Le recenti misure di politica monetaria della
BCE: efficacia e sfide
Camdessus Lecture di Mario Draghi, Presidente della BCE,
FMI, Washington D.C., 14 maggio 2015
Signore e Signori,
nell’anno trascorso la Banca centrale europea (BCE) ha adottato una serie di importanti misure di
politica monetaria, che sono culminate nella nostra decisione a gennaio di quest’anno di estendere
gli acquisti di attività ai titoli del settore pubblico. Se l’ obiettivo di questi provvedimenti è lo stesso
di sempre, vale a dire il mantenimento della stabilità dei prezzi nel medio periodo, la forma è senza
precedenti per la nostra banca centrale. Pertanto, le nostre decisioni di politica monetaria sono
divenute più complesse in due modi essenziali.
Anzitutto, poiché i tassi di interesse hanno raggiunto il limite inferiore effettivo nell’area dell’euro,
la nostra capacità di mettere in campo misure convenzionali di politica monetaria è più limitata. Ciò
ha richiesto lo sviluppo di strumenti nuovi per ottenere i medesimi risultati.
In secondo luogo, dato che l’utilizzo di questi nuovi strumenti può avere conseguenze diverse
rispetto alle misure convenzionali di politica monetaria, in particolare con riferimento alla
distribuzione della ricchezza e all’allocazione delle risorse, è divenuto più importante individuare,
soppesare e ove necessario mitigare tali conseguenze.
Nell’intervento di oggi vorrei illustrare l’evoluzione della nostra politica monetaria all’interno di
questo nuovo contesto, in termini sia di come abbiamo impiegato i nostri strumenti sia di come
gestiamo le conseguenze del loro utilizzo.
1. La politica monetaria in un contesto di incertezza
Agli inizi del 2014 il quadro macroeconomico nell’area dell’euro era contraddistinto da un grado
elevato di incertezza.
Da un lato ci trovavamo di fronte a un calo costante e generalizzato dell’inflazione passata, scesa
dal 3% alla fine del 2011 a meno dell’1% agli inizi del 2014. Dall’altro lato, tuttavia, il clima di
fiducia nelle prospettive economiche era relativamente favorevole per il 2014, in un contesto in cui
quasi tutti gli analisti si attendevano un consolidamento della ripresa in corso d’anno. Su tale
sfondo, anche se guardavamo con relativa serenità alla sicurezza delle prospettive a medio termine
per l’inflazione, i rischi per tali prospettive erano chiaramente elevati. L’esito dipendeva in modo
cruciale dal concretizzarsi dello scenario macroeconomico positivo e dall’assenza di shock ulteriori
(figura 1).
Figura 1 Inflazione e quadro macroeconomico agli inizi del 2014
Dati questi livelli di incertezza e il loro impatto sulle aspettative riguardo all’orientamento futuro
della politica monetaria, è divenuto molto più importante per noi comunicare con chiarezza come
avremmo reagito all’eventuale emergere di vari rischi per le prospettive. In questo contesto, in un
mio intervento dell’aprile dello scorso anno ad Amsterdam ho illustrato la nostra funzione di
reazione a fronte di quelle che avevamo individuato come le tre circostanze o eventualità più
probabili [1].
La prima era costituita da un inasprimento immotivato della politica monetaria derivante da sviluppi
esterni, che avrebbe giustificato una risposta più convenzionale. La seconda era rappresentata da
una compromissione persistente del canale dei prestiti bancari, alla quale avremmo reagito con
provvedimenti mirati di allentamento creditizio, vale a dire con misure volte a offrire
rifinanziamento a più lungo termine alle banche e liberare risorse sui loro bilanci da destinare a
ulteriori prestiti. Infine la terza consisteva in un peggioramento delle prospettive a medio termine
per l’inflazione e/o un allentamento dell’ancoraggio delle aspettative di inflazione, che avrebbe
giustificato il superamento del vincolo del limite inferiore per i tassi di interesse avviando un ampio
programma di acquisto di attività.
Tutte queste eventualità si sono concretizzate nel corso del 2014.
Mentre cresceva il dibattito sull’uscita dall’orientamento monetario accomodante negli Stati Uniti, è
divenuto sempre più importante per noi differenziare gli andamenti divergenti della politica
monetaria sulle due sponde dell’Atlantico. A partire da giugno abbiamo quindi affrontato la prima
eventualità e portato il nostro tasso sulle operazioni di rifinanziamento sul limite inferiore effettivo,
introducendo al tempo stesso delle misure volte a intensificare la propagazione dei tassi a breve alla
curva a medio termine. Ciò ha comportato il rafforzamento delle nostre indicazioni prospettiche
(forward guidance) e l’introduzione di un tasso di interesse negativo sui depositi presso la banca
centrale, che assieme hanno fatto aumentare sensibilmente l’impatto dei nostri tassi di riferimento
lungo il profilo della curva dei rendimenti.
È tuttavia importante tenere presente che verso la metà dell’anno i movimenti della curva dei
rendimenti non avevano ancora trovato riflesso nelle condizioni di finanziamento effettive per le
imprese e le famiglie nell’area dell’euro, a indicare che questo considerevole allentamento non
esercitava l’impatto che ci saremmo normalmente attesi (figura 2). In tale contesto siamo passati
alla seconda eventualità e abbiamo varato le nostre misure di allentamento creditizio. Ciò ha preso
la forma di operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (OMRLT), le quali forniscono
finanziamenti a lungo termine a basso costo alle banche purché accrescano i prestiti all’economia
reale e contribuiscono pertanto a ripristinare condizioni più normali di offerta e prezzo del credito.
Figura 2 Disfunzioni nel meccanismo di trasmissione
Quando abbiamo introdotto queste misure alcuni osservatori esterni hanno espresso dubbi in merito
alla loro possibile efficacia come stimolo all’offerta di credito, per l’incertezza sullo stato di salute
del settore bancario dell’area dell’euro e i segnali del fatto che anche la domanda di prestiti era
debole. È stato quindi cruciale che all’epoca stesse per concludersi anche la valutazione
approfondita, la quale aveva incoraggiato le banche ad anticipare la riduzione del grado di leva
finanziaria e a rafforzare i bilanci di oltre 200 miliardi di euro prima della pubblicazione dei
risultati. Ciò ha migliorato la capacità del settore di trasmettere questo nuovo impulso monetario.
Inoltre, a nostro parere gli andamenti del credito hanno mostrato un grado elevato di endogeneità: le
banche prevedevano margini maggiori sui nuovi prestiti per tener conto del livello elevato di rischio
percepito; i più alti tassi di interesse penalizzavano i soggetti già indebitati e limitavano la domanda
di nuovo credito; questo pesava a sua volta sulla ripresa economica e faceva aumentare le
inadempienze relative ai prestiti bancari; di conseguenza, la richiesta di più elevati premi al rischio
da parte delle banche risultava a posteriori giustificata. Se le nostre misure fossero quindi riuscite a
incentivare le banche a tornare a competere per i prestiti di buona qualità, i tassi avrebbero iniziato a
scendere e sarebbe stato possibile invertire questo ciclo.
Via via che il programma di allentamento creditizio acquisiva slancio, abbiamo di fatto osservato
proprio questi andamenti. La nostra Indagine sul credito bancario conferma l’aumento della
concorrenza tra banche per i mutuatari di buona qualità. Ciò ha compresso i margini e ha fatto
scendere i tassi bancari attivi. La diminuzione dei tassi ha a sua volta determinato un aumento della
domanda netta di prestiti. Inoltre le banche hanno successivamente iniziato a cercare il “livello
successivo” di mutuatari, con la conseguenza di un graduale allentamento dei criteri di concessione
dei prestiti e – nelle nostre attese – un’ulteriore intensificazione delle spinte concorrenziali (figura
3).
È importante rilevare come il processo sia stato trainato in misura predominante dalle banche che
hanno fatto ricorso alle OMRLT e come abbia interessato sia i paesi sottoposti a tensioni sia gli altri
paesi. Pertanto, ha fatto convergere il costo del finanziamento nei paesi dell’area dell’euro in un
contesto in cui le misure della dispersione dei tassi medi sui prestiti si sono avvicinate a livelli non
più osservati dall’inizio della crisi del debito sovrano (figura 4).
Figura 3 Effetto delle OMRLT sulle determinanti della domanda e dell’offerta di credito
Figura 4 Impatto complessivo del pacchetto di misure di allentamento creditizio
2. Verso la terza eventualità
Nell’ultima parte dello scorso anno, tuttavia, le prospettive per l’inflazione nell’area dell’euro
hanno iniziato a deteriorarsi sensibilmente, come ho riconosciuto in un mio intervento a Jackson
Hole [2]..
La situazione macroeconomica è peggiorata inaspettatamente nel corso dell’estate, al venir meno
dell’impulso di fondo osservato nella parte precedente dell’anno (figura 5, diagrammi di destra).
Ciò ha eliminato un’importante forza alla base dello scenario di reflazione che ci attendevamo. Il
netto calo dei corsi petroliferi iniziato a fine estate ha successivamente contribuito alle spinte
disinflazionistiche, trasmettendosi anche all’inflazione di fondo (figura 5, diagramma di sinistra). Il
risultato è stato che a gennaio 2015 l’area dell’euro registrava tassi di inflazione complessiva
negativi e una caduta generalizzata delle misure dell’inflazione effettiva e attesa. Inoltre, anche se
l’orientamento di medio periodo della nostra strategia di politica monetaria ci permette di “guardare
oltre” tali andamenti dei prezzi se sono di natura temporanea, esistevano due ragioni per le quali
temevamo che non sarebbe stato così.
La prima è che, mentre le fluttuazioni dell’inflazione nella seconda metà dell’anno erano
chiaramente determinate da fattori dal lato dell’offerta, vi erano forti segnali del fatto che la
tendenza era dovuta alla debolezza della domanda aggregata. Ciò era visibile sia a livello
macroeconomico in un output gap ancora ampio e in un tasso di inflazione di fondo decrescente sia
a livello microeconomico nella dinamica modesta delle retribuzioni contrattuali e nello scarso
potere di fissazione dei prezzi delle imprese. In altri termini ci trovavamo di fronte a uno shock al
ribasso non solo sui prezzi ma anche sulla dinamica dell’inflazione: un andamento sfavorevole
persistente.
Figura 5 Inflazione e quadro macroeconomico agli inizi del 2015
In secondo luogo, a causa di questa debole tendenza di fondo dell’inflazione, esisteva un rischio
maggiore che la caduta dei prezzi petroliferi determinasse effetti di secondo impatto. Di fatto, vari
fattori stavano a indicare che la situazione era più preoccupante rispetto agli episodi precedenti di
disinflazione connessa ai prezzi del petrolio e in particolare nel confronto con il caso più recente del
2009 dopo il tracollo di Lehman Brothers. Le nostre analisi hanno evidenziato che la persistenza di
bassi tassi di inflazione in una serie di metriche statistiche era maggiore rispetto al 2009. Anche le
aspettative di inflazione su tutti gli orizzonti erano divenute meno ancorate al nostro obiettivo e più
sensibili alla bassa inflazione effettiva, mentre nel 2009 erano rimaste pressoché invariate. Inoltre le
misure dell’inflazione di fondo erano meno vischiose, a indicare un rischio maggiore che questa
bassa inflazione effettiva e attesa si radicasse nel processo di formazione dei salari (figura 6).
È rilevante anche il fatto che questo allentamento delle aspettative di inflazione si è verificato
quando i tassi di interesse di riferimento si collocavano già sul limite inferiore effettivo. Al limite
inferiore un calo delle aspettative di inflazione comporta un aumento dei tassi di interesse reali,
quindi questo andamento ha rischiato di generare un effetto di contrazione che avrebbe
controbilanciato almeno in parte i vantaggi derivanti dalla caduta dei corsi petroliferi. Inoltre, dati i
livelli elevati del debito in alcuni paesi dell’area dell’euro, ciò sarebbe amplificato se si
verificassero effetti di secondo impatto e aumentasse il peso del debito in termini reali, poiché la
propensione a consumare e investire è di norma maggiore tra i mutuatari che tra i prestatori.
Figura 6 Quadro dell’inflazione nel 2009 e nel 2015
È in questo contesto che siamo passati ad affrontare la terza eventualità e abbiamo avviato gli
acquisti definitivi di attività. Il programma è iniziato a settembre 2014 con l’annuncio della nostra
decisione di acquistare titoli derivanti da cartolarizzazioni e obbligazioni garantite ed è stato
successivamente ampliato a gennaio 2015 con l’aggiunta dei titoli del settore pubblico. Questi
acquisti di attività agiscono in due modi principali.
In primo luogo esercitano un effetto di segnalazione che contribuisce a un riancoraggio delle
aspettative di inflazione più in linea con il nostro obiettivo a medio termine. Ciò è stato
fondamentale nell’inversione dell’aumento dei tassi di interesse reali osservato agli inizi di
quest’anno. Il tasso di interesse reale a pronti a cinque anni nell’area dell’euro era aumentato di
circa 60 punti base fra settembre 2014 e gennaio 2015, ed è poi sceso di 85 punti base tra metà
gennaio e aprile. Il segnale di ulteriore espansione futura della liquidità sostiene altresì un
appiattimento della struttura per scadenza, riducendo quindi ulteriormente i tassi reali lungo la curva
dei rendimenti. In aggiunta, questo ha contribuito all’andamento divergente della politica monetaria
nelle diverse giurisdizioni e ha quindi anche esercitato spinte al ribasso sul tasso di cambio.
In secondo luogo, anche se acquistiamo solo una gamma relativamente ristretta di titoli di qualità
elevata, i nostri acquisti esercitano un impatto sia diretto sia indiretto sull’intero sistema finanziario
attraverso un effetto di riequilibrio di portafoglio. Essi non solo modificano il prezzo degli
strumenti privi di rischio, che costituisce la base per la fissazione del prezzo di tutti gli strumenti
finanziari, ma generano anche scarsità nel mercato in cui acquistiamo; questo incoraggia gli
investitori a effettuare riallocazioni di portafoglio a favore di altre classi di attività, passando ad
esempio dai titoli di Stato alle obbligazioni societarie, dai titoli di debito alle azioni, e da una
giurisdizione all’altra, come riflesso nel deprezzamento del tasso di cambio (figura 7). Nell’insieme,
il minor costo del finanziamento mediante ricorso al debito, l’abbassamento del costo del capitale di
rischio e il deprezzamento del tasso di cambio contribuiscono a rendere profittevoli progetti di
investimento precedentemente considerati non appetibili.
Figura 7 Effetti di riequilibrio dei portafogli
A seguito dell’ampio ciclo di allentamento tra giugno 2014 e gennaio 2015, le prospettive sia per
l’inflazione sia per la crescita sono migliorate considerevolmente e gli indicatori del clima di fiducia
dei consumatori sono ora in aumento (figura 8). Ciò potrebbe di fatto avere colto di sorpresa alcuni
osservatori: una delle obiezioni principali mosse al nostro programma era che sarebbe stato
inefficace in un contesto di tassi di interesse bassi e/o dopo una recessione di bilancio.
Un motivo importante per cui tale obiezione si è dimostrata discutibile, a mio parere, consiste nel
fatto che si è concentrata esclusivamente sul canale di trasmissione rappresentato dai tassi di
interesse. Quel che vediamo, tuttavia, è che gli altri canali di trasmissione degli acquisti di attività
su vasta scala sono significativi. L’effetto di riequilibrio dei portafogli resta potente in un’economia
basata sul sistema bancario e quando i tassi di interesse sono bassi o persino negativi; di fatto,
risulta forse ancora più efficace in questo contesto poiché gli investitori sono indotti a preferire
classi di attività più rischiose come le azioni. Inoltre, quando l’incertezza è elevata, gli effetti di
segnalazione possono divenire proporzionalmente più forti se inviati con tempestività e comunicati
con chiarezza.
Benché sia già stato osservato un effetto sostanziale delle nostre misure sui prezzi delle attività e sul
clima di fiducia, quel che importa in definitiva è che vediamo un effetto equivalente sugli
investimenti, sui consumi e sull’inflazione. In questo senso attueremo appieno il nostro programma
di acquisti come annunciato e comunque fino a quando non rileveremo una correzione durevole del
profilo dell’inflazione. Dopo quasi sette anni di una sequenza debilitante di crisi, le imprese e le
famiglie esitano molto di fronte alla prospettiva di assumersi un rischio economico. Per questo
motivo passerà diverso tempo prima che si possa parlare di successo e le nostre misure di stimolo
monetario resteranno in vigore per tutto il tempo che sarà necessario a raggiungere interamente il
loro obiettivo su base realmente duratura.
Figura 8 Inflazione e quadro macroeconomico agli inizi del 2015
3. Gli effetti collaterali della politica monetaria
Un periodo prolungato di politica monetaria accomodante può tuttavia comportare effetti collaterali
e il fatto che la nostra politica si è finora dimostrata efficace non dovrebbe indurci a ignorarli.
Non si tratta di conciliare esigenze contrapposte. Non possiamo esimerci dall’attuare una politica
propizia alla stabilità dei prezzi a causa dei possibili effetti collaterali, né possiamo estendere
l’approccio di medio periodo a orizzonti che compromettono il raggiungimento del nostro obiettivo.
Al tempo stesso dobbiamo tuttavia comprendere e gestire tali effetti e nel perseguimento del nostro
mandato dovremmo tentare, nella misura del possibile, di ridurli al minimo. Ove ciò non sia
fattibile, abbiamo il dovere di accrescere la consapevolezza così che altre autorità competenti
possano adottare misure di mitigazione o correzione.
Quindi in questo contesto vorrei affrontare nello specifico due timori emersi circa i possibili effetti
collaterali delle nostre azioni. Si tratta delle conseguenze per l’ allocazione e la distribuzione.
In termini di allocazione, una preoccupazione fondamentale al momento attuale consiste nel fatto
che condizioni di finanziamento molto accomodanti potrebbero determinare un’allocazione distorta
delle risorse compromettendo in ultima istanza la stabilità finanziaria. È stato in particolare
suggerito che un periodo protratto di tassi di interesse bassi può condurre all’assunzione di rischi
finanziari eccessivi, alla posticipazione dell’azione di risanamento dei bilanci e alla fine a una
forma di dominanza finanziaria in un contesto in cui aumentano le pressioni sulla banca centrale
perché ritardi la normalizzazione della politica monetaria. Posso certo comprendere la logica di
queste argomentazioni: un periodo prolungato di tassi di interesse molto bassi favorisce
potenzialmente l’accumulo di squilibri. È tuttavia importante sottolineare due aspetti.
In primo luogo occorre analizzare con attenzione l’equilibrio degli effetti tra la politica monetaria e
la stabilità finanziaria. Ad esempio, in un contesto di eccesso di debito non è detto che una politica
monetaria accomodante ostacoli il processo di aggiustamento dei bilanci. In molti paesi i bassi tassi
di interesse hanno di fatto contribuito a stabilizzare la dinamica del debito riducendo l’onere del
servizio e hanno di conseguenza agevolato la correzione dei bilanci. Il rapporto tra la spesa per
interessi e il PIL dei paesi dell’area dell’euro è sceso mediamente di 0,4 punti percentuali tra il 2012
e il 2014. Analogamente, l’onere del debito di famiglie e imprese si è ridotto e i minori costi della
provvista bancaria hanno contribuito in senso positivo agli utili non distribuiti, il che ha accelerato il
processo di riduzione del grado di leva finanziaria dei bilanci delle banche. Tutto questo rende più
facile una normalizzazione della politica monetaria nel medio periodo.
In secondo luogo le nostre decisioni di politica monetaria non sono state assunte in modo isolato,
bensì nel contesto di un più ampio quadro di riferimento che contribuisce a mitigare alcuni timori
per la stabilità finanziaria. Ad esempio, le nostre misure recenti sono state varate sullo sfondo della
valutazione approfondita dei bilanci bancari, che ha incluso il più ampio e approfondito esame della
qualità degli attivi delle banche mai realizzato finora. La nostra politica monetaria è stata quindi
associata sia alla riduzione del livello di rischio sia all’abbassamento del grado di leva dei bilanci
bancari, e non ad andamenti opposti [3]. Inoltre, operiamo ora in un nuovo contesto regolamentare e
di vigilanza che include tra l’altro un’autorità europea, il Meccanismo di vigilanza unico (MVU),
specificamente concepito per ridurre i casi di regolamentazione guidata da interessi particolari
(regulatory capture) e moderare la prociclicità. Si rammenti inoltre che sono le banche a essersi
trovate storicamente al centro delle crisi finanziarie più gravi.
Anche se seguiamo da vicino l’evolversi della situazione, al momento esistono scarse indicazioni
dell’emergere di squilibri finanziari generalizzati. Di fatto, i due indicatori più importanti
dell’aumento degli squilibri finanziari – le quotazioni immobiliari e la crescita del credito –
evidenziano solo timidi segnali di aumento. Questo sottolinea il fatto che dopo una grave crisi
finanziaria l’orientamento accomodante della politica monetaria non è necessariamente di ostacolo
a una prudente valutazione del rischio. Può al contrario favorire una più regolare determinazione
del prezzo del rischio, che potrebbe essere divenuto troppo elevato e tale da scoraggiare
un’assunzione di rischi produttiva.
In sintesi, se un periodo di tassi di interesse bassi si traduce inevitabilmente in una lieve distorsione
nell’allocazione delle risorse a livello locale, non ne consegue che debba minacciare la stabilità
finanziaria complessiva. Ciò dipende in misura determinante dall’inserimento della politica
monetaria in un insieme complementare di politiche di vigilanza e di regolamentazione che creino
incentivi alla correzione dei bilanci e all’adozione di comportamenti finanziari responsabili.
Un’ulteriore preoccupazione che ha accompagnato la discesa dei tassi di interesse fino al loro limite
inferiore effettivo e l’introduzione di misure non convenzionali è costituita dalle conseguenze
distributive della politica monetaria. Sono in particolare emersi timori circa la possibilità che un
periodo prolungato di tassi di interesse molto bassi penalizzasse i risparmiatori a vantaggio dei
debitori, o che l’aumento dei prezzi delle attività conseguente ai nostri acquisti beneficiasse i più
abbienti in modo sproporzionato e accrescesse quindi le disuguaglianze.
Le questioni distributive sono complesse, tanto più nel contesto di un’unione monetaria eterogenea.
Mi limiterò quindi ad alcune osservazioni sulla materia.
In primo luogo è importante chiarire come si possano produrre effetti distributivi anche in caso di
inerzia della politica monetaria, connessa al fatto che la banca centrale non assolve al proprio
mandato o che – in altre parole – l’inflazione effettiva si discosta in modo persistente dall’obiettivo
fissato dalla banca centrale. Ove l’inflazione si collocasse inaspettatamente su livelli inferiori
all’obiettivo, le statistiche relative all’area dell’euro stanno a indicare che la categoria
maggiormente colpita sarebbe quella delle famiglie più giovani (di età compresa fra i 16 e i 44
anni). Esse sono di norma debitrici nette, con contratti di debito stipulati in termini nominali, e
risultano quindi più esposte all’aumento dell’onere del debito in termini reali. Le famiglie meno
giovani hanno invece una ricchezza netta generalmente positiva, in parte detenuta sotto forma di
attività nominali. Tassi di inflazione inferiori all’obiettivo determinano quindi una redistribuzione
dalle famiglie più giovani a quelle meno giovani. Questa osservazione empirica si applica non solo
all’insieme dell’area dell’euro, ma anche a gran parte dei singoli paesi [4].
In secondo luogo, le decisioni di politica monetaria hanno sempre conseguenze distributive. Quando
la politica monetaria si prefigge di allontanare la disinflazione abbassando i tassi di interesse,
esercita inevitabilmente un effetto distributivo riducendo il reddito da interessi dei risparmiatori e
abbassando l’onere del debito dei mutuatari. Queste riduzioni dei tassi sono tuttavia necessarie per
far aumentare la domanda aggregata incoraggiando le imprese e le famiglie ad anticipare le
decisioni di spesa: in altri termini, scoraggiano il risparmio eccessivo e incentivano gli investimenti
abbassando il costo del finanziamento. Inoltre, nella misura in cui la propensione ai consumi e agli
investimenti è maggiore tra i mutuatari che tra i prestatori, questi effetti distributivi potrebbero
favorire la ripresa.
Vorrei esaminare la questione dell’aumento dei prezzi delle attività dallo stesso punto di vista. È
vero che i nostri tassi di riferimento bassi, le indicazioni prospettiche e gli acquisti di attività fanno
aumentare il valore corrente di mercato delle attività finanziarie e avvantaggiano quindi chi le
detiene. Quello che più importa è tuttavia l’esatto effetto di trascinamento di questo aumento dei
prezzi delle attività, vale a dire l’abbassamento del costo del capitale di rischio per gli imprenditori,
del finanziamento per gli investitori in progetti reali e dei prestiti per i consumatori.
Ciò detto, dobbiamo tenere presente che un periodo eccessivamente protratto di tassi di interesse
estremamente bassi può avere conseguenze indesiderabili nel contesto dell’invecchiamento
demografico, poiché molte famiglie risparmiano per modulare i consumi non solo lungo il ciclo ma
anche nell’intero arco della loro vita. Per i pensionati, e per quanti risparmiano in previsione del
pensionamento, tassi di interesse bassi non incoraggiano necessariamente un’anticipazione dei
consumi. Potrebbero al contrario costituire un incentivo a risparmiare di più, per compensare il
minor tasso di accumulo delle attività pensionistiche.
Mi permetto tuttavia di affermare che, se la banca centrale venisse meno al proprio mandato, ciò
non sarebbe nel reale interesse di questi risparmiatori. Al contrario, l’interesse dei risparmiatori a
lungo termine è che il prodotto salga e raggiunga il potenziale senza indebiti ritardi, in quanto le
loro attività finanziarie sono sempre, in ultima analisi, un diritto sulla ricchezza generata dalla parte
produttiva dell’economia. È quindi nel loro interesse che il prodotto continui a seguire un sentiero
di crescita solida, poiché questo rende massima la probabilità che i loro diritti siano onorati appieno.
Al tempo stesso, più la politica monetaria riesce a incoraggiare gli investimenti, più rapido sarà il
ritorno dei tassi di interesse in territorio più normale.
4. Conclusioni
Vorrei ora concludere.
In un contesto di una complessità senza precedenti, la BCE ha adottato una serie di misure non
convenzionali volte a evitare un periodo troppo prolungato di bassa inflazione e assolvere al proprio
mandato. Tali misure si sono finora dimostrate molto valide, più di quanto anticipato da molti
osservatori. La loro grande efficacia è tuttavia dovuta anche al fatto che hanno interagito con altre
politiche grazie alle quali l’economia e il settore finanziario sono divenuti meglio in grado di
rispondere ai nostri impulsi monetari.
Tra queste figurano la valutazione approfondita delle banche dell’area dell’euro e le riforme
strutturali nei casi in cui sono state attuate. Alla stessa stregua, riforme strutturali che accrescono la
fiducia nelle prospettive economiche e incoraggiano gli imprenditori a sfruttare le attuali condizioni
finanziarie estremamente accomodanti renderanno la nostra politica in proporzione più efficace.
I responsabili delle politiche nell’area dell’euro sono indipendenti, ma gli effetti delle politiche da
essi attuate sono interdipendenti. Per questo, alla fine, solo una combinazione di politiche
complementari e reciprocamente coerenti permetterà alla nostra politica di esplicare appieno i
propri effetti e determinare un ritorno duraturo a condizioni di prosperità e stabilità nell’intera area
dell’euro.
Cfr. “Monetary policy communication in turbulent times”, intervento tenuto da Mario Draghi in
occasione della Conference De Nederlandsche Bank 200 years: Central banking in the next two
decades, Amsterdam, 24 aprile 2014.
[1]
Cfr. “La disoccupazione nell’area dell’euro”, intervento tenuto da Mario Draghi al Simposio
annuale delle banche centrali di Jackson Hole, 22 agosto 2014.
[2]
Più in generale, Homar e Van Wijnbergen (2014) rilevano che la ricapitalizzazione e l’offerta di
liquidità agiscono in modo complementare nell’accelerare la ripresa dopo una crisi finanziaria. Cfr.
Homar, Timotej e Sweder van Wijnbergen (2014), “On Zombie Banks and Recessions after
Systemic Banking Crises: Government Intervention Matters”, Tinbergen Institute Discussion
Paper, 13-039/IV/DSF54.
[3]
Cfr. Adam, Klaus e Junyi Zhu (2014), “Price Level Changes and the Redistribution of Nominal
Wealth Across the Euro Area”, Working Papers, n. 14(11), Università di Mannheim.
[4]