Volume IV - Comune di Pienza

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Il QUADRO CONOSCITIVO DEL PS DI PIENZA
Volume I : Studi di Urbanistica e Archeologia
Volume II : Studi sulla Mobilità
Volume III : Studi di Economia territoriale
Volume IV : Studi di Antropologia
Volume V : Studi di Ecologia vegetale ed Ecologia del paesaggio
Volume VI : Studi di Geologia
INDICE
VOLUME IV : STUDI DI ANTROPOLOGIA
CAPITOLO 7
ASCOLTARE LE VOCI ........................................................................................................ 1
7.1
UNA RELAZIONE ANTROPOLOGICA PER IL PIANO STRUTTURALE DI PIENZA ................................................... 1
7.1.1
Bisogno di museo, rilettura sociale del paesaggio ............................................................................... 2
7.1.2
Qualità del turismo, turismo della qualità ............................................................................................. 3
7.1.3
Luogo di cultura .................................................................................................................................... 3
7.2
IL PASSATO, LA MEMORIA, IL LUOGO ......................................................................................................... 4
7.2.1
Introduzione.......................................................................................................................................... 4
7.2.2
Il passato storico................................................................................................................................... 6
7.2.3
Il passato della civiltà contadina......................................................................................................... 11
7.2.4
La nuova frattura nel tempo ............................................................................................................... 15
7.2.5
Conclusione: sviluppo, sostenibilità e lo “sguardo interno” ................................................................ 22
7.3
DALLA “CITTÀ
7.3.1
La Val d’Orcia. “Il posto più bello dove si può vivere”. ....................................................................... 23
7.3.2
Dallo spazio presente al tempo presente. .......................................................................................... 24
7.3.3
Pienza. “Una macchina per la serenità” ............................................................................................. 25
7.3.4
La piazza. “La piazza a Pienza è veramente la piazza”..................................................................... 27
7.3.5
Centro storico. “Le invasioni barbariche qui durano tutto l’anno”....................................................... 28
7.3.6
La zona nuova. “E’ un dormitorio”. ..................................................................................................... 30
7.3.7
Il bar o la biblioteca? “Non credo in problemi di spazio a Pienza, vedo problemi di gestione
degli spazi”. ........................................................................................................................................ 32
7.3.8
Ragazzi e ragazze. “La vita del paese si fa nel fine settimana”. ........................................................ 34
7.3.9
Bambini. “Ora anche l’asilo sembra che diventi un lusso!” ................................................................ 35
7.3.10
Pienza guarda Monticchiello. “Loro veramente sono una comunità”. ................................................ 35
7.3.11
Monticchiello guarda Pienza. “Non so’ amalgamati, non so spiegarlo”. ............................................ 38
7.3.12
Monticchiello. “Monticchiello è un po’, parecchio, fuori dal mondo”. .................................................. 39
DI PIO II” ALLA PIENZA DI TUTTI GLI ALTRI. AUTORAPPRESENTAZIONI DELLA
PERDITA E DELLA CONQUISTA DI SPAZI NEL COMUNE DI PIENZA ............................................................... 23
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7.3.13
Abitazioni e luoghi d’incontro. “Ci so tutte una serie di periodi dell’anno in cui qui torna il
vecchio isolamento dei tempi delle mezzadria”.................................................................................. 41
7.3.14
Il Teatro Povero. “Perché si passa le sere tra la piazza e…diventa veramente un modo di
vivere”................................................................................................................................................. 44
7.3.15
Il Granaio. “E’ un riscatto. E’ diventato proprietà di tutti”.................................................................... 46
7.3.16
Territorio e Teatro. “Però comunque non credo si possa prescindere da quest’occhio su
questa nostra vallata che è il nostro mondo”. .................................................................................... 47
7.3.17
Agriturismi. “L’ho reinventato, questo l’ho lasciato com’era”.............................................................. 49
7.3.18
Artigiani e contadini. “La nostra fortuna è nata grazie a Pienza”. ...................................................... 50
7.3.19
Saperi. “Non si può diventare gli indigeni che mettono il gonnellino per i turisti.”.............................. 51
7.3.20
Il Parco. “Secondo me non è c’è da fare tante cose qui, qui c’è da fare soltanto tanta
manutenzione”.................................................................................................................................... 53
7.3.21
Immaginando il futuro. “Vendere il sogno”. ........................................................................................ 54
7.3.22
Qualche riflessione. Stress coloniale? ............................................................................................... 55
La ricerca antropologica è stata condotta dal Prof. Pietro Clemente
(coordinatore), cui si deve la stesura del par. 7.1., dal Dott. Federico Scarpelli
(par. 7.2.) e dalla Dott.ssa Valeria Trupiano (par. 7.3.)
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Volume IV – Studi di antropologia
CAPITOLO 7
7.1
ASCOLTARE LE VOCI
Una relazione antropologica per il piano strutturale di Pienza
Questa relazione è in un insieme di testi in cui si è preferito lasciar traccia della pluralità e della passione per
il dettaglio e l’ascolto delle voci che è propria dell’inchiesta antropologica. Non c’è una tesi unica, non c’è
una prospettiva “generalizzante” sulla comunità indagata. Gli antropologi normalmente non danno consigli
sui piani di sviluppo se non in alcuni contesti di cooperazione internazionale. Sul tema dello sviluppo poi il
gruppo di ricerca si riserva di ritornare in una stesura più avanzata della relazione, dopo aver potuto
esaminare con attenzione tutte le relazioni degli altri settori del progetto. Tuttavia, per facilità di dialogo con
gli altri settori e per un più semplificato accesso a temi e parole chiave, in questa premessa saranno fornite
alcune linee di interpretazione e saranno indicati alcuni punti “focali” che, emergendo dalle interviste,
possono impegnare il Comune e il Piano in possibili scommesse future.
Si vuol mettere in evidenza intanto che, nell’esprimere valutazioni, giudizi, nel fornire racconti della propria
vita, i cittadini intervistati non hanno prevalentemente posto l’accento su bisogni materiali, ma su una sorta di
disagio di vita, legato ai processi in atto, al confronto tra diverse storie e generazioni, alla condivisione
generale di un nesso tra Pienza e una qualità ambientale e storica di eccellenza, che viene però talora
anteposta alle storie di coloro che riproducono socialmente e con difficoltà crescenti nel tempo, le condizioni
di visibilità e vivibilità di quel contesto.
Il fatto che al centro non ci siano bisogni materiali diretti e primari, ma piuttosto aspirazioni qualitative, mostra
il grande salto storico che caratterizza il presente rispetto alla storia del territorio. Nel secondo dopoguerra la
Val d’Orcia ha vissuto il passaggio dal mondo contadino mezzadrile al terziario di prevalente rilievo turistico
come una lunga e spesso inconsapevole transizione, lungo la quale la popolazione ha accumulato un
bisogno esplicitamente ideologico e spirituale di comprensione dei processi vissuti, ed è venuta incrociando i
propri disagi e le proprie fierezze con i processi generali di trasformazione delle mentalità e delle tecnologie.
Negli anni ’80 la svolta ecologista e la percezione dello sviluppo sostenibile è stata acquisita – seppure con
margini di resistenza e contrattualità – dalla popolazione, dopo avere conquistato le amministrazioni e i
diversi partiti. Già da allora una problematica più complessa aveva sostituito quella dei servizi, delle strade,
degli argini dei fiumi, degli scuolabus, e la cultura dei ceti sociali contrapposti. Ma il problema della
rappresentazione politica e della rappresentazione identitaria, perdendo i caratteri forti della storia politica
dei ceti subalterni, ha dato luogo a una frammentazione plurale, tra impieghi, tra generazioni, tra storie
imprenditoriali e non, tra immigrati e residenti etc…In assenza di forti idealità comuni, e nell’operare ancora
in profondità delle ideologie sociali del progresso e del benessere degli anni del dopoguerra, queste
rappresentazioni si presentano all’osservatore attuale come difficili da riorganizzare in un focus comune. La
stessa politica ormai da tempo si presenta piuttosto come interpretazione di problemi territoriali e
generazionali, di servizio, che con forti orizzonti ideali. Manutenzione corretta più che progettazione
(secondo un modello assai generalizzato nell’Italia centrale). In questo quadro alcune sollecitazioni politiche
che pongono al centro l’identità urbana appaiono come parte di un bisogno collettivo di ridisegnare i temi
eminenti della riflessione collettiva sulla identità e anche sulla stessa idea di “cittadinanza” nella comunità
contemporanea. Una esigenza di migliore comprensione del quadro politico amministrativo e dei
cambiamenti del governo locale sarebbe necessaria, su scala almeno toscana; l’assenza di nuovi studi
socio-antropologici per aree come quella pientina (mentre ci sono alcuni studi sulle aree di nuovo sviluppo
industriale) rende difficile una considerazione antropologica più ampia di questi fenomeni. L’area della Val
d’Orcia ha in sostanza accettato di non considerare lo sviluppo economico in senso tradizionale (industria,
ma anche edilizia “non sostenibile”) come caratteristica del proprio “motore” specifico, ma di vedere nel
territorio storico e naturale la principale risorsa, investendo quindi nella fruibilità di esso e nella sua visibilità
nella scena della globalizzazione turistica, pur opponendosi a fenomeni di turismo invasivo. Su vari temi
dello sviluppo commerciale, agricolo, o di industrializzazione dell’agricoltura gli orientamenti sono meno
marcati. Questi orientamenti sono in linea generale condivisi dalle persone intervistate e i principali problemi
riguardano la “gestione”, la “condivisione”, la varietà dei modi di questo processo. Proprio perché il dato di
fondo dello sviluppo è la propria storia le riflessioni degli intervistati indugiano sulla “storicità”, sul tessuto
temporale ed esperienziale delle proprie vite come parte del territorio. Nel riflettere sul territorio confrontano
“produzioni di identità”, “tradizioni inventate” (secondo il lessico del dibattito antropologico), ovvero
costruiscono rappresentazioni (ideologie) in cui alcuni tipi di passato, o interpretazioni di esso , vengono
scelti per indicare bisogni contemporanei e futuri. Nell’affrontare questo problema le relazioni di Federico
Scarpelli e di Valeria Trupiano, che abbiamo scelto di non unificare per offrire così alla committenza una
gamma più ampia di documenti e riflessioni, si differenziano metodologicamente. Scarpelli cerca di indagare
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Volume IV – Studi di antropologia
la natura della riflessione sul passato intorno al concetto euristico di “nostalgia”, e quindi cerca di identificare
quale “regime vissuto di storicità” caratterizzi e opponga le rappresentazioni degli intervistati. Scarpelli cerca
in sostanza di riconoscere “oltre” il narrato sociale lo statuto della nostalgia, e quindi identifica i processi
attraverso i quali il presente e il futuro viene “detto” parlando del passato. Valeria Trupiano cerca invece di
organizzare le “voci” degli intervistati in un modello “contrastivo”, quasi uno sviluppo dei blasoni che
caratterizzarono e spesso ancora caratterizzano
i centri toscani tra loro contigui, basato sulla
rappresentazione oppositiva dei due (pur diversissimi) poli della comunità: l’uno “focalizzato” su processi di
“decentramento” e l’altro su processi di “conquista aggregativa”. Nella lettura di Scarpelli è al centro Pienza
come insieme, e nelle voci di disagio e di nostalgia , viene colto un messaggio che chiede qualità sociale del
presente, adeguazione tra modello della città d’arte e arte del vivere sociale, tra idea di bellezza e tutela del
paesaggio e dello stesso equilibrio della comunità rispetto al turismo. I processi che appaiono espressi con
doloroso senso di perdita esprimono in sostanza bisogni contemporenei che possono essere pensati nella
prospettiva di una loro soddisfazione,m di un esplicito nuovo patto sociale.
Nella lettura di Trupiano, l’identità oppositiva di Pienza e Monticchiello presenta una sorta di confronto tra
due “regimi di storicità” di lungo periodo, che usati ancora oggi mettono in paragone vitale degli stili e dei
contesti differenti di vita. Medioevo e rinascimento vengono opposti per parlare dell’oggi. Quindi anche
parlare di una Monticchiello arroccata e comunitaria, aggressiva verso la minaccia di tracollo demografico e
marginalità e di una Pienza più aperta e “debole” ma disponibile, plurale, aperta alle possibilità, incarnata
nella città senza mura, nello spazio e nel paesaggio razionale ed equilibrato del Rinascimento è dire chi si
vuole essere oggi e segnalare modi diversi, quasi in competizione, di agire sul presente. E’ interessante
trarne modelli possibili di “cittadinanza” e di progettazione in un tempo in cui l’arena locale è invasa dal
mondo globale e non ci si può illudere di progettare spazi di nicchia. Parlare di Pienza significa anche
parlare di flussi turistici internazionali e rapportarsi ad essi, significa parlare di mercato migratorio mondiale,
significa parlare di immagini e di loro potenza. Tuttavia affermare possibili stili locali valorizza e consente di
far leva sul sapere specifico del posto sia in termini di territorio conosciuto e condiviso sia in termini di
habitus che consentono linee di iniziativa congeniali alla storia profonda delle persone e delle famiglie.
Entrambi i rapporti di ricerca peraltro condividono l’idea che le rappresentazioni sono forme del discorso
sociale non semplici, attraverso le quali i gruppi e i singoli partecipano alla percezione e alla espressione del
proprio rapporto con il mondo locale e quello globale. E in entrambi è messa in evidenza l’idea di alcuni
bisogni di “socievolezza”, ovvero di qualità comunitaria, espressi nelle forme della riflessione sul passato.
In entrambe le relazioni gli intervistati sono, in modi diversi, rapportati ai successi o alle marginalità della
nuova configurazione turistica, e paventano una trasformazione della città in puro “fondale” per l’occhio dei
turisti, con la perdita di vissuti di socievolezza e di vita quotidiana nel contesto urbano.
Più in generale il tema dei vissuti storici degli individui si connette con il tema del turismo, e quindi in tal
senso conferma la “attualità” del discorrere sul passato. Non a caso il passato e per lo più quello della storia
rinascimentale della fondazione di Pienza (talora opposta a quella medievale del castello monticchiellese) , e
quello del mondo contadino mezzadrie e della sua lenta trasformazione in mondo del terziario, degli
impieghi, dei consumi, della rilettura agrituristica del territorio.
E’ proprio in rapporto a questi temi che è possibile indicare alcune linee di possibile progettazione di spazi
della socievolezza.
7.1.1
Bisogno di museo, rilettura sociale del paesaggio
Da un lato infatti, nella contrapposizione obiettiva tra storie personali di vita legate alla campagna o alla città
e città di Pio II (città degli storici dell’arte, degli architetti, dei turisti colti e via via del turismo post “Paziente
inglese”) emerge il desiderio di una “presenza” delle storie individuali nella vita del territorio, quasi il bisogno
di un “museo” come punto di raccordo delle molteplici storie e delle molteplici voci che hanno fatto questa
terra per tanti anni dopo la sua felice nascita in una congiuntura del papato. E’ un tema questo presente
nella grande tensione sociale della museografia postbellica europea, l’idea francese degli ecomusei e dei
musei di società, si muove nella critica radicale dei musei d’arte fatti per gli uomini colti e divenuti emblema
di ceti sociali privilegiati, si tratta di musei nei quali al centro è l’uomo storico cresciuto in sintonia ambientale
con un territorio, la rappresentazione della vita e della trasformazione. Tutta la comunità è potenziale
custode e guida del museo perché è il museo delle loro vite, una forma che ha avuto a Monticchiello una
originalissima forma di coniugazione teatrale, ma che può essere proposta anche in forma di ecomuseo e
museo territoriale del quale gli stessi musei artistici entrerebbero a far parte ricomponendo però il rapporto
arte-vita, arte-storia, arte-territorio. Entro esso come un “polo” o una “sala di regia” il museo, il centro di
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Volume IV – Studi di antropologia
documentazione, la raccolta di storie personali, la memoria del territorio e delle persone, un possibile luogo
in cui connettere diverse visioni della esperienza della città. Museo in senso moderno, non come raccolta di
oggetti, ma come raccolta di storie e di visioni (centro di ascolto, stanza della memoria, archivio dei racconti
di vita, installazione sociale…). Un museo che potrebbe connettersi con momenti di gestione collettiva della
immagine urbana e paesistica secondo alcune linee congeniali alla nuova legge relativa al Codice dei Beni
Culturali e del paesaggio. La nascita di commissioni provinciali e/o comunali di tutela e interpretazione del
paesaggio potrebbe configurare una sorta di dialogo tra le diverse componenti (per generazione, sesso e
attività) in una sorta di “assemblea” dell’identità territoriale.
7.1.2
Qualità del turismo, turismo della qualità
Negli studi sul turismo appare evidente che è importante “come” le comunità decidono di orientare il turismo.
A Pienza viene manifestata una esigenza forte di non perdere lo spazio urbano alla vita quotidiana dei
residenti. Questa esigenza è esprimibile in termini di antropologia del turismo come esigenza di dialogoconfronto con il turismo, senza che la comunità debba ritrarsi in un “retroscena”, sospinta da una invasione e
sottrazione di spazi (il turista a San Gimignano, a San Marino). Questa esigenza, anche di riappropriazione
della dimensione urbana, è fondamentale per identificare un turismo di qualità, giacchè è interesse del
turista stesso che la città non sia ridotta a spazio di transito in cui i cittadini escono solo quando i turisti
dormono o sono andati via.
In tal senso sembra obiettivo possibile quello di ristabilire nella scena storica urbana un insieme di attività
artigiane espulse anche dal valore di mercato degli immobili, e di favorire luoghi di acquisto finalizzati alla
popolazione in cui la “serialità da souvenir” dell’offerta locale (olio, formaggio etc..) sia rivista in chiave di
esigenze comuni. Tale processo può essere visto in sintonia con alcuni fenomeni festivi che hanno al centro
la popolazione e i suoi nuovi bisogni di socialità e ritualità e che configurano ulteriori modi di accoglienza di
un turismo della differenza che mal si concilia con i grandi transiti veloci. Sarebbe interessante che il turista
desiderasse di conoscere ed acquistare il modello locale di gusto, più che la serialità commerciale, e che
nella offerta di consumo si potesse trovare un punto di incontro tra residenti e transitanti. In tal senso si
potrebbero approfondire alcune certificazioni di peculiarità locale e di marchio, anche a livello comunale. In
questo quadro appare significativo che la città abbia uno spazio di socievolezza proprio, indipendente dal
turismo, ma non chiuso ad esso, di valore plurale (generazioni, sessi) e che esso possa essere progettato
come una sorta di “monumento” della identità presente anche in connessione con il museo.Le relazioni e le
voci delle persone insistono su una socievolezza necessaria e venuta meno: tra strutture
dell’associazionismo cattolico e laico che avevano avuto un ruolo centrale nella formazione della sensibilità e
nel creare rapporti di idee e di generazioni sembrerebbe importante la progettazione per il futuro e in modo
ovviamente attuale, di un pezzo della passata cultura di socialità e di formazione dell’intelligenza.
7.1.3
Luogo di cultura
Sembra nelle interviste di cogliere anche una perdita di centralità culturale attiva di Pienza, in un processo di
“oggettivazione” della sua qualità culturale e una perdita di profili socializzanti di intellettualità. Anche in tal
senso Pienza può scommettere su possibili istituzioni culturali e di ricerca, congeniali al proprio territorio,
costruendo in loco le premesse per una università dell’arte, o del gusto, o della “terra”, una istituzione ad alta
qualificazione, in cui invitare al Consorzio vari centri universitari e non, che faccia corsi alla cui base è il
territorio, e crei insieme modelli di lettura del territorio e pratiche d’uso turistico di studio e rispetto. Si tratta di
programmare un ruolo di Pienza nel rapporto con San Quirico e con Montepulciano e Montalcino nella
differenziazione di offerta ( ciò che risultò difficile a Monticchiello per la fattoria, può riuscire a Pienza, nel
tempo, in un altro contesto insediativo).
La possibile diversa visione tra il contesto di Pienza e quello di Monticchiello non è rilevante in termini di
proporzioni abitative, essa è tuttavia interessante per integrare ottiche possibili. Monticchiello ad esempio ha
perso un negozio di alimentari in centro a favore di un Bancomat, e continua a percepirsi sulla soglia del
tracollo demografico, e su questo piano probabilmente dovrebbe nei tempi lunghi riprogettare una maggiore
abitabilità senza auto del suo centro così irto. Tuttavia per ciò che concerne la socievolezza ha raggiunto
traguardi originalissimi, con la “pratica dell’obiettivo”, ovvero tenacemente perseguendo ciò che si voleva
ottenere, immaginando dei progetti di qualità e facendo il possibile per farli diventare veri. Per Pienza questa
possibilità si presenta come necessaria e possibile anche per la consistenza della popolazione, ma non
appare mossa da processi espliciti di supporto comunitario. In taluni casi la quantità minore della
popolazione è un fattore propulsivo anzichè negativo. E’ vero tuttavia che anche per interventi che appaino
irrealistici per la impossibilità dei comuni di disporre di luoghi privati e per il loro doveroso e obbligato
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Volume IV – Studi di antropologia
orientare e non imporre lo sviluppo, sono aggirabili attraverso la individuazione di spazi che possono essere
acquistati e usati per servizio. In tal senso molte esperienze dell’Italia centrale possono essere ripensate. Ma
è vero oggi che la vivibilità per i residenti del centro urbano è un indice fondamentale di qualità della vita e di
qualità del turismo, il contrario è un indicatore sottile di inizi di patologia e di perdita di qualità del turismo
stesso.
Per il forte nesso che connette qualità ambientale, storica, cultura, memoria, vissuto del passato, sarebbe
utile anche una specifica riflessione progettuale con esperti di “economia della cultura”e di antropologia del
turismo.
Dalle voci emergenti dai nastri registrati dei due ricercatori che hanno operato a Pienza e dialogato con chi ci
vive mi è sembrato che si potessero cogliere queste evidenze progettuali. Al confronto ulteriore tra i settori e
con l’amministrazione un approccio più confrontato e discusso, per una relazione finale.
Per comodità di consultazione le relazioni di Scarpelli e Trupiano vengono anticipate da un riassunto del
loro contenuto.
7.2
Il passato, la memoria, il luogo
7.2.1
Introduzione
Il tema di questo contributo è il modo in cui il passato viene ricostruito, rappresentato, valorizzato dai cittadini
del Comune di Pienza, sia nelle conversazioni informali alle quali chi scrive ha partecipato durante la sua
permanenza sul terreno, sia nelle interviste audioregistrate. Brani di queste ultime verranno inframmezzati
all’esposizione, ma – sia per ragioni di spazio che, a volte, di riservatezza – non sarà possibile
contestualizzarle come si dovrebbe, cioè legarle in modo preciso alla personalità dei parlanti, né comunque
discuterle in dettaglio. Tenendo conto di questo, non si intende utilizzarle per avvalorare quanto qui
sostenuto, ma se mai per illustrarlo, offrendo qualche esempio, con l’andamento tipico della comunicazione
orale, dei molteplici discorsi che riguardano la memoria storica, la nostalgia, e in generale la produzione di
una consapevolezza locale del passato, tentando naturalmente di non occultare la molteplicità dei punti di
vista e le frequenti divergenze fra di essi.
Ciò che si vuol mettere in luce sono appunto alcuni usi sociali della memoria, che contribuiscono alla
1
produzione del “senso del luogo” per coloro che vi abitano e vi conducono la loro vita e le loro attività.
Questo processo comprende la selezione e valorizzazione di alcuni elementi piuttosto che di altri, la
costruzione e la circolazione di stereotipi, l’uso di determinati modelli retorici e schemi narrativi. Tutto ciò è
inerente alla incessante produzione e condivisione di discorsi e rappresentazioni, e non è assolutamente in
contrasto con la “conoscenza fattuale” della propria storia, che anzi in quest’angolo di Toscana appare
spesso particolarmente accurata.
Potremmo chiederci quale rilevanza, e in definitiva quale utilità, si può trovare in un tema del genere in
relazione alle necessità amministrative e di pianificazione. In prima battuta va riconosciuto che si tratta di
uno sguardo parziale, impossibilitato a mettere a fuoco con precisione ogni aspetto della realtà indagata. I
discorsi incentrati sul passato non esauriscono quella che potremmo chiamare “l’opinione pubblica” pientina,
né, ovviamente, possono rendere conto dell’insieme dei comportamenti sociali. D’altra parte, però, è giusto
mettere in guardia contro una contrapposizione, forse istintiva, ma gravemente erronea, del senso del
passato a quello del futuro, ad esempio supponendo che la nostalgia corrisponda semplicemente a uno
sguardo retrospettivo e ad un atteggiamento “passatista”. L’intuizione di Benjamin che «l’idea di felicità che
possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra
2
vita», suggerisce come la proiezione dal passato e quella nel passato, vengano in molti sensi a coincidere:
è la lettura del presente a guidare verso il recupero di una certa felicità perduta. È un passato recuperato «in
1
2
L’espressione “senso del luogo” fa riferimento a un’importante raccolta di saggi antropologici curata da Steven Feld e
Keith A. Basso, Senses of Place (School of American Research Press, Santa Fe 1996).
Walter Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus. Saggi e frammenti. Einaudi, Torino 1995 p. 75
(prima edizione italiana Einaudi 1962). Edizione originale in Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955.
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Volume IV – Studi di antropologia
3
maniera produttiva in quanto necessario al presente», e che anzi può costituire un autentico investimento
immaginativo in un futuro possibile, oltre che, ovviamente, una implicita critica a determinati aspetti della
realtà attuale.
Anche i moderni studi sulla memoria hanno sottolineato come i ricordi non vengano semplicemente
immagazzinati e richiamati, ma come, sia al momento della loro codificazione, sia in quello del loro recupero,
siano organizzati, e in qualche misura modellati, dalla necessità di avere un senso attuale per il soggetto. Il
che è particolarmente vero per le memorie che vengono condivise con altri, spesso in forma narrativa,
secondo schemi e risorse significative socializzate. Ricordare non è quindi una mera registrazione degli
eventi, ma a tutti gli effetti un’azione sempre nuova, un processo di ri-costruzione, che non fa riferimento a
4
un mondo separato e stabilito una volta per tutte.
Parallelamente, nel panorama attuale degli studi antropologici si riscontra una costante attenzione a mettere
in luce il carattere continuamente rinegoziato e in fieri di ciò che siamo soliti chiamare il patrimonio storico e
culturale di un luogo. I processi di patrimonializzazione, «le strategie retoriche di costruzione/esibizione della
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memoria», costituiscono una dimensione fortemente attuale (e proiettata verso il futuro) dell’elaborazione di
un’identità civica e culturale. Gli oggetti, i luoghi, i saperi, i racconti, i discorsi che vengono selezionati e
valorizzati come patrimonio – quali che siano l’accuratezza e la fondatezza delle ragioni di una certa
selezione – sono pertanto inseparabili dalle dinamiche sociali e politiche che hanno luogo in un determinato
contesto, sia a livello “ufficiale” che nel corso della vita e delle conversazioni quotidiane, sia a livello locale,
che nella proiezione verso il mondo (e il mercato) globale. Se mai, preciserei che per chi scrive il carattere
potenzialmente conflittuale e comunque “giocato” di questi oggetti e di questi segni non corrisponde alla loro
strumentalità. Più che considerarli “armi” in uno scontro fra gruppi d’interesse consapevoli, li leggerei come
6
risorse di senso costantemente rimodellate (come le memorie) dalla varietà dei loro usi sociali.
Inoltre, nel territorio di Pienza, la conflittualità di questa memoria, anche se non assente, sembra comunque
manifestarsi all’interno di cornici generalmente condivise. Relativamente rari appaiono insomma i casi di una
memoria radicalmente “divisa”, più frequenti se mai accentuazioni diverse, e concorrenti, all’interno di uno
stesso quadro.
Fin qui si è parlato genericamente di “passato”, ma a questo punto è forse utile distinguere tra due tipi
differenti. Da una parte c’è un passato vissuto, intrecciato e composto di memorie personali, dal forte
carattere privato, emozionalmente carico, spesso oggetto di nostalgia. Dall’altra un passato storico, più
lontano, intensamente “ufficiale” almeno nelle sue grandi linee, più dipendente da una qualche
autorevolezza storiografica. Anche se nel nostro campo questa, come tutte le tipologie, va presa con
cautela, è interessante notare come in genere il passato più vicino venga riproposto soprattutto in
discontinuità col presente, mentre il passato storico, o la parte di esso che viene selezionata, tende a
presentarsi invece nel segno di una sostanziale continuità. Da una parte, un vissuto felice recuperato – alla
3
4
5
6
Remo Bodei, “Le malattie della tradizione. Dimensioni e paradossi del tempo di Walter Benjamin”, scaricato dal sito
del Centro Studi Walter Benjamin, ma originariamente in Walter Benjamin: tempo, storia, linguaggio, Editori Riuniti,
Roma 1982. Se mai si può notare come in Benjamin la proiezione del presente nel passato avvenga sostanzialmente
al negativo, un negativo che corrisponde alla vita alienata da riscattare, in un rapporto segnato da traumi, redenzioni,
“illuminazioni”, mettendo forse in secondo piano il lavoro quotidiano di ritessitura del senso, con le sue piccole
discontinuità.
Per dare qualche riferimento su diverse prospettive nello studio della memoria, si possono citare Paul Connerton,
How societies remember. Cambridge University Press, Cambridge 1989. Edizione italiana: Come le società
ricordano. Armando, Roma 1999; Gerald M. Edelman, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993 (edizione
originale: Bright air, brilliant fire. On the matter of mind, Basic Books, New York 1992); Giovanna Leone, La memoria
autobiografica. Conoscenze di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2001; Israel Rosenfield, L’invenzione della
memoria, Rizzoli, Milano 1989 (edizione originale: The invention of memory, Basic Books, New York 1988); Daniel L.
Schacter, Alla ricerca della memoria. Il cervello, la mente, il passato, Einaudi, Torino 2001 (edizione originale:
Searching for memory. The brain, the mind and the past, Basic Books, New York 1996). Per il rapporto tra gli studi
antropologici e il tema della memoria, Fabio Dei, “Antropologia e memoria. Prospettive di un nuovo rapporto con la
storia”, in Novecento n. 10, gennaio- giugno 2004.
Berardino Palumbo, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia Orientale. Meltemi, Roma
2003.
Per una più precisa puntualizzazione di questo tema: Fabio Dei, “Antropologia critica e politiche del patrimonio”, in
Antropologia museale, anno I, numero 2 (2002); e anche il suo libro Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura
popolare, Meltemi, Roma 2002.
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Volume IV – Studi di antropologia
Benjamin – in contrapposizione a grandi o piccoli problemi del presente, dall’altra l’idea di un genius loci, una
storia che a volte si ripete, o un’autenticità che risale il corso del tempo.
È evidente che a diverse generazioni corrispondono diversi vissuti storici, per cui un determinato periodo
tende alla “storia ufficiale” per un interlocutore, mentre è parte del vissuto per un altro. E bisogna anche
tenere conto del fatto che a livello sociale il tempo è spesso letto in termini generazionali, e le singole
generazioni vengono identificate con alcuni macrofenomeni sociali che funzionano da etichette per il tempo
che è capitato di vivere.
Le periodizzazioni, e il punto in cui si decide di collocare una determinata cesura nel tempo, sono elementi
chiave della costruzione dei discorsi sul proprio passato e, quindi su se stessi. Rappresentano gli architravi
della propria appartenenza generazionale e allo stesso tempo della costruzione di una lettura dei tempi
passati capace di individuare carenze e possibilità del presente. Ovviamente, sono anche tra gli elementi
fondamentali di una memoria storica non vissuta e “identitaria”.
7.2.2
Il passato storico
7.2.2.1
Storia di due città
Parlare del passato storico significa cercare di ricostruire quali, fra gli innumerevoli riferimenti disponibili,
vengano effettivamente selezionati e valorizzati, e con quali modalità. Questo passato distante, spesso
“ufficiale” e dipendente da criteri di accuratezza storiografica, viene utilizzato sostanzialmente in continuità
col presente, individuando le origini – o qualche volta l’essenza – di certe caratteristiche locali. Non bisogna
però dimenticare che gli aspetti da sottolineare e il modo in cui sottolinearli non sono dati una volta per tutte,
ma mutano insieme alla sensibilità dei parlanti, dimostrandosi parte integrante della lettura attuale del
territorio. L’idea non è che i discorsi sul passato storico siano costruiti meramente in funzione del presente
(quindi strumentali), ma piuttosto che, essendo prodotti nel presente, facciano ricorso ai suoi strumenti
conoscitivi, alle sue risorse di senso, ai suoi concetti, condivisi o conflittuali che siano. Oltre ai discorsi
quotidiani e alle interviste, possono risultare utili in questo campo una serie di pubblicazioni locali più o meno
7
riconducibili al genere della guida turistica.
A questi passati lontani, selezionati e ricostruiti nel loro fascino e nel loro prestigio, fanno riferimento, prima
di tutto, le diverse realtà comprese nel territorio del Comune. La contrapposizione più evidente, nello schema
classico del campanilismo, è quella che oppone Pienza a Monticchiello, storicamente comuni separati (e
talvolta ostili) fino alla riforma leopoldina del 1778 che ha amministrativamente incluso Monticchiello nel
Comune di Pienza. Questa contrapposizione corrisponde a una selezione di riferimenti storici e di
interpretazioni. Può essere esemplificata dalla rappresentazione di Pienza nelle nostre interviste come
“gioiellino”, “bomboniera”, “salotto”, o addirittura “macchina per la serenità”, e da quella di Monticchiello come
castello assediato (ad esempio nel libro di don Vasco Neri, parroco assai rimpianto, e uno dei fondatori del
Teatro Povero). Contrasto piuttosto netto: da una parte l’armoniosa realizzazione degli ideali del
Rinascimento, dall’altra la tradizione di fiera indipendenza di un comune medievale.
Qui, ovviamente, bisogna evitare di cadere a propria volta preda di un’immagine ingenua del campanilismo.
Siamo ben consapevoli del fatto che la contrapposizione non ha tutta questa importanza nella maggior parte
delle circostanze, e che l’unità amministrativa dei due centri non ha portato sostanziali problemi. E siamo
anche consapevoli del fatto che il campanilismo è a volte un teatro, nel senso di un modo di mettersi in
scena, più che un elemento profondo e cognitivamente impegnativo. Entro questi ragionevoli limiti,
7
Sono state esaminate attentamente alcune delle numerose pubblicazioni di Fabio Pellegrini: Messaggi nel tufo. Dalla
pieve di Corsignano alla Val d’Orcia, Editrice Grafica l’Etruria, Cortona 1989; Viaggio a piedi dalle Crete Senesi a
Montalcino alla Val d’Orcia (in collaborazione con Marco Montori), Editrice Grafica l’Etruria, Cortona 1989; Sulle orme
di Bacco. A piedi… attraverso strade dimenticate nel paesaggio della memoria… fra Sarteano, Chianciano,
Montepulciano e Pienza, Editrice Grafica l’Etruria, Cortona 1991; Pienza – il sogno dell’umanista. Guida per
viaggiatori sentimentali, Editoriale Donchisciotte, Arezzo 1995; Guida alla Valdorcia nascosta esoterica naturale.
Guida per viaggiatori sentimentali, Arti Tipografiche Toscane, Cortona 2000; Pienza. La città utopia, Edizioni Brunetto
Martini (anno non specificato). Di altri autori sono state esaminate: Vasco Neri, Monticchiello. Storia di una comunità,
II edizione, Cantagalli, Siena 1986 (edizione originale 1975). Alberto Dondoli & Umberto Bindi, Il romitorio di Pienza –
ed altri luoghi di culto, Pienza 1998. Paolo Torriti (a cura di) Monticchiello. Arte, storia, itinerari, Betti Editrice, Siena
1999. Umberto Bindi, Pienza – i luoghi dell’acqua. Dalle fonti della Pieve di Corsignano alla Bonifica della Val d’Orcia,
(con la collaborazione di Francesco Dondoli) Editrice Le Balze, Montepulciano 2002.
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Volume IV – Studi di antropologia
comunque, la caratterizzazione storica rimane chiaramente differente, e viene utilizzata nei discorsi che
hanno tono campanilistico, e in generale nella illustrazione, a volte seria a volte meno, delle rispettive
identità e modi di comportarsi.
«I pientini son fatti così, non hanno spirito di aggregazione (…), son solitari, mentre lo spirito del castello, che quando c’è necessità tutti
accorrono a Monticchiello c’è rimasto pari pari. A Monticchiello son così, gli odi che hanno fra di sé passano comunque in secondo
piano quando c’è un progetto comune, gli odi!»
«Monticchiello era un forte e Pienza era una cittadina rinascimentale, sicché erano soldatacci e venivano trattati… Poi Monticchiello ha
coltivato un livore verso Pienza che non c’entra niente perché il Granduca di Toscana gli tolse la bandiera, cioè praticamente smise di
essere comune, e diventarono frazione di Pienza, cosa che non hanno digerito in trecento anni, non l’hanno digerita.»
«[la gente di Pienza] Sembra un popolo di… Un altro mondo. Brave persone, per carità, però son strani.»
«Qui mi sembra che siano molto più coinvolti o per lo meno anche le persone quando c’è qualcosa accolgono bene quel poco che c’è,
cercano di diventare anche loro partecipi a quello che si sta creando, a quello che sta nascendo, a Pienza invece vedo che la gente è
molto più sospettosa, anche quelli che non fanno niente criticano gli altri, senza fare niente per primi, però vedono che magari in
quell’associazione c’è quella persona che sta antipatica e allora sparano a zero su quelle cose lì e quindi poi si perde tutto.»
«[A Monticchiello] La gente è tutta brava gente, solidale fra loro, che non c’è per esempio qui da noi, questo bisogna riconoscerlo. È una
popolazione diversa, anche nel campo sociale, nel campo del volontariato, hanno tutta una concezione diversa, so’ una famiglia, ecco.»
Almeno in parte, le due diverse caratterizzazioni sembrano essere costruite in modo da distinguersi e talora
contrapporsi l’una all’altra. In una delle guide di Fabio Pellegrini si legge che «la trasformazione di
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Corsignano in città aperta (Pienza) ha presupposto la rinuncia ad una mentalità bellicosamente difensiva».
Le successive guerre, a cominciare da quelle tra Siena e gli ispano-medicei, in cui Pienza continuamente
passa di mano e viene saccheggiata, sembrano confermare che la città aperta, in quanto tale, non si può
difendere, e anzi gli eserciti teoricamente alleati non fanno danni inferiori a quelli nemici, cosa che si ripeterà
nel 1944, con il bombardamento degli angloamericani.
Questo parallelo tra l’ultima guerra e quelle cinquecentesche potrebbe essere involontariamente ricalcato su
quello suggerito anni prima, a proposito di Monticchiello, da don Vasco Neri, mettendo in parallelo la
battaglia partigiana del 6 aprile 1944 con le tante che l’avevano preceduta secoli prima («ancora una volta,
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dopo quattro secoli, Monticchiello è teatro di uno scontro armato»). Parallelo narrativo ripreso e potenziato
in una guida recente (che rende esplicitamente omaggio a quella di Vasco Neri): «Il valore degli abitanti di
Monticchiello non sembra essersi esaurito attraverso i secoli; infatti nel 1944, proprio a ridosso delle sue
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antiche mura, si combatté una sanguinosa battaglia.»
La caratterizzazione storica di questo centro è in effetti imperniata sull’immagine della fortezza, distintasi, al
contrario di Pienza, per le sue eroiche e risolute resistenze. È rivelatore il fatto che il Teatro Povero abbia
iniziato la sua attività con uno spettacolo sull’eroina di Monticchiello (personaggio dell’assedio più famoso,
quello imperiale del 1553), e abbia preso poi una direzione nuova, più realistica, con uno spettacolo sul 6
aprile del ’44. Successivamente, è passato a problematizzare un’attualità che viene spesso descritta come
resistenza a un nuovo tipo di minaccia, quello dello spopolamento, dello sradicamento, della perdita dei
servizi, della disgregazione sociale. Con quest’ultimo passaggio si è passati a un riferimento puramente
metaforico, certo, ma questa metafora dello stringersi di fronte al pericolo è estremamente viva nei discorsi
quotidiani su Monticchiello.
Della resistenza il Teatro Povero rappresenta a tutti gli effetti il “quartier generale”. Lo rappresenta come atto
di autoaffermazione e occasione di socialità, per cui moltissimi monticchiellesi dicono che senza il Teatro
forse “non potrebbero” rimanere a Monticchiello. E lo rappresenta anche fisicamente, con i molteplici usi del
suo granaio e con la progettata apertura di una nuova sala che dovrebbe rispondere al problema, anche qui
molto sentito, di una scarsità di luoghi di incontro.
La continuità, storica e metaforica, fa costante riferimento alla solidarietà. Al contrario di Pienza,
Monticchiello è esplicitamente caratterizzato come una comunità, a volte addirittura come “una famiglia”. La
solidarietà evocata tende ad avere i tratti pratici e concreti del darsi da fare, del cooperare, mettendo da
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9
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Fabio Pellegrini, Pienza. La città utopia, cit., pag. 36.
Vasco Neri, op. cit., pag. 54.
Paolo Torriti (a cura di), op. cit., pag. 28.
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Volume IV – Studi di antropologia
parte eventuali divergenze, per le cose veramente necessarie. Anche il Teatro, nelle parole di uno dei nostri
interlocutori, nasce in fondo «per far conoscere Monticchiello… e per far asfalta’ le strade».
A dimostrazione di come le rappresentazioni divergenti delle due città abbiano un lato simbiotico, spesso
sono gli stessi “rivali” pientini a utilizzare il cliché comunitario di Monticchiello come punto di riferimento per
valutare le proprie difficoltà. Ed è di fronte al centro più grande, più famoso, e capoluogo, che Monticchiello
rivendica una propria supremazia in termini di spirito civico.
Ciò nonostante, o forse proprio per questo, in diverse occasioni gli stessi monticchiellesi mostrano di
diffidare dello stereotipo che li riguarda, come se l’uso della figura del genius loci desse per scontato ciò che
invece si costruisce giorno per giorno, suggerendo una situazione idilliaca invece di stimolare una reazione
alle nuove sfide dell’attualità. Il pericolo è in generale quello di sparire in un’assoluta marginalità rispetto alle
grandi correnti del mondo globalizzato, di perdere una minima consistenza demografica, di non poter
mantenere negozi e servizi, di non stare dietro al prezzo delle abitazioni, di diventare un paese di seconde
case. Ancora una volta, c’è da darsi da fare per inventare un futuro. Ma le generazioni giovani sembrano più
difficili da coinvolgere nelle storiche istituzioni comunitarie del Teatro e della banda, tanto che qua e là affiora
la sensazione che sia necessario cominciare a pensare a qualcos’altro, a fianco al Teatro, se non addirittura
al suo posto, come a volte dicono i più pessimisti. La discussione è, come di consueto, aperta ed esplicita.
«Poi il paese si è spopolato e resta comunque questa cosa forte del Teatro che sinceramente se, io sinceramente mi pongo spesso
questa domanda, se non ci fosse il Teatro non lo so se starei sempre qui.»
«È senz’altro la cosa più importante che ci sia a Monticchiello, però ecco c’è un’altra fascia della popolazione, in modo particolare
giovani ventenni, trentenni, che non sono rappresentati dal Teatro, non si riconoscono nel Teatro, anzi ci sono anche degli episodi di
polemica verso il Teatro. È un po’ agiografico questa immagine del Teatro che rappresenta tutti, stimola tutti. È un’immagine proprio
agiografica, da santino!»
«Non è che tutti i giorni ci si abbraccia e ci si bacia come pensa qualcuno, abbiamo anche noi i nostri problemi, le nostre invidiette, le
nostre cose, com’è normale.»
Per quanto riguarda invece Pienza, il momento storico centrale è evidentemente quello della sua
fondazione, eroe eponimo il papa fondatore, e numi tutelari gli artisti e gli intellettuali della sua corte. Le
immagini essenziali fanno riferimento alla qualità estetica, sotto il segno della raffinatezza, non della
semplicità. Una qualità fragile, bisognosa di un’attenta cura da parte di chi l’utilizza. Si può riscontrare
un’attenzione e una sensibilità particolare per l’arredo urbano, che trova un precedente nella bolla di Pio II
che puniva con la scomunica qualsiasi manomissione o aggiunta. Pertanto, qualsiasi modifica rischia di
esser definita “scempio”, e altrettanto severi e attenti si è per quanto riguarda i differenti aspetti della qualità
della vita, a cominciare dal cibo e dal rumore.
Ma la storia di questa fondazione, va oltre la constatazione dell’eccellenza dei singoli monumenti e sottolinea
la peculiare armonia dell’insieme. La bellezza qui ha un carattere particolarmente organico e deliberato,
riconosciuto anche nei documenti dell’UNESCO che la dichiarano Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Pienza è
una sorta di archetipo della città ideale, realizzazione perfetta degli ideali rinascimentali di Pio II, del
Rossellino e di Leon Battista Alberti. Quest’ultimo spesso si suppone coinvolto direttamente nella
realizzazione, come se il suo allievo, dotato di riconosciuta perizia, ma non di un pensiero “forte”, non
potesse aver fatto da sé.
Il risultato sarebbe un esempio perfetto di luogo a misura d’uomo in cui convergono un valore estetico anche
molto sofisticato e l’attenzione alla piacevolezza e vivibilità quotidiana. Una fusione riuscita di estetico ed
edonistico, una bellezza non perturbante ma armonica e accogliente. Ma è il caso di tenere in
considerazione anche un criterio moderno di valutazione dei luoghi, la qualità della vita, formula
onnipresente, sintetica e oggettivante, che dà luogo a innumerevoli e ben pubblicizzate casistiche e
misurazioni. Il mondo contemporaneo delle classifiche della qualità della vita e gli ideali rinascimentali
contribuiscono, insieme, all’immagine di una serenità inscritta nelle pietre dei palazzi e nel disegno delle
strade, che si ritrova spesso anche nelle parole di chi ha deciso di trasferirsi qui.
È vero che si sente dire che i pientini non conoscano i loro musei, ma è almeno altrettanto diffusa l’opinione
che qualcosa della qualità del posto filtri comunque nella personalità dei suoi abitanti, accomunandoli per
una speciale sensibilità edonistico-artistica, che fra l’altro rende particolarmente diffusi gli “hobbies artistici”
come dipingere, fotografare, suonare uno strumento. Le stesse maestre tendono a dire che i bambini di
Pienza, in questi campi, hanno qualcosa più degli altri.
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Volume IV – Studi di antropologia
In questo quadro è ovvio che il rischio (e per i pessimisti la direzione della storia, dopo l’unicum della
fondazione), non sia tanto la marginalizzazione o la scomparsa, ma una degenerazione qualitativa dello
stesso piacere di vivere qui. Un imbarbarimento che oggi, come vedremo, mostra più che altro i tratti
dell’invasione, della commercializzazione e della falsificazione.
«I ragazzi di Pienza hanno una marcia in più (…). Qui c’hanno veramente un gusto… se viene da quello che vedono quando nascono o
se gli viene dalle famiglie, se c’è già nel DNA… se ci nascono già io non lo so.»
«Noi la frase che sentiamo in assoluto di più è: Come mi piacerebbe venire ad abitare qui! Proprio dal più ignorante al più alto
intellettualmente. Il che vuol dire che è un messaggio che colpisce fortemente, ed è esattamente quel messaggio che hanno voluto
trasmettere coloro che l’hanno costruita. Questo è stato teorizzato e scritto, cosa doveva essere, cosa doveva stimolare un luogo fatto
con determinati criteri; quindi doveva abbassare l’aggressività, doveva aumentare la voglia di stare, la meditazione, e quando tu vai via
da un luogo così ti volti per guardarlo un’ultima volta. E questo lo scriveva Leon Battista Alberti vent’anni prima che l’idea di Pienza,
diciamo, venisse messa in pratica. La cosa che stupisce è che questo effetto, questo sistema, questa macchina, diciamo, che deve
produrre un certo tipo di sentimento, funziona (…). Una macchina per la serenità.»
«Quando son venuto qui nel settantotto ho avuto una specie di folgorazione ma senza… come si può chiamarla, senza un’emozione
che mi sconvolgesse.»
7.2.2.2
La Val d’Orcia
Nelle Prime note per il disegno di governo propedeutiche ai lavori per il nuovo Piano Strutturale, il Comune
veniva diviso in tre parti: Pienza, Monticchiello, e il territorio aperto. Per i nostri fini, questo territorio aperto
può essere chiamato semplicemente Val d’Orcia. In buona misura, infatti, la realtà della campagna e dei suoi
agglomerati (ormai praticamente spopolati) è incorporata nell’immagine del suo lato valdorciano. A questa
incorporazione simbolica ha collaborato sicuramente (anche se alle volte è lamentata una certa mancanza di
politiche attive) l’invenzione del Parco della Val d’Orcia, che ha parallelamente contribuito ad “avvicinare” gli
altri quattro comuni valdorciani. Questa identità ad ampio raggio si è fatta preferire al precedente legame
(anche amministrativo) con la Val di Chiana e Montepulciano, ed entra probabilmente in gioco nell’attuale
polemica politica sulla possibile adesione di Pienza a una comunità montana comprendente anche i comuni
“amiatini” di Abbadia e Piancastagnaio.
Una dinamica complessiva tende ad affermare la Val d’Orcia come un marchio di qualità a tutto tondo.
L’espressione allude evidentemente alla promozione di diverse produzioni agroalimentari tipiche. Ma va
sottolineato come l’identità e il pregio del luogo Val d’Orcia dipendano anche fortemente dall’occhio
fotografico (e cinematografico) che l’ha scelta, con i suoi pendii morbidi, le strade curvilinee e i filari di
cipressi, come soggetto o sfondo particolarmente apprezzato di foto artistiche, spot pubblicitari e
lungometraggi. Un paesaggio particolarmente pregiato, secondo criteri intensamente estetici e visuali: le
varietà del cromatismo nelle diverse stagioni, la nitidezza della luce. Come ho sentito dire da un pientino
appassionato di fotografia (e non sono pochi), di fronte all’obiettivo la Val d’Orcia «sembra che si metta in
posa».
La “personalità” specifica di questo paesaggio dipende dal suo carattere storicamente assai antropizzato e
lavorato. La Val d’Orcia non si presenta sotto il segno della bellezza selvaggia e incontaminata, ma ancora
11
una volta come frutto di un’armonia costruita dall’uomo. Come nel caso dell’East Anglia di cui parla Frake,
si tratta di un equilibrio ereditato ma non originario, che va difeso sia dallo sfruttamento selvaggio che
dall’inselvatichimento naturale.
Di questo pregio umano e storico vengono individuate diverse ascendenze. La prima è probabilmente quella
più influente, ed in un certo senso più “ufficiale”. Sulla mappa dei siti che sono stati dichiarati Patrimonio
Mondiale dell’Umanità, si vedono oggi due puntini rossi praticamente sovrapposti; il primo corrisponde a
Pienza, entrata nella lista nel 1996; il secondo, da qualche mese, alla Val d’Orcia. Oltre ai puntini, si
sovrappongono in sostanza anche le ragioni della prestigiosa iscrizione: come si legge nelle motivazioni
12
dell’UNESCO, la Val d’Orcia è frutto del «modo in cui il paesaggio venne ridisegnato nel Rinascimento per
riflettere gli ideali di buon governo e per creare scorci esteticamente gradevoli». Il Rinascimento è
11
Charles O. Frake, “Pleasant places, past times and sheltered identity in rural East Anglia”, in Steven Feld & Keith H.
Basso (a cura di) Senses of Place, cit..,pag. 250-251.
12
Leggibili sul sito Unesco World Heritage Centre: http://whc.unesco.org.
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Volume IV – Studi di antropologia
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naturalmente uno dei tratti identificanti il nostro patrimonio artistico su scala nazionale, ma la quasi perfetta
sovrapposizione tra la lettura di Pienza e quella del paesaggio valdorciano racconta anche un’altra storia.
Direi che la logica del Patrimonio Mondiale dell’Umanità unisca un’idea universalista (umanità) e una
maggiormente localizzata (patrimonio), in una “significatività” universalmente umana (e generalmente “alta”)
ma con un “senso” specifico da cogliere nel contesto storico e culturale. Un senso che più si esce dai grandi
centri col loro status di capitali attuali o passate, più si localizza. Pienza e la Val d’Orcia, in effetti, sono nel
mezzo tra la dimensione più locale e quella statale (visto il legame storico col pontificato di Pio II). A ciò
bisogna unire la considerazione che l’attuale mercato turistico globale vede una parte consistente della
competizione svolgersi al livello delle autonomie locali, dei comuni, che per promuovere il proprio pregio e la
14
propria autenticità, a volte scelgono anche di consorziarsi, come in Val d’Orcia. Nella competizione
internazionale a largo raggio, cui si rivolge elettivamente la lista dell’UNESCO, la scelta più valida è stata la
valorizzazione del Rinascimento e di un’unione (come vedremo, molto “pientina” e molto contemporanea) di
estetica e vivibilità.
Una seconda spiegazione storica di un paesaggio tanto apprezzato prende una direzione più “popolare”
rispetto all’illuminata pianificazione di papi e umanisti, valorizzando il lavoro secolare delle popolazioni rurali.
In qualche circostanza, si recupera un brandello dell’ideologia “moderata” ottocentesca, che cercava di
propagandare della mezzadria un’immagine di armoniosa condivisione di responsabilità e composizione di
interessi. Una popolazione storicamente abituata a partecipare, sia pure in posizione subalterna, alla
gestione del territorio e a ragionare sui tempi lunghi, si sarebbe mostrata particolarmente capace di
difenderlo sia dall’incuria che dagli eccessi della modernizzazione, una volta chiamata a gestirlo
democraticamente. Questa interpretazione fa capolino soprattutto quando si tratta di spiegare il particolare
stato di conservazione della campagna locale, o senese, o genericamente toscana, rispetto agli “scempi” e
ai disastri di altre aree d’Italia.
A sottolineare ulteriormente la complessità, irriducibile a ogni astratta coerenza, di queste immagini e di
queste valutazioni, il paesaggio agricolo attuale, caratterizzato dalla monocoltura, sarebbe però abbastanza
diverso da quello di epoca mezzadrile, e forse più simile a come doveva apparire la Val d’Orcia nel
medioevo. Il medioevo, stavolta, non è quello delle fortezze arroccate, che si contrappongono alla “città
aperta” Pienza, ma è forse più che altro il medioevo rurale delle pievi (a cominciare da quella di Corsignano),
che può funzionare come trait d’union tra il lato artistico e “alto”, e la civiltà contadina.
Le immagini della madonna celano dee della fertilità e le fonti vicine erano venerate per il loro potere
vitalizzante. Si suggerisce spesso un’interpretazione del cattolicesimo popolare della campagna come un
vero e proprio paganesimo, giunto quasi inalterato alle soglie del mondo contemporaneo, e proveniente da
un’ultima antichità, particolarmente profonda, ma anch’essa recuperata e riproposta a partire da suggestioni
contemporanee. Si offre cioè una chiave di interpretazione di tutta la storia dell’insediamento umano in Val
d’Orcia (che si suppone particolarmente antica) come, appunto, un’unica storia, quella della gente che
l’abitata e della sua spiritualità legata alla natura e alla terra, eventualmente leggibile in chiave ecologista o,
volendo, persino vagamente new age, e messa in pericolo solo dai drastici cambiamenti della seconda metà
del Novecento.
«Anche se non avevi fatto quasi niente, però già l’idea di questo parco funziona pe’ fa’ veni’ a visita’ la Val d’Orcia (…). Ha funzionato,
capito, prima per curiosità per vede’ com’era questo parco… il territorio è bellissimo, la Val d’Orcia, dico, non è una cosa… Che poi
probabilmente è l’unica vallata al mondo che sia messa in questo modo, perché poi è bella d’estate, in primavera, è bella d’estate
quando c’è il grano tutto maturo, se vedi sto grano maturo la sera, specialmente nel tramonto del sole è tutto uno spettacolo, dico, no?
E poi è bella anche dopo, quando è uscito il grano, che è lavorato, tutto, tutti questi colori che c’è, è bellissimo, no?»
«Il Parco è nato anche per tutelare queste cose, ecco. Nelle finalità c’è conservare il bello, l’ambiente, conservare il bello.»
«Qui senti… le persone che hanno vissuto qui le vedi quasi, le senti ancora, vedi i lavori che hanno fatto, la natura che hanno
trasformato, i campi che hanno coltivato, le terre che hanno smosso, i sassi che hanno… i muretti. E poi c’è questa luce bellissima, se
tu fai una foto qui, o una diapositiva, ti accorgi di come sia particolare la luce qui, specialmente in inverno.»
«Io penso che in certe cose dal ‘500 al ’49 non c’era nessuna differenza in campagna (…). Io ricordo che mio nonno che aveva 96 anni,
era del 1880, e io ho vissuto moltissimo con lui, che è campato parecchio, lui parlava, aveva il linguaggio, che io ho potuto riscontrare,
grossomodo, in gran parte, era il linguaggio del Machiavelli e del Guicciardini… Quando parlava, io mi segnavo tutto.»
13
Un’ipotesi di interpretazione della logica universalista dell’unesco in termini riconducibili al meccanismo identitario del
nazionalismo si trova in Berardino Palumbo, L’Unesco e il campanile, cit., pag 350 sgg.
14
Dell’Europa delle “città-stato” in competizione parla John Urry, op. cit, pag. 169-170.
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Volume IV – Studi di antropologia
7.2.3
Il passato della civiltà contadina
7.2.3.1
I due sensi della “sconfitta” mezzadrile
Nel passato direttamente vissuto dai testimoni, invece, la ricostruzione e il giudizio storico si presentano
inestricabilmente intrecciati ai ricordi personali. La nostalgia entra dunque in gioco come ulteriore elemento
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valorizzatore. Non si tratta di appiattire l’uno sull’altro aspetto, ad esempio ipotizzando che un generico
rimpianto della giovinezza – magari visto come qualcosa di “universale” – porti a offrire un’immagine
edulcorata dei tempi che è capitato di vivere. Di quei tempi, infatti, i testimoni sono altrettanto in grado di
indicare gli elementi di sofferenza e difficoltà. Malgrado il tono spesso chiaramente personale, invece, una
determinata ricostruzione, e la selezione di certi elementi positivi o negativi del passato, avviene in rapporto
a una situazione successiva.
«Non mi piace questo mondo non mi piace… e quindi… per me è comunque vincente il riferimento… Anzi, direi che in qualche modo mi
fa da guida, no, ma il concetto è questo… tutte le volte che mi confronto con il mondo (…), per me la realtà contadina è in qualche
modo un rifugio, un rifugio mentale.»
Le periodizzazioni, come si è detto, fanno parte delle operazioni attraverso le quali si scelgono gli elementi
da valorizzare e si istituiscono, implicitamente o esplicitamente, contrapposizioni cariche di significato. La
collocazione dei punti di svolta è essenziale nella caratterizzazione del passato e del presente.
16
Uno di questi punti di svolta ci è piuttosto noto, la «frattura della modernità» che ha avuto luogo tra gli anni
cinquanta e sessanta del Novecento, segnando nelle tante aree agricole del nostro paese il passaggio dalla
dimensione di un vivere “tradizionale”, dalla cosiddetta “civiltà contadina”, alla modernità del benessere e del
consumismo. Una grande trasformazione del sistema produttivo, della struttura occupazionale, di quella
abitativa, delle abitudini di consumo, delle disponibilità tecnologiche, dei sistemi di comunicazione e dei
costumi della vita privata e familiare. Il punto non è, evidentemente, mettere in discussione questi fenomeni,
che comunque in ogni contesto si sono verificati con caratteristiche e ritmi particolari, ma notare come
questa idea di una svolta netta organizzi in molte parti d’Italia, e anche a Pienza, l’immagine del proprio
passato.
La fine della civiltà contadina è anche una storia di emigrazione e di sradicamento, quindi una storia
dolorosa, per quanto a Pienza probabilmente meno infausta che altrove. Almeno in parte, questa storia
coincide con il periodo delle lotte contadine per la modifica del contratto di mezzadria e poi per ottenere la
terra. Si tratta di un passaggio storico largamente partecipato, fondamentale per la trasformazione del
sistema economico e per la costituzione di un’identità politica che, mutatis mutandis, dura ancora oggi. È
stato in quel contesto di scontro, infatti, che il PCI ha saputo mettersi a capo dei movimenti di rivendicazione
mezzadrili, nonché della cultura e delle forme di partecipazione politica da essi scaturite.
Malgrado tutto ciò non sia certo sparito dalla memoria di coloro che quel periodo l’hanno vissuto, il
riferimento non è frequente e sentito quanto ci si aspetterebbe. Forse perché ad esso viene attribuito un
sostanziale carattere di sconfitta.
«I mezzadri che erano qui, dopo aver subito una sconfitta culturale, politica e sindacale, avevano solo brutti ricordi e se ne andarono.»
«Qui è stato il Partito Comunista per parecchie cose, con i sindacati. Che invece di aiutarli, qui si fa un discorso parecchio generale,
invece di aiutarli ad acquistare questi poderi, anzi gli misero i bastoni fra le ruote, e parecchi, chi comprò, alcuni comprarono il podere, e
dopo gli altri che non avevano comprato, non l’aiutavano neanche quando trebbiavano (…). Il podere doveva essere dato ai contadini
(…). Dopo l’hanno riconosciuto lo sbaglio che hanno fatto.»
È appena il caso di precisare che qui non si sta affatto tentando di dare un giudizio storico (e tantomeno un
giudizio storico negativo) sulle lotte contadine del secondo dopoguerra. Quello che ci sembra di riscontrare è
che oggi l’idea di una sconfitta caratterizzi la gran parte delle letture locali di quel periodo, anche se in due
sensi abbastanza diversi.
15
Per quanto riguarda la necessità di una valutazione antropologica della forza delle emozioni, e anche sul carattere
“culturale” e non universale di ciò che chiamiamo nostalgia, si può vedere il libro di Renato Rosaldo Culture and
Truth. The remaking of social analysis, Beacon Press, Boston 1989.
16
Prendo l’espressione da Pietro Clemente, «Oltre la frattura del tempo: diari e storie di vita di anziani» (1992),
compreso in Persone e fonti. Testi inediti, Università La Sapienza di Roma, dispense universitarie a.a. 1996/97.
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11
Volume IV – Studi di antropologia
Da una parte c’è un esempio di memoria “divisa”, probabilmente da ricondurre a una controversia risalente ai
tempi delle lotte medesime, e riguardante le scelte dei dirigenti del movimento. È abbastanza diffuso un
giudizio negativo sulla strategia scelta quando i vecchi proprietari terrieri, stanchi di portare avanti una
battaglia di retroguardia per la difesa dei vecchi privilegi, decisero di vendere i poderi. Lo slogan “la terra si
conquista, non si compra”, avrebbe di fatto favorito l’acquisizione dei poderi da parte di esterni (marchigiani e
sardi) disposti, appunto, a comprare: una prima ondata migratoria ormai piuttosto integrata, ma che
all’epoca, a quanto si intuisce, non fu indolore.
In questo primo senso, insomma, si rievoca una sconfitta politica ed economica dei mezzadri. Ma il giudizio e
la rievocazione non possono che avere i caratteri dell’oggi, e quindi in un certo senso del “senno di poi”.
L’occasione persa è quella di acquistare a prezzi contenuti (sia pure corrispondenti a lunghi mutui per i
mezzadri di allora) proprietà che oggi hanno acquistato un valore notevolissimo. Qui, si diceva, la memoria è
divisa, perché alcuni non fanno riferimento a questo presunto errore strategico, oppure lo considerano un
episodio momentaneo e marginale. A determinare il mancato acquisto delle terre da parte di chi le lavorava
sarebbero state sostanzialmente le manovre dei padroni, le condizioni economiche oggettive dei contadini
17
dell’epoca, e poco dopo il cambiamento storico di quelle condizioni.
Quest’ultima idea porta al secondo senso in cui il marchio della sconfitta si imprime sulla storia delle lotte
mezzadrili. In questo caso non si tratta tanto di una sconfitta economica (il benessere, in un modo o
nell’altro, è successivamente arrivato), ma di una sconfitta di fondo, o, se si vuole, culturale. Ed è probabile
che si tratti, almeno in parte, di una configurazione della memoria piuttosto recente. Qui si vede come quella
che abbiamo chiamato la “frattura della modernità” non sia semplicemente una constatazione relativa a
determinati fatti avvenuti, ma anche un modello di interpretazione attraverso il quale, a partire dall’oggi, si dà
senso al passato. Di fatto, le lotte mezzadrili di quest’area vengono rilette nella cornice di senso della fine
della civiltà contadina, di cui esse vengono a costituire un episodio (magari un prologo). E la civiltà
contadina, oggi, passata l’ondata modernista, tende ad essere rappresentata in termini sempre più positivi e
nostalgici.
«Alla fine degli anni ’60 c’è stata come una reazione, diciamo, di odio della gente verso le cose (…)per mettere in casa tutta roba
bianca, pulita, di formica (…). Sono stati i nipoti dei vecchi, che avendo studiato (…) si sono resi conto che loro avevano in casa,
nascosti sotto queste brutture che avevano fatto, quello che loro avevano visto nei film di Rossellini… quindi piano piano ognuno di noi
ha preso gusto a riscoprire quello che erano le sue radici.»
«Se avessimo fatto un restauro negli anni ’70 del casolare avremmo fatto come è successo in quegli anni là, hanno fatto i restauri
togliendo tutto quello che c’era di vecchio e facendo… magari lasciando solo la guscia esterna della casa, magari intonacandola, come
hanno fatto in tante case, mettendo il tetto di laterizio, mettendo delle piastrelle come son queste. E invece quel casolare là è rimasto
venti anni vuoto e quando l’abbiamo recuperato abbiamo consolidato le fondazioni, abbiamo sistemato il tetto per quanto riguarda la
coibentazione, però abbiamo lasciato tutti i materiali che ci sono: quindi c’è il tetto in legno, le volte in mattoni e, diciamo, che quella è
stata, non volendo è stata una fortuna.»
«Ne è passata d’acqua sotto i ponti, hanno perduto l’appartenenza a quella classe sociale, hanno dimenticato la povertà, son diventati
benestanti, e oggi si può anche sorridere del fatto che il padrone ti dava le bastonate addosso (…). Allora fa anche piacere ricordare
come eravamo, quando siamo diventati ricchi. E quindi si esibisce con orgoglio: io son partito da lì, questo era il coso del mi’ nonno,
questo era il letto della mi’ nonna, questa era la madia, sai, mia nonna qui ci faceva il pane.»
7.2.3.2
La comunità perduta
Anche le generazioni che durante il dopoguerra e il boom economico avevano condiviso il modernismo e il
ripudio del passato sembrano aver in qualche misura cambiato idea, facendo tornare alla mente quella
18
«percezione sempre più viva dei prezzi pagati» notata da Cirese già a metà degli anni ’70. Naturalmente
l’espressione prezzi pagati non deve far pensare a un semplice scambio tra la rinuncia alla propria “forma di
vita” e l’ottenimento di un maggior benessere, visto che, come è noto, alla trasformazione contribuirono
considerazioni non direttamente economiche, come il sentirsi ormai stretti delle donne e dei giovani nei ruoli
17
Una ricostruzione di questo tipo si ha in un libro di Emo Bonifazi, che prima fu tra i protagonisti del movimento
mezzadrile e poi divenne parlamentare del PCI (Bonifazi, Lotte contadine della Val d’Orcia, Supplemento al “Nuovo
Corriere Senese”, n. 45, 1979). Qui, appunto, quanto si imputa alla dirigenza dell’epoca,viene ricostruito come un
errore ben presto corretto, che non ebbe una influenza sostanziale sulla conclusione della vicenda.
18
Alberto Mario Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine. Einaudi, Torino 1977.
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12
Volume IV – Studi di antropologia
familiari tradizionali, e l’attrazione esercitata dalle possibilità di espressione e di svago offerte dalla moderna
19
vita urbana.
Col tempo, però, potrebbe essere ulteriormente cambiata la valutazione di ciò che è stato acquistato e di ciò
che è stato smarrito. Teniamo conto dell’importanza che ha assunto la nozione di qualità della vita, e
ciascuno degli elementi che la caratterizzano, come la purezza dell’aria, la genuinità alimentare, il contatto
con la natura, e una dimensione intima e comunitaria dei rapporti umani. Ma soprattutto, l’aspirazione a
questi beni non sembra più essere in contrasto con le possibilità legate all’avvenuta modernizzazione, come
una struttura meno gerarchica dei rapporti familiari, e forse nemmeno con la fruizione dei beni e delle
tecnologie. Se quindi, come sembra, l’aspirazione alle buone cose di una volta non è in contrasto, ma anzi fa
parte della nostra (post-) modernità, non c’è da stupirsi che il prezzo pagato possa sembrare non solo
esorbitante, ma in sostanza non da pagare. Il cambiamento di punto di vista porta a una trasformazione nella
sostanza del problema, per cui in un certo senso non si sta neppure più parlando di un prezzo, ma di una
perdita secca. Ecco in che senso la nostalgia, come “struttura di sentimento”, malgrado il suo linguaggio
“personale”, si dimostra tutt’altro che una sindrome passatista. Al contrario, rivela qualcosa dei valori
presenti, e delle immaginazioni di futuro.
In maniera anche più evidente, individua dei disvalori presenti nella situazione attuale. Michael Herzfeld
parla di una nostalgia strutturale le cui caratteristiche salienti sarebbero la capacità di riprodursi da una
generazione all’altra, e il riproporre dietro le differenze apparenti uno schema di fondo: l’opposizione tra un
20
passato all’insegna della reciprocità e l’egoismo che invece domina il presente. Questo concetto risente
dell’idea che alla base ci sia comunque quella sorta di macchina identitaria ed essenzializzante che è, per
Herzfeld, il nazionalismo, e forse dell’utilizzare il concetto di nostalgia come uno schema adatto allo stesso
modo al passato vissuto e a quello storico. Ma, lasciando da parte tutto ciò, l’opposizione tra la comunità di
una volta e l’esasperato individualismo odierno, è ampiamente attestata anche presso altri autori. Ad
esempio, abbiamo la nostalgia per la vecchia solidarietà operaia nel Lancashire industriale di cui parla John
21
Urry. Ma la incontriamo anche in realtà molto più vicine, ad esempio quando Alessandro Simonicca parla
del timore di disgregazione sociale a Chianciano Terme. Quella Chianciano che a Pienza è usata spesso
22
come esempio, o come contraltare, per quanto riguarda dinamiche e problemi dello sviluppo turistico.
Sulla base della nostra ricerca, non sembra impossibile riconoscere questo schema di fondo anche nella
rievocazione della società contadina a Pienza. La qualità della vita si è perduta o incrinata innanzitutto sul
piano umano, o per meglio dire comunitario. Guardando poi più da vicino i termini in cui questo schema
viene utilizzato, si può notare la compresenza, nella caratterizzazione offerta, del piano della solidarietà,
chiaramente simile alla reciprocità di Herzfeld, e di quello più “edonistico” della socievolezza. L’impressione
complessiva di chi scrive è che oggi a Pienza, nel rievocare il passato contadino, l’aspetto dell’aiuto
reciproco nel momento del bisogno sia certamente importante, ma non più dello stare insieme nel tempo
libero, o del costruire spazi ludici all’interno delle stesse attività lavorative.
«L’agricoltura era un’occasione per stare insieme, come ho detto, si andava a trebbiare e allora ci si trovava magari una ventina di
famiglie, e quelli più giovani, sa, anche se era dura, la polvere e tutte queste cose qui, era quasi un divertimento… S’andava per
esempio a cogliere l’uva, insomma. Erano tutte occasioni per stare insieme e magari la sera poi c’erano delle persone che cantavano
bene, le stornellate, ha capito, c’era la sdrusciatura del granturco, che tutti ognuno a sedere in questa grande sala col monte del
granturco… Insomma erano tutte cose che… Insomma, per esempio, era, come si dice, meno individualisti di loro, perché anche in una
famiglia magari che aveva più bisogno, che c’aveva delle persone magari… insomma, c’era un’altra armonia, perché tutti magari, quello
si sapeva, e o s’andava a aiutarli a fare una cosa o l’altra, ha capito. Oggi tutti individualisti, uno più furbo dell’altro, e bell’è fatto»
«Ecco, era tutta un’altra vita, era una cosa… Che poi eramo allegri, non c’era quella, come si dice, quell’odio che c’è ora…»
«Come fai a raccontà l’esperienza della vita nei poderi, diciamo, drammatica per certi aspetti, ma fai conto uno come me che l’ha
vissuto da ragazzino per cui delle campagne ha vissuto l’aspetto ludico e non l’aspetto problematico, io c’ho questo ricordo incredibile
con questo legame con la campagna.»
19
Pietro Clemente e Vera Pietrelli, “Subalternità” contadina: alcuni materiali orali sulla condizione mezzadrile e
bracciantile nel senese, 1980. Clemente, Coppi, Fineschi, Fresta, Pietrelli, Mezzadri, letterati, padroni. Nella
Toscana dell’Ottocento. Sellerio, Palermo 1980.
20
Michael Herzfeld, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2003. Edizione
originale Cultural Intimacy. Social Poetics in the Nation-State. Routledge, New York 1997.
21
John Urry, Consuming Places. Routledge, London 1995.
22
Alessandro Simonicca, Turismo e società complesse. Saggi antropologici. Meltemi, Roma 2004.
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13
Volume IV – Studi di antropologia
Parlare di “civiltà contadina” può dare l’impressione erronea che l’unico tema sia la vita nelle campagne,
dimenticando quella, diversa, dei centri come Pienza e Monticchiello. Gli studi sulla mezzadria hanno messo
in luce la netta divisione città-campagna, che portava spesso a forme di ostilità o discriminazione. La città
era il luogo dei braccianti, più poveri ed economicamente precari dei mezzadri; ma la sua caratterizzazione
immaginativa dipendeva anche dal mondo dei proprietari terrieri, del clero e delle professioni. Inoltre, il
paese era il luogo dello svago e delle osterie, una minaccia all’“etica del lavoro” su cui doveva basarsi la
mezzadria – per cui il contadino ne veniva tenuto il più possibile lontano. Non a caso per quanto riguarda il
passato di Pienza la dimensione della socievolezza nel tempo libero occupa un peso ancora maggiore.
Conquistano il centro della scena le vecchie osterie e al loro interno, o nei pressi, i “personaggi” di una volta,
sui quali la memoria sembra conservare una ricca aneddotica. I famosi ubriachi, gli strambi, i burloni, piccoli
eroi di uno stile espressivo (la mordacità toscana, il gusto della bestemmia o dell’insulto coloriti, una
generale irriverenza creativa) contribuiscono a definire al tempo stesso una piacevolezza perduta del vivere
insieme, e un’identità culturale ormai fortemente diluita. È stato recentemente pubblicato, da parte del
maestro Danilo Pasqui, un volume di Memorabili detti pientini dedicato a questi personaggi, per aiutare i
propri concittadini a non smarrire se stessi, la propria “autenticità”, in una sorta di omologazione
comportamentale.
«Fino a qualche anno fa era… quasi un libro, quasi… era un qualcosa da raccontare Pienza, no? E allora… c’erano vari personaggi,
uomini, donne, vecchi, giovani, ognuno aveva una sua caratteristica buffa. E poi c’era qualcuno, ci sono ancora questi, che raccontava
questi personaggi. E tutte le occasioni erano buone: al bar, a scuola, in un negozio, a sedere in piazza, che poi la piazza a Pienza è
veramente la piazza, è proprio la piazza, ci si sta seduti, nei murelli.»
7.2.3.3
La liquidazione della “cultura alta”
Per quanto riguarda il centro di Pienza, ci troviamo di fronte anche a un genere di rimpianto differente,
benché ancora legato alla perduta vivacità della vita cittadina. Un’immagine che in diverse occasioni ci è
stata offerta è quella del momento in cui ogni giorno, nel corso principale, si incrociavano due comitive,
quella dei seminaristi e quella delle ragazze del collegio, con le rispettive uniformi. L’immagine così volentieri
ricordata fa perno sul rimpianto, da una parte, di una presenza giovanile numerosa e vitale, ma, dall’altra, di
un tempo in cui la città era in grado di funzionare come polo d’attrazione culturale nel circondario, e di
ridistribuire poi nel circondario stesso i frutti della sua attività, sottoforma di persone di cultura (innanzitutto
insegnanti e sacerdoti). Insomma, si finisce per contrapporre un momento in cui Pienza era in grado di
produrre al suo interno ricchezza di professionalità e sapere, con uno in cui si limiterebbe a
commercializzare col turismo i lasciti di un passato ormai lontano.
Evidentemente non si sta parlando più della cultura contadina, o di quella “vernacolare” delle osterie, ma di
un sapere “ufficiale”, legato alla stessa origine nobile e intellettualmente sofisticata della città, e al suo
prestigio in un contesto locale più ampio. In quest’angolo di Toscana, si dice, Pienza una volta aveva un
qualcosa in più, era “all’avanguardia”. Si ricordano diversi aspetti di questa superiorità, ad esempio il fatto di
essere stato uno dei primi centri della zona ad avere una sala cinematografica. Ma al centro di questo
primato locale vengono individuate le numerose e importanti istituzioni del mondo cattolico.
«E Pienza ha perduto naturalmente questo; ha perduto prima di tutto dunque la diocesi, il vescovo, ha perduto naturalmente i canonici,
quindi la cattedrale, non è più cattedrale, ha perduto naturalmente poi il seminario, ha perduto il conservatorio che erano le scuole
medie e tutto il resto…»
«Qui a Pienza c’erano un monte di cose, c’era anche il tribunale, piano piano piano piano piano piano è sparito ogni cosa, c’era un
istituto magistrale con un collegio dove venivano le ragazze, c’era il seminario qui, c’era tanti ragazzi, poi che c’era, c’era il cinema…
fino al cinquantasette mi sembra, poi l’hanno chiuso.»
«E quindi praticamente i maestri di tutto il circondario, specie della montagna e della Val di Chiana, e i preti che sono i preti di tutto il
circondario (…). Sia in questo istituto magistrale sia in seminario, c’era tutti questi insegnanti, sacerdoti e compagnia bella, con tanto di
suppellettili, biblioteche eccetera, e quindi s’era all’avanguardia della cultura del circondario.»
“Piano piano piano piano piano piano è sparito ogni cosa” dice un testimone. Questo piano piano piano
piano piano piano esprime un diverso modo di organizzare il racconto delle trasformazioni, stavolta non
secondo fratture più o meno nette, ma ipotizzando una china di lenta e inesorabile decadenza. Al di là delle
scelte narrative di questo singolo testimone, però, è importante sottolineare come la vicenda della
liquidazione delle istituzioni cattoliche di Pienza abbia un orizzonte temporale peculiare che va più o meno
dalla frattura della modernità di cui abbiamo parlato all’oggi, o meglio, all’ieri dell’esplosione turistica e della
nascita di un nuovo modello economico e lavorativo.
Risale alla fine degli anni ’50 la chiusura del conservatorio, e l’inizio di una marginalizzazione dei piccoli
centri della zona (contemporanea alla fine del modello mezzadrile e allo sviluppo urbano e industriale). Il
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14
Volume IV – Studi di antropologia
culmine ufficiale di questo processo è, negli anni ‘80, la cancellazione della diocesi, con qualche polemica
all’interno del clero locale. Successivamente, la riorganizzazione, anche economica, delle proprietà
ecclesiastiche, porta a una ulteriore ridimensionamento, che è connesso anche con vicende politiche e
problemi amministrativi locali e nazionali, ma che è generalmente ricostruito semplicemente come una
monetizzazione. Una serie di locali e di proprietà che avevano avuto un ruolo nella vita sociale e culturale
della città vengono ceduti o riadattati a finalità turistiche. Il ruolo della chiesa cattolica, sia per quanto
riguarda il prestigio cittadino, sia nella produzione locale di cultura e di figure professionali, sia nella vita
quotidiana dei suoi abitanti, appare così da diversi punti di vista ridimensionato. E con questo siamo arrivati
praticamente alle soglie della situazione attuale: è come se questa storia di decadenza progressiva facesse
da legame fra due “fratture nel tempo” che sono distinte e allo stesso tempo tendono ad assimilarsi sotto
alcuni aspetti visibili e forse anche nel loro senso profondo.
«Nonostante, diciamo, ci sia una forte tradizione di sinistra, Partito Comunista al settanta per cento eccetera, però tutti quanti, tutti, tutti,
andavamo all’Azione Cattolica, a fare catechismo, a servire la messa, tutti, quasi tutti i maschi insomma, andavamo a servire la messa.
C’era l’oratorio estivo, il campo scuola a Sant’Anna in Camprena per i chierichetti. Diciamo, il primo impegno avviene, avveniva
insomma, matematicamente con un forte legame con la chiesa…»
«Per tradizione la parrocchia di Pienza rispetto anche a tante altre della zona ha sempre avuto tante attività perché aveva tantissimi
locali, poi quando la vocazione turistica è emersa con più decisione sia i locali dell’ex seminario che ora ospitano l’albergo “Il Chiostro”
che altri locali sono stati… così indirizzati ad altre attività.»
7.2.4
La nuova frattura nel tempo
7.2.4.1
Il ripiegamento casalingo
Tra le scomparse istituzioni legate al mondo cattolico, un posto del tutto particolare lo occupa il vecchio
centro sociale delle ACLI, punto di aggregazione intergenerazionale i cui locali sono oggi occupati da un
albergo. La sua chiusura all’inizio degli anni ’90 è diventata col tempo il simbolo di una più generale
cancellazione di spazi pientini. Rievocando questa ferita, i testimoni accennano ad una sorta di
“segregazione”, lunga più o meno un decennio – gli anni novanta – e subita nella propria stessa città, un
deciso impoverimento di quella dimensione di socievolezza alla quale si è accennato nelle pagine
precedenti.
Oggi qualche balsamo sembra essere stato messo su quella ferita, sia da parte di privati, con l’apertura di
uno o due locali che rimangono aperti anche la sera (quando la maggior parte dei turisti è andata via), sia
con il centro sociale AUSER. Viene tuttavia rimarcato che né i primi, frequentati soprattutto da giovani, né il
secondo, ritrovo sostanzialmente di anziani, riproducono il tipo di socialità delle ACLI di una volta. L’offerta di
luoghi d’incontro è stata riattivata per tutte le generazioni (e questo è riconosciuto come un bene), ma
separatamente. Quello che sembra di intravedere nel simbolo-ACLI è uno spazio nel quale, grazie alla
compresenza delle sue diverse componenti generazionali, la comunità di una volta poteva guardarsi allo
specchio, appunto, come una comunità.
È anche interessante notare che la nostalgia per il centro ACLI, e per la socialità che accoglieva, caratterizza
anche, e forse soprattutto, persone che oggi hanno trenta o quarant’anni e che quindi, nella loro
rievocazione personale del passato, fanno riferimento a un periodo senza alcun dubbio già modernizzato.
Da qui entriamo in contatto, in un certo senso, con una seconda nostalgia, che in parte modifica e in parte
riprende i temi di quella per la civiltà contadina.
Presso questi interlocutori, ad esempio, una sorta di macroluogo che corrisponde alla vita all’aria aperta
sembra emergere come un elemento ancora più forte, o perlomeno più esplicitato, di quanto non appaia
nelle parole degli anziani. Questa aria aperta è quasi indifferentemente quella della campagna e quella della
piazza, anche perché si fa riferimento a una continua, avventurosa mobilità infantile e giovanile dall’una
all’altra e viceversa. Ci si concentra sugli episodi di scoperta e attraversamento del territorio, come su una
sorta di “imprinting verde”. E a prima vista stupisce un po’ l’insistenza su temi che sembrerebbero propri di
generazioni precedenti, come la vita in calzoni corti, con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, o la
costruzione dei propri giocattoli (che si trattasse di fionde, o di “carretti” che correvano su cuscinetti a sfera),
o, più ancora, l’utilizzo come giocattoli di oggetti della vita quotidiana.
«Eravamo continuamente fuori, e poi c’era questa aggregazione che praticamente poi s’era tutti insieme, almeno da piccoli, destra,
sinistra…» «Cioè noi la campagna s’è vissuta veramente, vera insomma. Noi s’andava, si prendeva, bum, quattro, cinque, dieci
chilometri anche, a piedi, giù, ragazzi e ragazze.»
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Volume IV – Studi di antropologia
«In effetti sono cose che te ne rendi conto dopo, ma una grossa libertà, perché noi fin dai nove-dieci anni abbiamo sempre vissuto fuori,
soprattutto durante le vacanze estive uscivo di casa la mattina alle nove e, a parte il pranzo, si rientrava la sera a cena, perché proprio
c’era tutto un movimento di ragazzini per le strade, ma non solo per le strade del paese, ma anche proprio fuori. Noi andavamo a
cercare dove pescare, con le biciclette, piuttosto che a caccia di fagiani con le fionde… Almeno c’ho questo bellissimo ricordo di aver
vissuto sempre, di essere stato sempre all’aperto, ma soprattutto senza il controllo dei genitori; noi abbiamo girato i peggio posti, anche
se ripenso adesso a quello che succede ai bambini, no, la responsabilità dei genitori, non li puoi lasciar soli, se non sono maggiorenni
non possono far niente, e quindi anche un po’ l’apprensione che viene, secondo me, eccessiva riversata nel ragazzino… noi dalla
mattina alla sera eravamo in mille pericoli con mille possibilità… Infatti c’avevo le ginocchia che erano una crosta continua, anche
perché fino alla seconda media, credo, abbiamo vissuto coi pantaloni corti anche d’inverno. Proprio questa era una caratteristica di
Pienza.»
«I ragazzi di ora, elementari e medie, fanno talmente tante cose che… Sì, alla nostra età si andava a gioca’ a calcio… a gioca’ a
pallone, neanche a calcio (…)… Ora a me mi fanno paura, cioè tu li vedi, sono ipertecnologici, fanno tutto. Io alla loro età manco… cioè
giocavo coi soldatini, i giochi me li facevo da me.»
Ancora una volta, non si sta assolutamente mettendo in discussione l’attendibilità delle testimonianze.
Semplicemente le scelte narrative (su cosa soffermarsi, cosa valorizzare) sembrano tese a sottolineare gli
aspetti meno up to date di queste esperienze giovanili – fatto che ci parla ancora una volta di una
contrapposizione esplicita o implicita con la situazione attuale. Malgrado la distanza generazionale, la
seconda nostalgia sembra sovrapporsi alla prima almeno per quanto riguarda lo schema oppositivo
comunità passata – egoismo presente.
Nell’economia di questo lavoro è importante – anzi, direi decisivo - sottolineare che queste immagini di
decadenza vengono evocate entro discorsi a volte, certo, suscitati dal nostro lavoro, ma per altri versi
largamente quotidiani. Discorsi cioè che non vanno letti semplicemente nel loro contenuto informativo verso
l’esterno, ma anche come una forma di azione sociale interna al contesto. In altre parole queste “nostalgie”,
e il tema che le sottende di una socialità perduta o minata, rappresentano anche parte di un lavoro che la
comunità opera su di sé. Come nel caso del centro ACLI e nella valutazione di ciò che è venuto a prenderne il
posto, si elaborano diagnosi e paralleli e si individuano perdite e necessità. Il che comporta, al di là del tono
a volte pessimistico delle osservazioni, che c’è una comunità che continua a pensarsi come tale, anche se
con un certo disagio.
Volendo appunto leggere questo disagio come un’azione rivolta all’interno (del resto anche noi, nel nostro
rapporto con l’amministrazione, siamo stati giustamente interpretati come partecipanti alle dinamiche interne
al contesto), bisogna partire dalla constatazione che nelle parole di pressoché tutti i testimoni, giovani e
anziani, l’antica ricchezza di relazioni sociali e forme espressive sembra, se non del tutto perduta, ridotta a
funzionare di nascosto, al coperto. Si parla spesso di un generale ripiegamento casalingo, che riesce a
incrinarsi appena nelle sere d’estate, quando, via i turisti, i pientini riescono a riappropriarsi della piazza
principale e dei suoi murelli.
«L’autenticità di questi posti purtroppo col tempo è andata a farsi benedire, in buona parte, però cioè non è che è sparita è andata… è
diventata una cosa sotterranea.»
«Cioè Pienza se vai in paese trovi sempre il momento di sederti e di avere qualcuno accanto che ti racconta le cose buffe, buffe e meno
buffe ma comunque ti fa vedere degli spaccati del paese particolari. E prima questo era proprio il fulcro del divertimento, oggi bisogna
un pochino andarli a cercare perché, perché la piazza ora tutto il giorno è piena di… oggi io ci sono passata e… alle quattro o quando
esco da scuola, alle due, è piena la piazza, ma è piena di turisti.»
«Devo dire che sta succedendo proprio quello che io mi aspettavo, che la gente si sta rinchiudendo in casa, esce sempre meno, per
frequentare il bar, per le cose, si rinchiude in casa. Oggi con la televisione, con le cassette, i dvd, anche i giovani non escono più.»
In prima battuta, è frequente che la “colpa” venga attribuita alla televisione, ad esempio constatando che i
giovani stanno sempre a casa a guardare le partite. Il riferimento è all’intero sistema di comunicazione e di
intrattenimento che fa perno sulla tv, ma ne potenzia l’appeal e la pervasività temporale attraverso accessori
tecnologici più recenti come la pay-tv, che moltiplica il numero di partite effettivamente osservabili, o i dvd
(oltre ai già meno recenti vhs).
Al di là di questo, viene presentato tutto un altro insieme di ragioni, a volte indicate sinteticamente con
espressioni dal tono militaresco come “assedio” o “invasione” – e ancora una volta Pienza, “città aperta”,
mostra di non poter resistere. La presenza fisica dei turisti, per tutta la bella stagione, occupa gli spazi aperti
del centro storico, il corso e la piazza. Inoltre, diversi esercizi sono diventati inospitali, quasi altrettanto
“perduti” per la cittadinanza del famoso centro ACLI, dal momento che preferiscono i turisti, rapidi nello
spendere e nell’avvicendarsi, ai concittadini che avessero voglia di passare il tempo. E in campagna ci si
lamenta che alcuni forestieri che hanno acquistato un podere come casa di campagna siano troppo inclini a
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Volume IV – Studi di antropologia
cancelli e recinzioni, fino a far temere, come si legge in una delle più diffuse guide del territorio, «un certo
23
clima tragicomico di medioevo di ritorno ».
«Tu vieni, vedi com’è l’ambiente intorno, non è che puoi fare quello che si fa nel varesotto. Qui sei in Toscana, quindi se c’è la strada
aperta la lasci aperta perché la gente c’è sempre passata ed è giusto che continui a passarci, il cacciatore è sempre andato a caccia,
ed è giusto che continui ad andarci.»
«Prima ecco ci si ritrovava di più, anche tra famiglie si organizzavano delle scampagnate a S. Anna ci si ritrovava in tanti, eh, perché tra
noi e i figli… si cucinava in quel cucinone grande… si stava lì tutto il giorno… poi anche quello lo prese in gestione… non mi ricordo, e
cominciò a mettere i divieti, allora il cucinone non si adopera più.»
Può valere la pena di osservare che televisione e turismo sono fortemente rappresentativi di quei flussi
24
globali di informazioni, immagini, idee e persone su cui è concentrata molta della teoria sociale recente.
Ma non è solo una questione accademica. L’appartenenza generazionale si avvale anche di “fenomeni
epocali”, che possono essere stati teorizzati in ambito accademico, ma che tuttavia mostrano una peculiare
capacità di entrare nei discorsi quotidiani e nello stesso senso comune. In questo senso un’interpretazione
dei fenomeni di trasformazione verificatesi negli ultimi quindici anni in termini di globalizzazione è fortemente
disponibile ovunque, se non altro come tema di fondo. E questa globalizzazione viene spesso percepita
come una minaccia alla dimensione locale del proprio vivere, anche se, paradossalmente, potrebbe aver
funzionato in qualche caso come stimolo a recuperarla.
7.2.4.2
La frattura turistica
Il tema del turismo è inevitabile in qualsiasi discorso si voglia fare, soprattutto a proposito del centro di
Pienza. A Monticchiello, in effetti, si assiste a qualcosa di leggermente differente, nel senso che lì il turismo
può ancora essere considerato una risorsa o un fastidio all’interno di una situazione più generale. Tutta una
serie di dinamiche economiche, naturalmente, vengono ricondotte ad esso, a cominciare dall’innalzamento
del prezzo delle case; ma rimane evidente la differenza con Pienza, dove il turismo ha assunto proporzioni
tali da costituire l’essenza della situazione attuale.
Questo ci riconduce alla memoria dei cambiamenti e alla sua periodizzazione. Si rievoca una crescita del
turismo lenta ma complessivamente importante nel corso degli anni ’80 e dei primi anni ’90, con
un’impennata intorno al 1995-96. Per ribadire ancora una volta che il nostro discorso vuole analizzare le
forme della ricostruzione del passato, e non metterne in discussione l’accuratezza “fattuale”, è bene
precisare che questo andamento è confermato dai dati quantitativi in nostro possesso. Al tempo stesso,
l’esplosione della metà degli anni ’90 è, nelle parole di diversi testimoni, sintetizzata in un episodio
emblematico. La troupe di Anthony Minghella viene nella zona per girare a Sant’Anna in Camprena e in
parte nel centro di Pienza il film Il paziente inglese, grande successo della stagione cinematografica 1996 e
vincitore di nove premi Oscar. L’evento avrebbe dato luogo a un consistente flusso di “turismo
cinematografico” da tutto il mondo. Diverse persone, affacciandosi su Piazza Pio II, avrebbero chiesto
dov’era finita la fontana, riferendosi a quella, posticcia, che gli scenografi della troupe avevano collocato al
centro della piazza per le riprese. L’espansione turistica sarebbe proseguita fino a toccare il culmine nel
periodo immediatamente anteriore all’11 settembre. Da allora in poi, qualche sintomo di difficoltà, ma non
tale da rimettere in discussione i cambiamenti avvenuti. Viene giustamente chiamato in causa il turismo non
solo per quella sorta di “esproprio dei luoghi di socialità” al quale si è accennato, ma per il problema dei
parcheggi (limitato alla stagione turistica), per l’impennata dei prezzi, per le scelte occupazionali, abitative e
per la gran parte dei fenomeni sociali attualmente in corso.
Quello che voglio proporre è che sia stata identificata dai pientini una nuova frattura nel tempo, che in parte
finisce per sovrapporsi alla frattura precedente. Quello “ieri non troppo lontano” di cui si è parlato come
oggetto, appunto, di una seconda nostalgia, potrebbe essere un passato pre-turistico, che si aggiunge e qua
e là viene a somigliare allo ieri di altre generazioni, quello della civiltà contadina. Questi isomorfismi, di
carattere comunque abbastanza generale, sembrano sottolineare come le interpretazioni promosse da
entrambe le “fratture”, abbiano ognuna ovviamente una storia alle loro spalle, ma siano innanzitutto figlie
dell’oggi in cui entrambe vengono proferite.
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24
Fabio Pellegrini, Guida alla Valdorcia nascosta, esoterica, naturale. Guida per viaggiatori sentimentali, cit.
Per citarne due: Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001 (edizione originale: Modernity at large:
cultural dimensions of globalization, University of Minnesota Press, 1996) e Mike Featherstone (a cura di) Cultura
globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità, Seam, Roma 1996 (edizione originale: Global culture.
Globalization and modernity. SAGE, Londra 1990).
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Volume IV – Studi di antropologia
Anche nel caso di questa “frattura turistica”, ad esempio, è possibile individuare il tema di una sconfitta
locale, e, di nuovo, in due sensi abbastanza distinti fra loro. Ancora una volta la prima ha il carattere
economico (e a volte politico-amministrativo) dell’occasione persa ed evoca la figura dell’esterno, del
forestiero. Per una presunta timidezza, per un troppo debole spirito imprenditoriale della gente del posto,
tutta una serie di attività sarebbero state aperte o gestite da persone venute da altrove (ad esempio, romani).
È difficile dire quali siano le proporzioni oggettive di questo fenomeno. Non ho avuto affatto l’impressione
che siano pochi i pientini imprenditori di attività (in genere di dimensione familiare) legate al turismo, come la
ristorazione, l’accoglienza, l’artigianato; ma lascio queste considerazioni a una più precisa analisi
economico-occupazionale. È certo, comunque, che nel discorso quotidiano venga dato generalmente per
scontato che un imprenditore forestiero miri principalmente a un guadagno immediato, con i turisti – altri
forestieri – come clienti d’elezione. In altre parole, che non sia in alcun modo interessato ad offrire un
servizio utile alla comunità, né a tutelare veramente quelle caratteristiche di qualità e di “autenticità”, che
stanno a cuore a chi vive in loco tutto l’anno. Questa autenticità è poi il campo del secondo tipo di sconfitta,
un disagio culturale di fondo al quale si è già accennato e di cui bisognerà tentare di precisare meglio i
contorni.
7.2.4.3
Turista di massa, turista d’élite, o non-turista?
A voler essere puntigliosi, potremmo parlare, anziché di un passato pre-turistico, di uno pre-turismo di
massa, perché sembra invece venir idealizzato, come ulteriore contraltare, un turismo precedente, fatto di
intenditori, di amanti dell’arte o della natura. Non direi, tuttavia, che questo nasconda semplicemente una
preferenza per il turismo di élite (che anzi secondo qualcuno avrebbe rischiato di trasformare i pientini in
“servitori” di ricchi villeggianti): da più parti si ammette, se non altro, che è anche la massa a sostenere un
numero così alto di attività commerciali e di accoglienza. Ma forse la nostalgia di un “visitatore ideale”, che
poteva essere occasione per uno scambio di conoscenza ed esperienza, mette in luce la sostanziale
impersonalità di un rapporto che invece, a questo punto, è visto come solamente commerciale.
«Perché prima… prima prima, cinquant’anni fa, a Pienza ci venivano qualche gruppo di architetti a fare degli studi, alcuni intellettuali…
Non c’era un turismo di massa, allora era gruppi così, limitati, di persone e allora non portavano ricchezza queste persone… limitata
ricchezza all’artigiano e al commerciante.»
«E noi negli anni dove il turismo era una chimera ci siamo dati da fa’ per attirare i turisti. S’è fatta la fiera del cacio, e diverse cose,
insomma, hanno sortito tutta questa invasione che ci pesta i piedi.»
«Ha attirato purtroppo, e questo rimproverano anche oggi, questo grande turismo di massa e Pienza da quello che era è diventata più
una bottega tipo San Marino, dove tutte le botteghe sono di cacio o simili.»
«Non per rifiutare i turisti d’élite, ben vengano, però non voleva dire escludere l’impiegato, l’insegnante o l’operaio della fabbrica.»
«Fino a che punto è risorsa e fino a che punto è, diciamo, un pericolo. Noi siamo qui. Esattamente come al limite Venezia, come al
limite San Gimignano.»
La nostalgia di un “visitatore ideale”, contrapposto al turista attuale, è una figura già conosciuta negli studi.
Ad esempio a Chianciano vengono idealizzati i turisti termali del primo dopoguerra, in virtù di uno status di
25
“veri signori” legato anche alla maggiore subalternità, all’epoca, dei gestori chiancianesi. A Pienza, il cui
decollo turistico coincide grossomodo con la crisi di Chianciano, il caso sembra differente. Qui la figura
idealizzata – forse il “viaggiatore sentimentale” di cui parlava Pellegrini – più che di un “turista ideale” ha i
caratteri di un non-turista, un visitatore dalla sensibilità non commercializzata, qualcuno con l’attitudine e la
finezza culturale del vero conoscitore.
Vediamo in azione un complesso di caratterizzazioni e di stereotipi sulla figura del turista, importanti sia
nell’ambito del senso comune che in quello della riflessione specialistica. È stato notato come sia i locali che
alcuni “viaggiatori professionali” (ad esempio gli antropologi), rivendichino alla loro conoscenza del luogo,
26
ovviamente molto diversa nei vari casi, un carattere comunque «inaccessibile al semplice turista». Negli
studi, quest’ultima figura esprime spesso un rapporto con il concetto di autenticità che ha del paradossale: il
turista insegue un’“autenticità” di cui sente la mancanza nella vita quotidiana, e così facendo, di fatto, la
25
26
Simonicca, op. cit., p.182.
Julie Lacy & William Douglass, “Beyond authenticity. The meanings and uses of cultural tourism”, in Tourist Studies,
vol. 2 (1), pg. 5-21, 2002.
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Volume IV – Studi di antropologia
promuove come bene pregiato da patrimonializzare e commercializzare; ma allo stesso tempo l’autenticità
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inseguita si ritrae irrimediabilmente da qualsiasi cosa diventi “turistica”.
Più recentemente, si è riconosciuto il rischio di costruire un concetto statico di autenticità, come “essenza”
vulnerabile a una commercializzazione-profanazione, anziché mostrarne gli aspetti dinamici, continuamente
negoziati e rimodulati. Comincia anche a trovarsi in alcuni studi il tentativo di difendere la figura del turista da
28
questo stereotipo irrimediabilmente negativo e frustrante. Ma il punto essenziale, qui, è il modo in cui oggi
lo stereotipo funziona fuori dall’accademia, nelle narrazioni e nei giudizi quotidiani. Il punto essenziale è che
chiunque, a cominciare dal turista medesimo, vuole pensarsi capace di andare al di là delle tipiche
29
rappresentazioni turistiche, e tornando a casa racconta proprio le esperienze che gli sembrano sfuggire ai
30
cliché. La letteratura di viaggio e gli stessi mass media promuovono un’idea di esperienza e di conoscenza
che si contrappone esplicitamente a quella stereotipata che il turista può comprare, e per chiudere il cerchio,
la stessa industria turistica tenta sempre più spesso di «incorporare il turista nel contesto, fornendogli nuovi
31
ruoli, che non risultino associati con il marchio di in-autenticità del turista».
Tenendo conto di questa generale condanna, quindi, è probabile che fra le preoccupazioni dei pientini non ci
sia solo l’impatto corporeo, invasivo, espropriante dei visitatori, ma anche l’esigenza di distinguere il proprio
gusto, la propria consapevolezza, le proprie abitudini di svago e di consumo da quelle del turista. Non a
caso, forse, il principale bene in vendita nelle botteghe del centro, il famoso pecorino di Pienza, è spesso
denigrato dagli stessi pientini. L’atteggiamento superficiale dei turisti (che antepongono il cacio ai
monumenti) non si sarebbe limitato a causare la nascita di botteghe tutte uguali e troppo care, a scapito di
negozi più utili, ma avrebbe promosso una falsa tipicità del formaggio di Pienza. Perché quella vera,
riconoscibile per forza di cose solo dai locali, dipendeva proprio dalla vegetazione del pascolo, ricco di erbe
aromatiche, l’assenzio, il mentastro, il barbabecco, che avrebbero costituito il segreto di un sapore, quindi,
necessariamente locale. Oggi l’alimentazione delle pecore con i mangimi, o l’importazione del latte da altre
zone, e qualche volta un’errata conservazione, sono denunciate come esempi di una situazione che
corrompe la tipicità nel momento stesso in cui la promuove. E per di più, dato il carattere essenzialmente
commerciale di questa tipicità, il prodotto finirebbe per essere meno conveniente nel luogo che lo identifica,
che non altrove. Il gusto dei locali è la risorsa che distingue dal turista e allo stesso tempo permette di
sfuggire almeno in parte alla commercializzazione/falsificazione.
«Eh, è stata un pochino inflazionata, pora Pienza. Ora tutti ci conoscono pel cacio più che per le bellezze artistiche… co ‘sto benedetto
pecorino, che poi insomma… a Pienza le pecore dove so’?»
«Una nicchia di mercato che sicuramente gli può anche portare dei vantaggi. Quindi mettendo tutto insieme: agriturismo, DOC Orcia,
biologico, quindi creare una filiera di prodotti riconoscibili come marchio Val d’Orcia che sicuramente fa sì che quando uno arriva in
questa zona o comunque trova al di fuori di quest’area questi prodotti, sa benissimo di che cosa uno… si parla, che cosa uno può
comprare per poter mangiare.»
«Ecco, si son tutte trasformate in botteghe per vendere il cacio, per vendere tutte queste mezze seghine… che poi praticamente sono
tutte uguali, sono… no cattive, ma insomma lasciano il tempo che trovano… per soddisfazione di quelli che vengono, eh eh, il cacio di
Pienza e il vino della Val d’Orcia, eh, è tutto così…»
«Ogni podere della Val d’Orcia aveva cinque o sei pecore, non di più. Queste cinque o sei pecore venivano mandate fuori da sole
all’aperto, pascolavano nelle crete della Val d’Orcia, dove c’erano delle erbe che avevano un particolare aroma, l’ascenzio, il mentastro,
il barbabecco, che davano al latte un particolare sapore. Poi facevano la presura con lo stomaco dell’agnello, invece ora comprano in
farmacia, e facevano un cacio pecorino molto molto molto molto rinomato.»
«C’era il profumo del barbabecco! Erano le erbe aromiche che gli davano questo profumo che si differenziava da tante parti. Ma no
Pienza e basta, perché per esempio qui partendo da Pienza, anche si può dire Radicofani, fino alle Crete Senesi, Asciano, San
Giovanni, era tutto un pascolo effettivamente bono per il latte. Però il formaggio è buono, perché poi dopo il formaggio ha un
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29
30
31
Probabilmente l’esempio più importante di questa dinamica di “inseguimento senza soddisfazione” sta nella teoria di
Dean Mac Cannell (The tourist. A new theory of the leisure class, Schocken Books, 1976).
Ad esempio il libro del sociologo francese Jean Didier Urbain, L’idiota in viaggio. Difesa del turista, Aporie 2003
(edizione originale: L’idiot du voyage. Histoires de touristes, Payot 2002).
Lo stesso Dean Mac Cannell (“Tourist agency”, in Tourist Studies, vol. I, 1, pg. 23-37, 2001) teorizza un “secondo
sguardo” che aspira a superare il carattere inautentico di quello legato alla commercializzazione turistica.
Regina Bendix, “Capitalizing on memories past, present and future. Observations on the intertwining of tourism and
narration”, in Anthropological Theory, vol. 2 (4), pg. 469-487, 2002.
Kjell Olsen, “Authenticy as a concept in tourism research. The social organization of the experience of authenticity”, in
Tourist Studies, vol. 2 (2), pg. 159-182, 2002.
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Volume IV – Studi di antropologia
trattamento particolare, perché va lavato, va rimosso, va untato, va messo co’ le foglie. Allora con questo trattamento che gli fanno non
è che sia male male… Però che tutti questi turisti vengano a Pienza e si credano di scoprire produzione della zona, tipica… Io insomma
molte volte glielo dico: guardate, se andate in altri posti trovate il formaggio, lo pagate meno, e è bono come questo di Pienza»
Quello che bisogna mettere in luce, ancora una volta, è l’intensa problematizzazione locale del fenomeno
turistico, lungo alcune linee guida, fra cui appunto la diffidenza nei confronti di una commercializzazione di
autenticità che facilmente si risolve in una falsificazione. Non a caso il denaro è la principale figura chiamata
in causa nel discutere dei cambiamenti, una figura che ha la peculiarità di riferirsi direttamente
all’opposizione tra un passato di socievolezza e un presente minacciato dall’egoismo, quindi di adattarsi
tanto alla prima quanto alla seconda frattura nel tempo. È all’origine della produzione di formaggio oltre la
disponibilità di pascolo e di latte della zona. È all’origine dell’esproprio dei luoghi di socialità. È all’origine
dell’impennata dei prezzi delle case e dei beni di consumo.
Ma in molti discorsi “denaro” sta per qualcosa di ancor più essenziale, venendo collocato per così dire nel
cuore del problema, come simbolo di un generale deterioramento dei rapporti umani. Sta per affarismo, per
un’esasperata ricerca di arricchimento personale che non lascia più tempo per la vita sociale, per cui molti
ormai penserebbero solo a fare soldi e non avrebbero più tempo per stare in compagnia. Sta per l’invidia di
chi non ha avuto la possibilità o l’intraprendenza per arricchirsi. E sta per l’egoismo e l’arroganza di chi
invece l’ha fatto. Il pettegolezzo, a volte, in questo genere di discorsi, non è chiamato in causa
semplicemente secondo il senso comune che lo considera caratteristica inevitabile dei piccoli centri; ma
come se fosse la modalità secondo la quale si esercita una nuova malevolenza diffusa.
«Una cosa lampante: c’è il conflitto tra quelli che hanno avuto l’occasione di pote’ fa’ i soldi, hanno camere o negozi per turisti, hanno
soldi, e quelli che non hanno avuto la possibilità o l’occasione e sono rimasti indietro. Qui c’è un odio veramente (…) cioè se qualcuno
parla e dice: “Guarda a me non mi ci viene più la gente al mio affittacamere”, l’altro dice “Bene! Son contento!”»
«Questo è un paese, come molti paesi del senese, dove c’è sempre l’impressione che l’altro sia favorito (…), che comunque nasce
fondamentalmente da cosa? Dall’ignoranza del proprio diritto.»
«Si dice: se vuoi fare un dispetto a Cristo, un povero fallo ricco.»
«È chiuso, questa bomboniera tutta rimbombante che ti senti appena alzi la voce.» «Una cosa che ho ritrovato, ma peggiorata molto.
Cioè, prima era così ma non era così con cattiveria, ora c’è cattiveria.»
Ancora una volta, bisogna sfuggire all’impressione di trovarsi di fronte a una condanna senza appello, e
leggere queste posizioni non solo dal punto di vista informativo, ma come un’azione di difesa da parte di una
comunità che si sente forse minacciata, ma che non è scomparsa, come l’individuazione di punti di forza e di
debolezza nel presente, di strade da percorrere e di altre da abbandonare. In quest’ottica, se il fenomeno del
turismo fosse considerato semplicemente negativo, non sarebbe mancata certamente l’elaborazione di
prospettive di sviluppo alternative; mentre sembra che i cittadini discutano se mai su come gestire al meglio
questo genere di sviluppo.
7.2.4.4
La dimensione della “cura”
Per uscire dalla dimensione prevalentemente negativa dei discorsi sul turismo, è necessario innanzitutto dire
che si è quasi sempre convinti della sua attuale indispensabilità. Se mai, emerge un vago timore che il
periodo delle “vacche grasse” possa esaurirsi; forse per le ansie del dopo 11 settembre, forse per
l’impressione che l’offerta stia peggiorando o comunque non sia ben strutturata, aleggia qua e là lo
spauracchio della crisi nella quale Chianciano Terme è caduta proprio mentre Pienza prendeva il volo.
«Qui se va in crisi il turismo va in crisi l’economia di tutto il comprensorio: facciamo la fine di Chianciano.»
«La scelta qui a Pienza del turismo è forzata, non è che ci può esser tanto altro, l’importante è comunque controllare che non venga
stravolto dal turismo il contenuto più profondo dello spirito di questo posto qui, la qualità… e per far questo bisogna mantenere la
comunità, la comunità del paese che è quella che rinforza, che ci sono spazi per tutti, vecchi, bimbi, e invece questo non sta
succedendo; chiaramente il mercato spinge fuori le persone giovani, emargina i vecchi e toglie le attività marginali come potrebbe
essere anche la mia… e questo senza governare le cose è un andamento naturale. Mi auguro che ritardi il più tardi possibile perché…
perché rimanga l’idea di questo sogno che è la cosa che possiamo vendere noi, vendere… (…) non è solo per venderlo, ma è
importante anche sognare, è importante che la gente si immagini che noi qui abbiamo una qualità di vita superiore, che è anche vero.
Cioè, non è un prendere in giro… io vorrei che coincidesse il sogno con questo posto che secondo me è l’unico, uno dei pochi al mondo
in cui si può pensare davvero che non ci mancherebbe niente, abbiamo di tutto in qualità speciale.»
Questa puntualizzazione, però, non è di per sé sufficiente, anzi potrebbe dare l’impressione che la
cittadinanza si limiti, incoerentemente, a lamentarsi dei disagi pratici e simbolici di una situazione alla quale
tuttavia – per i suoi vantaggi economici – non si ha alcuna intenzione di rinunciare. Ritengo che sia
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Volume IV – Studi di antropologia
necessario respingere quest’impressione, e non per difendere una impossibile coerenza fra tutte le
rappresentazioni locali, ma per rifiutare ancora una volta il pregiudizio di una separazione netta fra i discorsi
di cui ci stiamo occupando e lo sforzo di pianificare e progettare la vita della comunità.
L’atteggiamento così complesso e ambivalente mi sembra più che altro tipico di un tentativo di
problematizzare tutti gli aspetti della situazione, anche quelli che potremmo definire morali o esistenziali. E in
effetti, non si individuano nel turismo solo possibilità di arricchimento o rischi di egoismo, ma anche una
modalità moderna della cura che gli abitanti vogliono riservare al posto in cui vivono. La diffidenza verso la
falsificazione non va letta come un atteggiamento “snobistico”, ma come segno che a Pienza è presente la
fiducia e quindi l’attenzione per un’autenticità e una qualità peculiare del proprio territorio, delle sue
caratteristiche e dei suoi prodotti. Per questo i forestieri che hanno avviato attività nella zona vengono a volte
dipinti come persone che si avvantaggiano del pregio di spazi sapientemente preservati nel tempo dai locali,
e che essi invece non avrebbero forse la voglia e probabilmente la sensibilità per curare allo stesso modo.
Il riflesso politico di questo atteggiamento potrebbe riconoscersi in una particolare idea “conservatrice”, in
senso letterale, di buona amministrazione, attenta a non commettere gli errori tipici di altre zone d’Italia (ad
esempio, diversi interlocutori hanno accennato al nord del Lazio come a un’area le cui antiche qualità
estetiche sono state vanificate dagli “scempi” che hanno seguito la frattura della modernità). Ma nell’usare un
termine come “conservazione”, qui, bisogna avere l’attenzione di ripulirlo da alcuni dei suoi più classici
connotati. L’importanza assunta dalla nozioni di qualità della vita, o di patrimonio, nella loro connessione con
le dinamiche locali dell’identità, sembrano aver modificato in diversi luoghi il vocabolario dell’appartenenza
32
politica, come nota Frake nel suo brillante articolo. Questo sembra anche il caso di Pienza, dove un’attenta
conservazione è da tempo compatibile con una tradizione politica molte volte definita “progressista”. Allo
stesso tempo, si contrappone a una concezione “sviluppista” e sostanzialmente industriale, che si ritrovava
non solo nel campo liberista, ma spesso anche in quello della sinistra tradizionale.
È perfettamente coerente con lo storico rifiuto pientino dello sviluppo industriale che il turismo appaia come
la sola occasione di benessere economico capace di concentrare l’attenzione sulla difesa dei luoghi,
proteggendo dalle fabbriche, dalle discariche, dallo sventramento stradale o edilizio. L’unico sviluppo che, in
una realtà del genere, possa rivelarsi sostenibile. Assieme alla qualità della vita e al patrimonio, un concetto
come lo “sviluppo sostenibile” fa capire che la cura e la “conservazione” qui non possono essere letti come
elementi di una “sindrome passatista”, ma anzi vanno visti in buona parte in un’ottica contemporanea. Cosa
del resto assai più conforme al carattere piuttosto recente del modello economico di sviluppo, turistico e
agrituristico, della zona.
A fare da contraltare alle sconfitte di cui si è parlato, stanno in effetti dei vantaggi generalmente riconosciuti,
come il benessere raggiunto (sviluppo), e una difesa soddisfacente dell’aspetto del territorio (sostenibilità).
Oltre a proseguire in queste direzioni, analoghi risultati vengono richiesti anche per quanto riguarda la sfera
della socialità e del tempo libero, e bisogna pur riconoscere che il periodo di maggior ripiegamento casalingo
è in effetti quello invernale, ossia quello non turistico. Sembra poi affermarsi una tendenza molto
interessante, che vede la lotta per rivitalizzare tempi e spazi comuni avvalersi di mezzi che a prima vista
potrebbero sembrare “turisticamente connotati”, ad esempio i giochi tradizionali, come quello del panforte o
la ruzzola. Il loro utilizzo, stavolta, non tende a rappresentare all’esterno la località, ma a difenderla e
ricostruirla per i locali. Un nostro interlocutore le ha chiamate «feste di noialtri», dalle quali tenere
«rigorosamente a distanza i turisti». L’intenzione è di servirsene come demarcatore di “ciò che è proprio
nostro”, e non ancora patrimonio dell’umanità. Così, anche la Pro Loco comincerebbe a rivolgere i suoi sforzi
all’interno oltre che verso l’esterno, cercando di funzionare come promotore di coesione e di continuità civile
anche nel tempo che si è aperto con l’ultima frattura.
«Ognuno fa a gara ad avere la propria porta o la propria finestra più bella del vicino.»
«Io sono convinta che per esempio in questo momento bisogna parlare di edilizia sostenibile, no “bisogna parlare”, bisogna costruire,
qui, edilizia sostenibile, o se no ci tagliamo il futuro, eh.»
«Mentre per tanti anni [la Pro Loco] è stato l’elemento di propulsione, come far venire qui la gente, ora si sta trasformando piano piano
anche in un’associazione che cerca di organizzare cose, sì, ma per noi (…) per creare occasioni per stare insieme.» «Per rompere
l’assedio c’è rimasto soltanto il recupero delle feste tradizionali, che sarà strumentale quanto si vuole, e però per noi non c’è rimasto
altro.»
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Charles O. Frake, cit., pag. 253.
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Volume IV – Studi di antropologia
7.2.5
Conclusione: sviluppo, sostenibilità e lo “sguardo interno”
Da questi accenni, per quanto rapidi, si può comprendere come sia complessa la nozione locale del
paesaggio, e quanto sia amministrativamente impegnativo elaborare un modello capace di difenderlo allo
stesso tempo dallo sfruttamento selvaggio e dall’incuria. Ad esempio, il boom dell’agriturismo ha permesso
di salvare e recuperare case coloniche che stavano crollando nell’abbandono più totale; ma pur ammettendo
questo, gli vengono rimproverati alcuni “snaturamenti”. Uno sembra imporsi su tutti nella critica della
cittadinanza; si tratta delle piscine, che pur generalmente invisibili (salvo che da un aereo) e non
particolarmente distruttive, rappresentano agli occhi di molti un passo grave nella non autenticità. Per
chiarire come sia difficile trovare un equilibrio, va d’altra parte precisato che all’uso teoricamente più
“tradizionale” della campagna, la coltivazione, vengono giustamente imputati i maggiori scempi recenti, come
lo spianamento dei calanchi. E va anche detto che generalmente il paesaggio rurale, malgrado qualche
ferita, è considerato ben conservato.
Rimane il fatto che l’esigenza di uno sviluppo che appaia sostenibile anche a uno sguardo interno costringe
l’azione concreta a confrontarsi con una dinamica particolarmente sottile di riconoscimento di autenticità. Si
tratta di una forma di critica che distingue benissimo tra l’aspetto di un luogo e la sua concreta fruizione, tra il
luogo come quadro da osservare e come ambiente da vivere, ed è intenzionato a non rinunciare a nessuno
dei due. Si riconosce, abbiamo visto, che la piazza di Pienza è ben tenuta, e allo stesso tempo appare
snaturata in quanto non più tranquillamente vivibile dai pientini. Così come i poderi continuano a punteggiare
la campagna, ma in realtà sono diventati alberghi di lusso, che chiedono forme di privacy e di comfort molto
lontane da un’idea, per quanto aggiornata, di edilizia rurale. E forse la costruzione delle piscine viene così
sottolineata perché porta lo snaturamento dall’uno all’altro piano, da quello dell’utilizzo a quello delle opere
concrete.
La memoria, personale o storica, nei suoi tratti di nostalgia o di orgoglio locale, non si esaurisce in uno
sguardo retrospettivo, ma partecipa al lavoro che la cittadinanza incessantemente compie su se stessa, in
una situazione locale legata a dinamiche di raggio molto più ampio e tutt’altro che congelata nel tempo.
Malgrado il noto valore dei suoi monumenti, Pienza non è semplicemente una città d’arte. Il carattere
abbastanza recente dello sviluppo turistico di questo comune non è semplicemente questione di anni, ma
anche di certi suoi elementi chiave, l’agriturismo, il turismo enogastronomico, la qualità della vita, la simbiosi
col paesaggio valdorciano, un’idea piuttosto allargata di patrimonio.
Questa nuova frattura del tempo corrisponde a una molteplicità di riflessioni che passano per il dibattito
politico, per le pubblicazioni locali (spesso giustificate dal mercato turistico), o per le chiacchiere da bar (da
non sottovalutarsi solo per il fatto di venir espresse, come è ovvio, nelle modalità proprie delle chiacchiere da
bar). Il fatto che a volte in questi spazi discorsivi vengano valorizzati personaggi, emblemi, luoghi e situazioni
più o meno lontani nel tempo, non significa che ci si trovi di fronte a una qualche tendenza a rifugiarsi nel
passato, ed è forse il caso di mettere in discussione una volta per tutte il cliché dell’inerzia e dello scarso
spirito di iniziativa dei pientini. Senza voler dipingere la situazione in colori troppo rosei, o negare i problemi e
i rischi (del resto ampiamente sottolineati a livello locale), bisogna una buona volta riconoscere che lo
sviluppo turistico non è “caduto addosso” alla cittadinanza. La “strana alleanza” tra Pienza e Monticchiello,
con tutte le differenze di modalità e di stile che si vuole, mostra una notevole vivacità e capacità complessiva
di riflessione, di anticipazione e di reazione, rispetto alle sfide dell’attualità.
Ragazzi in pantaloni corti e battaglie a colpi di cerbottana, ubriachi e burloni, mezzadri e fattori, sindacalisti,
artisti e intellettuali, turisti danarosi e scolaresche incontrollabili, le Mille Miglia, i fotografi pubblicitari, Il
paziente inglese, Pio II, il Rossellino, Alberto Asor Rosa e Mario Luzi, l’eroina di Monticchiello, i partigiani,
l’Amiata, geometrie neoplatoniche e bestiari medievali. È nella situazione attuale che queste ed altre
immagini interagiscono, partecipando ad assetti in fieri di rappresentazioni e autorappresentazioni,
valutazioni dell’oggi e idee di futuro.
«Oggi si chiama arredo, ma allora erano cose che servivano per campare, perché la madia era il marchingegno per fare il pane e i dolci
e queste cose qui, il camino, qui c’era i fornelli e si faceva da mangiare qui.»
«[In uno spettacolo del Teatro Povero] c’era la nostalgia del podere con l’aia, di… di quella che era la casa di camp… il podere di una
volta; ora vengono, vedi i cancelli, vedi i citofoni, vedi… c’è la piscina…»
«Le aie erano dei luoghi aperti dove te ne andavi, camminavi, ti inoltravi lì c’era tutto quanto aperto, arrivavi nell’aia c’era il contadino
che ti portava il fiasco del vino o dell’acqua, si faceva colazione, è chiaro il concetto? Se il podere mi diventa una villa in campagna con
piscina, recinzione e due o tre cani lupi è evidente che la Val d’Orcia mi diventa un’altra cosa, è chiaro? Io soffro un po’ per questa
cosa.»
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22
Volume IV – Studi di antropologia
7.3
Dalla “Città di Pio II” alla Pienza di tutti gli altri. Autorappresentazioni della perdita e della
conquista di spazi nel Comune di Pienza
Qui non ci troviamo di fronte alla storia, né alla biografia, ma
a una mescolanza di storie, a una moltitudine di biografie.
Un ordine di qualche tipo vi è, ma si tratta dell’ordine di una
burrasca o di una piazza di mercato: nulla di misurabile(C.
Geertz, “Oltre i fatti”)
7.3.1
La Val d’Orcia. “Il posto più bello dove si può vivere”.
“Io sono innamorato della Val d’Orcia, direi che se fosse…io la amo…non c’è donna che ho amato come la
33
Val d’Orcia!”. (…) Lo ritengo un privilegio vivere in questa zona, vivere a Monticchiello e vivere in Val
d’Orcia. Penso che non potrei campare in nessun altra parte, di questo ne sono abbastanza convinto, ma
penso qui non solo io qui da noi eh? Cioè il legame è molto forte, perchè se vai da quelli di Monticchiello e
quegli altri della zona il legame è un legame molto forte. Poi certo dipende da uno cosa vuole dalla vita: se
uno cerca la città, i negozi e quant’altro vive a Chiusi evidentemente, a me che di queste cose non me ne
importa proprio niente perché questo è il posto più bello dove si può vivere.” (int.33)
“Qui è un bellissimo posto, comunque quando torno mi piace, non ci sono costruzioni che offendono perché,
per esempio, già spostandosi in Val di Chiana per me è brutta, nel senso ci sono case costruite senza
nessun criterio, nessuno guarda la parte estetica, neanche la casa sposarla con l’ambiente, quindi quando
vengo da queste parti questi, diciamo, campi sterminati, grano, che comunque son belli, rilassano, a me
piace tornare qua, di tutti i posti che ho girato non c’è nessuno bello come questo.”(int.10)
“Qui senti…le persone che hanno vissuto qui le vedi quasi, le senti ancora, vedi i lavori che hanno fatto, la
natura che hanno trasformato, i campi che hanno coltivato, le terre che hanno smosso, i sassi che hanno...i
muretti e poi c’è questa luce bellissima, se tu fai una foto qui, o una diapositiva, ti accorgi di come sia
particolare la luce qui, specialmente in inverno. Delle condizioni uniche che non ho visto da nessuna altra
parte”. (int.14)
“Io morirei se mi costringessero a sta in città io morirei! Io so abituata a sta nei campi, insomma anche qui,
anche se ora c’è molte case…esci fuori respiri l’aria pulita”. (int.32)
“Io ho viaggiato tutto il mondo però non ho mai visto queste cose!” (int.18)
La Val d’Orcia è bella e vivibile: gli intervistati descrivono il territorio in cui abitano citando caratteristiche
dell’ambiente naturale e antropizzato che essi non farebbero altro che vedere, scoprire, vivere,
inevitabilmente amare, e poi raccontare.
Nonostante si tratti di persone con differente collocazione, attività e storia sul territorio, (in questo caso
specifico, rispettivamente, un professionista di Monticchiello, una ragazza del sud Italia e un artigiano del
nord Italia trasferitisi a vivere nel Comune, un’insegnante pientina in pensione e una fotografa tedesca che
trascorre lunghi periodi a Pienza), accostando i loro frammenti di intervista ci si trova di fronte a un territorio
in cui il godimento estetico e la salubrità si fondono con l’attività dell’uomo producendo un “legame molto
forte” tra popolazione e Val d’Orcia.
Tali caratteristiche sono ciò che nell’immaginario rendono questo posto unico, diverso dagli altri, speciale.
Esse segnano i confini sfumati di un ambiente che pervade le persone che vi abitano nei loro aspetti più
intimi, emotivi ed esistenziali.
“Bellissimo”, “unico”, “autentico”: aggettivi che rappresentano un modo di rapportarsi al territorio che
contribuisce a dare senso alla propria vita.
33
Legenda simboli usati nelle trascrizioni:
(…) = parte di trascrizione omessa
… = pausa dell’intervistato
(?) = sostituisce una parola incomprensibile al riascolto del nastro
(???)=sostituisce più parole incomprensibili al riascolto del nastro
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23
Volume IV – Studi di antropologia
Ciò accomuna, in diversa misura, tutti quelli che con esso hanno a che fare, in cui tutti gli abitanti si
riconoscono e che viene prodotto e riprodotto nelle narrazioni andando a disegnare una realtà: la cartolina
vissuta della Val d’Orcia. “Poi certo dipende da uno cosa vuole dalla vita: se uno cerca la città, i negozi e
quant’altro vive a Chiusi evidentemente, a me che di queste cose non me ne importa proprio niente perché
questo è il posto più bello dove si può vivere.” (int.33)
“Perché” allora “divisioni naturali e spazi che abbiamo considerato intoccabili, in determinate circostanze,
divengono problematici”?, si chiede Gupta a proposito del nazionalismo (Gupta 1999, p.197 in Palumbo
2003, p.10). Perché e come, mi chiedo io, la definizione di questo macrospazio della Val d’Orcia è
ulteriormente suddivisa, nelle descrizioni di chi lo popola, in ulteriori spazi che, a differenza della voce
unanime su presentata, sono molteplici e diversi tra loro? Queste dimensioni parallele dei luoghi, definite da
pratiche e immaginari, cosa esprimono? Come esse coesistono e interagiscono; quali rapporti sociali e quali
soggetti si muovono e muovono tali spazi?
7.3.2
Dallo spazio presente al tempo presente.
“I posti, d’altro canto, sono storie, secondo i poeti e gli scrittori, ma i popoli indigeni e i popoli emigrati sanno
bene che è vero il contrario: le storie sono prima di tutto posti”. (La Cecla 2000, p.155). E’ per questo motivo
che, rispondendo alle domande precedenti, si esploreranno luoghi e storie.
La prospettiva d’osservazione qui adottata infatti non si incentra sull’aspetto geografico o urbanistico degli
spazi quanto su quello vissuto che i primi attraversa, interpreta, ridefinisce, moltiplica, tanto nell’immaginario
quanto nella pratica della vita quotidiana.
In questo testo il territorio del Comune di Pienza è rappresentato come una sorta di terra di conquista,
risorsa materiale e simbolica, costantemente contesa da diversi gruppi: essi si appropriano o perdono spazi
e le relative risorse, costruiscono centri e reti di comunicazione, definiscono confini. In questo processo
pieno di contraddizioni, mediazioni, negoziazioni, collaborazioni e, soprattutto, conflittualità, sono gli spazi e
le risorse stessi ad essere inventati, reinventati, modificati, utilizzati, nominati, segnati con simboli, oggetti,
presenze, attività, lavori. Gli individui coinvolti si costituiscono e rappresentano in gruppi tra cui essi si
muovono dando origine a pluriappartenenze (ad esempio, negozianti, amministratori, anziani, giovani,
operai, imprenditori, contadini, pensionati, immigrati, gli immigrati sardi e quelli romani…). Nelle loro azioni
(economiche, sociali, culturali, narrative…) sono rinvenibili specifiche modalità di rapporto col territorio che
motivano, spesso con esplicite rivendicazioni, il possesso di spazi specifici oppure generici, dove bisogni e
desideri cercano un appiglio materiale o, viceversa, da cui le immagini sono stimolante.
Gli stessi intervistati hanno fatto si che decidessi di usare questo modello di lettura che si richiama
all’ideologia dell’individualismo possessivo (Handler, 1988 in Palumbo 2003, p.27): “un’ideologia che tende a
produrre <<individui collettivi>> immaginati come essenziali, integri, dotati di coerenza e continuità nello
spazio/tempo e definiti dal possesso di oggetti, beni, qualità. (…) Una simile ideologia rende possibile le
costruzione di ulteriori, collettivi, livelli di aggregazione/identità, ognuno fondato sul possesso di specifici
beni” (Palumbo 2003, p.27). Essi infatti, nella pratica così come nelle autorappresentazioni e nelle
rappresentazioni degli “altri”, reiterano l’immagine che vuole alcune categorie di persone occupare e
appropriarsi di spazi e risorse, spesso, a scapito di altri.
Avvicinandosi allo spazio inteso come metafora tangibile (La Cecla 2000), metafore che esprimono
classificazioni assodate per chi condivide la stessa percezione del mondo e che “si possono <<sentire>>,
percepire con tutti i sensi di cui è fatta una <<mente locale>>” (La Cecla 2000, p.121), l’antropologo
partecipa a quella “corposità”, allo stesso tempo simbolica e reale, ascoltando la “mente locale”.
E’ soprattutto con la dilatazione degli spazi attraverso la narrazione che ne emerge l’aspetto vissuto, il senso
che essi hanno per chi li vive; e sulla prospettiva dei soggetti che vivono –determinando o subendo- e
definiscono tali luoghi e relazioni si basa l’osservazione, rappresentazione, riflessione, analisi sviluppate in
questo testo: dallo spazio presente al tempo presente.
Attraverso le dinamiche sociali che ruotano attorno al rapporto dei soggetti col “proprio”, a vario titolo,
territorio, si va definendo quel complesso fenomeno definibile identità. Nel mio percorso d’indagine si sono
via via definiti tre soggetti con una loro specifica identità: locali, esterni residenti, turisti. Essi contribuiscono a
stimolare differenti immagini degli spazi che, interagendo tra loro, creano un ibrido, ma descrivibile,
complesso identitario locale.
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Volume IV – Studi di antropologia
Se “compito dell’antropologo è decostruire ciò che si presenta come un’istituzione” (Abèlés 2001, p.35), lo è
anche decostruire quegli spazi che si presentano come istituzioni, che acquistano, nella formula di Bourdieu,
un’ evidenza dossica: “spazio culturalizzato che, dimenticata la sua radice storica, il suo essere un prodotto
dei rapporti tra esseri umani, acquista agli occhi di coloro che ne fruiscono la immutabile ragion d’essere dei
fatti di natura” (Signorelli 1996, p.60). Mediante pratiche e immaginari locali gli spazi di questo territorio, dal
più grande (Val d’Orcia, il Comune…) a quelli via via più piccoli e nei più grandi compresi (città, frazioni,
campi, poderi, case, giardini, piazze, vie, edifici pubblici, chiese, negozi, scuole, bar…), si mostreranno nella
loro interazione mentre vivono l’apparente contraddizione di essere naturali, un’istituzione, e allo stesso
tempo molteplici quanti sono i soggetti in campo; gli spazi si mostreranno come appartenenze locali
(Palumbo 2003, p10).
Pienza, Monticchiello, campagna: questa la prima suddivisione del territorio fatta dai suoi abitanti. Questi tre
spazi vengono percepiti come nuclei di realtà autonome e specifiche, fortemente differenti, nella loro
articolata contrapposizione, uno dall’altro.
7.3.3
Pienza. “Una macchina per la serenità”
“Ora, Pienza è uno dei luoghi più difficili da comprendere in assoluto, perché è un luogo dello spirito, è un
luogo della ragione. Perché è stato fatto tutto questo? (…) E’ una macchina per la serenità”. (int.1)
“Era un sogno, cioè mi ricordo quando sono partito, se si può pensare…se si potesse progettare di essere
felici al mondo, uno sceglie…almeno io, anche se avevo girato poco un posto come questo era l’unico posto
in cui potevo ipotizzare un progetto di questo tipo.” (int.14)
In molti, come gli informatori ora citati, si sono trasferiti a vivere a Pienza: quasi folgorati dal luogo hanno
deciso di trasformare la tappa di un viaggio in progetto di vita. Ma a quel primo impatto segue
un’integrazione non facile, come racconta una ragazza di una capitale dell’est Europa: “E niente l’inizio è
stato tanto tanto duro perché essendo un paesino piccolo hanno una mentalità…sono parecchio chiusi…per
fare le amicizie per…come si dice…per climatizzarsi qua ci vuole un po’ di tempo. Poi, niente, la vita va
avanti però…sono rimasta qua però non lo so se rimango perché mi mancano tante cose, cioè magari è
bello stare qui però se non sei nata qui…”. (int.23)
L’integrazione appare complessa, come osserva uno di questi nuovi residenti: “E’ un posto che richiede
un’immersione totale qui, cioè se aderisc…cioè se hai delle preclusioni qui…devi accettare l’ambiente com’è
nel bene e nel male (…). La gente qui avverte subito se sei dentro o fuori.(…) Se non ti inserisci subito, è un
problema di…diventi un po’ un reietto a vita, un po’ isolato, un po’ guardato come quello strano. (…). Ci son
tutti dei rituali, dei linguaggi cifrati che sono difficili a intendere a volte” (int.14). La maggior parte dei residenti
esterni vive “in uno splendido isolamento” (int.14) nei poderi.
Come riconoscono sia esterni residenti che locali, c’è spesso ostilità verso chi è venuto da fuori. Un’ostilità
che esprime il disagio per i cambiamenti avvenuti a Pienza in tempi recenti e che vengono definiti in modo
più o meno generico ed eterogeneo a fronte della precisione nell’individuarne le cause.
“La realtà di Pienza è stata cambiata dagli anni ottanta con tutta la gente che è venuta da fuori e quindi ha
perso l’identità del paese che comporta rapporti tra famiglie che poi diventa tra ragazzi e quindi i ragazzi
sono sempre più portati a vivere in maniera individuale, non ci sono nemmeno punti di ritrovo, son più portati
a vivere da soli e probabilmente questa solitudine a molti pesa.”(int.20) dice un’insegnante pientina parlando
del disagio giovanile “post-scuole medie”. Pare che un’alta percentuale di giovani, si parla del 30%, qui
faccia uso di psicofarmaci. Questo fenomeno, che sia o meno particolarmente significativo rispetto alle
medie nazionali, colpisce gli informatori che lo denunciano nelle interviste e ne ipotizzano le cause nella
recente storia locale: l’improvvisa, ingestibile, ricchezza, “tanto dipende dai soldi, penso, perché magari le
famiglie che non hanno avuto niente, erano contadini poi all’improvviso con lo sviluppo che è stato qui sono
diventati ricconi e gli è partita la capa o…non lo so guarda…non lo so, io non ho mai vissuto in un paesino
piccolo così…” (int.23), o il venir meno di riferimenti, “le Acli erano un punto di riferimento, secondo me,
importantissimo perché c’erano dagli anziani ai ragazzini, e quindi era un luogo dove gli amici (?) le prime
simpatie, i primi amori, era una luogo sicuro dove si incontravano…” (int.20) In una frase così viene espresso
il disagio dei cambiamenti: “Pienza ha perso il positivo del posto piccolo e ha preso il negativo della grande
città” (int.20)
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Volume IV – Studi di antropologia
“La crisi, divenuta motore che incide sulle ragioni di antiche divisioni e insieme meccanismo di ricerca di
ricompattamento identificativo, più che risoluzione negativa o azzerativa, va vista come un insieme dinamico
di forze contrastanti che, proprio per il campo tensivo in atto, moltiplica la ricerca di ragioni identitarie. (…) Le
immagini, pur laceranti, che ne fuoriescono vanno individuate fra gli elementi costitutivi della cultura locale
stessa, non meri segni di meccanico decadimento” (Simonicca 2004, p.132). E in questa prospettiva sono i
residenti stessi a parlare di “cultura”, “autenticità”, “identità”: categorie che, quando sono utilizzate in prima
persona, tanto singolare che plurale, assolvono a funzioni di rivendicazione politica e ridefinizione
esistenziale. “L’autenticità di questi posti purtroppo col tempo è andata a farsi benedire, in buona parte, però
cioè non è che è sparita è andata, come sempre, è andata…è diventata una cosa sotterranea, la cultura
autentica più classica, la trovi se scavi un pochino c’è ancora…però…” (int.14)
Un inciso doveroso: quando noi antropologi facciamo domande sul territorio e sulla vita a Pienza, tanto più
se nominiamo il Piano Strutturale, sono soprattutto gli aspetti problematici ad essere sottolineati, in quanto
veniamo considerati soprattutto un veicolo per comunicare e ribadire le proprie lamentele
all’amministrazione.
I discorsi sul disagio si legano a quelli sulle depressioni e i suicidi. Secondo alcuni le tragiche esasperazione
del disagio sarebbero causate proprio da uno degli elementi che viene citato come peculiare prodotto della
“macchina-Pienza”: la serenità. Nonostante, come noto io stupita da questi fenomeni, questo sia “un posto
che trasmette tranquillità, pace rispetto alla città”(int.14), quella tranquillità è “anche troppa, anche troppa
perché ti pone, ti pone davanti a te stesso, non come una città, lì non c’hai tempo” (int.14).
La macchina per la serenità può diventare una macchina del disagio quando la storica tendenza alla stasi,
attribuita al contesto locale, interferisce con quella recente al mutamento, associata al turismo? Un esterno
residente a Pienza si dilunga sulla chiusura caratteriale attribuita ai pientini, che sarebbe causata
dall’isolamento storico della popolazione, un isolamento “che però ha partorito una cosa eccezionale, e cioè
il territorio” (int.1) e una pientina dice che bisogna “dirsi ok, ora noi ci fermiamo, il mondo vuole andare avanti
e noi si vorrebbe rimanere così!” (int.17). Il turismo e gli esterni residenti sono attratti proprio da quella
serenità e tranquillità del territorio, elementi della qualità della vita che con le politiche di sviluppo locali sono
stati valorizzati assieme agli aspetti naturalistici e artistici, che sono accusati di compromettere: ma sia il
territorio che si è scelto di “fermare” e valorizzare in alcuni suoi aspetti che la presenza di persone esterne
sono aspetti del cambiamento. I nuovi soggetti innestatisi ormai strutturalmente sul territorio –nelle loro
diverse modalità di fruizione: permanente, nuovi residenti, transitoria ma continua, turisti-, danno un volto alla
mano invisibile dei fenomeni di globalizzazione di luoghi, risorse, persone che vanno a collocare quella
“bomboniera tutta rimbombante che ti senti appena alzi la voce” (int.37) all’interno dell’ ecumene globale
(Kopytoff 1987 in Palumbo 2003): Pienza è stata riconosciuta dall’UNESCO patrimonio mondiale
dell’umanità.
Di questa congiuntura alcuni ne starebbero godendo, altri solo pagandone il prezzo. Gli esterni avrebbero
nelle mani molti degli esercizi commerciali legati al turismo e quindi i relativi vantaggi economici, mentre i
locali, che vivono prevalentemente di stipendio o pensione, non sentono di avere vantaggi da tali attività ma
al contrario disagi, come l’aumento dei prezzi. Ma anche tra i locali stessi c’è attrito in quanto si sarebbe
strutturata una divisione sociale sulle nuove differenze di reddito, anche in questo caso ricondotte al turismo:
me lo spiega un giovane operaio pientino che prosegue mettendo in relazione il boom degli affittacamere
con gli scarsi alloggi in affitto per i residenti.
«E che fanno? Vanno via, perché a Pienza è impossibile. (…) Neanche ci penso io a comprare una casa,
cioè, è un progetto irrealizzabile…» (int.12). Ma anche tra gli imprenditori vengono denunciati disagi: “la
popolazione che fa impresa è veramente in una situazione di esplosione, però cosa succede, non hanno la
forza, perché son troppo legati al loro particolare, di mettersi insieme” (int.1).
E’ il turismo di massa che viene individuato e citato come causa di attriti e problematiche all’interno della
piccola comunità in cui “ti vedi anche se non ti vuoi vedè’” (int.37). Chi torna, dopo aver passato un periodo
a lavorare e vivere fuori Pienza, nota: “Una cosa che ho ritrovato, ma peggiorata molto. Cioè prima era così
ma non era così con cattiveria, ora c’è cattiveria” (int.37)
Il denaro viene individuato come quell’elemento che ha rotto i legami di solidarietà.
«Una cosa lampante: c’è il conflitto tra quelli che hanno avuto l’occasione di pote’ fa’ i soldi, hanno camere o
negozi per turisti, hanno soldi, e quelli che non hanno avuto la possibilità o l’occasione e sono rimasti
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Volume IV – Studi di antropologia
indietro. Qui c’è un odio veramente (…) cioè che se qualcuno parla e dice: “Guarda a me non mi ci viene più
la gente al mio affittacamere” l’altro dice “Bene! Son contento!”» (int.12)
Questo atteggiamento sembra rientrare tra quegli esempi etnografici che mostrano il ruolo centrale
dell’invidia come meccanismo riequilibratore della competizione economica e politica; meccanismo
complesso e contraddittorio che se da un lato può portare alla competizione allo stesso tempo può
cementare una società impedendone i movimenti. (Lai, 1996; p.105)
E questo paradossale movimento, caratterizzato da tante cose che succedono ma che sembrano non
cambiare niente, mi viene comunicato da molti intervistati. Così prova e spiegare un giovane trasferitosi a
Pienza dal sud Italia impegnato nella realizzazione di attività culturali: “secondo me è un posto, non so per
quale motivo, dove le cose tendono a non crescere, a non…è come se ci fosse un certo distacco tra il posto
e la gente che ci vive” (int.16)
7.3.4
La piazza. “La piazza a Pienza è veramente la piazza”
Disorientamento con relativa spersonalizzazione sembrano i rischi percepiti dai pientini quando parlano della
piazza evocando quella sacralità del centro, di cui scrive La Cecla, la cui privazione in un insediamento
rende “difficile definirne i confini (…): in una città senza centri si può certo <<scivolare >> ed avere la
vertigine di un essere continuamente rimandati ad altrove” (La Cecla 2000, p.101)
“(…) è proprio la piazza, ci si sta seduti, nei murelli. Se tu ci vieni d’estate dopo cena è incredibile, perché i
bambini, anche oggi giocano a <<un due tre stella>>, non so se lo conosci, e ci sono i bambini che giocano
a <<un due tre stella>> affacciandosi alla facciata del duomo e che giocano a nascondino, mischiati ai turisti,
ai genitori, ai nonni, a tutto, ai cani e ai gatti. E questo è bellissimo, questo c’è anche ora eh. E questo da
giugno a quando si può uscire la sera, a settembre, è così. Però ecco questo raccontare i personaggi
purtroppo sta finendo. C’è il fruttivendolo, lo conosci? Si chiama Beppe, lui è tutto un racconto, è tutta una
risata, ti racconta quella del Topo, del Topone, del Topino che è il figlio che abitano lì accanto. C’è un suo
collega (rivolta a un’altra persona), Danilo Pasqui, che ha raccolto in un libro tutti i detti, tutte le cose buffe,
ora non lo so perché ci vado poco in piazza però fino a qualche anno fa te…cioè Pienza se vai in paese trovi
sempre il momento di sederti e di avere qualcuno accanto che ti racconta le cose buffe, buffe e meno buffe
ma comunque ti fa vedere degli spaccati del paese particolari. E prima questo era proprio il fulcro del
divertimento, oggi bisogna un pochino andarli a cercarli perché, perchè la piazza ora tutto il giorno è piena
di…oggi io ci sono passata e…alle quattro o quando esco da scuola alle due, è piena la piazza, ma è piena
di turisti. Una volta alle due era deserta, come è deserta ora d’inverno, perché la gente va a mangiare, e
quindi è vuota. E’ come se l’avessero occupata altre persone, non fosse più sua la città. Prima era sua, coi
suoi personaggi, le sue persone, che ridevano, che raccontavano con i sistemi buffi, in tutti i modi o un po’
più tragici, oggi bisogna veramente andarle a cercare queste persone che raccontano perché la gente è
distratta, è distratta da tutto , da quello viene da fuori, (???) anzi tanti pientini c’hanno i negozi, si lamentano
quando c’è meno giro, però questo giro ha spersonalizzato”. (int.20)
Al cambiamento del ruolo di questi personaggi, riconosciuti da molti come detentori del patrimonio vivo della
cultura popolare locale, si lega il diverso uso degli spazi sociali da parte di nuovi soggetti che ne
usufruiscono per altri tipi di attività. Ciò si evince, ad esempio, da quello che dice un giovane napoletanto, da
tempo trasferitosi a Pienza con la famiglia, quando mi parla, in termini di perdita di valori, del mancato
riconoscimento di questi personaggi da parte delle nuove generazioni:
“(…) detentori di un modo di fare che è molto ricco secondo me, della chiacchiera al murello…ci sono loro,
un giovane non ci va, e vengono considerati i perditempo <<quello fa il professore ma comunque sta in
pensione non c’ha un cazzo da fa, io c’ho bottega>>”. (int.16)
L’appropriazione momentanea della piazza da parte di diversi soggetti dà centralità di volta in volta a varie
interpretazioni del paese e delle sue caratteristiche. “Io volevo che il cliente aprisse una finestrina su questo
mondo immenso che è il primo Rinascimento” (int.1) dice una guida turistica per la quale, da quando dal
nord Italia si è trasferito a Pienza, svelare questa dimensione ai visitatori è quasi una missione: «Credo che
questo sia un luogo da amare in maniera sviscerata nonostante tutti i difetti che ha, perché è uno dei luoghi
in assoluto più belli, i valori dell’estetica e il senso dell’armonia sono presenti al massimo livello (…). Tanto è
vero che quando abbiamo un pochino di tempo e riusciamo a comunicare con le persone, vedi queste
persone che cambiano completamente faccia. Cioè loro vengono qui pensando di vedere una cittadina
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Volume IV – Studi di antropologia
carina, bellina, che hanno visto in pubblicità o alla televisione e si accorgono invece di essere arrivati alle
radici dell’uomo.» (int.1)
Diverso il periodo storico a cui fanno riferimento i locali quando, una volta l’anno, si assembrano per
partecipare, da giocatori o da tifosi, al cacio al fuso. Le squadre hanno il nome dei quartieri, il Casello, le
Mura, il Prato, per citarne alcune, e i giocatori sono gli abitanti. Tutti sono assorti verso il centro della piazza,
ma stavolta non sono le geometrie del Rossellino ad essere contemplate bensì la circonferenza roteante
della forma di cacio lanciata con gesto esperto dal giocatore di turno. Come quello del panforte, il cacio al
fuso era un gioco semplice praticato nei poderi dai contadini e ora ripreso dalla pro-loco la quale “mentre per
tanti anni è stato l’elemento di propulsione, come far venire qui la gente, ora si sta trasformando piano piano
anche in un’associazione che cerca di organizzare cose, sì, ma per noi (…) per creare occasioni per stare
insieme. (…) Per rompere l’assedio c’è rimasto soltanto il recupero delle feste tradizionali, che sarà
strumentale quanto si vuole, e però per noi non c’è rimasto altro. (…) C’è stato questo boom delle feste di
noialtri, che sono affollatissime e dalle quali si tengono rigorosamente a distanza i turisti”. (int.8)
Ma non sempre i turisti possono essere tenuti a distanza. “Rubano e mangiano le uova benedette” li accusa
il titolo dell’articolo pubblicato sul “Corriere di Siena” (13.04.2004) da un giornalista pientino a ridosso delle
vacanze pasquali. E in molti mi raccontano divertiti l’episodio verificatosi nel periodo di Pasqua. In occasione
della “benedizione delle uova”, le anziane di Pienza avevano portato in chiesa, come consuetudine, delle
uova sode in chiesa. I turisti, collegando il cartello “offerte” con queste uova esposte, hanno depositato la
presunta offerta e se le sono mangiate. Esasperazione grottesca di quel “rito cosmofagico” (Morin, 1963,
p.76 in Lai 2001, p.130) che caratterizza l’approccio del turista ai luoghi visitati: il loro consumo. Questo
episodio ben esemplifica, secondo me, la mancanza di condivisione di senso degli spazi e delle situazioni tra
turisti e locali. Ciò genera disagio tra i locali anche ad un altro livello, quello del mancato riconoscimento
identitario e culturale della comunità da parte dei visitatori. “Una delle nostre frustrazioni maggiori, tra
virgolette, è il fatto che tanti di questi vengono a Pienza per il pecorino, e non per la città” (int.2).
I locali osservano i turisti divorare simboli, cibo e immagini con lo stesso appetito. “Quando c’è le
processioni, come quelle del corpus domini, vengono raccolti fiori, soprattutto ginestre, vengono...nelle
strade fatti dei disegni con dei fiori, una bella bella bella tradizione, c’è rispetto da parte dei pientini, un
pochino meno da parte dei turisti che vedono più come un folklore quindi occasione di fotografie e non
tanto…quindi passando anche con la processione si vede gente seduta al bar, fuma...no, una volta i negozi
chiudevano le saracinesche, insomma c’era rispetto, oggi tranquillamente il turista…il pientino invece è
legato.”(int.25) commenta un esponente di primo piano del mondo cattolico locale.
7.3.5
Centro storico. “Le invasioni barbariche qui durano tutto l’anno”
Il forte legame che i pientini hanno con Pienza mi viene sottolineato da molti. Sarebbe addirittura eccessivo
secondo alcuni, come chi ha lasciato Pienza “perché gli stava stretta (…). Invece io sto bene qui, mi trovo
bene a Pienza, questa realtà a livello proprio umano, ecco, il contesto del paese a me piace, non è
spersonalizzante, quindi io mi ci trovo bene. Mi sarei trovata a disagio, ecco, a lavoro in una città” (int.2) dice
una giovane pientina che lavora e abita a Pienza.
Questo attaccamento è manifestato soprattutto nei confronti del centro storico: “il paese” per antonomasia.
“Perchè anche lì quando i miei genitori comprarono…cioè prima cosa comprarono questa terra dalla chiesa
e poi…perché non trovavano modo per avere una casa più grande in centro storico in quanto avrebbero
voluto allargarsi un po’ e quindi lì vicino non…sembrava anche i confinanti vendessero, alla fine non hanno
più venduto, alla fine hanno fatto questa scelta che secondo me è stata produttiva nel senso che, cioè pur
amando tanto il centro storico, la vita in centro storico è faticosa oggi, se uno non c’ha garage, deve fa la
spesa lascià la macchina…cioè poi alla fine anche lì è tutto, cioè la cosa che non condivido del centro è
questo essere tutto legato a queste camere affittacamere cioè voglio dire, non è per niente un luogo di
socializzazione” (int.38)
“(…) con questo cacio benedetto c’è stata l’invasione del formaggio, allora son sparite tutte le botteghe di
generi alimentari e vendono solo prodotti così: vino, formaggio, salumi. Ma io per fortuna questa bottega qui
regge…Despar…e allora giusto quando hai voglia di andare in paese, vai a messa, ecco, oppure quando c’è
la sorella che vo a trovare lei, tanto pe fa una passeggiata. Prima ci si andava di più, poi ora è diventata
anche un problema quando c’è tanti turisti, non si passa qualche volta eh, è stata un pochino inflazionata
pora Pienza”.(int.32)
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Volume IV – Studi di antropologia
“…un sabato sera <<che facciamo? Beviamoci una birra>> proprio niente, perché il paese dopo le otto e
mezzo di sera è morto, è letteralmente morto, non c’è niente da fare. Questo è un po’ triste perché se fosse
riqualificato un po’ magari il centro storico con qualche locale per richiamare anche magari giovani da altri
posti della zona sarebbe meglio però…vince la politica del cacio e basta, del turismo, e quindi per i giovani
non c’è molto spazio”. (int.22)
Abitazioni, negozi e spazi sociali all’aperto e al chiuso: sono questi i luoghi del centro di cui i locali si sentono
espropriati dal turismo nelle sue molteplici forme -turisti, commercianti, prodotti, negozi- e che fa dire che “la
vita in centro storico è faticosa oggi”. Dunque quando si parla della consuete attività quotidiane il discorso si
sposta fuori dalle mura: dove c’è la Despar, l’Auser, i giardinetti… Parlare del centro storico è parlare
perlopiù di negozi, prodotti e turisti: “Le stesse cose che trovi ovunque, nei grandi centri commerciali, qui li
trovi infiocchettati, il fiocchettino rosso (…) però c’è immagine…se vai nel corso senti la gente: <<ah bello!>>
vien da ridere” (int.20). Questi negozi vendono “una cultura contadina improbabile, immaginata” (int.8). “E’
una città museo” (int.16); “Piano piano piano piano piano c’hanno levato ogni cosa!” (int.32) si rammaricano
giovani e adulti, pientini da generazioni come i nuovi residenti.
D’altronde “se ci fossero state le case disponibili a Pienza vuol dire che non ci sarebbe stato il turismo”
(int.40) sbotta un amministratore mostrando l’altro lato della medaglia: quello dello sviluppo economico di cui
beneficerebbe direttamente o indirettamente la popolazione.
Un esterno del Centro Italia, che è da poco a Pienza con una casa e un’attività commerciale nel centro
storico, offre un’ulteriore immagine sulla vita sociale pientina che al contrario, dalla sua prospettiva, potrebbe
beneficiare di un incentivo delle attività turistiche: “Io l’unica cosa invece che m’è venuta un po’ all’occhio è
che mi è sembrato un paese che non ha molta voglia di fare delle iniziative, di aiutare un po’ anche il
commercio nei periodi più morti, cioè da quello che ho sentito, che mi hanno raccontato, che ho potuto
vedere, mi è stato riferito che ci stanno paesini qui attorno che sono molto più attivi, comunque cercano di
invogliare anche le persone con manifestazioni con feste con sagre ecco nei periodi, potrebbe essere
l’ideale, da gennaio a marzo aprile dove di turismo ce n’è poco, però mi sembra di capire che a parte quelle
due tre manifestazioni classiche che fanno che è quella dei formaggi, dei fiori, forse un altro paio, il resto è
un paese che forse tende più a isolarsi che a coinvolgere la gente. (…). Al di fuori di queste manifestazioni
non mi sembra ci sia vita di paese, non ci sia uno spazio comune dove poter coinvolgere le persone del
posto, non c’è un cinema, non c’è un teatro, non c’è…non c’è niente che possa aggregare un po’ le persone
del posto perché poi la vita finisce alle sette di sera, tutti vanno a casa, per strada gira qualche ragazzetto,
qualcuno di questi, basta, non c’è mai qualcosa che possa coinvolgere tutti quanti, quindi credo che questa
potrebbe essere una cosa che si potrebbe sviluppare perché poi credo che la gente abbia piacere a
ritrovarsi a fare qualcosa insieme se uno non gli dà le possibilità, non c’è niente” (int.15)
I commercianti che hanno le proprie attività nel centro storico al di fuori di Corso Rossellino esprimono il
disagio per il turismo frettoloso che affolla il Corso e la Piazza Pio II che si spinge al limite sulla via
panoramica. Essi stanno raccogliendo delle firme per far segnalare le loro attività con delle insegne da porre
lungo l’affollato Corso. Basta infatti infilarsi in una traversa e fare pochi passi per trovarsi in altre dimensioni:
il quartiere Gozzante ad esempio. Qui abita una straniera che è venuta a Pienza “venti anni fa, quando
Pienza era ancora Pienza, tranquilla, quasi niente di turismo” (int.18) e definisce Gozzante “il suo angolo”
(int.18) perché è rimasto come la Pienza di una volta, con i vasi, i fiori, le vecchiette che stendono la
biancheria, mi dice. Qui i pochi negozi e botteghe coesistono con qualcuno di quei giardinetti che c’erano
quando tutto era fatto in casa, continua a spiegarmi la signora, dove si coltivava frutta e verdura. Passando
davanti a queste abitazioni si rinviene quella cura dei pientini nei confronti della città, di cui mi parlava una
giovane del posto: “Ognuno fa a gara ad avere la propria porta o la propria finestra più bella del vicino”
(int.2). E’ l’intervistata straniera che mi racconta che quando nel medioevo costruirono le case di Gozzante
utilizzarono resti di costruzioni romane e che i molti ingressi delle case fanno dedurre che alle costrizioni
originarie aggiunsero mano mano dei pezzi. Mentre sul Corso Rossellino si trovavano i “palazzi” nobiliari, qui
abitavano le persone più povere, mi dice. In molti casi è ancora così: vi abitano molti anziani, alcuni dei quali
non vedo mai arrivare nelle vie centrali. Vivono di pensione in case semplici e povere come quella che mi
descrive l’intervistata a cui piace quel letto che si trova nella stanza da letto fatto con il “tipico ferro battuto”
(int.18), i mobili di cinquanta sessant’anni fa portati a casa per il matrimonio, le tende fatte a mano, ma che si
dispiace notando che l’anziana padrona di casa non usa mai il riscaldamento perché per lei costa troppo e
allora preferisce usare la cucina a legna (int.18). I figli di questi anziani che sono diventati ricchi con le attività
commerciali sono poco attenti agli anziani genitori, grazie al cui lavoro spesso hanno potuto investire nel
turismo: non hanno tempo per badare loro e si rivolgono a delle badanti straniere, nota con rammarico la mia
intervistata. “Hanno comprato un palazzo, hanno comprato un altro, guidano il fuoristrada , ogni due mesi
chiudono il ristorante perché vanno…adesso son stati al Mar Rosso!” (int.18). “Tra venti anni qui è tutto
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Volume IV – Studi di antropologia
cambiato” (int.18) profetizza proiettando nel futuro quello che sta accadendo oggi: questi anziani vendono a
prezzi elevati le case a stranieri come lei che ne vanno matti perché, come le hanno raccontato gli anziani di
Gozzante a proposito dei figli: “Quando noi siamo anziani, loro non vogliono più vivere qui, loro vogliono
Pienza nuova, casa più grande…” (int. 18).
7.3.6
La zona nuova. “E’ un dormitorio”.
«Queste case nuove non sono state occupate da persone nuove, ma da persone che sono uscite dal
paese.» (int.7)
Molti dei giovani intervistati esprimono però il disagio per quella che è denunciata come un’espulsione dallo
spazio percepito e vissuto come il proprio spazio. “Non esistono altri luoghi di ritrovo estranei al centro di
Pienza. Tieni conto che da casa mia se esci si dice: <<vado nel paese>>.” (int.16). Dai racconti dei giovani
non emergono connotazioni particolari delle aree delle zone nuove in cui molti di loro risiedono. Uno ragazzo
si ricorda del “pallaro”, il luogo dei giovani che avevano dai dodici ai diciotto anni: lì c’erano i tavolini, si
poteva bere una bibita e giocare a carte, mi racconta, ora “è sparito per dare spazio al luogo di ritrovo per
anziani che, tanto di cappello, però non conosco perché è diventato un posto estremamente chiuso dentro
se stesso. E’ brutto perché prima non era così” (int.16), quando ci si trovava a chiacchierare con anziani,
continua.
“Quello è stato veramente una bella…però per le persone dai quaranta in su…una bella cosa. Funziona, è
animato, s’organizzano gite, per quella fase, per quell’età lì è perfetta” (int.12) mi dice un altro ragazzo. E
una ragazzina della scuole medie: “Si ma l’Auser io ci so andata una volta, è pieno di vecchi!". Diversi giudizi
di una separazione generazionale: ricordo nostalgico di quando non era così da parte dei più grandi,
abitudine ad una situazione da sempre vissuta come tale dai più piccoli che tuonano di volere uno spazio
tutto loro “con un bagno, lo stereo, ma anche la televisione…(…) per organizzare delle feste!” (int.21). La
condivisione intergenerazionale dell’Auser luogo però viene segnalata da una mamma che, in mancanza di
altro, mi dice, lo frequenta con i figli piccoli: “Non è un Comune che ha tanti spazi per la vita sociale, se uno li
trova nella strada, nel parlare, nel giardinetto però ecco non è che ha spazi di vita sociale, penso che il più
importante è l’Auser! Dove c’è veramente vita, noi ci si va a prendere il gelato, tutti i giorni, quindi
conosciamo tutti, ecco l’unico posto dove vedo che c’è un po’ di gente che magari…”. (int.38)
In molti, soprattutto giovani, definiscono la zona nuova “un dormitorio” ma non è così per tutti. Anche qui ci
sono luoghi che hanno una loro storia e una loro socialità: si tratta di una storia recente e una socialità
metropolitana che appartiene ad un’altra generazione.
“Via del cancellino” o la zona del “Piano Masai” hanno visto agli inizi degli anni ‘60 delle giovani coppie alle
prese con le incombenze delle nuove abitazioni: disagi diluiti nel racconto dall’entusiasmo per la casa nuova
e la nuova famiglia. Una pientina racconta le sue vicende di “nomadismo” per Pienza che evocano i
cambiamenti urbanistici e quelli della percezione di spazi e distanze. Da bambina abitava in “Villa
Beccacervello”, vicino al cimitero, poi, quando ha iniziato ad andare a scuola e questo breve percorso, allora
tra i campi e a piedi, risultava troppo lungo, si trasferì con la famiglia in una casa appena fuori il centro
storico di Pienza; successivamente in una casa di proprietà in viale Piccolomini, “anche quella un po’ fuori
paese” (int.32) che “ha fatto costruire il conte a quelli che avevano avuto la casa distrutta dal
bombardamento” (int.32), infine col marito, che originariamente abitava in piazza Galletti, “quella piazzettina
all’interno del paese” (int.3) è tornata vicino al cimitero, dove tuttora risiede, in “via del cancellino”.
“Quando siamo venuti noi non c’era niente, nemmeno la strada… Io mi sono sposata nel sessantacinque, la
casa è stata iniziata nel sessantatre…comunque nel sessantacinque siamo tornati qui, ci siamo sposati qui,
siamo tornati qua. La strada non c’era, c’erano i campi, addirittura s’è fatto noi una specie di tracciato, con
delle pietre, se no quando pioveva…! C’era questa…la prima strada che s’è fatta è questa, la via del
cancellino. Poi dopo ha fatto la casa il nostro amico lì, poi questo qua…e prima di noi c’era…quell’ultima
casa…ora da qui non si vede…in cima a via del Cancellino, mi sembra, però non son sicura… Infatti tutti mi
dicevano: <<ma dove ti sei fatta la casa?! Al cimitero?!>> perché il cimitero è qui! Poi piano piano, s’è
riempito, e tutto. Ci si aveva la chiesa, qui. (S.Caterina). Poi un anno dopo l’altro… Poi hanno fatto il campo
sportivo, dove i miei ragazzi hanno imparato a bestemmiare prima che a parlare!”. (int.32)
L’irrefrenabile socialità della “bella tribù” (int.32), come la definisce, dei figli degli inquilini che rendevano
terreno di gioco tanto i campi circostanti che le strade asfaltate e gli slarghi urbani: in queste zone di confine
tra zona nuova, centro storico e campagna queste famiglie riempivano di voci una piazza anonima.
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Volume IV – Studi di antropologia
“Facevano gli spettacolini qui in piazza! Qui, in questa piazzettina. Facevano il teatro, poi i genitori dovevano
pagare per vedere lo spettacolo, mettevano tutte le coperte con le corde…Ora poi è pieno di macchine.
Semmai ora i nostri ragazzi producono (ride) e allora…però di solito vanno fuori al lavoro…qui i bambini
piccoli…i nipotini di una signora qui, una nostra amica, quest’altra famiglia che ha cinque figli quello sardo,
nipoti ce ne ha già sette però non abitano qui con loro, i ragazzi glieli portano la mattina. Comunque ora
qualche bambino piccolino ora c’è, però quando siamo arrivati noi era una bella strada…si divertivano,
facevano le merende, andavano a coglie i tulipani, poi li rivendevano, poi col ricavato si facevano le
merende, le cene qui in piazza. Valeria: “Come si chiama?” Intervistata: “Non gliel’hanno messo il nome,
hanno fatto la numerazione nuova ma non gli è stato dato. La piazzetta è rimasta anonima.” (int.32)
“La bella tribù” di bambini non c’è più, sostituita dalle automobili dei residenti e dei clienti di un affittacamere.
Ma chi è rimasto a volte utilizza gli spazi come un tempo: “Qui insomma o prima o poi tutti si viene dalla
campagna. E poi uno mantiene le abitudini: questi orticelli che ci so anche in mezzo alle case, anche in
paese ci sono. Però te l’ho detto, spariti gli anziani penso che spariscono anche gli orti, perché ormai i
giovani hanno altri interessi, altre cose…” (int.32)
La socialità di queste zone nuove si è oggi molto affievolita anche se questi inquilini storici continuano un po’
di vita di quartiere fermandosi a chiacchierare davanti casa: “ci si conosce tutti”(int.32) da quando le case
erano in costruzione, dice l’intervistata riferendosi anche a chi abita in “via del pergolato” e in “via della valle”.
I racconti dei giovani che abitano nelle zone nuove hanno punti di contatto con quelli della generazione che li
precede se hanno dei figli. Questi nuovi gentitori dicono di aver scelto di vivere in queste case perché sono
più grandi, nuove e luminose delle case del centro storico e, per questi motivi, le ritengono più adatte per i
bambini: “Io inizialmente ero un po’ titubante nell’andare a vivere per conto mio ma perché non trovavo una
casa che avesse delle caratteristiche abbastanza accomodanti, ospitali, perché son tutte case vecchie in
paese, così mi hanno detto, da rimettere a posto, comunque un po’ buie. E io infatti sono andata a visitare
una casa che era a appena fuori dalle mura, buia, vecchia...e non è stata sicuramente una bella
impressione. Poi ho avuto la fortuna di trovare quest’altra signora che affittava questo appartamento nuovo,
cioè messo a posto da pochissimo e…quindi casa nuova, me l’hanno ammobiliata e allora a quel punto sono
subentrata. Altrimenti non sarebbe stato possibile. Ho trovato una casa luminosa, nuova, allora…” (int.26)
Ma oggi non ci sono tutti quei campi vicino casa che, in ogni caso, non sono più considerati luoghi adatti per
i giochi dei bambini.
Una giovane mamma si lamenta per l’incuria dei giardinetti: si riferisce a quella che viene chiamata “la
pinetina”, il piccolo giardino all’ingesso del viale di Santa Caterina dove la mancata manutenzione di muretti
e giochi sarebbe rischio di pericolo per i bambini. Anche se esistono dei giardini più grandi nella zona nuova,
spesso i primi vengono preferiti in quanto più frequentati.
“I giardini pubblici che sono dei posti pericolosi, addirittura, perché io giardinetto in cui vado con la bambina
basterebbero pochissimi soldi…” INTERVISTATICE: “Ma qual è, quello vicino all’Auser, quello più grande?”
INTERVISTATA: “No, io dico quell’altro, prima della porta del paese ci sono i giardini con le aiuole (…). Il
giardino a Pienza è fatto in modo tale che c’è un pezzo di strada asfaltata in mezzo (…) poi ci sono queste
due grandi aiuole, giardini, ai lati, qui c’è un’ uscita, un’ uscita e tanto e vero è stata fatta una pedana per i
disabili credo, si potrebbe mettere un cancello per evitare che ci sia subito poi la strada, perché lì a fianco c’è
proprio il parcheggio dei pullman, per dire. Potrebbe essere una cosa che fa anche comodo e che è di
pochissima spesa, lì un cancello. Dall’altra parte, da quest’altra parte, dove c’è in pratica poi la strada che
prosegue, arriva lo stop, di fronte al bar, c’è un'altra uscita e qui c’è sempre la strada, mettere un altro
cancello, perché almeno anche con i bambini siamo più sicuri. E quello potrebbe essere uno spazio dove i
bambini stanno benissimo. Oppure c’è l’altro giardinetto dall’altra parte con le altalene. C’è una specie di
dirupo che non è altissimo però vari bambini ci son caduti. Basterebbe mettere una balaustra, anche di
legno, non dico altissima perché poi magari sarebbe non tanto bella, però una protezione potrebbe essere
messa benissimo. Anche le altalene stesse, c’è un sedile scivolosissimo, infatti ci cadono spesso da quelle
altalene. Poi c’è la passeggiata di Santa Caterina che è una gran bella cosa perché i bambini ci stanno. E’
vero che son disgraziati i padroni dei cani perché nonostante il divieto di introdurre cani ce li introducono lo
stesso e in certi momenti è proprio sporco. E lì ci si va spesso, d’estate non è possibile perché è troppo
caldo però è l’ideale per i bambini perché son liberi, li puoi lasciare liberi anche di correre, perché poi alla
fine ci sono le catene però lo spazio è anche lungo, uno non lo può lasciare incustodito, però anche Santa
Caterina è uno spazio importantissimo per i bimbi. Poi l’altro parco giochi che dicevi te accanto all’Auser è
fatto in modo tale che anche se non c’è il cancellino c’è tutta la siepe, volendo uno controlla un po’ meglio
però…cioè se anche queste zone aggiungerci il cancellino io penso non sarebbe…. Questo lo frequento
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Volume IV – Studi di antropologia
meno perché…non lo so perché, mi viene più spontaneo andare dall’altra parte, ci si incontra di più dall’altra
parte perché c’è vicino anche la passeggiata, Santa Caterina che comunque, o nel pomeriggio tardi, se è
troppo caldo la mattina o nel primo pomeriggio, alla fine ci si va sempre lì a Santa Caterina e ci si incontra in
questi posti qua. Poi si ogni tanto si va anche agli altri giardinetti perché comunque ci abitano sempre lì nella
zona altri bambini e…per comodità anche i genitori a volte li portano lì o d’estate…la sera sono andata
anche lì a quei giardinetti là…quindi anche quelli insomma sono utili… (…). In piazza ci si gioca la sera
d’estate!” (int.26).
Questa zona, di cui fa parte la porta d’ingresso con una sorta di piazzetta, i giardinetti e i locali che vi si
affacciano, come pure l’ingresso al frequentato viale di Santa Caterina, partecipano del clima di socialità e
possibilità d’incontro del centro storico. Questo luogo di confine tra centro e periferia diviene zona di
chiacchiera tra locali: gli anziani sono nelle panchine ai giardini dove scorrazzano i bambini che fanno avanti
e indietro verso i giochi della “pinetina”, i ragazzi più grandi si affacciano dai locali tra aperitivi e via vai di
macchine che arrivano e partono per i Comuni limitrofi verso i luoghi del divertimento; i più piccoli vengono
scarrozzati da mamme e tate lungo il viale di Santa Caterina dove gruppetti di ragazzi affollano i muretti
mentre i turisti ammirano e fotografano il panorama della Val d’Orcia. In questa zona a traffico limitato,
l’incontro con i turisti non è percepito come fastidioso o intollerabile (nonostante le impossibili manovre dei
pullman all’incrocio tra gli sguardi, ora divertiti ora preoccupati, degli astanti), come avviene invece nel caso
del centro storico.
7.3.7
Il bar o la biblioteca? “Non credo in problemi di spazio a Pienza, vedo problemi di gestione degli
spazi”.
“Il bar è stato preso dai turisti (…): il bar che è ai giardini fino a quattro cinque anni fa era un grosso punto di
ritrovo per i pientini, era gestito da della persone splendide (…), Casini, era un bar a conduzione familiare
(…) che era come un posto…tu entravi andavi al bagno, stavi lì (…) senza consumare niente, prendevi
l’acqua senza pagare. (…) Poi è stato preso da altre persone, anche loro splendide e gentili, fra l’altro di
Pienza(?) però con un’ottica (?) molto più incentrata sul turismo, e la gente per tutto un periodo di tempo li ha
odiati. E molti la leggevano come un discorso di rapporti personali (…), in realtà secondo me era
coscientemente il popolo pientino che si rendeva conto di aver perso questo che era un punto di…prima ci si
ritrovava al bar, ora ci si trova fuori al bar. Anche perché se ti siedi a un tavoli no e non consumi ti guardano
oppure ti vengono vicino e ti chiedono: <<prendi qualcosa?>>” (int.16).
I bar sono spesso rimpianti come luoghi di socializzazione e ritrovo dei pientini ora anch’essi gestiti in
funzione dei turisti. Ma, soprattutto per i giovani, sono anche luoghi ambigui, dove spesso si condivide solo
noia e disagio.
“Degli spazi per i giovani per esempio potrebbero esserci, creare degli spazi alternativi al bar. Perché il bar
non è che sia di per sé un posto negativo, cioè io l’ho vissuto, ci son stata parecchi anni al bar, quando ero
più grande, quando si comincia ad avere i primi fidanzatini o ti piacciono i ragazzi più grandi, allora dove vai,
vai al bar dove vanno loro. Però aver un posto alternativo al bar, cioè hanno fatto il centro sociale per gli
anziani, io non lo so se potrebbe essere creata un’altra struttura o la stessa palestra, per esempio, potrebbe
essere sfruttata in modo diverso come spazio per i giovani. Per dire, se a Pienza organizzano un corso di
ginnastica, un corso di pallavolo, un corso di yoga come è stato fatto, che poi alla fine anche alla gente
interessa, pubblicizzato un po’ di più (…) fare in modo che si sappia di più cosa c’è a Pienza, che c’è quello
spazio con quei determinati corsi che possono essere un occasione per stare insieme tra gente del paese
stesso, oppure creare un’altra cosa, per dire, un altro centro sociale.” (int.26)
Delle alternative al bar, come ad esempio la biblioteca. “Secondo me, ho potuto constatare in questi anni, la
biblioteca per esempio, non so a che punto siano, però mi sembra che dopo un primo inventario delle cose
che c’erano, dei libri, non è mai stata aperta al pubblico per prendere ..appunto per usufruirne
concretamente. Quando poi invece c’è San Quirico d’Orcia per esempio, che ha una biblioteca con non so
quanti volumi…attiva da moltissimi anni mentre qui oltre a metterci le cose dentro non hanno fatto nulla per
avviare la cosa.” (int.22) commenta un ragazzo dimostrando di conoscere meglio la realtà della biblioteca di
un paese limitrofo che quella di Pienza, o di averne delle immagini pregiudiziali.
La biblioteca infatti, collocata nei locali del Conservatorio, ha ospitato varie attività ludico-culturali: “ho
chiesto di comprarmi il proiettore, lo schermo, insomma per cui non mi sembra possibile non pensare al
cinema il prossimo inverno, che è l’occasione in cui faccio vedere i film che ho visto al festival di Venezia”
(int.17) mi spiega l’organizzatrice delle attività della biblioteca giudicando positivamente la risposta dei locali
a questa iniziativa, come pure alle proiezioni pomeridiane della domenica per i bambini e all’apertura un paio
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Volume IV – Studi di antropologia
di pomeriggi a settimana per i giovani che potevano usufruire di un piccolo bar, giochi da tavolo, riviste e
computer. “Quando si facevano le prove di musica per il concerto ci è toccato andà via perché quelli di sopra
ci bussavano con la scopa e allora ci è toccato andà alle elementari (…), poi c’è tutte quante le sedie, c’è il
pianoforte, non c’è il posto per muoversi” (int.21) si lamentano però i bambini delle scuole medie.
Animatori di iniziative culturali sono un gruppetto di trentenni e meno giovani che possiamo definire “opinion
leaders”, “individui” cioè “che diventano oggetto di forte identificazione e come tali possono far parte sia di un
determinato gruppo di appartenenza (o di riferimento) che dell’intera collettività”. Essi “possono svolgere la
loro funzione di leaders in virtù del possesso di una maggior conoscenza, derivante dall’elevata
specializzazione che li caratterizza, della loro posizione strategica e del loro rappresentare dei valori
largamente condivisi nella collettività d’appartenenza”. (Codeluppi 2004, p.76). “Secondo me son cose
importanti (?) per lo spirito della comunità, per crescere, se la comunità ha degli spazi, per riconoscersi
insomma perché se no è veramente disgregante, l’idea che una famiglia passi la domenica in un
supermercato…” (int.17): questo lo spirito che li anima.
La loro sensibilità alla vita sociale e culturale del paese ha una medesima origine: «Il primo approccio è
quello religioso, nel senso che nonostante, diciamo, ci sia una forte tradizione di sinistra, Partito Comunista
al settanta per cento eccetera, però tutti quanti, tutti, tutti, andavamo all’Azione Cattolica, a fare catechismo,
a servire la messa, tutti, quasi tutti i maschi insomma, andavamo a servire la messa. C’era l’oratorio estivo, il
campo scuola a Sant’Anna in Camprena per i chierichetti. Diciamo, il primo impegno avviene, avveniva
insomma, matematicamente con un forte legame con la chiesa… C’era le suore per le bambine, tutta l’estate
era aperta la scuola di ricamo, comunque potevi stare lì a giocare… Proprio c’era una fortissima attività in
questo senso. E anche gli ACLI stessi c’era poi il circolo diciamo legato all’Azione Cattolica degli adulti, con
sala dove si riunivano. E in qualche modo le prime discussioni che fai sono quelle… Molti interrompevano
con la cresima.» (int.40)
Crescendo poi ciascuno, entrando in contatto con altre realtà sociali e politiche, prende la propria strada in
cui a volte interessi politici e interesse per la realtà locale coincidono, ma più spesso vengono vissuti come
mondi conflittuali; ciò a volte porta all’abbandono di entrambi. “A Pienza c’è sempre stato questo fatto: si
organizzano i preti o si organizzano i comunisti, io che mi son trovata nel mezzo di questa cosa l’ho sentita
molto e a tutt’oggi è così, cioè esiste un’amministrazione, esiste una pro loco che gestita dai bianchi che
sono dentro l’amministrazione e quindi hanno obbiettivi divergenti perchè si tirano addosso le pietre
praticamente (…) La pro loco è sempre stata gestita da persone…cioè la pro loco e i suoi quadri erano tutti
democristiani, sempre. (…)” In questo contesto “facevamo parte di tutte le associazioni ed eravamo apolitici
fondamentalmente perché ci interessava l’obbiettivo di quell’associazione e lo stare insieme con le persone.
(…). Quindi ecco questa divisione a me mi ha sempre pesato, fondamentalmente se io sono della pro loco di
che parte sono che te ne frega, cioè tanto bisogna parlare di cose che fanno bene a tutti, non è che fanno
bene all’uno o all’altro a seconda di che partito sei. (…) ogni volta che mi dicono:<<Perché non fai il
consigliere? Perché non fai l’assessore? Perché non fai l’assessore alla cultura?>> gli dico: <<No, no, va
bene così!>>.” (int.17)
Disillusione e stanchezza emerge dai racconti di questi giovani che rappresentano, influenzano o servono da
giustificazione al pessimismo di altri: “Io non sono molto ottimista perché vedo la ritirata di alcune persone
che secondo me…che nel mio mondo di queste associazioni che ho girato rigirato fondato, erano di
riferimento…le vedo andare via ed è un sentimento che provo anch’io la voglia di smettere, cioè uno si
arrende a un certo punto. Allora la vedo molto come un’arresa generale, di quella parte di Pienza che invece
poteva…e anche esperienze positive come quella della pubblica assistenza, se parlo con loro fo l’ottimista
ma dentro la sento come…gli ultimi colpi di coda (…). Non ci si ricarica perché non c’è riscontro e
riconoscimento da parte degli altri: qui c’è lassismo.” (int.16).
Che si allontanino dall’attività politica o da quella culturale locale, alcuni di essi individuano la causa di
questa loro scelta nel venir meno della coincidenza tra ideali e pratica nelle azioni di chi rappresenta oggi
l’impegno politico a Pienza. Questa coerenza, al contrario, viene riconosciuta a soggetti, tanto di sinistra che
del mondo cattolico, della generazione precedente. Fondamentale per molti la figura di don Sergio o “per
dire, nel pagliaio avevano messo la bandiera della pace, quando i carabinieri andavano (?) e portavano via.
A tutt’oggi io ho la bandiera della pace del mio babbo! (…) Aveva questa visione pura, comunista, della
cosa” (int.17). Per altri la causa della nuova scelta del disimpegno è il peso eccessivo delle richiesta della
popolazione: “l’occuparti dell’attività pubblica pesa sempre di più, cioè man mano che vai avanti con gli anni
il mio grado di sopportazione di certe pressioni, no, di gente che continuamente chiede, pretende,
giustamente, che tu faccia, che tu non faccia… cioè alla fine, tu ti senti un po’ oppresso, ecco. (…)Cioè
questo rivolgersi a terzi in una comunità così piccola non è, non funziona, cioè te se vuoi devi e puoi
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33
Volume IV – Studi di antropologia
partecipare, nel piccolo, nel… Perché uno poi tende a delegare, ma anche perché è comodo.» (int.40) In
effetti nelle varie interviste, quando viene sottolineata una mancanza di spazi o possibilità, essa viene
associata ad una richiesta a terzi; un chiedere che spesso coincide con il disimpegno: “ormai è proprio
dentro i pientini, ci sia questa cultura, questa mentalità del lasciare fare alle istituzioni” (int.16), osserva un
giovane napoletano trasferitosi qui.
E dunque Pienza viene presentata, dal punto di vista dell’impegno sociale, divisa tra due gruppi di persone:
“c’è un distacco enorme tra quella decina di persone che hanno degli interessi a costruire delle cose rispetto
a tutto il resto della popolazione” (int.16). “Siamo sempre gli stessi” è il leitmotiv di chi è attivo nelle molte
associazioni esistenti: Gruppo fotografico, Gruppo Archeologico, Accademia Minima del Teatro Urgente,
Polisportiva, Falchi della Val d’Orcia, Becero Bike, Ensamble, Corale, per citarne alcune. Alcuni ragazzi mi
parlano dell’unica associazione giovanile che c’è stata a Pienza, “Il faro”, nata verso il 1996 e durata poco
più di tre anni, “che aveva lo scopo di provare a coinvolgere dal basso la popolazione dei giovani pientini che
non erano coinvolgibili dall’alto (…). L’esperienza è fallita perché un po’ come tutte le associazioni qui a
Pienza (…) ci siamo ritrovati i soliti a lavorare, quindi lavoravamo per noi stessi e quindi basta. Anche perché
a Pienza è un posto dove non c’è la stabilità dei giovani, l’università fuori e cose del genere, anche le scuole
superiori” (int.16).
7.3.8
Ragazzi e ragazze. “La vita del paese si fa nel fine settimana”.
“La vita del paese si fa nel fine settimana” dice un giovane universitario che, come molti, vive e studia a
Siena. “Certo stando qui non è che possiamo fare niente e infatti ci spostiamo perché…ci spostiamo in altri
posti perché qui a Pienza non… cioè proprio per i giovani in particolare non è previsto niente. Cioè puoi
fare…cioè niente nel senso…distrazioni non ce ne sono, cioè se vuoi fare qualcosa di concreto lo fai, perché
o vai a suonare nella banda, o vai nella corale o vai, che ne so, che ti posso dire, nel Gruppo Fotografico, ti
faccio un esempio, allora lì qualcosa fai, coltivi una passione fai qualcosa, però come distrazioni…prese alla
leggera…un sabato sera <<che facciamo? Beviamoci una birra>> proprio niente, perché il paese dopo le
otto e mezzo di sera è morto, è letteralmente morto, non c’è niente da fare. Questo è un po’ triste perché se
fosse riqualificato un po’ magari il centro storico con qualche locale per richiamare anche magari giovani da
altri posti della zona sarebbe meglio però…vince la politica del cacio e basta, del turismo, e quindi per i
giovani non c’è molto spazio. Se provi ad andare per il corso la sera non c’è niente. Ora un po’ con questo
pub che hanno aperto al Casello un po’ sta…sta…tenendo un po’ vivo l’ambiente però anche là molta gente
si lamenta che c’è confusione a sera tardi, quindi, anche questo blocca un po’ il fiorire di iniziative per i
giovani”.(int.22)
Questa nuova generazione di ragazzi appare molto più distante, dal punto di vista del vissuto dei luoghi, dai
giovani che li hanno preceduti, come gli opinion leaders citati, di quanto questi ultimi lo siano rispetto alla
generazione precedente. Differenti anche la modalità di costituzione dei gruppi giovanili: “C’è il blocco della
parrocchia o il blocco dell’uscita di amici il sabato, oppure quando facevamo sport, io giocavo a pallone nel
Pienza, anche là ho conosciuto altri ragazzi. Poi soprattutto perché andando a scuola insieme a
Montepulciano nel pullman eravamo tutti insieme quindi anche lì era un momento di incontro…insomma è un
gruppo che si è creato un po’…da diverse esperienze son confluite tutte in un gruppo”. (int.22) Esprimono
diffidenza o disinteresse nei confronti della politica: “molti hanno paura di avvicinarsi alla politica perché
comunque all’inizio sei solo sfruttato da chi ne sa più di te” (int.22) continua questo ragazzo mentre una sua
coetanea, delle poche politicamente attive in ambito locale, sostiene che questi giovani “non si rendono
ancora ben conto che la politica serve, che è una cosa abbastanza utile direi” (int.41) ma anche lei non
aggiunge nulla di nuovo al leitmotiv giovanile: “a Pienza non c’è quasi niente” (int.41).
Quell’amalgama di esperienze sociali, ludiche e politiche che costituiva un riferimento importante dell’identità
pientina è collocata nella memoria nostalgica delle Acli nel Chiostro, ora sede di un albergo, da chi ha dai 30
anni in su: “Quando uno usciva andava lì, perché sapeva che c’era tutto il mondo” (int.40). “A noi c’è venuto
a mancare questa realtà di questo...cioè praticamente…non so se hai presente dove c’è il ristorante albergo
Il Chiostro, quello era un seminario che poi è diventato di proprietà della parrocchia, e quel giardino che ora
è il bel giardino di un albergo di charme era il bar e un luogo di ritrovo che si chiamava appunto le ACLI che
in contrapposizione all’ARCI aveva un successone perché in prima cosa era un posto splendido, nel centro
storico, il bar, la sala parrocchiale…ecco, quello è stata una mancanza…per alcuni, di un centro di
aggregazione. (…)Per chi ha più di 30 è stato un luogo dove insomma…veramente importante…non solo
della parrocchia, anzi il bar era di tutti, quindi era un luogo per tutti per incontrare praticamente o il
prete…capito…poi c’era il cinema, quindi era un momento…ora magari uno va al cinema a Sinalunga, al
multisala, un po’ la vita è cambiata…(???) un centro commerciale tutti vanno a fa la spesa fuori, quindi se il
sabato…piano piano tante attività sono finite, ecco io penso che tanta gente anche a Pienza sta molto più a
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
34
Volume IV – Studi di antropologia
casa oppure se ne va da altre parti.”(int.38) Per i più giovani inizia ad essere un ricordo sbiadito di terzi: “Il mi
nonno mi diceva sempre…dice sempre che c’è rimasto male di questo circolo acli che lui c’andava sempre
co insomma i suoi amici d’inverno mentre ora non sanno più dove andà anche loro che so anziani, insomma
gli dispiace parecchio” (int. 21), mi dice una ragazzina della scuola media.
Ciò che i ragazzi cercano è la “possibilità di aggregazione (…), di confronto con altre persone, con persone
diverse da quelle che di solito incontri nella piccola realtà di Pienza” (int.22): questo è ciò che piace dei
luoghi in cui studiano, come Siena. Sembra questo quello che si cerca al cinema di Chianciano, in un pub di
Chiusi, al bowling in Umbria, o a San Quirico, a Montepulciano, a Sinalunga come anche a Perugia,
Castiglion del Lago che vengono citati come esempi che Pienza dovrebbe seguire. “Io sono in parte convinta
che per la fascia d’età che va dai 15 ai 16 ai 30 e oltre qui manca qualcosa (…). Penso che servirebbe dei
locali, dei posti proprio loro, non ci sono” (int.20) conferma un’insegnante. Quando i ragazzi dicono di
desiderare di avere un teatro con i corsi di recitazione, come a Torrita, o come c’è a Monticchiello o ad
Acquaviva o di volere la piscina a Pienza sembra che il desiderio che esprimono sia quello di far diventare
Pienza un luogo di attrazione per altri giovani dei dintorni; cosa che, nonostante il disfattismo di molti, a volte
accade: “Quando abbiamo iniziato a cantare con la Corale tutti ci dicono:<<Ah ma durerete poco perché
tanto la gente non ci viene, così, e poi figuratevi se a Pienza va bene una cosa del genere>>. E invece
siamo già da sette anni, da qualche anno ci siamo costituiti in associazione quindi siamo...il gruppo è
cresciuto, partecipa anche altra gente da altri comuni, il maestro viene da un altro paese e porta con sé altre
persone, anche la figlia del maestro, lui è di Torrita, poi c’è gente che viene da Sinalunga, da Petroio, da S.
Quirico a cantare, quindi raccogliamo anche gente dal comprensorio. Cioè se una cosa si vuol farla si fa
però…ci son molte contraddizioni perché…cioè ora faccio uno sfogo personale però secondo me per una
squadra, ti parlo della squadra di calcio, secondo me la spesa che è stata fatta per il campo di calcio non era
così indispensabile, ho sentito parlare di cifre abbastanza alte, secondo me non era così indispensabile,
secondo me si sarebbero potute impiegare i soldi… “. (int.22)
7.3.9
Bambini. “Ora anche l’asilo sembra che diventi un lusso!”
“Anche questo la centrali…noi abbiamo perso la direzione didattica (…). Ritengo completamente ingiusta la
politica di questo comune nei confronti dei bambini, sia per quanto riguarda l’attività scolastica, che per
quanto riguarda l’attività extrascolastica, come i campi (?), le attività estive. Io per esempio insegno in un
paese vicino che si chiama Trequanda dove vedo che l’amministrazione, sempre di sinistra, fa i salti mortali,
che ne so, per mantenere la scuola, se c’è un problema, per cercare, tramite Firenze, di aver lo stesso
numero di insegnanti, un insegnate in più, per portare tutta l’estate i bambini con il pulmino della scuole nella
piscina comunale. Ci sono delle scelte molto più legate al cittadino, qui prima si è spinto troppo a una
vocazione turistica, negozi, cacio eee...”. (int.38)
“Rispetto a una bambina piccola anche lì ci sono varie difficoltà, la principale è che una famiglia che decide
di avere un bambino deve mettersi l’anima in pace che fino a 3 anni qualcuno deve sacrificarsi per il lavoro,
o il bambino viene tenuto dei nonni, o c’è qualche baby-sitter o sennò non c’è possibilità di mandare il
bambino all’asilo nido perché l’asilo nido è a Montepulciano, chiaramente prendono a questi asili nido
principalmente i residenti, difficilmente riescono ad accogliere le persone che vengono da altri Comuni, e
quindi per Pienza e Monticchiello non c’è possibilità di spedire i bambini all’asilo, a Montepulciano. Anche
volendo pagare per dire, non so se ci sono delle strutture private però comunque costano e si tratta sempre
di prendere il bambino, accompagnarlo a Montepulciano (…). E anche ora a Pienza per il discorso dell’asilo
c’è il problema che i bambini sono aumentati negli ultimi anni quindi pare che ci siano problemi ad inserire
tutti i bambini dell’anno…nati nell’anno, all’asilo perché non è stata riaperta un’altra sezione per problemi di
numeri…io non so di quale tipo in particolare però…ora anche l’asilo sembra che diventi un lusso!” (int.26)
E immagino, tra qualche anno, un’intervista a questi bambini sui loro spazi vissuti: quali saranno e,
soprattutto, dove?
7.3.10
Pienza guarda Monticchiello. “Loro veramente sono una comunità”.
Sono pochi gli intervistati pientini che mi dicono andare a Monticchiello e frequentare i suoi abitanti.
“I monticchiellesi sono sempre stati un popolo a parte, noi non ci s’è mai avuto niente a che fare. Il
monticchiellese…Cioè, messi diroccati lassù in quel paesino, hanno sempre fatto unità tra di loro. Magari
sono molto più uniti di noi, cioè son molti meno ma son molto più uniti” (int.37)
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Volume IV – Studi di antropologia
“Noi e Monticchiello siamo nello stesso Comune ma…Anche perché loro so’…ora c’hanno qualche problema
anche loro, come comunità, ma loro veramente sono una comunità” (int.12)
Le diverse, spesso conflittuali, identità e appartenenze dei pientini si ricompattano in un “noi” che, tra il serio
e il faceto, si contrappone ad un “loro” irrimediabilmente diverso e separato: Monticchiello e i monticchiellesi.
I comportamenti narrati afferenti questi due soggetti contrapposti sembrano esprimere una rivalità fatta di
piccole azioni quotidiane per l’acquisizione di una posizione di centralità: spostarsi significa spostare il centro
del Comune. Nonostante esso, dal punto di vista istituzionale, sia Pienza, dove si trovano uffici e servizi “visto che ora c’è la scuola è più comodo che viene lei da me almeno uno esce” dice una bambina delle
scuole medie a Pienza parlando di una sua compagna di classe di Monticchiello-, la competizione è sempre
aperta: “Non è che si prendeva e s’andava dall’amico di Monticchiello a trovarlo, mai. Al limite s’andava a
San Quirico. (…) Noi non s’è mai voluti, sicuramente, ma loro non hanno mai fatto niente per farsi ben
accettare” (int.37) dicono ragazzi più grandi. Per quanto riguarda paesi vicini fuori dei confini del Comune,
questo meccanismo si riproduce ma in forma più lieve: il pericolo è percepito come più incombente quanto
più esso è vicino. Ma quale pericolo?
Il rischio di perdere una propria “centralità” sembra reso evidente ed imminente di fronte ad una comunità
che pare in potenza più forte, “loro veramente sono una comunità” (int.12), e che ciò scaturisca relativi
comportamenti di difesa che esprimono continuamente la negazione di quella forza negandone il potere
d’attrazione, “non è che si prendeva e s’andava dall’amico di Monticchiello a trovarlo, mai” (int.37);
situazione aggravata dal fatto che “loro non hanno mai fatto niente per farsi ben accettare” (int.37): non
riconoscono la centralità di Pienza. Esempio questo della riattualizzazione di “forme retoriche e sequenze
narrative stratificatesi nel tempo, attraverso le continue scritture polemiche e, per questo, ormai connotanti i
modi locali di narrare la Storia, di costruire identità e di fare politica” (Palumbo 2003, p.50).
Un esterno trasferitosi a Pienza mi riporta la voce dei pientini: “<<Ah a Monticchiello ci ciucciano i soldi
nostri. Perché sono pochi, i soldi al Comune glieli diamo più noi però fanno tutto a Monticchiello.>> C’è molta
invidia sull’interesse che il Comune ha a Monticchiello. Umberto si è trasferito a Monticchiello, il sindaco già
è di Monticchiello. I pientini hanno detto:<<Eh ho capito, ma fate il Comune di Monticchiello!>>. (int.16)
Vengono sottolineate le prerogative economiche di quel “centro” conteso dunque, ma non solo: “ha portato
alla ribalta questa frazione, a un certo punto, che sembrava più importante di Pienza di Pio II. A un certo
punto si è arrivati all’esagerazione” (int.30) dice un ex amministratore di Pienza riferendosi alla politica di una
passata amministrazione. Il discorso campanilistico dunque emerge anche a livelli politici meno informali di
quello del discorso comune. Possibile che una frazione risulti più importante di Pienza, o meglio, “di Pienza
di Pio II”? Pio II viene qui tirato in ballo in quanto “il rapporto con le <<pietre del passato>>, con le nostre
<<cose d’arte>> e con le nostre <<bellezze naturali>> coinvolge sentimenti individuali e collettivi che
contribuiscono ad attivare livelli d’appartenenza emotivamente forti e politicamente significativi” (Palumbo
2003, p.26). Da papa ad “operatore retorico” : parte cioè di quelle politiche dello spazio/tempo, poetiche della
memoria e dell’identità, forme d’immaginazione storiografica che le pratiche legate all’istituzionalizzazione di
beni culturali consentono di mettere in atto nei diversi, quotidiani, contesti socio-politici (...) atte a rivendicare
un’identità e ribadire prerogative rituali che una tale naturalizzazione della storia intende garantire (Palumbo
2003, p.207).
“Il campanilismo” in quest’ottica di lettura si mostra dunque “come un codice e un insieme di pratiche
attraverso i quali organizzare la competizione per il controllo delle risorse simboliche (identitarie) e materiali
interne ed esterne” (Palumbo 2003, p. 352).
Nonostante i pientini non riconoscano alcuna centralità a Monticchiello ed esprimano commenti che ne
indicano i non buoni rapporti, vengono individuate, come suoi elementi di differenziazione da Pienza delle
caratteristiche positive. «Devo dire che appunto il fatto dell’esistenza di una forte identità, di un forte gruppo
di persone che si impegnava in qualche modo a difendere in qualche modo, no, quello che c’era e quello che
volevano portar via, e che culturalmente è molto dinamica, sia per le cose del Teatro, ma non solo, le mostre
e tutte le attività collaterali gestite dalla compagnia del Teatro Povero, mi ha subito attratto quando abitavo
qui a Pienza e chiaramente poi la scelta di andare a Monticchiello si è basata anche un po’ su questo. Anche
perché poi su Pienza qualche dubbio sull’esistenza di una forte identità ce l’ho e ce l’ho sempre avuto,
perché un po’ questo individualismo che può essere accentuato anche insomma dal turismo…» (int.40) dice
un pientino che ha deciso di trasferirsi ad abitare a Monticchiello.
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Volume IV – Studi di antropologia
Per molti la non frequentazione di Monticchiello non è dettata da alcun sentimento di astio e non sa trovare
alcuna motivazione a tale atteggiamento che appare piuttosto acquisito dalla pratica comune: non ci sono
reti sociali che legano i gruppi dei due paesi. Quando avviene il contatto si tratta di esperienze descritte
come sparute e occasionali: “Per il fatto che ci siamo mossi noi da Pienza, questo si è un po’ strano perché
comunque diciamo che tra Monticchiello e Pienza non corre proprio buon sangue, addirittura se…arrivi a
Monticchiello e c’è il cartello <<benvenuti a Monticchiello. Frazione di…>> ed è cancellato Pienza!” (int.22)
mi dice un membro della Corale di Pienza, gruppo che ha realizzato uno spettacolo assieme al Teatro
Povero nella chiesa di Monticchiello.
Quando si passa da considerazioni generiche all’esposizione di personali esperienze di contatto tra abitanti
di Pienza e gli spazi fisici e umani di Monticchiello non vengono segnalati problemi: “mi son trovata
benissimo in questa realtà perché mi sono inserita subito perché son persone che mi hanno accolto
benissimo come succede, mi sembra, a tutte le persone che arrivano la prima volta a Monticchiello, c’è
questa accoglienza delle persone di Monticchiello particolare (…)”. (int.26)
Un ragazzo della Corale Pienza mi dice che: “L’esperienza a Monticchiello è stata buona anche perché loro
sono una realtà consolidata, seppur piccola comunque consolidata da anni che fanno…che organizzano
spettacoli insomma, sono sempre molto apprezzati dal pubblico, quindi anche per noi collaborare con loro è
stata…un piccolo salto di qualità insomma, è stata una cosa buona per noi …“Il rapporto…o per un motivo o
per l’altro, chi per esperienze lavorative chi per conoscenze personali comunque molti di noi con molti di loro
eravamo già in contatto e ci conoscevamo, quindi l’inserimento nostro con loro non è stato molto traumatico
anzi loro ci hanno accolto abbastanza bene fin dall’inizio anche perché comunque c’era una sorta di…si
doveva creare questo legame artistico quindi comunque loro hanno fatto di tutto perché ci amalgamassimo
bene e la cosa potesse riuscire nel migliore dei modi, quindi non ci sono stati proprio problemi da questo
punto di vista”. (int.22)
Conoscere Monticchiello dunque può essere una bella sorpresa per chi, come accade a molti pientini, non
ha mai preso in considerazione di farlo. Mi racconta una ragazza di Pienza che a Monticchiello ha trovato
lavoro per un periodo: “E ho scoperto questa realtà, per me è stata una scoperta, sennò Monticchiello non è
che…sono mai partita da Pienza per andare a Monticchiello. Venivo così o a mangiar fuori…(…) non ho mai
avuto tanta curiosità per conoscere questo paese nonostante sapessi che facessero…son venuta agli
spettacoli del Teatro Povero, però non ho mai, nonostante ci fosse (…) la mia amica (…) ma non c’è stato
modo di approfondire l’amicizia se non quando son venuta qua (....)” (int.26). L’intervistata, parlando del suo
impatto con Monticchiello, riflette sulla differenza di fondo tra le due realtà: “questa realtà che sembra molto
diversa da Pienza perché…c’è molto più spirito di aggregazione, sembra che ci sia una volontà maggiore qui
di far funzionare le cose, per lo meno di provarci rispetto a quello che succede a Pienza dove siamo tutti
divisi, cioè ci sono magari varie associazioni”. (int.26). Come fanno anche altri pientini, attribuisce le cause
del maggior funzionamento delle attività di Monticchiello al fatto ci siano pochi abitanti. (…)“Forse anche
perché magari le persone son poche, rimangono sempre meno e quindi forse tendono ad unirsi di più, non lo
so, però Pienza invece si tende molto a stare ognuno per conto proprio, a veder che non ci sono iniziative,
non ci sono spazi per i giovani, non ci sono spazi per nessuno, e allora istintivamente viene da dire
<<creiamo un’associazione per organizzare determinate iniziative>>, poi non si sa perché nelle varie
associazioni ci sono sempre le stesse persone, non è coinvolta tutta la popolazione oppure se qualcuno non
fa parte di un’associazione però collabora come succede anche qui a Monticchiello dove lo spirito di
collaborazione conta di più dello spirito associativo, o del numero delle iniziative che si fanno, quindi rimane
tutto…rimangono pochissime iniziative dove dentro ci sono le stesse persone e anche quelle poche
associazioni fanno fatica ad andare avanti insomma, non coinvolgono tutta la popolazione.” (int.26),
Definisce “spirito associativo” quello che anima i pientini e “spirito collaborativo” quello vivo a Monticchiello
aiutandomi a sciogliere l’apparente contraddizione delle molte associazioni presenti a Pienza a fronte delle
lamentele per la mancanza di unità e iniziative. “Qui mi sembra che siano molto più coinvolti o per lo meno
anche le persone quando c’è qualcosa accolgono bene qual poco che c’è, cercano di diventare anche loro
partecipi a quello che si sta creando, a quello che sta nascendo, a Pienza invece vedo che la gente è molto
più sospettosa, anche quelli che non fanno niente criticano gli altri, senza fare niente per primi, però vedono
che magari in quell’associazione c’è quella persona che sta antipatica e allora sparano a zero su quelle
cose lì e quindi poi si perde tutto. Io questo spirito d’associazione che c’è qui a Monticchiello non lo vedo a
Pienza, ognuno tira avanti per la sua strada.” (int.26) E associo ora il fenomeno dell’associazionismo
pientino al concetto di “individualismo possessivo: un’ideologia che rende possibile la costruzione di ulteriori,
collettivi, livelli di aggregazione/identità, ognuno fondato sul possesso di specifici beni” (Palumbo 2003,
p.27). I beni sono in questo caso le associazioni, le attività e i relativi spazi: “è però è nel carattere anche
della gente di Pienza, che ognuno fa, però vuole il suo spazio” (int.12) mi dice un giovane pientino
impegnato nell’associazionismo locale.
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Volume IV – Studi di antropologia
Colpisce che in questo discorso collettivo, sia che si formalizzi come esplicitamente campanilistico o che sia
pacatamente obbiettivo, venga riconosciuto all’altro da sé –Monticchiello- una caratteristica positiva che
evidenzia un proprio lato negativo: spirito comunitario contro atteggiamento individualistico. Nel discorso
campanilistico è sempre all’altro, in genere, che vengono attribuiti aspetti negativi che così vengono
estromessi da sé.
7.3.11
Monticchiello guarda Pienza. “Non so’ amalgamati, non so spiegarlo”.
“Perché Monticchiello Pienza c’è sempre stato un campanilismo che…uno di Pienza venì a Monticchiello è
quasi una cosa…che uno…si sente da meno. Un po’ è passata ora però…”. Chi, come lui, abita a
Monticchiello e va a Pienza a lavorare, mi dice che “però il pienzino ti guarda quasi…(?)<<Mii Monticchiello
oh che giri a Pienza?!>> c’è questo proprio…noi monticchiellesi andà lì è meno, loro a venì a…io so convinto
che c’è parecchia gente di Pienza che non è mai stata a Monticchiello, son convinto.”(int.11). Questo
comportamento viene attribuito all’invidia che i pientini avrebbero nei confronti di realtà ben funzionanti come
la banda, il Teatro e il Granaio. “Poi dopo lo riconoscono: hai visto a Monticchiello, loro c’hanno la banda ma
noi non ci s’hanno! Te lo dicono anche davanti, eh!” (int.31)
“Sembra un popolo di…Un altro mondo. Brave persone, per carità, però son strani. Cioè la banda ce l’hanno
avuto una volta, un anno o due, e poi si son sfasciati. (…) Non so’ amalgamati, non so spiegarlo”. (int.31)
“So due mondi un pochino distanti, sembra un po’ assurdo oggi ma so due realtà che storicamente so state
quasi antagoniste e ora continuano a esse…non unite insomma, almeno a livello…a livello sociale e a livello
culturale. C’è stato questo tentativo bello di coinvolgere nel <<Pianto della Madonna>>, questa sacra
rappresentazione, per cui noi abbiamo messo a disposizione la chiesa, anche oltre al Teatro Povero, la
Corale di Pienza, questo mi sembra positivo ma pochi esempi ecco”. (int.39)
Simili a quelle dei pientini le affermazioni sul “carattere” di questi ultimi.
Anche da Monticchiello non si usa spostarsi per andare a Pienza, anche quando, ad esempio, si vogliono
acquistare dei prodotti che non si trovano in paese: “io non faccio riferimento a Pienza, non so perché, non
te lo so dire…” (int.24) mi dice una donna che, trasferitasi da ragazza dal nord Italia in Toscana, ha abitato
nei dintorni del Comune, Pienza compresa, prima di trasferirsi definitivamente a Monticchiello. “Perché qui
da Martino…mangiare mangi ma sempre le stesse cose! Solo prosciutto toscano e cacio di Pienza! Pur
essendo una figura molto simpatica Martino perché lui è un personaggio però non faccio mai riferimento a
Pienza…ma non so perché, ma no perché ho un’antipatia oppure…io non ho amicizie, non conosco
nessuno…cioè conosco però tutta gente che non ho rapporti di nessun genere…Pienza poi ha avuto sempre
un atteggiamento abbastanza…è stata sempre abbastanza ostile nei confronti di Monticchiello, questa cosa,
insomma, è per me abbastanza incomprensibile no? Però non è questo per me eh, cioè se io devo andare
vado in un posto più grande, anche se Montepulciano non è che sia…! Però se devo andare vado a
Chianciano oppure vado a Montepilciano, oppure se si decide di fare un giro vado a Siena, vado a
Arezzo…però Pienza rimane un po’ fuori, finche mio figlio era a scuola si, però era solo e soltanto per la
scuola: quindi quando c’era ricevimento dei genitori, quando c’erano le feste di fine anno, perché ovviamente
dovevo accompagnarlo, poi basta. Nonostante che mio marito lavori a Pienza, non è il mio riferimento il
paese ma non ho…non ho…è che proprio…proprio non mi…perché una donna che sta in casa che fa? I
suoi…devi andare a far la spesa, devi andare in banca, devi andare all’ufficio del registro...che ne so…e vai
a Montepulciano, tanto che sei lì fai tutto lì, la libreria che mi piace di più è a Montepulciano, capito, per cui
Pienza rimane un po’ appartata per me, però non ho sentimenti di campanilismo né mi sento ostile nei
confronti…anche perché li conosco abbastanza poco le persone, pur avendoci abitato non è che avevo
grandi legami, amicizie a Pienza.”. (int.24)
Non fare riferimento uno all’altra è un’abitudine per gli abitanti di entrambi i paesi: se ci si deve spostare, per
servizi, acquisti o anche per diletto, si dice di cercare i centri più grandi che possono offrire qualcosa di
diverso dalla realtà di paese, visto che oltretutto, nel caso delle distanze Monticchiello-Pienza e
Monticchiello-Montepulciano, i tempi di percorrenza sono gli stessi.
Chi invece si rifà esplicitamente a motivi di poca compatibilità “umana” riconduce la diversità rispetto a
Pienza al fatto che “a Monticchiello c’è questo discorso dell’abitudine di stare insieme” (int.33). Queste
differenti predisposizioni vengono attribuite alle storie dei due paesi: mentre a Monticchiello ci furono dei
padroni illuminati, gli Angheben, che permettevano l’aggregazione dei contadini nella banda, a Pienza
questa non sarebbe stata una pratica usuale “essendoci i preti che sono notoriamente più…una cappa”
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
38
Volume IV – Studi di antropologia
(int.33). Ancora una volta, discorsi sull’altro per esprimere concezioni e definizioni del sé in cui “loro”, in
termini oppositivi, diviene parte imprescindibile di “noi”.
La presenza di un minor flusso turistico, rispetto a quello che invade Pienza, e il forte legame che gli abitanti
di Monticchiello hanno col proprio territorio motiverebbero un rapporto positivo con l’ “ospite”: questi elementi
infatti vengono citati per spiegare la migliore accoglienza riservata ai turisti rispetto a quello che accade a
Pienza. Un’intervistata che conosce entrambe le realtà: “Forse perché è una dimensione un po’ più umana
…perché a Pienza c’è un tipo di turismo legato, purtroppo, al formaggio no, quindi son nati tantissimi negozi
di formaggio, la gente è anche abbastanza scortese con il turista perché tanto ne vengono tantissimi, anche
all’ufficio turistico a Pienza mi sa che ci sono delle persone che non sono molto accoglienti forse, ho sentito
dire anche di questo. E…non lo so, sembra infatti che a Pienza siano molto più scortesi che qua. Forse
perché qua magari non arrivano tantissimi turisti come arrivano a Pienza e quei pochi che arrivano verranno
accolti con maggior calore, non lo so. Però i monticchiellesi sembrano molto più attaccati a Monticcheillo di
quanto i pientini non lo siano di Pienza. Non hanno quest’apertura. (…) Si nel rapporto con i turisti
principalmente, possono essere gentili ma perché c’è un guadagno dietro, c’è un interesse dovuto a…non lo
so, la gente che viene a Monticchiello viene accolta bene perché Monticchiello è un bel paesino, la gente
che ci abita ci tiene e gli fa piacere che chi arriva sappia qualcosa di Monticchiello, io vedo questo, a Pienza
no, non c’è questo, perché chi arriva va subito nel negozio e chi è nel negozio magari c’ha tre diavoli per
capello perché sono tanti i turisti che arrivano, devono controllare che non rubino niente, devono controllare
chi devono servire…il commerciante è così. Anche chi vive normalmente a Pienza è meno gentile.” (int.26)
Mentre solitamente nel discorso campanilistico il soggetto che parla, “noi”, accentra su di sé le caratteristiche
positive, mentre attribuisce a “loro” le negative, in questo caso ai monticchiellesi, sia che ne siano gli autori
sia che siano i bersagli, viene sempre attribuita quella caratteristica positiva che determinerebbe la riuscita
delle attività e una vita comunitaria di maggior qualità. La prospettiva di lettura delle dinamiche sociali locali
dei monticchiellesi sembra la vincente, quella cioè che ha il potere di definire se stessa e circoscrivere “loro”
come ciò che non fa parte di sé. Pienza, più centrale rispetto a Monticchiello da vari punti di vista, tra cui
quello istituzionale e amministrativo, sembra nella dimensione identitaria ad esso subalterna: anche i pientini
infatti ripropongono l’interpretazione monticchiellese dei fenomeni sociali locali.
7.3.12
Monticchiello. “Monticchiello è un po’, parecchio, fuori dal mondo”.
Una giovane pientina in cerca di una casa in affitto, si rivolge a proprietari di immobili di Pienza e di
Monticchiello “perché Monticchello come paese mi piace, perché appunto l’impatto con questa realtà è stato
positivo per me (…) però poi mi rendo conto forse…Pienza è un po’ meglio (ride) nel senso che è
meno…Monticchiello è un po’, parecchio, fuori dal mondo, nel senso a livello di negozio...di queste cose
qua, di gente anche che gira a Monticchiello. Monticchiello è molto tranquilla, a me piace molto questa cosa
di Monticchiello, però quando vado in giro per Pienza e vedo le gite e vedo i turisti fa molto piacere anche
quello insomma, quindi non lo so, se avessi trovato casa a Moticchiello sarei venuta ad abitare a
Monticchiello però forse avrei preferito Pienza”. (int.26).
La mancanza di negozi, gente che gira, turisti compresi, è ciò che fa dire a questa ragazza che
Monticchiello, al contrario di Pienza, è fuori dal mondo. Per altri è il centro di un mondo tanto che,
nonostante i disagi “son tornato grazie al discorso del Teatro, della banda. Vivevo socialmente a
Monticchiello: il Teatro, la banda, il partito, io, per cui tutte le attività extra lavoro erano di Monticchiello per
cui a un certo punto abbiamo deciso di ritornarci” (int.33) mi dice un monticchiellese che era emigrato nei
dintorni. “E’ stato semplicissimo perché mia moglie era di Monticchiello quindi praticamente noi capitavamo a
Monticchiello quindi io in qualche modo seguivo il Teatro ma da esterno, stavo lì a guardà le prove, una sera
c’era “Due”, uno spettacolo che si chiamava “Due”, e c’era da fare delle scene di popolo, fra l’altro
c’erano…diverse coppie a far queste scene, sicchè io ero lì io e mia moglie si stava a guardà questo…a
guardà le prove, il regista era il vecchio Della Giovampaola, il vecchio regista, te ne avranno parlato, <<Che
fate voi qui? Dentro!>> E cominciammo…e io cominciai a partecipare. Quello fu il primo anno e poi fu
un’esperienza inarrestabile, (?) è diventata non dico una ragione di vita ma insomma quella ragione per cui
io son tornato a Monticchiello è senz’altro legata al teatro, perché altrimenti me ne stavo a Chianciano. (…)
Perché in realtà è intrigante come situazione, ti coinvolge…non esistono mezze misure o ci stai dentro o non
ci stai.” (int.33)
Il Teatro Povero è, ed è percepito come, polo di attrazione verso Monticchiello. Nella storia personale di molti
esso acquisisce un’importanza di primo piano quando si autorappresenta il proprio rapporto con
Monticchiello. Diviene simbolo della propria identità nel territorio, svolta esistenziale che, per chi racconta,
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39
Volume IV – Studi di antropologia
segna il proprio inserimento nella collettività locale da cui scaturisce un nuovo percorso. “Si può dire che
l’identità è un processo in continuo divenire e dalle soluzioni inedite.” (Lai 1996, p133).
“Poi c’è stata la scoperta del Teatro perché noi abbiamo abitato a Montepulciano per…fino all’ottantasei, è
nato mio figlio e poi dopo ci siamo trasferiti, comunque abitavamo a Montepulciano ma non lo conoscevamo
granché questo Teatro di Monticchiello, il Teatro Povero. Quindi il fatto di esser venuti…noi venivamo
saltuariamente, prendevamo una casa in affitto, si stava qui tutta l’estate, prima di trasferirci (…), noi si
abitava a Montepulciano e mio marito faceva avanti e indietro. Poi però ci piacque subito questa cosa,
questo paese e abbiamo preso una casa in affitto, no per tutto l’anno però ci si veniva soltanto d’estate (…)
su nel centro storico. Poi appunto quando ci fu la svolta nel Teatro…nell’ottanta…nell’ottantuno mi pare e…il
regista Araldo Della Giovampaola lasciò e la prese in mano il Cresti, da quell’anno lì, dall’ottantadue, siamo
stati coinvolti anche noi nel Teatro, anche mio marito perché prima il lavoro era meno…Naturalmente son
passati gli anni, la gente è invecchiata e c’è bisogno di assistenza, i primi anni non è che…lavorava sempre
tanto però aveva anche tempo per dedicarsi a qualche piccolo divertimento come recitare o…era più
presente come…nel tempo libero e…siamo stati coinvolti con grande piacere nell’avventura del Teatro,
veramente con grande piacere, è stato…con molta umiltà perché io non sapevo fare niente, mio marito
nemmeno quindi, però loro…Cresti è poi una persona molto aperta e…molto civile, quello di prima era uno
che strapazzava (ride), a me faceva un po’…si, si, era un po’ sanguigno. E quindi ecco abbiamo partecipato,
e poi ecco questo paese che ci ha, diciamo così, accolto con molto entusiasmo, è stato tutto molto bello. Poi
è nato mio figlio e c’è stata l’esigenza di venire qua perché mio marito (…) gli ha aumentato il lavoro e poi
c’era l’esigenza della residenza nel Comune, e ci siamo trasferiti qui. Abitavamo in questa casa del centro
storico e poi…dopo nato mio figlio, abbiamo avuto la voglia di comprare la casa, quella era proprio piccolina,
con tre stanze e poi con un bambino, noi avevamo casa a Montepulciano, quindi c’era anche la voglia di
stare più…in maniera più decente. E comprammo questa qui e…” (int.24)
Esperienza concreta di riflessione e critica sulla comunità, il Teatro Povero si configura come uno spaziotempo collettivo parallelo al vissuto individuale: due tipi di esperienze che si pongono in una dialettica
sempre viva, nel vissuto dei monticchiellesi, ma spesso problematica e irrisolta. Se è vero infatti che “le
società manipolano lo spazio sia a livello tecnico che simbolico” (Lai 1996, p.20), queste narrazioni
esprimono una complessità e pluralità di manipolazioni in cui l’aspetto simbolico risignifica il “livello tecnico”
degli spazi e se stessi nello spazio –l’identità-. Essa “spesso assume un carattere contraddittorio, fatto di
compromessi e di <<negoziazioni>> con le situazioni in cui le persone si trovano a dover fare i conti –molto
pragmaticamente- nella vita di ogni giorno” (Lai 1996, p.133).
Chi si è trasferito a Monticchiello come valuta oggi la situazione e ripensa il trasferimento di allora? Che
immagine del luogo scaturisce confrontando le due pratiche mediante le quali viene elaborata una prima
suddivisione della vita sociale e degli spazi del paese: il Teatro e tutto il resto?
“Poi comunque le cose a Monticchiello son cambiate perché io sinceramente pur stando molto volentieri qui,
però poi con gli anni mi sono accorta che mancano tant…mancano ma non è che le puoi ottenere qui, ma
siccome io venendo da un paese di quel tipo dove…te avevi la possibilità di aggregarti, di trovare…c’è il
Teatro, si, è vero, però finito quello capito? Era un modo…noi ci trovavamo la sera con le amiche, si andava
al bar, si faceva la passeggiata oppure…ecco, avevi il cinema a disposizione, il teatro a disposizione, la città,
che poi comunque è un paese molto grande quindi è poi è come vivere in città (…) con le città a trenta
chilometri. Perché poi che è successo, che piano piano siamo invecchiati, quelli vecchi son diventati più
vecchi, noi…poi il paese si è spopolato e resta comunque questa cosa forte del Teatro che sinceramente se,
io sinceramente mi pongo spesso questa domanda, se non ci fosse il Teatro non lo so se starei sempre qui.
Si perché è un po’ pesantino nel senso che è faticoso stare a Monticchiello perché la spesa la devi fare…si,
c’è Martino però Martino, poverino, fa quello ce può, ma comunque io non posso vivere solamente
con…capito? C’ho un’altra idea del…mi piace muovermi, vedere, sentire, capito? Qui, si, è vero, c’è questo
punto fermo del Teatro, e meno male che c’è, a me m’aiuta tantissimo, però sinceramente poi soluzioni non
ce n’é perché siamo quattro gatti, siamo sempre di meno e quindi…si, ti scambi con gli amici, con alcuni
amici, con alcune famiglie però capito alla lunga per uno che ha vissuto anche un’altra realtà diventa un
po’…un po’…faticoso ecco. Ti ripeto, rimane sempre in me l’entusiasmo perché io lo faccio con…una grande
passione eh, merito questo anche del Cresti perché lui è stato uno che con pazienza ha tirato su queste
persone. E io dico sempre per fortuna, però poi ad esempio la fatica che facciamo in due per stare dietro a
questo ragazzo fino a che non ha avuto la patente, c’è un periodo che te sei sempre per le strade, sei
sempre per le strade perché deve andare...tutto, tutto, che fa un ragazzo qui? Anche per andare al cinema,
oppure poter andare ai giardini, perché qui non ci sono ragazzi, capito?” (int.24)
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
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Volume IV – Studi di antropologia
L’esiguo numero di abitanti a cui tanto gli abitanti di Monticchiello che gli abitanti di Pienza riconducono la
forte compattezza sociale della comunità e la riuscita delle attività, il Teatro Povero e la banda musicale su
tutte, viene altre volte stigmatizzato come l’essere “quattro gatti”. La difficoltà di confrontarsi con persone
diverse da quelle frequentate abitualmente e la mancanza di servizi ne costituirebbero una della
conseguenze quotidiane più pesanti da vivere per i residenti.
I soggetti più penalizzati da questa situazione, in diversa misura vissuta anche a Pienza, secondo l’opinione
di una pientina che frequenta sia Pienza che Monticchiello, sarebbero anziani e giovani. Essi infatti sono
impossibilitati nell’utilizzo di un mezzo indicato come indispensabile e vitale per sopperire alle mancanze
denunciate nella precedente intervista: l’automobile.
“Servizi…non offre tanto perché di servizi niente, come anche Pienza che non offre tanti servizi perché…cioè
forse non è neanche da imputare a Pienza in sé, ma il fatto che non ci siano autobus, delle linee di autobus
che collegano Pienza e vari paesi vicini o addirittura anche a Siena, cioè ci sono ma sono pochissimi e molto
scomodi perché forse per le varie società di autolinee non è conveniente (…). Qui ci vuole la macchina per
qualsiasi cosa, e anche ora, per esempio, anche qui a Monticchiello ora che il negozio di generi alimentari è
stato spostato fuori dal paese, in un paese dove la maggior parte della gente è anziana, far la spesa è
diventato un problema; è gentile chiaramente in gestore del negozio di generi alimentari che abita in paese,
va a fare la spesa, porta la spesa a casa, perché altrimenti queste persone…qualche cosa possono andarla
a prendere laggiù ma non tutte sono in grado di andare a prendere un bel po’ di spesa e portarsela a casa
insomma. Pienza anche Pienza c’ha le sue difficoltà perché c’è una Coop soltanto, anche lì è fuori dal paese
però volendo, essendoci più gente anche gli anziani un po’ meglio si spostano, Monticchiello…bo..li vedo un
più penalizzati rispetto a questo. Quindi autobus non ci sono, anche i supermercati anche per far la
spesa…è tutto più a misura di turista che di abitanti. (…) Non sono realtà semplici da abitare soprattutto per
gli anziani. Anche per i giovani a quel punto, perché fino a che non hanno 18 anni non possono muoversi,
quindi…è anche vero che piano piano io vedo che i genitori portano i ragazzi quando è possibile, quindi
tramite i genitori vanno al cinema, però poi non c’è questa grande possibilità di spostarsi.” (int.26)
Ma quando non ci si sposta e si sta in paese?
7.3.13
Abitazioni e luoghi d’incontro. “Ci so tutte una serie di periodi dell’anno in cui qui torna il vecchio
isolamento dei tempi delle mezzadria”
“Anche di case in affitto non ci sono, la gente… ho sentito dire che appunto, come anche io non ho trovato
una casa in affitto, ma qui difficilmente le persone che anche hanno delle case da poter affittare le affittano.
Si, rimangono vuote. Qualcuno del paese si meraviglia dice giustamente <<a Monticchiello i monticchiellesi
non ci rimangono perché non danno le case in affitto, le trasfor…le danno…le vendono a quelli che gli
offrono…che abitano a Roma, abitano fuori da Monticchiello e vengono qua solo in villeggiatura>> oppure
anche si lamentano del fatto che avere una casa e costruirsi una casa qui costa tantissimo, quindi c’è
difficoltà a mantenere la gente all’interno di questi paesi.” (int.26)
Chi ha avuto la lungimiranza di comprare le case del centro storico ora si trova un appartamento di 50 mq
che può costare 280 milioni, mi dicono aggiungendo che nella zona nuova ci sono case bene fatte ma che
costano 600 milioni. Sono in molti a denunciare i costi elevati della abitazioni. Allora si va a Montepulciano,
ad esempio, dove ci sono case più anonime ma accessibili economicamente.
Le coppie giovani vanno via e qui restano i genitori anziani per i quali mancano servizi di assistenza sociale.
“C’è questa presenza nuova della badanti polacche e romene, ce ne sono tre, quattro o cinque, per
Monticchiello abbastanza grosse. A volte si tratta nei casi un pochino più delicati di famiglie anziane sole che
non hanno figli o che hanno i figli lontani”. (int.39)
La recente presenza di stranieri fa pensare che “forse potrebbe esse…gli immigrati potrebbero in qualche
modo essere una rinascita di questi luoghi” (int.33)
“Vanno via le nuove coppie proprio per il motivo che le case sono poche e le case che ci sono hanno dei
prezzi altissimi. (…) Vengono…ora anche il fenomeno si è un pochino fermato, anche si è fermato per i
prezzi assunti, a cui sono arrivate le case e poi per la mancanza anche. Venivano persone…si, diverse
realtà, dalla città magari affascinate dalla vita della campagna, affascinati da…la qualità della vita perché per
molti aspetti è una qualità molto buona, l’ambiente è bello, per esempio, il paese anche è di un certo
interesse, inquinamento non c’è, una situazione di tranquillità…” (int.29)
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
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Volume IV – Studi di antropologia
“Lo spazio va visto come una risorsa che soggetti diversi possono e sanno utilizzare in modo diverso”
(Giglia; p.200). I residenti percepiscono che le risorse del loro paese sono da loro sempre meno usufruibili.
Risorse valorizzate ai loro occhi anche dall’esistenza del turismo in quanto “l’autenticità dell’identità locale
esce rafforzata dall’azione congiunta degli sguardi turistici e dalla promozione autonoma locale” (Simonicca
2004, p.110). E il fatto che qui le attività dei residenti non siano tutte incentrate sul turismo e il paese non sia
al servizio di questa attività, determina un approccio al luogo da parte dei turisti che non è completamente
alternativo a quello locale ma che al contrario vi aderisce in commenti su pregi e difetti del posto coerenti con
quelli dei locali..
“I turisti che arrivano qui arrivano, qualche volta a piedi poracci, con la speranza di trovare un pullman e qui
non ci sono pullman che collegano Pienza…(…) da Pienza o da Montepulciano a piedi, sennò arrivano in
macchina, per caso, o perché mandati qua anche dalla pt di Chianciano perché hanno capito
insomma…perché c’è il Teatro Povero…poi non lo so se hanno qualche simpatia per Monticchiello ma
insomma dicono che Monticchiello è un paese molto bellino e allora ci arrivano, altri ci arrivano per caso e
infatti dicono: <<<Ma questo posto è bellissimo>>, si meravigliano tutti di quanto sia bello Monticchiello
tranquillo, tenuto bene, tutto così, dice, però non è indicato. E in effetti non è un paese che fa parte delle
solite mete turistiche usuali…quindi rimane fuori e la gente ci arriva per caso. Poi quando ci arriva per caso
ci ritorna l’anno dopo. Si ritorna, ci sono delle persone che hanno…c’è anche una signora che ha fatto la
mostra anche di acquarelli qua, austriaca, che lei ogni anno c’ha l’appuntamento con Monticchiello, deve
venire a Monticchiello per forza, per dire, perché è affezionata a questo posto, vuoi perché ha anche
l’interesse di andare in giro a fare gli acquarelli, però tantissime altre persone ritornano a Monticchiello di
anno in anno perché piace questo paese, piace l’accoglienza, la poca accoglienza che trovano qualche volta
o piace anche solamente la tranquillità. Molti dicono: <<Ma come si fa a vivere in questo paese perché non
c’è nessuno…?>> quindi, ci sono un po’ varie…” (int.26)
I turisti che “per caso” arrivano a Monticchiello non vengono percepiti come un disagio e sono ben accolti
tanto da farli affezionare e ritornare a godere di un paese “bellino” di cui piace la “tranquillità”; tornare da
turisti perché, vivere seppur brevemente il posto per com’è, e non negli stravolgimenti momentanei che
abbondanti flussi turistici possono creare, fa anche dire: “<<Ma come si fa a vivere in questo paese perché
non c’è nessuno…?>>”.
Ma più che le sporadiche occasioni di contatto con i turisti, altre presenze in paese sono ritenute
significative. E il fatto che siano state eliminate dal paese, di cui erano diventate parte, a cui ci si era
affezionati, viene vissuta come una violenza. “Io ci son stato tanto male e parecchi come me perché lì
vennero, quando aprirono questa casa famiglia, son venuti a Monticchiello otto nove vecchietti che era gente
che era stata trenta quaranta anni in manicomio a Siena. Gente che praticamente era incapace anche di
sedersi…queste persone sono venuti a Monticchiello dicendo che lì era la sua casa, lì era la sua casa.
Queste persone, queste persone, fai conto ce n’era uno che dopo anni è uscito dal cancello, dopo anni ha
fatto il giro verso casa mai poi verso la croce per cui ti rendi conto che avevano conquistato degli spazi, in
quel modo erano rinati. Allora l’idea di vedere questi vecchiettini che in qualche modo avevano ritrovato
dopo trenta anni quaranta anni di manicomio…erano riusciti, riuscivano a vestirsi, a mangiare da sé, ad
appropriarsi degli spazi, alcuni a venire a Monticchiello, all’Arci, al bar, a prendere il caffè, parlavano con noi,
ecco, per cui, dopo aver visto questa cosa qui…erano rinati. L’idea che per un problema di soldi, in una città
opulenta come la nostra, cioè questi vecchietti li risposti un’altra volta li porti via da quella che loro
pensavano fosse la loro casa e li porti in una casa di riposo, ecco io l’ho vissuta come una violenza” (int.33)
Se lo spazio non è solo un luogo fisico ma anche “uno spazio di relazione” (Lai 2001, p.15), il venir meno o
la mancanza di relazioni fa percepire il rischio di far diventare i luoghi anonimi, dei nonluoghi, ed “è
nell’anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani” (Augè 1993, p.110) e
che fa dire ad Augè che forse “c’è posto oggi per una etnologia della solitudine” (Augè 1993, p.110).
“Questo vivere insieme a un pochino di più gente (…). La mia paura è che a forza di stare sempre in casa
sempre in casa sempre in casa poi non ti muovi più, ti fa fatica, capito? Invece a me piace cercare altri
stimoli, vedere, poi io sono curiosa, mi interessa tutto, non è una cosa in particol…mi piace tutto. A ma
anche la città, per esempio anche Siena mi piace tantissimo, mi piace Orvieto, mi piace Perugia…proprio
quello che vivi nella città, certo probabilmente se ci stessi desidererei venire qui, però ecco mi manca il
paese più popolato, ecco incontrarsi, andare a fare la giratina il pomeriggio, la sera, prima di cena,
l’aperitivo.” (int.24)
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Volume IV – Studi di antropologia
Chi si è trasferito a Monticchiello fortemente motivato dai particolari stimoli culturali e intellettuali offerti dal
paese è anche chi soffre quando questi stimoli, in varie parti dell’anno, vengono meno e non riesce a vivere
delle alternative.
“Ma è una cosa mia personale perché probabilmente ecco, voglio dire, persone che sono nate qui non lo
avvertono perché ormai comunque, secondo me, la mente si è abituata in un certo modo, a ragionare in un
certo modo e forse è questo fatto…a volte mi rimane un po’ faticoso passare un sabato e una domenica qui
perché che fai? Cioè non è che devi fa per forza… però a volte sento proprio il bisogno di andare un pochino
via, vedere, scambiarmi, sentire, guardare, ecco questo perché Monticchiello è straordinario ma è sempre
lui!"” (int.24)
Andare via a cercare occasioni di socializzazioni che qui mancano perché non ci sono spazi adatti. “Le
occasioni (di socializzazione) non ci sono, perché gli spazi sono quelli, c’è l’Arci ma è ridotto malissimo nel
senso che ormai è diventato un posto dove vanno i vecchi la sera a prendersi l’orzo, non è che è un posto
che ti attira perché…forse non siamo neanche stati capaci di vivacizzarlo, perché poi a criticare si fa presto!
E quindi ecco un bar dove…però non è il bar in sé capito?” (int.24)
Lo spazio dell’arci non è infatti vissuto da tutti, come mi dice una ragazzina delle scuole medie: “A
Monticchiello c’è l’arci, ci va anche il mi babbo…ci vanno quarantenni in su perché c’è la televisione dove c’è
sky per vedè le partite. In queste stanze che ne so giocano a briscola, pigliano un caffè” (int.21) infatti
sembra rispondere a poche esigenze: “ti rendi conto del passato: è un circolo arci che è fermo a venti anni
fa: tu vedi le cose…dal caffè Borghetti, cioè la cose di venti anni fa, senza imbiancature, poster foto
vecchie…bellissimo…l’unica cosa nuova è il satellite per vedere le partite, però in una sala tutta vecchia.”
(int.16), mi racconta un ragazzo.
I bambini denunciano disagio per la mancanza di spazi di socializzazione che soddisfino le loro necessità
evidenziando l’inconciliabilità tra le esigenze delle diverse generazioni nei medesimi piccoli spazi: “Se si sta
a giocà al monumento, se per sbaglio il pallone va a finire nel garage madonnina cara! (…) C’è il campo
sportivo ma però è parecchio in giù” e di “giardinetti ce n’è uno solo, uno in paese, un altro è fuori paese che
è vicino all’ambulatorio dove c’era prima l’asilo però ora anche per andarci è sempre tutto sporco e poi
anche i giochi son vecchi”. (int.21)
Le piazze abitualmente sono poco frequentate e non sono, come in genere accade, il luogo d’incontro che è
invece la porta d’ingresso al paese. Ma dopo essersi incontrati, dove andare? Il problema viene sentito
soprattutto in inverno.
“La cosa per noi in un paese come questo ecco ci vorrebbe un posto dove un attimo fermarsi, poter
scambiare due chiacchiere poter…d’inverno soprattutto perché d’estate cambia la situazione, capito?
Perché…c’è questo barrettino aperto e apre anche dopo cena, poi c’è questo fermento…arriva la gente a
vedere lo spettacolo, c’è la taverna aperta, puoi andare a mangiare un piatto di pici senza che ti spennino
come fanno di qua, capito? E’ un momento…è quello che poi rifà rivivere il paese per quei venti giorni, ma
anche durante le prove, si va un pochino alla guardiola oppure si sta nelle scale della chiesa, ecco, questo è
un altro aspetto piacevolissimo della vita del paese, perché anche se sei qui agli arresti domiciliari (ride)
perché c’hai le prove e non puoi andare via…però è un momento molto piacevole, molto bello perché ti trovi
con tutti, con quelli che stanno fuori, che stanno in campagna, vengono su e allora c’è la chiacchiera c’è il
pettegolezzo c’è la battuta, è molto piacevole, a me piace tantissimo, ecco perché allora il paese diventa
anche di quelli di fuori, non solo di questi quattro gatti, di quelli che stanno fuori, stanno in campagna, che
partecipano al teatro, è piacevolissimo, finisci le prove vai nelle scale della chiesa, vai, che ne so stai lì nella
piazzetta”. (int.24)
Barettino, taverna, guardiola, scale della chiesa, la piazzetta: a cascata vengono citati cinque luoghi del
paese, all’aperto e al chiuso, che, durante le attività del Teatro Povero, si animano di persone, residenti
assieme a “quelli di fuori, che stanno in campagna” (int.24).
Nel periodo estivo dunque i disagi non vengono percepiti come d’inverno, quando al contrario la dimensione
paesana, coi suoi spazi liberi da specifiche predisposizioni d’uso e i pochi abitanti, è vissuta con piacere
dagli abitanti. A parlare è una ragazzina che abita nella campagna attorno al paese: “poi la sera vo a
Monticchiello anche se non c’è un granchè di gente però fra di noi insomma…non c’è la gente, non ci so citti
bellini e non ci so neanche strutture però fra di noi insomma ci si diverte abbastanza, si va anche nei giardini,
si va a vedè le stelle cadenti, sicchè…noi siamo parecchio legati tra di noi i ragazzi perché siccome delle
stesse classi ce ne so pochi, sicchè ci si mette tutti insieme si portano delle coperte, ci si mette lì sopra a
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Volume IV – Studi di antropologia
guardà le stelle cadenti, si chiacchiera, cioè io d’estate non sto male a dire la verità. (…) E’ d’inverno (…) fa
freddo(…)” (int.21)
Riassume la situazione un residente: “C’è questa…ma forse è una realtà diffusa, qui a Monticchiello è un
pochino aggravata dal fatto che sono molto pochi e poi c’è, tutto sommato questo isolamento, è buffo
perché per certi aspetti è strettamente collegato con realtà più ampie, ma ci so tutte una serie di periodi
dell’anno in cui qui torna il vecchio isolamento dei tempi della mezzadria mi sembrerebbe”. “C’è qualcosa ma
nella quotidianità c’è questa, diciamo, solitudine”. (int.39)
7.3.14
Il Teatro Povero. “Perché si passa le sere tra la piazza e…diventa veramente un modo di vivere”
“Per quanto riguarda il futuro è proprio una sorta…il Teatro è proprio quello che ci fa vivere, ecco voglio dire,
perché se viene a mancare il Teatro si sente ancora di più questo isolamento che comunque noi viviamo,
perché è inutile che vengono qui trecento persone al giorno quante vengono, però te come persona non
usufruisci...il turista viene, guarda la Chiesa, guarda il Granaio, guarda la piazza, va a mangiare da Daria e
se ne va, quindi ecco, invece il Teatro, proprio che viene…perché c’è stato anche un momento che s’è
pensato che potesse anche finire questa cosa no? E invece cerca di tenere forte questa tradizione perché
comunque è quella che a noi ci fa vivere, ci fa vivere proprio nel senso del…fa si che sia un paese vitale
perché il sabato c’hai la riunione per decidere il testo finale, poi c’hai la riunione per decidere le prove, poi
c’hai la riunione...perché se no, ti dicevo, finisce che io resto a casa sempre, perché dove vado? Ecco,
questa è una mia riflessione...però se finisse questa cosa…è per questo che comunque…e poi certamente
quando ci sono argomenti che sono fortemente critici, anche politicamente, anche per le scelte
perché...insomma voglio dire, per situazioni che abbiamo vissuto che c’hanno anche penalizzato come
comunità piccola, capito, quindi erano comunque quasi anche denunce quello che veniva portato in piazza.
E quindi ecco c’è proprio questo...e sempre tenendo ben presente quello che è stato il passato, sia in
positivo che in negativo, perché mica era tutto…vengono presi in considerazione anche aspetti negativi di
quel periodo, della vita contadina, non è che è tutto rose e fiori.” (int.24)
L’intervistata parla di “tradizione” riferendosi alle attività del Teatro. Nell’ottica dell’uso di tale categoria come
“passato che viene socialmente costruito da coloro che se ne fanno interpreti sulla base di interessi politici,
economici o di altro genere fondati sul presente” (Papa 1999, p.106) la tradizione del Teatro appare piuttosto
complessa in quanto essa ha come strumenti e spesso tema degli spettacoli proprio l’interpretazione di quel
passato in base agli interessi del presente. Infatti, mi spiega un’intervistata che a febbraio si svolge la prima
assemblea per individuare il tema da mettere in piazza nell’estate: “normalmente sono tutti temi che ci
riguardano, o lo spopolamento del paese, o la mancanza dei servizi sociali, sempre riferito
comunque…perché il Teatro Povero è il teatro delle radici quindi deve sempre riferirsi alle esperienze della
famiglia contadina, della gente della campagna. Ecco che allora si fa…viene fuori un’idea, si rapporta a quel
periodo e poi si mette in discussione quello che sta succedendo ora di quell’argomento ecco” (int.24).
Riflessione sulla comunità in cui è vitale il contributo di ciascuno: “Il Teatro è partito con…ognuno recitava se
stesso perché prevalentemente erano racconti, oppure situazioni o…o argomenti che riguardavano, che
riguardavano un certo periodo storico e sempre dentro nella famiglia contadina” (int.24)
Questa riflessione-performance diviene parte viva e presente del discorso presente infatti “per qualche
giorno dopo lo spettacolo si continuano a dì le battute. Delle battute praticamente, non so, battute
caratterizzanti ce le hai in mente e le continui a dire” (int.33)
Di tale autorappresentazione, dunque, i primi beneficiari ne sono gli stessi autori-attori.
“Io non riesco a pensarci di campà senza fare quella cosa lì. Che poi io fo la comparsa, cioè non è che fai
l’attore, cioè non è questo il concetto. Cioè è l’idea che stai in un gruppo che fai qualche cosa che è diverso
dal giocà a carte, o…(…). Ora l’idea di vivere senza Teatro penso che a noi ci mancherebbe moltissimo, per
noi sarebbe uno sconvolgimento. L’idea che quest’anno non si va in piazza, per noi e quelli che sono un
pochettino più dentro l’esperienza credo che sarebbe un battere il capo nel muro trovarsi lì senza sapè che
fa. Perché si passa le sera tra la piazza e…diventa veramente un modo di vivere. (…) Cioè il Teatro decide
che cosa fò durante l’anno io (…). Il Teatro diventa un’abitudine (…). Magari voglio andà in Irlanda, se non ci
vo di luglio quando cazzo ci vo? E io probabilmente non ci andrò mai perché è ovvio che non rinuncio al
Teatro perché non sarei capace (…). E’ piuttosto totalizzante come esperienza”. (int.33)
L’esigenza di nuovi e ulteriori stimoli cercata fuori dal paese è tutta esaurita da questa esperienza che
attraverso la rielaborazione di tematiche e pratiche interne alla comunità sembra ogni volta capace di
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Volume IV – Studi di antropologia
rinnovarla. Ciò fa dire che, nonostante i contro, nonostante non sia quella comunità idilliaca che può
sembrare da fuori, come ci tengono a farmi presente in molti, è bello abitare qui “perché si passan le serate
a fare cose intelligenti, o che ti piacciono, l’esperienza che si è fatta con la cooperativa del teatro, questa
cosa che è cresciuta, cresciuta…” (int.33) integrando e sviluppando altre e precedenti esperienza. La banda,
infatti, “ha sempre aggregato molte persone. Al momento che si è costituito questo Teatro, nel 1966-67, ha
trovato già un gruppo di persone che si stava sempre insieme” (int.31). La realtà sociale di Monticchiello mi
viene infatti descritta come una realtà in cui “tutti si fa tutto, vedrai siamo quattrocento e si fa come fossimo
quattromila!”(int.33). A parlare è un attore del Teatro Povero che suona nella banda assieme alla moglie e
alla figlia: “ma questo a Monticchiello è normale eh!” (int.33) aggiunge.
Raccontando le esperienza legate al Teatro, anche i momenti delle rappresentazioni, si parla
essenzialmente di sé nel gruppo, più che di chi viene a fruirne come spettatore: “Si arriva al momento che si
va in piazza, si cerca di partecipare…siamo quasi tutto il paese che va in piazza, quindi vecchi bambini, chi
ha voglia di fare…ci sono sempre scene di popolo che coinvolgono anche le persone che magari non si
sentono di recitare”. (int.24)
Questa attività coinvolgente condensa ed accentra, in alcuni casi sembra esaurisca, la vita sociale del paese
tanto che “se sei tagliato fuori dal teatro e… un problema eh. Perché o stai dentro sennò veramente non sai
che fare, ti trovi un po’ a disagio” (int.11)
Secondo alcuni addirittura questo la grande importanza attribuita al Teatro condurrebbe al rischio di
occultare Monticchiello, messo in ombra dallo sguardo e dalle attività del Teatro, con la conseguenza di
perdere di vista la loro relazione in una sorta di attività autoreferenziale che si occupa di se stessa senza
prendere in considerazione aspetti, problematiche e soggetti che non si uniformano ed integrano a tale
realtà.
A parlare un membro della parrocchia: “Il Teatro è senz’altro un’iniziativa importante anche se penso sia…a
un punto estremamente delicato della sua storia nel senso che prima c’era quasi una identità tra Teatro
Povero e Monticchiello, ora cambiando la situazione (…) della comunità di Monticchiello questa
sovrapposizione si sta scollando per cui il Teatro sta diventando sempre più un ente diciamo autonomo, con
una vita propria che non coincide più con quella della comunità. Mi sembra ci sia un po’ di ritardo e grossa
difficoltà a leggere e riflettere su questa relazione, a riflettere su quello che oggi è Monticchiello e su quella
che oggi è la comunità di Monticchiello. E come parrocchia c’è disponibilità alla collaborazione, fra l’altro
usano gratuitamente gli spazi della parrocchia come il teatrino della compagnia e la taverna. (…) E poi
magari anche alla pretesa del Teatro Povero di rappresentare tutta la comunità (…). E’ una pretesa, perché
è senz’altro la cosa più importante che ci sia a Monticchiello però ecco c’è un’altra fascia della popolazione
in modo particolare giovani ventenni, trentenni, che non sono rappresentati dal Teatro, non si riconoscono
nel Teatro, anzi ci sono anche degli episodi di polemica verso il teatro. E’ un po’ agiografico questa
immagine del Teatro che rappresenta tutti, stimola tutti, a cui partecipano tutti. E’ un’immagine proprio
agiografica, da santino!”. (int.39)
Sicuramente il gruppo legato al Teatro è un gruppo “egemone” che, oltre ad elaborare l’immagine dominante
del paese, ha una grande forza anche nel gestire tempi e spazi: “Più o meno è un paese totalmente al
servizio del teatro…chi non lo fa lo subisce in qualche modo… perché poi c’è chi lo subisce anche: nel senso
che chi abita lì in piazza e non fa teatro comunque son due mesi che c’è (?) gente che gira, che fa rumore,
che fa tardi la notte, perché poi a volte si prova anche fino l’una, qualche volte succede, le ultime sere
specialmente che siamo in ritardo sicchè l’una, qualche volta l’una e mezzo...Per cui in qualche modo
partecipano anche quelli che non partecipano, insomma, lo subiscono, perché non tutti sono totalmente
d’accordo con quest’esperienza, chi per una ragione o per l’altra, per il tempo…perché son comunque dal
sessanta…quant’è dal sessantasette...quant’è che è cominciato il teatro? (int.33)
Se il vissuto del paese è diverso tra chi partecipa al Teatro e chi non vi partecipa, anche il vissuto del Teatro
non è il medesimo per gli stessi partecipanti, e gli attori “storici” se ne lamentano.“Il Teatro prima era una
cosa sacra. Noi non si sgravava. Non potevamo mancare una sera perché faceva male lo stomaco. Invece
ora ci vengono in pochi, vengono lì, studiano un pochino, poi, insomma, c’hanno da fare, chi c’ha di qua e
chi di là…è tutto diverso” (int.31)
Gli impegni sopraggiunti in tempi recenti che vengono additati come il rischio di uno snaturamento di questa
esperienza sono, ad esempio, quelli legati alle attività turistiche negli agriturismi. Inevitabilmente, infatti,
anche la consolidata realtà del Teatro Povero risente dei mutamenti in atto nel territorio e non sempre riesce
a farne nutrimento per la comunità. In ogni caso esso si configura come un magma vitale e multiforme che
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Volume IV – Studi di antropologia
sembra stare stretto nella univoca definizione di Teatro e nelle classiche attività ad esso preposte: scende
dal palco, questa è la mia impressione, un gruppo continuamente rinsaldato come comunità per affrontare i
problemi locali.
“Perché anche quel negozio che c’era, un altro negozio che c’era qui nella piazza di San Martino, un
negozio che era di…c’era la rivendita dei giornali e c’era un po’ di alimentari…a parte che era di una persona
che abitava fuori, però è stato chiuso, nessuno l’ha preso. Ora qui il Teatro, la compagnia del Teatro Povero
ha preso la licenza dei giornali per rendere un servizio, quindi questa cooperativa cerca, per quello che può,
di creare questi servizi che possono essere utili alla gente, quindi la rivendita dei giornali è questo.”(int.26)
7.3.15
Il Granaio. “E’ un riscatto. E’ diventato proprietà di tutti”.
“Il Granaio addirittura siamo stati fortunati per quanto riguarda la collocazione del museo, realizzato in quello
che era il granaio della fattoria; qui dentro a luglio se arrivavi qui in questo locale c’era il grano da tutte le
parti…addirittura è stato collocato in una parte viva del mondo contadino” (int.43)
“Un riscatto, è diventato proprietà di tutti. C’è una battuta (di uno spettacolo del Teatro Povero) che dice: <<
E’ un riscatto storico-politico>>, perché intorno questa gente che ha lavorato qui tanti anni, io me lo ricordo
ero ragazzino, si vedevano questi carri che arrivavano col grano e questi contadini che scaricavano e
caricavano, scaricavano e caricavano per giorni e giorni e poi questo locale è diventato di proprietà di tutti,
proprietà anche di chi non c’è più e vi ha lavorato, e lo riconosce nel momento in cui entra, dove vede la
propria storia, rappresentata la propria storia, non però in forma mortuaria ma in forma viva” (int.43) mi viene
detto a proposito del museo.
Usare lo spazio del Granaio è partecipare di questa sua immagine, che è anche un’idea dell’uso e
appropriazione di spazi, in quanto “appropriarsi cognitivamente e operativamente di uno spazio
culturalmente modellato significa integrarsi nel gruppo sociale artefice di quel modellamento” (Signorelli
1996, p.62). Luogo di assemblee e convegni, di mostre, di vendita di giornali, libri e prodotti del Commercio
Equo e Solidale, spazio per le prove della banda, sede del museo e dell’ufficio turistico, il Granaio viene
adattato a molteplici attività in cui le esigenze della comunità coesistono con le proposte offerte ai turisti.
“Io ho sempre sentito parlare del Granaio come del punto di riferimento per questi di Monticchiello, forse
perché appunto è stato usato come sala per le prove della banda, vengono tenuti qui anche gli strumenti, o
sede per la realizzazione di convegni, di conferenze che comunque ne vengono organizzati, per le mostre di
pittura, insomma e varie altre cose. E poi è diventato uno spazio per…come punto di riferimento per chi
arriva, delle presone che non siano chiuse ma sappiano dare quelle poche informazioni, sappiano addirittura
illustrare a chi arriva che cosa c’è da vedere nel paese, perché qualsiasi abitante di Monticchiello qui fa
questa cosa, porta addirittura i turisti qua su al Granaio ora che c’è l’ufficio turistico perché questa gente
abbia delle informazioni in più. Quindi ci tengono proprio i vari signori che sono in giro, gli anziani che sono
in giro di qua. E quindi…niente…da ufficio turistico è anche posto di aggregazione perché…dopo che è stato
aperto anche qui l’ufficio turistico poi standoci anche noi che magari si entra in contatto anche con la
popolazione, anche io che conosco i moticch…quelli di Monticchiello da poco però si cerca di far capire che
possono venire qua a leggere il giornale, possono venire qui a incontrarsi, non lo so, per fare due
chiacchiere e…per queste cose qui visto che è una sala abbastanza grande che può essere usata da loro,
insomma, per quello che possono. Chiaramente non si può fare il caffè, non si può tenere qualcosa da bere
e questa è senz’altro una cosa che manca però avevano intenzione in qualche modo, con qualche
stratagemma, di metterci anche qualcosa di questo tipo, non so se verrà fatto, non credo, però insomma la
voglia che questo posto sia aperto a tutti, per chi vuole stare insieme agli altri. (…) No, al momento non è
vissuto così perché c’è sempre…se uno non viene a prendere il giornale al Granaio non ci viene
e…purtroppo funzione così, magari d’inverno si nota di più l’esigenza di andare in un posto e allora ogni
tanto la domenica si ritrovano qui, ma sono…la domenica mattina che la gente viene a prendere il giornale e
poi scambia due parole ma non è che c’è un appuntamento al Granaio, non c’è questa abitudine, non si è
creato ancora questo.” (int.26)
Ancora una volta dunque viene sottolineata l’esigenza di un posto per incontri informali, non finalizzati a
qualche attività specifica che al contrario può rappresentare, in quest’ottica, un impedimento. A parlare una
ragazzina delle scuole medie: “Al Granaio c’è da una parte il museo, dall’altra parte delle volte ci
mettono…una specie di libreria che quella lì si sposta quando ci so le feste (…) e poi lì ci so delle fotografie
ora c’hanno messo del gruppo fotografico, lì…poi c’è la taverna non ci fanno mai niente a parte d’estate che
ci fanno il Teatro (…) ma se devi fa una festa tutta quella roba te la fanno leva?” (int.21)
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Volume IV – Studi di antropologia
Nella divergenza di percezioni di spazi, come questa appena mostrata a proposito del Granaio, salta agli
occhi che “la città non è mai stata uguale per tutti i suoi abitanti” (Signorelli 1996, p.44). Pur calpestando gli
stessi metri quadrati, spesso in medesime occasioni sociali, il vissuto degli adulti che mi hanno raccontato il
Granaio come un luogo dove passato e presente acquistano senso guardando uno all’altro, e quello di
questa ragazzina, ad esempio, produce due luoghi diversi: arredo e prodotti culturali funzionali
all’appropriazione e all’uso, per alcuni, tramutati in “roba” guardata con preoccupazione dai ragazzini che
hanno l’esigenza di spazio libero per fare delle feste.
Il filo sottile che può legare due mondi diversi, come quelli rappresentati da locali e turisti ma che possono
anche coesistere nella medesima comunità, è forse quello che un abitante di Monticchiello, dopo aver visto
per la prima volta il museo, chiama “favola”: “Prima, quando guardavo dentro il pozzo, il carro coi bovi, e
indubbiamente dentro…ora è evidente ora io li ho visti per pochi anni da piccolo ma…li ricordo ancora, ma
probabilmente chi li guarderà che non c’ha nessun aggancio con la realtà, probabilmente sembra una favola
questa qui. Ma le favole poi ognuno in qualche maniera, se l’accoglie, lasciano un segno, se non altro la
fantasia, la curiosità” . (int.43)
E’ un altro modo di dire, credo, che “la tradizione è in primo luogo una <<memoria>>, un <<sapere>> del
passato che permette l’acquisizione di nuove esperienze e che orienta le risposte ai problemi del presente”
(Lai 1996, p.133). Una risposta: gli abitanti di Monticchiello stanno cercando di realizzare una sala sotto al
Granaio “che sarà il centro vitale di Monticchiello” (int.33)
7.3.16
Territorio e Teatro. “Però comunque non credo si possa prescindere da quest’occhio su questa
nostra vallata che è il nostro mondo”.
“Probabilmente ci si campa volentieri noi perché siamo di qui, siamo cresciuti qui e probabilmente poi si ha
questo legame con la terra, con la cultura contadina. Noi si è fatto durante questi anni un nostro, in qualche
modo la cultura contadina è stato un nostro riferimento teatrale (?), ecco però io credo che il puzzo del
concio, il concetto.., se uno non l’ha sentito, non la racconti, come fai a raccontarla? Come fai a raccontà
l’esperienza della vita nei poderi, diciamo, drammatica per certi aspetti, ma fai conto uno come me che l’ha
vissuto da ragazzino per cui delle campagne ha vissuto l’aspetto ludico e non l’aspetto problematico, io c’ho
questo ricordo incredibile con questo legame con la campagna, questa cosa con...per cui ecco per me è un
riferimento (?), forse da questo nasce questo forte legame con questo territorio al punto da non vedersi da
un’altra parte.”. (int.33)
“Il discorso sul paesaggio è un pretesto: come costruzione culturale designa sempre altra cosa che se
stesso” (Lai 2001,p. 26). Nel raccontare il territorio circostante e il paesaggio attraverso il filtro del Teatro
Povero si esprime, infatti, la volontà di mantenere un legame, seppur ideologico e riflessivo, con quella che è
riconosciuta e scelta come la propria storia; “questa nostra vallata” (int.33) è l’ambientazione in cui collegarsi
ad altre storie e persone per costruire la propria identità. “La connessione della storia con un luogo assicura
una trasmissione dei fatti a lungo termine stranamente accurata” (Bloch 1998; p.47)
Da un’altra prospettiva, quella di un membro della comunità parrocchiale di Monticchiello, lo sguardo sullo
stesso spazio ha tutto un altro tono. Egli afferma che, a causa di dinamiche concrete di mutamento, spesso
problematiche, afferenti il rapporto tra territorio e popolazione, l’identità della comunità “si sta perdendo
progressivamente. (…) La vita della parrocchia risente naturalmente della vita della comunità, la comunità,
secondo me…cioè secondo me, mi sembra un dato abbastanza oggettivo, sta invecchiando e poi sta
perdendo progressivamente la sua identità, forse l’ha già persa e…perché le persone…c’è un problema di
presenza di giovani che non ci sono, in parte, non saprei quanto ma parecchio penso quanto, dovuto anche
a un problema di abitazione perché qui uno degli effetti negativi del parco della Val d’Orcia, secondo me è
una gran cosa però ha avuto anche degli effetti negativi: reclamizzando questa zona e facendola diventà di
moda, le case le abitazioni dentro il centro storico e le abitazioni dei poderi so notevolmente cresciute come
prezzo. Quindi o ci sarà un intervento di recupero però a fini abitativi, recupero del patrimonio esistente,
penso sia la direzione più importante. Il patrimonio edilizio esistente a fini abitativi per i monticchiellesi o
quelli che diventeranno tali, come seconde case naturalmente, o se no questa situazione di decremento
demografico con conseguente perdita d’identità non si risolve. Naturalmente la perdita d’identità deriva
anche dal fatto che l’identità contadina, mezzadrile che aveva una volta ora non c’è più. I mezzadri non ci so
più, superati dalla storia, e quelli che sono rimasti in campagna so diventati quasi tutti imprenditori fra l’altro
co grossi contatti con l’esterno, con l’estero. Un dato dei tempi come questo, i mezzadri in genere, anche
quelli della Val d’Orcia erano la categoria sociale più isolata, vivevano questo microcosmo che era il podere
con pochi contatti se non in occasione di feste nel paese e ora sono invece sono quelli più…parlano,
parlucchiano inglese, usano internet, fax, mail, eccetera.” (int.39)
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Volume IV – Studi di antropologia
Le persone che vengono riconosciute detentrici dell’identità locale, di quel genius loci legato alla specificità
della vicenda storica del luogo, scompaiono progressivamente sostituite da figure che in comune solo il
nome.
“Si chiamano contadini, è un contadino si, da come è vestito però nei confronti dei contadini che erano qui
quello è un signore, contadino qui voleva dire…voleva dire la povertà, mezzadro, voleva dire che mezzo è
mio mezzo è tuo del prodotto.” (int.11)
Con la scomparsa di queste figure viene denunciato il rischio per la propria identità collettiva: vengono infatti
a mancare i riferimenti per continuare a condividere ed elaborare quel discorso comune che si è scelto per
parlare e parlarsi di sé.
“Ora stiamo vivendo un problema di questo tipo: stiamo perdendo memoria. In che senso? Cioè quelli che
hanno fatto in realtà…che hanno avuto l’esperienza contadina, in qualche modo son morti, o sono
invecchiati, non fanno più teatro. Per cui il nostro confronto con…cioè diventa un confronto di tipo…cioè le
persone che hanno vissuto l’esperienza contadina che poi in piazza riportavano le sue esperienze…cioè
Rino del Lamone non se tu ne hai sentito parlare? Il babbo di Luchino, quello che è morto. Se non l’hai
conosciuto è un peccato perché lui non era un attore, era un…era di più..lui era…credo che sia uno..uno
delle persone che pur non avendo un retroterra di tipo culturale hanno recitato con una sensibilità che
soltanto i grandi attori hanno…cioè lui in piazza ha dato emozione, aveva...il linguaggio, la postura, il viso…i
suoi silenzi erano...peccato che non l’hai conosciuto perché era una persona… Allora, dico, gente in quel
modo che è morta, per cui non è più un riferimento, diventa difficile per noi rapportarsi ancora a quell…quella
cultura contadina…e tant’è vero che siamo, anche quest’anno, nello spettacolo di quest’anno, stiamo
cercando di superare questa incapacità di rapportarsi perché ci mancano le figure di riferimento per cui
stiamo trattando il mondo contadino in modo un po’ diverso.” (int.33)
In queste riflessioni, dove i pensieri dei singoli si amalgamano a quelli del gruppo attraverso i testi del Teatro,
si esprimono preoccupazioni che non intaccano però la volontà di fare riferimento ad un mondo, anche se
consapevolmente idealizzato.
“Ma il concetto è questo...tutte le volte che mi confronto con il mondo e questo lo fo (?), per me la realtà
contadina per me è in qualche modo un rifugio, un rifugio mentale. Questo è come lo vivo io. Probabilmente
perché lo ho idealizzato quel mondo in quanto vissuto da bambino, per cui è rimasto quell’aspetto piacevole,
se te parli col mio babbo, insomma, il ricordo della campagna non è il mio perché io me lo ricordo, cavolo,
era dura, quindi no…quindi questo è.” (int.33)
E’ in questo spazio di enunciazione che tipologie di persone e di luoghi sono etichettati come “falsi”:
tradiscono il proprio senso del territorio…
“Vedere un contadino della Val d’Orcia, non i giovani, ma vedere un uomo di settanta anni (?), vedere
questo contadino della Val d’Orcia con le sue rughe con i suoi tratti, con…che va in giro per la Val d’Orcia
con quelle gippone americane da cento milioni, secondo me è una violenza come le piscine, ecco”. (int.33)
…ricostruendo il territorio ricalcando immagini ed esigenze altrui…
“non è l’idea di agriturismo originaria o come esiste in altri posti d’Italia dove vivi anche …insomma, vivi in
campagna, vedi le attività…il lavoro che si fa nell’agriturismo, questi sono…è come se fossero degli alberghi
in campagna, ci sono degli appartamenti, anche di lusso, perché poi il costo dell’agriturismo è elevato…
(int.26)
…esigenze altrui che, in alcuni casi, si sposano con le proprie ma sempre in contraddizione con il proprio
senso dei luoghi…
“Sicuramente son stati recuperati tutti questi casali che sarebbero cascati. Poi ci sono le varie scuole di
pensiero, c’è Andrea Cresti, il nostro regista, dice:<<Meglio che il podere sia crollato che recuperato perché
se la cultura contadina è finita, il podere deve crollare con la cultura, è inutile che te ci fai la villa>> che può
essere un punto di vista. D’atra parte tutti questi recuperi che son stati fatti hanno dato lavoro a tanta gente,
oltre al lavoro che poi uno spera di farci con l’agriturismo. (…) I soldi che uno da all’elettricista, al muratore,
non è che uno lo va a prende….son tutti gente di qui”. (int.13)
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Volume IV – Studi di antropologia
7.3.17
Agriturismi. “L’ho reinventato, questo l’ho lasciato com’era”
“Noi siamo…io sono nato il quel casolare lì dove sei andata, questo qua sotto che praticamente è stata la
nostra casa da quando è nato il nostro povero babbo che è morto due anni fa, dal 1930 fino ad ora. Quella
era di proprietà della fattoria di (?), come tutte le case qui erano del padrone e quindi…la fattoria e tutti gli
altri erano contadini. Poi c’è stato questo abbandono della terra, praticamente, una cosa ormai assodata.
Mio padre uno dei pochissimi a non abbandonare il podere e l’ha comprato, l’ho comprò nel 72 e nel 1980
circa quando son tornato io dal militare…no, son tornato un pochino prima, ma insomma nel 75 s’è fatto
questa (?) qua (???). Siamo stati sempre una famiglia abbastanza numerosa e noi siamo sette-otto: c’era
mio nonno, poi c’era uno zio che non era sposato e quindi eravamo in otto. E abbiamo fatto questa casa
qua, il casolare è rimasto vuoto per quindici anni…praticamente veniva usato come rimessa, come
magazzino diciamo, e poi dopo è stato trasformato in agriturismo. Un po’ seguendo, diciamo, l’onda della
moda, un po’ anche perché chiaramente il reddito cerca di andare dietro un po’ tramite contributi
dell’amministrazione provinciale a cui abbiamo attinto e poi insomma anche alle richieste, e quindi abbiamo
iniziato questa…abbiamo fatto l’agriturismo”(int.13). Un altro agriturismo di sua proprietà, che era un rudere,
mi dice, “ l’ho reinventato, questo l’ho lasciato com’era” (int.13).
Un altro intervistato mi racconta che la sua azienda familiare si è trasferita al P.I.P. in un modo “un po’
travagliato (…). Ora io al di là di quanti anni è che noi siamo qui…io ora non è che me lo ricordo perché non
è che sono tanto bravo a ricordarmi le date, però come vede è sempre in aperta…un cantiere aperto.
Soprattutto…da qui in giù, ecco. E quindi le prospettive sono un po’ deludenti considerando che un’area che
doveva essere già completata circa venti anni fa e ancora siamo…siamo un po’ in alto mare. Prima perché
dicevano aspettavano finissero tutti i lotti, poi non lo so ecco, le prospettive tanto belle non so” (int.42).
Doveva essere completata la strada asfaltata, mi dice, e il servizio della nettezza urbana: “è un porcilaio, ma
questo non è colpa del Comune ma solamente colpa di chi ci abita (…) però non c’è sorveglianza”. (int.42)
Un’altra persona che intervisto mi parla di S. Anna dove il fattore gli ha insegnato a potare l’ulivo e la vite ma
non solo: “c’è proprio un rito di passaggio, mi ha introdotto in questo mondo come nessuna altro, è stata
forse la persona più importante, ma non solo lui, ci son stati altri qui a Pienza, e mi ha dato l’idea di...di...che
si poteva vivere in un modo piacevole, bello, ricco e…che qui si poteva tentare di fare questo. E un’altra
cosa che mi è rimasta impressa con queste persone qui, che aveva un senso del tempo…il fatto di disporre
del proprio tempo per…per chiacchierare con te, io che venivo da una zona super efficientista, proprio di
quelle…cioè questo più di altre cose mi diceva, cioè se uno è padrone del proprio tempo è un vero signore,
nel senso pieno della parola perché essere padrone del proprio tempo non c’è prezzo che lo paghi” (int.14).
Nella zona della Val d’Orcia in cui abita, mi dice una donna, “ siamo tutti una famiglia, siamo tutti uniti, se
uno ha bisogno va, se l’altro ha bisogno va (???), siamo sempre in contatto, siamo uno, due, tre, quattro,
cinque, sei, otto famiglie, siamo tutte una diciamo.” E la figlia: “Ma sai anche perché, perché qui c’è tanta
parentela tra le famiglie e anche quello influisce tanto”. (int.41)
Una signora di Pienza: “Prima ecco ci si ritrovava di più, anche tra famiglie si organizzavano delle
scampagnate a S.Anna, ci si ritrovava in tanti, eh, perché tra noi e i figli…si cucinava in quel cucinone
grande…si stava lì tutto il giorno…poi anche quello lo prese in gestione…non mi ricordo, e cominciò e
mettere i divieti, allora il cucinone non si adopera più, allora…insomma”. C’era don Flori che diceva la messa
e si andava assieme alle famiglie del vicinato mentre ora, si lamenta, ci organizzano pranzi di nozze. (int.32)
Quella di Cosona, mi racconta una ragazza, era “una comunità veramente stranissima, veramente…molto
affezionati a tutt’oggi si sentono appartenenti a Cosona”. Le occasioni in cui ora si rincontrano sono i funerali
“però c’è proprio lo spirito di Cosona: i ricordi, lo spaccio, le feste...le feste davvero erano importanti, le feste
del comprensorio di Cosona, ci venivano da tutte le parti da S.Quirico, da Torrenieri, da Pienza venivano alle
feste organizzate lì, c’era una grande sala da ballo…e mio padre mi ricordo mi ha detto quando arrivò il
primo televisore, che era un armadio, con tutte queste valvole così, tutti gli appartenenti della comunità di
Cosona pagarono, non so se dieci lire così, per contribuire all’acquisto di questo televisore, e si portavano le
sedie da casa, arrivavano lì con la sedia, si guardavano la televisione e se ne andavano e, siccome loro
avevano contribuito, forse tutte le sere quando andavano, per contribuire alle spese, davano dieci lire,
ricevevano una caramella, per andà lì a guardà la televisione!. E io ho ancora le percezione delle feste che
facevano perché comunque sono durate fino agli anni ottanta, quindi io avevo dieci undici anni e me le
ricordo perfettamente, insomma. Con i piccoli delle altre famiglie ci conosciamo e siamo cresciuti lì alle feste
insieme, insomma, quindi anche a S.Quirico io ho degli amici di Cosona, i Bartolucci per esempio, il fratello
di questo che gestisce il ristorante, è un ragazzo con cui io ho giocato molto da piccola e a tutt’oggi lo
incontro a S.Quirico e se ne parla, insomma, è una cosa molto sentita”. (int.17)
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Volume IV – Studi di antropologia
Questi frammenti di intervista esprimono e rappresentano sei approcci al territorio del Comune esterno tanto
a Pienza che a Monticchiello. Nell’ordine: uno dei pochi proprietari locali di due agriturismi; un artigiano che
lavora al P.I.P.; un esterno trasferitosi nel Comune; una famiglia locale proprietaria di un altro agriturismo;
una abitante di Pienza; una pientina i cui genitori abitavano, prima di trasferirsi a Pienza, a Cosona. Come si
evince da questi pochi esempi, “la campagna” è una realtà molto differenziata al suo interno.
7.3.18
Artigiani e contadini. “La nostra fortuna è nata grazie a Pienza”.
I disagi di chi abita in campagna sono quelli relativi alla difficoltà di raggiungere altre realtà: disagio dei
giovani di cui devono farsi carico i genitori. Un intervistato mi dice che cerca di accompagnare il figlio “se c’è
una festicciola a Contignano, a Pienza, a S.Quirico in discoteca ma un po’ di disagio magari lo sentono”
(int.13).
I ragazzi delle scuole medie si lamentano della strade: “Io non so se il Comune li ha visti ma ci so certe
strade a Monticchiello che noi ci si va col pulmino e si fa certi salti e poi ci so i seggiolini duri, si fanno
sempre certi salti, quelle buche le potrebbero pure coprì perché quelle strade in quel modo!” (int.21).
La vita in campagna è spesso legata alle attività di piccole aziende a conduzione familiare. “Noi ancora…la
nostra famiglia è composta da…stiamo tutti insieme in questa casa, io la nonna che ha 92 anni, poi io ho
moglie con due figlioli”(int.13). Anche i genitori e i figli di chi ha fatto la scelta di aprire, come in questi caso,
l’agriturismo sono coinvolti in un contesto familiare “che si caratterizza come unità economica di pluriattività.
E’ la donna in genere a guidare l’azienda agrituristica, mentre il marito attende all’agricoltura oppure
all’approvvigionamento” (Simonicca 2004; p.100). Mentre infatti “è caratteristica comune che, nell’impiego
nel settore dei servizi, le donne siano destinate a ricoprire i lavori più umili; laddove invece l’incontro turistico
viene a coinvolgere l’intera unità familiare, si creano situazioni di innovazione e cambiamento di ruolo”
(Simonicca 2004; p.98).
“Il mio figliolo ha detto che quando smette di fa il calciatore vene a fa il contadino! (…). Mio figliolo ha
comprato il trattore, uno di quei trattori nuovi, viene a trebbià a quattordici anni (…) gli piacciono sti attrezzi a
sti ragazzi giovani anche perché poi son tutti quanti elettronici, ho comprato un trattore che praticamente è
un computer, io neanche lo so portà!” (int.13). La figlia, che conosce bene le lingue, lo aiuta soprattutto nelle
traduzioni delle prenotazioni che arrivano via internet dall’estero e che costituiscono l’ottanta per cento delle
prenotazioni. L’intervistato mi dice di non sapere, al contrario, usare bene il computer.
In alcuni casi dunque “la piccola conduzione sembra potenziare il ruolo femminile” (Simonicca 2004; p.99),
differenza di genere che si combina con quella generazionale: i giovani hanno maggiore dimestichezza con i
nuovi strumenti di comunicazione, strategici per la creazione del contatto tra realtà locale e globale.
L’intervistato proprietario dell’agriturismo mi descrive la sua azienda agricola: originariamente avevano 38
ettari, ora ne hanno 130. Fanno mezzo ettaro di vigna ed hanno il permesso per reimpiantarne un altro po’.
“C’è questa storia del “D.O.C. Orcia”, “l’Orcia rosso. Si ha una produzione di vino che si sta cercando di
incrementare piantando altra vigna, non tanto, arriverà a un ettaro e mezzo, poi si fa, ci s’hanno tre ettari e
mezzo di uliveto, si fa un po’ di olio, però la maggior parte è cereali; un’azienda cerealicola può essere
un’azienda tipica valdorciana, qui da noi… Poi basta guardarsi in giro, i campi ora son tutti verdi, si vede
pochissime…pochissima vigna, pochissimi ulivi e la maggior parte è seminativo. (int.13)
Agricoltura, turismo e ambiente sembrano far parte di un circolo virtuoso dove ad una maggior tutela delle
specificità locali corrisponde una valorizzazione dei prodotti. “Le parole d’ordine quali restaurare, prevenire,
conservare, -infine- proteggere e sviluppare, indicano la ricerca di uno sviluppo economico incentrato sul
turismo e su un tipo di agricoltura diretta a gestire l’ambiente. Superata la fase produttivistica di
potenziamento dell’agricoltura, la politica statale ha individuato negli agricoltori gli agenti principali della
produzione del paesaggio” (Lai 2001; p.53).
In questo meccanismo “il richiamo al luogo di produzione testimonia e certifica l’identità del produttore e
insieme la qualità e la peculiarità del prodotto. Si tratta di simboli che veicolano il senso della tradizione” (Lai
2001; p.98). Proprio in quest’ottica, produttori di altri settori, soffrono del fatto che non venga riconosciuto
loro, in ambito locale e istituzionale, tale corrispondenza tra la loro attività, i loro prodotti e il territorio. Mi dice
un artigiano che lavora al P.I.P. che tale rapporto viene invece riconosciuto e cercato dagli acquirenti,
perlopiù esterni al Comune, procurando in lui “soddisfazione anche perché al di là che parlano di noi parlano
comunque anche di Pienza perché, cioè, noi siamo legati al territ…non è che noi ci consideriamo una cosa
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Volume IV – Studi di antropologia
staccata da Pienza, noi la nostra fortuna è nata grazie a Pienza, perché magari se non c’era il flusso turistico
che c’era a Pienza non ci conoscevano nemmeno, o molti di meno e quindi ecco…a noi preme che il turista
o chi viene comunque sia accolto bene o comunque abbia una bella idea del posto”. (int.42).
“La loro autorità nasce dal fatto che è della propria identità che parlano quando metonimicamente si
rappresentano attraverso i propri prodotti” (Papa 1999; p.140) e tale identità e fortemente connessa al
territorio e allo spazio specifico in cui viene realizzato il prodotto: “E’ qui che lavoriamo e quindi è qui che
vogliamo far sapere chi siamo, non tanto…al negozio facciamo vedere il prodotto ma chi siamo, come
lavoriamo, eccetera è qui” (int.42).
Un altro artigiano si esprime così: “Dovrebbero pagarli gli artigiani, dovrebbero pagarli per venire qui.
(…)Vedere un artigiano…danno il senso del territorio, della qualità di un posto” (int.14) evocando una
“nozione di <<patrimonio>> culturale nazionale molto ampia e tale da comprendere anche saperi tecnici e
produzioni locali” (Papa 1999; p.55)
7.3.19
Saperi. “Non si può diventare gli indigeni che mettono il gonnellino per i turisti.”
“Bottega Verde probabilmente si lega a Pienza…innanzitutto è stata creata dal signor Morriconi, persona di
grande intelletto (…), lui ha studiato tantissimo Pienza, è lui che ha creato Bottega Verde, poi…da quel che
mi ha detto ultimamente, lui aveva venduto il marchio a queste persone che vengono da Biella, quindi
Bottega Verde in un certo senso ha assunto l’aspetto industriale e ha perso, diciamo, secondo me,
personalmente, il legame con Pienza, perché aveva creato Morriconi una cosa comunque a carattere
artigianale, cose prodotte in modo naturale (…) perché lui ha creato anche il sito su Pienza”(int.10). Una
giovane del Sud Italia, trasferitasi in un podere nei pressi di Pienza, mi parla della “Bottega Verde” e di
Palazzo Massaini, dove risiede il call-center di “Bottega Verde” in cui ha lavorato come centralinista. Palazzo
Massaini aveva molti poderi sotto di sé e le persone che vi abitavano vivevano in condizioni disagiate, mi
dice facendo riferimento ai racconti degli anziani da lei intervistati sull’uso delle urbe locali; e risponde a una
mia domanda aggiungendo che non c’è alcun collegamento tra questi saperi e i prodotti di Bottega Verde.
“Il prodotto tipico in quanto tale può essere definito un’invenzione storica che è stata introdotta nel momento
in cui al mercato locale per alcuni beni prodotti localmente si è sostituito il mercato globale. (…) Il sistema
che connota la tipicità e la tradizione è costruito con tratti arbitrari, che potrebbero anche essere diversi,
mentre ne vengono occultati altri che potrebbero negarle” (Papa 1999; p.159). Nel caso della “Bottega
Verde” è il legame col territorio, Pienza nello specifico, che, per quanto inesistente se non a livello
d’immagine pubblicitaria, vie ne sottolineato per comunicare al potenziale acquirente la qualità dei prodotti.
Non dunque un discorso esplicito sulla tipicità ma che fa riferimento allo stesso meccanismo legando il
prodotto al “tipico” ambiente naturale locale. Viene presentato dunque un legame immaginario del prodotto
con un territorio che nella realtà offre sempre meno quelle risorse considerate, da locali e non, tipiche del
territorio. Alcuni anziani della zona utilizzano ancora, mi dice la ragazza succitata, le erbe locali, soprattutto
in campagna per uso veterinario, ma “adesso alcune cose sono andate scomparendo, è cambiata…mi
hanno detto che alcune piante non si trovano più perché è difficile col fatto che ci sono adesso strade
asfaltate, la lavorazione dei campi coi macchinari e non più…prima magari facevano a mano con gli animali,
coi buoi, adesso passano i pesticidi, passano i diserbanti, passano con i trattori (???) comunque la terra
viene rivoltata e queste piante si trovano pochissimo, devi andare in posti che comunque vengono…nel
bosco…(???) alcune piante sono proprio scomparse” (int.10).
La scomparsa di queste piante è indicata anche come uno degli elementi della perdita dell’autenticità di un
importante prodotto locale, il cacio di Pienza. Queste piante, nutrimento per le poche pecore oggi presenti
sul territorio, avrebbero dato un tempo al pecorino l’esclusivo aromatico sapore. Inoltre oramai il latte è per lo
più acquistato all’estero, si lamentano in molti schernendo i turisti che acquistano a caro prezzo questa
“fregatura”. Ma a costituire il complesso, a volte sfuggente, immaginario dell’autenticità, il legame col
territorio oltre che esprimersi in termini di risorse naturali viene veicolato anche dal lavoro, soprattutto
quando ci si riferisce al cibo. Infatti “il cibo esprime anche il lavoro necessario a produrlo, a partire dalla
trasformazione delle risorse, un atto in cui si identifica il senso della propria azione sull’ambiente; così il cibo
sembra veicolare una sorta di <<legame nutrizionale>> con la natura” (Lai 2001; p.99).
“Loro mi ricordo…ora dico <<loro>> sembra una cosa…! I toscani parlavo...che loro volevano il formaggio a
maggio perché la loro tradizione le loro…dicevano che il formaggio a maggio era più buono, invece per noi il
periodo più buono è il periodo invernale. Perché si riteneva questo capito, poi non lo so se è giusto o meno,
che il periodo che danno un pochino di meno latte perché mangiano il fieno, a granella, il mais, non so che, il
latte è più grasso e per noi era più buono, invece nel periodo di aprile maggio, che c’è più erba, danno più
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
51
Volume IV – Studi di antropologia
latte le pecore e viene un pochino meno grasso. Sentivo dir questo eh, non è che io ho fatto una ricerca
chimica o che..!”(int.11). A parlare è un sardo che fa pensare, associando ciò che dice alle continue diatribe
locali sulla perduta autenticità del pecorino di Pienza, a come “il lavoro rappresenta il più potente fattore di
identità e di etero-valutazione” (Lai 2001; p.101).
E continua: “Sinceramente qui la pastorizia s’è portata noi perché prima c’erano poche pecore,
c’erano…insomma c’avevano la pecora di razza appenninica che era una pecora che ti faceva poco latte e ti
faceva l’agnello da carne, invece portando la pecora sarda che è un animale che ti dà molto latte, allora…poi
si iniziava a fà formaggio…sinceramente si è trovato benessere”. (int.11)
Nell’ambito di questi processi di trasformazione, è fondamentale il ruolo delle cosiddette élite innovatrici
(Eisenstadt 1973), gruppi sociali che hanno un ruolo guida nel sviluppare e diffondere mutamenti tecnici.
“…Fra l’altro c’ho anche, ora c’ho i muratori, devono finì di fa il restauro ella struttura, c’ho un mulino a pietra,
fo anche le trasformazioni del grano quindi tutta la (?), un piccolo pastificio che ho intenzione di mettere in
funzione per l’agriturismo, in funzione dell’agriturismo (???). Ho partecipato a un progetto di fattorie
didattiche: è un progetto dell’amministrazione provinciale di Siena che è partito l’anno scorso dopo che
abbiamo fatto il corso, diciamo, tre mesi un po’ di scuola il pomeriggio qualche volta; è un corso per i
bambini, per i ragazzi, <<fattorie didattiche>> è proprio il nome, siamo stati in Emilia Romagna ove questo
funziona, siamo stai due giorni laggiù in giro con il responsabile della provincia di Cesena, c’hanno portato in
alcune fattorie, e quindi si volava fare in questa zona questo tipo di esperienze anche se…diciamo lì hanno
un densità di popolazione molto diversa, ci son le scuole più fitte quindi riescono….(…). C’è un accordo tra
professori, tra maestri, anche perché comincia dalle materne e l’azienda e viene fatta una visita in azienda
tra trenta-quaranta bambini, questo dipende dagli accordi che uno prende. E chiaramente questi ragazzi
vengono, vedono quello che fai, io l’ho già fatte un paio di visite lì al castello, questi vengono, gli fo vedere il
grano, poi viene macinato, gli fo vedere la pasta, in questa mezza giornata i ragazzi seguono questa attività,
lo possono toccare, non siamo ancora attrezzati per fargli fare il pranzo (…).” (int.13)
“La fine dei contadini” (Lai 1996) consiste nel nuovo ruolo che ad essi è richiesto: “non più solo produttori ma
anche custodi dell’ambiente e personificazione di un mondo che la modernizzazione ha trasformato senza
dissolverlo del tutto ma anche senza poter del tutto gestire la grande trasformazione. Come pure sembra che
ci troviamo di fronte a una sorta di folclorizzazione delle società contadine, analoga a quella che ha
metabolizzato le drammatiche vicende di indiani americani e Aborigeni australiani”. (Lai 1996; p.120).
“Non si può diventare gli indigeni che mettono il gonnellino per i turisti. Io, quando facevo il presidente del
Parco, sono venuti a propormi di creare situazioni con contadini vestiti da contadini per i turisti! (…). Poi c’ha
questa grande cultura secondo me il contadino che non si può diventare i tappetini del turista (…). Io mi
aspetto un’altra cosa…m’aspetterei...m’aspetto il turismo certo perché è importante ma m’aspetto anche che
chi viene in Val d’Orcia…trovi gente che sta in Val d’Orci che ci sta…con la sua storia con le sue abitudini
con le…dove il turista senz’altro è ben visto, anche gli va creato strutture di supporto, va anche accolto bene
e va trattato bene, va fatto mangiar bene va fatto pagar il giusto e va accolto in maniera cortese ma questo
non vuol dire che (???).(…) C’è un modo di proporsi che è un discorso tra pari, c’è questo tema, questo
concetto, sempre tra i programmi provinciali, del turista come ospite, è molto bello (…) diventa uno che ha
cittadinanza in questa zona” (int.33). Il turismo va affiancato all’agricoltura e all’artigianato, continua
l’intervistato, sarebbe sbagliato fossilizzarsi sulla monocultura in quanto non potrebbe pagare alla lunga
distanza ed è necessario pensare anche ai locali.
“L’identità locale ha un forte radicamento nel territorio, è insieme potere sul territorio e potere del territorio,
che non è stata indebolita ma anzi è stata rafforzata dalle trasformazioni degli ultimi decenni” (Lai 1996;
p.119). Ma la questione credo sia complessa e spesso piena di contraddizioni che portano a chiederci “se ci
troviamo di fronte ad una sorta di nuovo tentativo di rendere la vita sociale contadina un fatto meramente
folcloristico, un processo al quale contribuisce la crescente domanda di un turismo a volte caratterizzato da
una sorta di <<nostalgia>> del passato”: questione da valutare analizzando le dialettiche tra i residenti e i
soggetti esterni, tanto i turisti che i nuovi residenti. Quel senso di nostalgia, infatti, è carico di ambiguità
ideologica (Cirese 1977). Quindi la dialettica tra i soggetti che usufruiscono del territorio assume una
funzione centrale di cui è importante indagare il peso, il ruolo nei vari livelli del contesto sociale e territoriale.
Nelle voci che seguono vengono evocate diverse modalità di rapporto con esterni fornendo delle immagini
sull’influenza di questi ultimi nella ridefinizione dei rapporti dei locali con il territorio:
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
52
Volume IV – Studi di antropologia
“Adesso stiamo battendo un po’ la fiacca perché gli stranieri ci hanno un pochino abbandonato, due o tre
anni fa era una cosa un po’ più…c’erano parecchie più richieste poi era soprattutto gente tedesca quando
c’era il marco e non c’era l’euro che veniva qui e …ora c’è un po’ più attenzione, diciamo…e poi chiaramente
aumentando l’offerta devi aumentare la qualità se vuoi continuare a lavorare, prima bastava che gli davi un
casolare ora vogliono un sacco di servizi: colazione, cercano da mangiare…” (int.13) dice un proprietario
dell’agriturismo che mi spiega che quando suo padre aveva comprato il terreno costava trecentomila lire
all’ettaro mentre adesso lo stesso terreno è venduto per trenta milioni. Fino a pochi anni fa, continua, nel
prezzo del terreno era incluso quello del fabbricato “ora è il contrario, costa più il casolare del terreno
circostante: un casale costa un miliardo e la terra costa pochissimo. (…)…E’ cambiato questo
rapporto…questo il mercato…casolari in vendita non ce ne sono e quindi… (…). Più che altro li
comprano…diciamo…la maggior parte i casolari vengono acquistati per un uso personale, vengono
acquistati da…qui da noi neanche tanti stranieri più che altro alcuni di Roma, gli esempi più vicini che mi
vengono, ce n’è due tre che sono dei romani, altri son di Cremona, altri dell’Alta Italia industriale che gli
piace avere il casolare in Toscana, se lo son comprati… (…) Uno o due si son trasferiti. Abbiamo qualche
esempio di…per esempio qui abbiamo un casolare che son di...signori svizzeri che son tornati fanno
agricoltura biologica, c’è un po’ di ritorno. Io ne conosco altri in provincia di Siena, qui a Pienza ce n’é tre che
vengono e…fanno agricoltura…a parte che anche la mia è un’azienda biologica, però ecco loro lo
fanno…poi c’è qualche tedesco…però questi son venuti una quindicina d’anni fa quando era ancora
praticabile…Ora uno che ha intenzione di fare cose di questo genere non lo può più fare perché i prezzi
sono altissimi. I pochissimi affari che si stan facendo adesso sono…a parte qualcuno che si è stufato e se lo
rivende, ci son anche questi no, che l’hanno comprato 15 anni fa, hanno speso un sacco di soldi, l’hanno
restaurato e poi si stufano, comprato la villa a Capri e vendono il casale in Toscana, no, questo è un po…
Generalmente sono questi qua (???)…poi l’affittano (?) un po’ a degli amici loro…” (int.13)
I turisti “la sera cercano il ristorantino col locale tipico, nell’agriturismo cercano quest’accoglienza magari
familiare, gli piace molto, vedo, l’ambiente, quindi cercano mobili antichi, le cose in stile” e continua: “Io devo
fare la piscina, se sarà…è un’esigenza importante per l’agriturismo perché purtroppo ce la chiedono, c’è
questa storia della piscina che…insomma tutti fanno la piscina, l’hanno fatta tutti, no, a questo punto qua era
diventata quasi un cavallo di battaglia <<Ah le piscine non bisogna farle più perché in Val d’Orcia…>>
qualcuno. Certo, facciamola con delle regole, magari più attaccata possibile al fabbricato, mettiamo il
colore…però non si può quando te hai dato tre quattro mesi non darne più.” (int.13)
L’intervistato sembra rispondere alle preoccupazioni di molti residenti del Comune, non impegnati nel settore
turistico, che continuano a chiedersi, come nello spettacolo dell’89 del Teatro Povero “Mal di podere” che mi
cita un intervistato: “siamo d’accordo al recupero dei poderi o sarebbe meglio una musealizzazione, che
cascassero o restassero in quel modo? (…) Questi poderi hanno perso l’anima: sono stati tutti rimessi a
posto, tutti quanti uguali, tutti quanti in linea, coi giardini fatti dall’architetto pincopallino tutti quanti uguali…
(…). Le aie erano dei luoghi aperti dove te andavi, camminavi, ti inoltravi lì c’era tutto quanto aperto, arrivavi
nell’aia c’era il contadino che ti portava il fiasco di vino o dell’acqua, si faceva colazione, è chiaro il concetto?
Se il podere mi diventa una villa in campagna con piscina, recinzione e due o tre cani lupi è evidente che la
Val d’Orcia mi diventa un’altra cosa, è chiaro? Io soffro un po’ questa cosa” (int.33). Questo rischio per certi
aspetti è diventato certezza ma è ancora possibile per altri aspetti fermarsi, continua, e bloccare ad esempio
lo spianamento dei calanchi.
7.3.20
Il Parco. “Secondo me non è c’è da fare tante cose qui, qui c’è da fare soltanto tanta
manutenzione”.
Così sostiene un intervistato che continua parlandomi del bel progetto che vuole il recupero del fiume Orcia
per realizzare un parco fluviale. Quello che bisogna fare, dice, è “darsi gli strumenti che facciano in modo di
conservare quel poco che è rimasto, questo è molto importante. Questo non ingessando ovviamente ma
facendo in maniera ordinata, in maniera funzionale a quello che è il nostro tipo di sviluppo…perché non si
può pensare una cosa e poi fare i campi da golf. E’ molto delicato questo passaggio”. (int.33)
“Il confronto democratico con la popolazione locale e i vari gruppi professionali e sociali ha avuto un
carattere pedagogico ed ha raggiunto il risultato di far emergere il riconoscimento di un patrimonio comune.
La società locale è diventata in questo modo il luogo in cui si negoziano le mediazioni tra il generale e il
particolare” (Lai 2001; p.52). La negoziazione è aperta:
“Il Parco è giusto eccetera, però il Parco è bello anche per il contesto intorno, quello che è questo ambiente
è grazie anche a una storia che ha avuto, una storia che, non è che penso prima c’erano tanti controllori, era
una coscienza personale che diceva piano la pianta qua (?), ora secondo me, cioè, un po’ troppi vincoli
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Volume IV – Studi di antropologia
assurdi, d’accordo, che non ti permettono né di accrescere dal punto di vista produttivo, d’accordo, e magari
alcune cose non vengono controllate. Ripeto guardiamo la spazzatura qui, è una piccola cosa però, cioè, è
inutile fai il Parco bello e tutto quanto poi uno va a piglià la bicicletta e trova un puzzo, topi qui che girano,
insomma, capito. E’ giusto che uno non po’ fa come gli pare, che ci devono esse delle regole da rispettare,
contro l’inquinamento, contro l’abusivismo edilizio, eccetera, sacrosanto, però a volte, spesso, ci so delle
regole assurde, delle regole assurde che magari quello che conta…cioè insomma tante cose che sono sotto
gli occhi non vengono prese in considerazione. Cioè per dire, il Parco della Val d’Orcia va bene, però
obbiettivamente al di là di qualche pubblicazione, di qualche foto così, poi per incentivare l’artigianato, dal
momento che ci siamo noi(?), che ha fatto? Forse non lo so io però…non mi sembra che...per lo meno a noi
non ci so giunte…insomma. So venuti un po’ di ragazzi, hanno voluto fa un po’ di foto, gli si so fatte, hanno
fatto una pubblicazione però un po’ limitativo perché insomma, dovrebbero secondo me…perché uno vede
la pubblicazione: <<Ah vedi quante cose c’è>> però poi dopo le deve trovà insomma. Ora magari noi siamo
in un punto che magari vedono, ci si ha il negozio, però tanti altri artigiani come fanno a trovarli? Uno che
viene e a Pienza, per dì, dall’America, ora ti parlo dell’America perché è uno dei punti più lontani, perché
magari ha visto le pubblicazioni, poi dopo dice: <<Pensavo di trovà un sacco di artigiani e poi non ho trovato
nessuno>>”. (int.42)
In questo confronto “è evidente quindi che la percezione della natura si differenzia in relazione non solo alle
concezioni che i gruppi sociali hanno dell’ambiente ma anche alle pratiche d’uso delle risorse” (Lai 2000;
p.51).
“Io direi che in questo settore non…il fatto stesso che la Val d’Orcia, come la Toscana, hanno questo
riscontro a livello turistico è perché è stato fatto a livello di territorio, parlando di territorio, un’oculata scelta,
un po’ per fortuna, perché qui non c’ha voluto costruì nessuno, e un po’, un po’ anche perché le leggi erano
state abbastanza severe. E io credo che liberalizzarle, lasciar fare ognuno come gli pare…se uno quando
magari vuole far qualcosa si sente:<<Ah ma non mi fanno fa niente>> però insomma io credo che delle
regole siano importanti. Anche se poi io sono di quelli che insomma avevo un capanno, l’ho…perché poi se
uno la legge la prende dal verso giusto, io c’avevo un sacco di capanni, uno l’ho tolto, l’ho distrutto, ho
recuperato la cubatura e c’ho fatto l’agriturismo, insomma. Sono uno di quegli esempi da non seguire! La
legge lo permetteva e l’ho fatto. Forse non era neanche giusto fare in quel modo. Qui sta succedendo che
tante strutture, tanti capannoni, fienili che servivano per le pecore stanno trasformando in abitazioni, sta
succedendo questo qua, io sono un esempio (…). Bisogna cercare di conviverci con queste cose, di capire
anche che ognuno non può fare quello che vuole perché se no se ognuno facesse come vuole il Parco, la
bellezza…la gente viene qua perché…perché se uno si affaccia in Val di Chiana vede un sacco di
capannoni, un sacco di case, qui viene di case ce n’è pochissime, quindi c’è un territorio curato bene. E
secondo me va continuato a tenere così (…). Io sono uno di quelli che c’ha sempre creduto, io sono uno di
quelli che quando dovevano fare la discarica dei rifiuti tossici nocivi avevo il terreno praticamente al confine.
Abbiamo fatto riunioni a Pienza, in Consiglio, al Palazzo Comunale quindi abbiamo lottato per questo. Quindi
l’idea del parco che è nata dopo per me è positiva anche se poi dopo di risultati concreti non è che ci siano
più di tanto.” E conclude: “Il paesaggio quello che è si cerca di farlo rimanere il più possibile com’è” (int.13).
Un ex amministratore racconta degli esordi del Parco quando le opinioni dei contadini erano molto diverse
da quella dell’agricoltore succitato: allora essi opponevano resistenza in quanto avevano timore di essere
danneggiati e fa un parallelo a proposito della questione odierna sulla comunità montana. “Anche se non
avevi fatto quasi niente, però già l’idea di questo parco funziona pe’ fa’ veni’ a visita’ la Val d’Orcia (…). Ha
funzionato, capito, prima per curiosità per vede’ com’era questo parco… il territorio è bellissimo, la Val
d’Orcia, dico, non è una cosa… Che poi probabilmente è l’unica vallata al mondo che sia messa in questo
modo, perché poi è bella d’estate, in primavera, è bella d’estate quando c’è il grano tutto maturo, se vedi sto
grano maturo la sera, specialmente nel tramonto del sole è uno spettacolo, dico, no? E poi è bella anche
dopo, quando è uscito il grano, che è lavorato tutto, tutti questi colori che c’è, è bellissimo, no?Per cui poi
piano piano son venuti fuori tutti questi agriturismi e allora tutti i contadini hanno fatto l’agriturismo.” (int.35)
7.3.21
Immaginando il futuro. “Vendere il sogno”.
Vorrei concludere con le parole di una persona che ha scelto di trasferirsi a vivere in questo territorio, fatto di
persone e luoghi che ama e dove ama vivere. In ciò che dice, e nell’emozione con cui lo dice, mi sembra di
scorgere la forza della poesia, la capacità di creare nuovi mondi che uomini e donne hanno quando
diventano poeti.
“Il futuro di Pienza io credo che sia poi…che stia tutto nel conservare il proprio spirito, il proprio…il genius
loci, le caratteristiche che ha, e per far questo qui dovrebbe…non so come intervenire per mantenere tutto il
Q u a d r o c o n o s c i t i vo d e l P i a n o S t r u t t u r a l e d i P i e n z a
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Volume IV – Studi di antropologia
bene che c’è, che non venga disperso, che non venga, che non venga svenduto (…) La scelta qui a Pienza
del turismo è forzata, non è che ci può esser tanto altro, l’importante è comunque controllare che non venga
stravolto dal turismo il contenuto più profondo dello spirito di questo posto qui, la qualità…e per far questo
bisogna mantenere la comunità, la comunità del paese che è quella che rinforza che ci sono spazi per tutti,
vecchi bimbi e invece questo non sta succedendo, chiaramente il mercato spinge fuori le persone giovani,
emargina i vecchi e toglie le attività marginali come potrebbe essere anche la mia e…questo senza
governare le cose è un andamento naturale. Mi auguro che ritardi il più tardi possibile perché…perché
rimanga l’idea di questo sogno che è la cosa che possiamo vendere noi, vendere…vendere il sogno,
vendere il sogno che poi non è solo un sogno ma…e di vendere questo qui…non è solo per venderlo ma è
importante anche sognare, è importante che la gente si immagini che noi qui abbiamo una qualità di vita
superiore, che è anche vero. Cioè non è un prendere in giro, è…io vorrei che coincidesse il sogno con
questo posto che secondo me è l’unico, unico dei pochi al mondo in cui si può pensare davvero che non ci
mancherebbe niente, abbiamo di tutto in qualità speciale”. (int.14)
7.3.22
Qualche riflessione. Stress coloniale?
Qui vorrei proporre una suggestione interpretativa che si basa su un parallelo tra il vissuto dei luoghi di cui
mi sono occupata e la situazione di stress coloniale analizzata da alcuni antropologi in contesti, differenti e
distanti da quello qui trattato: quelli in cui si è verificata la colonizzazione.
Gli abitanti del Comune di Pienza denunciano una sorta di stress, dovuto alla difficoltà di gestire i tanti e
veloci mutamenti che inevitabilmente, negli ultimi cinquant’anni, hanno coinvolto anche questa piccola
comunità. Nel descrivere questa percezione di stress, vissuto come compromissione della società locale, gli
abitanti ne individuano il fulcro e la causa nell’invasione di novelli coloni: i turisti, che in alcuni casi decidono
di risiedere stabilmente nei luoghi visitati. Questa narrazione coincide con un ordine di pensiero chiamato
“storia dell’impatto fatale” (Clifford 2004, p.52): dal momento dell’impatto con il turismo di massa avviene
l’inizio della storia della crisi del territorio e della comunità.
Questa storia, che si vive ogni giorno, è affrontata diversamente nei due paesi del Comune. Questa diversità
può essere simboleggiata da due luoghi, o meglio, dalle rappresentazioni locali di due luoghi: il Chiostro, per
quanto riguarda Pienza, il Granaio, per quanto riguarda Monticchiello. Essi sono “luoghi della memoria”,
luoghi in cui gli abitanti vedono, nel rispecchiarsi di passato e presente uno nell’altro, l’immagine della
propria identità. La vita sociale pientina viene descritta come una realtà armoniosa che riempiva gli spazi del
Chiostro che, da quando questa struttura è diventata albergo, si muove disorientata e frammentata. Il
Granaio è presentato come un luogo conquistato dalla comunità monticchiellese la quale si sforza di
adattarlo alle proprie esigenze e problematiche. Simbolo di una perdita, l’uno; di una conquista, l’altro.
Simboli di due modalità diverse di percepire e affrontare il cambiamento della propria comunità. Il duplice e
coesistente giudizio relativo a quella “stasi” attribuita a Pienza dai pientini, criticata quando la si riferisce alla
comunità locale, rimpianta come bene perso se all’interno della comunità si considerano anche i soggetti
esterni, esprime una frammentazione e contraddittorietà di immagini e opinioni sul territorio riconducibili alla
modalità di innesto degli esterni, e mi riferisco qui soprattutto ai turisti. La presenza di questi ultimi sul posto
ha determinato una nuova gestione di spazi e relative immagini che sono anche quelle promosse e adottate
in primo luogo da quei locali che hanno a che fare col turismo. L’ “immagine turistica” di Pienza è diventata
immagine egemone, soffocandone forse di alternative; ha causato, per riprendere la suggestione iniziale,
una sorta di “autocolonizzazione”, dove coloni e colonizzatori spesso coincidono nella medesima persona
dando luogo a situazioni e immagini contrastanti e contraddittorie. Esempio in ambito politico di questa
frammentazione comunitaria, e del tentativo di gestirla, mi sembra rappresentato dalla Lista Civica.
A Monticchiello ciò che viene percepito come disagio sociale, i pochi abitanti che ormai popolano il paese, è
ciò che diviene base di partenza per “resistere” ed affrontare quel disagio: la piccola comunità si compatta e
si appropria di spazi e tempi per autorappresentarsi anche nelle diversità di voci. La forza di queste
rappresentazioni della realtà locale si estende al di fuori dei propri confini divenendo dominanti anche
nell’immaginario pientino.
In questo rimando di immagini, si collocano anche quegli esterni residenti, quasi “turisti pentiti”, che
partecipano sia di identità locali che di identità turistiche: la loro lettura critica del territorio, condivisibile o
meno, attinge alla ricchezza esperienziale degli immigrati che portano dentro e fuori di sé il “là” e il “qua”.
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Volume IV – Studi di antropologia
In tutti questi casi, luoghi autentici e tradizioni si configurano come articolazioni originali di elementi
eterogenei, vecchi e nuovi, indigeni e stranieri (Geertz 2004, p.86). E sono articolazioni di questo tipo le
immagini, le storie, le persone, i conflitti, le mediazioni, le riflessioni incontrate in questo testo che stanno
dietro a un’esclamazione così ovvia e unanime come: “Il paesaggio è bello. Perché è naturale.” (int.36)
Bibliografia.
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Augè M., Nonluoghi, Elèuthera, 1993
Clifford J., Ai margini dell’antropologia, Meltemi 2004
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Giglia A., Crisi e ricostruzione di uno spazio urbano, Guerini studio 1997
La Cecla F., Perdersi, Ed. Laterza 2000
Lai F., Il mutamento culturale, CUEC 1996
Lai F., Antropologia del paesaggio, Carocci 2001
Palumbo B., L’Unesco e il campanile, Meltemi 2003
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Signorelli A., Antropologia urbana, Guerini studio 1996
Simonicca A., Turismo e società complesse, Meltemi 2004
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