Come uscire dal recinto della critica economica

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— Roberto Romano, Paolo Pini, 18.8.2014
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a sensazione e l’umore
di molti economisti
sono quelli delle cronache del “tormentato periodo che va dal 1929 al 1936
[…]dove[…] gli economisti accademici […]non avevano saputo offrire pressoché
nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità
d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato … l’economia prima o poi si
sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale”
(Hyman P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2009).
Ma quest’umore non potrebbe essere diverso. Tanti anni di (tesi) politiche ed
economiche fondate sulla concorrenza, sulla flessibilità e sui fallimenti dello
Stato hanno eroso il senso comune e, aspetto ben più grave, compromesso quel
vasto patrimonio di conoscenze che era alla base della risposta politica ed econo-
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mica della crisi del ’29. Se dovessimo prendere per assolute le dichiarazioni di
Fmi (Lagarde e Blanchard), Bce (Draghi), Commissione europea (Barroso
e Juncker) e di molti opinionisti italiani tra cui Boeri, per non citare con le
dovute distinzioni Alesina, Giavazzi, Tabellini e consimili, dovremmo chiudere
baracca e burattini.
L’aspetto drammatico di queste tesi è l’effetto che hanno sugli economisti critici
(liberal, strutturalisti, circuisti, keynesiani, anche in senso lato). Molti commenti
riflettono l’impotenza e, sotto sotto, l’amarezza del dibattito. Ridursi a criticare il
pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito o della esasperata
flessibilità del lavoro, l’austerità espansiva, tra tutte crediamo la più indigesta
perché non comprendiamo il nesso tra austerità ed espansione, e per ultima la
precarietà espansiva, è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia
un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato.
Quello che manca alla critica è un orizzonte minimo e condiviso. Saremo dei
romantici, ma l’economia è una scienza sociale e, prima o poi, dovremo farci
carico di una prospettiva diversa dalla gestione della crisi o dalla critica. Questo
atteggiamento ha radici molto nobili: senza critica è difficile costruire un progetto alternativo. Pensiamo a Sraffa, Kalecki, Robinson, Sylos Labini, Graziani,
Pasinetti, Leon. Con tutta l’attenzione possibile, la critica svolta da questi è più
che sufficiente.
Non dobbiamo raffinare ciò che è già stato declinato in più modi. Erano (sono)
personaggi enormi, ma non hanno costruito una idea organica di società diversa.
Abbiamo delle intuizioni, delle suggestioni, ma possiamo dire che il progetto
(futuristico) di società più avanzato è quello delle prospettive economiche dei
nostri nipoti?
Non ci mancano i lasciti dei nostri maestri. Pensiamo ai “conti senza l’oste” di
Graziani, alla “dinamica strutturale” di Pasinetti e alla “tecnica superiore” di
Leon. Senza mancare di rispetto a nessuno il lascito più grande è forse di Sylos
Labini quando afferma che “in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da
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riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto
nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente,
come un processo di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione
della produzione e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di
mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (Progresso tecnico e sviluppo ciclico, 1993). Tecnicamente dovremmo avere molti più strumenti degli economisti mainstream per disegnare un futuro migliore per i nostri
nipoti, ma il clima che ci circonda è invalidante e disarmante, con un lascito che
annulla anche le più elevate buone intenzioni.
In un modo o nell’altro l’Europa è oggi il terreno e lo snodo che segnerà la fine
o l’inizio di una nuova società. Abbiamo un compito gravoso e possiamo assumerlo se usciamo dalla logica della critica. Per il nostro paese significa qualcosa
di più. Non la ripetizione di svalutazione (deflazione) del lavoro. Per la prima
volta l’Italia deve assumersi delle responsabilità nuove e inedite se vuole rimanere un paese moderno, sia per quanto riguarda le politiche economiche interne
e sia per quanto riguarda le politiche europee.
Si tratta di cambiare il motore della macchina senza fermarla (Riccardo Lombardi). Non si tratta di politiche dell’offerta, piuttosto della necessità di assecondare e guidare la dinamica di struttura di Pasinetti, i conti senza l’oste di Graziani e il segno del nostro Pil di Sylos Labini. Tutti sosteniamo che l’intervento
pubblico è indispensabile. Possiamo almeno declinare alcuni pezzi di questa
necessità? Perché non prendere la ricerca e sviluppo pubblica, altra non né
conosciamo, e industrializzarla al fine di modificare il segno del Pil, della struttura e del ben-essere? Possiamo affidare alla Cdp, o chi per essa, il compito di
anticipare il denaro necessario (Graziani) per spostarci dai settori in declino
verso i settori a maggiore contenuto tecnologico e cognitivo? Se poi il privato ha
voglia di spendere quel tanto o poco di buono che è rimasto, dobbiamo esserne
solo felici. Il conflitto capitale-lavoro ritroverebbe l’agio descritto accuratamente
dalla immensa Robinson.
Per l’Europa, dobbiamo spingerci oltre la flessibilità di bilancio, la moneta
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parallela o la ri-appropriazione della moneta. La sfida è quella di uno stato federale o uno stato europeo a tutto tondo. Lasciamo i multipli delle politiche territoriali. Sono giustappunto multipli. L’Europa non sarà mai l’Europa se non riuscirà a istituire i princìpi, le norme e le regole dell’economia pubblica, cioè definire l’insieme delle politiche di bilancio comunitarie con le quali indirizzare il
sistema economico europeo verso obiettivi democraticamente definiti. L’Europa,
infatti, non possiede un bilancio autonomo e finanziato con entrate fiscali legate
ad un’ampia base imponibile. Immaginiamo un bilancio comunitario pari al 5%
del Pil dell’insieme dei paesi membri. Lo stato nasce e si consolida con le imposte. I coloni irlandesi hanno fondato gli Stati uniti d’America proprio sulle imposte. In questo modo sarebbe possibile rimuovere il vincolo discrezionale dei trasferimenti statali. Se la crisi è strutturale, occorre creare istituzioni adeguate per
tenere in tensione la domanda effettiva, riducendo il mancato impiego delle
risorse produttive a cominciare dalla disoccupazione. Pensare ad un bilancio
europeo molto più consistente, finanziato con strumenti come l’Iva, imposte
ambientali ed una tassa sulle transazioni finanziarie, l’emissione di bond acquistati dalla Bce per sostenere la crescita e gli investimenti necessari per Europa
2020, che deve ridurre il gap tra i Paesi, infine meccanismi di riequilibrio dei
deficit ed avanzi commerciali tra i paesi che adottano la stessa moneta, non
sarebbero strumenti cardine per un progetto di società o l’embrione di società
europea?
Gli economisti mainstream hanno sempre la stessa proposta “naturale” di
società ed economia, ma una qualche colpa gli economisti non–mainstream
devono pur averla se i primi hanno tutto questo potere culturale.
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Il suicidio dell’austerità
ISIS, che fare? (di Alessandro di Battista)
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— Sicuramente i figli dei ricchi contadini
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Avatarveneti, che tu tanto hai insultato nei tuoi
commenti, avranno ancora gli occhi, non so nel
— La differenza tra un fascista
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Avatare un guerrigliero rivoluzionario è che il primo
all'ingiustizia sociale risponde con le bombe nelle
Il governo nasconde il piatto
E anche la Germania precipita
•
— Ma Scelta Incivica e Ncd
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Avataradesso lo raggiungono l'uno per cento?
•
— La Germania forse non precipita
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Avatarma di sicuro va male e andrà sempre peggio.E per
invertire la tendenza non basta una maggiore
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migliore, in queste ultime settimane ha impegnato tutte le sue forze per stravolgere…
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