, declinato in altra prospettiva, cfr. R. BORDOLI, Baruch Spinoza: etica e ontologia. Note sulle nozioni di sostanza, di essenza e di esistenza nell’Ethica, Guerini, Milano 1996, pp. 93-110. 110 Ci sembra che questa dicitura possa definire anche la filosofia originale di Deleuze, per come essa emerge soprattutto in Differenza e ripetizione (1969). Il termine «essenzialismo» può creare qualche perplessità solo rispetto a una linea di pensiero dalla quale Deleuze si è sempre tenuto piuttosto distante, quella esistenzialista, finitista ed ermeneutica. Uno degli sforzi teoretici di Deleuze sembra invece consistere proprio nel conferire un nuovo significato alla nozione di essenza: la sua è, per intero, una filosofia dell’intrinseco contro l’estrinseco, dell’immediato contro il mediato, dell’oggetto contro il soggetto, dell’intensivo contro l’estensivo. Da un capo all’altro della storia del pensiero, dagli Stoici a Leibniz, da Spinoza a Bergson a Proust, Deleuze ha cercato le ragioni di un naturalismo assoluto, indifferente verso ogni mediazione, sia essa la storia, la morale, il soggetto, la cultura; in tal senso parliamo qui di essenzialismo, seppure di suo genere. 111 Cfr. G II, 91 (E 2 p 8 c). 112 Cfr. SPhP, 103 (83): «L’esistenza del modo è dunque la sua stessa essenza, in quanto essa non è più solamente contenuta nell’attributo, ma dato che essa dura e possiede un’infinità di parti estensive, posizione modale estrinseca». 113 SPhP, 171 (157). 114 Il testo di riferimento è a tal proposito anzitutto l’articolo di Deleuze compreso in AA.VV., Histoire de la philosophie. Idées, Doctrines, vol. 8 – Le XX siècle, a cura di F. Châtelet, 1973; tr. it. di L. Sosio: Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in AA.VV., Storia della filosofia, vol. VIII. La filosofia del XX secolo, Rizzoli, Milano 1976, pp. 194-217. 115 Cfr. SPhP, 164 (151). 116 SPhP, 10 (12). 69 I due testi che sono seguono, di Angela Ales Bello e di Bruno Callieri, costituiscono due relazioni svolte presso il Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche, a Roma, sul libro di Bianca Maria d’Ippolito. PSICOPATOLOGIA FILOSOFIA POESIA IN LUDWIG BINSWANGER di Angela Ales Bello 70 Non è mai esauribile il compito di ripensare il rapporto fra malattia mentale, pensiero razionale ed espressione poetica. Bianca Maria d’Ippolito ha affrontato di nuovo questa tematica con risultati veramente convincenti, sollecitandoci a ripercorrere, da un punto di vista storico e teoretico, gran parte della cultura del Novecento e lo fa anche con uno stile personale ed affascinante. Il suo libro La cattedrale sommersa – Fenomenologia e psicopatologia in Ludwig Binswanger, Franco Angeli, Milano 2004. si presenta ricco d’immagini e raffinato nel linguaggio che spesso assume un andamento lirico, nonostante l’estremo rigore concettuale. Già sulla copertina un particolare del quadro di Claude Monet, Scogliera ad Etretat, 1883, propone drammaticamente il contenuto del testo la cui chiave d’accesso è rappresentata dall’indagine sulla malattia mentale. Vorrei aggiungere un’altra immagine alle molte che si trovano nel corso della scrittura per tentare di rendere la complessità della ricerca dell’Autrice –anche traduttrice dell’opera di Binswanger La psichiatria come scienza dell’uomo (1992)– sul contributo offerto dallo psichiatra svizzero alla descrizione e comprensione delle patologie psichiche. Si tratta di un fascio di cerchi concentrici che, mobili, si toccano e si intersecano raffigurando i pensatori che di volta in volta hanno attraversato più o meno direttamente il cammino speculativo dello psichiatra, ma si potrebbe dire anche del filosofo, Binswanger. E su questi cerchi sono iscritti i nomi più illustri della cultura austriaca e tedesca dei primi decenni del Novecento, da Freud, a Husserl e a Heidegger, ma anche Dilthey e Buber, Hofmannsthal e Rilke, quindi psicoanalisti, filosofi e poeti che gli consentirono di intessere una trama teorica capace di “catturare” il senso dei disturbi mentali. D’altra parte, l’immagine del cerchio può essere anche usata per illustrare il tipo ricerca condotta dall’Autrice, la quale procede, a sua volta, per cerchi concettuali che si allargano, quasi che fossero provocati da un sasso gettato nell’acqua; essi scendono in profondità e costituiscono nel loro insieme, visti in superficie, ad un occhio attento che sappia porli relazione, una mappa in cui, alla fine, ognuno di essi trova il suo posto: il tempo, lo spazio, il mondo, la poesia, il delirio, temi affrontati e ripresi con successivi approfondimenti nel corso del libro che rende ragione di ciascuno di essi. NOTE Desidero fermarmi su questi due aspetti dell’indagine di Bianca Maria d’Ippolito che sono, a loro volta, interconnessi. Il primo cerchio, relativo ai pensatori, è rappresentato dall’incontro con Freud, maestro di Binswanger e collega di Husserl alla scuola di Franz Brentano. Certamente da Freud il giovane psicopatologo impara la teoria e la tecnica necessaria per capire e curare la malattia mentale e dal filosofo Husserl impara ad esplorare le pieghe più riposte della dimensione psichica dell’essere umano. Brentano, Freud e Husserl costituiscono il terreno sul quale si fonda l’interpretazione biswangeriana della malattia mentale, ma ci si potrebbe chiedere come mai non gli basti la tecnica freudiana. In realtà la prima parte del libro di Bianca Maria d’Ippolito è dedicata ad un’analisi approfondita proprio della posizione di Freud, non riducibile, secondo l’Autrice, all’interpretazione superficiale che di lui è data correntemente, essa in realtà è ricca di spunti largamente antropologici, quelli che aprirono a Binswanger la via verso l’indagine sulla struttura dell’essere umano. Scrive d’Ippolito: “Come medico, Freud incontra una domanda che è quella della malattia. Ma Freud si chiede che cosa significa la malattia, e in ciò si attesta la natura filosofia della sua indagine. Al di là di ciò che è stato considerato come il ‘naturalismo’ di Freud, la malattia è stata per lui una via –o la via– per esplorare il territorio umano” (p. 19). Proprio per rispondere a tale domanda Binswanger si rivolge prima a Husserl e poi a Heidegger. Tra le righe, ma non tanto, d’Ippolito propone, da filosofa, la sua lettura acuta e pertinente dei due fenomenologi, lettura che ella mette in relazione con la ricezione che lo psicopatologo Binswanger fa delle loro analisi. Si tratta sempre del terreno già individuato da Freud, terreno antico, ma analizzato con occhi nuovi, il terreno dell’“anima”: “A Vienna, Freud e Husserl furono allievi di Brentano. Per quanto la visione eidetica e l’analisi della coscienza appaiano rivolti ad una dimensione polarmente opposta all’inconscio freudiano, la comune radice aristotelica nella comprensione dell’‘anima’ riveste un’importanza decisiva in entrambe le dottrine. A sua volta Heidegger non si sottrae al confronto con Aristotele, e la sua concezione del tempo deve all’antico filosofo il proprio abbrivio nel concetto di ekstatikon” (p. 53). Il comune denominatore è, quindi, l’attività dell’anima ed è qui che si incontrano e si scontrano i pensatori citati; ognuno pone in evidenza un aspetto, tutti collaborano al chiarimento. E Binswanger utilizza questi risultati per una duplice finalità, quella di spiegare la malattia e quella di comprendere l’essere umano, in cui la malattia si manifesta, sia nella sua singolarità sia nell’universalità delle sue strutture, in ciò consistono la “prima” e “seconda” lettura: “La vicenda di Irma, nella presentazione di Binswanger, lascia vedere in filigrana, sotto l’ortodossa versione psicoanalitica una seconda scrittura che più tardi porterà a chiarezza teorica” (p. 52). Il cammino, ci dice l’Autrice, si delinea attraverso l’idea husserliana dei nuclei eidetici operanti nella costituzione di corpo e psiche, ed il concetto heideggeriano di “esistenza”, tutto questo per delineare il mondo del malato e per porlo in relazione agli altri mondi Il senso dell’umano emerge proprio attraverso questi confronti. Le alterazioni patologiche presenti nei mondi dei malati –e così entriamo nella descrizione della seconda immagine dei cerchi– rimandano alla costitu- 71 72 zione del “mondo” inteso, in senso husserliano, come quell’ampio territorio interiore in cui si riflette tutta la realtà quoad nos, quasi monade leibniziana, alla quale non a caso Husserl si riferisce. È il reciproco scambio fra i mondi che rende possibile la comprensione reciproca e in particolare l’incontro fra il terapeuta e il paziente. Ed è proprio il tema dell’incontro che, nonostante il debito di Binswanger nei confronti di Freud e di Heidegger, lo allontana da costoro: “In Freud e in Heidegger l’angoscia resta il ‘fondo’ dell’uomo –benché in senso diverso. Per Freud, la costituzione antropologica resta vincolata alla sostanza indomabile del desiderio; Heidegger svela la ‘nullità dell’essere’ che parla nel Gewissen”. Ciò che Binswanger in realtà cerca è “il potere o il dono di oltrepassarsi verso l’Altro” (p. 71). Ecco, allora, il suo riferirsi a Martin Buber, perché nel pensatore ebreo egli trova quella consonanza di vedute che lo conduce all’apertura in un duplice senso, orizzontale e verticale. La sfera più alta è, in senso hegeliano il noi, la noità dell’esserci nell’amore (p. 196) di ciò Binswanger trova conferma in Rilke, e non si tratta di una conferma estrinseca, ma di una conferma che viene dall’apporto decisivo che la poesia può dare, come grande fonte disvelativa dell’interiorità umana. A Delirio e poesia è dedicato forse il capitolo più avvincente del libro della d’Ippolito. Qui è il ruolo dell’immaginazione che lega i due momenti, i quali «Pure si allontanano l’una dall’altro come galassie nei silenzi cosmici» (p. 174). L’immaginazione svincolata li accomuna come segno di libertà, ma nel delirio avviene il terribile, nell’attimo che supera e blocca il possibile, che è invece l’apertura poetica, e il terribile “spezza l’unità linguistica del mondo e dell’esserci” (p. 178). In tal modo si consuma, secondo Binswanger, il dramma della malattia mentale. E il terribile corrisponde –per rimanere sempre nell’ambito dell’espressione poetica– a ciò che Hofmannstahl chiama l’oppressione; in lui “non ci si può fermare al ‘familiare’ semplicemente: il mondo è umano soltanto nella polarità esistenziale tra il ‘familiare’ e l’oppressione. […] L’oppressione è in questo senso vera passione, poiché in essa il dolore è intimamente legato al demoniaco che ne è la cifra” (p. 86). Ed è questo che consente l’autentico insorgere dello spirito, come slancio verso la libertà. Non si tratta, pertanto, di qualche cosa di estraneo all’umano, ma di una modalità, come mette bene in evidenza Bianca Maria d’Ippolito, terribile, sconvolgente l’eticità della conoscenza, la visione giusta e comune, modalità che con la sua potenza può distruggere, mentre nella poesia tale potenza si manifesta nel suo aspetto creativo e liberatorio. Siamo di fronte a livelli diversi ai quali può vivere l’essere umano; l’aver indicato tali livelli è stato storicamente il grande merito di Ludwig Binswanger dal quale è nata una scuola chiamata dallo psicopatologo Danilo Cargnello, il suo primo discepolo italiano, di “antropoanalisi” oppure, come è poi detta da Lorenzo Calvi e da Bruno Callieri, di “psicopatologia fenomenologica”. Il merito di Bianca Maria d’Ippolito è quello di aver ricordato il grande maestro, ma al dilà della sua figura, di aver posto in discussione attraverso di lui, le tematiche esistenziali più avvincenti al confine fra psichiatria, filosofia e poesia. LA CATTEDRALE SOMMERSA. Bianca Maria D’Ippolito legge Binswanger Il volume di Bianca Maria D’Ippolito, “La cattedra sommersa”. Fenomenologia e psicopatologia in Ludwig Binswanger (Angeli, Milano 2004, pp. 240) viene delineando una vera e propria fenomenologia binswangeriana con caratteristiche peculiari, emergenti tra Husserl e Heidegger; ma soprattutto con l’evidente intenzione di delineare quella prospettiva che, con Max Scheler, si potrebbe indicare come la “posizione dell’uomo nel cosmo”. Emerge in primo piano la debita presa di distanza dal richiamo alla nosografia e ad ogni tentazione riduzionistica nosologizzante. Segue poi, a caratteri ben marcati, la prospettiva molto invitante del rapporto tra “visione d’essenza” (la nota Wesensschau) e immaginazione (Phantasie). È noto, e l’Autrice ce lo ricorda energicamente, che Binswanger propose con fermezza la possibilità di cogliere l’esperienza della follia come quella peculiare modalità che comporta nella sua stranezza la possibilità e anzi la realtà di un Altro (altrui) con il proprio diritto, a seconda della formazione dell’individuo o dell’ambiente culturale (p. 57). Una notevole esplicitazione del concetto biswangeriano di spazio deve essere riconosciuta alla D’Ippolito (p. 65) con il suo interessante richiamo al termine Gemüt; parleri qui di spazio timico, ricordando quanto dice Binswanger nel capitolo sul problema dello spazio in psicopatologia (1955) in Per una antropologia fenomenologica. Va anche aggiunto che sono state preziose le pagine puntuali e chiarificanti sul non-sentirsi a casa-propria: quel che in Heidegger viene proposto come il fenomeno più originario, e che Bianca Maria ritrova in Binswanger come fenomeno dello spaesamento o dell’oppressione. Vorrei qui aggiungere che l’unità della dimensione spaziale, come si coglie in Traum und Existenz e come è stata ripresa da me nel mio Quando vince l’ombra (1982-2002), è un principio di “conformazione vivente” (la lebendiger Gelstaltung, a p. 95). È per questo tramite che l’esperienza delirante viene sottratta alla sua categorizzata insensatezza, che ormai da tre decenni, con altri occhi, incontro sempre più raramente. Se il segno è aperto al senso (come dice Borgna in I conflitti del conoscere), allora il segno spezza il silenzio estraniato dalla biologizzazione ad oltranza, e si apre (non certamente per magia) alla trascendenza mondana (si pensi all’Eraclito di Binswanger); e si apre anche al sogno (si pensi a Traum un Existenz). Il sogno, sottratto alla riduzioni fisiologiche e alla composizione freudiana delle pulsioni, si sogno (dico) viene fatto accedere alla dignità della significazione (p. 161), anche se bisogna stare attenti all’eccedenza dell’interpretazio- NOTE di Bruno Callieri 73 74 ne, il che non vuol dire affatto tipizzare! Nel sogno risuonano più chiaramente i segnali più lontani, le parole del sottosuolo, dell’implicito. La legittimazione di diversi modi di “abitare” dell’uomo: è questo che viene chiaramente ad esprimersi nelle pagine di Bianca Maria D’Ippolito, ove anche ben si colga il limite delle ontologie husserliane per la poesia e per il delirio. A tal proposito Bianca Maria riprende bene Dilthey (p. 174) e lo spessore, in lui, della temporalità, ancor prima che in Binswanger. Temporalità che può esplodere nell’attimo, nell’Augenblick di Kierkegaard, nell’ha!-Erlebnis di Hagen: l’illuminazione improvvisa, il nascere al delirio (Grivois e Grosso), dove il mondo è sempre al limite e dove “la naturalità della natura si rivela come uno strato all’interno del mondo culturale” (p. 160) e dove, aggiungerei io, la coappartenenza al mondo slitta rapidamente nella distanza, con il rischio della indifferenza e, per dirla con Filippo Costa, della circuitazione infinita di me con me stesso. Molto illuminante risulta (nella quarta parte del volume) il fatto dell’ordinamento dei dati, da intendere qui non più come sintomi di malattia ma come aspetti fenomenologici. Il ritorno binswangeriano all’Esserci è il denso passaggio che egli compie dal 1922 al 1942, cui si collega, non proprio sottinteso, il riconoscimento che “in Essere e Tempo non si trova l’antropologia” e che il Dasein va inteso come presenza (Danilo Cargnello!) anziché come esserci. È proprio qui che si pone, inequivoca e precisa, la critica che l’Autrice di queste penetranti pagine muove sia a Binswanger che a Heidegger (cfr. p. 184). Ella mostra che, se la fenomenologia di Husserl tende a svelare, al di qua della costruzione logico-teoretica, il mondo dei significati precategoriali, in Heidegger il mondo della quotidianità, familiare e noto, dissimula con azione costante una zona di fondo dove sono indovati i problemi ultimi, dove c’è l’implesso dell’esistenza. E sotto questo profilo, sostiene la D’Ippolito, i due Filosofi sono più vicini di quanto entrambi credano. Debbo riconoscere che tanto Danilo Cargnello quanto Ferruccio Giacanelli non avevano ben sottolineato questo rilievo, che dobbiamo –è bene dirlo– a Bianca Maria. Costei invero (p. 189) riconosce a Binswanger un intuito preciso: il cogliere nel concetto di esserci la sola possibilità di porre il problema dell’uomo nella psichiatria, cioè di poter scorgere, ad un tempo, le strutture trascendentali (gli esistenziali) e la storia dei singoli: il destino comune di ciò che è proprio mio. Ontologia e antropologia, dice la D’Ippolito, si raggiungono e si toccano sul sentiero dell’enigma, del nascosto, del coperto e della metafora. Il suo confronto di Binswanger con Heidegger attraversa la poesia di Rilke, la sua concezione dell’amore come mutuo, come ontologia del due. Mi preme sottolineare che da queste pagine emerge in modo chiaro e persuasivo la prospettiva del mondo che ci si disvela fenomenologicamente non come uno star-di-fronte oggettivo ma proprio all’interno dell’esser-nel-mondo come situazione affettiva (la Befindlichkeit), come totalità affettiva (la Stimmung), come stato patico dell’umore (la Gestimmtheit). Qui appare essenziale il patico, proprio nel senso di Aldo Masullo (il παϑη, Aristotele, libro II, Retorica), e lo spazio personale della Wirheit, il faktisch zwischen Ihnen, di Buber –che è poi la polarità cuore-amore– e che quindi ripropone, in tutta la sua NOTE ambiguità, il rapporto di Buber con Heidegger, così come emerge dal suo scritto sul delirio (1941) e in Ilse (1945). Dove si apprezza sempre la l’ontologia di Heidegger nel suo significato puramente filosofico, e si riconosce il sempre maggior rilievo della dottrina della coscienza trascendentale di Husserl: l’insistere binswangeriano sulla necessità di leggere e rileggere le Ricerche logiche e Le meditazioni cartesiane. A ben rifletterci, dalla lettura attenta de La “cattedrale sommersa” ho tratto due chiarimenti per me di gran pregio, anzi ne ho tratti tre: 1) l’epochè non è né una sospensione di giudizio né un pregiudizio. Essa indica la necessità di stare radicalmente aderenti ai vissuti concreti, rinunciando ai filtri dell’ideologia e della scienza, filtri dai quali spesso è molto difficile separarsi. 2) L’esperienza dell’altro (come si sta facendo adesso nel programma del C.I.P.A. di Roma, per i prossimi corsi) ci toglie gli occhiali specifici di ogni disciplina; mette in luce evidente l’estraneità, il rischio, la scommessa esistenziale, e procede sempre nella direzione che sottrae garanzie ma offre orizzonti. Ci dobbiamo liberare dalla zavorra della volontà di potenza, dell’abuso dei saperi e strumenti convenzionali. 3) L’incontro terapeutico è una continua interazione. Binswanger, in una nota lettera del novembre 1962 a Heidegger, riconosce come Husserl gli tolse dagli occhi la cataratta naturalistica così egli, Heidegger, è riuscito a togliergli la cataratta idealistica. Ecco: mi pare che questo sia stato pienamente inteso da Bianca Maria D’Ippolito. La sue pagine, come tante altre sue, non finiscono di arricchirmi, di colmare quei vuoti di donazione di senso (la Sinngebung) che, comunque intesi, illuminano di luce sempre nuova la nostra quotidiana attività di psichiatri clinici. Con un ardito salto teoretico, vorrei dire che il messaggio implicito in questa cattedrale ci sollecita ad accostarci al delirio e al sogno come ad autentici organizzatori narrativi del non-senso o, meglio, organizzatori narratologici di sensi altri, tra “profondità notturne” e “cime a picco sul mare” (Ibsen di Binswanger). 75 L’ORIZZONTE SIMBOLICO E LA PSICOANALISI DELL’ARTE SECONDO IL PENSIERO DI FRANCO FORNARI di Franca Mazzei Maisetti L’orizzonte simbolico 76 Il fenomeno della percezione e la conoscenza, in campo filosofico e psicoanalitico, non sono riferibili a cose “reali”. La conoscenza (anche scientifica) è una delle prospettive create dall’uomo per costruirsi un universo col quale instaurare un dialogo significante. È per questo motivo che nasce il simbolo come organo del desiderio e del pensiero e presupposto per cui si crea e si determina un contenuto rispetto ad un conte- nitore. Già con Leibniz (1948) e via via col procedere del pensiero contemporaneo la realtà (oggetto) si struttura come risultato di un lavoro simbolico e i linguaggi umani “si rivelano altrettante modalità della umana intelligenza del mondo, specificamente determinate e differenziate”(Cassirer, 1968, p.12). Il linguaggio quindi è dentro l’individuo come “disposizionalità”. Nel sogno il linguaggio notturno è una “messa in forma” del desiderio; esso attraverso i simboli onirici risolve la “rappresentazione di cose” in presenza confusiva e precostituisce gli elementi primari naturali da significare, con altri simboli (linguistici ad es.) attraverso cioè significanti delle lingue storiche. Scrive E. Cassirer: Soltanto ciò che si dimostra essenziale per l’insieme del nostro vivere e del nostro agire viene scelto e osservato. Qualunque cosa appaia importante per il nostro desiderare e il nostro volere, per le nostre esperienze e angosce, per agire e per fare, quello e soltanto quello riceve il timbro del significato verbale. Possiamo ritrovare la matrice unitaria dei processi di costruzione della realtà, in quanto l’itinerario maturativo di ordine cognitivo non viene disgiunto dall’itinerario psicoaffettivo (Cassirer, 1968, p.38). In alcuni tipi di linguaggio (amoroso, infantile, erotico…) che definiamo primari, la funzione linguistica si confonde con la funzione affettiva, in quanto non c’è più una distinzione tra parole e cose (secondo le regole convenzionali del linguaggio); i due ordini di rappresentazione si confondono in quanto “significazione” e “fruizione” coincidono. Di solito comunque per il linguaggio intendiamo quell’insieme di simboli che costituiscono lo strumento più idoneo ad una più libera e completa costituzione e definizione della realtà e alla comprensione del mondo interno dell’uomo e della specie. Parlando di realtà o di mondo proprio ed altrui, non pensiamo naturalmente ad una realtà dogmaticamente affermata, ma a delle realtà così come ciascuno di noi riesce a con- NOTE quistarsele in base al travaglio simbolico della personale consapevolezza, e alla capacità individuale di superare quella resistenza cognitiva determinata dalla difficoltà di esteriorizzare il mondo interno ed interiorizzare il mondo esterno. Stabilire cioè un armonico alternarsi circadiano dell’“ordine del giorno” e dell’“ordine della notte”. Se da un verso quindi la lingua (come linguaggio primario, convenzionale o trasgressivo) è il luogo dell’inconscio e il terreno in cui opera la psicoanalisi, dall’altro la lingua (come linguaggio convenzionale “ostensivo”) è il contenitore di una visione del mondo ed insieme un fattore che trasforma il mondo. La lingua è energia non rigidamente strutturata ma dinamica; lo studio della funzione simbolica è alla base di qualsivoglia attività umana. Simbolo linguistico e simbolo psicoanalitico Nello sviluppo del pensiero occidentale, ad un certo punto ci si è posto l’interrogativo se l’impianto metafisico e quindi normativo della logica e dell’etica potessero funzionare come criteri oggettivi di valutazione, oppure se era necessario sganciare l’esperienza, la creatività e il linguaggio da norme precostituite. L’insorgenza di una pluralità di modelli linguistici ed espressivi è insieme causa ed effetto di una diversa configurazione di rapporto tra l’uomo e la realtà. Cassirer dice: Se la definizione, la determinazione dell’oggetto del conoscere può avvenire solo attraverso la mediazione di una particolare struttura logico-concettuale, bisogna accettare la conclusione che ad una diversità di questi mezzi debba corrispondere necessariamente anche una diversa disposizione dell’oggetto, un diverso significato di nessi oggettivi (Cassirer, 1976). Questo concetto fa pensare che l’uomo non può mettersi in comunicazione con l’ambiente che lo circonda, se non attraverso degli strumenti, grazie ai quali istituisce la sua realtà. Emerge quindi la considerazione che la vita dell’uomo è modellata, in ogni sua espressione, dai vari strumenti e dal loro uso, così come la psiche dell’individuo è condizionata anche dalle necessità imposte dall’ambiente. Il linguaggio diventa allora l’espressione viva di questa evoluzione e di questo disagio, in quanto, per un verso si è progrediti verso un certo tipo di autonomia, dall’altro ci si è creata una rete di condizionamenti che hanno preso il posto di ciò che prima costituiva la normativa (etica o estetica). Analizzare il linguaggio allora non può esaurirsi in un lavoro grammaticale od estetico quanto piuttosto esplicarsi in un esame approfondito dello stesso nelle sue più intime connessioni con la vita, nella speranza di poter comprendere veramente il contenuto dello spirito umano. 77 Il contenuto dello spirito si dischiude solo nella sua estrinsecazione; la forma ideale si riconosce solo dal complesso e nel complesso dei simboli sensibili di cui essa si serve per la sua espressione. Se si riuscisse a raggiungere una sistematica visione d’insieme delle differenti tendenze di questo genere di espressioni, se si riuscisse ad indicarne i tratti tipici generali, così come le particolari gradazioni e le intrinseche differenze, sarebbe realizzato in tal maniera, per il complesso della creazione spirituale, l’ideale della “caratteristica universale” che Leibniz proponeva per la conoscenza (Cassirer, 1976, p.7). 78 Lasciando come compito specifico della filosofia, le risposte a questo desiderio, noi possiamo solo concentrare l’attenzione su quella caratteristica universale insita in ciascun linguaggio, cioè sulla funzione generativa del linguaggio, quindi sulla sua funzione simbolica a livello di elementi primari che sono alla base di qualunque tipo di rapporto oggettuale. La generatività, secondo N. Chomsky (1970), è un atto creativo che emerge nel passaggio dalla competenza alla performanza. Ogni forma di creatività comunque, qualunque sia il terreno nel quale si esplica, presuppone una serie di regole precostituite; e soltanto grazie alla prescrittività di un codice di regole precostituite, si può valutare il grado effettivo della creatività. La necessità di un codice-regola è insito filogeneticamente in ciascun essere vivente; nella vita dell’uomo il riconoscimento delle regole assume caratteristiche di importanza inconfutabile in quanto, essendo la vita stessa basata su un principio dialettico di forze contrapposte, la mancanza di regole equivale alla confusione e alla morte. La creatività senza regole dunque è sinonimo di illusione, così come è illusione il concetto di vittoria senza quello di sconfitta o la possibilità di definire una cosa senza il suo opposto. Fondamentale è allora porre una prima distinzione tra simbolo onirico privato immaginario e confusivo (simbolizzazione onnipotente) e simbolo pubblico consensuale e distintivo, che appoggiandosi al reale, trova accesso ai codici simbolici. La definizione di codice simbolico degli affetti nell’interno della comunicazione tra gli uomini, ha la funzione di scoprire e chiarificare i contenuti affettivi dei propri ed altrui atti; mettere in luce cioè i segni che nella vita quotidiana, l’uomo usa per mandare e ricevere messaggi tesi a soddisfare il comune bisogno di affetto1. Con questa impostazione di lettura simbolica, si trasforma sostanzialmente la concezione dello psicoanalista, come specialista della psiche “deviata” per farne un “lettore” interprete della realtà e dell’umanità in tutte le sue manifestazioni. L’immagine dello psicoanalista, specchio neutrale, poco credibile, di proiezioni immaginarie, che ha la funzione di scoprire la verità inconscia (o preconscia) lascia il posto allo psicoanalista che può, grazie alla sua preparazione specifica, porsi come “l’altro” dal paziente per permettergli di vivere e comprendere, nel gioco delle “identificazioni introiettive e proiettive” quale costruzione confusa e complessa abbia messo in piedi per difendersi da se stesso e dagli altri. NOTE Al momento in cui il vissuto emotivo ha libertà di esprimersi nel suo linguaggio confuso, segue il momento del passaggio, attraverso la decodificazione del simbolo onirico e del coinema, dall’immaginario al reale, dall’ordine della notte all’ordine del giorno. La psicoanalisi acquisisce con ciò una “funzione semaforica” la quale “precostituisce all’interno dell’equiprobabilità anomica e confusiva del simbolo, quali sono i codici simbolici che guidano il senso della comunicazione” (Fornari, 1976, p.16). La funzione semaforica dice ancora Fornari, è una funzione dell’Io che deve, col suo codice dirigere il traffico nella massa delle comunicazioni e nell’incontro-scontro tra il proprio desiderio e il desiderio degli altri, per evitare il caos degli affetti e il sadomasochismo. Nella “Pragmatica della comunicazione” Watzlawick (1971) definisce numerico il linguaggio verbale ed analogici i linguaggi non verbali. F. Fornari attribuisce ad ogni parola sia una componente numerica sia una componente analogica (che corrisponde al simbolo immaginario elaborato da Freud) dando per assurda una arbitrarietà simbolica legata al linguaggio inteso come manifestazione di affetti. Se è possibile accettare una arbitrarietà fonemica (e tale affermazione non è sufficientemente dimostrata), non è possibile accettare una arbitrarietà di simbolizzazione affettiva. Ogni organizzazione linguistica presuppone una capacità di giudizio, ogni capacità di giudizio presuppone una capacità di distinguere l’opposizionalità, il “buono” dal “cattivo”, il positivo dal negativo. Alla base di questa capacità c’è l’esperienza vissuta di “presenza” e “assenza” e la preconcezione di vita e di morte (Fornari F., Fornari B., 1974). I linguaggi, espressione simbolica di contenuti affettivi, hanno da sempre avuto la funzione di mettere in relazione topologica due mondi: uno interno e uno esterno (propri od altrui) con l’intento di mettere dentro un altro o ricevere dentro di sé qualcosa di buono oppure mettere dentro un altro o ricevere dentro di sé qualcosa di cattivo (i termini buono e cattivo non sono naturalmente intesi in senso morale ma funzionale alla sopravvivenza). Conoscere quale tipo di comunicazione abbiamo messo in atto, equivale a conoscere la nostra parte più vera e profonda nella quale nascono e prosperano confusamente sogni, desideri, residui infantili, invidie, gelosie, aggressività. ecc. Compito della psicoanalisi è “individuare la struttura genitale sinergica o la struttura pregenitale antergica della comunicazione stessa” (Fornari, 1976). Essa opera sia a livello di simbolizzazione privata, sia di simbolizzazione pubblica. In questo senso la psicoanalisi oltre ad essere strumento di indagine e cura del singolo, diventa chiave di lettura della cultura in genere, nell’interno della quale si pone, e di se stessa. Per “simbolo psicoanalitico” si intende generalmente “simbolo onirico”. Esso viene definito universale, innato, preesistente a Freud che lo teorizzò come la base affettiva immaginaria di ogni codice simbolico operativo. Il simbolo onirico, scoperto attraverso il sogno, porta alla definizione del “processo primario” che sta alla base di ogni “processo secondario” quindi di ogni linguaggio. 79 Attraverso la confusività dei simboli onirici, depositari anche delle verità inconsce di ciascuno, si arriva alla chiarezza definitoria dei simboli operativi2. 80 Sono quindi i simboli affettivi analogici a permettere la formazione dei simboli operativi numerici (La chiusura totale al mondo degli affetti degli psicotici, impedisce la formazione del linguaggio sintattico, basato su simboli convenzionali operativi). I codici simbolici si fondano su stati del mondo già strutturati affettivamente e qualunque conoscenza scientifica affonda le sue radici nel simbolo immaginario. La conflittualità tra la conoscenza scientifica e la psicoanalisi consiste nel non aver mai potuto inserire in categorie logiche il simbolo onirico, in quanto esso è un modo di simbolizzare non a livello cognitivo ma a livello affettivo. Il simbolo onirico è la radice sotterranea sulla quale cresce l’albero della conoscenza, attraverso il processo secondario. Il linguaggio notturno delle immagini oniriche, le cui caratteristiche di condensazione e spostamento rendono confusivo, contiene in sé la matrice naturale dei segni distintivi del linguaggio diurno come “simbolo presimbolico”. Si definisce abitualmente discorso adulto e maturo sia il discorso sintatticamente esatto, sia contenutisticamente ricco, sia formalmente accettabile. Al di là di questi inconfutabili requisiti che fanno capo a codici simbolici resi validi da un consenso istituzionalizzato, una lingua intesa come mezzo di interrelazione deve, per comunicare, fondarsi sulla consensualità intersoggettiva o reciprocità simmetrica. Cioè è necessario che due esseri umani si pongano come due soggetti con proprie paritetiche capacità decisionali perché il codice simbolico usato sia lo stesso. Definiamo tale codice: Codice dell’Io o Codice Genitale (contrapposto a pregenitale) (es. comunicazione scientifica). Quando la comunicazione tende a soddisfare un bisogno (affettivo) proprio o altrui, accade che il rapporto tra le parti non è più paritetico, a livello di codice simbolico, cambiano i ruoli, in quanto la parola oltre ad essere intesa nella sua funzione di significazione, può esser vista a livello confusivo di simbolo coinemico, espressione di un codice affettivo (genitore-figlio, maestro-discepolo, analista-paziente). Nel discorso quotidiano alternativamente ciascuno di noi vive questa realtà del bisogno inconscio. Il discorso quotidiano umano è polimorfo, la semiologia legata alla comunicazione interessa indifferentemente qualunque tipo di espressione l’uomo abbia scelto per mettere dentro gli altri qualcosa di sé, e dentro di sé qualcosa degli altri (Fornari, 1979b). Psicoanalisi dell’arte Nella sua proposta di psicoanalisi dell’arte F. Fornari parte da un modello semiotico e pone un problema anzitutto di ordine linguistico. Ridefinisce appunto il rapporto significante-significato e allarga i confini delle teorie lingui- Ogni discorso umano, dice Fornari, qualunque sia la modalità espressiva, presenta un duplice statuto: lessicale-operativo e affettivo-coinemico. Il primo si basa sull’arbitrarietà del segno, il secondo si rifà alla struttura dell’inconscio ed è soggetto al codice affettivo. Relativamente all’arbitrarietà del segno, Fornari rifacendosi a Jakobson afferma che il rapporto tra significante e significato che Saussure chiamava “arbitrario” dipende da una “continguità abitudinaria appresa, che è obbligata per tutti i membri della comunità linguistica data” (Jakobson, 1978). In questa prospettiva il coinema diventa un codice di organizzazione e struttura di funzionamento di ogni testo. Il linguaggio come ogni altra istituzione sociale, presuppone delle funzioni mentali operanti a livello inconscio (Lévi Strauss, 1978) Fornari riprendendo la scoperta freudiana della tendenza umana a riprodurre nel sogno esperienze penose (coazione a ripetere), sgancia tale meccanismo dall’istinto di morte ipotizzato da Freud e ne fa una “tendenza primaria a rappresentare qualcosa per mezzo di segni […] riprodurre sotto forma di rappresentazione tutto ciò che è presente è poi diventato assente” (Fornari, 1979a). Il linguaggio artistico trasforma la presenza in rappresentazione attraverso un processo singolarissimo collocabile in una zona intermedia tra immaginario e reale, “a metà strada tra il principio del piacere e il principio della realtà in quanto l’esame di realtà (che permetterebbe di collocare l’esperienza nell’uno o nell’altro dei due principi) non è negato (come avviene ad esempio nell’allucinazione) ma semplicemente lasciato sospeso” (Fornari, 1970). NOTE stiche moderne grazie al concetto di arbitrarietà del segno. Fornari si occupa di psicoanalisi dell’arte prima ancora di formalizzare concettualmente l’analisi coinemica3. Scrive nel 1974 “Psicoanalisi e ricerca letteraria” insieme alla moglie Bianca (Fornari F., Fornari B., 1974). Propone nel 1978 con “Strutture affettive del significato” (Fornari, 1978) un modello di critica e un’applicazione a “Agostino” di Moravia. Nel 1979 con “Coinema e Icona” (Fornari, 1979a) formalizza una nuova proposta di psicoanalisi dell’arte figurativa, mentre nel 1984, già in ambito della teoria dei codici affettivi, scrive “Psicoanalisi della musica” (Fornari, 1984). Nei primi scritti di analisi letteraria, il modello risente ancora molto dei concetti freudiani classici. L’“Agostino” di Moravia e, ancor meglio il saggio sulla “Monarchia” di Dante sono influenzati dal pensiero kleiniano, ma metodologicamente risentono dei concetti freudiani come l’edipo e la scena primaria. Finalmente nel “Miracolo delle noci” è applicata la teoria coinemica che “parte dal presupposto di costituire la verità a partire dalla consonanza o dalla dissonanza semantica che il confronto tra la simbolizzazione affettiva e la simbolizzazione operativa di un enunciato mette in grado di rivelare” (Fornari, 1978). 81 Nell’ambito di approccio e interpretazione al testo letterario o iconografico, Fornari individua uno spazio tridimensionale comprendente un “referente figurale” (il testo in sé) un “referente coinemico” e un “referente storico”. Senza il referente coinemico non sembra possibile scendere nelle profondità dei significati; gli altri referenti si prestano ad una lettura bidimensionale pur essendo fondamentali contenitori e denotatori di senso per i referenti coinemici confusi e indeterminati […]. Il testo letterario o iconografico viene esaminato secondo unità significanti: le formule, le sequenze, gli elementi figurali, le figure plastiche, i soggetti, gli argomenti. Dai significanti della scena manifesta che queste unità denotano, si ha una possibile traduzione in significati coinemici, in una struttura affettiva di significati, “metastorica” e “invariante” (Biotti, 1987). L’arte per Fornari è quell’attività che: si muove nella notte ed entra nella luce del giorno per ritornare alla notte, in una marcia a delfino tra mondo interno e mondo esterno, che fa del linguaggio notturno e del linguaggio diurno non due facce di una stessa medaglia, ma un continuo succedersi di un gioco “a testa e croce” in cui una faccia si presenta quando l’altra si nasconde, diventando ognuna delle due alternativamente significante e significata (Fornari, 1979a) 82 Il passaggio da un mondo ad un altro mondo è dato da quell’equilibrio dinamico che in altri termini può essere espresso come armonia tra forma e contenuto oppure tra discorso manifesto e significato latente tra inconscio e conscio tra principio del piacere e principio di realtà, linguaggio ed anti-linguaggio” secondo uno statuto doppio: “metonimico e metaforico”. Il linguaggio della notte e il linguaggio del giorno trovano nell’espressione artistica una traduzione; in essa l’uno e l’altro sono compresi in una interazione perfetta che “consente il processo di simbolizzazione, trasformando la presenza in rappresentazione”, in questo senso l’opera d’arte è a metà tra immaginario e reale in quello che Winnicot chiama campo o “area transizionale”. L’opera d’arte allora è un oggetto concreto vestito con abiti fantastici, è una cosa reale che contiene in sé anche l’irreale ed è in quest’alternarsi che la struttura linguistica si rivela come fattore determinante. Tale area transizionale che si presenta come “il terreno favorevole” perché l’arte alberghi, accoglie in sé qualunque forma d’arte, dalla pittura alla letteratura, al teatro, al cinema, alla musica. Lotman in Semiotica e Cultura dice relativamente all’opera d’arte: “So che questo non è ciò che rappresenta ma nello stesso tempo vedo chiaramente che questo è proprio ciò che essa rappresenta” (Lotman, Uspensky, 1975). Fornari ha detto dell’arte “essa è sospesa tra lo Scilla del bisogno di sapere e il Cariddi della proibizione di sapere”. È dunque nel bisogno-desiderio di sapere e nella proibizione del sapere che si struttura quell’ambiguità che caratterizza la modalità espressiva dell’artista. In chiave psicoanalitica diremmo che ‘la simbolizzazione secondaria (il significante) deve insieme rivelare e tenere nascosto ciò che viene rivelato cioè la simbolizzazione primaria (significato). Io mi sono sempre trattenuto al pianterreno dell’edificio: Lei afferma che se si cambia punto di vista, si riesce a vedere anche il piano superiore, nel quale abitano ospiti così distinti come la religione, l’arte e altri ancora […] In questo Lei è conservatore, io rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, oserei indicare a queste “illustrissime” un posticino nella mia bassa casetta (Lombardo, Fiorelli, 1985). Binswanger tentava di far entrare la psicoanalisi nella sfera della spiritualità in una visione esistenzialistica. Ma nella realtà Freud non aveva mai disdegnato l’arte, e nella sua cultura di notevole vastità, le scienze “dello spirito” avevano avuto una larga parte. Nel discorso in occasione del conferimento del premio Göethe, egli dice: NOTE S. Freud non ha indagato a lungo su questo problema. Nel 1936 scriveva a L. Binswanger: I poeti sono i pochi cui sia concesso, quasi senza sforzo, di salvare dal gorgo delle loro emozioni le più profonde verità verso cui noi altri dobbiamo dirigerci con fatica, annaspando incessantemente in mezzo a incertezze torturanti (Freud, 1930). E in Delirio e sogni nella Gradiva di W. Jensen ancora: Probabilmente, noi e lui (Freud e il poeta) attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con metodo diverso; e la coincidenza dei risultati sembra costituire una garanzia che abbiamo entrambi lavorato in modo corretto. Così egli (il poeta) esperimenta in sé quanto noi abbiamo appreso da altri, e cioè le leggi a cui deve sottostare l’attività di questo inconscio (Freud, 1906) L’aver strutturato all’interno di schemi e modelli di comportamento ogni processo della mente, può considerarsi come un tentativo di fondere le scienze dello spirito con le sue caratteristiche di inconoscibilità, inclassificabilità e mistero, con le scienze della natura, solide, misurabili e scientifiche, salvando comunque la singolarità di ogni espressione artistica e la creatività individuale. Nell’Introduzione alla Psicoanalisi (Freud, 1915) in un parallelismo tra psicoanalisi e marxismo egli dice che così come il pensiero di Marx ha messo in luce l’esistenza di forze economiche che sono “alle spalle degli uomini” e li condizionano, così la psicoanalisi ha messo in luce l’esistenza di forze psichiche che agiscono al di fuori di ogni consapevole volontà. Quanto la conoscenza dell’universo dell’Arte abbia influito sul suo processo di pensiero emerge in diversi suoi accenni: “I poeti e i filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me; quel che ho scoperto io è il metodo scientifico che consente lo studio dell’inconscio” egli scrive nel “Discorso in occasione del suo 70° compleanno”(Freud, 1926) ed è evidente che concetti come: complesso di Edipo, sadismo, masochismo, narcisismo, nascono in area letteraria e mitologica prima che in psicoanalisi. Proprio questa psicoanalisi tra “romanzo” e “scienza” è alla base di quella dicotomia e conflittualità che, partendo dall’epoca di Freud, si trascina fino ai nostri giorni. 83 Nel 1900 con la Traumdeutung, Freud ci introduce nel fantastico mondo dell’inconscio. Il linguaggio cifrato del sogno diventa il risultato della “deprivatizzazione del linguaggio pubblico”. Stabilisce con ciò una netta differenziazione tra il linguaggio dell’inconscio e il linguaggio della poesia. Mentre quest’ultima tende a rivelare quanto è inconscio attraverso la parola-simbolo (anche se ermetica), il sogno tende a nascondere, attraverso la parola quanto è inconscio. Nella verbalizzazione del sogno la parola privatizza il linguaggio pubblico, nella poesia pubblicizza il linguaggio privato. Ogni sogno racchiude in sé tutto l’universo del sognatore e, l’interpretazione analitica può solo esaurire una faccia del poliedro, lasciando la possibilità ad altre molteplici interpretazioni. Anche l’opera d’arte è contenitore di tutto un mondo, quello dell’artista, conscio e inconscio. Davanti a tanta “vastità” Freud si blocca e in Dostoevskij e il parricidio (Freud, 1927) si dichiara impotente a penetrare nel nucleo della creazione artistica. Affronta comunque gli aspetti psicologici, storici, sociali che stanno alla base di ogni produzione artistica e definisce l’Arte come “un ritorno del rimosso” istituzionalizzato e socialmente accettato. Egli attribuisce una funzione benefica all’opera d’arte, strumento di catarsi e veicolo positivo di desideri e pulsioni che altrimenti potrebbero manifestarsi in forma disgregante e distruttiva. 84 Se la civiltà impone continue rinunce alla soddisfazione delle pulsioni secondo un “principio di realtà”, l’arte fornisce un’area di rivincita della fantasia, secondo il “principio del piacere”. L’arte allora come contrapposta alla vita, Arte come frutto del recupero delle forze inconsce e rimosse, e, attraverso la “sublimazione” espresse in comunicazione formale. Il piacere derivato dalla fruizione dell’Arte per Freud è una “promessa di felicità” ma non è chiaro quanto appartenga al mondo delle illusioni piuttosto che a quello della realtà. Soltanto in un campo si è conservata l’onnipotenza del pensiero fino ai nostri giorni: in quello dell’arte. Nell’arte soltanto avviene ancora che un uomo ignorato dai desideri, elabori un’azione che assomigli all’appagamento e che questo gioco, in grazia dell’illusione artistica, provochi delle risonanze affettive come se si trattasse di cosa reale. A ragione si parla dell’incantesimo dell’arte e si confronta l’artista con l’incantatore. Tale confronto è forse più importante di quanto esso vorrebbe essere. L’arte, che certamente non è cominciata quale arte per arte, stava originariamente al servizio di tendenze che oggi sono in gran parte cessate. Tra queste è lecito ammettere che vi si trovino parecchie intensioni magiche (Freud, 1917) Donde venga all’artista la sua capacità creativa non è problema della psicologia –ma dice anche– la psicoanalisi riconosce anche all’esercizio dell’arte una attività che si propone di temperare desideri irrisolti, e precisamente in primo luogo nello stesso artista creatore e in seguito nell’ascoltatore e nello spettatore (Freud, 1969). una volta entrato nel contesto del quadro, acquista senso in base al fatto che non parla più in funzione di se stesso, ma viene parlato dalla sintassi dei significante, cioè dalla relazione tra le figure del quadro. Se al posto di natura mettiamo il linguaggio coinemico come linguaggio naturale e al posto di humanitas mettiamo i linguaggi culturali, siano essi verbali o iconici, si può dire che la “poesia” cioè la comunicazione estetica, nasce da una elaborazione profonda e vitale, di un dramma che si colloca all’interno di questi linguaggi. Le emozioni sono un fatto naturale. Il trasformare le emozioni umane in emozioni estetiche richiede un particolare tipo di relazione tra linguaggio coinemico naturale e linguaggi artistici culturali (Fornari, 1979a). Il teatro e il mito La funzione attribuita allo spettacolo del teatro presso gli antichi greci è indicativa di come naturalmente le antiche civiltà ricorressero a quanto era in loro potere per mantenere un equilibrio psicologico nella polis. La tragedia greca è da intendersi come fenomeno collettivo. religioso e catartico, quasi un prototipo di gruppo terapeutico. Gli spettatori riuniti nel recinto sacro di Dioniso, sulle pendici dell’Acropoli partecipavano ad un rito e di questa funzione ne erano consapevoli quanto gli attori e gli autori. Levi Strauss dice che la materia della tragedia è sempre costituita da un mito, il quale si pone come presa di coscienza di certe opposizioni e tende alla loro progressiva mediazione. NOTE Il collegamento che Freud fa tra Arte e Desiderio è alla base della elaborazione del discorso sull’arte che fa Fornari; da questa impostazione data al fenomeno artistico come funzione degli accoppiamenti (nella fruizione dell’oggetto artistico) dei desideri, l’un l’altro ricercantesi, del creatore e del fruitore di arte, nascerebbe pertanto una metodologia di ricerca sincronica e diacronica (Fornari, 1966). La psicoanalisi può diventare uno strumento di indagine estetica se viene utilizzata come chiave di lettura della interrelazione degli elementi linguistici (consci e inconsci) e della trasformazione che essi subiscono. L’artista dal “mare magnum” della significatività indistinta delle relazioni coinemiche, dove alberga il desiderio informe, emerge in un gioco a delfino, nel mondo esterno, dando forma al desiderio e denotandolo. Il fatto che la sintassi dei coinemi non sia legata alla esperienza storica, ma decisa dall’ordine significante creato dall’artista (sintassi dei significanti iconici) porta ad una organizzazione della vita emotiva. Per cui se le emozioni incontrollate portano l’uomo alla sofferenza e alla percezione dolorosa della “mancanza”, l’esperienza artistica permette che le emozioni trovino spazio per esprimersi grazie al controllo dato sia dall’ordine del processo culturale estetico, sia dalla possibilità di “mettere a confronto” i significati primari con i significati storici. Il coinema (rappresentazione psichica della pulsione) 85 86 È molto importante che la tragedia abbia come materia un mito. Erodoto racconta che il tragico Frinico fu punito e multato perché, mettendo in scena un fatto di vita contemporanea, la battaglia di Mileto, aveva prodotto il panico e la disperazione nel pubblico. Fatti ben più gravi propongono tragedie come la trilogia dell’Edipo e dell’Orestea o altre ancora, ma il popolo anche se fortemente coinvolto, non ne era destrutturato. Perché? Perché il teatro per il greco era vita dell’umanità, non biografia e l’uomo antico come il bambino non attua una distinzione tra questi due piani. Quindi la posizione dei greci verso lo spettacolo tragico non era mai critica. La tragedia è un’esperienza insita nella storia dell’umanità, la gente riunita partecipa ad un’esperienza concreta. Nella stessa maniera in cui in uno psicodramma, la gente riunita in gruppo, ripropone nella specificità del problema personale, l’universalità di temi esistenziali, comuni all’umanità. All’origine della tragedia c’era la musica, il coro dei Satiri. Nella melodia l’uomo si fonde con gli altri. Il divino entrava nel mondo dell’uomo con aspetti e caratteristiche terrene, e gli permetteva di proiettarsi in lui, identificarsi con lui, aspirare alla stessa eternità in una fusione con la natura non più intesa come madre castrante e crudele ma accettante e benevola. Nel suo interno l’individuo singolo andava alla ricerca di una individualità unica nella quale potersi rispecchiare, perseguendo, singolarmente, una legge uguale per tutti: “conosci te stesso”. Se indichiamo nella natura il dionisiaco e nell’individuo l’apollineo possiamo capire come nella fusione dionisiaca (pulsione naturale, ritorno regressivo all’Eden originario o all’utero materno) l’uomo soffra la paura della disintegrazione data dall’indefinito ma ne abbia anche estremamente bisogno perché solo da essa può trarre la spinta per l’individuazione. Si è stabilita nel 534 l’origine della tragedia per opera di Tespi, nella realtà la prima tragedia si ebbe quando un uomo rivestì l’identità di un personaggio del passato e trascinò dietro di sé un coro proponendosi come protagonista di una nuova realtà. Questo importante momento costituisce la fase di passaggio da una dimensione fantastica ad una dimensione simbolica oltre che segnare il passaggio dalla danza e la musica alla parola ed all’azione. Alla musica diamo il significato di impulso, energia, libido. Alla parola il significato di simbolo, immagine, illusione. La musica quindi rappresenta il desiderio (universale), alla parola diamo il significato di volontà (particolare). Dalla musica quindi il mito che parla per simboli della conoscenza dionisiaca. È importante quindi la funzione della parola nella tragedia come importante è la differenza tra la tragedia ed i vari rituali mimici di identificazione che da sempre l’umanità ha messo in atto e sono ancora presenti in alcuni popoli primitivi. Altrettanto importante il passaggio tra il raccontato ed il recitato, in quanto abbiamo una fusione temporale tra passato (raccontato) e presente (agito). Gli attori nella tragedia greca recitavano, il coro cantava accompagnandosi con passi di danza. La funzione del coro era quella di costituire “un muro vivo contro l’assalto della realtà” (Schiller). Quale realtà? Quella profonda arcaica NOTE che le gesta e le parole dell’attore e la realtà scenica presentavano o la loro di spettatori-attori? Analizziamo per un attimo la forma del Teatro, circolare, e pensiamo all’associazione che tale forma suggerisce. Seduti sui gradini gli spettatori riempivano lo spazio intorno all’orchestra che in quel momento costituiva l’ombelico del mondo e osmoticamente vivevano le emozioni relative alle azioni che venivano rappresentate, quasi uniti da un cordone ombelicale. Nel coro dell’orchestra il pubblico proiettivamente ritrovava se stesso; nel coro c’era lo spettatore ideale, l’unico spettatore, ognuno, dominando dall’alto del suo posto, contemplava se stesso come coreuta. Per questo il coro è più antico dell’azione teatrale vera e propria. Perché esso rappresenta l’uomo e la massa, la forza dionisiaca che nel mondo apollineo delle immagini, scarica le sue tensioni e pian piano si evolve. Se lo spettatore si identificasse nell’attore, potrebbe avere la liberazione nell’illusione, mentre spezzandosi come individuo ed unificandosi con l’essere originario, attuava una catarsi vera, molto più profonda, in quanto entrava in contatto con le sue parti più arcaiche. È come se il coro, unica realtà, producesse fuori di sé la visione e parlasse di essa e su di essa con tutto il simbolismo della danza, del suono e della parola (Nietsche, 1977). È una sorta di incantesimo; lo spettatore diventava Satiro e guardava fuori di sé quella visione che era il compimento apollineo del proprio stato dionisiaco. Attraverso l’azione dell’attore, l’uomo cominciava il lungo percorso della sua individuazione, in maniera naturale, semplice e piana, anche se sofferta. Il linguaggio in Eschilo e Sofocle ha parole chiare i periodi sono semplici. Il lamento è quello di un bambino che direttamente si rivolge a dio-padre o invoca l’aiuto della madre. L’immagine del coro greco riporta alla situazione terapeutica dei “gruppi” di lavoro. Il gruppo, e come luogo d’incontro, e come entità a se stante, ripropone un alveo di protezione, un grembo materno nell’interno del quale è possibile sia ritrovare tracce di vissuto arcaico, sia vivere o rivivere simbolicamente momenti nodali dell’esistenza. La sofferenza dell’umanità affonda le sue radici in situazioni sempre uguali e sempre nuove: la separazione dalla madre, la paura della morte, il problema edipico, il porsi come individuo nei confronti di se stesso e dell’altro. Da quando l’uomo visse il cataclisma della nascita, uscendo dal ventre della madre, la morte connessa con la vita, divenne una situazione insieme desiderata e paventata. Da una parte la madre ha desiderato trattenere il figlio nel suo ventre (per paura di uccidere o di morire) dall’altra, l’atto dell’inevitabile espulsione è stata per tutti, sofferenza, squarcio, rottura, pericolo di morte. Sempre rimarrà nella madre il desiderio del proprio figlio, sempre nel figlio rimarrà la nostalgia del paradiso perduto. Ogni esperienza di vita porterà in sé un “ricordo” e una nostalgia. Noi ben sappiamo come in ogni innamoramento, si riproponga a livello inconscio una situazione già vissuta di onnipotenza e di dipendenza, come conflittuale e sofferta sia sempre questa rinnovellata simbiosi e come ci sia bisogno che definitivamente venga risolta. Il cordone ombelicale non si taglia 87 88 mai una sola volta; continuerà a rinascere fino a che non avviene la fusione interiore tra le due immagini di donna e di madre e non verrà accettata la figura del padre. Il momento terapeutico è un momento esperenziale importantissimo, durante il quale l’uomo si incontra, si riconosce e nella metafora del gesto e della parola, si riappropria di quanto, dentro di lui, a lui stesso era nascosto. Nella tragedia di Edipo, Colono rappresenta il ritorno dalla vecchiaia all’infanzia, la rielaborazione, attraverso la ricostruzione, il ritorno verso il ventre della madre, ventre più accogliente che rappresenta sia la morte che la nascita di Edipo. La morte di Edipo, secondo la leggenda, avverrà per spalancamento della terra; è la reinfetazione in un grembo universale. Per potersi liberare Edipo ha ripercorso la sua strada fino alla nascita ed è solo a Colono, nel bosco delle Eumenidi che la tragedia si definisce. Edipo ha spezzato le leggi morali, ha infranto l’ordine del presente e del futuro, ha sperimentato la dissoluzione della natura anche su se stesso e proprio grazie a questa trasgressione è emerso individuo. È la legge dell’individuazione, il vero incantesimo della natura, come dice Nietsche (op. cit.), già verificata in precedenza come causa. Ritornando nel mito, incontriamo l’uomo che sfida i Titani, si conquista da sé la propria identità perché tutta l’esistenza ed i limiti di essa li ha dentro di sé. Prometeo, nel perseguire la giustizia contro gli stessi dei, misere proiezioni questa volta di invidie e gelosie, emerge come individuo sconfinatamente dolorante ma creatore di uomini. E se il mito con Edipo ci dà l’ineluttabilità della sofferenza, con Prometeo ci dà la potenza, la speranza, il fuoco del desiderio ma anche della purificazione. In esso c’è la presenza dell’elemento divino e dell’elemento umano fusi insieme (il fuoco viene rubato agli dei). Il desiderio dell’uomo di vincere la morte, di travalicare l’umano, essere l’unica essenza del mondo, provoca in lui sofferenza e contraddizione, ma non può farne a meno perché proprio questo fa di lui un uomo. Göethe dice che ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile e che se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare. Per l’uomo inconciliabile è il conflitto tra libertà e necessità, tra l’azione in vista di un fine e le forze che ne impediscono il raggiungimento (siano esse metafisiche, storiche o psicologiche). La tragedia è un esempio di come si può prendere coscienza di tale conflitto e di come, attraverso la forma artistica si possa esorcizzare il sentimento della frustrazione. Oggettivare, proiettare fuori di sé l’arcano, rende più accettabile l’impotenza, che diventa non più l’impotenza dell’uomo ma caratteristica del vivere umano. L’eroe tragico assumeva su di sé la responsabilità della propria condizione. Edipo si è misurato col proprio destino. La legge suprema imposta dagli dei era ed è il libero arbitrio. Nell’“Edipo a Colono” alla fine trionfa l’uomo, dopo aver sperimentato la propria impotenza, aver messo a repentaglio la propria volontà, aver sofferto il disagio enorme della sua fragilità di fronte all’ignoto. Se il dolore e l’angoscia avviliscono, la catarsi risana. La morte per il greco non aveva il significato che noi le attribuiamo. La peste Il teatro e l’elaborazione della morte (da Fornari, 1979a) Il teatro è mimesi simultanea del sonno, del sogno e della veglia. Le relazioni che legano attori e spettatori sono funzioni motorie e produttrici di sogni per gli attori e funzioni percettive e ricettive di segni per gli spettatori. Insieme costituiscono una coppia oppositiva e complementare che ha la “funzione di significare la dissociazione tra motilità e sensorialità specifica del sonno”. La scena teatrica è come la scena di un sogno rappresentato dagli attori che agiscono i fantasmi degli spettatori metaforicamente addormentati. In tal sonno il teatro è “un’istituzione circadiana” che racchiude in sé il sonno (la notte) e la veglia (il giorno) ed è insieme presenza e sua rappresentazione; si può perciò paragonare al sogno nel quale l’onnipotenza del desiderio porta il segno onirico a coincidere confusivamente con la presenza di ciò che significa. L’elemento che contraddistingue il teatro dal sogno è che nel teatro si può rappresentare l’angoscia o qualunque altro “affetto” senza esserne mai catturati. “Instaurando la specificità di una produzione segnica che implica la simultaneità della presenza e della rappresentazione” il teatro rende possibile la fruizione del sogno e del risveglio contemporaneamente, trasformando a volontà la rappresentazione in presenza e viceversa. NOTE non è la morte che rimuoviamo per vederla nostro malgrado ritornare; la peste era qualcosa di sempre presente per il greco sia nella struttura simbolica che nella struttura reale. Questa morte che compare nella relazione analitica reificata nel silenzio come luogo dell’altro è testimonianza di verità delle due sole relazioni che l’inconscio contiene: la nascita e la morte. Nell’esperienza analitica è possibile la reinfetazione simbolica, il ritorno alla fase preedipica, il ricupero narcisistico dell’onnipotenza. Solo nello sporgersi pericoloso dell’analista nei confronti del paziente, nel suo reinvestirsi, nel suo coinvolgersi affettivamente, nel suo accettare di nuovo il disastro, la catastrofe della nascita che vi è la possibilità che l’Io distrutto, l’Io annichilito, l’Io preedipico del paziente superi l’annichilimento di una perduta onnipotenza. È nella stanza dell’analisi in quella posizione regredita e spesso fetale sul lettino o sulla poltrona che il paziente sofferente incontrerà l’Io dell’analista che con la sua maieutica tenderà una mano al nascituro per introdurlo al mondo degli uomini. È solo da questa tragedia analitica (Bion) nasce l’Io; da una parte il paziente rischia l’afanisi, l’annichilimento, il suicidio; dall’altra la persona dell’analista, coinvolto affettivamente ed emotivamente con l’Io del paziente, restituisce la gioiosa voglia di ritornare alla vita. È in un rapporto sano con la madre e nel riconoscimento del desiderio del padre che avviene l’identità; il codice materno si è fuso col codice paterno, c’è la pace fra l’Io e il suo ideale. Può l’uomo finalmente consentirsi quei rapporti affettivi che gli garantiscono e gli consentono di essere in ogni situazione padre e madre nei confronti di se stesso e degli altri e di comunicare affettivamente ciò che del padre e della madre ha introiettato. 89 Nel teatro l’attore è una persona che rappresenta un personaggio, lo presentifica ma contemporaneamente ne nega la presenza. Ciò che viene rappresentato diventa sogno collettivo e pertanto pubblico e come tale serve a scongiurare gli incubi privati. Da quando Freud ha scoperto che la vicenda di Edipo non è un misfatto ma una regolarità “notturna” delle vicende affettive umane, il teatro mostra che le società umane si sono preoccupate di rappresentare attraverso incubi collettivi, funzionalmente ed esteticamente controllati, il terrore degli incubi privati. Parallelamente alla relazione tra presenza e rappresentazione, il teatro porta il discorso sulla relazione tra l’essere e l’apparire, tra persona cioè e personaggio, tra rappresentante e rappresentato. L’apparire senza essere nel teatro come nell’incubo svolge la funzione di elaborazione del lutto attraverso la possibilità per entrambi di produrre segni capaci di evocare la morte e contemporaneamente farla evolvere dalla presenza alla rappresentazione. 90 1 Comprendiamo nella sfera degli affetti anche l’odio, l’aggressività e ogni manifestazione relativa alla sfera dell’intersoggettività. 2 Cfr. il Cratilo di Platone, relativamente al problema dell’origine della lingua “culturale” o “naturale”. 3 Teoria Coinemica = Teoria psicoanalitica del linguaggio, basata sulla semiosi affettiva. Analisi Coinemica = Analisi del linguaggio basata sulla semiosi affettiva. Nata come analisi del testo scritto, è stata in seguito utilizzata come analisi di qualunque forma di linguaggio verbale e non verbale. Coinema (dal greco Κοινοσ = comune) = neologismo coniato da F. Fornari per indicare l’unità elementare di base del significato affettivo. I coinemi, come significati comuni di svariati significanti, sono invarianti e innati; corrispondono a pre-oggetti elementari della vita affettiva e sono alla base di ogni linguaggio umano. Corrispondono ai denotati simbolici del sogno e cioè: madre, padre, bambino, fratello (relazioni di parentela) organi sessuali (corpo erotico) nascita e morte. (S. Freud ha considerato precostituiti filogeneticamente il simbolismo onirico, le fantasie primarie e gli affetti. “Introduzione alla psicoanalisi”, vol. 8, p. 368; “L’uomo Mosé”, vol. 11, p. 448; “Analisi terminabile e interminabile”, vol. 11, p. 523, ed. Boringhieri). I coinemi si distinguono in “parentemi” ed “erotemi” (parallelamente nel linguaggio, i primi sono resi da sostantivi e aggettivi, i secondi dai verbi). I coinemi della nascita e della morte combinandosi oppositivamente con tutti gli altri coinemi “significano” l’istinto di conservazione della specie (erotemi) e di conservazione della cultura (parentemi). Essi presiedono alla forma più primitiva di “combinazione coinemica” cioè, grazie a loro, si struttura la connotazione oppositiva: buono-cattivo, positivo-negativo, amico-nemico ed inoltre danno origine alla struttura elementare della significazione affettiva: • coinonie diadiche – relazione madre-bambino; • coinonie triadiche – complesso edipico-scena primaria; • coinonie tetradiche – due maschi - due femmine; • coinonie collettive – collettivo buono - collettivo cattivo. BION W.R., 1971, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma. BIOTTI V., 1987, Teoria coinemica e linguaggio cinematografico, in “Psicoanalisi-ArtePersona”, a cura di F. Maisetti, Franco Angeli, Milano. CASSIRER E., 1968, Linguaggio e Mito, Saggiatore, Milano. CASSIRER E., 1976, Filosofia delle forme simboliche – Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze. CHOMSKY N., 1970, Saggi linguistici, Boringhieri, Torino. F. SCHILLER, 1981, Sulla poesia ingenua e sentimentale, tr. R. Precht a cura di Berardinelli, Abete, Roma. 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NOTE Bibliografia 91 IL TERRORISMO RELIGIOSO di Pietro Birtolo “Io manderò innanzi a te il mio terrore; metterò in rotta ogni popolo” (Esodo 23,27). “Non temerai pericolo notturno né saetta volante di giorno”(Salmo 91,5). “Ascoltate la parola del Signore, voi che tremate ai suoi detti” (Isaia 66,5). Introduzione 92 Il legame tra religione e violenza è presente in tutte le più importanti tradizioni religiose: cristianesimo, giudaismo, islam, induismo, sikhismo e buddismo. Nel tentativo di comprendere, ecco le domande che non possiamo evitare di porci. Perché così tanti credenti uccidono in nome del loro Dio? La maggior parte dei terroristi pretende di avere le proprie motivazioni nella religione. Può la religione avallare atti di terrore contro esseri umani? La religione deve fornire pace e tranquillità, non terrore. Può essere giustificato l’ossimoro “guerra santa”? Può una battaglia essere una crociata religiosa? Può la violenza diventare un dovere sacro? Si può ritenere santa l’eliminazione fisica dei “nemici di Dio” nei modi più spietati? Dio può volere la morte dei suoi “nemici”? La difesa della fede richiede l’uso della forza, esercitato da un potere militare o statale costituito? È giusta l’espressione soldati di Cristo? Diciamo subito che Dio non può volere la morte, vuole la vita. Come è scritto nella Bibbia, Dio non vuole la morte del peccatore, per estensione diciamo del suo nemico, ma che si converta e viva (Ezechiele 18,23; 33,11; Seconda Lettera di San Pietro 3,9). Il Dio-Padre della Bibbia è completamente estraneo a qualsiasi violenza, indifferente allo spirito di vendetta. Dio è agape (1Gv 4,8.16) e non può che volere l’agape e ama chi crede nell’agape (1Gv 4,16) e pratica l’agape (Mt 25, 31-46; 1Cor 13,1-13). Neppure l’Apocalisse allude ad una divinità violenta. La violenza apocalittica non è divina ma umana; la crisi apocalittica che i Vangeli prefigurano non viene presentata come la vendetta di Dio, ma come l’esito cui l’umanità andrà incontro se non sarà in grado di rifiutare la violenza. Gesù predica di “amare i nostri nemici e di pregare per coloro che ci perseguitano”(Mt 5,44). Per amore muore in croce per tutti, anche per i suoi nemici. “È lui la vittima espiatrice per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (Prima lettera di San Giovanni 2,2). Anche altre religioni, il buddhismo e lo stesso islam, sono sulla stessa lunghezza d’onda del cristianesimo. Scrive Juergensmeyer: “Curiosamente, poi, lo scopo di tutta questa violenza religiosa è la pace”1. Ruthven osserva che “l’immagine di un islam militante non si addice a una fede considerata dalla maggior parte dei suoi seguaci –circa un miliardo nel mondo– non meno paci- NOTE fica del buddhismo o del cristianesimo. La parola islam in arabo significa ‘sottomissione volontaria’, ed è etimologicamente legata a salam, che vuol dire ‘pace’; inoltre, l’espressione con cui i musulmani di tutto il mondo si salutano, e salutano gli stranieri, è as-salam alaykum: ‘Che la pace sia con te’”2. Osserva inoltre che “le versioni quietiste dell’islam stanno rapidamente guadagnando terreno”3 e che la Tablighi Gama’at, nata in India e diffusa in un centinaio di paesi, dalla Malaysia al Canada, fino a una completa internazionalizzazione, pur essendo attiva nel promuovere la fede, è dichiaratamente apolitica. “I decenni avvenire –egli afferma– vedranno probabilmente l’abbandono dell’azione politica diretta e un rinnovato accento sugli aspetti personali e privati della fede”4. Secondo Pace, “l’islam è una religione che in linea di principio predica la pace (si tratta in realtà di intendersi storicamente cosa significhi questa affermazione) e perciò i movimenti dell’islam politico si collocano su un piano diverso che nulla hanno a che vedere con la fede e così via”5. E soggiunge: “Si tratta, a ben guardare, di ipotesi di letture del fenomeno che appaiono speculari a tutte quelle interpretazioni del fondamentalismo quale espressione di intolleranza e di fanatismo o di giacobinismo in ‘salsa religiosa’, indice complessivo di una strutturale incapacità delle religioni soprattutto monoteistiche di accettare il principio moderno del pluralismo e della democrazia. Ci troviamo di fronte, allora, da un lato, al ricorso ad argomenti apologetici per esorcizzare un fenomeno che nasce all’interno di una determinata religione, dall’altro al tentativo di ricondurre il fondamentalismo ad una forma esasperata di intendere il primato della verità religiosa su tutte le sfere dell’agire umano, dal foro interno alla vita sociale”6. La religione, dal latino religare, mira a ricongiungere l’uomo con Dio, Jahveh, Allah, Coscienza universale, Siva, Visnu e Kali (diversità di parole per definire la Realtà Ultima, l’Assolutamente Altro, dovuta alla differenziazione culturale). Questo legame verticale con l’Altro non esclude quello orizzontale con l’altro, anzi, lo privilegia dal momento che nell’altro è l’Altro. Nella relazione con Dio il prossimo è un momento indispensabile, primario. Addirittura Dio dice: “Se dunque tu stai presentando la tua offerta all’altare ed ivi ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta lì dinanzi all’altare, e va’prima a riconciliarti col tuo fratello; poi allora torna e presenta la tua offerta” (Mt 5, 23-24). E ancora Dio dice: “ogni volta che voi avete fatto queste cose a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatta a me” (Mt 25, 3940). Nel passo biblico vengono precisate quelle che sono le cose fatte a uno dei più piccoli: aver dato da mangiare all’affamato, aver dato da bere all’assetato, aver dato ospitalità al pellegrino, aver rivestito l’ignudo, aver visitato l’infermo, il carcerato. Se così è, non è forse più giusto ammettere che si è di fronte ad uno scenario, quello attuale, complesso, nel quale la religione è usata a pretesto della lotta politica, è ridotta a religione politicizzata? È proprio vero che la religione fornisce agli autori degli attentati la motivazione? È ammissibile una giustificazione religiosa degli atti terroristici? Si tratta della religione veramente o di un’ideologia religiosa? Si può trovare nella religione un rimedio per la violenza più che una sua causa? La religione deve avere legami con la politica? Qual è 93 94 il rapporto dell’islam come religione con l’islam politico? Nelle teorie islamiche la jihad è usata per la salvezza personale e la redenzione politica, è impegno civile e religioso. “La vita è fede e lotta”, ha detto l’ayatollah Khomeini, intendendo che il concetto del combattere è fondamentale per l’esistenza umana ed è allo stesso livello dell’impegno religioso. L’attuale terrorismo, che ha in Osama Bin Laden il suo leader, possiede un’ideologia religiosa in grado di costituirsi come strumento di interpretazione e rinnovamento della realtà. Bin Laden ha sferrato l’attacco contro il potere imperialistico americano, concepito come il nemico da combattere, “satana”, perché incarna lo spirito di una “crociata”cattolico-ebraica contro i paesi musulmani. Infatti, i terroristi non si ritengono aggressori, ma vittime. Si apre, così, lo scenario da essi auspicato: l’immagine di un mondo in guerra tra forze laiche e religiose. Il fondamentalismo islamico si è fatto naturale interprete del timore diffuso tra i musulmani che l’Occidente, attraverso la globalizzazione economica e culturale e la sua potenza militare, minacci l’esistenza dell’islam. La percezione di un Occidente arrogante, repressivo è diventata così una vera e propria forma di rappresentazione identitaria della civiltà islamica. Ad una ricognizione sociologica, la città di New York risulta essere una città multietnica che ospita persone provenienti da tutto il mondo senza che esse abbiano alcun problema con gli uffici addetti all’immigrazione. L’attacco ha fatto emergere una dissidenza all’interno dello stesso territorio americano costringendo a comprendere le ragioni degli altri e a riflettere che è stato un attacco contro i valori rappresentati dall’intero Occidente. Di qui la condanna verso tutti quegli Stati che con il fenomeno terroristico presentano una connivenza e il mutamento degli equilibri mondiali: schieramenti, fino a pochi decenni fa inimmaginabili, hanno dato vita ad intese politiche fra U.S.A., Cina e Russia contro il terrorismo. L’attacco ha deteriorato i rapporti tra Oriente e Occidente. Noi siamo convinti che la religione, meglio, le religioni svolgono un ruolo fondamentale nel rapporto Oriente-Occidente, soprattutto le tre grandi religioni monoteistiche e abramitiche, per la costruzione concreta della pace, e sono rimedio per la violenza. Con l’aiuto di Mark Juergensmeyer, il più grande studioso mondiale del terrorismo religioso, e di altri, cerchiamo di rispondere alle domande che ci siamo poste, partendo dagli attentati terroristici dei nostri giorni. Gli attentati aerei al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 sono stati “la manifestazione più spettacolare di una serie di sanguinosi eventi religiosi”7. Prima gli americani erano stati il bersaglio di attacchi terroristici: gli scontri a fuoco etnici in California e nell’Illinois nel 1999, l’attacco alle ambasciate americane in Africa nel 1998, gli attentati alle cliniche per aborti in Alabama e in Georgia nel 1997, lo scoppio di una bomba alle Olimpiadi di Atlanta e la distruzione di un edificio di alloggi per militari a Dahahran in Arabia Saudita nel 1996, la tragica distruzione dell’edificio federale di Oklahoma City nel 1995, l’esplosione al World Trade Center a New York nel 1993. Quello dell’11 settembre è “il più grande attacco terrorristico mai realizzato sul suolo americano”8. In questi casi la religione associata al terrorismo era il cristianesimo. Gli autori di questi eventi e altri episodi violenti, infatti, erano estremisti NOTE religiosi americani (tra cui le milizie cristiane, la Christian Identity e i militanti antiabortisti cristiani). Gli americani non sono i soli a dover fare i conti con la violenza religiosa. I francesi hanno avuto a che fare con le bombe nella metropolitana collocate da attivisti dell’islamismo algerino, i britannici con camion e autobus imbottiti di esplosivo innescati da nazionalisti cattolici irlandesi e i giapponesi con il gas nervino introdotto nella metropolitana dai membri di una setta indo-buddista. In India gli abitanti di Delhi hanno subito attentati con autobombe da parte dei separatisti sikh e di quelli del Kashmir. Gli algerini hanno subito selvaggi attacchi dai sostenitori del FIS (Fronte Islamico di Salvezza). Israeliani e palestinesi hanno dovuto affrontare le azioni mortali di estremisti ebrei e palestinesi. Questi eventi sono violenti e motivati dalla religione. Un’ascesa della violenza religiosa si registra in tutto il mondo negli ultimi decenni del ventesimo secolo. Negli ultimi anni, infatti, è esplosa la violenza religiosa tra i cristiani di destra negli Stati Uniti, tra musulmani ed ebrei in Medio Oriente, tra induisti e musulmani nell’Asia meridionale e tra comunità religiose indigene in Africa e in Indonesia. Il legame tra religione e violenza coinvolge le più diverse confessioni: cristianesimo, ebraismo, islam, induismo, sikhismo e buddismo e sembra diffuso praticamente ovunque. Si tratta di uno scenario complesso nel quale non c’è religione che non venga usata a pretesto della lotta politica. I seguaci di Osama bin Laden “hanno tratto dalla religione la propria identità politica e la legittimità per ideologie vendicative”9. La religione è nel background di Osama bin Laden come è in quello di così tanti e diversi autori di catastrofici atti terroristici, perché “tutte le religioni sono intrinsecamente rivoluzionarie. Possono fornire le risorse ideologiche per una visione alternativa dell’ordine pubblico”10. La globalizzazione può essere la causa della violenza religiosa, “una ragione del perché tutti questi casi di violenza religiosa nel mondo si verificano in questo momento storico”11. D’altra parte, la percezione di una cospirazione politica internazionale e di un “nuovo ordine economico mondiale”oppressivo è stata esplicitata da Osama bin Laden, dall’Aum Shinrikyo e dai gruppi miliziani cristiani. “Attivisti come bin Laden potrebbero essere considerati come guerriglieri antiglobalizzazione”12. Ronald Robertson vede nel fondamentalismo una formidabile rivendicazione di identità e di località da parte di attori sociali che rifiutano l’idea di un mondo unico13. Più che un clash of civilizations, scontro tra civiltà, tra l’Occidente e l’islam, teorizzato da Samuel Huntington14, si profilerebbe così un clash of localities, scontro di località. Robertson preferisce al concetto di globalizzazione, che non dà conto delle resistenze locali, quello di glocalizzazione, che fonde globalizzazione e localizzazione. Certamente Osama bin Laden e quelli come lui “si sono appropriati della religione per metterla al servizio della loro macabra visione del mondo”15. La religione, in questo caso, è usata a pretesto della lotta politica. Perché la religione, che dovrebbe fornire pace e tranquillità, non terrore, è legata ad atti di violenza pubblica, ad atti di terrorismo? Perché questi atti hanno la loro giustificazione religiosa? Perché la religione ha un ruolo fondamentale? Perché “offre giustifi- 95 96 cazioni morali per uccidere e mette a disposizione immagini di guerra universale che permettono agli attivisti di credere che la pièce che stanno interpretando sia di natura spirituale”16. La religione “spesso mette a disposizione usanze e simboli che rendono possibile lo spargimento di sangue, e anche catastrofici atti terroristici”17. Agli autori degli attentati fornisce “non solo l’ideologia, ma anche la motivazione e la struttura organizzativa”18. La violenza religiosa non è esclusiva di una religione in particolare: “praticamente tutte le più importanti tradizioni religiose (cristianesimo, giudaismo, islamismo, induismo, sikhismo e buddhismo) sono servite da risorsa per soggetti violenti”19. Ma la religione, che fornisce le motivazioni ad atti terroristici, è al tempo stesso “un rimedio per la violenza”20, è “in grado di sanare le ferite, ricostruire e ridare la speranza”21. Terrorismo, dal latino terrere, far tremare, è più frequentemente associato alla violenza commessa da gruppi emarginati che cercano di ottenere un brandello di potere e che, grazie all’alto grado di dedizione alla causa e alla loro pericolosa imprevedibilità, sono in grado di esercitare un’influenza notevole. La loro lotta è alimentata da ideologie di sinistra o da un desiderio di separatismo etnico o regionale. “Ma è stata più spesso la religione, talvolta in combinazione con questi altri fattori, talvolta come motivazione primaria, a incitare gli atti terroristici”22. Negli ultimi decenni del ventesimo secolo c’è stata un’ascesa della violenza religiosa. Nel 1980, nell’elenco dei gruppi terroristici internazionali, stilato dal Dipartimento di Stato americano, figurava soltanto un’organizzazione religiosa. Vent’anni dopo, nell’elenco dei trenta gruppi più pericolosi a livello mondiale più della metà erano religiosi. Si trattava di gruppi ebraici, musulmani, buddisti. Per questo il terrorismo perpetrato in nome della religione e dell’identità etnica è –come dice Warren Christopher– “una delle sfide più importanti, in materia di sicurezza, tra quelle che ci troviamo di fronte nel mondo post-Guerra Fredda”23. Il legame religione e violenza è rintracciabile nell’immaginario religioso. “All’interno delle storie delle tradizioni religiose, dalle guerre bibliche alle crociate e ai grandi atti di martirio, la violenza aleggia come un’oscura presenza. I simboli più oscuri e misteriosi della religione ne sono pervasi. Il potere che ha la religione di stimolare l’immaginazione ha sempre avuto a che fare con immagini di morte”24. L’immaginario religioso possiede un potere sulla vita pubblica. Agli atti di violenza del nostro tempo la religione “ha fornito la motivazione, la giustificazione, l’organizzazione e la visione del mondo”25; ma alla base di questi atti stanno anche idee e comunità di supporto, contesti culturali, culture della violenza. Nelle culture della violenza che hanno portato al terrorismo religioso, le angosce dei giovani (le preoccupazioni per la carriera, la collocazione sociale, le relazioni sessuali, la marginalità, la moralità pubblica deficitaria, la laicizzazione della società) sono esarcebate. Di qui i loro tentativi di creare regimi basati sulla legge religiosa, di ricostruire le loro società su basi religiose, di rivendicare alla religione un ruolo nella vita pubblica. “Le esperienze di umiliazione in questi ambiti li hanno resi vulnerabili al richiamo di leader carismatici e alle immagini di gloria di una guerra universale”26. Ai fini del legame religione e violenza è importante il contesto, cioè, le situazioni storiche, le localizzazioni sociali e le visioni del mondo legate agli eventi violenti. Religione e violenza nel cristianesimo Innanzitutto c’è da chiedersi: il cristianesimo, dal momento che si presenta espressamente, e in modo marcatamente originale, come religione dell’amore e della non-violenza, si rapporta con la violenza? Purtroppo sì. Nietzsche definisce il cristianesimo “l’unico grande istinto della vendetta”28, perché, i deboli, di cui prende le parti, dietro l’apparenza dell’amore, sono in realtà mossi da una profonda brama di vendetta nei confronti dei forti; per essi, la possibilità di liberarsi dalla sofferenza sta sempre soltanto nella vendetta. Il cristianesimo –come la maggior parte delle tradizioni religiose– ha sempre avuto il suo aspetto violento, nonostante la centralità del messaggio evangelico di amore e pace. Cristo stesso ha detto: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt 10, 34; cfr. anche Lc 12, 51-52). “La sanguinosa storia della tradizione cristiana ha fornito immagini altrettanto inquietanti di quelle fornite dall’islamismo o dalla religione sikh, e, sia nel Vecchio sia nel Nuovo Testamento, il conflitto violento viene rappresentato a tinte vivide. Questa storia e queste immagini bibliche hanno fornito la materia prima per giustificare dal punto di vista teologico la violenza dei gruppi cristiani contemporanei”29, come gli attentati alle cliniche per aborti, negli Stati Uniti, e gli attacchi terroristici di cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord. NOTE La religione, “comunemente, non conduce alla violenza. Questo succede solo quando una determinata serie di circostanze (politiche, sociali e ideologiche) si saldano insieme, quando la religione diventa tutt’uno con manifestazioni violente di aspirazioni sociali, orgoglio personale e movimenti per il cambiamento politico”27. Il terrorismo, perciò, non è un atto isolato; nella maggioranza dei casi, è il risultato di decisioni collettive, come la cospirazione, cui parteciparono buddisti giapponesi, che ha portato allo spargimento di gas nervino nella metropolitana di Tokyo. Quando Mohammad Atta e altri membri di al Qaida, a Boston e a Newark, salirono a bordo degli aerei che poco dopo si sarebbero schiantati sulle torri gemelle del World Trade Center provocando- ne il crollo, agivano all’interno di un piano in cui erano coinvolti diversi cospiratori e tanti simpatizzanti negli Stati Uniti, in Europa, in Afghanistan, in Arabia Saudita e in altre parti del mondo. L’attentato del 1993 al World Trade Center inizialmente fu ritenuto opera di un piccolo gruppo, in seguito si scoprì che esso aveva legami con la rete mondiale di attivismo islamico al Qaida, legata ad Osama bin Laden. Dietro l’assassinio di Yitzhak Rabin per mano di Yigal Amir c’era un grande movimento di sionismo messianico in Israele e all’estero. Dunque, anche quelle azioni che appaiono avventate imprese solitarie compiute da schegge impazzite hanno alle spalle reti di supporto e ideologie che le convalidano, sebbene ciò non risulti immediatamente evidente. La percezione che la propria comunità sia violata e che le proprie azioni siano una risposta alle violenze che stanno subendo è la caratteristica significativa delle culture della violenza. Vediamo brevemente il legame tra violenza e religione nelle diverse tradizioni religiose. 97 98 Nella tradizione cristiana ci sono altri esempi di violenza religiosa, tra cui le Inquisizioni, con la tortura e il rogo, e le Crociate. Le Inquisizioni del tredicesimo secolo costituivano il tentativo della Chiesa medievale di sradicare l’eresia, che comprendeva la tortura dell’accusato e la condanna al rogo tra le possibili sentenze. L’Inquisizione spagnola nel quindicesimo secolo era rivolta in gran parte contro gli ebrei e i musulmani convertiti al cristianesimo, indagati perché sospettati di conversioni non sincere: anche in questo caso torture e condanne a morte erano caratteristiche comuni di questi processi illegittimi. Le Crociate si combatterono al suono del grido di battaglia cristiano “Dio lo vuole”, con la croce e la spada. A Clermont, nel 1095, il papa Urbano II esorta i cristiani ad armarsi per liberare i luoghi santi in mano ai musulmani. Nella prima crociata ci furono massacri di ebrei, giustificati dall’affermazione che bisognava innanzitutto distruggere gli infedeli più vicini, prima di mettersi in marcia per sconfiggere i più lontani. Da parte ebraica fu elaborata l’idea di martirio per la “Santificazione del Nome”. La morte o il suicidio collettivo vennero preferiti al battesimo coatto. A York avvenne uno dei casi più noti di accettazione collettiva della morte per la “Santificazione del Nome”. I massacri di ebrei compiuti dai crociati furono i funesti presagi di ciò che sarebbe accaduto nella storia successiva ad Auschwitz. Diciannove secoli di antigiudaismo cristiano sono culminati nella Shoà, “distruzione”, “catastrofe”, nella quale sei milioni di ebrei sono stati sterminati nel cuore dell’Europa cristiana (protestante e cattolica). Secondo il teologo Martin Cunz, Auschwitz è la “bancarotta del cristianesimo”: i cristiani hanno perseguitato e fatto morire i fratelli di colui che essi veneravano (Cristo era ebreo). Maria Zambrano, pensatrice spagnola, di fronte ad un’Europa assediata dai totalitarismi, scossa dalle guerre civili, annichilita dalla violenza, s’interroga sulle ragioni dell’orrore e scopre che l’Europa è violenza, perché è cristiana. Ricollega, infatti, questa violenza originaria dell’Europa alla violenza del Dio cristiano, il Dio creatore che trae il mondo dal nulla. L’uomo, che è immagine sua, è anch’egli creatore e quindi violento. Scrive: “Non v’è un Dio più attivo, più violento. Dal nulla estrae il mondo, la splendida realtà che è l’azione più grande di tutte, l’azione più attiva, azione assoluta. E la creatura umana è fatta a sua immagine e somiglianza. Presto comincerà quella frenesia della creazione che si chiama Europa”30. La violenza europea ha dunque un’origine religiosa-cristiana. La capacità creatrice dell’uomo doveva essere motivo di intimità con Dio, così pensava Agostino, quindi prosecuzione dell’attività creatrice divina, invece si è sviluppata nella più completa distanza da essa, pretendendo di sostituirsi ad essa e cioè di creare anch’essa dal nulla, divenendone così una variante perversa. È la tentazione luciferica dell’eritis sicut Deus, che porta l’uomo ad attribuire a se stesso poteri assoluti e totalizzanti, falsando così le sue relazioni con Dio, con gli altri e con il mondo. L’uomo, preso da un satanismo, suscitato dall’orgoglio teoretico e pratico, pretende di poter spiegare tutto da sé. Questa pretesa è il demoniaco in atto, ovvero l’assoluta solitudine. La cupiditas scientiae, infatti, “non lascia scorgere gli altri (l’umanità degli altri), insinuando nell’animo l’orgoglio di potersi eguagliare a Dio, di essere il divino NOTE (l’illusione della ragione)”31. Scrive Strummiello: “l’uomo europeo ha trasformato il suo sogno in un ostinato delirio, ha fatto della propria grandezza creatrice il suo inferno, ha ceduto alla furia della passione di assolutezza, stanco di vestire i panni di un’epoca immagine […]. La frenesia della creazione giunge ad un punto in cui non può essere più tollerata dall’uomo stesso, stanco di vedere ogni volta rinviato il soddisfacimento del suo desiderio di assoluto: l’uomo creatore, fattosi impaziente, vuole giungere a toccare con mano i risultati del suo potere, per potersi finalmente definire compiuto e superare l’orrore di un continuo rinascere”32. Illusione! Come sottolinea la Zambrano, non si tratta di negare la propria nascita –conia i termini di desnacer, desnacimiento–,bensì di affermarla costantemente, tornando ogni volta a nascere. Ciò significa che l’uomo deve riconoscere la propria strutturale incompiutezza: deve trascendersi continuamente, tornando ogni volta a nascere, perché non è nato una volta per tutte completo; deve rinunciare alla tentazione di desnacer; consapevole di “vivere nel fallimento”; deve rinunciare alle proprie pretese di purezza. Torniamo all’antigiudaismo cristiano. “Se non vi fosse stato il bimillenario ‘insegnamento del disprezzo’ cristiano verso gli ebrei ‘carnali e deicidi’ i nazisti avrebbero tentato e parzialmente realizzato il loro progetto di estirpamento del popolo ebraico dal mondo? L’antigiudaismo cristiano ha pavimentato l’impresa”33. L’antigiudaismo religioso è “un’indiscussa condizione”34 dell’antisemitismo razziale e culturale. Sotto la spinta della secolarizzazione, “l’antigiudaismo religioso del lontano passato si è trasformato divenendo ora antisemitismo biologico-razziale, ora avversione economico-politica, cioè antisionismo”35. E così “l’avversione religiosa di un tempo è divenuta la più “scientifica”giustificazione della politica della razza pura”36. Duemila anni di conflitto antigiudaico dovuti a motivi religiosi, teologici sono, dunque, culminati nella Shoah. Perché tanto odio da parte dei cristiani contro gli ebrei? Qual è la matrice della conflittualità teologica tra ebrei e cristiani? “Esiste un parallelo, […] una sovrapposizione di tipo ermeneutico-soteriologico tra Israele e il Cristo dei cristiani “37. Quel parallelo, quella sovrapposizione tra Israele e Cristo costituisce la matrice della conflittualità teologica tra popolo ebraico e chiesa. La questione intriga. A chi spetta la missione salvifica, il compito messianico: ad Israele, il “popolo eletto”, o alla chiesa, cioè a coloro che –secondo il racconto degli Atti degli Apostoli– credettero in Gesù come messia e perciò convocati a svolgere la stessa opera salvifica di Cristo? Da una parte c’è Israele, il “popolo eletto”da Dio a una speciale missione nel mondo, a un compito messianico per eccellenza, ne è rivelativa l’alleanza sinaitica; dall’altra c’è Cristo, l’Agnus Dei, quindi, la chiesa come ecclesia, comunità di convocati a svolgere la stessa opera di redenzione nel mondo attraverso la fede in quello stesso Gesù “che Dio ha costituito Cristo” (At 2,36). Per gli ebrei, Cristo non è il messia, perciò lo hanno crocifisso. Per i cristiani, invece, Cristo è filius Dei. Gli ebrei, dunque, sono deicidi. Da qui l’antisemitismo cristiano e le affermazioni antiebraiche: ebrei carnali, ebrei maledetti da Dio per aver ucciso suo figlio. L’accusa di deicida abbassa l’ebreo al livello più basso della condizione umana. Ciò ha costituito, fin dalle origini della storia cristiana, la base per la demonizzazione dell’ebreo 99 100 qua talis e per l’attribuzione di una colpa universale. Questa colpa avrebbe le sue radici “nella presunzione del popolo ebraico di sentirsi un popolo eletto, e quindi portatore di una verità e di un progetto che cerca di imporsi alla storia dei popoli e di mutarne il libero corso. Gli ebrei sono quindi perpetuamente agenti e colpevoli di un complotto”38. Innanzitutto complotto contro Dio, perché negano la divinità di Cristo e arrestano la diffusione del messaggio cristiano nell’umanità, e poi complotto contro la società, perché vogliono imporre il principio dell’economia capitalistica, il freddo dominio del denaro, a tutta la società, costruendo così nuove forme di schiavitù economiche, coloniali e imperiali. Nell’uno e nell’altro caso gli ebrei sono visti come “causa di tutti i mali della società e la risoluzione di questi mali s’identifica con il loro sacrificio come capro espiatorio”39. Nonostante tutto, il popolo ebraico non è stato annientato, come prevedeva il progetto nazista. La Shoah, dunque, è “nuova rivelazione dell’esistenza di Israele accanto alla chiesa” e “solleva nella chiesa l’istanza nuova della relatività soteriologica, dei limiti cioè della propria pretesa di salvezza sul mondo, ponendo così un limite teologico alla redenzione di Cristo”40. La Shoah, quindi, è un problema cristologico perché riapre al cuore della teologia cristiana il problema della redenzione, “facendo riscoprire ai cristiani il peccato originario della loro ermeneutica sostituzionista e la sostanziale relatività soteriologica del simbolo cristiano per antonomasia: la croce di Cristo”41. La Shoah mette in discussione l’assolutizzazione del senso salvifico del sacrificio di Cristo e il suo elitismo sostituzionista, mette in dubbio la salvezza del mondo operata da Cristo, sovrapposto e sostituito a Israele, cioè mette in dubbio che Cristo sia veramente Redemptor mundi e insinua un’istanza di relatività soteriologica nella cristologia tradizionale della chiesa. Mette in crisi l’esclusività soteriologica della croce di Cristo, dal momento che proprio la croce è stata per gli ebrei simbolo di intolleranza, di condanna, di oppressione e di odio. In nome di essa i crociati hanno combattuto gli ebrei. La croce era brandita dai giudici dell’Inquisizione e dagli aguzzini dei pogroms. Per gli ebrei esiste un parallelo tra la croce e la svastica. Allora: si può includere Auschwitz nella croce di Cristo? È Auschwitz una “stella dell’irredenzione”? “Il dubbio che la croce di Cristo sia rimedio per tutti i mali e per tutti i peccati, tranne quelli compiuti in nome della croce stessa, fa tremare l’intero edificio della redenzione cristiana […]; incrina la serafica certezza dell’universalità e della compiutezza della soteriologia”42. La redenzione, allora, “ridiviene dramma […]. Ridiventa il biblico Chaoskampf, dove Dio è ancora in lotta contro il male e dove nessun redentore può dire ‘tutto è compiuto’”43. L’implicazione più urgente e radicale della Shoah per la teologia cristiana è ripensare il ruolo d’Israele nell’economia cristiana della salvezza. La Shoah pone le chiese e le teologie cristiane di fronte alla realtà storico-teologica di Israele, come popolo di un’alleanza mai revocata –l’alleanza sinaitica è eterna– e come radice santa della propria fede, le pone anche di fronte al proprio peccato: “il peccato di non-credere che le promesse di Dio sono irrevocabili e di negare l’unigenitura di Israele. In una parola, il peccato di antigiudaismo”44. Un peccato, dunque, verso Dio e verso Israele, nella forma della dottrina sosti- NOTE tuzionista, in virtù della quale la chiesa sostituisce Israele nel piano di salvezza, della sostituzione teologica, cioè, di Israele con un altro “popolo eletto”, la chiesa, cioè il popolo cristiano, “nuovo Israele”. La sovrapposizione cristiana di Cristo a Israele è il nodo teologico che è alla base del conflitto ebraico-cristiano. La Shoah riscopre l’irrevocabilità delle promesse di Dio e la permanenza del valore teologico di Israele nella storia della salvezza. “Infatti se Israele venisse meno, cadrebbero le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza per sempre”45. E ancora: “il principale attributo del Dio biblico, cioè la sua credibilità, verrebbe meno a sua volta”46. La rivelazione di Dio in Cristo non è negazione della rivelazione di Dio a Israele. Il peccato originale del cristianesimo nascente è l’aver occultato l’origine ebraica, l’hebraica veritas, della cosiddetta nuova alleanza: l’alleanza tra Dio e Israele è confermata e rinnovata in Cristo. Per il teologo Martin Cunz, infatti, il patto in Gesù Cristo e il patto tra Dio e Isarele costituiscono un’unica realtà. L’ “Eletto” di Dio, allora, è Israele, o meglio il popolo ebraico, nella sua dimensione di servo sofferente, di cui parla Isaia al capitolo 53, che i cristiani interpretrano come una figura del Cristo. Israele è servo sofferente prima di Cristo, in quanto popolo eletto da Dio a una speciale missione nel mondo. Per la Scrittura il “servo di Dio” è colui che il Signore coinvolge, sceglie, nel suo progetto d’amore nei confronti del suo popolo. Questa espressione emerge nei quattro poemi del “Servo di Jahveh” e trova la sua realizzazione piena in Gesù “il quale pur essendo di natura divina […] spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Lettera ai Filippesi 2,6.7). Le due religioni, perciò, hanno motivo di essere l’una accanto all’altra e non l’una contro l’altra. D’altra parte, “Dio ha creato il mondo, non le religioni. E neppure le chiese e le sinagoghe”47. Ed Egli stesso non è né ebreo né cristiano, né musulmano né hindu. “Forse Dio è soltanto Iddio dei Giudei? –scrive l’apostolo Paolo– o non lo è pure dei Gentili? Sì, anche dei Gentili. Or, dato che vi è un solo Dio, egli come giustificherà per mezzo della fede il Giudeo, così per mezzo della fede giustificherà i Gentili” (Lettera ai Romani 3, 29-30). L’uomo, quindi, “è giustificato dalla fede” (Ibid.). E nella Lettera agli Efesini (4, 5-6) scrive: “Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Non esiste che un solo Dio e Padre di tutti, il quale è al di sopra di tutti, opera in tutti ed è in tutti”. La comune fede in un solo Dio deve spingere tutti gli uomini a riconoscersi fratelli al di là di ogni discriminazione di razza o di nazionalità, “poiché davanti a Dio non vi è preferenza di persone”(Lettera ai Romani 2,11). “Non c’è infatti nessuna differenza fra il giudeo e il greco, poiché Gesù è lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l’invocano” (Op.cit. 10,12). “Non c’è dunque più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, perché tutti siete un sol uomo in Cristo Gesù” (Lettera ai Galati 3, 28). Perciò non ha senso dire: “Io sono di Paolo”, “Io di Apollo”, “Io di Pietro”, “E io di Cristo”. È stato tagliato a pezzi il Cristo?” (Prima Lettera ai Corinti 1,12-13). E “quando infatti uno dice: “Io sono di Paolo”; e un altro: “Io sono di Apollo”, non siete forse uomini?” (Op. cit. 3, 4). L’essere uomini è l’elemento che dovrebbe far riflettere per favorire la pace. Tornando al legame religione e violenza nel cristianesimo, osserviamo che i primi cristiani erano fondamentalmente pacifisti. Per la Chiesa primitiva il 101 102 pacifismo era una componente essenziale della dottrina cristiana. I primi padri della Chiesa, tra cui Tertulliano e Origene, asserivano che ai cristiani era fatto divieto di togliere la vita ad altri uomini, un principio che impediva ai cristiani di servire nell’esercito romano. Tertulliano scriveva: “È proprio del diritto umano e della facoltà naturale che ciascuno veneri ciò che vuole; la religione di un uomo non nuoce né giova ad un altro. E non è proprio della religione imporre la religione, che dev’essere accettata spontaneamente e non con la forza, perché i sacrifici sono richiesti solo dalla libera volontà”48. Lattanzio aveva scritto: “Si deve difendere la religione non uccidendo ma morendo, non con la crudeltà ma con la pazienza, non col delitto ma con la fede: quelli infatti sono tra i mali, questi tra i beni, e nella religione è necessario impiegare il bene, non il male. Perché se vuoi difendere col sangue, con la violenza e con la malvagità la religione, questa non sarà difesa, ma inquinata e offesa. Nulla è più volontario della religione: se l’animo di chi compie il sacrificio è avverso, essa rimane soppressa, annullata”49. Nel quarto secolo d. C. si affermò l’idea della guerra giusta, sostenuta per primo da Cicerone e poi da Ambrogio e da Agostino. Già con Costantino, e l’alleanza tra Chiesa e Impero, era stata riconosciuta ai cristiani la licenza di uccidere al servizio dello Stato, contro “barbari” e pagani. Agostino aveva giustificato il bellum justum come guerra difensiva, non come guerra di aggressione. Dopo il 1050, con l’integrazione della sfera temporale in quella spirituale progettata da Gregorio VII nel suo sogno ierocratico di una società organicamente cristiana, il papato romano sviluppò la tendenza alle gestione totalitaria della società e all’eliminazione violenta del dissenso e delle diversità di fede e di pensiero. “S’involgariva la grandezza e la bellezza del messaggio evangelico dimenticandone la vocazione irenica e mutandone l’etica della compassione e della vita in teologia della guerra apportatrice di morte. Gregorio VII, adottando lo jus gladii della cavalleria, aveva cancellato le inibizioni che avevano trattenuto la Chiesa dal predicare la guerra e dal commissionarla e guidarla”50. Urbano II s’impegnò a realizzare quel programma, che poi Innocenzo III allargò. Questi, in una strategia teocratica di apostolato armato, trasformando la persuasio in coercitio, darà mandato di sterminare i “diversi”. A dispetto del messaggio evangelico, la crociata contro gli infedeli diventerà la guerra contro tutti i presunti nemici della Chiesa, gli “altri”: politici, scismatici o eretici, ebrei e musulmani (“popoli del Libro” come i cristiani), “nemici di Cristo”e come tali dovevano essere convertititi con la violenza o eliminati. Innocenzo III trasformò i cristiani “devianti” in criminali, giustificando inquisizione e persecuzione, che tre secoli dopo troveranno conferma nel concilio di Trento: la diversità di fede, la libertà di coscienza, sarà punita con la tortura ed il rogo. Certamente atrocità simili ci sono stati e ci sono. “Ma i crociati erano cristiani di obbedienza romana, ed erano stati messi in cammino da un papa che, pur non avendo abrogato il Discorso della Montagna, sosteneva di parlare in nome di Dio. “Dio lo vuole!”era il grido terribile che spinse gli uomini a prendere le armi”51. L’impresa delle crociate, ricca di ossimori (guerra santa, pellegrinaggio armato, combattimento penitenziale) è l’origine della rottura dei musulmani nei confronti dell’Occidente. “Il mondo arabo non può decidersi a considerare le crociate Religione e violenza nell’ebraismo La stessa violenza religiosa si riscontra nell’ebraismo, che giustifica la violenza, quantomeno nei casi di guerra giusta. Yigal Amir, Baruch Goldstein e Meir Kahane si rifanno a questa tradizione. Il primo, un giovane ebreo di 25 anni, studente dell’Università conservatrice Bar-Ilan di Tel Aviv, in nome della “violenza del sacro”, assassinò il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin la sera del 4 novembre 1995 nella piazza Re di Israele a Tel Aviv, dopo aver parlato davanti ad una folla di 100.000 persone. Avrebbe detto di non avere “alcun rimorso” per quello che aveva fatto, che aveva “agito da solo e su ordine di Dio”54 e che si richiamava alla tradizione ebraica che, in taluni casi, legittima l’assassinio del rodef e mosser, traditore e persecutore, che mette in pericolo la vita (pikuah nefesh) di altri ebrei. Yigal è NOTE come un semplice episodio di un passato ormai compiuto. Si è spesso sorpresi nello scoprire a che punto l’atteggiamento degli Arabi e dei Musulmani in generale nei confronti dell’Occidente sia influenzato ancora oggi da avvenimenti che si presume conclusi sette secoli or sono. […]. E non si può dubitare che la rottura avvenuta tra i due mondi abbia la propria radice nelle crociate, a tutt’oggi considerate dagli Arabi come un vero atto di violenza”52. Tommaso d’Aquino sostenne che la guerra era sempre immorale, anche se intrapresa per una giusta causa. Ha scritto di recente il cardinale Martini: “Noi siamo del parere che non basta una nobile causa per giustificare una guerra condotta per ordine di Dio […]. Del resto, non ci si è forse appellati, lungo i secoli della storia della Chiesa, al giudizio implacabile di Dio per ritenersi autorizzati ad anticiparlo in qualche modo nella tortura, nelle crociate, nelle forme di eliminazione degli avversari della fede?”53. Una lenta trasformazione ideologica (avvenuta soprattutto nel X e XI secolo) porta il pensiero cristiano dall’originaria non violenza alla crociata. Attraverso la difesa armata dei possedimenti della Chiesa, la guerra viene a poco a poco sacralizzata, poi prende corpo la demonizzazione dei musulmani e infine nasce la “guerra santa”contro gli infedeli. Alcuni teologi cristiani moderni sostengono che la Chiesa possa abbracciare la causa di una rivoluzione giusta. Reinhold Niebuhr, uno dei più grandi teologi protestanti del ventesimo secolo, nel saggio Why the Christian Church is not Pacifist (perché la Chiesa cristiana non è pacifista), legittima l’uso della violenza per estirpare l’ingiustizia, ma con parsimonia e con la rapidità e la precisione con cui un chirurgo adopera il bisturi. Anche il teologo e pastore luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer legittima l’uso della violenza per scongiurare grandi atti di violenza e di ingiustizia. Egli stesso abbandonò la sua privilegiata posizione di ricercatore alla Union Theological Seminary di New York per ritornare in Germania e aderire clandestinamente a un piano per assassinare Hitler. Il piano fu scoperto ed egli fu impiccato dai nazisti. È citato dai filosofi morali come esempio del modo in cui i cristiani dovrebbero intraprendere azioni violente per una giusta causa e di come siano costretti occasionalmente a infrangere la legge per uno scopo più alto. 103 104 stato educato in una famiglia ultraortodossa: suo padre aveva militato in una delle principali formazioni fondamentaliste in Israele. Ha frequentato la scuola vicina agli ideali più duri e puri del movimento nazional-religioso, Tshal, che prescrive per i suoi aderenti una milizia regolare. La lettura della Torah nutre la sua fede e allo stesso tempo gli suggerisce le linee di azione da seguire. Legge il passo della Bibbia (Numeri 25), nel quale si ricorda la vicenda di Pinhas, che uccide un ebreo –Zimri– che aveva stretto una relazione con una donna –Cozbi– appartenente ad un popolo adoratore di dei, empio e peccaminoso. Per questo gesto il Signore mostra riconoscenza a Pinhas, stipulando con lui un’alleanza di pace e di sacerdozio perpetuo con tutta la sua discendenza. “L’idea di trasferire l’immagine del “nemico”su Rabin e di assumere da parte di Amir le vesti del grande punitore –Pinhas– non solo diventerà una fantasia mentale, ma si concretizzerà in un atto insano quella sera del novembre 1995”55. Questo percorso mentale di Amir è simile a quello che conduce giovani palestinesi a diventare martiri della fede: “si assume alla lettera il dato rivelato di fede e lo si tramuta in un potente dispositivo di mobilitazione politica. Il nesso diretto fra Libro sacro e azione politica è la sostanza del fenomeno fondamentalista”56. Baruch Goldstein uccise una trentina di musulmani e ne ferì altri mentre pregavano nel santuario della Tomba dei Patriarchi di Hebron, luogo di culto sia per gli ebrei sia per i musulmani, con sale riservate agli uni e agli altri. La strage fu compiuta il giorno di Purim, una festa sacra per gli ebrei che ricorda lo scampato pericolo da parte del popolo ebraico di essere sterminato dal “cattivo Aman”. Il 24 febbraio 1994, la sera prima della celebrazione del Purim, Goldstein andò al santuario, dove gli ebrei erano radunati per ascoltare la lettura di Ester (9,5), com’è tradizione il giorno della vigilia del Purim: “gli ebrei colpirono i loro nemici, passandoli a fil di spada, sterminandoli, facendo dei loro nemici quello che vollero”. La sua meditazione fu interrotta da voci e schiamazzi di giovani arabi provenienti da fuori che dicevano “sterminate gli ebrei”. Goldstein vide che le guardie armate mandate dal governo israeliano a sorvegliare non intervenivano. Ne rimase indignato e umiliato. La mattina dopo, entrò nella moschea e sparò sulla folla che pregava. La strage “assumerà il significato rievocativo del passo biblico citato”57. Il passo dei Numeri recentemente è stato ripreso dai militanti dei movimenti nazional-religiosi e quello di Ester dal gruppo di estremisti religiosi, il Kach, “Così”, fondato dall’estremista di destra Meir Kahane. Al centro della ideologia di Kahane c’era il “messianismo catastrofico”, come l’ha chiamato Ehud Sprinzak58: il messia giungerà in un grande conflitto dove gli ebrei trionferanno e glorificheranno Dio attraverso i loro successi. Durante il raduno all’Hotel Sheraton per proclamare lo stato di Giudea, Meir Kahane chiamò il popolo di Israele a sollevarsi e a rivendicare la Cisgiordania come un atto di guerra giusta. Kahane fu assassinato da Nosair, mentre il complice, il musulmano Mahmud Abouhalima riuscì a fuggire; lo stesso svolse un ruolo nell’attentato al World Trade Center del 1993, mosso dalla visione di una società islamica ideale, più potente e duratura dei modelli concorrenti di ordine politico, ebraismo militante o laicismo aggressivo. Anche l’India è flagellata dalla violenza religiosa fin dal principio della sua esistenza come Stato indipendente. Nel 1992 fu distrutta la storica moschea di Ayodhya da parte di una folla inferocita di indù e nel 2002 ci furono uccisioni di massa nello Stato del Gujarat. Per molti anni il movimento Khalistan dei combattenti sikh è stato il principale esempio di attivismo religioso violento. Il 31 agosto 1995, alle cinque del pomeriggio, il terrorismo legato al movimento separatista sikh causò un’imponente esplosione davanti al modernistico palazzo governativo di Chandigarh, che uccise il governatore statale, Beant Singh, e anche altre quindici persone. L’omicidio di Beant Singh è stato una replica dell’assassinio del primo ministro indiano Indira Gandhi avvenuto il 31 ottobre del 1984. Un esempio di separatismo religioso in India è la lotta per l’indipendenza in Kashmir. Nel maggio 1989, i separatisti cominciarono a chiamarsi mujahedeen (guerrieri sacri) e diedero al loro conflitto la caratteristica di una guerra santa. La giustificazione della violenza ha un forte radicamento nelle tradizioni religiose indiane. Nell’antica epoca vedica i guerrieri invocavano gli dèi perché prendessero parte alle loro battaglie. Nel 1699 il guru Govind Singh istituì il khalsa, la comunità dei puri, un ordine di monaci-guerrieri, una milizia scelta pronta a combattere e a morire per difendere la propria fede contro gli attacchi dell’Islam e in generale dei nemici che volessero distruggere la comunità sikh. Il martirio era il massimo onore concesso a coloro che davano la propria vita per la causa. Tra i simboli offerti dal guru ai suoi seguaci figurano emblemi di guerra come una spada e uno scudo a forma di braccialetto portato sul polso. Questa comunità è operante anche oggi. Nel 1982 militanti sikh, sotto la guida di Saint Jarnail Singh, proclamano la guerra santa in vista dell’ottenimento della piena autonomia politica del Panjab. Anche nel sikhismo, quindi, è presente l’associazione di religione e politica. Il simbolo oggi più diffuso della religione sikh è una spada a doppio taglio circondata da un cerchio e da due spade curve incrociate. Jarnail Singh sosteneva che la tradizione sikh, come quasi tutte le tradizioni religiose, normalmente esalta la non violenza, proibisce di togliere la vita a un altro uomo e che tuttavia l’atto violento occasionale è giustificato. Simranjit Singh Mann distingueva tra “omicidi indiscriminati” e “omicidi mirati” e diceva che l’assassinio del capo di governo del Punjab Beant Singh era un esempio di omicidio mirato, poiché quell’uomo simboleggiava la tirannia dello Stato. Il buddhismo, con la dottrina dell’ahimsa (non violenza), della liberazione dal dolore attra- verso l’annullamento del proprio io, fonte di attaccamento alle cose di questo mondo, radice di ogni sofferenza, e attraverso il “nobile ottuplice sentiero”, il cammino salvifico, è meno incline al terrorismo religioso, ad offrire giustificazioni religiose ad atti di terrore. La svolta nella storia del buddhismo si ha con Asoka, grande sovrano indiano della dinastia Maurya, che governò dal 268 al 233 a. C. Egli aprì una fase di politica religiosa per imporre in tutto il suo vasto impero (dall’India all’Afghanistan e al Bengala) la fede buddhista e incoraggiò i monaci ad esportarla al di fuori dell’impero. Una terra NOTE Religione e violenza nell’induismo e nel buddhismo 105 106 di missione importante fu proprio l’antica Ceylon (oggi Sri Lanka). Il re locale accolse la nuova religione e fece costruire nella capitale dell’isola il Grande Monastero, che per molti secoli fu il principale centro monastico di tutta l’isola. “L’associazione di religione e politica, dunque, nel caso di Sri Lanka appartiene alle origini stesse della diffusione del buddhismo. È a Ceylon, infatti, che il Canone Pali verrà fissato definitivamente verso il 35 a. C. L’identificazione fra buddhismo e monarchia politica si venne rafforzando nel corso dei secoli quando l’isola subì ricorrenti invasioni e successive colonizzazioni di altri popoli. Così accadde con le popolazioni hindù di cultura Tamil, così come con le popolazioni conquistate alla fede musulmana e, infine, con le minoranze cristiane (anglicane e cattoliche), importate dal colonialismo europeo, in particolare inglese”59. Il buddhismo è forse la tradizione religiosa dove meno ci si aspetta di trovare violenza e il Giappone il luogo dove meno si potrebbe pensare a un atto violento di terrorismo religioso. Eppure, una branca del buddhismo giapponese, l’Aum Shinrikyo, è responsabile dell’attentato alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995, con il velenoso gas sarin, in cui rimasero uccisi molti viaggiatori pendolari e feriti migliaia d’altri. “Fu uno dei pochi casi di attivismo religioso al mondo in cui si utilizzò un’arma di distruzione di massa per un atto terroristico”60. Fu un nuovo tipo di terrorismo: “un terrorismo che creava un evento colossale in nome di una visione catastrofica della storia del mondo”61. Lo scopo era dimostrare la veracità delle profezie del leader, Shoko Asahara, su un’imminente guerra apocalittica, la Terza Guerra Mondiale, più catastrofica della Seconda. “Armageddon” era il termine da lui scelto per questo cataclisma, per questa immane catastrofe, catastrofe globale. È un termine che si trova nell’Apocalisse (16, 16-21) e si riferisce al luogo dove avverrà la battaglia tra il bene e il male. Nel racconto biblico, un terremoto squarcia la grande città dell’Anticristo e, nella catastrofe che segue, tutte le nazioni periscono. Asahara aveva preso le profezie dell’Apocalisse e le aveva mescolate con visioni del Vecchio Testamento e affermazioni dell’astrologo francese del sedicesimo secolo Nostradamus (Michel de Nostredame). Tra le varie predizioni sulla grande conflagrazione alla fine del ventesimo secolo ce n’era una che diceva che sarebbe stato usato il gas nervino, precisamente il sarin, contro la popolazione. La dottrina dell’ahimsa (non violenza) non offre giustificazioni religiose ad atti di terrore. Eppure, nello Sri Lanka gli atti di violenza perpetrati da combattenti cingalesi negli ultimi decenni del ventesimo secolo sono stati sostenuti da monaci buddhisti. Proprio un monaco buddhista nel 1959 uccise il primo ministro dello Sri Lanka, S.W.R.D. Bandaranaike. Quest’uccisione è la prova che i buddhisti giustificano la violenza su basi morali. I monaci vengono a svolgere così un ruolo sempre più attivo in campo sociale e politico, promuovendo le virtù predicate dal Buddha come virtù civiche e favorendo la diffusione dell’idea che si possa effettivamente costruire uno Stato buddhista, riflesso dell’identità culturale e religiosa del popolo cingalese, un caso di etno-fondamentalismo. “La particolarità del terrorismo religioso sta nel fatto che è quasi esclusivamente simbolico, messo in atto con metodi altamente drammatici”62. Gli spettacolari attacchi aerei al World Trade Center e al Pentagono dell’11 settembre 2001 ne sono drammatici esempi. Il World Trade Center simbolizzava la portata globale dell’economia americana, il suo ruolo nel commercio trasnazionale globale. Il World Trade Center e il Pentagono erano icone-simbolo del potere politico ed economico laico. Gli atti terroristici sono simbolici nel senso che essi hanno lo scopo di illustrare o alludere a qualcosa che va oltre il loro bersaglio immediato; sono “eventi drammatici” “concepiti per rimanere impressi in virtù della loro importanza simbolica”63. L’attentato con il gas nervino dell’Aum Shinrikyo è più simbolico che stragetico. In alcuni casi il simbolismo del luogo era specifico: le cliniche per aborti negli Stati Uniti, colpite dagli attivisti religiosi del movimento per la vita. In altri era più generico: il Pentagono, il World Trade Center e l’edificio federale di Oklahoma City. Si tratta di luoghi centrali, simboli di potere, e gli atti terroristici li rivendicano in modo simbolico: “esprimono il potere dei gruppi terroristici di controllare, almeno per un momento, i luoghi centrali del potere, danneggiandoli, terrorizzandoli e assaltandoli, anche quando in realtà, per la maggior parte del tempo, non li controllano affatto”64. Gli atti terrostici, quindi, “possono essere al tempo stesso “eventi di performance”, in quanto operano un’affermazione simbolica, e “atti performativi”, nella misura in cui cercano di cambiare le cose”65. Questi atti sono accompagnati da forti rivendicazioni di giustificazione morale e da un tenace assolutismo, “caratterizzato dall’intensità dell’impegno degli attivisti religiosi e dalla portata ultrastorica dei loro obiettivi”66. La ricerca intensa di un livello più profondo di spiritualità di quello offerto dai valori superficiali del mondo moderno caratterizza gli attivisti religiosi. Abouhalima, uno degli attentatori al World Trade Center del 1993, diceva che il punto più basso della sua vita lo aveva toccato durante il soggiorno in Germania, in cui i conforti superficiali del sesso e degli inebrianti mascheravano un vuoto e una disperazione interiori e voleva una religione dura, l’islam tradizionale, e non quello dei musulmani moderni e progressisti, contro i comfort della modernità laica e contro lo Stato laico, che, per sua stessa natura, si oppone all’idea che la religione debba avere un ruolo nella vita pubblica. Gli attivisti religiosi contrastano il modernismo e il laicismo, criticano la vacuità della moderna vita laica e auspicano cambiamenti rivoluzionari che instaurino un ordine sociale religioso. La sfida da essi lanciata è profonda, “perché contiene una critica sostanziale alla politica e alla cultura laica e postilluminista mondiale”67. L’altra particolarità del terrorismo religioso contemporaneo è la globalità, per l’impatto, in gran parte dovuto alla copertura mondiale e istantanea fornita dai mezzi d’informazione, e per la natura transnazionale della scelta degli obiettivi e delle reti cospiratorie. Tra le vittime degli attacchi dell’11 settembre c’erano cittadini di ottantasei diverse nazioni. I membri della rete di al Qaida, autori di questi attentati, sono multinazionali e i loro piani sono organizzati in luoghi tra i più diversi: Germania, Spagna, Sudan, Marocco e Stati Uniti. NOTE Particolarità del terrorismo religioso 107 Un’altra particolarità è che il terrorismo religioso considera il conflitto in termini essenzialmente escatologici come battaglia tra il bene e il male e, per un processo di satanizzazione, trasforma la lotta terrena in una sfida tra martiri e demoni. L’America, più di ogni altra nazione, è il nemico, perché è laica, è satana, capitale del demonio, incarnazione delle forze del male, per tre motivi. Il primo è che gli Stati Uniti difendono e sostengono governi laici considerati dai loro avversari religiosi come nemici primari. Il secondo è il loro sostegno alla cultura moderna. Il terzo è economico, la globalizzazione. Satana, negli anni venti, erano i bolscevichi e i prussiani. Nella pubblicistica fondamentalista l’impero prussiano veniva evocato come la “Bestia” dell’Apocalisse, mentre il bolscevismo identificato con l’Anti-Cristo. Ad essi veniva contrapposta la forza di resistenza della Nazione benedetta da Dio, gli Stati Uniti, sovente chiamata la Nuova Gerusalemme in terra. I fondamentalismi 108 La tensione utopica verso una società governata dalla legge di Dio, la tendenza a tornare ai fondamenti, la pretesa “di creare un regime di verità”68, il modo di pensare “altrimenti” rispetto agli stili di vita e ai valori della modernità accomuna i diversi fondamentalismi, da quello islamico a quello ebraico, da quello cristiano a quello delle religioni orientali. Il fondamentalismo mette in evidenza l’infondatezza dei legami sociali nelle moderne società di massa non più annodati a Dio e propone la rifondazione di essi sulla legge religiosa, sulle regole contenute nel Libro sacro. Per i fondamentalisti, il ricorso alla violenza sacra appare una scelta obbligata. Essi lottano contro il pluralismo democratico, il secolarismo, il comunismo, l’Occidente capitalistico, lo Stato moderno eticamente neutrale, il Nemico che tende a far perdere le loro radici, smarrire la loro identità collettiva, un popolo che ha un patto di alleanza con una legge sacra. L’inerranza del Testo sacro e il richiamo alla lotta armata per abbattere il Nemico, il Male, che impedisce il trionfo del Bene, sono i due elementi di base del fondamentalismo. Il fondamentalismo protestante americano vuole riconquistare al messaggio di salvezza biblico la società secolare e scristianizzata, rifondare la società su basi religiose, restituendola ai valori originari contenuti nella Bibbia. Analogamente il fondamentalismo islamico cerca di ristabilire l’ordine ideale della Città islamica, che è alla base dell’islam e della sua espansione nei secoli d’oro, in cui religione, società e politica erano strettamente legate tra loro secondo una precisa gerarchia ordinativa, avente come strumento di regolazione sociale la shari’a. Centrale è il concetto di “combattimento sulla via di Dio” o jihad: un vero e proprio nuovo pilastro dell’Islam, che viene ad aggiungersi ai cinque tradizionali (professione di fede, preghiera cinque volte al giorno, elemosina rituale, il pellegrinaggio alla Mecca e la pratica del digiuno durante il mese sacro di Ramadhan). Il ricorso alla violenza sacra è praticato soprattutto dallo jiadismo, dal FIS (Fronte islamico di salvezza), dall’AIS (Armata islamica di salvezza), dal GIA NOTE (Gruppi islamici armati) e dai gruppi come Hamas (Movimento per la resistenza islamica, il cui acronimo in lingua significa “fervore”) e la Jiad islamica palestinese. Questi gruppi, a partire dagli anni Novanta, hanno praticato la jiad nella forma del martirio, facendosi saltare in aria insieme alle loro vittime, “con il duplice obiettivo di gettare terrore […], da un lato, e di fornire un esempio di militanza per fede ad altre centinaia di potenziali martiri, dall’altro”69. Nei giorni nostri assistiamo ai martiri suicidi, ad attentati suicidi, ad atti di automartirio, fondati su principi religiosi. Il suicidio è proibito nell’Islam ma gli islamisti radicali interpretano l’essere “uccisi sulla via di Dio” (Corano,II,154) come forma di martirio. Il Corano vieta di uccidere; nonostante ciò, esistono altri principi islamici che giustificano l’omicidio. Del resto, una storia di guerre e battaglie caratterizza l’islam fin dall’inizio. Lo scrittore contemporaneo egiziano Abd al-Salam Faraj nel suo pamphlet Al-Faridah al-Gha’ibah (Il dovere trascurato) dà una giustificazione religiosa alle azioni di islamismo radicale. Intende la jihad, lotta, letteralmente; sostiene che il dovere trascurato è quello della jihad come guerra santa e incita perciò al combattimento. Secondo alcuni mistici islamici, la vera jihad è quella che avviene nell’animo di ogni individuo: sostituiscono il significato originario di jihad come azione di guerra, considerandolo, invece, in senso spirituale, una lotta contro l’anima, come per esempio in Cor. 22: 78: “E lottare nella via di Dio come è degno che si lotti. Egli vi ha prescelti, e non vi ha imposto nella religione pesi gravosi”. Anche i Talebani, gli “studenti di teologia”, in Afghanistan, hanno fatto ricorso alla lotta armata, instaurando nel 1996 un regime shariatico ancora più rigido di quello wahhabita saudita. “Con Bin Laden lo jihadismo diventa davvero globale”70. Il manifesto ideologico del Fronte islamico, al quale aderisce Bin Laden, si apre con il versetto coranico che incita all’uccisione dei “pagani” ovunque si trovino e attraverso ogni “stratagemma”. A conferma della tesi sullo jihad globale e sull’uso del terrorismo come mezzo lecito. Nel 1996 Bin Laden diffonde un proclama in cui invoca apertamente lo jihad contro l’America, il “Grande Satana”. Nella “Dichiarazione di guerra contro gli americani” definisce la presenza americana in Arabia Saudita come “la più grave delle aggressioni” contro l’Islam e fa appello allo jihad totale per liberare i Luoghi Santi dall’occupante americano. Nel 1998 le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania sono distrutte; nell’ottobre 2000 la nave americana “Cole”è attaccata nello Yemen da un commando suicida: muiono diciassette marinai. L’11 settembre 2001 gli uomini che portano gli aerei dirottati, usati “come spada dell’Islam”, a decapitare le Twin Towers e a cadere sul Pentagono, simboli del potere finanziario e militare, sono, per Bin Laden, “martiri per la causa di Allah”. Lo stesso Bin Laden, in una delle sue prime videocassette trasmesse dalla televisione al Jazira dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, lodava Dio dicendo che le torri gemelle del World Trade Center erano crollate per il suo volere. L’America è definita “il simbolo del paganesimo nel mondo moderno (jahiliyya)”. Gli uomini che l’hanno colpita si sono guadagnati un posto in paradiso. I giovani suicidi musulmani, compiendo la mortale missione, dicevano d’incontrarsi con il Signore dell’universo. Un attentatore suicida dice- 109 110 va che quando sarebbe saltato in aria e sarebbe diventato un santo martire di Dio, avrebbe avuto un posto in paradiso per lui e la sua famiglia, settandue vergini e un pagamento in contanti, per la sua famiglia, di seimila dollari 71. “Il potere di quest’idea è stato enorme. Ha superato tutte le normali rivendicazioni di autorità politica e ha elevato le ideologie religiose fino ad altezze soprannaturali”72. La conclusione è: “perfino all’alba di un nuovo millennio, la religione continua a rivendicare un ruolo nella vita pubblica”73. Con la grande coalizione anti-terrorismo, l’islamismo radicale subisce una sconfitta molto dura, “ma il suo carattere di movimento diffuso e transnazionale, toccato relativamente dalla guerra, fa sì che esso possa ancora riorganizzarsi sotto forma di jihadismo globale. Unica forma che, nell’era della globalizzazione, consente la pratica della guerra asimmetrica anche di matrice religiosa”74. Il fondamentalismo ebraico, gli ultraortodossi o haredim (letteralmente “coloro che tremano davanti alla Parola di Dio”, secondo il versetto biblico Isaia 66,5), accanto agli elementi tipici di ogni fondamentalismom, come l’inerranza del Testo sacro e la superiorità della Legge religiosa su quella mondana, vi aggiunge una dimensione etnica e un messianismo salvifico legato ad una precisa dimensione territoriale. Gli haredim sono contro il sionismo. Con la Shoah, il genocidio degli ebrei ad opera del nazifascismo in Europa, cambiano atteggiamento e si convincono che l’immigrazione, prima nello Yishuv, l’insediamento ebraico in Palestina, poi nello Stato d’Israele, sia inevitabile. Molte comunità scelgono gli Stati Uniti. Quelle emigrate in Israele mantengono il loro rifiuto verso uno Stato non retto dalla Torah. Germi di fondamentalismo si trovano nell’induismo e nel sikhismo, più nel sikhismo contemporaneo rispetto al neo-hinduismo moderno. Queste due religioni difendono l’identità etno-religiosa, minacciata dalle classi dirigenti secolariste, dall’islam e dall’Occidente, e reclamano il ritorno alla purezza delle fonti religiose per rifondare l’identità stessa. Anche il buddhismo, dottrina dell’ahimsa (non violenza), che privilegia la meditazione, l’elevazione spirituale, l’attingimento dello stadio ineffabile del Nirvana, non sfugge alla tentazione fondamentalista. In Sri Lanka (l’antica Ceylon), infatti, si realizza l’associazione di religione e politica: i monaci sono impegnati socialmente e politicamente, sono “soldati di Buddha”, così li definisce Dharmapala, fondatore del modernismo buddhista. Legittimano il ceto politico, la monarchia (il principe, il re), che si mostra favorevole alla costruzione di un regime buddhista di Stato. Questo è fondamentalismo. Che cosa è, infatti, il fondamentalismo? Esso è “l’involucro che cela le moderne forme del conflitto politico sotto specie religiosa”75. Nel cattolicesimo il fondamentalismo non attecchisce, grazie all’autorità del magistero della Chiesa, che si interpone tra il credente e la Parola contenuta nel Libro sacro. Tentativi fondamentalisti comunque non mancano, come l’integrismo nell’Ottocento, che si sforza di rifondare la società su fondamenti cattolici, e lo scisma di Lefebvre, che esalta la tradizione come un deposito di fede sempre inerrante e irreformabile. Il Concilio Vaticano II (1963-1965), restituendo centralità alla Bibbia, ha favorito l’approccio diretto al Testo e l’appello Conclusione Di fronte al terrorismo religioso che fare? Ci sono cinque possibilità, risposte, soluzioni, scenari: distruggere la violenza, terrorizzare i terroristi, rassegnarsi alla vittoria della violenza, separare la religione dalla politica, riconciliare politica e religione. L’America, all’indomani dell’11 settembre, ha reagito con attacchi militari contro i Talebani e gli accampamenti di al Qaida. In seguito a questi attacchi, la simpatia mondiale per l’America come vittima si è rapidamente trasformata in sdegno per la sua aggressività. Non solo. Con la rappresaglia americana è aumentato il numero di volontari disposti a sostenere al Qaida. Così la spirale di violenza è cresciuta. “Le rappresaglie di solito non distruggono completamente l’obbiettivo su cui sono dirette, creano le condizioni per ulteriori atti terroristici e si inseriscono all’interno degli scenari di guerra dei terroristi in cui è difficile trovare un compromesso”76. Anche il terrorizzare i terroristi ha un effetto deterrente scarso. In effetti “una risposta dura da parte del governo può in realtà incoraggiare gli attivisti, perché contribuisce a confermare la loro percezione di un mondo in guerra tra forze laiche e forze sacre”77. Questo significa che l’idea di guerra, così come finora l’abbiamo conosciuta, guerra convenzionale, è improponibile in uno scenario come quello attuale. L’attacco dell’esercito americano in Afghanistan è stato percepito, nel mondo musulmano, come un uso della forza eccessivo e ingiustificato. Oggi il conflitto contro il terrorismo deve avere un assetto mirato, “chirurgico”, dal momento che i terroristi sono presenti ovunque. Il terrorismo si presenta come un’entità sovranazionale che trova protezione in molti stati del Medio Oriente e non solo. Que- NOTE all’autorità della parola rivelata in esso contenuta da parte di gruppi laicali e di comunità spontanee che si diffondono tra il 1965 e il 1976 in molti paesi cattolici, dove fiorisce la cosiddetta “teologia della liberazione”. Ciò ha favorito anche la radicalità delle scelte evangeliche di alcuni gruppi e di alcuni preti, che hanno osato contestare la Chiesa, accusata di arroccamento tradizionalista e di compromesso con i regimi politici, e intraprendere la strada della guerriglia, come don Camillo Torres in Colombia. Una lettura di tipo fondamentalista della Bibbia è rintracciabile nel movimento dei neo-catecumenali. Nato a Madrid, nel 1964, per opera di Kiko Arguelo, coadiuvato da una giovane donna, Carmen Hérnandez, conosce un forte impulso subito dopo il Concilio. Questo movimento non impegna i cattolici in politica, ma tende a ricostruire dal basso una micro-società permeata dai valori religiosi, a fronte della società costituita percepita alla deriva, a causa del consumismo, della secolarizzazione e dell’indifferenza religiosa. Un impegno in politica richiede invece Comunione e Liberazione, un movimento fondato da don Giussani negli anni Sessanta e che ha conosciuto la sua fase aurea tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Suo obiettivo era riconvertire la Democrazia Cristiana a una più netta identità cattolica per arginare la deriva secolarista della società italiana. 111 112 sto significa anche che la guerra al terrorismo non è facile e non breve: tutti siamo potenziali vittime di un nemico-ombra, un nemico non facilmente identificato e, cosa forse più importante, limitato a una regione specifica. Gli avversari di al Qaida dell’America come i nemici palestinesi di Israele, infatti, sono mobili e quindi i tentativi di schiacciarli non sortiscono l’effetto desiderato. C’è un caso in cui il terrorismo vince ed è quello in cui la violenza viene usata come elemento condizionante per accordi negoziati, per compromessi, per trattative politiche e gli obiettivi che stanno dietro alla lotta vengono raggiunti. Nei confronti dei terroristi religiosi, abbiamo detto, ci sono cinque possibilità: vincerli, intimidirli per indurli ad arrendersi, accordarsi con loro, separare la religione dalla politica, riconciliare la religione con la politica. Separare la religione dalla politica e confinarla nelle chiese, nelle moschee, nei templi e nelle sinagoghe non soddisfa la maggior parte degli attivisti religiosi, i quali considerano che la manifestazione sociale della lotta universale (così considerano la lotta) sia l’essenza stessa della loro fede. Eppure, a cavallo del ventunesimo secolo, in molti paesi islamici c’è stata una certa reazione contro la religione politicizzata. Nel 1999, gli studenti iraniani hanno manifestato a sostegno del teologo moderato Abdol Karim Soroush, che distingue tra ideologia e religione e sostiene che il clero musulmano non debba immischiarsi nella politica. La jihad, per lui, consiste in una battaglia spirituale o in una sfida tra posizioni morali, in una contesa di idee, piuttosto che tra nemici armati. Soroush propone una religiosità musulmana simbolicamente ricca per fare quello che secondo Girard la religione dovrebbe saper fare: deviare la violenza tramite la sua legge rituale. Secondo Girard, l’uomo è desiderio mimetico, cioè desiderio di essere secondo l’altro, il modello. Ne scaturisce violenza, conflittualità, rivalità: il modello si sentirà in pericolo d’essere superato e tenderà a rafforzare la propria presunta superiorità. Il rimedio ad uno stato di violenza generalizzata è il meccanismo o processo vittimario, cioè la violenza di tutti contro uno, il capro espiatorio, la vittima, che perciò viene sacralizzata. Cristo non si lascia ridurre ad un semplice capro espiatorio, non assume su di sé la violenza collettiva, si oppone alla logica della mimesi, si dichiara innocente e così facendo contrasta e svela il processo vittimario e chiede una riconciliazione senza più vittime sacrificali, senza più violenza. Il cristianesimo, per Girard, smaschera il meccanismo sacrificale e scommette sull’uomo, il quale, senza intermediari sacrificali, assumendosi in pieno le proprie responsabilità, imbocca la strada della rinuncia alla violenza, la sola in grado di assicurare un avvenire. Scrive Girard: “Ormai non si tratta più di propendere educatamente ma in modo distratto per un vago ‘ideale di non violenza’. […]. Ormai si tratterà sempre più di una necessità implacabile. La rinuncia alla violenza definitiva e senza riserve si imporrà a noi come condizione sine qua non di sopravvivenza per l’umanità stessa e per ciascuno di noi. […]. L’irruzione di una vera scienza dell’uomo ci introduce in un clima radicalmente diverso; prepara un universo di responsabilità assoluta”78. Gli unici responsabili della violenza sono sempre e solo gli uomini. “L’idea di un istinto –o se si vuole di una pulsione– che porterebbe l’uomo verso la violenza o verso la morte –il famoso istinto di morte, o pulsione, in Freud– non è che una posizio- NOTE ne mitica di ripiego, un combattimento di retroguardia dell’illusione ancestrale che spinge gli uomini a porre la loro violenza fuori di se stessi, a farne un dio, un destino, o un istinto di cui essi non sono più responsabili, che li governa dal di fuori. Si tratta ancora una volta di non guardare in faccia la violenza, di trovare una nuova scappatoia, di procurarsi, in certe circostanze sempre più aleatorie, una soluzione sacrificale di ricambio”79. L’uomo, dunque, deve assumere in pieno le proprie responsabilità e deve scegliere la strada della rinuncia alla violenza, la sola in grado di assicurare un avvenire. Il tono apocalittico qui non vuole affatto contribuire alle isterie da “fine del mondo”, ma vuole rendere evidente “l’unica via che ormai ci resta aperta, quella di una riconciliazione che non escluderà nessuno e non dovrà più nulla alla violenza”80. La quinta risposta al terrorismo religioso è la scelta del governo di attenersi a valori morali e spirituali. Questo rende difficile agli attivisti religiosi raffigurare il governo come un nemico satanico. La mancanza di morale e obiettivi spirituali, o peggio ancora, la corruzione morale, l’insignificanza spirituale, il laicismo è il motivo per il quale gli attivisti religiosi attaccano il governo. D’altra parte, Rousseau, per definire quelli che considerava i fondamenti morali e spirituali essenziali per qualsiasi società moderna che volesse mantenere un ordine politico duraturo, aveva coniato il termine “religione civile”, non basata sui “dogmi della religione”, ma sulla “santità del contratto sociale”81. La domanda allora è: c’è un terreno neutrale per incontrarsi e riconciliarsi? L’arte, l’istruzione, lo sport? Ad un giovane sostenitore di Hamas scelto per un attentato suicida fu chiesto se era disposto ad eseguire la sua missione suicida in uno stadio di calcio, pieno di suoi nemici, sionisti e infedeli. Il giovane rispose “no”. Per lui il calcio era al di sopra del vortice del terrorismo, rappresentava un terreno neutrale, al pari dell’istruzione e dell’arte. Ad un membro di Hamas fu chiesto su quale terreno la futura generazione di palestinesi e israeliani avrebbe potuto incontrarsi e riconciliarsi. Rispose: “in un’università”. La religione può essere un terreno neutrale per incontrarsi e riconciliarsi allo stesso modo dell’arte, dell’istruzione e dello sport? Sì, anzi, più dell’arte, dell’istruzione e dello sport, anche se i fatti non lo confermano. Sì, perché si è figli dell’unico Dio, almeno per le religioni monoteistiche. Ai fini del rapporto Oriente-Occidente, va detto che la civiltà arabo-islamica ha avuto un ruolo rilevante nella cultura europea, soprattutto per quanto riguarda le scienze fisico-matematiche, filosofiche, naturali e artistiche. C’è un intreccio di destini che nascono da un luogo, il Mediterraneo. Le tre grandi religioni monoteiste, infatti, condividono territori molto vicini e, in parte, si specchiano nelle stesse acque, integrandosi e interagendo nella parabola della storia. Non solo, fanno parte tutte e tre del ceppo semitico e hanno in comune la radice abramitica: riconoscono Abramo come loro capostipite. Abramo è l’“ospitale” per antonomasia, animato da uno spirito di convivialità e questa sua qualità connette strettamente la sua figura al problema dell’accoglienza dell’altro. Nelle icone russe i tre Angeli che Abramo ospita, prefiguranti la Trinità, vengono sempre rappresentati a tavola. Il tema dell’ospitalità è centrale nella vicenda di Abramo, visitato più volte dagli Angeli, come nel dipinto di Gaudenzio Ferrari (1471-1546), in cui egli stesso serve a tavola. 113 114 Nello spirito di Abramo, i rapporti tra gli uomini e le nazioni dovranno essere animati, secondo un termine caro a Giovanni Paolo II e a Carlo Maria Martini, appunto, “da uno spirito di convivialità”. In quanto discendenti di Abramo, dobbiamo anche noi essere ospitali, cioè pronti ad accogliere l’altro e non a demonizzarlo, accentuando, così, i rischi di reciproca esclusione. Abramo, dunque, figura classica del dialogo interreligioso, è quel terreno neutrale per incontrarsi e riconciliarsi, è lo “spazio” per l’incontro ebreo-cristiano-arabo. Dalle due prime consonanti che formano il nome di Abraham, Ibrahim, potrebbero derivare sia il termine “Arabi” sia quello “Ebrei” ad indicare che, proprio su questo legame, si dovrà innescare un duraturo processo di pace fra queste due nazioni da troppo tempo in guerra. Abramo è esempio perfetto dell’uomo credente che si affida totalmente a Dio, fino ad essere disposto a sacrificare suo figlio Isacco. L’Antico Testamento parla di Abramo come il padre di una moltitudine di popoli (Genesi 17, 4-7). Il tema è espresso da vari autori del Nuovo Testamento, soprattutto da Paolo, in particolare nella Lettera ai Romani e nella Lettera ai Galati. Anche il Corano riprende l’immagine di Abramo come guida spirituale dell’umanità (cfr.Sura della Vacca); contesta, però, sia agli ebrei sia ai cristiani la pretesa di monopolizzare la figura di Abramo e rovescia questa pretesa a favore dell’Islam (cfr. Ivi, II, 135 e III, 65-68). Nell’Islam Abramo è il testimone del monoteismo più radicale e, come le altre figure bibliche, è il modello della sottomissione perfetta a Dio. Invece la nozione di promessa o alleanza fatta ad Abramo, così come quella di “storia della salvezza”, che è comune all’ebraismo e al cristianesimo, sono praticamente assenti dall’Islam. Perciò il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, afferma: “Il disegno della salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale” (n.16). La prima redazione di questo testo diceva: “I figli d’Ismaele che, professando Abramo per padre, credono anche nel Dio di Abramo”. La redazione definitiva non si pronuncia sulla relazione tra i musulmani e Abramo, ma afferma solo che i musulmani professano di “tenere la fede di Abramo”. Nella memoria di Abramo, dopo tante “guerre sante”, inseguiamo la promessa di una pace santa, “accettando la sfida del confronto e della competizione nella pace, praticando la diciplina della ricerca ed esaltando la pazienza del dialogo, anche quello, anzi soprattutto quello con le religioni del mondo”82, convinti che le condizioni di una pace perpetua “non saranno prodotte dall’illusione di abolire i conflitti, ma dalla decisione di incanarli e guidarli per le vie di una competizione dialogante, nella quale nessuno rinunci alla propria identità, ma ciascuno la persegua permettendo ed anzi promuovendo l’identità dell’altro come altro”83. Questo promuovere l’identità dell’altro come altro non pare possa avere un nome diverso da quello che il cristiano designa con il termine agape. Abramo è la figura classica del dialogo interreligioso. Assistiamo, oggi, ad una reviviscenza delle religioni. Si tratta di incanalare l’esplosione incontrollata della loro aggressività verso una concordia senza violenza. Perché, infatti, prima che sia troppo tardi, non gettare le basi di un’intesa NOTE universale? Perché non avviare il progetto di un consenso di fondo, che veda promotrici le religioni? Riprendendo per qualche aspetto l’antico sogno illuministico, potrebbe sembrare opportuno appellarsi a un ragionevole denominatore comune allo scopo di trovare un vincolo da tutti condivisibile, che riesca a frenare e ammansire l’aggressività esclusivista di alcune religioni. “Occorrerebbe perciò non esaltare, ma appianare le differenze tra le religioni, contenendole e anzi relativizzandole drasticamente, se si vuole davvero far germogliare nel deserto del mondo il fiore della pace perpetua”84. Nel mondo, infatti, “non ci sarà pace fra gli uomini finché non si stabilirà la pace fra le stesse religioni”85. I rappresentanti delle religioni mondiali hanno cominciato a incontrarsi fra di loro e a pregare insieme, molti si adoperano per delle pratiche comuni di solidarietà per i deboli e di liberazione per gli oppressi. Ciò indubbiamente favorisce la pace. Nel cammino verso un’armoniosa unità delle religioni e dei popoli non è Gesù Cristo un intralcio imbarazzante con la sua smodata rivendicazione di assolutezza, col suo farsi Dio? In qual modo si potrà chiamarlo Dio, oggi, non solo dinanzi a Israele, ma anche dinanzi all’islam, all’induismo, al buddismo? “Certo Gesù Cristo fa ostacolo. Ma non potrebbe egli costituire pure una risorsa per l’accoglienza reciproca, che a ogni costo bisogna pur promuovere fra tutte le religioni e anzi fra tutti gli uomini? Egli inevitabilmente è un problema. Ma non potrebbe egli diventare anche una soluzione? D’altra parte, accantonare semplicemente la pietra d’inciampo potrebbe anche equivalere a costruire senza pietra angolare. Ma in qual modo Gesù Cristo potrebbe costituire non la rovina, bensì la salvezza della stessa verità, che rivendicano, ciascuna per sé, le diverse religioni, strette come sono fra antagonismi e irrilevanza nel mondo nuovo in gestazione?”86. Nel rapporto fra le religioni è in gioco la questione stessa dell’essenza della verità. Le soluzioni del rapporto delle religioni con la verità possono essere: l’esclusivismo (la verità solo da una parte), l’inclusivismo (la verità parzialmente dappertutto, ma in pienezza solo in una parte), il pluralismo (verità molteplice e particolare). Nel Vangelo di Giovanni si trova la perentoria identificazione della verità con la persona di Cristo (persona veritatis): “Io sono la verità (Egò eimi e alétheia) (Gv 14,6) si autoproclama Cristo. Egli solo è verità esclusiva, inclusiva e pluralista. È verità esclusiva “perché respinge qualsiasi omologazione e tanto più qualsiasi assimilazione a eventuali altre figure di rivelazione e di salvezza”87. È verità inclusiva, “perché si pone come centro al quale convergono e dal quale si dipartono tutti i cammini di verità intrapresi dagli uomini nella storia del mondo”88. È verità pluralista “perché egli è persona veritatis nel modo dell’enigma, e ciò strutturalmente, in corrispondenza certo alle caratteristiche della storicità dell’uomo e della mondanità del mondo, ma anche e prima ancora in corrispondenza al suo stesso “divenire carne”“89. Per attestare la verità che egli stesso è, si fa appunto obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Kénosi). Il cristianesimo viene a possedere una chance distintiva e vincente proprio in Cristo, che sembrerebbe costituire l’ostacolo supremo alla concordia tra le religioni. La sua pretesa di essere rivelazione e salvezza l’avanza e la fa valere nella forma dell’agape, cioè dell’amore che si dona per tutti fino all’estremo 115 116 sacrificio di sé. Cristo è l’a-létheia di Dio perché è l’a-létheia dell’agape. Qui sta l’excessus del concetto cristiano di salvezza, rispetto, per esempio, al concetto buddhista di liberazione attraverso la concentrazione e il distacco, e al concetto del conseguimento del Brahman sostenuto dalla mistica advaita indù. L’unicità e l’assolutezza della verità cristiana non fomenta la violenza, perché la sua ricerca “è un’urgenza che scaturisce da quella stessa agape che alla verità sempre si accompagna e a cui la verità si finalizza”90. Diversamente da una umanistica tolleranza o da un cosmopolitico ecumenismo, “l’agape neotestamentaria impone l’esigenza non solo di riconoscere l’altro in quanto altro da sé simile a sé, ma perfino di donarsi incondizionatamente a lui fino al sacrificio di sé, affinché questi sia se stesso nella sua propria identità”91. L’agape, la quale “si compiace della verità” (1 Cor 13,6), “è la risorsa radicale e distintiva che può far valere il cristianesimo. È in forza di questo amore che Gesù Cristo è, infatti, morto per tutti gli uomini e anche per tutte le religioni del mondo, perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”92. Cristo, “segno di contraddizione” (Lc 2,34), “scandalo”per i giudei e “follia”per i pagani (1Cor 1, 22-23), “pietra d’inciampo”e “testata d’angolo”(At 4,11;1Pt 2,8), “costituisce la risorsa e non soltanto l’ostacolo che il cristianesimo può e deve far valere nell’inevitabile e già avviato incontro delle religioni mondiali. È a partire da lui che ci si può e deve muovere all’altro nel modo più schietto e generoso, e questo, paradossalmente, proprio facendo leva sulla sua pretesa di verità incondizionata”93. M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, p.268. M. RUTHVEN, Islam, Giulio Einaudi editore, Torino 1999, p.3. 3 Ivi., p.140. 4 Ibid. 5 E. PACE, Il regime della verità, il Mulino, Bologna 1998, p.160. 6 Ibid. 7 M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. IX. 8 Ivi, p. 253. 9 Ibid. 10 Ivi, p. X. 11 Ibid. 12 Ibid. 13 Cfr. R. ROBERTSON, Globalization, politcs and religion, in J. A. BECKFORD, T. LUCKMANN (a cura di), The Changing Face of Religion, Sage, London 1989; A new perspective on religion and secularization in the global context, in J. K. HADDEN, A. SHUPE (a cura di), Secularization and Fundametalism Reconsidered, Paragon House, New York 1989; Globalization:Social Theory and Global Culture, Sage, London 1992. 14 Cfr. S. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations, in “Foreign Affairs”, 1993, n.39, ora rifuso e arricchito nel libro Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 1998. 15 M. JUERGENSMAYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. XI. 16 Ivi, p. IX. 17 Ivi, p. X. 18 Ivi, p. 5. 19 Ibid. 20 Ivi, p. XI. 21 Ivi, p. XVII. 1 2 Ivi, p. 6. W. CHRISTOPHER, Fighting Terrorism: Challenges for Peacemakers, discorso al Washington Institute for Near East Policy, 21 maggio 1996. Ristampato in Id., In the Stream of History: Shaping Foreign Policy for a New Era, Stanford University Press, Stanford (CA) 1998, p. 446. 24 M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. 7. 25 Ibid. 26 Ivi, p. 209. 27 Ivi, p. 11. 28 F. NIETZSCHE, Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, in Werke,VI, 3, Walter de Gruyter, Berlin-New-York 1969; ed. it.: L’anticristo. Maledizione del cristianesimo,in Opere,VI, 3, trad. di F. Masini, Adelphi, Milano 1970, § 62, p. 260. 29 M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. 19. 30 M. ZAMBRANO, La agonìa de Europa, Madrid, Mondadori 1988; ed.it., L’agonia dell’Europa, trad.di C. Razza, Marsilio, Venezia 1999, p. 52. 31 E. CASTELLI, Esistenzialismo teologico, Abete, Roma 1966 II ed., pp. 31-32. 32 G. STRUMMIELLO, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001, p. 259. 33 M. GIULIANI, Cristianesimo e Shoà, Morcelliana, Brescia 2000, p. 108. 34 Ibid. 35 Ivi, p. 19. 36 Ibid. 37 Ivi, pp. 105-106. 38 G. ISRAEL, La questione ebraica oggi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 98-99. 39 Ivi, p. 99. 40 M. GIULIANI, Cristianesimo e shoà, cit., p. 110. 41 Ivi, p. 115. 42 Ivi, p. 114. 43 Ivi, p. 115. 44 Ivi, p. 31. 45 Ivi, p. 23. 46 Ibid. 47 Ivi, pp. 147-148. 48 TERTULLIANUS, Ad Scapulam, ed. E. Dekkers [Corpus Christianorum, s. l. 2], Turnhout 1954, p. 1127. 49 LACTANTIUS, Divinae institutiones [C.S.E.L.19],Wien 1890, v. 19, p. 465. 50 G.MUSCA, Il vangelo e la torah, Edizioni Dedalo, Bari 1999, p. 92. 51 Ivi, p. 98. 52 A. MAALUF, Le Crociate viste dagli Arabi, Torino 1989, pp. 287-288. 53 C. M. MARTINI, Violenza e “parola di Dio”, in Fedi e violenze, a c. di C. M. Martini, Torino 1997, pp. 119-120. 54 Y. AMIR, cit. in J. GREENBERG, Rabin’s Assassin, in “New York Times”, 5 novembre 1995, p. A1. 55 E. PACE, Il regime della verità, cit., pp. 104-105. 56 Ivi, p.105. 57 Ibid. 58 EHUD SPRINZAK, Violence and Catastrophe in the Theology of Rabbi Meir Kahane: The ideologization of Mimetic Desire, in Violence and the Sacreed in the Modern World, a cura di M. Juergensmeyer, Frank Cass, London 1991, pp. 48-70. 59 E. PACE, R.GUOLO, I fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 105-106. 60 M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. 109. 61 Ivi, p. 111. 62 Ivi, p. 238. 63 Ivi, p. 134. 64 Ivi, p. 144. 65 Ivi, p. 135. 66 Ivi, p. 238. 67 Ivi, p. 251. 68 E. PACE, Il regime della verità, cit., p. 12. 22 NOTE 23 117 Ivi, p. 95. E. PACE, R. GUOLO, I fondamentalismi, cit., p. 56. 71 Rashid Sakher, un attentatore suicida della Jad islamica, intervistato da Dan Setton nel documentario Shaheed; l’intervista è stata trascritta e pubblicata con il titolo As Terrorist Moves the Goalposts, in “Harper’s”, agosto 1997, pp. 19-22. 72 M. JUERGENSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. 237. 73 Ibid. 74 Ivi, p. 61. 75 E. PACE R. GUOLO, I fondamentalismi, cit., p. 90. 76 M. JUEGERNSMEYER, Terroristi in nome di Dio, cit., p. 262. 77 Ivi, p. 256. 78 R. GIRARD La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972; ed. it: La violenza e il sacro, trad. di O. Fatica-E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980 e successive ristampe (utilizziamo qui l’edizione del 1997), pp. 185-186. 79 Ivi, p. 204. 80 R. GIRARD, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978; ed. it.:Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, trad. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1996, p. 325. 81 J. J. ROUSSEAU, Il contratto sociale (1945), trad. it. di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994, libro IV, cap. 8, Della religione civile, p. 181. 82 A. MILANO, Quale verità, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, p. 45. 83 Ivi, p. 64. 84 Ivi, p. 372. 85 Ivi, p. 377. 86 Ibid. 87 Ivi, p.387. 88 Ibid. 89 Ibid. 90 Ivi, p. 160. 91 Ibid. 92 Ivi, p. 389. 69 70 118 L’ONTOLOGIA ELEGIACA DI MAURO FABI Sì, d’accordo, Mauro Fabi, in questa sua straordinaria fatica lirica (Il motore di vetro, Palomar, Bari 2004), cade anche nella solitudine in cui non c’è “più nessuno ostacolo” tra lui e la “moltiplicazione del silenzio” (p.37), ricorda anche il consigliato “silenzio di Wittgenstein” (p. 79), ma non ci si aspetti da lui la rassegnazione a tacere su ciò che non si può esprimere chiaramente. Del resto, che cosa potrebbe significare per un poeta come Fabi, unterwegs zur Sprache, “in un cammino verso il linguaggio” (Heidegger), la resa al silenzio di fronte a ciò che si ritiene “inesprimibile” o, certamente, non è “esprimibile” con una parola che non ha potenza tanto allusiva che porti oltre ogni scontata determinazione concettuale? Senza dubbio, ci sono, per citare il titolo di un saggio di H. Uihely dedicato a Georg Trakl (“Der Monat”, H. 7, 1954), i Grenzen des Sagbaren, i “limiti del dicibile” ma è pur vero che lo stesso “dicibile” non necessariamente bisogna “dirlo” in maniera concettualmente determinata. Il poeta –il vero, il grande poeta– anche il “dicibile” lo “dice” a suo modo, cioè in modo irripetibile, in un modo che sembra l’unico, insostituibile modo di “dirlo”. E a me pare che sia “detto” in questo modo, da Fabi, il “formidabile impegno nel non lasciarsi morire” (p. 108), quel suo aver “sognato la bellezza / prima di morire / accartocciato sopra una lettiga / l’oro delle sue urine a colmar un pitale” (p.141). Restare in silenzio di fronte a questa “bellezza”, accantonandola nell’“inesprimibile”? Non è possibile, anche o soprattutto per un poeta che, persino di un ospedale, più che sentire l’odore, vede il colore. Non è possibile per un poeta che, fin dall’inizio di questo suo libro liricamente mosso e abissalmente pensoso, tende ad “esprimere” e riesce ad “esprimere” ciò che è più “inesprimibile”, nientemeno una morte che non è morte, una vita che non è vita, almeno se né l’una né l’altra è stretta in una assoluta identità con se stessa: “La morte / che sempre abitiamo, / la morte che riduce il / corpo / non lo può annientare / tu sai che / non si annienta nulla che / tutto rimane immobile” (pg. 7-8). Solo un lettore un po’ rude culturalmente può meravigliarsi se io, qui, comincio ad “odorare” –dico ad “odorare”– cifre presocratiche. Magari mediate attraverso la lettura di Heidegger o, anche, di Cioran Già, perché Fabi è, come si cominciato a vedere, lettore non poco accorto di filosofi e scrittori che hanno grande dimestichezza con le idee, dei quali ascolta il “lungo silenzioso declino” (Cioran), il “silenzio claudicante” (il piccolo Maurice Merleau-Ponty) il “silenzio aurorale” (Maria Zambrano) l’“invisibile silenzio” (Maurice Blanchot) (p.79) il “tragico silenzio” (Primo Levi) (p.79). Né bisogna chiedersi –e, se ce lo si chiede, significa che non si può “capire” Fabi– se il silenzio è qualcosa che non si possa ascoltare. E, di fatto Fabi NOTE di Antimo Negri 119 120 lo ascolta, soprattutto perché esso, “invisibile”, non può venire in oculos. Estremamente suggestiva, intanto, l’immagine dell’“invisibile silenzio”. Non “si vede” il “silenzio”; eppure è calato in un’immagine e fatto, esso stesso, “invisibile”, quando lo ”vedi” come “silenzioso declino / in una stanza d’ospedale” o “claudicante nelle gambe di un fanciullo o “tenersi in disparte” come se fosse una creatura vivente o spuntare con i colori dell’aurora ecc. Chiedo venia del fatto di aver ceduto un po’ alla provocazione ermeneutica di un’immagine come “invisibile silenzio”. Qualcosa che “ascolti” e, da ultimo vedi anche, ma che non cogli, non afferri, non tieni nel pugno, proprio come l’“invisibile alito di zolfo” che viene “soffiato” sotto una “bolla di sapone”, un giuoco di bimbi ripetuto dal poeta quando è ormai “un povero diavolo dalle tempie fumanti” (p.15). Un’immagine, comunque che, accanto ad altre immagini, cade nella prima parte di questo libro di versi risolubile (dico: la parte), più che in una “cronaca”, come si legge nel risvolto di copertina bellamente curato da Carlo Bordini, in una “storia” densa e complessa nella quale “si vede” –ancora una volta, “si vede”; e, sì che, istorein è “vedere” il mondo, il piccolo e grande mondo– o il “piccolo mondo antico” –degli affetti familiari, accarezzati con una malinconia crepuscolare non scalfito dalla sapienza tecnica del poeta: bambini che “non dobbiamo ferire” (p.13), i “figli che dormono nella / sua stanza stanza sopra il suo letto” (p.20), il padre che “aveva una / voce come se facesse fatica a parlare” (p.25), “i nostri poveri vecchi che ad uno ad uno / se ne andranno lasciandoci in cambio / una consolazione d’argilla” (p.29), Anna che “avrà questa vita che la occupa pienamente” e “qualche amica del momento con la quale / potrà lamentarsi forse di lui”, ma alla quale, ora, chiede, continua a chiedere “com’è andato Federico a scuola, / se la bambina ha mangiato, / come sta suo padre” (p.40) ecc. Più che una “cronaca”, dicevo, una “storia”. Anche se Fabi tende, quasi non credendoci, a scriverla in una miriade di “storie” ed anzi di “storie finte” (p.43). Fatto è che, queste “storie”, Fabi le racconta; e può raccontarle perché la “storia” continua. Non dategli retta quando –in versi che fanno pensare più a Vittorio Betteloni che a Guido Gozzano– egli dice: “Fra poco smetterò del tutto di parlare, / quelle parole che non sono servite / a nulla, / meno che mai a comprenderci e a farci sentire un poco più vicini” (p.45). Dove, con enjambements volutamente prosastici, direi, a Fabi capita di raccontare la “storia” di un tormentato amore coniugale, in fondo alla quale, presumo, è solo immaginato l’epilogo della rottura definitiva e la solitudine: “Me ne andrò a camminare / guardando il mare come facevo / quando ero giovane, il mare di quando ero giovane” (p.45). Già, ma il mare di quand’era giovane Fabi è lo stesso mare. È come se non si muovesse, è come se non si fosse mosso…O nella coscienza di Fabi, nella quale, come avvertivo, insorgono cifre presocratiche, non prevale più quella dell’essere parmenideo che del divenire eracliteo? Gli abbiamo sentito dire: “tutto rimane immobile / proprio come / cadavere che giace” (pp.7-8). E questo “tutto” fa pensare, senza dubbio, più alla sfera di Parmenide che al fiume di Eraclito. Pure, Fabi ha detto anche: “Non si annienta nulla” (p.7). Si tratta di una sentenza antica: “Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”, NOTE e, anche, “tutto si ripete”. Tra Parmenide ed Eraclito Empedocle: l’Empedocle più caro a Nietzsche, il filosofo dell’“eterno ritorno dell’eguale”. Ricordate: Fröhliche Wissenschaft, IV, 341: “Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, così come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà mai niente di nuovo…”. Sì, l’idea dell’ewige Wiederkunft des Gleichen, l’idea dell’eterno ritorno dell’eguale”. Per la specie e per l’individuo. E come si fa a dire che non si tratta dell’idea che costituisce das Schwerste Gewicht del “fardello più pesante”? È lo stesso Nietzsche a sostenerlo; e, nel suo mirabile romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984, cap. I), Kundera ci assicura che “quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica”. E Fabi? Fabi, che ha sulla propria pelle le stimmati del dichterisches Denken, del “pensiero poetante” (Heidegger), anche lui ha la sua idea –concetto e immagine– dell’“eterno ritorno dell’eguale”. Un’idea fatta valere con riferimento alla “grande” storia, quella che il Manzoni considerava come la storia dei grandi potentati o degli “illustri Campioni che in tale Arringo fanno messe di Palme e d’Allori” (Promessi Sposi, Introduzione)? Assolutamente no. C’è anche la storia piccola propria della “gente meccaniche, e di piccolo affare” (Promessi Sposi, Introduzione), di “anime” che non “son, di fama, note” (Dante, Paradiso, XVII, 138). O ci sono anche storie di personaggi che non sono tragici, come Robespierre, poniamo, o Hitler, ai quali Kundera, nel ricordo del nietzscheano “eterno ritorno dell’eguale”, lega gli eventi terribili, ripetibili e per ciò stesso “pesanti”, della Rivoluzione francese e della seconda guerra mondiale. Ci sono anche storie di personaggi “comici”, per dir così, quotidiani, semplici, “senza storia”, quelli a nome dei quali, quasi mettendo a portata di mano la terribile nozione empedocleo –nietzscheana e per ciò stesso “alleggerendoli”, Fabi può parlare e di fatto parla: “La prossima vita sarà come quella / che abbiamo vissuto. / Attraverseremo gli stessi mattini / di sole vulnerabili e freddi / come un sedile di plastica grigio / dentro un autobus vuoto” (p.92). La vertigine teoretica –ed anche theorein significa “vedere”!– fa decollare il poeta verso gli orizzonti alti, mitici, fascinosi del pensiero antico in cui sono incollate come stelle fisse le nozioni dello spazio, del tempo, dell’essere, del divenire (lo ha notato bene Carlo Bordini). Pure, è vero che, tra queste nozioni, speculativamente impervie e categorialmente “totalitarie”, prende il sopravvento, nella poesia di Fabi, quella dell’Essere (sì, da scrivere con l’iniziale maiuscola) o del “tutto”, appunto, che “rimane immobile” (p.8). l’“immobile” evoca, ripete, traduce –non c’è niente da fare– l’akinèton che è uno dei sèmata, dei “segni indicatori” dell’Essere parmenideo che, allora, sì, “proprio come / un cadavere giace” (p.8). Ed è un fatto, intanto che, quando la poesia di Fabi più concretamente si esprime come ontologia elegiaca, il senso dell’Essere si identifica con quello stesso della morte, eguagliata al silenzio, all’assenza del “nominare”: “Non avremo più nulla da insegnare o da / sbagliare, a nessuno più / sapremo dire una parola e quante / parole abbiamo cancellato come / volti ai quali non si riesce più a dare / (un nome) / i nomi, 121 122 nominare” (p.142). L’Essere parmenideo nella sua interezza, come il Dio paleotestamentario; e (Es., 20, 7) non vuole essere “nominato”. Né io posso togliere a Fabi la consapevolezza che “nominare” significa “determinare”, “dividere”, “scindere”: onoma = nomen, da nemò = divido. Dove non si danno “nomi”, dove non ci sono “determinazioni” ecc., lì c’è l’Essere, Dio, la morte. Siamo nell’aspazialità pura, nella pura intemporalità, nell’assoluto “presente” –e quella di Fabi vuole essere un’“ontologia del presente” elegiacamente espressa– senza passato e senza futuro, e per ciò stesso, senza divenire: e, anche in questo caso, si capisce, non posso togliere a Fabi la consapevolezza che “tempo”, da temnò = divido, implica, esso stesso, l’idea della “determinazione” o delle “determinazioni” –degli stessi “nomi”– senza le quali l’Essere rimane puro Essere e, rimanendo tale, equivale, come voleva Hegel (Enciclopedia, 87). Ma può –ecco il punto più importante– può il linguaggio della poesia, –o in particolare questo– ospitare l’Essere così inteso? Ho già chiamato in causa Unterwegs zur Sprache di Heidegger. E, certo, Fabi ha potuto leggere in esso: “Il linguaggio è stato detto la ‘dimora dell’Essere’”. Si autocita, qui, Heidegger, rinviando al suo Brief über den Humanismus (1947). E, intanto, Fabi appronta una dimora all’Essere quando “canta” / “Essere, puro Essere, / ritornato alla mezzanotte / dell’aurora, / ritornato al suo destino / primordiale” (p.120). Vero è, però, che il “destino primordiale” dell’Essere è, almeno per Parmenide –o, per il Parmenide più vicino ad Anassimandro– quello di restar fermo all’“aurora” della sua “mezzanotte” al di qua di tutte le determinazioni, di tutte le manifestazioni, di tutti i fenomeni, spazio-temporali: allora soltanto l’Essere è la “verità della pietra”, “ontologicamnete più forte / di ogni fede” (p.97). E a Fabi dal quale senti dire del “tradimento dell’Essere che ha / violato il patto”, accennando ad un crimine che dà luogo agli enti, ad un crimine che si può riparare solo passando dalla molteplicità degli enti all’unità dell’Essere, viene spontaneo ricordare il celebre “detto di Anassimandro” che fa del luogo e del tempo dei fenomeni il luogo e il tempo del peccato (di nascere) e della sua espiazione. Allora, Fabi: “Per questo l’esserci deve morire / e l’Essere è il nulla” (p.132). Dove l’“esserci” è il Dasein di Heidegger, l’esistenza, il Sein-in-der Welt, l’Essere caduto nel mondo e sparpagliato negli enti, nei fenomeni ecc. Se è così, mi vien da leggere non tanto “la morte dell’esserci è la colpa / più grande” (p.132) quanto piuttosto: “la nascita dell’essere è la colpa (più grande)” o, anche: “la morte dell’Essere è la colpa / più grande”. Nell’“ontologia elegiaca”, si accampa, da ultimo, “il nulla dell’essere” (p.132). La nullificazione dell’essere avvertita come una “caduta” della quale l’uomo sconta la pena come per un peccato commesso: “È questa la colpa, / questa colpa tremenda / non è forse la colpa della caduta, / l’orizzonte entro il quale da sempre / come in un chiostro nel deserto / preghiamo” (p.131). E, qui, senti, non solo Anassimandro e Parmenide, ma anche Michelstaedter e Cioran. Il “chiostro nel deserto”, intanto? Vi trovi dentro “l’essere delle cose disgregate” nel “breve sangue del sapere”, “l’esserci slegato dall’essere”, un “esserci” (l’esistenza, il mondo dei fenomeni o degli enti), che, in quanto è “all’oscuro di tutto”, “non ha valore per sé ma solo per altro” (p.124). Non è assolutamente difficile leggere in questo “esserci” che “ha valore solo NOTE per altro” una sorta di vivere morendo o di morire vivendo. Ma il sentimento profondo dall’esistere umano in quanto tale vivere o tale morire non induce ad un gesto coerentemente e tragicamente nichilistico: quello di un Mainländer, poniamo, o di un Weininger o, anche, di un Michelstaedter o di un Cioran, appunto. D’accordo, frantumato l’Essere, vista la morte primordiale, sperimentiamo la “tentazione di esistere”, avvertiamo una inevitabile “decomposizione”, giacché, una volta “caduti nel tempo”, sempre per dirla con Cioran, non ci rimane che “cadere dal tempo”, ritornare all’Essere dal quale siamo transfughi. Ma, ecco, nell’ontologia elegiaca di Fabi, c’è lo spazio per la possibilità di un morire insieme, come in un amplesso solidale di fronte al “destino primordiale” in forza del quale apparteniamo all’Essere, a Dio o alla morte: “Perché domani si deve morire / e siamo malati per tutto / e invecchiamo abbracciati / sanguinanti per anni / a un tradimento” (p.128). Il morire come il vivere, intanto, sono sottratti ad ogni altra dimensione che non sia quella del “presente”. Cade l’idea del passato e quella del futuro e, con essa, quella del nascere e del morire. Nasce il fiore dell’idea dell’instabilità: “tutto è presente il presente / è tutto il tempo / non esiste più e noi / non moriremo mai” (p.143). E, del resto, “nessuno conosce / la propria morte / nessuno la può raccontare” (p.132). “Perché tu mi dici poeta?” (Sergio Corazzini). Ed io dico poeta Mauro Fabi. Un poeta che vorrei continuare a leggere: perché parla dell’Essere e mi fa aggrappare all’esistere, parla di Dio e mi fa amare l’uomo, parla della morte e mi fa aggrappare alla vita. D’altra parte, non è un caso che, dopo aver letto e riletto il Motore di vetro di Mauro Fabi, dopo averne gradita la più forte sollecitazione ad immaginare e a pensare, ritorno ad un mio poeta “greco” prediletto, Hölderlin e, magari, butto gli occhi e la mente nell’antologia poetica luziana La ferita nell’essere. Continuo ad avere a che fare con l’essere o con l’Essere e do per certo che anche Fabi ha contribuito poeticamente a dargli una dimora nella parola, con la consapevolezza che la “ferita nell’Essere” è l’esserci, il Dasein, l’esistenza, l’“essere nel mondo”, il fenomeno come frammento del noumeno, ecc. 123 E-GOVERNMENT: RETORICHE ED OPPORTUNITÀ di Antonio Tursi* La retorica in-comprensione. Confusione tra e-democracy ed e-government 124 Come ogni medium in passato, la rete condiziona le forme politiche, in particolare il concezione e la pratica della democrazia. Naturalmente la comprensione del condizionamento dei media sulla politica non è affatto scontata. Ciò in duplice direzione: o si sottovaluta il ruolo dei media oppure si sopravvaluta la loro capacità di determinare le forme della politica. Questo secondo modo dell’incomprensione a sua volta determina allarmismi o ottimismi eccessivi. Perché queste direzioni nella (in)comprensione del rapporto media-politica? Perché nel primo caso non si riconosce il ruolo strutturante che i media hanno sempre giocato rispetto all’evoluzione dei sistemi politici. Chi sottovaluta il ruolo dei media dovrebbe rileggere con attenzione le pagine di Harold Innis, in particolare quelle di Impero e comunicazioni1. A onor del vero, bisogna aggiungere che attualmente è la sopravvalutazione che va per la maggiore. Evidentemente la presenza pervasiva della televisione e ora della rete, ha buon gioco nel orientare gli sguardi sugli scenari mediali, dentro i quali giocano le forme politiche. Sguardi orientati, perché disorientati. Il disorientamento di cui si fa questione è quello relativo alla Politica. Con la fine delle grandi narrazioni2, la liquidità dei legami sociali3, l’avanzata delle politiche della vita, si è creduto –lo si crede ancora– che la Politica abbia terminato la sua funzione storica4, e perciò occorre ricercare e trovare dei suoi surrogati ovvero occorre sbarrazzarsi dei suoi ultimi residui ovvero rimpiangerla additando le responsabilità, per esempio, dei media. Ed ecco come i mezzi di comunicazione attirino su di sé l’attenzione di studiosi e politici. Un’attenzione mal riposta, a causa di quello sguardo disorientato e che disorienta, in quanto evita un reale confronto con le tecnologie mediali. È questo lo scenario che alimenta discorsi retorici, i più vari, sulle capacità taumaturgiche ovvero mortifere dei media. Viceversa, un saggio di uno degli sguardi più lucidi sui nuovi media si conclude affermando: “comunque, abbiamo ancora bisogno delle istituzioni, abbiamo ancora bisogno della rappresentanza politica, della democrazia partecipata, delle procedure di costruzione del consenso e di un’efficace politica pubblica. Tutto ciò comincia con governi responsabili, sinceramente democratici. [L’assenza della politica] è l’anello debole della società in rete”5. Tuttavia, soprattutto nella fase di esplosione della rete, a prevalere sono stati gli sguardi disorientati che hanno alimentato vere e proprie ideologie. Uno degli stilemi retorici di cui queste ideologie si sono valse, e che in parte occupa tuttora un posto di rilievo, richiama la necessità di forme di democrazia diret- Una democrazia diretta richiede la presenza reale del sovrano. La volonté générale come corpus mysticum è legata al corpus physicum del popolo unanimemente radunato. L’idea di un plebiscito permanente si presenta a Rousseau nel modello della polis greca dove il popolo era radunato in piazza pressoché‚ ininterrottamente; così agli occhi di Rousseau la place publique appare come il fondamento della costituzione. E’ da qui, cioè dai cittadini raccolti per acclamare, che l’opinion publique deriva il suo attributo, e non dal pubblico dibattito di un public éclairé 8. Infine, tale retorica cade in contraddizione da sé poiché se da un lato si richiama alla democrazia diretta ateniese, dall’altro già annuncia all’orizzonte una nuova forma di governo, «la demodinamica» nell’espressione di Pierre Lévy9. Che senso ha evocare il cittadino della polis greca, quando si profila un nuovo soggetto politico, il netizen? Non è senza motivo che lo stesso Lévy, nel NORME e SEGNI ta, tese a ricreare l’agorà propria della democrazia degli antichi. Naturalmente, tali forme sono rese possibili solo grazie ad Internet e perciò l’agorà della nostra epoca dovrà definirsi elettronica. Corrollario definitivo della retorica dell’e-democracy è l’oscuramento delle questioni specifiche riguardanti l’e-government, le quali sono dissolte nell’afflato ad una partecipazione senza mediazioni. Pur essendo il corollario di questa retorica ciò che interessa stressare in questo lavoro, può essere utile accennare alcuni elementi critici legati al concetto di e-democracy. In particolare, per quel che riguarda il richiamo alla democrazia diretta vanno fatte alcune osservazioni. In primis, ciò a cui ci si richiama è il modello ideale enunciato da Pericle, ma assai lontano dalla realtà anche delle stesse polis greche: il coinvolgimento diretto dei cittadini risultava fortemente condizionato da una serie d’istanze di mediazione e di controllo, l’isonomia e l’isegoria erano dappertutto ostacolate e snaturate, solo il quindici per cento della popolazione era a pieno titolo riconosciuto tra i ‘cittadini’. Habermas parla a proposito di «paradigma ideologico»6 che si forma dall’autointendimento che i greci hanno avuto della loro sfera pubblica. Inoltre, il richiamo attuale alla democrazia diretta si lega alle difficoltà che la sua realizzazione avrebbe incontrato prima dell’avvento delle nuove tecnologie. John Thompson spegne queste rinnovate speranze, spiegando che “le difficoltà non riguardano semplicemente l’applicazione, come se in se stesso il modello fosse eccellente ma la sua messa in pratica incontrasse certi ostacoli. La difficoltà è di fondo: il modello a democrazia diretta presuppone il verificarsi di particolari condizioni che, data le stessa scala e la complessità delle società moderne, e la crescente interconnessione del mondo contemporaneo, sono sempre più lontane dalle circostanze in cui oggi si devono prendere molte decisioni”7. Anche qualora l’ideale fosse stato realizzato nell’antica Grecia e fosse realizzabile nel nostro tempo, dovremmo riconoscerlo come auspicabile? Lo stesso Habermas, molte volte ripreso dai fautori della democrazia diretta, in un luogo un po’ trascurato del suo Storia e critica dell’opinione pubblica, leggendo Rousseau, risponde a questo interrogativo: 125 126 suo ultimo lavoro sul tema del rapporto rete-politica10, non usi affatto quell’espressione, così come non ponga più un accenno forte sul superamento dei meccanismi della delega. Da parte nostra, non condividiamo affatto posizioni del tipo “siccome le agorà virtuali potrebbero aprire spazi di comunicazione, negoziazione, apparizione di una parola collettiva e di decisioni in tempo reale, ci sono sempre meno ragioni «tecniche» per perpetuare il dispotismo frammentato costituito dal sistema della delega”11, ma neanche affermazioni del tipo “allorquando la compresenza viene a mancare, o a indebolirsi, come nel caso nell’interazione telematica, la democrazia appare fortemente minacciata”12; siamo invece portati a riconoscere che “pur senza modificare nel profondo il rapporto tra cittadini e istituzioni politiche, la rete consente a quegli individui o gruppi portatori di un interesse o di un progetto politico di impostare una presenza e un’attività di difficile realizzazione all’interno dei consueti circuiti della politica”13. Il che porta alla conclusione che: “la rete […] si è dimostrata essere né uno strumento che agevola la democrazia, né uno strumento che la ostacola fino ad annullarla. Essa può contribuire allo sviluppo democratico di un paese così come può contribuire all’affermazione di forme di dominio interagendo con altri fattori di mutamento –siano essi di segno positivo o negativo– provenienti dall’ambito sociale, economico e culturale”14. Si pone quindi un problema di comprensione degli “altri fattori di mutamento”, in particolare di quella crisi della Politica di cui abbiamo detto. Si pone altresì un problema di comprensione delle caratteristiche proprie della rete. Un passo di Franco Berardi aiuta a fare distinzione tra le varie problematiche che la retorica dell’e-democracy confonde. La rete non è uno strumento di democrazia (può anche esserlo, ma del tutto marginalmente). La rete è piuttosto il paradigma di un modello di democrazia nuova, una democrazia senza riferimenti al centro, non più riducibile alla forma dello Stato nazione, e non più riducibile alla forma globale della decisione. Il ripensamento della nozione di democrazia può derivare da un’invenzione paradigmatica che a sua volta deriva dal modello della rete, ma non sarà la meccanica conseguenza di una diffusione quantitativa delle reti15. Tre risultano essere le questioni da indagare: la rete come «strumento di democrazia», «un modello di democrazia», il «modello della rete». La comprensione del modello della rete è l’elemento necessario che spesso manca nelle analisi del rapporto media-politica. Le altre due questioni delineano quello scenario sul quale molto si dibatte e che si potrebbe chiamare, utilizzando il sintagma di Lawrence Grossman, «repubblica elettronica»16. Per repubblica elettronica s’intende uno scenario che prevede un’informatizzazione delle procedure e dei comportamenti operativi tramite i quali i cittadini esercitano i loro diritti in una democrazia. […] Ritengo che il tema della comunicazione politica occupi un luogo centrale nel programma (o nei programmi) della repubblica elettronica. Vi è nondimeno un altro tema, quello dell’informatizzazione degli apparati burocratici dello stato, che non va minimamente sottovalutato. “Reinven- Il “modello di democrazia”, utile per “reinventare la politica”, è il punto più acceso del dibattito. Democrazia diretta vs democrazia rappresentativa: quale forma politica deve essere perseguita all’inizio del XXI secolo? Chiaramente tale dibattito avente come posta in gioco la “reinvenzione della politica”, trascura come si sta “reinventando il governo”. Mentre Berardi parla di “strumento di democrazia”, noi suggeriamo di parlare di strumento della democrazia, nelle mani, cioè, delle istituzioni democratiche. Siamo consapevoli che ciò comporta un qualche spostamento del focus d’attenzione, ma anche il vantaggio di non presentare un’immagine quasi antropomorfizzata della tecnologia: Internet come portatore di chissà quali benefici o sciagure –dipende poi dal grado d’integrazione di ciascuno–, evitando determinismi d’ogni sorta che non tengono conto o delle potenzialità o dei limiti del ciberspazio. L’e-government: una vasta gamma di strumenti Reiventare il governo per mezzo della rete-strumento della democrazia è l’obiettivo da perseguire, consapevoli però che si tratta di un obiettivo parziale, necessario ma non sufficiente a reinventare la politica. “Se l’e-government deve essere solo un po’ di cosmetico sul cadavere della democrazia o uno schermo per coprire la necessità di risolvere alcune questioni fondamentali, allora tanto vale cessar di rimettere in ordine le sedie sul ponte del Titanic e avviarsi alle scialuppe di salvataggio! Ma dove altro andare, e chi ci salverà?”18. Detto questo, si può tentare di descrivere in cosa consista l’e-government. Esso porta ad affrontare un ventaglio ampio ed eterogeneo di tematiche. La rete, più in generale le tecnologie informatiche, offrono una gamma di strumenti da usare per avvicinare la pubblica amministrazione, centrale e periferica, ai cittadini. Questi strumenti sono sfruttati, non sfruttati o mal sfruttati in Italia. Su ognuno di essi i governi degli ultimi anni si sono soffermati (oppure non lo hanno fatto), definendo politiche e cercando una loro implementazione. Forniamo un quadro riassuntivo delle tematiche da affrontare nell’ambito dell’e-government. Proprio questo quadro è la migliore descrizione che si possa dare di che cosa si intende parlando di e-government. Prima di tutto, va fatto cenno all’inquadramento duplice di tali tematiche19: gli obiettivi generali legati all’e-government sono definiti nei documenti sulla “società dell’informazione”, emanati sia dall’Unione europea sia dal governo italiano. Le iniziative europee del 1999, 2001 e 2002 costituiscono il quadro di riferimento in cui si sono mossi i governi italiani sia di centro-sinistra, sia di cen- NORME e SEGNI tare il governo” è l’efficace slogan che D. Osborne e T. Gaebler hanno coniato per promuovere questo ambizioso progetto. […] Nell’ottica della repubblica elettronica “reinventare il governo” è inseparabile dalla volontà di “reinventare la politica”. […] Se così fosse, non vi sarebbe nulla da eccepire. Ma c’è un punto che non convince. Mentre sul programma finalizzato a “reinventare il governo” è possibile trovare linee di convergenza e di accordo, non si può dire lo stesso sul programma che si prefigge di “reinventare la politica17. 127 tro-destra con i rispettivi piani per la società dell’informazione. L’altro tipo di inquadramento è dato dalle leggi sulla comunicazione della pa. Le tematiche più rilevanti che definiscono il campo dell’e-government sono riportate nella tabella 1. Tabella 1: principali aspetti dell’e-government. tematica sicurezza delle transazioni transazioni on line portali e-commerce e-procurement # servizi on line # pagamenti on line # bandi di gara online # portale nazionale www.italia.gov.it; portali per l'erogazione di servizi sistema pubblico di connettività privacy 128 carta di identità elettronica e carta nazionale dei servizi # firma digitale # voto elettronico accessibilità e usabilità dei siti web uso software open source uso del dominio .gov.it grandi sistemi dichiarazioni fiscali; carta sanitaria; pubblici in rete e-learning # / un pc per aula alfabetizzazione dei dipendenti # descrizione le transazioni on line sono la dimensione attualmente predominante nell'implementazione delle piattaforme d'egovernment. L'offerta di servizi attraverso il web costituisce il valore aggiunto dell'uso di Internet in luogo dei tradizionali sportelli fisici la tendenza all'uso dei portali è in aumento, perché permette ai siti delle pal di sopperire all'assenza di fondi adeguati per mezzo di partnership con soggetti privati che operano sul territorio sistema nervoso della pa che integra la rete della pac con le reti della pal. Utilizzo della banda larga il concetto di privacy è strettamente connesso a quello di governo on line e, in maniera contingente, alla sicurezza dei dati gestiti in maniera elettronica – si veda il caso del voto online sono due priorità assolute in materia di progettazione di siti web, perché permettono l'accesso ad un numero vasto di utenti potenziali e una fruizione facile e soddisfacente l'open source sta erodendo il monopolio di fatto della Microsoft in materia di software e server, permettendo così alle pa di risparmiare fondi, senza andare a danno della qualità finale è stata recepita in Italia, l'istanza che chiede una riconoscibilità istituzionale assoluta ai siti delle pa fin dal dominio. L'ottenimento dell'estensione .gov è subordinata ad alcuni prerequisiti i vantaggi dell'uso delle nuove tecnologie nella gestione dei sistemi pubblici sono consistenti, in ordine alla flessibilità e alla facilità di utilizzo la formazione del personale costituisce un prerequisito fondamentale Fonte: nostra elaborazione su fonti varie 20. Affrontando alcune di queste tematiche, il governo ha proposto come modello di riferimento per l’e-government il modello riportato nella tabella 2. beneficiari erogazione servizi riconoscimento digitale canali d’accesso enti eroganti interoperabilità e cooperazione infrastruttura di comunicazione - cittadini; - imprese - carta nazionale servizi; - carta identità elettronica web (portali pa); call center; sportello unico; cellulare, palmare; reti terze (portali generalisti, banche, poste, …) - comuni; - regioni; - pac [procedure integrate di interfacciamento] [uffici di back–office] NORME e SEGNI Tabella 2: il modello di e-government. applicativi di notifica eventi sistema pubblico di connettività Fonte: Ministero per l’innovazione e le tecnologie, Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’Informazione, Roma: giugno 2002, p. 28. Come abbiamo accennato, esiste una frattura abbastanza profonda tra la formulazione di politiche e la relativa codifica legislativa da un lato e la loro implementazione dall’altro. Un’esempio particolarmente evidente viene offerto dalla firma digitale. Per dare forza agli investimenti sulla rete, incentivandone l’utilizzo, la legge n° 59 del 15 marzo 1997 riconosce validi e rilevanti a tutti gli effetti, gli atti, i dati, i documenti, i contratti della pa e dei privati formati, archiviati e trasmessi con strumenti informatici a prescindere dall’esistenza di un corrispondente atto o registro cartaceo: è questa una vera “rivoluzione copernicana” per l’amministrazione, basti pensare che se ne descrive la nascita in correlazione all’invenzione della scrittura. Per apprezzare gli effetti positivi di tale rivoluzione ed evitare eventuali rischi occorre affrontare il problema della crittografia che presenta due aspetti complementari: a) occorre garantire la segretezza del documento e la connessa integrità (l’impossibilità di alterarlo); b) l’autenticità dello stesso ovvero la certezza della provenienza. A ciò provvede la firma digitale, prevista dalla stessa legge, che si concretizza in Italia nel sistema della doppie chiavi asimmetriche, una privata e una pubblica, che servono a codificare e decodificare gli algoritmi matematici a cui vengono ridotti i documenti o i “riassunti” di questi (hash). La procedura di attuazione prevede tre passaggi: 1) la certificazione della persona che deve formare il documento ad opera di un soggetto certificatore, la c.d. Autorità di Certificazione; 2) la sottoscrizione digitale dell’atto, che si effettua cifrando l’hash o impronta tramite la chiave primaria del firmatario; 3) la verifica della firma, che l’interessato effettua decifrando con la sua chiave pubblica la propria firma. Gli effetti dell’adozione della firma digitale si sentiranno in tutti gli ambiti in cui si sviluppa il rapporto tra Stato e cittadino: dalla scuola alla sanità, dalla giustizia alle finanze. Per l’amministrazione oltre gli effetti generali nel processo di innovazione, ne segnaliamo due in particolare. Il primo di ordine materiale: meno carte, meno archivi e quindi più risparmio; il secondo di ordine progettuale, infatti con l’informatizzazione dei documenti saranno immediatamente verifi- 129 cabili gli uffici presso i quali un documento vedrà rallentato il suo cammino e così si potrà intervenire a rimuovere gli impedimenti. Purtroppo, come ammoniva Franco Carlini21, a due anni dalla legge, varata nel marzo del 1997, nonostante siano stati approvati anche tutti i necessari regolamenti d’attuazione, non esisteva neppure un contratto stipulato in questo modo. La situazione è migliorata in seguito, anche se ancora resta problematica la definizione dei certificatori e della relativa Autorità. Il miglioramento della situazione deve molto al ruolo particolarmente propulsivo svolto in tale materia dal Ministero delle Finanze con il suo progetto di fisco telematico, progetto che prevede la possibilità di rendere la dichiarazione dei redditi attraverso i canali telematici22. La retorica in-azione. Un impegno concreto: smantellare lo Stato 130 Le tematiche dell’e-government sono state affrontate negli ultimi anni in Italia sia dai governi di centro-sinistra, sia da quelli di centro-destra. Entrambi si sono confrontati con due peculiarità che descrivono un caso-Italia. La prima peculiarità è costituita dall’intreccio stretto tra apparati burocratici e poteri politici, essendo i primi compresi come componente decisiva dei secondi. La seconda peculiarità è data dall’attenzione esclusiva, o comunque preminente, che nel nostro Paese si dà ai vecchi media, in particolare alla televisione, la quale assorbe gran parte del dibattito politico ed accademico. Entrambe le peculiarità influenzano negativamente le politiche sulle nuove tecnologie, verso le quali molto spesso non è dato ritrovare la sensibilità che sarebbe necessaria ad innovare il Sistema Paese, portandolo al livello dei Paesi tecnologicamente più avanzati. Salvo poi ritrovare, invece, un’eccesso di sensibilità ogni qualvolta si rendano note ricerche che attestano il nostro divario digitale. L’Italia, infatti, si colloca in 23ª posizione nel IDC’s Information Society Index 2002, e nelle ultime posizioni in Europa su tutta una serie di indicatori, come evidenziato nella tabella 3. Tabella 3: posizionamento dell’Italia in Europa nel 2001 indicatore % della popolazione che usa Internet % di famiglie che usa Internet % diffusione larga banda numero di PC collegati a Internet per 100 studenti % di insegnanti che usano Internet nella didattica % di lavoratori con alfabetizzazione ICT % di lavoratori che usano il telelavoro % spesa eCommerce % di strutture sanitarie che hanno accesso a Internet posizionamento 13 11 12 13 10 9 13 9 10 Fonte: Analisi Roland Berger Strategy Consultants su dati Eurobarometer, OCSE, CIA, Istat. L’attuale responsabile del dicastero dell’Innovazione, Lucio Stanca, ha posto tra i suoi principali obiettivi la realizzazione del governo elettronico. Sulla NORME e SEGNI sua azione gioca favorevolmente il lavoro compiuto negli anni precedenti dall’ex ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, in particolare il lascito del Piano d’azione per la società dell’informazione, varato nel giugno del 2000. Infatti, nonostante l’attuale governo abbia prontamente provveduto a varare nuove Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’Informazione nella legislatura (giugno 2002), sostanzialmente esse riprendono i materiali del precedente piano. Sono sufficienti la sensibilità di Stanca e la ripresa dei documenti elaborati dai governi del centro-sinistra, per valutare positivamente le politiche attualmente in corso? Certo che no. L’elemento chiave per tale valutazione è un altro, purtroppo negativo. Esso trova manifestazione in tutta l’ideologia espressa dall’attuale presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, sin dalla sua discesa in campo. Si tratta di un’avversione dichiarata nei confronti della politica e delle sue istituzioni. E tra l’altro, Berlusconi non è solo: anche altri ministri, tra cui merita menzione Umberto Bossi, giocano la loro parte nell’elaborazione degli stilemi retorici dell’antipolitica. L’ideologia in questione si declina nella richiesta di uno Stato minimo, che significa marginalizzazione dell’amministrazione e privatizzazione della procedure. L’e-government, o almeno la sua pubblicizzazione, diviene un’arma per scardinare l’ossatura dello Stato. Naturalmente, questa azione decisa e premeditata viene resa invisibile attraverso un’operazione sistematica di confabulazione retorica. Il culmine è in una delle tre “i”, quella di Internet; ma significativo è il propagandare come svolte decisive tutte le minime iniziative, con un uso continuativo di “effettoannuncio”. Lo stesso Stanca ha ammesso che alcune misure adottate hanno solo uno scopo propagandistico –almeno per ora, nelle sue intenzioni23. Nel concreto, i fondi, destinati a finanziare progetti utili per innovare la pa a partire dalle nuove tecnologie, sono stati ridotti. La legge finanziaria per il 2003 ha smentito quanto annunciato nelle Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’Informazione nella legislatura, presentate nel giugno del 2002. In questo documento era annunciata l’istituzione di due fondi per l’egovernment: il “Fondo per il sostegno dei progetti strategici” e il “Fondo nazionale per il cofinanziamento delle iniziative locali”. Invece di quanto annunciato, è stato istituito un “Fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nelle pubbliche amministrazioni e nel paese”, finanziato solo con riduzioni di spesa, non con stanziamenti aggiuntivi. Inoltre, nelle Linee guida si stimava la spesa complessiva per l’e-government tra il 2003 e il 2005 in 1000 milioni di euro e si annunciava una spesa di 1200 milioni di euro per implementare la banda larga, ma nella legge finanziaria non vi è alcun cenno a stanziamenti del genere. È stato scritto che quella che governa attualmente l’Italia, impregnata di pseudo-liberismo, è una destra “politicamente e culturalmente antitetica all’e-government, visto come una contraddizione rispetto allo spirito autoritario che ne anima l’azione”24. Non è questa la sede per indagare se l’azione del governo in carica sia animata da uno spirito autoritario, sicuramente però è animata da un dichiarato spirito antipolitico e sicuramente l’antipolitica è antitetica all’e-government. 131 Vantaggi e qualche svantaggio 132 Il governo elettronico si crea sfruttando in modo coordinato le numerose opportunità che le tecnologie informatiche offrono. La sua realizzazione comporta cambiamenti importanti nella relazione amministrazione-cittadini, ciò a patto che le nuove tecnologie siano utilizzate in maniera proficua. Come tutti i cambiamenti, anche questo porta vantaggi –ciò che si guadagna dal cambiamento– e svantaggi –ciò che si perde, e in ogni cambiamento qualcosa inevitabilmente si perde. Affermiamo subito che i vantaggi, per l’amministrazione così come per i cittadini, paiono tali da auspicare un’azione decisa nella direzione del cambiamento. Consideriamo gli obiettivi finali a cui potrà portare questo processo di innovazione. Iniziamo dai cittadini, perché l’amministrazione, se non traspone i suoi scopi, è ad essi finalizzata, ma anche perché riteniamo che delineando nuove possibilità per i cittadini si possono intravedere le linee di un mutamento organizzativo della pa. Il cittadino che le amministrazioni si trovano di fronte (per ora come controparte, ma presto come collaboratore) è un cittadino nuovo, che interroga, che interviene, che si organizza, ed è quindi il maggior responsabile del processo di cambiamento in atto: crediamo si possa affermare che le nuove normative sulla pa siano dovute innanzitutto ad una spinta dal basso. Ciò che questo cittadino chiede e può ottenere grazie alle reti è in primo luogo ciò che Stefano Rodotà chiama “liberazione del sovrano”: “grazie alle nuove tecnologie della comunicazione è stato certamente avviato un processo di ‘liberazione’ del sovrano da una serie di vincoli di spazio e di tempo che ha avuto (e potrà avere) l’effetto di realizzare condizioni di indipendenza da apparati, da quelli burocratici in primo luogo”25. In effetti, proprio il superamento dei vincoli spazio-temporali tradizionali è segnalato come una delle conseguenze principali dei media elettronici. Joshua Meyrowitz, indagando questo aspetto, afferma: “se molte informazioni sociali sono ancora accessibili solo recandosi in determinati luoghi o interagendo con gli individui in incontri faccia a faccia, i recenti cambiamenti nei mezzi di comunicazione hanno parecchio indebolito il rapporto, un tempo armonioso, tra l’accesso all’informazione e l’accesso ai luoghi”26. Tutta una serie di altri elementi propri di uno Stato democratico trovano attuazione grazie a ciò che le reti offrono: redistribuzione del potere, riduzione della discrezionalità amministrativa, trasparenza dei processi di decisione, eguaglianza tra i cittadini, una forma diffusa di controllo, accrescimento della partecipazione politica. Ecco come Rodotà descrive questi elementi: La possibilità di accesso remoto a banche dati pubbliche e private, e di effettuare tale accesso nel momento scelto dall’interessato, non è soltanto un fatto tecnico: rappresenta una forma di redistribuzione del potere che indebolisce la funzione di filtro e di intermediazione tipica delle burocrazie. […] Il trasferimento di potere appare in modo ancora più netto, dal momento che il cittadino svolge integralmente attività prima affidate all’amministrazione. La riduzione della discrezionalità amministrativa, e quindi anche del rischio dell’arbitrio e della gestione clientelare, La perdita del senso del luogo, cioè, nel nostro discorso, la perdita della necessità di recarsi negli uffici, porta con sé una forma di controllo diffuso sull’amministrazione che di conseguenza è costretta a perdere quell’aura di autorità che la caratterizza: “i nuovi modelli di flusso informativo influiscono innanzitutto sui ruoli sociali di tipo gerarchico. La perdita di controllo informativo compromette l’esistenza delle tradizionali figure autoritarie”28. Questa perdità di autorità può essere, per l’amministrazione, l’occasione per mutare completamente la sua fisionomia, ottenendone in cambio una nuova legittimazione presso la società civile. L’utilizzo avanzato di Internet segna il passaggio della vecchia amministrazione cartacea alla nuova amministrazione digitale, in cui gli scambi di informazioni sono più celeri e diffusi; dalla amministrazione autoritaria, organizzata su base piramidale, il cui lavoro è scandito dai tempi della burocrazia e dalle regole formali dell’atto amministrativo, alla nuova amministrazione aperta al dialogo, orientata la servizio e al risultato, in linea con i tempi della telematica29. Franco Morganti avverte che “l’area del governo elettronico comprende sia quella più tipica dei servizi al cittadino, quanto quella dell’innovazione interna alla Pubblica amministrazione”30. Anche se la pa si servisse dei sistemi informatici al solo scopo di razionalizzare ed accelerare il funzionamento della macchina burocratica, abbandonerebbe comunque “la gestione classica –lenta e rigida– della scrittura statica”. Se poi Internet servisse “per sperimentare forme di organizzazione o trattamento dell’informazione innovative, decentralizzate, più duttili e interattive”, anche “lo stato e le strutture attuali di governo potrebbero essere conservati, a condizione di ridefinirne le sue funzioni: diventerebbero i guardiani, i garanti, gli amministratori e gli esecutori dell’intelligenza collettiva”31. Naturalmente quella che per la Lévy è concessione, per noi è necessità impellente: solo la presenza e l’azione dell’ente pubblico possono permettere quelle forme innovative, decentralizzate, duttili e interattive di cui si auspica la realizzazione, possono garantire l’utilizzo di tali forme comunicative per fini socialmente rilevanti e condivisi. Inoltre, traspare dal passo di Lévy una concezione residuale dello Stato che noi certamente non condividiamo. L’innovazione interna è necessaria perché “non è possibile fare della buona comunicazione all’esterno se non si riorganizzano anche i processi interni”32. Tale riorganizzazione può prendere spunto dal Business Process Reingeneering NORME e SEGNI si collega anche alla adozione di procedure automatizzate in casi come quelli della liquidazione di pensioni, dell’assegnazione di abitazioni, e via dicendo. Qui assume rilevanza non tanto la trasparenza dei processi di decisione, quanto piuttosto il momento dell’eguaglianza tra cittadini, le cui posizioni vengono liberate dall’eventualità di comportamenti discriminatori derivanti da scelte compiute dagli apparati dell’amministrazione. […] La possibilità di informarsi senza mediazioni sulla persona che gestisce la procedura, e sullo stato di questa, non realizza soltanto un diritto di sapere dell’individuo, ma avvia una forma di controllo diffuso sulle modalità di funzionamento dell’amministrazione. Le possibilità di intervento e di controllo si fanno più incisive quando i cittadini vengono consultati o associati a talune decisioni27. 133 134 (BPR) ed deve avere come centro il cittadino. La telematica gioca un ruolo decisivo nel reingegnerizzare i processi nella pa, in particolare nel consentire il controllo di tali processi (il protocollo elettronico va in questa direzione) e nel permettere una piena comunicazione interfunzionale tra i vari enti. Una delle conseguenze più immediate dell’applicazione del BPR alla pa potrebbe essere un importante decentramento amministrativo, sul quale si discute molto in chiave politica e poco in riferimento al ruolo che le tecnologie possono svolgere. Come evidenzia Nicholas Negroponte: “non occorre che ogni comunicazione o decisione passi attraverso un’autorità centrale: questo sarebbe un modo balordo di gestire un sistema per la prenotazione dei voli, ma è considerato sempre più essenziale per la gestione delle organizzazioni e della pubblica amministrazione. Una struttura decentralizzata con un alto livello di interconnessione presenta una elasticità e possibilità di sopravvivenza molto maggiori. È certamente più organizzata e capace di evolvere nel tempo. Il decentramento è stato a lungo un approccio plausibile concettualmente, ma non realizzabile praticamente”33. A proposito del decentramento –federalismo– che si sta cercando di realizzare in Italia, bisogna guardare positivamente al ruolo che Stanca prevede per le tecnologie informatiche. Infatti, al di là della valutazione del progetto complessivo sul federalismo, ci sembra interessante che le tecnologie di rete siano riconosciute come “la risorsa strategica per porre in modo nuovo il rapporto fra autonomia delle amministrazioni locali con quelle centrali e la necessità di integrità, armonizzazione, coerenza in un’ottica di sistema pubblico nazionale”34. Naturalmente, ciò non può significare che il rapporto tra amministrazioni centrali a periferiche trovi la propria soluzione grazie alle nuove tecnologie. È impensabile, cioè, che bastino nuove reti di comunicazione per dirimere una questione del tutto attinente la sfera politica. Nel cambiamento qualcosa si perde: le strutture burocratiche affrontano ciò che Anthony Giddens ha chiamato “la spersonalizzazione della fiducia”. Così la descrive Maldonado, esaminandola proprio in riferimento alle nuove tecnologie: “gli impegni delle persone nei confronti delle istituzioni sono «senza faccia» (faceless), ossia impersonali. Impegni che si basano sostanzialmente sulla «fiducia» (trust) che le persone hanno nell’idoneità dei «sistemi esperti». [Ci] si riferisce, nella fattispecie, a quei sistemi astratti a cui, nella modernità, le persone affidano il compito di proteggerle dai rischi, di garantire, in fin dei conti, la loro sicurezza. […] Ma se questo è l’innegabile (e irrinunciabile) vantaggio di tale fiducia, lo svantaggio, secondo Giddens, è la spersonalizzazione della fiducia. Il prezzo che si paga per questa «sicurezza ontologica» è una sempre maggiore «vulnerabilità psicologica», perché, dopotutto, la «fiducia nei sistemi astratti non offre la stessa gratificazione psicologica della fiducia nelle persone»”35. Come può l’amministrazione pubblica sfuggire a ciò? “La comunicazione pubblica in rete permette di dare vita ad un vero e proprio «customer service» discreto e completo, capace di volta in volta di erogare informazioni e suggerimenti oppure di raccogliere o richiedere feedback e informazioni individuali, nonché‚ una «customer intimacy», cioè la capacità di comprendere gli orientamenti del consumatore e di assecondare e stimolarne il comportamento”36. Customer service e customer intimacy sono due conseguenze della adozione NORME e SEGNI da parte della pa di tecniche proprie del marketing interattivo di tipo relazionale (si veda la tabella 4), adozione resa possibile dall’uso della rete e da una conseguente svolta culturale. “Gli amministrati sono diventati culturalmente cittadini-utenti e, in parte, cittadini-clienti. Cittadini-clienti non nel senso che comprano servizi in modo generalizzato, ma nel senso che lo Stato e gli enti pubblici rivendono ogni volta l’amministrazione al cittadini come se la dovesse comprare: come se dovesse scegliere ogni volta i suoi servizi, come se dovesse confermare ogni volta il proprio contratto con la PA”37. Ciò con lo scopo di completare la cittadinanza politica cone quella amministrativa e senza la pretesa di sostituire la seconda alla prima, il che significa che il BPR e la customer service non devo intendersi come surrogati dell’azione politica. Perciò niente sconfinamenti indebiti della logica mercantile nell’ambito propriamente politico: il marketing interattivo deve intendersi semplicemente come strumento utile ad un preciso e limitato scopo, quale può essere il miglioramento del rapporto tra burocrazia e cittadino. Tabella 4: il marketing interattivo obiettivi definire i benefici dell'utente e gli obiettivi istituzionali sviluppare un solido piano per attrarre utenti potenziali stimolare un forte coinvolgimento dell'utente nei siti istituzionali prevedere investimenti di fidelizzazione acquisire le informazioni significative sul cliente attivare una relazione continua strumenti - focalizzare su vantaggi istituzionali - benefici effettivi, obiettivi espliciti - leadership nel marketing - campagne su stampa / TV - cartelloni "on line" - link con siti trafficati - informazione e intrattenimento (servizio) - coinvolgimento (chat) - identificazione - aggiornamento - nuovi servizi - coerenza marketing - identificazione dei visitatori - feedback degli utenti - comunicazione “one to one” - interazione / transazione customizzata - servizi ad hoc Fonte: Alberto Cattani, Internet e la comunicazione pubblica, Reggio Calabria, Scuola superiore della pubblica amministrazione, 1998, p. 62. L’elemento centrale della “cura della relazione”, l’elemento che ripersonalizza la fiducia è l’ascolto, diretta conseguenza del modello comunicativo della rete, imperniato sulla interattività. L’ultima osservazione riguarda i destinatari a cui si rivolge l’amministrazione digitalizzata. L’utilizzo della rete da parte delle istituzioni democratiche, è realmente democratico, ossia rivolto a tutti i cittadini? Certamente no, e né può esservi altra risposta osservando l’attuale diffusione delle tecnologie informatiche nel nostro, come anche negli altri Paesi. Questo, però, è un modo non apprezzabile di porre la questione giacché è legato alla contingenza dell’oggi e non ad una visione di lungo periodo: ogni discorso sulle tecnologie informa- 135 tiche se vuole evitare ogni tentazione retorica, deve dichiarare la propria conditio sine qua non: la capillare diffusione di personal computer e una alta alfabetizzazione informatica. Sebbene questa sia solo una condizione di partenza, non bisogna dimenticare che ad oggi sia i dati del Pew Internet & American Life Project38, negli Stati Uniti, sia quelli dell’Osservatorio Alchera39, in Italia, confermano l’ipotesi che le nuove tecnologie riescono ad ampliare il ventaglio di opportunità solo per soggetti che hanno già un forte interesse per la politica nel suo complesso, mentre non riescono ad attrarre l’attenzione dei cittadini da essa più distanti. Al contrario, il target più importante al quale deve mirare la pubblica amministrazione in rete è formato da quella vasta fascia di cittadini poco propensi ed abituati a cercare il dialogo e il confronto con le istituzioni e con gli altri soggetti che costituiscono la sfera pubblica. Purtroppo, questi sono coloro che meno navigano nel ciberspazio. 136 * Dottorando di ricerca in “Teoria dell’informazione e della comunicazione” presso l’Università degli Studi di Macerata e Senior McLuhan Fellow presso il McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università di Toronto. I materiali qui presentati riprendono, in parte, e aggiornano i lavori della ricerca “I ministeri in rete”, condotta nel settembre 2001 insieme a Danilo Vaccari e Matteo Domenico Recine per la cattedra di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica, tenuta da Franca Faccioli presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma. A loro il mio ringraziamento per il continuo confronto. 1 A cura di Matteo Domenico Recine. Laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università “La Sapienza” di Roma con tesi: L’e-government in Italia. Ha collaborato al rapporto Le città digitali 2003 realizzato da Rur-Censis. 2 HAROLD A. INNIS, Impero e comunicazioni, Roma: Meltemi, 2001. Si veda anche Beniger, James R., Le origini della società dell’informazione, Torino: Utet, 1995. 3 JEAN-FRANÇOIS LYOTARD, La condizione postmoderna, Milano: Feltrinelli, 1979. 4 ZYGMUNT BAUMAN, Modernità liquida, Roma-Bari: Laterza, 2002. 5 FRANCIS FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano: Rizzoli, 1992, rappresenta solo la punta di un iceberg ben più ampio. 6 MANUEL CASTELLS, Galassia Internet, Milano: Feltrinelli, 2002, p. 262. 7 JÜRGEN HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari: Laterza, 1971, p. 14. 8 JOHN B. THOMPSON, Mezzi di comunicazione e modernità, Bologna: Il Mulino, 1998, pp. 352-353. 9 JÜRGEN HABERMAS, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., p.122. 10 PIERRE LÉVY, L’intelligenza collettiva, Milano: Feltrinelli, 1999, p. 98. 11 PIERRE LÉVY, Cyberdémocratie, Paris (Fra): Odile Jacob, 2002. 12 PIERRE LÉVY, L’intelligenza collettiva, cit., p. 90. 13 TOMÀS MALDONADO, Critica della ragione informatica, Milano: Feltrinelli, 1999, p. 58. 14 SARA BENTIVEGNA, La politica in rete, Roma: Meltemi, 1995, p. 148. 15 BENTIVEGNA, op. cit., p. 14. 16 FRANCO BERARDI (a cura di), Cibernauti, Roma: Castelvecchi, 1996, p. 116; è bene dichiarare che il “modello di democrazia” delineato da Berardi non è da noi condiviso. 17 LAWRENCE K. GROSSMAN, La repubblica elettronica, Roma: Editori Riuniti, 1997. 18 TOMÀS MALDONADO, Critica della ragione informatica, cit., pp. 43-45. 19 LISS JEFFREY, “Tempo e democrazia on line. Riflessioni sul processo politico nell’era dei network globali”, in de Kerckhove, Derrick, La conquista del tempo, Roma: Editori Riuniti, 2003, p. 85. 20 Per tali documenti-quadro, nonché per le singoli disposizioni normative riguardanti le speci- NORME e SEGNI fiche tematiche, abbiamo ritenuto utile inserire l’appendice “Fonti normative e documenti istituzionali”, alla quale si rimanda. 21 Il documento sui 10 obiettivi di legislatura, che il Governo ha elaborato per la digitalizzazione dell’amministrazione, considera alcuni (quelli contrassegnati con il simbolo #) degli aspetti inseriti nella tabella 1, nella quale manca la qualità, che però è un metaobiettivo. 22 FRANCO CARLINI, “Non bastano leggi d’avanguardia, il problema è riuscire ad applicarle”, in Telèma Burocrazia elettronica società più civile, 19, inverno 1999/2000. 23 Si veda GIANCARLO FORNARI, “Le nuove prospettive del fisco telematico”, Rivista italiana di comunicazione pubblica, 4, 2000. 24 Ci riferiamo, in particolare, alle agevolazioni per la banda larga concesse alle famiglie. 25 VINCENZO VITA, “Il tempo nel governo in rete e nella pratica democratica”, in DE KERCKHOVE, DERRICK, La conquista del tempo, Roma: Editori Riuniti, 2003, p. 108. 26 STEFANO RODOTÀ, Tecnopolitica, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 65. 27 JOSHUA MEYROWITZ, Oltre il senso del luogo, Bologna: Baskerville, 1993, p. 192. 28 STEFANO RODOTÀ, Tecnopolitica, cit., p. 65 e p. 36. 29 JOSHUA MEYROWITZ, Oltre il senso del luogo, cit., p. 270. 30 GIANCARLO FORNARI e MICHELE DIODATI, Internet per le pubbliche amministrazioni, Roma, Buffetti, 2000, p. 5. 31 FRANCO MORGANTI, “Nel nostro futuro c’è il modello di un nuovo governo. Elettronico”, Telèma. Burocrazia elettronica società più civile, 19, inverno 1999/2000. 32 PIERRE LÉVY, L’intelligenza collettiva, cit., p. 85. 33 PAOLA M. MANACORDA, “Tecnologie della comunicazione: strumenti strategici per la democrazia locale e l’amministrazione «amichevole»”, in Catanzaro, Raimondo e Ceri, Paolo (a cura di), Comunicare nella metropoli, Torino: Utet-libreria, 1995, p. 140. 34 NICHOLAS NEGROPONTE, Essere digitali, Milano, Sperling & Kupfer, 1999, p. 164. 35 LUCIO STANCA, “e-Gov, la via breve del cambiamento”, il corriere delle Telecomunicazioni, 5/11 maggio 2003. 36 TOMAS MALDONADO, Critica della ragione informatica, cit., p. 66. Si veda, per le conseguenze sugli impiegati dell’amministrazione, Carotenuto, Aldo, “Burocrazia, un mostro stupido che l’informatica potrà domare”, Telèma. Burocrazia elettronica società più civile, 19, inverno 1999/2000. 37 ALBERTO CATTANI, Internet e la comunicazione pubblica, Reggio Calabria, Scuola superiore della pubblica amministrazione, 1998, p. 50. 38 PAOLO CERI, “Verso l’amministrazione pubblica dei cittadini-utenti”, in Catanzaro, Raimondo e Ceri, Paolo (a cura di), Comunicare nella metropoli, cit., p. 75. 39 http://www.pewinternet.org. 40 www.alchera.it. 137 Bibliografia 138 BAUMAN, 2000 Bauman, Zygmunt, Modernità liquida, Roma-Bari: Laterza, 2002. BENIGER, 1986 Beniger, James R, Le origini della società dell’informazione. La rivoluzione del controllo, Torino: Utet, 1995. BENTIVEGNA, 1999 Bentivegna, Sara, La politica in rete, Roma: Meltemi, 1999. BERARDI, 1996 Berardi, “Bifo” Franco (a cura di), Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia, Roma: Castelvecchi, 1996. CARLINI, 1999 Carlini, Franco, “Non bastano leggi d’avanguardia, il problema è riuscirle ad applicare”, Telèma. 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Ai sensi dell’articolo 195 del Trattato CE, qualsiasi cittadino dell’Unione o qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro può presentare una denuncia al Mediatore in presenza di un caso di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzione e degli organi comunitari, ad eccezione della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali. L’Ombudsman europeo, pertanto, tutelando i cittadini dalla cattiva amministrazione delle istituzioni e degli organi comunitari, risulta uno strumento di tutela non giurisdizionale. Il diritto di denuncia al Mediatore europeo è un diritto tipico della cittadinanza dell’Unione, è uno dei mezzi per rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini. La funzione del Mediatore europeo è sia di protezione dei diritti dei singoli, ma anche di stimolo per le istituzioni. Rendendo trasparente l’azione amministrativa e assicurando una buona amministrazione è possibile rinsaldare il rapporto tra istituzioni e cittadini. In questo modo l’ombudsman europeo contribuisce da un lato alla creazione di una Comunità vicina ai singoli e dall’altro migliora l’efficacia dell’amministrazione. Molte delle prerogative e delle caratteristiche peculiari del Mediatore europeo sono simili e talvolta identiche a quelle dei mediatori o difensori civici operanti negli Stati membri dell’Unione europea. Il Mediatore europeo ha la funzione di risolvere i casi di cattiva amministrazione posti in essere dalle istituzioni comunitarie, al fine di garantire una buona amministrazione. La prima difficoltà incontrata riguardava proprio ciò che doveva costituire il suo parametro di riferimento. Non era chiaro, infatti, in quali casi si potesse parlare di cattiva amministrazione. La prima definizione che il Mediatore dà della cattiva amministrazione è rinvenibile nella sua prima Relazione annuale, quella del 1995: “Chiaramente si è in presenza di un caso di cattiva amministrazione quando un’istituzione o un organo comunitario non opera conformemente ai trattati ed agli atti comunitari che sono vincolanti in materia o se non osserva le norme e i principi giuridici stabiliti dalla Corte di giustizia o dal Tribunale di primo grado. La cattiva amministrazione può comprendere molti altri aspetti, fra cui: irre- NORME e SEGNI golarità amministrative, omissioni amministrative, abuso di potere, negligenza, procedure illecite, iniquità, disfunzioni o incompetenza, discriminazione, ritardo evitabile, assenza o rifiuto d’informazioni. Questo elenco non vuole essere esaustivo. L’esperienza dei Difensori Civici Nazionali dimostra che è meglio non tentare di definire con rigore ciò che può costituire cattiva amministrazione, dato che il carattere aperto di questo termine è uno degli elementi che permettono di distinguere il ruolo del Mediatore da quello del giudice”. Tale definizione si è poi, col tempo, ulteriormente precisata. La finalità della sua azione è di garantire una buona amministrazione, sia come diritto che come principio. È proprio in virtù di tale obiettivo che il Mediatore agisce in modi diversi. Come si vedrà nei paragrafi successivi, l’attività principale consiste nella risoluzione dei casi che sono sottoposti alla sua attenzione. L’Ombudsman (letteralmente: “uomo che funge da tramite”, così si chiamava il difensore civico istituito in Svezia con la costituzione del 1809) europeo apre un procedimento, a seguito di una denuncia o di sua spontanea iniziativa, le cui caratteristiche sono la celerità, l’economicità e l’informalità. Tenta sempre una conciliazione tra le parti, assicura il contraddittorio e talvolta esercita poteri investigativi. L’unico problema è che non gli è riconosciuto alcun potere di tipo coercitivo o sanzionatorio per far valere le sue decisioni. Si tratta di un forte limite che rischia di rendere inefficace la sua azione. In seguito ad un numero cospicuo di ricorsi, il Mediatore europeo ha avuto la possibilità di agire al fine di assicurare il diritto d’accesso. È anche grazie al suo interessamento che vi sono stati frequenti interventi da parte del legislatore comunitario. Al fine di garantire una buona amministrazione, l’azione dell’Ombudsman si articola in più direzioni. Il Mediatore espleta un’attività di prevenzione, che consiste nello specificare e chiarire quali comportamenti devono essere tenuti da un’amministrazione. È stato grazie all’intervento del Mediatore europeo, che il diritto ad una buona amministrazione non solo ha trovato riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali e nel Codice di buona condotta amministrativa, ma anche nel testo della Costituzione europea. La prevenzione, inoltre, ha portato il Mediatore ad instaurare un rapporto di cooperazione con le altre istituzioni comunitarie, che pure mirano ad assicurare il diritto ad una buona amministrazione. Nel riportare all’interno della relazione annuale i casi risolti, è possibile leggere una finalità preventiva. L’Ombudsman, infatti, ritiene che le altre istituzioni o gli altri organi sia comunitari che nazionali possano guardare alle sue decisioni come ad un precedente. Sulla base di queste considerazioni è possibile concludere che la prevenzione è una delle attività principali, ma quella che lo vede impegnato maggiormente è proprio quella di risoluzione dei casi di cattiva amministrazione. 141 2. La normativa di riferimento 142 Il Mediatore europeo espleta le proprie funzioni ai sensi dell’articolo 195 del Trattato comunitario, così come modificato dal Trattato di Maastricht del 1992. Prima di allora, si era discusso molto sull’esigenza di istituire un ombudsman comunitario, ma fino a quel momento non vi era stato alcun intervento normativo.1 Con il Trattato di Maastricht ne viene sancita l’istituzione e vengono dettate le regole generali per l’esercizio delle funzioni.Vi è stata, poi, la Decisione del Parlamento europeo concernente lo statuto e le condizioni generali per l’esercizio delle funzioni, entrata in vigore nel 1994. In questo atto parlamentare è contenuta la disciplina concernente l’organizzazione dell’ufficio del Mediatore e ne viene disciplinata in linea generale l’attività. Nell’articolo 14 si dice che il Mediatore deve adottare le disposizioni d’esecuzione, che furono poi approvate il 16 ottobre 1997 e successivamente abrogate da quelle entrate in vigore il 1° gennaio 2003. In tale atto il Mediatore disciplina la sua attività, indicando i presupposti per il ricevimento delle denunce, per l’avvio delle indagini e per la emissione di valutazioni critiche, raccomandazioni e relazioni speciali al Parlamento. Disciplina inoltre la sua attività di cooperazione con i difensori civici e organi corrispondenti degli Stati membri e regola l’accesso pubblico ai documenti. Vi è, poi, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000, in cui viene riconosciuto tra i diritti fondamentali il ricorso al Mediatore europeo. Si è discusso a lungo sul valore giuridico vincolante di tale atto, considerato un vero e proprio Bill of rights.2 La conclusione a cui sono giunte la dottrina e la giurisprudenza è che pur non essendo vincolante, ha comunque rilevanza giuridica. Nel 2001, invece, è stato approvato il codice di buona condotta amministrativa nel quale si spiega quale sia il significato del diritto ad una buona amministrazione. Tale codice è indirizzato alle istituzioni comunitarie e ai suoi funzionari, ma anche ai cittadini, nel senso che a questi ultimi viene spiegato cosa hanno il diritto di aspettarsi. Anche sul valore giuridico di tale documento si è discusso a lungo, concludendo che, come la Carta dei diritti fondamentali, pur avendo rilevanza giuridica, non è vincolante. Inoltre, il Mediatore europeo è tenuto al rispetto del Regolamento CE n°45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, concernente sia la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte di organi e istituzioni comunitarie, sia la libera circolazione di tali dati. L’articolo 14 delle disposizioni d’esecuzione disciplina proprio l’accesso pubblico ai documenti custoditi dal Mediatore. Nel testo della Costituzione europea, nel titolo relativo ai diritti fondamentali e alla cittadinanza dell’Unione, è inserito il diritto di denuncia al Mediatore europeo, così che oggi è elevato al rango di diritto costituzionale. 3.1 La denuncia La funzione del Mediatore europeo è di risolvere i casi di cattiva amministrazione posti in essere dalle istituzioni e dagli organi comunitari, al fine di garantire la buona amministrazione. L’attività del Mediatore si avvia sulla base di una denuncia o di propria iniziativa.3 La denuncia può essere presentata da un qualsiasi cittadino europeo o da una qualsiasi persona residente in uno Stato membro. Nell’articolo 2 dello statuto del Mediatore si precisa che si può trattare sia di una persona fisica che di una persona giuridica. Quando si parla di persona giuridica si fa riferimento a tutte le imprese, associazioni o altri organismi che hanno la sede sociale nell’Unione. La denuncia può essere presentata personalmente o attraverso un membro del Parlamento europeo, ma anche da chi sia terzo e nonostante l’opposizione della parte interessata.4 Si riconosce anche ad una persona terza la possibilità di sporgere denuncia perché la funzione del Mediatore è di risolvere i casi di cattiva amministrazione, garantire la buona amministrazione e pertanto migliorare i rapporti con i cittadini. Per quanto riguarda la forma delle denunce, è preferibile quella per lettera, ma sono accettate anche quelle orali o telefoniche. Questo vuol dire che non è richiesto il rispetto di determinati requisiti formali. Infatti, per questo tipo di denuncia non è neppure richiesto il patrocinio di un legale. È comunque consentita l’assistenza legale, ma soltanto se il denunciante ne avverte la necessità. L’assenza del patrocinio legale e la mancanza di requisiti formali per la presentazione della denuncia sono sintomatiche del fatto che il ricorso al Mediatore europeo non è di tipo giurisdizionale. Pertanto l’attività del Mediatore va distinta da quella degli organi giurisdizionali. L’oggetto della denuncia deve riguardare un caso di cattiva amministrazione. Che cosa s’intenda per cattiva amministrazione è stato precisato dallo stesso Mediatore. La denuncia, inoltre, può riguardare un rapporto di lavoro tra l’istituzione o organo comunitario e un suo funzionario o agente, purché siano state esperite le possibilità interne di domanda o ricorso amministrativo e siano scaduti i termini fissati per la risposta da parte dell’autorità interessata.5 I soggetti contro i quali è possibile presentare la denuncia sono le istituzioni elencate nell’articolo 7 del Trattato comunitario e in più le agenzie ed altri organismi.6 Per quanto riguarda la Banca centrale europea, essendo un’autorità indipendente, per una parte della dottrina non può essere sottoposta alle indagini del Mediatore, proprio al fine di assicurarne la massima autonomia. Nel Trattato e nello Statuto della BCE, si fa riferimento al controllo di natura giurisdizionale, ma non si menziona quello espletato dall’Ombudsman europeo e per tale ragione se ne esclude l’esperibilità.7 Si auspica, comunque, un chiarimento di natura normativa. NORME e SEGNI 3. La procedura d’indagine 143 144 La denuncia, inoltre, non può essere presentata contro un’autorità che non sia indicata esplicitamente né contro una persona fisica. Per quanto riguarda il profilo procedurale, la denuncia deve essere presentata entro due anni a decorrere dalla data in cui i fatti che la giustificano sono portati a conoscenza del ricorrente.8 È quindi fissato un termine di prescrizione entro il quale far valere il proprio diritto. Nella denuncia devono risultare chiaramente l’oggetto della stessa e l’identità della persona che la presenta.9 La presentazione di una denuncia al Mediatore europeo non interrompe i termini per i ricorsi nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi. Questo vuol dire che il ricorso al Mediatore non impedisce il ricorso giurisdizionale. La denuncia va presentata soltanto dopo aver fatto passi amministrativi appropriati presso le istituzioni e gli organi interessati dalla cattiva amministrazione. Nel senso che si deve cercare una soluzione in accordo con l’organo o l’istituzione, prima di rivolgersi al Mediatore. Nel momento in cui le denunce vengono ricevute, sono classificate, registrate e numerate e al reclamante viene inviata una conferma scritta nella quale sono indicati la procedura che verrà seguita e il nome del funzionario che se ne occupa.10 Sono denominati giuristi i funzionari dell’ufficio responsabili del trattamento delle denunce. È possibile chiedere al Mediatore che la denuncia sia esaminata confidenzialmente, nel senso che sia classificata come riservata, infatti la regola generale è che sia trattata pubblicamente.11 È importante che il Mediatore operi nel modo più aperto e trasparente possibile, sia per consentire ai cittadini europei di seguirne e comprenderne il lavoro, sia per fornire il buon esempio alle altre istituzioni. Una denuncia può essere trasferita al Parlamento europeo perché la tratti come una petizione oppure ad un’altra autorità competente a condizione che il Mediatore lo ritenga opportuno e che il denunciante acconsenta.12 Anche una petizione trasmessa al Mediatore dal Parlamento europeo può essere trattata come una denuncia, previo consenso del firmatario. Questo elemento è uno dei tanti sintomatici del rapporto stretto esistente tra le due istituzioni. La denuncia al Mediatore europeo non richiede il rispetto di particolari formalità, questo soprattutto al fine di semplificare il ricorso e assicurare una tutela effettiva. Questo non vuol dire che non esistano delle condizioni che devono essere soddisfatte per presentare la denuncia, anzi queste, desumendole dagli articoli 2 e 3 dello statuto, possono essere così riassunte: – la denuncia può essere presentata da qualsiasi persona fisica o giuridica che ha sede sociale in uno dei paesi dell’Unione; – la denuncia deve riguardare un caso di cattiva amministrazione; – la cattiva amministrazione deve riguardare una delle istituzioni o degli organi comunitari, ad eccezione della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali; – nella denuncia occorre precisare l’oggetto della stessa e l’identità della persona che la presenta; 3.2 La ricevibilità e l’irricevibilità della denuncia e l’apertura delle indagini Una volta presentata una denuncia, il Mediatore europeo valuta se questa rientra nel suo mandato e quindi sia ricevibile oppure esula dal suo mandato e dunque archivia il caso.13 Una denuncia risulta ricevibile quando il Mediatore ritiene che questa rientra effettivamente nel suo mandato, questo però non vuol dire che sia anche ricevibile. Tale valutazione avviene sulla base dei criteri definiti tanto nel Trattato di Maastricht nell’articolo 195 quanto nello statuto. È una valutazione che non ha carattere discrezionale, ma si fonda su condizioni ben precise. Una denuncia rientra nel mandato del Mediatore europeo quando: – riguarda un caso di cattiva amministrazione; – la cattiva amministrazione è posta in essere da un organo o da una delle istituzioni comunitarie ad eccezione della Corte di giustizia o del Tribunale di primo grado. Se una denuncia non rientra nel mandato del Mediatore europeo, questo archivia il caso.14 Se la denuncia invece rientra occorrerà accertarsi che sia ricevibile. Una denuncia è ricevibile se: – l’autore e l’oggetto della stessa sono identificabili; – è presentata entro due anni a decorrere dalla data in cui i fatti che la giustificano sono portati a conoscenza del ricorrente; – deve essere preceduta da un contatto diretto tra l’istituzione e gli organi interessati; – non è stato avviato un procedimento dinanzi ad un organo giurisdizionale e non si è messa in discussione la fondatezza di una decisione giudiziaria; – essendo inerente ai rapporti di lavoro tra istituzioni o organi comunitari e i loro dipendenti, sono state esaurite le possibilità interne di domanda o ricorso amministrativo. Ai sensi dell’articolo 4 delle disposizioni d’esecuzione del Mediatore, se la denuncia è ricevibile il Mediatore decide se avviare le indagini o archiviare il caso. Si tratta ancora una volta di una valutazione non di natura discrezionale, che il Mediatore effettua sulla base di elementi oggettivi. Prima di prendere una decisione il Mediatore europeo può chiedere al denunciante ulteriori informazioni o documenti.15 Pertanto se ritiene che vi siano motivi sufficienti, avvia le indagini. Una volta aperte le indagini ne informa sia il denunciante sia l’istituzione interessata.16 In particolare invia all’organo comunitario investito dal caso di cattiva amministrazione una copia della denuncia e lo invita a formulare un parere entro tre mesi. Tale parere viene poi inviato al denunciante perché formuli a sua volta delle osservazioni. Nel momento in cui apre le indagini NORME e SEGNI – la denuncia deve essere presentata entro due anni a decorrere dalla data entro cui i fatti che la giustificano sono portati a conoscenza del ricorrente; – la denuncia deve essere preceduta dai passi amministrativi appropriati presso le istituzioni e gli organi interessati. 145 146 tenta una prima conciliazione tra le parti. In base ai risultati del contraddittorio decide se proseguire le indagini o archiviare il caso. Ai sensi dell’articolo 2 dello statuto, se una denuncia esula dal mandato del Mediatore o vi rientra, è comunque irricevibile: – quando non riguarda un caso di cattiva amministrazione; – quando non si tratta di un’istituzione o di un organo comunitario oppure si tratta della Corte di giustizia o del Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali; – quando non è presentata entro due anni; – quando non s’indica l’identità del denunciante e l’oggetto della denuncia; – quando è stato già avviato un procedimento dinanzi ad un organo giurisdizionale o vi è stata una decisione giudiziaria di siffatto organo; – quando non è stata preceduta da un contatto diretto con l’istituzione o l’organo interessato al fine di trovare una soluzione; – quando essendo inerente ad un rapporto di lavoro tra istituzioni o organi comunitari e i loro funzionari, l’interessato non ha esperito le possibilità interne di domanda o ricorso e non sono scaduti i termini fissati per la risposta da parte dell’autorità interessata. Il Mediatore europeo quando una denuncia è irricevibile può anche consigliare di rivolgersi ad un’altra autorità comunitaria o nazionale oppure trasferire la denuncia direttamente all’organismo competente.17 In queste ipotesi è necessario comunque un assenso da parte del Mediatore e il consenso del denunciante. Il Mediatore europeo soltanto se ritiene che vi siano motivi sufficienti apre le indagini. Nel caso però di piccole irregolarità, come una mancata risposta o lievi ritardi, non apre un’indagine ma piuttosto cerca di stimolare l’istituzione attraverso contatti informali. Infatti già nelle sue relazioni il Mediatore ha stabilito degli standard che devono essere garantiti per la fase dell’iniziativa, della decisione e della conclusione della procedura.18 Si può dunque notare come nella fase precedente le indagini il Mediatore decida in modo non discrezionale ma del tutto oggettivo se una denuncia è effettivamente fondata. La sua valutazione si basa sul riscontro di condizioni stabilite nello statuto e non su un suo mero giudizio. Le sue scelte inoltre sono sempre motivate, soprattutto nel caso in cui ritenga che una denuncia esuli dal suo mandato e pertanto sia irricevibile. In base ai dati statistici concernenti l’attività del Mediatore europeo dal 01.01.2000 al 31.12.2003, 19 su 8419 denunce ricevute soltanto il 30% circa rientrava nel mandato del Mediatore, in 909 casi sono state avviate delle indagini. Dalla relazione annuale del 2003 è emerso che la maggior parte delle denunce non rientrano nel mandato del Mediatore europeo o perché non riguardano un’istituzione o un organo comunitario o perché non si tratta di un caso di cattiva amministrazione o perché il denunciante non è autorizzato. Inoltre le denunce risultano irricevibili o perché non sono precedute da passi amministrativi appropriati, o perché autore e oggetto non sono individuabili, o perché sono scaduti i termini, o perché non sono state esaurite le possibilità interne di ricorso nei casi relativi al personale delle istituzioni, NORME e SEGNI o perché i fatti sono oggetto di un procedimento giurisdizionale in corso o concluso. Da tali dati, quindi, è possibile dedurre che il motivo per cui le denunce non rientrano nel mandato del Mediatore o vi rientrano ma sono irricevibili è la poca informazione. Proprio al fine di evitare tutto ciò, il Mediatore ha sempre cercato di attuare una politica d’informazione, impegnandosi nel far conoscere sempre di più l’ufficio. Come emerge dalla relazione annuale del 2003, in quei dodici mesi sono stati fatto sempre più affidamento sulla possibilità di diffondere le informazioni tramite Internet. 3.3 I poteri istruttori del mediatore e la conclusione delle indagini La fase successiva all’accertamento della ricevibilità della denuncia si può considerare d’indagine. Nel corso di tale fase sono attribuiti al Mediatore europeo poteri istruttori, che sono stati ulteriormente rafforzati con le Disposizioni d’esecuzione entrate in vigore nel 2003. Con le nuove disposizioni si sono riconosciuti al Mediatore nuovi poteri di natura istruttoria per consentirgli di stabilire con maggiore semplicità la presenza o meno di un caso di cattiva amministrazione. Quando il Mediatore decide di avviare un’indagine, invia una copia della denuncia all’istituzione interessata perché formuli un parere entro tre mesi, tale parere viene poi trasmesso al cittadino perché esprima le sue osservazioni.20 Nella relazione del 1998 il Mediatore europeo ha detto chiaramente che le informazioni fornite da uno dei soggetti non possono essere considerate se non viene acquisito il parere della controparte.21 Il Mediatore europeo dunque considera una condizione necessaria della sua attività il rispetto del contraddittorio. Durante questa fase, in cui il Mediatore esercita dei poteri di mediazione, l’istituzione comunitaria interessata può decidere di venire incontro alle richieste del reclamante oppure è questo a decidere di desistere. In caso contrario il Mediatore deve o procedere all’accertamento dei fatti e verificare che effettivamente vi sia un caso di cattiva amministrazione oppure archiviare il caso. Nell’ipotesi in cui deve procedere all’accertamento dei fatti, ai sensi dell’articolo 5 delle Disposizioni d’esecuzione, gli sono attribuiti: – il potere di richiesta di informazioni o documenti alle istituzioni o agli organi comunitari o alle autorità degli Stati membri – il potere d’esaminare il fascicolo dell’istituzione comunitaria interessata e il potere di estrarne copia – il potere di richiesta di testimonianza nei confronti di funzionari o agenti di istituzioni od organi comunitari – il potere di accedere in loco – il potere di commissionare studi o relazioni di esperti. Si tratta di poteri d’indagine piuttosto estesi, in passato infatti non gli era consentito l’accesso a tutti i tipi di documento e non poteva acquisire testimonianze. Oggi invece può prendere visione di qualsiasi documento sia pubblico che riservato, sia comunitario sia di uno Stato membro. In caso di resistenza 147 148 può rivolgersi al Parlamento europeo perché prenda le iniziative del caso.22 I poteri d’indagine trovano un limite nel segreto professionale, in base al quale le amministrazioni e i funzionari possono rifiutarsi di rispondere, purché diano un’adeguata motivazione.23 Nella relazione del 1998 il Mediatore ha sottolineato la necessità di distinguere tra i limiti all’accesso del pubblico ai documenti e i limiti all’accesso consentito al Mediatore.24 Sicuramente il Mediatore opera osservando il principio del contraddittorio e oggi può accedere anche a quasi tutti i documenti, per verificare le risposte e le giustificazioni che le istituzioni comunitarie forniscono a seguito della denuncia. Quando l’esercizio di questi poteri non pone in luce un caso di cattiva amministrazione, l’istituzione e il denunciante ne sono informati e il caso viene archiviato con una decisione motivata.25 Qualora il Mediatore riscontri un caso di cattiva amministrazione deve tentare la via della conciliazione amichevole. Se non è possibile trovare una soluzione amichevole, soltanto allora il Mediatore potrà o formulare un’osservazione critica oppure nei casi più gravi redigere una relazione corredata da un progetto di raccomandazione. Ai sensi dell’articolo 7 delle Disposizioni d’esecuzione il Mediatore può formulare un’osservazione critica a due condizioni: quando non è più possibile eliminare il caso di cattiva amministrazione e quando la cattiva amministrazione non ha implicazioni generali. Il Mediatore ha comunque l’obbligo di informarne il denunciante. Ai sensi dell’articolo 8 delle Disposizioni d’esecuzione, il Mediatore redige una relazione munita di un progetto di raccomandazione quando l’istituzione può ancora eliminare il caso di cattiva amministrazione e quando il caso di cattiva amministrazione ha delle implicazioni generali. Il Mediatore deve trasmettere tali atti all’istituzione e al denunciante. L’istituzione in questa ipotesi è tenuta a trasmettere entro tre mesi un parere circostanziato. Con il parere circostanziato è possibile che l’istituzione accetti la decisione del Mediatore e adotti apposite misure. Ma nell’ipotesi in cui il Mediatore non reputi il parere soddisfacente, allora elabora una relazione speciale destinata al Parlamento europeo. La relazione può contenere una raccomandazione.26 Il progetto di raccomandazione è solitamente redatto nei casi più gravi, quando cioè l’inerzia dell’istituzione interessata può aggravare la situazione che risulta invece risolvibile. Il Mediatore dunque dispone di ampi poteri istruttori, che si caratterizzano per un bassissimo tasso di discrezionalità e per l’attuazione del contraddittorio, ma non dispone di poteri decisori. Le indagini gli consentono di constatare se si è in presenza di un caso di cattiva amministrazione, ma non ha il potere di imporre la sua volontà all’istituzione interessata. Pertanto può non essere in grado di risolvere il caso di cattiva amministrazione. Le osservazioni, le raccomandazioni e le relazioni infatti non sono atti che hanno efficacia vincolante. Di qui anche la tesi della loro non impugnabilità al fine di ottenere l’annullamento.27 Il Mediatore infatti ritiene che dal momento che le sue decisioni non sono vincolanti non possono essere lesive. L’unico caso fino ad oggi di ricorso agli organi giurisdizionali comunitari contro il Mediatore ha riguardato una 3.4 Difesa Durante il procedimento volto ad accertare il caso di cattiva amministrazione il Mediatore esercita dei poteri d’indagine, a seguito della denuncia di un soggetto che ritiene che sia stato leso un suo diritto. L’autore della denuncia sembra essere gravato dello stesso onere probatorio che si rinviene nel processo civile o penale. Egli deve indicare tutti gli elementi che dimostrano la lesione del suo diritto. Se non vi riesce rischia che le indagini non siano approfondite e la lesione permanga. Spetta poi al Mediatore accertare la fondatezza della denuncia. L’Ombudsman europeo opera sempre nel pieno rispetto del contraddittorio, nel senso che non decide mai avendo consultato soltanto una parte. Infatti, una volta che ritenga che vi siano sufficienti motivi per avviare un’indagine ne informa immediatamente l’istituzione o l’organismo interessato perché gli faccia pervenire un suo parere.30 Pertanto si garantisce alla parte interessata il diritto di difendersi adducendo le proprie motivazioni. Inoltre, il diritto di difesa può trovare attuazione nel momento in cui il Mediatore dovesse richiedere la testimonianza di un funzionario o agente dell’istituzione interessata.31 Le dichiarazioni, infatti, sono rese a nome dell’amministrazione che rappresenta e in base alle istruzioni date da questa. Successivamente il Mediatore invia il parere dell’istituzione interessata al denunciante. Entro un mese poi il denunciante deve far pervenire le sue osservazioni.32 Dopo aver esaminato il parere e le osservazioni, se il Mediatore ritiene che non si è in presenza di un caso di cattiva amministrazione, archivia il caso e il denunciante non può nulla, nel senso che non può né fare ricorso né tanto meno impugnare la decisione. Se invece l’Ombudsman europeo accerta la sussistenza di un caso di cattiva amministrazione, formulerà una osservazione critica o un raccomandazione a seconda del caso. Ma se l’istituzione interessata non intende rimuovere la situazione di cattiva amministrazione a cui ha dato vita, il denunciante non avrà alcuno strumento di tutela per far valere la sua posizione, dovrà piuttosto fare ricorso ad altri mezzi. Nel corso del procedimento istruttorio, pertanto, è sempre garantito il contraddittorio, il Mediatore infatti decide dopo aver ascoltato entrambe le parti. Questo vuol dire che il Mediatore garantisce all’istituzione investita della denuncia il diritto di difendersi. L’istituzione però non ha a sua disposizione gli strumenti probatori tipici di un processo. NORME e SEGNI richiesta di risarcimento dei danni che sarebbero derivati dal fatto che egli non aveva informato un denunciante della possibilità di proporre ricorso amministrativo o giurisdizionale avverso una decisione della Commissione.28 Infine, nel corso delle indagini svolte su iniziativa autonoma del Mediatore, questo può esercitare gli stessi poteri che gli sono riconosciuti quando le indagini si avviano in seguito ad una denuncia. Il procedimento, inoltre, si può concludere nello stesso modo. 29 149 È sulla base degli elementi riportati nella denuncia e nell’atto di difesa dell’istituzione che il Mediatore decide. La sua comunque non è una decisione discrezionale dal momento che l’accertamento del caso di cattiva amministrazione avviene sulla base di elementi oggettivi e non di una sua mera valutazione. 3.5 Conciliazioni amichevoli 150 La conciliazione amichevole o tentativo di conciliazione è disciplinato dall’articolo 6 delle disposizioni d’esecuzione e dall’articolo 2 dello statuto del Mediatore, in cui si dice che uno dei presupposti per la validità della denuncia è che questa sia preceduta da passi amministrativi appropriati presso le istituzioni o gli organi comunitari interessati. Questo vuol dire che ancora prima di presentare una denuncia la persona che reputa leso un suo diritto dovrà tentare di trovare un accordo o una soluzione con l’istituzione o l’organismo che lo ha danneggiato. Ai sensi dell’articolo 4 delle Disposizioni d’esecuzione, anche quando il Mediatore europeo decide di aprire le indagini trasmette la denuncia all’istituzione interessata perché esprima un parere, che a sua volta è comunicato al denunciante perché formuli un’osservazione. Lo scopo di queste comunicazioni è proprio quello di trovare una soluzione amichevole, nel senso che o l’istituzione riconosce di non aver agito correttamente e rimuove o annulla ciò che ha provocato la cattiva amministrazione oppure il denunciante decide di desistere. Infine vi è l’articolo 6 sempre delle disposizioni d’esecuzione che disciplina il tentativo di conciliazione esperibile quando il Mediatore ritiene che sussista un caso di cattiva amministrazione. In questa ipotesi però il tentativo è finalizzato ad eliminare la cattiva amministrazione ed a soddisfare il denunciante. La conciliazione riesce non se le parti, cioè il denunciante e l’istituzione, trovano un accordo ma se il Mediatore le aiuta a trovarlo. È pertanto l’Ombudsman europeo che coopera con l’organismo o istituzione al fine di risolvere il caso di cattiva amministrazione. In questa ipotesi chiude il caso con una decisione motivata e ne informa il denunciante. Nell’ipotesi in cui ritenga che la conciliazione non sia possibile o che il tentativo fallisce, il Mediatore termina il procedimento con una decisione motivata contenente una valutazione critica oppure elabora un relazione accompagnata da un progetto di raccomandazione. 33 Dunque. la conciliazione amichevole a cui si fa riferimento all’articolo 6 nelle Disposizioni d’esecuzione va distinto dall’arbitrato perché il Mediatore non funge da arbitro tra le parti, ma è esso stesso una delle parti. Mediazione e arbitrato hanno scopi diversi e non fungibili tra loro, il mediatore non decide la controversia ma concilia le diverse posizioni cercando di favorire il raggiungimento di un risultato. La mediazione, infatti, è un processo volontario durante il quale le parti di un conflitto si incontrano alla presenza di un terzo indipendente avente funzioni di moderatore. Questi ha il compito di condurre la procedura in modo da sviluppare fra i partecipanti una collabora- NORME e SEGNI zione che consenta a loro stessi di trovare una soluzione al problema. L’arbitro, al contrario, giudica i comportamenti a lui sottoposti in relazione alla conformità o meno di una norma, determinando gli effetti dannosi e le conseguenze che ne derivano. Pertanto, il procedimento che si svolge dinanzi al Mediatore europeo ha tutte le caratteristiche della mediazione, mentre non ha nulla in comune con l’arbitrato. Si può osservare, inoltre, come il Mediatore tenti più volte nel corso del procedimento la conciliazione, anche prima di avviare le indagini. La conciliazione amichevole, dunque, può essere uno strumento idoneo a realizzare l’obiettivo di risolvere i casi di cattiva amministrazione. 3.6 Conclusione delle indagini e assenza di poteri sanzionatori La procedura d’indagine si avvia con una denuncia oppure a seguito dell’iniziativa del Mediatore. Prima di avviare le indagini, questo deve accertarsi che la denuncia rientri nel suo mandato e se vi rientra deve assicurarsi che sia ricevibile. Se la denuncia risulta ricevibile, viene aperta l’indagine al fine di stabilire se sussista o meno il caso di cattiva amministrazione. Prima di procedere il Mediatore cerca di conciliare le parti, se il tentativo non riesce si avviano le indagini. I poteri istruttori risultano alquanto estesi soprattutto a seguito dell’entrata in vigore nel 2003 delle nuove disposizioni d’esecuzione. Per quanto riguarda la durata del procedimento non è previsto alcun termine preciso. Il Mediatore nella relazione annuale del 1997 ha dichiarato che: “l’obiettivo dovrebbe essere quello di svolgere le indagini necessarie a seguito di una denuncia e di informare il cittadino dell’esito entro un anno, salvo situazioni speciali che richiedono indagini più lunghe”. Questo è però un termine indicativo e non perentorio, non può comunque protrarsi oltre un certo termine altrimenti risulterebbe violato il principio di buona amministrazione. Per quanto riguarda la conclusione delle indagini, in base ai risultati statistici il Mediatore europeo ha trattato 1101 denunce dal 01.01.2000 al 31.12.2003, 917 indagini sono state concluse entro il 31.12.2003. 34 Le indagini si sono concluse per i seguenti motivi: 270 casi sono stati risolti dall’istituzione dopo l’avvio delle indagini, in 18 casi il denunciante ha ritirato la denuncia, 441 denunce sono risultate infondate, 13 casi sono stati conclusi con un accordo, 121 indagini si sono concluse con un’osservazione critica all’istituzione interessata, 46 indagini si sono concluse con l’invio di progetti di raccomandazione. In base a tali dati è possibile dedurre che nella maggior parte dei casi le denunce sono infondate, molte altre sono risolvibili positivamente e alcune si sono concluse con delle osservazioni critiche. Soltanto in pochi casi la conciliazione amichevole ha avuto un esito positivo. Osservando i dati statistici è possibile notare l’elevato numero di denunce irricevibili, come anche di denunce infondate. Tali elementi sono probabilmente sintomatici della poca informazione, nonostante la campagna di sensibilizzazione attuata dal Mediatore europeo. 151 152 Se l’Ombudsman europeo dispone di poteri istruttori piuttosto marcati, al contrario non ha alcun potere decisorio, questo porta a interrogarsi sul suo potere, che rischia di essere vuoto. Infatti, nell’ipotesi in cui il Mediatore riscontra un caso di cattiva amministrazione e l’istituzione non si adopera al fine di risolvere la questione, potrà soltanto formulare una raccomandazione corredata da una relazione speciale. Se nonostante tale atto l’istituzione persiste nella sua condotta, il Mediatore invierà una relazione speciale al Parlamento. L’Ombudsman europeo, pertanto, non ha alcuno strumento sanzionatorio o coercitivo per far valere la sua decisione. Il Mediatore, infatti, potrà riscontrare un caso di cattiva amministrazione ma non essere in grado di risolverlo, infatti, può non assicurare al denunciante alcuna tutela o alcun soddisfacimento. La tutela non è certa o perché il soddisfacimento dell’interesse è divenuto impossibile o perché è impossibile eliminare la situazione. Il denunciante, pertanto, può non vedere tutelato o soddisfatto il suo diritto. Secondo Cadeddu, il Mediatore europeo è un organismo privo di poteri decisori e di discrezionalità in senso tecnico, in quanto svolge indagini che possono portare solo a stabilire se sussiste o meno un caso di cattiva amministrazione.35 Pertanto se i poteri decisori non hanno carattere discrezionale, allora sono volti alla manifestazione di opinioni e non di volontà. Il pensiero di Cadeddu è condivisibile, anche se occorre tenere conto del fatto che il Mediatore europeo rimane uno strumento di tutela in tutte quelle situazioni in cui l’amministrazione ha posto in essere dei comportamenti contro i quali il cittadino rinuncia a protestare e a chiedere giustizia, poiché la loro entità non giustifica il ricorso ad una procedura giudiziaria. Anche se è comunque in grado d’incidere sui rapporti tra individuo e poteri pubblici. L’impugnabilità delle decisioni Il Mediatore europeo in quanto autorità indipendente ha sempre negato l’esperibilità da parte dei cittadini di una qualsiasi azione nei suoi confronti.36 Temeva, infatti, che attraverso un controllo di natura giurisdizionale, il giudice comunitario potesse mettere in discussione le sue decisioni finendo così con il sindacare il suo operato. L’indipendenza sarebbe compromessa e l’articolo 195 del Trattato violato. Riteneva, inoltre, che, dal momento che le sue decisioni non hanno effetti giuridici diretti per i cittadini e non risultano giuridicamente vincolanti per l’istituzione interessata, non possano mai essere fonte di danno. Inoltre, in nessuna disposizione del Trattato CE o di diritto derivato è prevista una possibilità di ricorso avverso le sue decisioni. L’assenza, però, di una qualsiasi forma di tutela nei confronti del cittadino andrebbe considerata come denegata giustizia. Il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale risulterebbe violato.37 Senza tenere conto che il conferimento di poteri ad un organo presuppone che detto organo assuma la responsabilità in caso di illeciti nell’esercizio di siffatti poteri o in caso di mancato 4. Il diritto d’accesso e la trasparenza nell’attività del mediatore La trasparenza è una componente essenziale della democrazia. Il cittadino ha il diritto di sapere come e perché le decisioni sono prese. Nel momento in cui si hanno tali informazioni si è in grado di valutare il lavoro dei rappresentanti politici e di assicurarsi che il potere pubblico è responsabile. Una buona informazione garantisce infatti una partecipazione effettiva. Come affermato dallo stesso Mediatore, l’Unione europea è legata alla NORME e SEGNI adempimento dei suoi compiti. È proprio la mancanza di un rimedio amministrativo che rende necessaria un’alternativa nei confronti dell’individuo leso che altrimenti resterebbe privo di tutela. L’azione di annullamento e quella per carenza non possono essere esperite dal momento che riguardano l’illegittimità di un atto giuridicamente vincolante o la sua mancata adozione. L’azione risarcitoria, invece, risulterebbe l’unica possibile. La stessa Corte di giustizia ha statuito la fondatezza del ricorso per risarcimento dei danni nei confronti del Mediatore europeo, anche se autorità indipendente.38 Già nel luglio 2003, la Corte si era pronunciata sull’indipendenza della BCE e della BEI.39 In queste due pronunce aveva statuito che l’indipendenza di un’istituzione non ha la conseguenza di distaccarla completamente dalla Comunità europea e di sottrarla a qualsiasi norma di diritto comunitario. Ogni istituzione, infatti, è destinata a contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità ed è soggetta alle condizioni previste dai Trattati. Il controllo del giudice comunitario sulle autorità indipendenti e quindi sul Mediatore europeo è, però, limitato per via delle caratteristiche peculiari di tali organi. Di conseguenza la responsabilità extracontrattuale dell’ombudsman europeo può sorgere solo in caso di violazione grave e manifesta degli obblighi che gli incombono. Secondo una giurisprudenza costante, valida anche nei confronti del Mediatore la responsabilità extracontrattuale della Comunità e il diritto al risarcimento del danno si configurano solo se sussistono determinati presupposti.40 Vi deve essere una violazione grave di una norma giuridica preordinata a conferire diritti ai singoli, devono sussistere un danno reale e un nesso causale diretto tra siffatta violazione e il danno subito dai soggetti lesi. Il danno, poi, può derivare tanto da un atto giuridicamente vincolante o meno, quanto da un comportamento imputabile ad un’istituzione o ad un organo comunitario. Pertanto l’azione per risarcimento danni è l’unica esperibile dal cittadino avverso le decisioni del Mediatore ed è anche l’unica che assicura l’effettività della tutela giurisdizionale. L’avvocato generale Geelhoed ha giustamente osservato che lasciare il cittadino sprovvisto di tutela in caso di cattiva amministrazione è incompatibile con l’essenza stessa del Mediatore.41 Questo vale a maggior ragione quando il danno deriva da un’azione o un’omissione dello stesso ombudsman europeo. 153 154 democrazia e riconosce la cittadinanza.42 Le istituzioni europee sono pertanto tenute a difendere e promuovere il principio della trasparenza. Nell’articolo 1 del Trattato sull’Unione europea si dice: “il presente Trattato segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’Unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini”. Questo dovere non è sempre stato pienamente adempiuto. Molte delle denunce trattate dal Mediatore riguardano proprio la mancanza di trasparenza da parte delle istituzioni comunitarie. In questi casi l’Ombudsman europeo deve stabilire se il rifiuto di accesso costituisca o meno un caso di cattiva amministrazione. Si tratta di accertare se l’istituzione interessata abbia applicato in modo corretto le proprie norme sull’accesso del pubblico o se abbia agito al di fuori dei limiti della propria autorità giuridica.43 Il Mediatore europeo in una lettera ha esposto le sue preoccupazioni per l’uso improprio delle norme sulla protezione dei dati non conforme al loro scopo di aiutare a garantire il rispetto del diritto individuale alla vita privata. Al contrario queste norme si stanno utilizzando per limitare la trasparenza nelle attività pubbliche.44 In particolare nella lettera risaltano due casi in cui le norme sulla protezione dei dati sono state invocate per limitare la trasparenza. Il primo ha riguardato il Parlamento europeo che ha messo in discussione la pubblicazione del registro contenete i nomi degli assistenti degli euro-deputati che vengono pagati con fondi comunitari. La materia è ora all’esame della commissione responsabile del Parlamento europeo. Un altro caso ha interessato la raccomandazione che il Mediatore ha fatto al Parlamento perché nei futuri concorsi d’assunzione i candidati siano informati che i nomi dei vincitori saranno resi pubblici. Il Parlamento non ha accolto la proposta argomentando che i vincitori godono del diritto all’anonimato. Tali esempi mostrano l’uso improprio delle norme sulla protezione dei dati, quasi come esistesse un diritto a partecipare anonimamente ad attività pubbliche. La tutela dei dati personali è finalizzata a proteggere la vita privata e le informazioni personali. Pertanto non si deve fare riferimento a tale tutela quando gli individui agiscono nell’espletamento di funzioni pubbliche o quando partecipano alla definizione di decisioni pubbliche di propria iniziativa. Fornire informazioni fa parte dei compiti dell’amministrazione in particolare di una buona amministrazione.45 Inoltre, la trasparenza è una delle migliori difese contro la corruzione, pertanto non può essere circoscritta alle procedure legislative, ma deve investire l’intero processo politico europeo. A partire dagli anni novanta, il diritto d’accesso è stato considerato anche come un diritto procedurale autonomo. L’accesso ai documenti costituisce una delle garanzie procedurali finalizzate alla tutela dei diritti alla difesa, ma soprattutto come effettivo esercizio del diritto ad essere ascoltato, previsto dai regolamenti n.17 e n.99 del 1963. Il Mediatore si è sempre impegnato perché le istituzioni europee assicurassero l’accesso ai dati, indipendentemente dalla sua qualificazione teorica. Ha sempre cercato di evitare di esprimersi sulla natura del diritto d’accesso, limitandosi ad assicurare il rispetto delle norme da parte delle istituzioni. Ha con- NORME e SEGNI tribuito, praticamente e a seguito delle denunce, a dissuadere gli organi comunitari dall’agire in modo ostruzionistico. Nel 1993 la Commissione e il Consiglio hanno adottato un Codice comune di condotta sull’accesso ai loro documenti. Il Codice riconosce che “il pubblico avrà il più ampio accesso possibile ai documenti di cui dispongono la Commissione e il Consiglio”. Tale documento ha un’elevata rilevanza giuridica poiché sancisce i principi generali che regolano l’accesso, ma prevede anche alcune eccezioni. Nel 1996 a seguito di un’indagine effettuata su iniziativa del Mediatore, altre istituzioni e organi comunitari hanno adottato norme sull’accesso del pubblico.46 Oggi la quasi totalità delle istituzioni ha adottato e pubblicato delle regole in tale materia. Nel maggio 2001 il Parlamento e il Consiglio hanno adottato delle nuove regole in materia d’accesso pubblico ai documenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione. Il Mediatore europeo ha sempre sostenuto che se le istituzioni si fossero conformate al principio di trasparenza nell’applicazione delle regole, i cittadini sarebbero stati in grado di comprendere meglio il funzionamento delle istituzioni. La trasparenza è riconosciuta come “uno strumento cruciale per portare la Comunità più vicina ai suoi cittadini e per aumentare la loro fiducia nel suo funzionamento, essendo tale fiducia un elemento chiave in ogni democrazia”.47 Per quanto riguarda l’attività che il Mediatore espleta, nell’articolo 13 delle disposizioni d’esecuzione esso riconosce al denunciante il diritto di prendere visione del fascicolo concernente la sua denuncia. Non solo, infatti, ha il diritto di prendere visione dei documenti ma anche quello di estrarne copia. L’accesso è negato soltanto rispetto ai documenti o alle informazioni confidenziali ottenuti a seguito dell’esame o dell’escussione. Nell’articolo 14 sempre delle disposizioni d’esecuzione è disciplinato l’accesso pubblico ai documenti custoditi dal Mediatore. È garantito l’accesso ai documenti non pubblicati ma in possesso del Mediatore, applicando il regolamento CE n°1049/2001. L’accesso pubblico è negato rispetto a documenti confidenziali o alle informazioni riservate. È garantito tanto il diritto di accesso quanto quello di estrarne copia. L’accesso è consentito rapidamente quando si tratta del registro generale delle denunce, delle denunce e dei documenti allegati dal cittadino, dei pareri circostanziati delle istituzioni interessate ed eventuali osservazioni formulate dal cittadino, delle decisioni del Mediatore di chiudere il caso e infine delle relazioni e dei progetti di raccomandazioni. Così come è garantito il diritto d’accesso pubblico ai documenti del Mediatore così anche a quest’ultimo deve essere riconosciuto il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni comunitarie o degli Stati membri al fine di espletare le sue indagini. L’accesso può essere negato per ragioni di segreto professionale, purché debitamente motivate. Il diritto d’accesso è d’altra parte compensato da un dovere di riservatezza. Nell’articolo 4 dello statuto del Mediatore si dice chiaramente che, quando questi e il suo personale ispezionano i documenti, sono vincolati dallo stesso obbligo di riservatezza dell’amministrazione. Pertanto, l’ispezione non si traduce nella divulgazione dei documenti. 155 Si può quindi dire che è importante garantire l’accesso ai documenti e la trasparenza nella propria attività, perché questo aiuta i cittadini a comprendere il lavoro delle istituzioni, li avvicina sempre di più ad esse e garantisce pertanto il diritto ad una buona amministrazione. Per tali ragioni il Mediatore si è sempre impegnato in una campagna di sensibilizzazione delle istituzioni perché attuino e assicurino la trasparenza e l’accesso ai dati e documenti. Purtroppo molte delle denunce ancora oggi presentate al Mediatore riguardano proprio la mancanza di trasparenza nell’attività delle istituzioni comunitarie. 5. La relazione annuale al Parlamento europeo 156 Ai sensi dell’articolo 195 del Trattato della Comunità europea: “il Mediatore presenta una relazione al Parlamento europeo sui risultati delle indagini”. Nell’articolo 11 delle disposizioni d’esecuzione si dice: “Il Mediatore presenta al Parlamento europeo una relazione annuale sulla sua attività in generale, che include i risultati delle sue indagini… La relazione annuale può includere le raccomandazioni che egli ritiene opportune ai fini dell’assolvimento dei propri compiti conformemente ai Trattati e allo statuto”. Il Mediatore europeo annualmente effettua una relazione sull’attività svolta e su quelli che sono stati i risultati delle sue indagini. La relazione annuale va distinta sicuramente dalla relazione speciale che invece viene elaborata in casi del tutto eccezionali, quando cioè, nonostante la raccomandazione del Mediatore, l’istituzione ha continuato a perseverare nella sua condotta scorretta. Fino ad oggi il Mediatore ha elaborato soltanto nove relazioni annuali, dal 1995 al 2003. Confrontando i diversi testi è impossibile non cogliere delle differenze. Originariamente la relazione risultava breve e sintetica. Nella prima il Mediatore ha spiegato le origini dell’istituto e le funzioni, in quelle successive ha invece cominciato a classificare le denunce il cui numero risultava esiguo. Con il passare del tempo la relazione è sicuramente divenuta un atto importante nell’attività svolta dal Mediatore. Oggi la relazione annuale non soltanto è un documento esauriente e completo, ma risponde ad uno schema ben preciso. La relazione è un atto che non si può non reputare importante perché costituisce un precedente di cui non solo il Mediatore ma anche le altre istituzioni non possono non tenere conto. Nella relazione infatti il Mediatore riporta i vari casi affrontati nell’anno e come sono stati risolti. Effettua una classificazione, distinguendo i casi risolti con una conciliazione amichevole, i casi in cui la denuncia non rientrava nel mandato o era irricevibile, i casi in cui non aveva riscontrato cattiva amministrazione e i casi in cui l’aveva riscontrata ed era stato necessario emettere un’osservazione critica o piuttosto una raccomandazione. Le ipotesi in cui una raccomandazione è seguita da una relazione speciale sono veramente rare. In casi del tutto eccezionali la relazione può contenere anche una raccomandazione. La relazione costituisce un precedente e un esempio che può aiutare a NORME e SEGNI capire cosa s’intenda effettivamente per cattiva amministrazione. La cosa più importante è che tale relazione viene pubblicata. È, infatti, proprio attraverso la pubblicazione che chiunque può prenderne visione e osservare come il Mediatore ha agito e che cosa intendeva effettivamente per cattiva amministrazione. È uno strumento molto utile per la comprensione e la diffusione del concetto di buona e cattiva amministrazione. Tale relazione è in grado di raggiungere non solo le istituzioni comunitarie, ma anche le autorità nazionali e i cittadini. Senza dimenticare che questo documento viene tradotto in tutte le lingue dell’Unione. La relazione annuale è uno strumento d’informazione e prevenzione veramente importante e utile perché in tal modo si potrebbe ridurre il numero delle denunce irricevibili, alleggerendo in parte il carico di lavoro del Mediatore. 6. La cooperazione con le istituzioni comunitarie Il rapporto esistente tra il Mediatore europeo e le istituzioni comunitarie è di cooperazione ed ha una duplice valenza. Da una parte, infatti, l’Ombudsman europeo agisce nei confronti degli organi comunitari che hanno posto in essere il caso di cattiva amministrazione. Dall’altra, invece, collabora con essi al fine di garantire il diritto ad una buona amministrazione. Tale rapporto è pertanto fondamentale sia per l’attività di risoluzione delle controversie che per quella di prevenzione. Nell’articolo 2 dello statuto del Mediatore si dice che: “Alle condizioni e nei limiti stabiliti dai summenzionati trattati, il Mediatore contribuisce a individuare i casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni e degli organi comunitari, fatta eccezione per la Corte di giustizia e il Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali, e a proporre raccomandazione per porvi rimedio”. La funzione dell’Ombudsman europeo è dunque di risolvere il caso di cattiva amministrazione posto in essere da un’istituzione o un organo comunitario. L’ambito “di istituzioni e organi comunitari” ha subito un estensione notevole, giungendo a comprendere, oltre quelle elencate nell’articolo 7 del Trattato comunitario, anche la Banca centrale europea, le agenzie e altri organismi. Il merito del Mediatore, come già visto, è stato quello di aver elaborato dei veri e propri indici di riconoscibilità.48 La funzione del Mediatore farebbe pensare subito ad un rapporto di sovraordinazione. L’Ombudsman europeo, infatti, interviene a seguito di una denuncia oppure di sua iniziativa, effettuando tutte le indagini che ritiene necessarie.49 La sua posizione sembrerebbe quasi identica a quella di un giudice, ma il Mediatore europeo non espleta una funzione giurisdizionale, ma conciliativa. Anche nel caso in cui le indagini si dovessero concludere con l’accertamento di un caso di cattiva amministrazione, il Mediatore avrebbe soltanto un potere di raccomandazione o di relazione, ma mai di decisione.50 Il rapporto con le istituzioni è stato chiarito dallo stesso Ombudsman europeo nella relazione annuale del 1995. Nella prima parte relativa alle origini del- 157 158 l’organo, nel paragrafo I.2.1 intitolato “la missione del Mediatore”, si dice che “il Mediatore deve ugualmente contribuire a proteggere la situazione dei cittadini incoraggiando le buone pratiche amministrative. Questo presuppone di cooperare con le autorità amministrative per cercare le soluzioni che gli consentiranno di migliorare le relazioni con i cittadini”. Da questo è possibile dedurre che la cooperazione con le atre istituzioni consente al Mediatore di garantire una buona amministrazione. Tale rapporto pertanto è fondamentale ai fini dell’espletamento della sua attività.51 Il fatto che vi sia questo tipo di rapporto emerge anche dal contenuto delle norme dello statuto e delle disposizioni d’esecuzione. Nell’articolo 3 dello statuto si dice che nel momento in cui l’Ombudsman europeo espleta le sue indagini, ne informa l’istituzione o l’organo interessato, che a sua volta potrà fargli pervenire qualsiasi informazione utile. Inoltre al 2° comma si dice: “le istituzioni e gli organi comunitari hanno l’obbligo di fornire al Mediatore le informazioni che egli richiede loro e gli permettono la consultazione dei loro fascicoli. Essi possono rifiutarsi soltanto per motivi di segreto professionale debitamente giustificati ”, da questo si deduce come le altre istituzioni siano tenute a collaborare con il Mediatore. Ai sensi dell’articolo 3 dello statuto si dice ancora che l’Ombudsman europeo nel tentativo di risolvere il caso di cattiva amministrazione non agisce in modo autoritario, ma ricerca con l’istituzione interessata la soluzione migliore. La ricerca di una risoluzione, attraverso la cooperazione con le altre istituzioni, avviene per quanto possibile, nel senso che le istituzioni non sempre riconoscono la loro responsabilità e non sempre accettano di buon grado l’intervento del Mediatore. La cooperazione pertanto dipende dal buon senso delle istituzioni, non esiste una norma che lo sancisca come obbligo o come dovere. Nel caso in cui le istituzioni rifiutassero la collaborazione con il Mediatore europeo, questo non potrebbe nulla. Il rapporto cooperativo con le istituzioni comunitarie non solo può facilitare la risoluzione dei casi sottoposti all’attenzione del Mediatore, ma può persino agevolare l’applicazione uniforme del diritto ad una buona amministrazione. Particolarmente significativo è il rapporto con la commissione per le petizioni del Parlamento europeo. La cooperazione tra questi due organi è molto importante. Ai sensi dell’articolo 21 del Trattato della Comunità europea, i cittadini dell’Unione hanno diritto di petizione davanti al Parlamento europeo e il diritto di rivolgersi al Mediatore europeo. Nella relazione annuale del 1996, nel paragrafo 4 intitolato “Relazione con il Parlamento europeo e la Commissione per le petizioni” il Mediatore precisa che fin dalla creazione dell’ufficio si è instaurata una stretta cooperazione e che i due segretariati intrattengono contatti regolari. Tra essi esiste un accordo in merito al deferimento reciproco di denunce e petizioni in casi specifici e con il consenso del denunciante o dell’autore della petizione. Le denunce che esulano dal mandato del Mediatore ma che potrebbero essere trattate come petizioni dal Parlamento europeo vengono trasferite direttamente per essere trattate come petizioni, purché ne sia dato il consenso, e viceversa.52 1 E. Vinci, “Unione europea,cittadino, ombudsman, brevi riflessioni su un nuovo istituto civico europeo”, in Rivista Internazionale dei diritti dell’uomo n.3, settembre 1992, p.887, G. Tesauro, “Il mediatore europeo”, in Rivista Internazionale dei diritti dell’uomo n.3, settembre 1992, p.894. 2 Cfr., A. Pace,”A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Appunti preliminari”, in Giurisprudenza Costituzionale-2001, p.194. 3 Art. 3 della Decisione 94/262. 4 Art. 2, 2º comma della Decisione 94/262. 5 Art. 2, 8° comma della Decisione 94/262. 6 Art. 2, 2° comma della Decisione 94/262. 7 M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, Giuffrè,1999, p.312. 8 Art. 2, 3° comma della Decisione 94/262. 9 Art. 2, 3° comma della Decisione 94/262. 10 Art. 2 della Decisione 94/262. 11 Art.10 della Decisione 94/262. 12 Art. 2 della Decisione 94/262. 13 Art. 13 della Decisione 94/262. 14 Art. 3, 2° comma della Decisione 94/262. 15 Art. 3, 1° comma della Decisione 94/262. 16 Art. 4, 3° comma della Decisione 94/262. 17 Art. 2 della Decisione 94/262. 18 Relazione annuale 2001, Prefazione. 19 www.euro-ombudsman.eu.int, STATISTICHE. 20 Art.4, 3° comma della Decisione 94/262. 21 Relazione annuale 1998, 2.8 “Decisione a seguito di una indagine del Mediatore”. 22 Articolo 3, 4° comma della Decisione 94/262. 23 Articolo 3, 2° comma della Decisione 94/262. 24 Relazione annuale 1998, 2 “Denunce”. 25 Art. 4, 5° comma della Decisione 94/262. 26 Art. 8 della Decisione 94/262. 27 S. Cadeddu, op. cit., p.10. 28 Causa T-209/00, Racc. II-2203. 29 Art. 9 della Decisione 94/262. 30 Art. 4, 3° comma della Decisione 94/262. 31 Art. 3, 2° comma della Decisione 94/262. 32 Art. 4, 4° comma della Decisione 94/262. 33 Art. 6 della Decisione 94/262. 34 www.euro-ombudsman.eu.int, STATISTICHE. 35 Cfr., S. Cadeddu, “Le denunce al mediatore europeo”, Relazione al Convegno di Roma sul tema:”La disciplina europea del procedimento amministrativo”, 8 aprile 2003, p.12. 36 Cfr., E. Chiti e C. Franchini, “L’integrazione amministrativa europea”, Bologna, Il Mulino, 2003, p.78; C. Franchini, “I principi dell’organizzazione amministrativa comunitaria”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico n.3, 2002. 37 Cfr., E. Chiti, “Il ricorso per annullamento e l’effettività della tutela giurisdizionale”, in Giornale di diritto amministrativo n.11, 2002; C. Franchini, “Nuovi modelli di azione comunitaria e tutela giurisdizionale”, in Diritto amministrativo, 2000, p.81-9. NORME e SEGNI È il cittadino a scegliere se rivolgersi al Mediatore o alla Commissione, ma a volte risulta difficile determinare la via più conveniente, per questo è utile tale procedura cooperativa. Il rapporto che dunque esiste tra le due istituzioni comunitarie consente ad entrambe le istituzioni di esercitare in modo efficace e proficuo la loro attività. 159 Sentenza del 23 marzo 2004, causa C- 234/02, Racc. pag. I-0000. Sentenza del 10 luglio 2003, causa C-11/00, Racc. pag. I-7147; sentenza del 10 luglio 2003, causa C-15/00, Racc., pag. I-7281. 40 Sentenza del 28 aprile 1971, causa 4/69, Racc. pag. 325 e ordinanza 21 giugno 1993, causa C-257/93, Racc. pag. I-335. 41 Punto 110 delle Conclusioni dell’Avvocato generale Geelhoed del 3 luglio 2003, causa C234/02. 42 Mediatore europeo, Guida per i cittadini, p.15, sul sito www.euro-ombudsman.eu.int 43 Söderman, “Le citoyen, l’administration et le droit communautaire”, in Revue du marché inique européeen, 1998, p.16-97; C. Morviducci, “Diritto d’accesso ai documenti delle istituzioni e Trattato di Amsterdam”, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2000, pp.665-718. 44Mediatore europeo, Lettere e note: “Uso improprio delle norme sulla protezione dei dati nell’Unione europea”, 25/09/2002, sul sito www.euro-ombudsman.eu.int 45 Cfr., A. Zito, “Il diritto ad una buona amministrazione nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno”, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n.23, 2002, pp.425-444; si veda anche l’interessante studio del Consiglio d’Europa, che ha individuato i principi della giurisprudenza e delle legislazioni nazionali, Council of Europe, “The administration and you”, Strasburgo, Council of Europe Publishing, 1996. 46 Relazione annuale 1998, 2.10 “Alcune questioni riguardanti l’accesso ai documenti”. 47 Cfr., D. Curtin e H. Meiers, “The principle of Open Government in Schengen and the European Union: Democratic Retrogression?”, in Common Market Law Review, 1994, pp.390-442; nonché degli stessi autori, “Access to European Union Information: an element of citizenship and a Neglected Constitutional Right”, in The European Union and Human Rights, a cura di N.A. Neuwahl e A. Rosas, 1995, den Haag-London-Boston, Martinus Nihoff, pp.77-104. 48 Cfr., S. Cadeddu, op.cit., p.5. 49 Art. 3, 1º comma della Decisione 94/262 del Parlamento europeo. 50 Art. 8 della Decisione 94/262 del Parlamento europeo. 51 G. Bosco, “L’Europa dei cittadini”, in Bulletin européeen n.616, settembre 2001. 52 Art. 2 della Decisione con cui il Mediatore europeo adotta le disposizioni d’esecuzione. 38 39 160 Questa traduzione esce nella Collana “Testi a fronte” diretta da Giovanni Reale, e il testo latino riprodotto è quello dell’edizione di L.M. De Rijk: Peter of Spain, Tractatus, Assen, Van Gorcum, 1972. Pietro di Giuliano, detto Pietro Ispano (Petrus Hispanus Portugalensis), nasce a Lisbona intorno al 1205. Studia a Parigi, Siena e Montpellier. Tra il 1260 e il 1261 svolge il ruolo di consigliere scientifico alla Curia di Papa Gregorio X. Il 5 giugno 1273 è nominato cardinale arcivescovo di Tuscolo (Frascati) e il 15 settembre 1276 viene eletto Papa col nome di Giovanni XXI. Muore il 20 maggio 1277. Scrive il Trattato intorno al 1230, durante un soggiorno nel nord della Spagna, forse a Leon, sul modello dei compendi conosciuti a Parigi. Si tratta di un testo di logica nel senso in cui la intendevano gli antichi, che è molto più ampio di quello odierno. Logica come facoltà di ragionamento, abilità posseduta dalla specie Homo, l’unica dotata di quella capacità sintattica o di modellazione primaria che Thomas A. Sebeok chiama linguaggio e che è la condizione delle teorie, dei mondi possibili, dei progetti, della società. “Logica, nel suo senso generale –dice Peirce (v. Opere, Milano, Bompiani, 2003, p. 147; 2.227)–, è […] solo un altro nome per semiotica”. In questo senso il Trattato è un libro di semiotica. Si pone in tal modo la questione del rapporto tra la semiotica e la sua storia, ossia il rapporto con la sua fase pre-paradigmatica fatta di idee, intuizioni, riflessioni, di quelli che chiamiamo sintomi del suo odierno paradigma scientifico, e che solo nell’epoca contemporanea sono stati interpretati come portatori di nuove pertinenze teoriche Gli studi di approfondimento storico in semiotica sono relativamente recenti, e se ne può far risalire l’inizio a un dibattito dedicato a questo tema durante il 2° Congresso dell’Associazione internazionale di Studi Semiotici nel 1979 a Vienna. Studiare la storia di una scienza e studiare e praticare quella scienza non sono momenti che si elidono reciprocamente. La ricostruzione storica di una scienza è animata da un intento teorico e non (o non soltanto) da un proposito filologico. La ricognizione storica è connessa alla ricognizione teorica. Si tratta di un processo dialogico per cui se da un lato l’indagine storica può cambiare l’assetto teorico in atto, dall’altro lato quest’ultimo influenza il senso della ricerca storica. La prospettiva storiografica di Sebeok, per fare un esempio, che cerca i “criptosemiotici” (ricercatori che fanno semiotica senza saperlo) e che sul piano teorico collega la semiotica alla semeiotica medica dell’antica Grecia, oltre che un ampliamento della materialità storica pone una questione di senso della disciplina e una ristrutturazione teorica. La semiotica assume una diversa configurazione a seconda che la si faccia iniziare con Ippocrate anziché, poniamo, con Locke o con Saussure. Se si collega la scienza dei segni con la medicina o con la biologia, se ne cambia, perché si amplia, l’oggetto di indagine e i suoi modelli, per primo il modello del R ECENSIONI PIETRO ISPANO, Trattato di logica. “Summule logicales”, introduzione, traduzione, note e apparati di Augusto Ponzio, Milano, Bompiani, 2004, pp. XLIV + 674. 161 162 segno. Si allarga il campo della ricerca storica includendovi autori le cui riflessioni sono tutt’altro che estranee a un pensiero del segno, pur non menzionandone il concetto, o negandolo, oppure mettendolo in dubbio. Trovano così posto, accanto alle teorie semiotiche esplicite, le teorie ostracizzate, cancellate, represse o semplicemente implicite. Ma torniamo a Pietro Ispano per sottolineare che quella delle Summule è una semiotica del linguaggio verbale. Il primo trattato, Concetti introduttivi, è dedicato alla definizione di concetti come quello di dialettica, di suono, voce, verbo, frase, proposizione, proposizione categorica, ipotetica e modale. Il secondo trattato è l’esposizione dei predicabili (genere, specie, differenza, proprio, accidente) secondo l’Isagoge di Porfirio. Il terzo e il quarto sono dedicati, rispettivamente, alle categorie aristoteliche e ai sillogismi, mentre il quinto è dedicato alla teoria dei luoghi, secondo l’impostazione di Boezio. Il sesto trattato ha per oggetto le supposizioni, il settimo le fallacie, l’ottavo i relativi, il nono gli ampliamenti, mentre i trattati X, XI e XII hanno per oggetto, rispettivamente, le appellazioni, le restrizioni e le distribuzioni. I trattati dal primo al quinto e il settimo ricalcano la logica antiquorum. Il sesto e i trattati dall’ottavo al dodicesimo sono dedicati alle proprietà dei termini, secondo la logica modernorum. In questo secondo gruppo sono presenti elementi di novità che saranno approfonditi nel pensiero medievale successivo: nei Modisti, in Duns Scoto, Ockham, ma che non sono scomparsi ancora oggi dalla logica, dalla filosofia del linguaggio e dalla semiotica. Un ruolo particolare fra le proprietà dei termini è svolto dalla teoria della supposizione (suppositio), poiché le altre proprietà (come l’appellatio, la copulatio, l’ampliatio, la restrictio) vengono assorbite nel suo ambito. Dalla supposizione va però tenuta distinta la significazione di un termine, ossia “la rappresentazione di una cosa tramite voce secundum placitum” (VI.2). Il segno risulta, a questo livello, formato da un significante verbale, il cui valore è stabilito per convenzione, e da un significato (la res significata o representata) che non è qualcosa di esterno ad esso, anzi ne è parte costitutiva. Nel Trattato, allora, non solo è colta la differenza fra significato e referente, ma è colto anche il carattere mediato del rapporto fra segno e referente. Ancora Pietro Ispano dice che “La supposizione è l’assunzione di un termine sostantivo per qualcosa” (VI.3). La teoria della supposizione descrive i vari modi in cui un termine può supporre, o stare per, stare al posto di, o fungere da sostituto di qualcos’altro. Nella semiotica del verbale del Trattato significare è parlare, e solo successivamente alla definizione verbale dei significati si può procedere alle varie forme di supposizione. Si avverte l’influenza dei vari strati della riflessione logico-linguistica dell’antichità. Appare chiara la presenza della connessione aristotelica tra logos e corpo, che pone quest’ultimo come condizione strutturale del parlare e che consente l’uscita dell’umano dal tacere del resto del mondo vivente. Nella prospettiva di Aristotele il parlare non solo è un’attività biocognitiva unica e specie-specifica, ma è soprattutto un’attività che rende specifiche tutte le attività cognitive R ECENSIONI umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere in comune con gli altri animali: percezione, memoria, desiderio, immaginazione. In questa prospettiva si muovono le riflessioni di P. Ispano a proposito del suono (“tutto ciò che è percepito propriamente dall’udito”) e della voce (“suono prodotto dalla bocca di un animale e formato con strumenti naturali […]: labbra, denti, lingua, palato, gola, polmoni”). Dei suoni, poi, alcuni sono voce, altri non-voce, ovvero suoni generati “dall’urto di corpi inanimati, come lo stormire degli alberi, il calpestìo dei piedi” (I.2). Le voci, a loro volta, si distinguono in significative (quelle che all’udito rappresentano qualcosa, come ‘uomo’) e nonsignificative (quelle che all’udito non rappresentano nulla, come ‘buba’). E ancora: le voci significative si distinguono in voci significative ad placitum, verbalizzate (quelle che, a discrezione di chi le istituisce, rappresentano qualcosa, come ‘uomo’ [v. I.3], quindi i nomi, ma anche i verbi, le frasi [v. I.4-6]), e voci significative per natura (quelle che per tutti rappresentano la stessa cosa, come il gemito degli infermi e il latrato dei cani). Ciò vuol dire che la comunicazione acustica può essere vocale o non-vocale, a seconda della corporeità da cui è prodotta, ossia, rispettivamente, da corpi animati e corpi inanimati, e la comunicazione vocale non è necessariamente parola. Già Aristotele, cui abbiamo accennato, nella sua zoo-antroposemiotica, metteva in rilievo che la voce è una materia predisposta per sua natura a diventare segno verbale, ponendosi a un livello diverso e più complesso rispetto al suono. Nell’umano la parola è la destinazione naturale della voce. Tale destinazione distingue gli animali umani dagli animali non umani. Quella particolare forma somatica che costituisce l’umano è organizzata per parlare-pensare. Condizione della voce è che un corpo sia dotato di polmoni, trachea-laringe, organi in possesso anche dei delfini, per esempio. La voce umana, però, è una voce unitaria e internamente articolata in unità vocali chiamate grammata, il che richiede lo sviluppo dell’udito e un certo movimento della lingua e delle labbra (cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003). Nelle Summule logicales l’espressione ad placitum, a conferma –diremmo– della loro funzione di sistemazione del sapere logico-linguistico ad uso scolastico, viene riportata (e utilizzata) con una doppia valenza. Una, risalente al neoplatonico Ammonio e che passa attraverso Boezio, che può tradursi in italiano (ma con molta approssimazione) con ‘a piacimento’, ‘ad arbitrio’, o ‘a discrezione’”; l’altra valenza è quella di ‘composizione’, ‘combinazione’, ‘mettere insieme’ per produrre qualcosa di nuovo, in una parola ‘sintassi’ (v. VII.53). Questioni molto vive ancora oggi in semiotica, delle quali si discute nei termini dell’arbitrarietà debole e dell’arbitrarietà forte. Allo stesso modo, approfondendo la problematica della supposizione il Trattato prelude alla distinzione fra linguaggio oggetto e metalinguaggio nella filosofia del linguaggio contemporanea. La semiotica di Pietro Ispano può essere collocata nel modello della semiosi, dovuto a Peirce e poi ripreso da Morris. Questo modello procede oltre la concezione all’aliquid stat pro aliquo, ovvero oltre la diadicità del segno come costituito da un significante e da un significato (distinto dal referente). La semiosi è un processo triadico in cui qualcosa funziona come segno di qualcos’altro per un terzo qualcosa. 163 164 Il ‘primo qualcosa’ (aliquid), che nel Trattato è un segno verbale, è un oggetto cui è riferita l’operazione dell’acceptio nelle sue due forme della suppositio e della copulatio, ossia della sua assunzione per qualcos’altro. Questo ‘secondo qualcosa’ è il riferimento (res significata), che non è la cosa “tout court”. L’operazione del rinviare avviene per mezzo della significazione (significatio) avviata da un interpretante (il ‘terzo qualcosa’) e riguarda “tanto una cosa esistente quanto una cosa non esistente. Così, ‘Anticristo’ significa Anticristo e sta per l’Anticristo, ma non appella nulla [“L’appellazione è l’assunzione di un termine comune per una cosa esistente”]; ‘uomo’, invece, significa uomo e per sua natura sta tanto per quelli esistenti quanto per quelli non esistenti e appella soltanto gli uomini esistenti” (X.1). Un conto, allora, è il denotatum, un altro conto è il designatum. ‘Anticristo’ è un “designatum” senza “denotatum” (non appella infatti nessuna cosa esistente), mentre ‘uomo’ è un “designatum” con “denotatum”, poiché sta tanto per gli uomini esistenti quanto per quelli non esistenti. Abbiamo qui adoperato termini della semiotica di Charles Morris che ben s’attagliano alla questione posta da Pietro Ispano. Il referente non viene identificato con l’oggetto fisico, ovvero, come si è detto, la res significata non è la ‘cosa’ “tout court”, ma si definisce volta per volta all’interno della semiosi. Si tratta di sintomi teorici colti e interpretati dagli sviluppi successivi della ricerca semiotica e filosofica del linguaggio. Cosimo Caputo D. VERDUCCI, Il segmento mancante. Percorsi di filosofia del lavoro, ed. Carocci, Roma 2003. Ogni “lettura” è sempre, in fondo, una “interpretazione”, in conformità con la “preparazione” o la “pre-formazione” dello stesso lettore. Tale è stata la mia lettura del libro di Daniela Verducci sul lavoro; lettura nella quale ho fatto emergere appunto alcune idee particolarmente consonanti con le mie, senza tradire, tuttavia –così spero–, il senso complessivo della ricca trattazione offerta dall’Autrice sul tema del lavoro nelle sue ragioni ultime e in particolare sul rapporto con la filosofia, anche se le mie rilevazioni non si limiteranno a registrare gli elementi, pur già così pregnanti del saggio, ma si apriranno a qualche loro ulteriore applicazione e svolgimento, in consonanza con la “lettura” cui ho appena accennato. Proprio al rapporto del lavoro con la filosofia si riferisce una mia prima rilevazione. A p. 2 l’Autrice, “interprete”, già lei, del pensiero di Max Scheler (da cui il saggio ha preso l’avvio e con il quale è rimasto in costante dialogo), scrive che la filosofia in relazione al suo ruolo di direzione dei “processi psico-fisici, umani e naturali”, deve mettere a tema anche il lavoro, correggendo la tendenza di tanta cultura contemporanea a chiudersi in un “esclusivismo teoreticistico”. Orbene, a me pare che questa reazione all’“esclusivismo teoreticistico” in rapporto al lavoro faccia parte di una reazione anche più ampia a tale R ECENSIONI esclusivismo, reazione che si esplica, in modo credo ancora più diffuso e pressoché generalizzato, nell’attenzione di tanta filosofia contemporanea al tema del rapporto con l’altro; tema dell’alterità che è appunto una delle caratteristiche della filosofia contemporanea rispetto a quella tradizionale, soprattutto “moderna”, condizionata dal principio del cogito e, con esso, da quello della “astratta”interiorità (dico “astratta”, non l’“interiorità” in se stessa). Non è, credo, senza una sua profonda ragione che proprio Max Scheler sia stato, oltre che filosofo del lavoro, anche e più ancora filosofo della simpatia e dell’amore. Se l’attenzione al lavoro, come al rapporto alteritativo, rientra nell’ordine “storico” –di storia della filosofia– è invece di natura strettamente “ontologica” l’idea che trovo a p. 10 del libro di Verducci, dove si legge che è proprio del lavoro il “far essere”. Anche qui, anzi soprattutto qui, la mia “lettura” rileva un principio fondamentale, ontologico appunto, che ha una sua applicazione nel campo del lavoro, ma che trascende –a mio avviso– lo stesso ambito del lavoro, in quanto riguarda l’essere come tale, nel senso che l’essere è precisamente, per se stesso, un “far essere”. Un’applicazione concreta di questo principio la si può osservare, in particolare, nel mondo della vita (tema della “vita” che la stessa Verducci tratta ampiamente in un altro suo saggio, dal titolo, appunto, “Pensare la vita”, ed. Il Calamo, Roma 2003); mondo della vita, dove “vivere” è appunto “far vivere”: la vita è produttrice di vita; la vita esiste producendo vita (e la vita è espressione quanto mai significativa dell’essere –anche di questa mia idea trovo, in certo modo, una conferma nel libro di Verducci cui ho appena accennato e, per esso, mi pare, nella filosofia di Anna Teresa Tymieniecka, con la serie dei suoi libri intorno a Logos and Life, a cui si riferisce Verducci nel cap. V del medesimo saggio–). A sua volta, in un’ulteriore approfondimento del discorso, è dato trovare –io ritengo, una ragione radicale di questo principio ontologico: e ciò nella concezione dell’essere come libertà. Non è questo il luogo per aprire un altro fondamentale capitolo della problematica filosofica: mi limito a rilevare che l’idea dell’essere come libertà è venuta facendosi luce in certi settori del pensiero contemporaneo con l’emergere sempre più chiaro del tema della libertà: intendo la libertà come “iniziativa” come “creatività”, ben più radicale della “libertà di scelta” ed evidentemente della libertà a livello sociale e politico. Pur già così pregnante a livello ontologico del “far essere”, il tema della libertà può ottenere un ulteriore sviluppo, in questa “lettura” del saggio di Verducci, quando si legge, a p. 35, che l’amore è “movimento creatore”. Ora, “amare” è appunto “far essere”.Se è l’amore, in ultima analisi, a creare (e di questa “creatività” dell’amore può essere espressione e simbolo la creatività dell’amore a livello biologico, fisiologico), bisogna dire –secondo una certa riflessione filosofica, affermatasi soprattutto in tempi recenti– che la libertà è veramente, concretamente “creatrice”, è “far essere”, se e nella misura in cui è “maturata”, come io dico, nell’amore. Prima di essere maturata nell’amore, la libertà è “possibilità” di creatività, non creatività in atto. Sul tema dell’amore trovo ancora, nel saggio di Verducci, un’idea da rilevare con particolare attenzione, anche se meno radicale della precedente: cioè l’idea –ripresa da Scheler– che “non si ama qualcuno perché vale” (p. 35). 165 166 Orbene, su questa linea io direi, con qualche altro filosofo –come Gabriel Madinier– che qualcuno “vale” proprio perché e in quanto lo si ama. E ciò non solo e non tanto per ragioni “psicologiche”, ma, oserei dire, per ragioni “ontologiche”, nel senso che il “valore” dell’amore è “risultato”, cioè risultato della “relazione” fra gli “amanti”. È la “relazione” a creare il valore dell’amore. E qui entra in gioco un altro principio fondamentale, su cui non è il momento di soffermarci più a lungo: voglio dire, appunto, il principio ontologico della relazione. Mi limito a richiamare –a titolo simbolico, in questa sede– il Mistero Trinitario, per il quale la realtà dello Spirito (Santo) è tutto nella o “per” la“relazione” (del Padre col Figlio). La mia lettura privilegia, devo dire, il tema dell’amore, intorno al quale trovo un altro principio, a p. 36 del saggio, dove si dice, con Scheler, che “il sapere non è fine a se stesso”, e che il “sapere per sapere non sta da nessuna parte” (p.37). Veramente, io aggiungo, il sapere non ha ragione di “fine”, poiché questo è proprio dell’amore, il quale è appunto causa e fine di se stesso: secondo l’efficace espressione di S.Bernardo, “amo quia amo, amo ut amem” (Super Cantica canticorum). Ancora sul tema del rapporto conoscenza-amore leggo, alle pp. 35-36, che Scheler definisce l’amore come quello che “risveglia alla conoscenza”. Andando oltre, io direi che il conoscere, il vero conoscere, si realizza all’interno dell’amore. In conformità a questa tesi –così io ritengo– è stato rilevato che noi conosciamo veramente soltanto le persone che amiamo. Sempre in rapporto all’amore (e ancora in relazione all’essere), leggo a p. 155 del saggio che secondo Scheler la “gioia” e l’“amore” sono “l’autentica fonte” dell’essere, non “il falso eroismo del dovere e del lavoro”. Senza ritornare qui a quanto ho rilevato più sopra intorno all’amore come fonte dell’essere (cioè dell’essere come “dato”, bisogna precisare, poiché l’amore è lui stesso essere, io dico, anzi è l’essere, in quanto “atto”), voglio sottolineare l’idea della gioia quale “fonte dell’essere” (accanto all’amore). Effettivamente la gioia accompagna inscindibilmente l’amore: l’amore è la stessa “gioia”, la vera gioia (di cui quelle sensitive, fisiologiche, legate all’amore, non ne sono se non un’espressione, una “traduzione”). È in relazione a questo essenziale abbinamento di amore e gioia che le creature più pregne di potenzialità di amore (e, per esso, di “vita”), quali le giovani donne, sono le creature in cui vibra più intensamente la gioia. Ritornando, infine, direttamente, al tema del lavoro, mi pare di trovare nel libro di Verducci, quella che si potrebbe ritenere la radice ultima del significato da attribuire al lavoro: di essere cioè,il lavoro, in sintonia, in certo senso, con la concezione scheleriana dell’Assoluto: voglio dire con l’idea della “Sostanza eterna” come “già in divenire, indipendentemente dal mondo” (p.179). Io ritengo che questa concezione dell’Assoluto come, in certo senso, diveniente, possa essere ricondotta all’idea dell’Assoluto come Libertà (in coerenza con il concetto dell’essere come appunto libertà). In relazione a ciò, bisognerebbe rivedere –se il mio discorso non fosse troppo presuntuoso– il concetto dell’Assoluto come Infinitezza in atto, e sostituire tale Infinitezza in atto con la Infinitezza di Possibilità (nel senso di Potenzialità, conformemente, d’altra parte, al Santino Cavaciuti A. ALES BELLO, L’universo nella coscienza. Introduzione alla fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein, Hedwig Conrad-Martius, ETS, Pisa 2003, pp. 242. Con la finalità di porre in evidenza il valore fondamentale della ricerca e, in generale, la “situazione di ricerca” in cui l’umanità esprime la propria richiesta di senso, questa introduzione alla fenomenologia muove innanzitutto dal nucleo problematico, da cui deve partire la ricerca stessa. In primo luogo, dunque, dalla esplicitazione della coscienza come “ciò che è a noi più vicino” e, in secondo luogo, dalla considerazione che un simile lavoro non possa essere svolto da un solo filosofo, bensì necessiti di una scuola di ricer- R ECENSIONI tradizionale concetto di Dio come Onnipotente (messo in ombra –mi pare– dal concetto più comune in tanta filosofia, di Dio come Essere Infinito o come puro Pensiero). Ora, il lavoro può trovare –dico– il suo ultimo e supremo significato, ontologico e teologico, in una “partecipazione” al realizzarsi, nel tempo, della Potenzialità infinita, che è Dio, il Quale, in correzione di eventuali cadute panteistiche, in quanto “Potenzialità infinita” va concepito sempre come “trascendente” a tutte le realizzazioni temporali, sempre “finite” (anche qui si aprirebbe tutto un nuovo Capitolo che, evidentemente, non ha posto in questa sede, ma che potrebbe avere forse un suo svolgimento di primissimo interesse filosofico, e non solo). A parte, comunque, questo possibile svolgimento “metafisico” e “teologico”, la stessa Verducci, ancora alla p. 179, nel contesto dell’idea scheleriana della “Sostanza eterna come già in divenire”, scrive che “proprio in questa vicenda temporale degli attributi a noi noti del fondamento del mondo si apre lo spazio metafisico del lavoro”. Veramente –da parte mia confermo– sta proprio qui lo “spazio” metafisico del lavoro, ed è pertanto qui il “cuore” dell’intero saggio. Il lavoro –bisogna dire– ha uno spazio metafisico (e con esso la sua ultima dignità) in quanto si inserisce, se pur parzialmente, nella realizzazione della Possibilità infinita che è l’Assoluto. Il lavoro partecipa, a livello di “natura”, con la “natura”, alla realizzazione, in certo senso, della Possibilità infinita, come vi partecipa, a livello “ideale”, il pensiero umano, e a livello di “essere concreto”, di essere alla sua sorgente, la libertà umana, e vi partecipa nella misura in cui essa, la libertà, aderendo alla sua “vocazione”, alla sua “chiamata”, si realizza e “matura” nell’amore. Sono questi alcuni degli spunti che ho colto, fra i tanti possibili, nel ricco e profondo saggio di Verducci. Si è trattato di una “lettura” che ha privilegiato il livello “ontologico” e, in esso, quello della libertà e dell’amore (oltre che della vita); una lettura che, più che chiudere un cerchio, ne ha aperti di nuovi, in connessione, d’altra parte, con la tesi di fondo, in questo mio breve scritto: la tesi della “novità” perenne dell’essere, di cui è espressione e simbolo quanto mai eloquente la “novità” perenne della “vita”. 167 168 catori (la husserliana “comunità dei filosofi”) che lo affrontino da tutte le sue angolazioni. Per questo motivo, si sottolinea fin dalle prime battute, la fenomenologia non può essere intesa come la filosofia di un autore isolato che l’ha concepita in un sistema definitivo; ma appunto essa va intesa come l’apertura verso una ricerca dei fondamenti prima di ogni loro categorizzazione. Inoltre, per l’infinità del suo oggetto, una tale finalità non può essere risolta da una sola esistenza, bensì deve essere “sempre di nuovo” riattualizzata nel “presente vivente” dei filosofi che la realizzano. È l’obiettivo husserliano di una scuola fenomenologica, realizzato in parte nel periodo di Gottinga, che, in questo prestigioso lavoro, Ales Bello prende in considerazione nelle sue fondamentali espressioni, muovendo dal suo fondatore, Edmund Husserl, per proseguire nelle analisi delle sue due celebri allieve Edith Stein e Hedwig Conrad-Martius. L’analisi della fenomenologia husserliana, concepita come prima parte del testo, attraversa ogni singolo fondamentale aspetto della sua filosofia. A partire dal cuore dell’indagine fenomenologica, ossia dalla riduzione, Ales Bello entra in merito al senso “archeologico” di questa ricerca ed individua il trascendentale come luogo autentico e primo, del senso del mondo. La riflessione su questa fondamentale “novità” apportata dalla fenomenologia husserliana, conduce conseguentemente all’evidenziazione della dimensione trascendentale del mondo-della-vita, come luogo di originarietà primordiale e come regno delle evidenze prima dell’attività teoretica. A sua volta, l’esplicitazione di un tale universo trascendentale, evidenzia il suo contrapporsi al mondo delle scienze, cresciuto ed impostosi nella tradizione del pensiero occidentale, nell’oblio di queste sue origini “naturali”. Per questa “dimenticanza” tutta la tradizione filosofica ha scartato la dimensione pre-categoriale come ingenua e foriera di generalità e a-logicità. Al contrario Husserl, formulando un’estetica trascendentale rivolta proprio al recupero di queste strutture profonde appartenenti all’atteggiamento ingenuo, esamina nell’ingenuità di questa posizione, le strutture invarianti (l’eidos) che permangono nella realtà, come elementi costitutivi della coscienza. Da tale indagine, parallelamente alla variazione eidetica, emerge anche il carattere teleologico di questo “a-priori”, che si manifesta nella dimensione temporale e, più concretamente, nella fatticità (la dimensione hyletica), nelle vesti di una tensione dell’umanità al raggiungimento di un fine. Allo stesso tempo, proprio in questa “unità” dell’umanità verso uno stesso fine, l’analisi della dimensione oggettiva lascia emergere un’apertura verso l’alterità. La «coscienza dell’altro, che sostiene l’autrice, consente la comunicazione con l’altro» (p. 75), ossia l’entropatia (tema essenziale dell’antropologia fenomenologica), esprime sia l’individualità della coscienza che la sua insopprimibile coappartenenza ad un “universo di monadi” (la comunità eticamente fondata), in cui si rispecchia la realtà umana. E proprio in questo rispecchiamento della realtà esterna nell’interiorità, si inserisce la dimensione teologica. L’Erlebnis di Dio, a differenza degli altri Erlebnisse, è la scoperta razionale di un assoluto in sé, che si rivela fattualmente nella coscienza. L’idea di Dio che teologicamente guida l’essere umano alla sua realizzazione ne è la concretizzazione fattuale. Rileva a proposito Ales Bello «La teologia che informa di sé la fatticità R ECENSIONI rimanda a Dio, il quale racchiude e crea tutte le cose» (p. 103). La presenza di Dio nelle cose e, quindi, la sua immanenza e trascendenza rispetto alla coscienza, rappresentano la sommità, per così dire, a cui conduce la “domanda regressiva”, il metodo archeologico voluto da Husserl nella sua vita o, meglio, nella sua “vocazione” di filosofo. Da questo punto di arrivo, seguendo il senso infinito e continuativo della ricerca fenomenologica, muove la sua allieva e assistente Edith Stein alla cui riflessione è dedicata al seconda parte del testo in esame. Edith Stein, contrapponendosi alla limitazione della fenomenologia eidetica alla sola analisi dell’essere essenziale, concentra la sua attenzione sul suo legame con il momento attuale-reale. La fenomenologia hyletica a cui era approdato Husserl, esige secondo Stein, una rivalutazione più profonda. Sotto il profilo hyletico, infatti, le cose manifestano in senso forte il loro senso; pertanto, non è soltanto la sfera noetica ad essere “donatrice di senso”, ma piuttosto, in maniera primale, nella sfera hyletica emergono i presupposti stessi della donazione del senso. È la coscienza a registrare tutto questo. Nella coscienza infatti come in uno specchio, sottolinea Ales Bello, «si riflettono i vissuti che provengono dalle realtà della psiche e dello spirito» (p. 129). Dalla realtà hyletica, dunque, la fenomenologa è indotta ad una riflessione sulle tre realtà dell’essere umano di corpo, psiche e spirito, L’unità della coscienza come formazione del sé da parte dell’io, di derivazione tomasiana, consiste appunto nell’unità di corpo vivente, (psicofisico) e anima spirituale. Nella loro sintesi “abita” l’io, esteso in ognuna di quelle realtà; nella “profondità” dell’essere umano, nella sua parte più spirituale, invece, si rivela Dio come “già presente”. Al contempo, in tale sua attività spirituale prende forma la materia, la “superficie” in cui si rende concreta l’intera sintesi, vale a dire, l’individuo umano nella sua realtà e nei suoi legami intersoggettivi. A questo proposito, nota Ales Bello, Stein fa del tema fenomenologico dell’entropatia il luogo della presa di coscienza dell’esperienza vissuta estranea. Nella capacità di sentire ciò che l’altro “sente” è possibile riconoscere originariamente tale sentire stesso; ed alla luce di un simile sentire deve essere fondata la vita di una comunità personale e, dunque, la società politica, lo Stato. D’altra parte, tale connotazione dell’interiorità umana e del sentire che la caratterizza, apre il cammino, già iniziato da Husserl, verso la tascendenza di un Assoluto, rivestendolo sotto l’influenza della lettura di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, di una profonda vena mistica. In tale prospettiva, proprio per la loro complementarità, osserva Ales Bello, «l’incontro fra fenomenologia e mistica si presenta come efficace per un approfondimento reciproco» (p. 173). Riguardo alla “questione della filosofia cristiana”, ovvero all’incontro tra teologia e filosofia, si muove anche la ricerca fenomenologica di Hedwig Conrad-Martius, a cui è dedicata la terza ed ultima parte del testo che stiamo esaminando. Il suo contributo nei riguardi di un’ontologia reale, secondo l’omonimo titolo del suo famoso Saggio del 1923, sembra seguire in prima istanza l’eidetica husserliana. In realtà se ne discosta, come rileva Ales Bello, per «l’insistenza sul momento dell’essenza» e per «l’attenzione rivolta al recupero dell’esistenza» (p. 185). Nonostante queste basilari differenze, tuttavia, l’originale contributo alla ricerca fenomenologica da parte di Conrad-Martius è notevole. Il suo richiamo 169 170 all’analisi del fattore realtà ed all’inserimento anche dell’idealità nell’ambito dell’esistere (nell’aspetto formale) conducono la fenomenologa alla fomulazione di un’ontologia secondo cui un’entità reale è la sintesi del momento che funge da portatore (il “sostrato”) e la “quiddità” (Washeit) di cui è “caricato”. La totalità di ciò che si dà, è globalmente il “cosmo” noetico, ossia la “comprensione” intellegibile del mondo reale. Ma il mondo c’è, e secondo conrad-Martius, a differenza di Husserl che suo avviso con la riduzione ha trascurato il momento della fattualità, occorre “garantire” che si dia qualcosa al di là del soggetto “che parla”. In tale suo obiettivo, riferendosi anche ai risultati ottenuti dalle scienze della natura nel XX secolo, Conrad-Martius giunge a rilevare l’intreccio tra fisica e metafisica, nel fatto che l’indagine dello scienziato della natura rende imprescindibile il ricorso ad una spiegazione di ordine “transfisico”, dei suoi asserti. In tale ordine di idee e conseguentemente alla sua conoscenza del darwinismo e del neodarwinismo, si inquadra la lettura di Conrad-Martius relativa all’origine dell’essere umano. L’essere umano è innanzitutto da lei considerato una “totalità vivente” (Lebenstotalität) che deve essere riguardata nella complementarità dei suoi aspetti (nella sua entelechia). Per quello che riguarda la sua origine e il suo sviluppo, invece, occorre prestare attenzione al significato spirituale-religioso che ha avuto nella sua evoluzione il peccato originale, con la corruzione dell’anima così come del corpo. Secondo il suo evoluzionismo creativo (riferito a “potenze transfisiche”, come si rileva nel testo in esame), Conrad Martius afferma che l’essere umano non ha un’origine animale, ma che già nella sua fase embrionale si sia distinto dagli altri primati per la sua posizione eretta. D’altra parte però, evidenzia Ales Bello, a suo avviso, «ogni essere vivente, anche le piante, mostrano, in forza della loro anima una forma che è corporea» (benché né affettiva né tantomeno spirituale) (p. 229). Per tale ragione, l’origine ed il senso dell’essere umano sono fortemente connessi alla comprensione dei processi della natura stessa. La divergenza tra scienze della natura e metafisica, tra scienza e teologia, conclude Ales Bello in questa analisi del pensiero di Conrad-Martius, deve pertanto guardare alla possibilità di un accordo «fra le diverse prospettive», suggerito dai fenomeni stessi, «se opportunamente indicati» (p. 235). Facendo riferimento ad una copiosa letteratura critica nonché a tutti i testi degli autori principalmente esaminati e, riguardo a Husserl, anche a numerosi Manoscritti inediti, L’universo nella coscienza riesce molto efficacemente a tracciare una linea di continuità tra gli aspetti fondamentali della fenomenologia classica e le sue ramificazioni nei suoi principali interpreti. In particolare, ponendo in evidenza il senso ultimo dell’indagine husserliana nell’esplicitazione del significato del compito del ricercatore filosofico e del suo continuo e, tuttavia, infinito adempimento da parte della “comunità dei filosofi”, Ales Bello ha chiaramente ri-delineato gli obiettivi principali della ricerca fenomenologica profilando, al contempo, «i campi teorici di rimando» (antropologia filosofica e filosofia della natura) sulle cui basi si rende possibile effettivamente indagare «come stanno le cose» e giungere, così, ad una fenomeno-logia, ossia ad una «descrizione essenziale di ciò che ci viene incontro» (p. 242). Nicoletta Ghigi Tra i cosiddetti sistemi metaforici di lunga durata, o archetipici, quello che contrappone la luce all’ombra è notoriamente dei più caratteristici. La stessa esperienza percettiva primaria si presta –fortissima la tentazione di scrivere: “naturalmente”– all’investimento simbolico; in virtù del quale è quasi sempre l’ombra a farsi carico delle connotazioni negative (morte, privazione, oblio…), laddove la luce è invece facilmente sinonimo di vita, pienezza, positività tout court. A ben osservare, tuttavia, questo congegno simbolico bipolare, in apparenza tanto solidamente “motivato”, impeccabile, appare viziato all’origine dalla indebita assimilazione dell’ombra alla tenebra. Nel volume di Antonio Prete oggetto di questa nota l’autore può allora dar corso ad una sorta di meditata apologia dell’ombra dimostrando di avere ben presente, tra l’altro, proprio l’arbitrarietà della sopra menzionata assimilazione: la indubbia complementarità, registrata dai millennî, dell’ombra rispetto alla luce non è infatti dello stesso genere di quella per cui anche la tenebra può esser vista come dalla luce medesima inscindibile; e ciò in quanto due differenti modalità di articolazione tra gli opposti risultano distinguendosi secondo le categorie del diacronico –che pertiene propriamente alla dicotomia tra luce e tenebra: paradigmaticamente nel ciclo circadiano– e del sincronico, che è più congrua invece giustappunto al rapporto intrattenuto dalla luce con l’ombra. Quest’ultima rappresenta in effetti la negazione della luce in praesentia; ragion per cui è possibile pensare, forse, all’ombra piuttosto come alla negativa della luce, e non tanto come ad una sua semplice negazione: essa dunque non solo nega, ma anche –nel suo negare– rivela. Guardare all’ombra, e dall’ombra, significa pertanto cogliere la natura ambivalente del reale, sfuggendo ad ogni mortificante concezione unidimensionale di esso; e può essere operazione da cui prenda avvio una serie di riflessioni dalla portata cospicua, per ampiezza e profondità. Trenta gradi all’ombra è titolo argutamente polisenso. Sono effettivamente trenta, le brevi prose che gradualmente immettono ad un Epilogo il quale fin dal titolo (La luce, dall’ombra) riassume la valenza di questa ascesa al senso autentico dell’ombra, o –che voglia dirsi– di questa discesa fin nel suo cuore più riposto. Differente è la natura di tali prose, la loro configurazione anche esteriore; non si sbaglierà di troppo ponendo provvisoriamente i diversi testi all’incrocio tra poema in prosa, apologo filosofico (riflessione nella scia dei grandi moralisti, e particolarmente di quel Leopardi cui l’autore è venuto consacrando negli anni tanto impegno esegetico), memoria autobiografica, racconto in senso stretto (ma meglio: frammenti, abbozzi più o meno compiuti, di situazioni narrative; con certa predilezione per una matrice diegetica di tipo “borgesiano”: si rivada esemplarmente a Questioni naturali). Costante è comunque il riferimento al tema dell’ombra, a riscattarne –nella testura di un complessivo elogio composto di tessere minute eppure ciascuna indispensabile alla resa dell’insieme: organica rapsodia– l’immagine poco lusinghiera cui essa è costretta, nell’immaginario, da quella imponente tradizione cui si è accennato in apertura. Prete lo fa dire alla luce stessa (Dialogo dell’ombra e della luce): il medesimo «ammasso di fotoni» in cui essa si sostanzia secondo R ECENSIONI A. PRETE, Trenta gradi all’ombra, nottetempo, Roma 2004, pp. 127. 171 172 i fisici splenderebbe assai di meno senza il contrappunto della sua interruzione; l’ombra –pausa, iato, smagliatura sulla superficie di smalto della pura lucentezza– permette di sottrarre la luce all’abisso di una sterile autotelicità, e della luce rappresenta così, in un certo senso, il di fuori. L’ombra di cui l’autore indaga con acuta circospezione il mistero è allora una sorta di coscienza della luce: è come l’eclisse che rivela la luna a se stessa, che la mostra nasconendola (Lezione di tenebre). Tutto il reale –ci avverte l’autore– è in permanente chiaroscuro, si dispone nei dominî del «crepuscolo»; solo la contiguità e la fusione tra l’ombra e la luce possono essere emblema eloquente della sua costitutiva, sempre “attuale”, ambiguità. Proprio tale ambiguità è inattingibile alla sola ragione, rappresenta per essa un limite invalicabile. La ragione pura è per definizione manichea: non coglie lo sfumato, la compresenza della luce nell’ombra e viceversa: essa si esercita a proprio agio soltanto in piena luce, ritaglia sì campiture d’ombra, e le classifica; ma per espungerle dal proprio corpus senza neppure pronunciarsi su di esse, sdegnosamente. Il lume della ragione dissolve fatalmente il margine d’ombra che pure lo invera, offrendo così l’espressione compiuta di ciò che accade anche quando esso si accosta senza precauzioni a quella poesia che –come la realtà di cui essa non è altro che cifrato specimen– proprio della presenza dell’ombra vive, è oggetto umbratile per antonomasia. La ratio, appressandoglisi senza riguardi, brucia l’oggetto che pure pretenderebbe illuminare, e in un fatale cortocircuito innesca la propria stessa autocombustione. La ragione, in effetti, non ama i paradossi, che ha inventato per esorcizzare un reale mai in totale sintonia con se medesima: mai completamente in piena luce, mai oggetto ad essa completamente adeguato. Maggior rispetto per l’intrinseca ambiguità del fenomenico, maggior riguardo per la poesia che ce lo restituisce fragile e intero, presenta invece una scrittura che sia attenta proprio allo sfumato, al non integralmente riconducibile in piena luce: che miri con ciò a salvaguardare (e riprodurre) il continuamente minacciato, l’esposto. Un altro modo di guardare alle prose di Trenta gradi all’ombra è allora quello di considerarle animate dallo stesso scrupolo –di carattere morale, prima ancora che estetico o conoscitivo– caratteristico di un tal genere di scrittura. Riconoscere nei capitoli questa ulteriore marca –quella che ne fa altrettante pagine di riflessione critica– permette di intercettare in essi una sobrietà che deriva loro da una sottesa, implicita tensione argomentativa: anche quando si tratti –ad esempio– di rievocare l’infanzia, il trasporto sentimentale, l’afflato rammemorante non prevaricano su di un tono che resta lucido, allusivo ma sempre padrone di sé: filosofico. La meditazione di Prete sembra avvantaggiarsi di questa nativa sensibilità per una parola partecipe della natura delle cose, in consonanza con gli elementi che essa contemporaneamente designa e trasfigura: come il Li Wajang di Sul tremito delle ombre, l’autore sa riconoscere una simile parola, e farne buon uso; parola in apparenza la più dimessa, che consente però di sorprendere il sentire stesso dell’ombra; dissolvendo così la tirannia del soggettivo, l’arbitrio dell’osservatore troppo neutro o troppo egocentrico, comunque impositivo. L’ombra, còlta nel suo stesso irripetibile offrirsi e non investita di sensi R ECENSIONI estrinseci, restituisce nel supremo contingente il calco dell’Essere: sussume nell’effimero l’eterno, ed è per il cercatore della verità come il vetro affumicato che consente di guardare al Sole. È l’illusione a se stessa trasparente che permette di dare profondità alla luce, che ne impedisce il dissolvimento in una abbacinante, oceanica piattezza; questo intuisce ad esempio l’arte della pittura (Sulla soglia), come pure quella stessa téchne cinematografica che ai suoi albori, soprattutto, ne continuò la promessa: permettendo entrambe –come ogni arte, come ogni autentica poïesis– di vedere il mondo dal di fuori, di scorgerne il senso. In una delle folgoranti osservazioni che punteggiano la riflessione dall’ombra di Antonio Prete, ed offrono in improvvise e suggestive accensioni gnomiche preziose aperture all’intelligenza del lettore, l’autore definisce la luce come la lingua del cinema, e l’ombra come la sua anima (Il lenzuolo bianco). In effetti la grande arte si sforza di riprodurre l’alchimia del reale, lavora con l’ombra per parlare della luce, per poterla vedere, per farne l’oggetto e non il mezzo della visione. Così la parola –ombra della cosa che la cosa rivela rilevandola, sbalzandola dal fondo di luce in cui essa altrimenti annegherebbe– potrà essere come l’ombra dello gnomone sul quadrante della meridiana: eventualmente riattingere perfino il tempo acronometrico per eccellenza, quello dell’infanzia: essa medesima, la parola, simile all’ombra che nutre la luce ed al tempo afasico che alimenta quello adulto dei cronometri: in quanto anch’essa –nera luce– «intervallo tra l’assoluta lontananza e l’impossibile» (La meridiana). La scrittura di Prete è pienamente consapevole dei prodigî possibili ad un dire che rifugga dalla banalità, che si discosti dalla tautologia del meramente referenziale, dall’angustia della classificazione (che cosa vale l’ombra dell’ulivo finché sia lasciata giacere nel suo astuccio?); e si impegna così a misurare la distanza, o addirittura a sondare la estraneità, «tra la vita che è nello spazio e le carte che la rappresentano» (Dalla lettera di un cartografo celeste a un amico). La parola poetica, in senso lato, è tale anche perché prende atto di questa incommensurabilità tra se stessa e l’essenza di ciò cui intende comunque riferirsi; l’autore sa che soltanto può valere –in certi casi– quel proferir verbo che si aggiri insistente intorno alla luce del non dicibile, che ne cinga da più lati l’assenza fiammeggiante, con le sue orbite tenaci descrivendone la forma. Come l’ombra schiudendo così, tale parola “leopardiana”, quelle «lontananze che superano i confini del nostro immaginare»; e, nell’atto stesso di aggirarsi attorno alla zona fulgida ed intangibile della verità, generando l’umana interpretazione, la quale –nel suo essere non altro che movimento attivato da una abbagliante lacuna– è appunto ombra che manifesta una luce, la sprigiona. Proprio il rapporto posto tra l’ombra e l’interpretazione è un altro momento paradigmatico delle impennate di acume propriamente filosofico che la riflessione di Prete, in apparenza come svagatamente assorta, improvvisamente conosce in queste prose; exploits che, al di là della stessa forza di suggestione che promana da una parola intrinsecamente allusiva, si mostrano capaci di dar intensamente da pensare anche al di fuori di ogni atteggiamento di complicità con il “parlante”: se ne convince ad esempio chi applichi o riferisca le 173 174 immagini cui questi perviene nel corso della sua riflessione poetante ad un differente orizzonte epistemologico, a quella riflessione sostanzialmente poco affine; e pensi un modo di intendere l’interpretazione quale quello restituito dall’immagine appena menzionata non solo come del tutto conforme a rendere quella prassi abduttiva che taluni riconoscono come propria di ogni procedura di decodifica linguistico-testuale; ma lo connetta, tale modo, allo stesso procedere della scienze naturali attraverso la formulazione di ipotesi cui si acceda anche tramite la più franca invenzione: attitudine questa che infatti rimette in onore l’azzardo e la fantasia, e riconosce nel cosmo le ragioni del caos (così molta epistemologia contemporanea ha saputo render giustizia ai più ardimentosi voli immaginativi di tanti poeti-filosofi del passato). Unico si scopre così essere lo studium della natura, la costitutiva quête degli esseri umani all’interno del proprio mondo; ricerca che riafferma per questa via, inoltre, la sua originaria valenza passionale ed erotica. La parola che si eserciti nella pazienza amorosa dell’indagine avvicina la figura di chi se ne sappia servire a quella dei filosofi che, nelle pagine del volume di Prete, sembrano voler insegnare soprattutto alle nuove generazioni la valenza umbratile della verità, e mostrare come essa sia lontanissima dalla monocroma chiarezza del dogma. Sempre dotate di una fluida naturalezza che rende “filosofica” la pagina, la fa nitida e la tiene abbondantemente al di qua di ogni concettoso arzigogolio (merito non secondario, visto che il tema ben si sarebbe prestato –in altri– alla elucubrazione ed al ghirigoro barocchi), queste descrizioni procedono insieme alla riflessione propriamente detta, si producono allacciate ad essa e con essa si intrecciano fittamente –rinnovato sodalizio di Mito e di Logos. Queste trentuno piccole variazioni sul tema dell’ombra –condotte con un virtuosismo dell’intelligenza mai disgiunto da una sensibilità educata nel tempo all’attenzione verso il minimo e l’ineffabile– si propongono così come altrettanti esercizî di quella “maieutica del segno” (Magrelli) che ha come presupposto proprio una identificazione densa di implicazioni tra scrittura e nostalgia della presenza, parola ed ombra. L’ombra di cui parla Prete è perciò tutt’altro che una entità sfuggente: essa non è meno salda dell’Essere che rivela –ne costituisce l’impronta risonante. Nella convinzione che sia «possibile attingere se non la verità almeno le sue metafore, appunto le sue ombre» –vale a dire che sulle cose essenziali sia possibile soltanto Adombrare–, chi scrive cesella il suo oggetto con l’amorosa perizia di un antico artigiano, sa osservarlo nelle sue minute componenti, coglierne e riprodurne la cangiante consistenza. E così, pazientemente, il maestro d’ombre e cartografo celeste saprà farsi nuovamente ragazzo, tornando come un tempo a guardare il mondo dall’ombra –attraverso la parola: e sarà come scalare di nuovo l’arcobaleno. Perché –secondo l’autore– non meno splendida dell’iride è l’ombra: custode materna della luce, sua fedele e pudica testimonianza. Marco Gaetani PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA «SEGNI E COMPRENSIONE» Volumi: L. A. ARMANDO, La ripetizione e la nascita. Scritti di storia della filosofa e della psicoterapia (1961-2004), Liguori, Napoli 2004, pp. 302; L. A. ARMANDO, Prìncipi senza paura. Una lettura de “Il principe” di Machiavelli, Manni, San Cesario di Lecce, 2004, pp. 190; J.-R. Armogathe, L’anticristo nell’età moderna. Esegesi e politica, Le Monnier, Firenze 2004, pp. 148; D. BOCCARDI, Saggi di filosofia della scienza, La Città del Sole, Napoli 2004, pp. 54; L. BOTTANI, Cultura e prestanza, Mercurio, Vercelli 2004, pp. 320; S. CAVACIUTI, L’alterità. Il problema morale nel pensiero di Maine de Biran, Cesati, Firenze 2004, pp. 236; M. DE CERTEAU, La scrittura dell’altro, Cortina, Milano 2005, pp. 115; S. CIURLIA, Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz; Congedo, Galatina 2004, pp. 278; D. DE LEO, Michelstaedter filosofo del “frammento”. Con “Appunti di filosofia” di C. Michelstaedter, Milella, Lecce 2004, pp. 120; A. ERBETTA, a c. di, In forma di tragedia. 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