Sovrani ’E nel giardino d uropa Pisa e i Lorena Guida breve a cura di Romano Paolo Coppini Alessandro Tosi Testi di Franco Angiolini, Emanuele Barletti, Danilo Barsanti, Giuliana Biagioli, Alessandro Breccia, Edda Bresciani, Stefano Bruni, Moira Brunori, Mariagiulia Burresi, Maria Cataldi, Giulia Cavallo, Caterina Chiarelli, Romano Paolo Coppini, Pietro Corsi, Fabio Garbari, Orsola Gori, Gaetano Greco, Eva Gregorovičova, Maria Teresa Lazzarini, Claudio Luperini, Marco Manfredi, Dario Matteoni, Maria Augusta Morelli Timpanaro, Benedetta Moreschini, Silvia Pagnin, Emanuele Pellegrini, Stefano Renzoni, Mirella Scardozzi, Federico Tognoni, Alessandro Tosi, Alessandro Volpi, Alberto Zampieri, Marco Zuffi Pacini Editore Arte SOVRANI NEL GIARDINO D’EUROPA PISA E I LORENA Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale 20 settembre - 14 dicembre 2008 Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana Coordinamento tecnico amministrativo Venanzio Guerrini Con il patrocinio di Presidenza del Consiglio dei Ministri Presidenza della Regione Toscana Progettazione e realizzazione dell’allestimento Marco Guerrazzi Alessandro Sonetti Enti promotori Provincia di Pisa Comune di Pisa Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa Società Storica Pisana Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. per le province di Pisa e Livorno Università di Pisa Collaborazione scientifica Archivio Nazionale di Praga Biblioteca Nazionale di Praga Archivio di Stato di Firenze Archivio di Stato di Pisa Mostra a cura di Romano Paolo Coppini Direzione scientifica Romano Paolo Coppini Alessandro Tosi Comitato scientifico Romano Paolo Coppini (coordinatore scientifico del progetto), Franco Angiolini, Clara Baracchini, Danilo Barsanti, (†) Rodolfo Bernardini, Giuliana Biagioli, Maurizio Bossi, Edda Bresciani, Mariagiulia Burresi, Pietro Corsi, Mario Ferretti, Fabio Garbari, Orsola Gori, Eva Gregorovič ova, Maria Teresa Lazzarini, Riccardo Lorenzi, Guglielmo Maria Malchiodi, Danilo Marrara, Dario Matteoni, Silvia Pagnin, Sandra Pesante, Gian Bruno Ravenni, Stefano Renzoni, Carlo Sisi, Giovanna Tanti, Maria Augusta Morelli Timpanaro, Lucia Tongiorgi Tomasi, Alessandro Tosi, Alessandro Volpi Collaborazione organizzativa Gli Amici dei Musei e Monumenti Pisani si ringrazia in particolare il presidente Mauro Del Corso Segreteria organizzativa Jenny Del Chiocca Marco Paoletti Federico Tognoni Sezione didattica Valeria Barboni Mariagiulia Burresi Alessandra Peretti Ufficio stampa Pacini Editore Spaini & Partners Dorado Communications Promozione Pacini Editore Dorado Communications Assicurazioni Service Assicurazioni Cattolica Assicurazioni, Pisa Coordinamento spostamenti delle opere d’arte del Museo Nazionale di Palazzo Reale Pierluigi Nieri Allestimento A.S. Impianti s.r.l., Ospedaletto Barbj, Firenze Colombini Impianti, Cascina Erisist, Firenze Fantozzi s.r.l., Ospedaletto Gigante Legno, Livorno Idea Gesso, Calcinaia Idealfer s.a.s. Idros, Livorno Neon Errepi s.a.s, Ospedaletto Pubblidea, Pisa Sipario Allestimenti, Cascina Stefano Vigilucci, Asciano Trasporti Kunsttrans Praha, Praga Dafne, Firenze Arteria, Milano Bookshop e biglietteria Gruppo Pacini Editore Albo dei prestatori Archivio di Stato di Firenze, Firenze Archivio di Stato di Pisa, Pisa Biblioteca Universitaria, Pisa Centro per la conservazione e lo studio degli strumenti scientifici, Dipartimento di Fisica “E. Fermi”, Università di Pisa Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Pisa Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico, Università di Pisa Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, Firenze Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa, Pisa Fondazione Teatro Verdi, Pisa Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze Galleria del Costume, Palazzo Pitti, Firenze Istituto Matteucci, Viareggio Musei Provinciali di Gorizia, Gorizia Museo di Storia Naturale e del Territorio, Calci (Pisa) Museo Nazionale di Palazzo Reale, Pisa Národní Galerie, Praga Národní Archiv, Praga Národní knihovna České republiky (National Library of the Czech Republic, Music Dept.), Praga Opera Primaziale, Pisa Pražská Konservatoř, Praga Scuola Medica, Istituto di Anatomia Umana, Dipartimento di Morfologia Umana e Biologia Applicata, Università di Pisa Maurizio Siniscalco, Napoli Società Toscana per la Storia del Risorgimento, Firenze Si ringraziano tutti gli Enti e i direttori dei Musei che hanno generosamente acconsentito ai prestiti delle opere e tutti coloro che, a vario titolo, hanno offerto la loro preziosa collaborazione e in particolare Alberto Ambrosini, mons. Aldo Armani, Umberto Ascani, Barbara Baldasseroni Corsini, Floridia Bandettini, Anna Bellinazzi, Aureliano Benedetti, Piero Benetti, Mauro Bernardini, Marcello Berti, Anna Bosco, Claudio Casini, Marco Cini, Simonella Condemi, Emilio Cristiani, Costanza D’Elia, Gigetta Dalli Regoli, Gianluca De Felice, Massimo Donati, Eva Drasarova, Fedora Durante, Antonio Fascetti, Neri Fatigati, Diego Fiorini, Gabriella Garzella, Simona Garzella, Annamaria Giusti, Maria Adriana Giusti, Diego Guidi, Laura Jandolo, Vlastimil Jezek, Milan Knizak, Blanka Kubikova, Walter Landini, Ilario Luperini, Alvaro Maffei, Alessandra Martina, Giuliano Matteucci, Francesco Mazzoni, Donatella Montanari, Laura Mori, Giuseppe Moriello, Eugenia Naldini Segre, Gianfranco Natale, Magda Nemcova, Francesco Nerli, Ida Niccolini, Rolando Nieri, Milan Novak, Gino Nunes, Sara Pallucco, Alessandro Panaja, Paolo Panattoni, Antonio Paparelli, Paolo Pazzini, Antonio Pellegrini, Aurelio Pellegrini, Cristina Pennyson, Zuzana Petraskova, Claudio Poeta, Petr Pribyl, Umberto Rinaldi, Sandro Rogari, Mauro Rosi, Adela Ruzickova, Raffaella Sgubin, Flora Silvano, Maurizio Siniscalco, Gabriele Tanzi, Paolo Tongiorgi, Giorgio Tori, Ivana Tosi Cantenne, Roberto Vergara Caffarelli il personale di vigilanza del Museo Nazionale di Palazzo Reale Catalogo a cura di Romano Paolo Coppini Alessandro Tosi Referenze fotografiche Stefano Del Ry Stefano Casadio Gabinetto Fotografico della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Martin Hrubeš Enrico Mangano Domenico Pineider Luciano Romano © Copyright 2008 by Pacini Editore SpA ISBN 978-88-6315-038-4 Realizzazione editoriale e grafica Via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) Fotolito e Stampa Industrie Grafiche Pacini Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. Finito di stampare nel mese di Settembre 2008 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 58123 Ospedaletto • Pisa Tel. 050 313211 • Fax 050 3132302 www.pacinieditore.it “... nelle Cause Criminali, e nel Giudizio dei Delitti e nella condanna dei Rei non dovrà intervenire in modo alcuno l’autorità predetta (Sovrano), ma dovranno puramente e con sana, e costante intelligenza osservarsi le Leggi, e specialmente in tutte le sue parti la Riforma e la nuova Legge Criminale colla data in Pisa de’ 30 novembre 1786, poiché la sicurezza personale dei sudditi nelli Stati di Toscana non deve essere esposta in modo alcuno a verun atto di arbitrio, ma protetta dall’autorità e soggetta unicamente alle Leggi e conservarla in benefizio universale, mediante la punizione di chi l’offende con delitti”. («Progetto di Costituzione per la Toscana», 1787) Appena giunto in Toscana, Pietro Leopoldo aveva visto «con aborrimento» che «per l’infelicità dei tempi e turbolenze», con cui era stato stabilito il regime Mediceo, «era sorto un governo senza veruna legge fondamentale, ed interamente arbitrario ed ingiusto, perché fondato sulla violenza e non sul consenso dei popoli che solo possono legittimarne l’istituzione». Scuotere «il giogo della tirannia e dell’errore» rappresentava il fine perseguito dall’opera riformatrice di Pietro Leopoldo: un’opera attuata attraverso le leggi sulla libertà commerciale, la soppressione Wolfgang Amadeus Mozart, La Clemenza di Tito, ca. 1822. Praga, Biblioteca Nazionale dell’appalto generale, la riforma dei dazi e gabelle, la riforma municipale, la riforma della giustizia penale. E che avrebbe dovuto trovare il suo necessario e ineludibile sbocco nella legge sulla rappresentanza nazionale toscana. «... abbiamo sempre riguardato come nostro principal dovere di far sperimentar ai nostri amatissimi sudditi un governo», assicurando loro «la possibile umana felicità nell’onesto esercizio della libertà civile e nel sicuro e pacifico godimento delle loro sostanze» (Proemio al «Progetto di Costituzione per la Toscana», 1787) Nel «Progetto di Costituzione per la Toscana» del 1787, conservato presso l’Archivio Nazionale di Praga, la città di Pisa, dove la corte lorenese trascorreva tanta parte del periodo invernale, veniva individuata come il luogo più qualificato per apprezzare l’emanazione della Legge Criminale Leopoldina. Purtroppo il «Progetto di Costituzione per la Toscana» rimase nello scrittoio dello studiolo di Pietro Leopoldo e in quel cassetto lo avrebbero conservato i suoi successori. Della grandiosa e innovativa opera del granduca, soprattutto la Legislazione Criminale avrebbe continuato ad essere ammirata in Progetto Costituzione per la Toscana, 1787. Praga, Archivio Nazionale Europa. In occasione della spettacolare cerimonia della sua incoronazione a Praga, il 6 settembre 1791, Wolfgang Amadeus Mozart giubilava l’umanità e generosità del sovrano illuminato musicando il testo metastasiano La clemenza di Tito, che vede l’imperatore romano perdonare chi congiurò contro di lui, preferendo essere amato piuttosto che temuto. Nella Toscana della Restaurazione, il mito dell’opera riformatrice e della costituzione «inattuata» resisteva ancora nelle speranze dei ceti intellettuali e in alcune frange degli ambienti governativi. Il monumento a Pietro Leopoldo, voluto dalla Deputazione comunale pisana al centro della ristrutturata piazza Santa Caterina (oggi Martiri della Libertà) e inaugurato nel 1833, assumeva il significato di un ambiguo consenso attraverso il messaggio che l’opera di Luigi Pampaloni poteva suggerire, con allusioni alla vasta opera del sovrano capace di indirizzarsi nei più diversi campi e suggerita nel monumento dalla mano poggiata su un volume ed un corposo carteggio, simboli della sua attenzione ai fermenti culturali coevi, che egli seppe tradurre in felici e saggi atti legislativi. Tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, Pisa aveva assunto i tratti di una capitale culturale, in grado di rivestire un ruolo di primo piano nel panorama europeo grazie soprattutto ad alcuni docenti della sua Università come Paolo e Gaetano Savi, Giovanni Carmignani, Pietro Capei, Ippolito Rosellini, Luigi Puccinotti, Maurizio Bufalini ed altri ancora, noti e considerati a livello internazionale. La Prima Riunione degli Scienziati Italiani, che nel 1839 riunì a Pisa scienziati italiani ed europei, fu fortemente voluta dalla cultura moderata toscana, da Cosimo Ridolfi, Giovan Pietro Vieusseux, Gino Capponi e Gaetano Giorgini, sostenuti dal granduca e dal principe Carlo Luciano Bonaparte. Questa riunione doveva rappresentare la più chiara e definitiva espressione della legittimazione e collegamento dell’Università di Pisa alle prospettive scientifiche europee. Dalle discussioni delle sei sezioni, in cui si articolò il Congresso, che si tenne dal 15 ottobre 1839 e rac Maria Luisa e Pietro Leopoldo, Napoli, Collezione Siniscalco colse l’adesione di quattrocento studiosi italiani e quaranta stranieri, emerse con chiarezza la possibilità della scienza e degli organismi cul- turali di offrire soluzioni pratiche a cruciali problemi minerari, agronomici, di sistemazione idraulica e di arricchimento dei terreni. Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani in Pisa del 1839. Praga, Archivio Nazionale, particolare Nel biennio riformatore (184648), dopo la concessione della libertà di stampa s’imponeva la concessione di una carta costituzionale. Il 17 febbraio 1848 lo Statuto fu concesso anche in Toscana, ed il 21 fu letto nell’atrio della Sapienza davanti alla statua di Galileo. Centofanti, di fronte ad un gran concorso di folla, toccava le corde della riconoscenza a Leopoldo II, che aveva saputo «soddisfare alle esigenze delle cose e ai giusti voti della nazione». Nel frattempo «l’esigenza delle cose» mutava con grande rapidità nell’intero scacchiere europeo, e lo stesso Centofanti il 15 marzo lesse la famosa lezione Sul Risorgimento, in cui esortava Carlo Alberto ad «impugnare la fulminatrice spada». Nello stesso giorno alle truppe regolari inviate per difendere i confini dello stato, si univa il tripudiante Battaglione Universitario. Ben 389 uomini, guidati da una trentina di docenti, sotto il comando di Mossotti e Matteucci, dopo avere attraversato la città, partivano al canto di «Addio, mia bella addio». In questo clima appassionato, il 29 maggio si giunse al compimento del sacrificio tanto atteso da essere raccontato solo attraverso le voci giunte dal fronte, senza notizie certe, nei termini più luttuosi: «Oggi, l’Ascensione è giornata di grande mestizia per la Toscana». L’armata pisana era stata battuta sul campo di Curtatone «da ottomila austriaci in una loro sortita dalla fortezza. Hanno tutti resistito al fuoco eroicamente, ma in quella posizione non essendo che mille, sopraffatti dal numero furono quasi tutti sacrificati». La strenua resistenza dei volontari pisani, essenziale per la vittoria piemontese del giorno seguente a Goito, venne immediatamente riferita con toni di accentuata passionalità «unicamente paragonabile al fatto delle Spartane Termopili», figura simbolica intrisa di eroismo antico, ripresa poi in tanti scritti e commemorazioni. Il racconto di tanto leggendaria resistenza fu immediatamente diffuso dalla stampa piemontese: «per cinque ore sostennero l’impeto di un nemico immensamente maggiore in numero»; i combattenti «non si ritirarono che uccisi tutti i loro artiglieri meno uno che solo rispondea ancora con tre pezzi d’artiglieria ai ventidue pezzi del nemico; nudo e solo per essersi dovuto togliere i panni che gli bruciavano addosso». Si trattava del cannoniere Elbano Gasperi, la cui immagine avrebbe avuto il meritato successo e notorietà, riprodotta Pietro Senno, I Toscani a Curtatone [I Toscani a Curtatone. Campagna del 1848, veduta pres a sul ponte dell’Osone], 1861. Firenze, Collezione Ente Cassa di Risparmio di Firenze Antonio Puccinelli, Ritratto di giovane volontario toscano, 1849. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti in stampe e incisioni fin dal 17 luglio. Documento suggestivo è il dipinto I Toscani a Curtatone. Campagna del 1848, veduta presa sul ponte dell’Osone, realizzato nel 1861 dall’elbano Pietro Senno (che prese parte al contingente toscano) ed esposto in quell’anno all’Esposizione Italiana di Firenze. La scena illustrata da Senno è ambientata presso il villaggio di Curtatone, con la linea del fronte sullo sfondo, il caseggiato della locanda sulla sinistra, il ponte sull’Osone in primo piano e la strada principale. Al centro della rappresentazione, il generale Cesare De Laugier sul cavallo nero che incita i suoi, affiancato, sul cavallo bianco, quasi certamente dal suo luogotenente, Giuseppe Cipriani; sulla destra, due portantini reggono la barella con un ferito e due commilitoni si sorreggono l’uno con l’altro di cui uno seminudo, forse l’eroico cannoniere Elbano Gasperi. La restaurazione granducale del 1849 rappresentò la fine del sogno liberale della Toscana tutta, che trovò la sua più dolorosa sanzione nella revoca dello Statuto. Una cupa atmosfera piombò sugli ambienti delle due Università, Siena e Pisa, che avevano dato un contributo di eroismo divulgato immediatamente dalla stampa internazionale. A ricordare la gloriosa Campagna del ’48, nell’Aula Magna della Sapienza rimase soltanto il tricolore, cucito per il Battaglione Universitario dalle donne di Reggio e portato a Pisa dai reduci della prima guerra d’indipendenza. Questa bandiera acquisì immediatamente l’alto valore di simbolo del sacrificio del corpo universitario e del suo sentito impegno politico per un rinnovato inizio delle vicende dell’ateneo e della città, e solo il 29 maggio 1859 poté tornare nella manifestazioni ufficiali. La politica, le istituzioni L’Università e i ceti dirigenti All’avvento dei Lorena la sostanziale staticità della situazione economica cittadina non faceva che confermare come il destino della comunità di Pisa e dei suoi ceti dirigenti fosse sempre più legato al mantenimento dell’ormai consolidato ruolo di importante centro “burocratico-amministrativo” del granducato. Le tre principali istituzioni che vi risiedevano, l’Università, l’Ordine di Santo Stefano e l’Uffizio dei Fossi, rappresentavano infatti altrettante fonti di risorse finanziarie pubbliche e di legittimazione sociale in un nucleo urbano che di lì a qualche anno avrebbe peraltro visto ulteriormente confermata la propria funzione “di rappresentanza” dall’acquisizione dello status di residenza invernale del granduca e della sua corte. Le élites locali difesero con determinazione i benefici loro garantiti, in maniera non troppo indiretta, dalla presenza dell’Uffizio dei Fossi e dall’Ordine di Santo Stefano: il primo era una sorta di farraginoso e costoso «ministero dei lavori pubblici» di quell’area, mentre il secondo offriva opportunità di carriera nel suo ridondante “apparato” e soprattutto possedeva la preziosa prerogativa di “nobilitare”, conferendo il titolo di cavaliere a chi acquistasse una commenda di padronato. Nonostante l’accanita resistenza del magistrato locale, Pietro Leopoldo riformò l’Uffizio dei Fossi nel 1775, snellendone la struttura e subordinandone l’azione amministrativa alla figura del provveditore di nomina granducale, pur cercando una mediazione con gli interessi locali. Negli stessi anni veniva pure completata la riorganizzazione Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani in Pisa del 1839. Praga, Archivio Nazionale dell’Ordine di Santo Stefano, anch’esso oggetto di pesanti attacchi per la sua dispendiosa esistenza, riconducendolo definitivamente sotto il controllo della corona e ridimensionandone la pesante struttura, ma accentuando il carattere “pisano” dell’istituzione; progressivamente, infatti, le principali famiglie della città avrebbero avuto modo di disporre con ampia discrezionalità degli incarichi più ambiti. D’altro canto, nel corso del Settecento a Pisa proprio le opportunità offerte dall’Ordine stefaniano propiziarono una graduale evoluzione dei ceti dominanti: la citata prerogativa del cavalierato nobilitante si era infatti configurata come un ideale canale di cooptazione a disposizione dell’aristocrazia, che in qualche significativo caso aveva contribuito a realizzare un embrionale amalgama tra pos- Cerimonia in Santo Stefano dei Cavalieri. Praga, Archivio Nazionale sidenti, nobili e “borghesi”, facendo forse assumere all’aristocrazia pisana connotati originali. Anche nel caso della terza istituzione cittadina, l’università, Pietro Leopoldo puntò a creare una struttura più razionale e ad accentuarne il grado di subordinazione alle direttive granducali. Nell’ottica del “principe illuminato” il sistema universitario, che attraversava una fase di faticosa transizione nel tentativo di rinnovare un modello di formazione di impronta aristotelico-scolastica ormai non più adeguato ai grandi mutamenti scientifico-culturali del “secolo dei Lumi”, doveva orientarsi a diventare un canale di reclutamento della classe dirigente e di una efficiente burocrazia statale nonché diventare interprete di un “sapere utile” e pubblico consacrato dall’approvazione sovrana. Di fronte a simili riforme, che facevano affiorare la cifra politica del disegno leopoldino, il ceto dominante locale continuò tuttavia ad opporre un sottile ostruzionismo, fino a rinverdire – nella successiva stagione ferdinandea e negli anni del Regno d’Etruria – velleitarie speranze di conservare “a oltranza” i privilegi del passato. M.lle De La Morinière , Il cortile della Sapienza con la statua di Galileo, 1840. Pisa, Fondazione Cassa di Risparmio di Pisa Sotto l’impero napoleonico, tali élites, adeguatamente rappresentate nei massimi incarichi pubblici cittadini, assecondarono ulteriormente il processo di ralliement con alcune figure “borghesi”. Il riassetto istituzionale seguito al ritorno dei Lorena inaugurò una fase di crescente divergenza con il potere monarchico, che con Leopoldo II giunse a perseguire un modello di «paternalismo illuminato» ben poco aperto alla mediazione con i ceti dirigenti. Gli inevitabili attriti così suscitati furono solo parzialmente leniti dalla scelta granducale di ripristinare l’Ordine di Santo Stefano dopo l’abolizione in età francese, mentre l’altra istituzione universitaria, rinnovata in profondità dall’inserimento nel sistema imperiale francese, vedeva ripristinato l’ordinamento didattico precedente senza peraltro subire l’“epurazione” di prestigiosi insegnanti compromessi con il regime napoleonico. La strisciante conflittualità tra i gruppi dominanti e la corona sembrò stemperarsi alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento, quando proprio a Pisa, con il Primo congresso degli scienziati e ancor più con la riforma universitaria di Gaetano Giorgini, emerse con la massima evidenza la rinnovata, anche se transitoria, sintonia tra il granduca e i notabili toscani. L’ambizioso rilancio dell’ateneo pisano suscitò ovviamente i più vivi apprezzamenti delle massime cariche comunitative per le interessanti prospettive di rivitalizzazione della città che portava con sé, sotto il profilo culturale ma anche sotto quello economico; diventata uno dei centri universitari più importanti della penisola, negli anni Quaranta Pisa si distinse per una peculiare vivacità politica, sia pure ricca di ambiguità e approssimazioni, che coinvolgeva in un unico slancio “nazionale” cittadini, studenti e molti professori dell’ateneo. Quella stagione, conclusasi con la spedizione degli universitari a Curtatone e Montanara, fu definitivamente accantonata dalla decisione granducale, nel 1851, di abrogare la riforma trasferendo a Siena parte cospicua di insegnamenti e studenti. Immediatamente si elevò la vibrante protesta del consiglio municipale di Pisa: una rottura con il potere granducale che non sarebbe stato più possibile ricomporre. La riforma comunitativa In età lorenese, le riforme dell’ordinamento comunale furono ben quattro (datate rispettivamente 1776, 1816, 1849, 1853), cui vanno aggiunte quella napoleonica del 1808 e l’altra del governo provvisorio toscano del 1859. La prima grande riforma amministrativa importante fu a Pisa quella delle comunità, emanata da Pietro Leopoldo il 17 giugno 1776, volta a concedere ampia autonomia amministrativa all’ente locale e ad affiancare ai nobili nel maneggio degli affari i più facoltosi possessori. Il regolamento stabiliva che la comunità fosse rappresentata da un magistrato formato da 3 gonfalonieri e 3 priori e da un consiglio generale composto da 12 residenti, tutti nominati per mezzo di tratta o estrazione. Sotto la dominazione napoleonica tutto cambiò in campo amministrativo con la nascita del dipartimento del Mediterraneo, della sottoprefettura di Pisa, delle mairies e la soppressione dell’Ufficio dei Fossi nel 1808, nella chiara volontà di porre qualsiasi interven- to pubblico sotto l’unicità direttiva ed esecutiva di un’amministrazione strettamente dipendente dal ministero dell’Interno. Ogni comune aveva a capo un maire (a Pisa ricoprirono tale carica Giovan Battista Ruschi e Tommaso Poschi), coadiuvato da uno o più aggiunti (sorta di assessori tutti nominati dal potere centrale) e dal consiglio municipale elettivo, composto da un numero di membri proporzionale alla popolazione. La riforma ferdinandea del 16 settembre 1816 fu una via di mezzo fra autonomia leopoldina e centralismo napoleonico e la sua novità principale consisté nel fatto che il gonfaloniere diveniva un funzionario statale con il quale il governo operava un’efficace azione di controllo. Per trovare novità in materia amministrativa, bisogna arrivare al clima di entusiasmo creato dalle concessioni liberali di Leopoldo II del 1847-48, quando si tornò più volte a parlare di una riforma municipale che sostituisse il vecchio regolamento ferdinandeo del 1816, ormai ampiamente criticato per il suo eccessivo accentramento. Fu nominata un’apposita commissione per lo studio della riforma comunale e nel settembre 1848 fu rimesso dal sovrano all’esame delle assemblee legislative un progetto di legge municipale, ma le vicende di quei mesi impedirono la sua definitiva approvazione. Con la nuova legge municipale del 20 novembre 1849 ogni comune era rappresentato da un consiglio comunale eletto a scrutinio segreto dai contribuenti in numero proporzionale agli abitanti della comunità (al comune di Pisa toccavano 32 consiglieri e 4 supplenti) e da un gonfaloniere assistito dal collegio dei priori con libera amministrazione di tutte le proprie entrate. Il gonfaloniere, cui spettava di mettere in esecuzione le decisioni del consiglio, era nominato dal granduca fra i componenti del consiglio comunale stesso e restava in carica 4 anni. Era questa in assoluto, per quanto promulgata nella seconda restaurazione del 1849, la prima legge comunale toscana che introduceva il sistema elettorale, sia pure per il solo consiglio comunale, dopo secoli di amministratori scelti esclusivamente per tratta fra gli imborsati. hL’ultimo provvedimento sull’amministrazione locale assunto da un governo toscano prima dell’annessione al regno d’Italia si ebbe con i decreti del governo provvisorio e relativo regolamento del 31 dicembre 1859, che in sostanza ripristinarono l’ordinamento comunale elettivo del 1849. In alto: Stemma Asburgo Lorena, XVIII secolo. Pisa, Archivio di Stato Carta dello Stato Pisano, post 1825. Praga, Archivio Nazionale Gli ebrei a Pisa in età lorenese Per festeggiare Pietro Leopoldo, la Nazione ebrea di Pisa non badò a spese. L’importo della “colletta” tra i connazionali fu aumentato di ben sette volte per mettere insieme la somma che occorreva non solo per illuminare la facciata di uno dei palazzi di via Santa Maria ma anche e soprattutto per organizzare una corsa di “barberi” sul Lungarno. Il 15 maggio 1766 i massari furono ammessi a Palazzo Reale e al loro baciamano Pietro Leopoldo rispose assicurando «la continuazione della Sua Real protezione». Il 17 maggio due rappresentanti della Nazione tornarono a Palazzo per presentare al sovrano e a sua moglie «la lista de’ barberi che dovevano correre, stampata in raso con lato guarnito con trina d’oro, che furono [sic] benignamente presi con la propria real mano da ambedue le AARR ed espressone il gradimento verso la Nazione». Il giorno successivo, lo spettacolo si dispiegò nel centro cittadino per l’intera giornata. Al mattino il palio di seta uscì da palazzo Lanfranchi Lanfreducci, portato da un fantino «in vaga spoglia guarnita d’argento” e seguito dai “corsieri barberi condotti da loro custodi»; il corteo passò sotto le finestre del granduca e proseguì la parata per le strade della città. Nel pomeriggio sul Lungarno di tramontana, dopo che il fondo stradale era stato cosparso di sabbia, “cominciò il passeggio delle carrozze in numero di 120 […] alle quali precedevano le mute a 6 delle RRAA e guardia nobile a cavallo […] e dopo avere passeggiato il corso per quattro volte consecutive, fra la gran folla del popolo concorsovi, ritornarono i sovrani al Palazzo e ritiratosi tutte le carrozze si affacciarono le AARR al terrazzino del R. Palazzo […] riescì la corsa bellissima con 10 Seder (liturgia israelitica), 1810. Pisa, Biblioteca Universitaria numero 6 barberi […] la mossa fu data dal canto di via Le Vele che introduce alla fornacia de’ vetri [oggi l’inizio di via Roma] e se riprese alla piazza di S. Silvestro”. In una memoria presentata a Pietro Leopoldo nel 1766, qualche giorno dopo la festa in suo onore, la Nazione ebrea pisana rivendica- va ai suoi connazionali il merito di aver introdotto in città «la fabbrica di corallo ad uso di Livorno, valichi, filatori e tessitori di seta, la manifattura delle cuoia, con le quali arti solamente senza considerare l’altri loro traffichi tengono impiegati considerabil numero di povere famiglie cristiane». Manifatture di seta e di panni di lana o concerie gestite da ebrei sono attestate in città già alla metà del Seicento. Per il secolo successivo, l’archivio della Comunità ebraica pisana conserva una corposa documentazione, che sarà consultabile agevolmente, però, solo dopo la fine del riordinamento oggi in corso. La «fabbrica di corallo ad uso di Livorno» era probabilmente quella di Moisè Baruch Carvaglio, come emerge dalle carte del contenzioso che si aprì sul lascito, disposto per testamento nel 1760, a favore del mantenimento dello “studio” già esistente nella sua casa di via San Francesco. Il fatto che nell’eredità Carvaglio comparissero obbligazioni della Compagnia delle Indie e della Corona inglese è un indizio di un’ampiezza di relazioni commerciali, che d’altra parte è già ben nota per le ditte livornesi di lavorazione del corallo. Dopo la morte di Moisè, la produzione continuò con suo nipote Jacob, che negli anni settanta appare come il più facoltoso tra i governanti della Nazione; la ditta probabilmente cessò nel 1782 per un rovescio commerciale. All’impresa Carvaglio era interessato anche Samuel Lusena, titolare di una società della quale sono rimasti diversi libri contabili per gli anni 1773-1779 (Giornale, Debitori e creditori, Copie di conti, Copialettere). La ditta produceva tessuti di seta, ma si leggono anche riferimenti all’importazione di armi da Amsterdam o al traffico di berretti tra Tunisi e Smirne. Probabilmente più antica, e forse più specializzata nella lavorazione della seta, in filo e tessuta, era l’impresa Leucci, sulla quale pure si conserva documentazione di grande interesse; le sue commissioni di drappi, si dice in una delle moltissime carte, «sogliono venire dal Levante e Barberia». All’inizio dell’Ottocento, negli anni dell’Impero, non restò più traccia delle antiche attività. Due ditte livornesi, quelle dei Cesana e dei Bassano, gestivano rispettivamente una fabbrica di cremor tartaro e un saponificio, che chiusero presto i battenti. Ebbe breve durata anche la tipografia ebraica, rappresentata a fine Settecento dai Fuà e poi da Samuel Molco, che lasciò Pisa per Livorno nel 1822. Fu solo a partire dagli anni trenta che l’insediamento ebraico riprese a contribuire significativamente all’economia cittadina. Nel 1837 Saul Baruch Carvaglio, discendente da un ramo della famiglia sopra ricordata, fece inserire su un periodico ufficiale l’avviso che trasferiva il suo domicilio da Livorno a Pisa: dapprima rivenditori di cuoio, i Carvaglio diventarono i più importanti proprietari di concerie della città. Il settore nel quale la presenza ebraica fu più incisiva e duratura fu però quello tessile. Nel 1836 Daniel Cardoso Laines, che aveva proseguito la produzione di berretti “alla levantina” impiantata a Livorno da suo padre, acquistò una casa in Santa Marta e prese in affitto un “ruotone” sul Canale Macinante per avviare una filatura; il filo di lana prodotto era “da berretti” oppure “da fabbricante”, ossia per tessuti. In questi anni (1850-52) la ditta utilizzava per la filatura anche un mulino di Calci ed era articolata nelle tre sedi di Palazzo Franco, via San Lorenzo, gli affreschi sulle pareti del salone dell’appartamento padronale 11 Livorno, Pisa e Prato, ciascuna specializzata in una fase del ciclo produttivo e commerciale. Pressoché contemporaneamente sorgevano i primi cotonifici. Amaddio Nissim e suo figlio Giacomo vennero a Pisa da Livorno dopo il fallimento della grande casa di commercio per la quale lavoravano; anch’essi, come Cardoso, si impiantarono in Santa Marta, per sfruttare la disponibilità d’acqua. Nel 1850 il loro era già il terzo più importante cotonificio cittadino, dopo quelli dei Viti e di Francesco Padreddii. Oltre ai Nissim, altri appartenenti alla comunità ebraica erano già presenti nel settore, ma fu solo nel 1859 che, alla fine di via San Lorenzo, fu costruita la grande fabbrica di Isach Gentiluomo. I Gentiluomo erano pisani da generazioni, ma i soci di Isach nell’accomandita che portava il suo nome erano tutti livornesi: di nuovo, dunque, quel rapporto tra Pisa e Livorno, che la Nazione ebrea aveva assicurato e alimentato per secoli. A partire dagli anni trenta dell’800 l’immagine degli ebrei di Pisa cambiò: ridotto il numero dei venditori ambulanti, ai pochi negozianti-imprenditori del passato si sostituì uno strato intermedio di agiati commercianti e soprattutto uno strato consistente di proprietari, possessori non solo di immobili urbani ma anche di poderi o fattorie. Si tratta, per ricordarne solo alcuni, dei Perugia ad Orciano, dei Gentiluomo a Fauglia, degli Abu- 12 darham a San Regolo e a Mezzana, dei Recanati in località Pratale, appena fuori le mura urbane. La proprietà spianò la strada dell’integrazione con l’élite cittadina, un processo rappresentato simbolicamente dall’acquisto da parte dei livornesi Franchetti di uno dei più prestigiosi palazzi sul Lungarno, ma anche dalla costruzione, ristrutturando abitazioni già esistenti tra via Cacciarella (oggi Fucini) e via Santa Cecilia, dell’imponente residenza degli Abudarham. Il 13 febbraio 1850 Matilde Manzoni scrive sul suo diario: «La sera c’è stato ballo da Abudarham […] L’appartamento di casa Abudarham è magnifico […] io mi sono divertita moltissimo ed ho ballato assai con Prini, Abudarham, Luigi Bevilacqua, Lovatelli, Uzielli». L’interazione sociale si fondava su un’ampia convergenza di idee politiche, sulla condivisione dell’opinione liberal-moderata. Non è un caso che nel biennio cruciale 1847-1848, sulla stampa finalmente libera, in Toscana assai più che altrove si sia discusso di emancipazione ebraica. Erano state le stesse Università israelitiche a mobilitarsi perché l’emancipazione ebraica entrasse a pieno titolo nel grande movimento riformatore. Lo Statuto infatti aveva recepito una memoria presentata in precedenza al granduca dalle Università di Livorno e di Pisa. I principali ispiratori del documento, e dell’azione di sostegno e di pressione che l’aveva accompagnato, erano stati Sansone Uzielli e Abramo Pardo Roques. Pur appartenendo entrambi alla comunità livornese, essi risiedevano abitualmente a Pisa e il primo non solo frequentava i Giorgini, ma era in strette relazioni di amicizia con molti esponenti del liberalismo toscano, a Pisa con Giovan Battista Toscanelli, uno dei notabili cittadini tra i più coinvolti nella mobilitazione del ’48, non solo come padre di due volontari ma anche come finanziatore della Guardia civica. Nel battaglione universitario partito da Pisa nel marzo del 1848, gli ebrei erano 5 su 369, sicuramente non pochi rispetto alla percentuale degli ebrei sul totale degli studenti universitari; uno dei cinque era Giuliano Guastalla, di Bozzolo (MN), studente di giurisprudenza, che qualche mese più tardi sarebbe diventato il vice presidente del Circolo politico degli studenti universitari. Il giovane avvocato Angiolo Segrè, piemontese residente a Pisa da qualche anno, fu invece uno dei promotori del Circolo politico cittadino e – insieme a Michele Perugia, a Giacomo Franco e al citato Guastalla – fu uno dei componenti del Comitato compartimentale pisano “Pro Venezia”. Nel febbraio 1849 infine, quando la Guardia civica fu sostituita dalla Guardia nazionale, un israelita, il capitano Abramo Farfara, fu posto a capo di una delle compagnie cittadine. La corte Pietro Leopoldo, una volta divenuto granduca di Toscana il 13 settembre 1765, arrivò per la prima volta a Pisa con la moglie Maria Luisa nella primavera dell’anno successivo. Il corteo reale arrivò a Pisa alle sei e mezza del 14 maggio 1766, ricevuto alla porta della città dal commissario di Pisa, Bindo Panciatichi, e a Palazzo Reale dalle più alte cariche cittadine e dalla nobiltà. Il giorno seguente i sovrani visitarono il giardino botanico, il museo, la specola «ove hanno veduti con piacere tutti gli strumenti astronomici» e il gabinetto sperimentale dove assisterono «alle più difficili esperienze» fatte dal medico Carlo Alfonso Guadagni. Nei giorni successivi visitarono gli edifici delle Reali razze, i Bagni di San Giuliano e la tenuta di San Rossore «avendo passeggiato lungo la spiaggia del mare». I trasferimenti da Firenze a Pisa avvenivano solitamente in carrozza, ma la sovrana, anche per le frequenti gravidanze (a Pisa nacquero gli ultimi tre ar iduchini della coppia reale: Ranieri, nato il 30 settembre 1783 al quale non a caso venne imposto il nome del patrono della città; Luigi, nato il 13 dicembre 1784; Rodolfo nato l’8 gennaio 1788) arrivava a Pisa in gondola. Ad esempio, il 31 ottobre 1768 i sovrani più le cariche di corte partirono «per la via d’Arno in gondola» e dopo aver pernottato due giorni alla villa dell’Ambrogiana, il 3 novembre arrivarono a Pisa, dove «smonta[rono] dalla loro gondola allo scalo di faccia al palazzo», cioè Palazzo Reale sul Lungarno, e qui vennero accolti da magistrati, nobiltà e popolo. Le gondole, leggere e sottili imbarcazioni lunghe circa dieci metri (21-22 braccia) e larghe 5 braccia, con remi dipinti in bianco e rosso, i colori degli Asburgo, gli stessi colori delle divise dei gondolieri – visibili in mostra in alcuni disegni – avevano l’interno riccamente adornato: l’abitacolo («carrozza») di legno era dorato, fornito di persiane, sportelli e vetri di cristallo di Boemia e tende color verde, passamani di seta, con panche a canapè, sedie in ciliegio Giovanni Battista Minghi, Capo gondoliere. Firenze, Archivio di Stato e tappeti che ornavano il tavolo e il pavimento. La gondola, il cui personale era composto dal gondoliere, dal timoniere e da remiganti, era preceduta da un navicello che fungeva da guida. G. Piattoli - G. Fabbrini - A. Nistri Tonelli - G.B. Cecchi - B. Eredi, Pietro Leopoldo con la famiglia, 1785. Collezione privata 13 Le sedi I palazzi di cui i sovrani e la corte disponevano nel loro soggiorno pisano erano costituiti da Palazzo Reale sul Lungarno, da Palazzo Vitelli, con giardino e scuderia, anch’esso sul Lungarno, dove abitavano il Maggiordomo Maggiore conte Franz Orsini Rosenberg, il Cavallerizzo Maggiore, il confessore e due segretari; dal Palazzo in via Santa Maria detto la “Dispensa vecchia”, e dalla Casa delle Vedove, così chiamata in quanto residenza, in epoca anteriore, delle «vedove» di casa Medici, dove ora si trovavano i locali per il personale di servizio di S.A.R. e per il forno, la pasticceria, la rosticceria, mentre le stalle e le rimesse erano collocate sotto gli archi dell’Arsenale. Altre cariche di corte quali il sen. Francesco Maria Gianni, maggiordomo della Real Casa, il conte Anton Thurn e il conte Carl von Goëss alloggiarono in edifici presi in affitto, rispettivamente palazzo Lanfreducci, palazzo Roncioni e palazzo Beltrami, così come, in edifici meno sontuosi, prese alloggio una parte del personale inserviente. Inoltre il sovrano volle che oltre al personale di corte si trasferissero stabilmente a Pisa durante la sua permanenza anche le tre Segreterie di Stato, di Finanze e di Guerra con i rispettivi direttori Pompeo Neri, Angelo Tavanti e conte Alberti, per poter seguire da vicino i loro lavori e presiedere le adunanze del Consiglio di Stato. 14 Fu così che le prime due vennero ospitate, e fornite del mobilio occorrente, al secondo piano del Palazzo dei Cavalieri della Religione di Santo Stefano, mentre la seg. di Guerra venne ospitata nel palazzo della Conventuale nell’omonima piazza. Complessivamente ogni inverno si trasferivano a Pisa diverse centinaia di persone, tra personale di corte e funzionari di stato, oltre al personale inserviente. Il solo Dipartimento del Cavallerizzo maggiore contava una sessantina di persone tra cocchieri, palafrenieri, cavalcanti, officiali della cavallerizza e garzoni, mentre le scuderie ne contavano settanta oltre a un centinaio di cavalli e muli. Nell’inverno del 1769 vennero iniziati lavori di restauro e di «muratura» a Palazzo Reale, danneggiato anche dall’umidità, e la coppia granducale si trasferì temporaneamente in palazzo Roncioni e palazzo Lanfranchi. Un prezioso cabreo, che il granduca ordinò di eseguire ai suoi ingegneri ed architetti, illustra la destinazione d’uso dei vari ambienti dei palazzi. Nelle sale a pian terreno di Palazzo Reale si trovavano i locali di servizio: la Guardaroba, con tutto l’occorrente per le camere da letto (centinaia e centinaia di lenzuoli, candelieri, scaldaletti, catini in rame etc.), una stanza con i serviti da tavola, che comprendevano anche centinaia di «bicchieri di sciampagna», altri di «vino di Borgogna», chicchere da cioccolata e da caffè, giarine da sorbetti; segui- vano due stanze per la «confettureria», e relativa cucina, con tutto l’occorrente per la fabbricazione di dolci (calderotti di rame e di ottone, «un vaso di rame per struggere la cioccolata», cioccolatiere di rame, bricchi e macinini da caffè, mortai, sorbettiere, «forme di stagno per frutte gelate» dalle svariate forme (di albicocca, limoncello, susina, arancia, cedrato ed alcune più grandi «da chiocciolone marino», da delfino e perfino da turbante). Seguivano stanze per l’ufficio degli argenti, per la dispensa, per la biancheria, per la rosticceria, per la pasticceria, per la «boulangeria» e per la «cucina reale»; in questi ultimi locali, oltre ai mobili e agli utensili si trovavano anche materasse, pagliericci, coltroni, segno che il personale di servizio si riposava qui nei lunghi preparativi di pranzi e cene reali. Al primo piano si trovavano le sale di rappresentanza quali la sala dei pranzi e la sala dell’udienza oltre ad una sala da gioco con 5 tavolini da gioco e 50 sgabelletti e circa venti stanze tra salotti e camere da letto, oltre a retrocamere, stanze di servizio, vestiboli, ricetti, cappella e coretto. Anche in molte di queste stanze riccamente arredate, con quadri ed arazzi alle pareti, erano presenti gli immancabili tavolini da gioco, segno della socialità del tempo. Il secondo piano era quasi tutto riservato a camere da letto, in alcune delle quali si trovavano più letti per il personale di servizio. Palazzi di Sua Altezza Reale in Pisa, Livorno, Pistoia, Siena e Roma, XVIII secolo. Praga, Archivio Nazionale 15 La Certosa di Calci I Lorena ebbero un’attenzione particolare per la Certosa di Calci, la quale – come ebbe a scrivere nelle memorie segrete Pietro Leopoldo, mentre procedeva alle soppressioni – «era da conservare e lasciare perché reputata la più bella». Nel 1764, al tempo del governo di Francesco Stefano di Lorena, veniva eletto priore della Certosa di Calci il monaco milanese Giuseppe Alfonso Maggi. Durante il governo di Pietro Leopoldo, il priore Maggi escogitò strategie miranti a conciliare lo sviluppo e l’abbellimento della Certosa con l’attuazione di politiche “imprenditoriali” in linea con la politica granducale e con i progetti di bonifica e di riforma agraria attuati dal governo dei Lorena. Il 2 maggio 1767 i nuovi granduchi, insieme con ampio seguito, resero omaggio ai certosini visitando la certosa pisana, dove furono «lautamente trattati nella Foresteria di un nobile rinfresco, quale le altezze Loro si degnarono di gradire, come ancora alcune corone di profumi, ed abitini ricamati». Ma non furono certo gli onori tributati a convincere il sovrano, quanto i progetti del priore Maggi di rendere produttive le fattorie di Montecchio, Latignano, Alica e Salviano, chiamando come consulente alle bonifiche il famoso abate Ximenes per potenziarne la rendita agraria Per questo la Certosa di Calci conobbe in questo periodo un grande sviluppo economico e il Maggi poté attuare ottimi investimenti edilizi e chiamare artisti di fama. Il monumentale fabbricato della Certosa di Calci fu totalmente ristrutturato, le grance di Alica e di Montecchio furono 16 ammodernate e, come richiesto esplicitamente dal granduca, i certosini finanziarono l’ampliamento del complesso architettonico affacciato sulla piazza dei Bagni di San Giuliano per contribuire al lancio della stazione termale. Le case cittadine, dette ospizi, di Pisa, Livorno, Firenze e Pontedera furono rinnovate. Non riuscirono invece ad ottenere il permesso di vendere, come avrebbero voluto, i beni improduttivi della Gorgona La facciata della Certosa di Calci e quelli della Corsica minacciati da confisca del governo francese, come avvenne. Nella ristrutturazione dell’intero complesso monumentale della Certosa il Maggi convogliò cospicui finanziamenti e ben oltre trent’anni di intensa attività edilizia ed esornativa. Il primo dei lavori importanti, a cui il Maggi volle si ponesse mano, fu l’edificazione e l’abbellimento della foresteria, posta nel lato Pietro Giarrè, Pietro Leopoldo e Maria Luisa. Calci, Certosa volto ad oriente del piano nobile, detta “granducale” perché destinata ad accogliere il granduca Pietro Leopoldo nelle soste calcesane. Nelle pareti del Refettorio, in due riquadri dipinti da Pietro Giarré nel 1776 furono raffigurati episodi di vita certosina: Cosimo III a pranzo con i certosini di Pisa con il motto Disciplina zelo e Caterina de’ Medici che serve a mensa i monaci della Certosa di Parigi con il motto Religionis obsequio, una sorta di monito indiretto a Pietro Leopoldo, richiamato a compor- tamenti simili a quelli tenuti dai predecessori sul trono toscano nei confronti dell’ordine certosino. Un invito pienamente accolto perché la Certosa di Calci fu esclusa dalle soppressioni di conventi volute da Pietro Leopoldo; anzi i certosini di Calci furono incentivati dal sovrano a proseguire nei grandi interventi di miglioramento a carattere economico e artistico dei loro grandi possedimenti e in Certosa. Solo con l’avvento del governo napoleonico, nel 1808 la Certosa conobbe la soppressione e, con la perdita dei beni, la decadenza. Nel 1816 Ferdinando III di Lorena restituì ai monaci la proprietà della Certosa e di una parte dei loro antichi beni, fra cui la fattoria di Montecchio. Il 25 febbraio 1818 si ricostituì l’ordine certosino: il monastero della certosa fu nuovamente fondato e furono intraprese opere di abbellimento artistico e di acquisizioni di arredi. Così fu fino al 7 luglio 1866, data in cui la Certosa fu soppressa una seconda volta per decreto del governo italiano. 17 Le feste Nella primavera del 1767 i sovrani partirono per Pisa per assistere, dalla terrazza del palazzo pretorio, al Gioco del Ponte. La domenica del 3 maggio 1767, alla presenza della corte, si effettuò con il consueto grandioso apparato la “mostra”, cioè la sfilata sui lungarni dei due eserciti, che avevano un totale di 1.070 uomini. Accanita come sempre la mischia fra i combattenti che, dopo alterne vicende e mosse strategiche, vide alla fine la vittoria di Tramontana. Per la prima volta, il Gioco fu funestato da una grave sciagura: la morte di un Celatino della squadra di Calci, deceduto al termine dello scontro, probabilmente per una targonata ricevuta in testa. La vedova avanzò in seguito una supplica al sovrano per ottenere un sussidio per sé ed i cinque figli minorenni, essendo venuto a mancare il capo famiglia. La richiesta fu accolta, ed il granduca obbligò tutti gli ufficiali ed i comandanti delle due fazioni a tassarsi per il corso di 18 anni per la somma complessiva di scudi cinque mensili, in favore della supplicante. Nel gennaio 1770, in onore dei due generali moscoviti conte di Orloff e di Shevaloff e «atteso il concorso dei forestieri ed ufizialità moscovita che si trova in Pisa», furono date in sette giorni ben cinque feste da ballo a corte, cui parteciparono oltre alle alte cariche, cavalieri e dame, anche il nunzio di Portogallo Conti, il principe Ruspoli ed il marchese Sommonio di Lodi. «A tali feste non è stato permesso l’ingresso a veruno degli studenti nelle Università». Nel maggio 1785 si ritrovarono a Pisa due fratelli di Pietro Leopoldo, l’arciduchessa Maria Carolina col marito Ferdinando IV di Borbone, re delle Due Sicilie, e 18 l’arciduca Ferdinando, governatore della Lombardia. La prima sera vi fu una «grandiosa festa da ballo in maschera» a teatro a cui partecipò la nobiltà di tutto lo stato, i ministri stranieri e le cariche di corte. Nei giorni successivi visitarono Livorno, dove pranzarono a bordo di navi con «portate di confetture e gelati alla foggia napoletana», i Bagni di San Giuliano e il 12 maggio assisterono al Gioco del Ponte dalla loggia del Palazzo pretorio, mentre «il popolo, che aveva preso posto sopra i palchi, finestre e tetti formava un bellissimo anfiteatro». La sera il granduca dette in loro onore una festa da ballo in maschera nel cortile del palazzo della Sapienza ed in quattordici sale attigue «per trattenere il popolo e divertirlo con giuoco di carte». Furono profusi «gelati e rinfreschi di ogni sorte» sino al mattino seguente. Il giorno successivo, dopo aver pranzato a Palazzo reale col concorso di «diversi forestieri di primo rango», passeggiarono in carrozza lungo l’Arno ed in città ed assistettero dalla ringhiera del palazzo alla corsa dei cavalli. Il 21 maggio per la «superba festa che si dà a Pisa» fu fatta «grandiosa illuminazione del Lungarno». Sono le preziose tempere di Giuseppe Maria Terreni a restituire il fascino della festa da ballo in Sapienza e della spettacolare edizione del Gioco del Ponte. Il motuproprio del 21 gennaio di quell’anno fissa in 12 articoli le direttive da seguire per il Gioco del Ponte, in cui viene ridefinita la struttura ed il significato dell’evento. Non si dovrà parlare di “disfida” ma solo di “invito”; dovranno essere abolite le funzioni di benedizione delle bandiere e responsabili di tutto saranno i comandanti, gli ufficiali e gli armatori; i nomi di tutti i partecipanti dovranno essere pre- ventivamente comunicati ai tribunali e da questi approvati; immediate le pene per i trasgressori. L’incarico dell’organizzazione fu affidato in gran parte alla nobiltà cittadina ed intensi furono i preparativi per la migliore riuscita della manifestazione. Il granduca richiese anche che le varie divise si presentassero più decorative ed appariscenti e così fu fatto, senza badare alle spese. Il 10 maggio si svolse la prevista “Mostra delle Truppe”, questa volta sul prato del Duomo, ove erano stati innalzati a semicerchio 12 padiglioni uguali per le varie squadre, oltre ad uno più grandioso e centrale per gli ufficiali e la nobiltà. Il sontuoso palco reale fu eretto invece lungo il muro dell’ospedale. Due giorni dopo si rinnovò l’evento sul ponte. Dopo le rituali operazioni di controllo del numero degli armati, si schierarono le truppe e allo sparo dei due mortaretti iniziò lo scontro che si concluse, allo scadere dei tre quarti d’ora previsti, con la vittoria di Mezzogiorno. Quest’anno le pubblicazioni a stampa raggiunsero il numero più alto mai avuto nella storia del Gioco. Fu questa l’ultima edizione del XVIII secolo. Il Gioco tornerà come rievocazione solo una volta, nel 1807 durante il regno di Etruria e sotto la breve reggenza di Maria Luisa. Dopo questa data, per tutto il corso dell’Ottocento, non si ebbero più, per il concatenarsi di molteplici fattori politici e militari, altre edizioni di questa manifestazione. Le armature ed i costumi furono accatastati nelle soffitte del palazzo comunale, nella polvere e nell’oblio, e così un lungo periodo di silenzio cadde su questa antica tradizione cittadina. Dovranno passare quasi 130 di interruzione, perché nel 1935 il Gioco torni a rivivere negli anni immediatamente precedenti l’ultimo conflitto mondiale. Giuseppe Maria Terreni, Festa da Ballo nel cortile del palazzo della Sapienza; La vittoria del Gioco del Ponte; Accampamento delle truppe destinate al Gioco del Ponte nella piazza del Duomo, 1785. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti 19 L’abito al tempo dei Lorena Con l’arrivo a Firenze del nuovo granduca Pietro Leopoldo I e della moglie Maria Luisa di Borbone s’interrompe il periodo della Reggenza durante il quale il Granducato di Toscana, privato per oltre trenta anni dell’apparato di una corte stanziale, ha condotto una ‘vita di provincia’. Il supporto offerto alle manifatture fiorentine dalla politica di Pietro Leopoldo non si esaurisce nelle consistenti e ripetute committenze per i fabbisogni della corte, ma si traduce in un costante impegno profuso per la modernizzazione e la salvaguardia delle attività tessili del territorio considerate patrimonio della comunità e dello stato granducale. Tra le consuetudini vestimentarie nella Toscana dei Lorena, la dipendenza della nobiltà dalla moda francese e il tentativo dei granduchi, in particolare di Pietro Leopoldo, di arginare le manifestazioni di lusso sfrenato. L’adozione di uno stile nuovo, misurato e moderno, riduce drasticamente anche l’impiego di merletti e ricami privilegiando la scelta per tessuti uniti dai colori fiammanti e puri, evocativi delle insegne di corte. L’uniforme di rappresentanza diventa la veste con la quale il granduca sceglie di comparire ufficialmente: espressione di un codice semantico dalla doppia valenza, segno inequivocabile di comando ma anche elemento distintivo di un’autorità incorruttibile, consapevole e rispettosa del mandato conferitole dalla collettività. L’uso dell’uniforme, strettamente regolamentato, è da con- 20 siderarsi elemento innovativo di primaria importanza anche nell’opera di riorganizzazione delle cariche di corte promossa dallo stesso Pietro Leopoldo, attenendosi a un decreto emanato dalla casa d’Austria, che stabiliva, nell’abbigliamento maschile di corte, la definitiva scomparsa dell’“abito alla spagnola” dal cerimoniale della casa d’Austria, in favore delle divise militari. La foggia austera, ispirata allo stile militare, influenza tutta la moda maschile di fine Settecento ispirando soluzioni fortemente innovative, ben esemplificate dalla semplice marsina dei Musei Provinciali di Gorizia confezionata in taffetas cangiante violaceo, leggera ed elegante, del tutto priva di ornamenti o elementi aggiuntivi, nella quale il gusto per la monocromia si impone persino nei bottoni, fasciati nello stesso tessuto di confezione. Anche l’abito della granduchessa segue i nuovi dettami stabiliti dal progressivo semplificarsi delle vesti che si riducono nei volumi acquistando in fluidità e morbidezza. Busti, sottanini e sopravvesti, confezionati con tessuti semplici e luminosi, accompagnano i movimenti del corpo assecondando una gestualità più disinvolta ed informale. Anche le decorazioni degli abiti si semplificano sostituendo pizzi e passamanerie a contrasto con nastri e ruches realizzati nel medesimo tessuto di confezione: guarniture in merletto vengono limitate alla scollatura a alle engageantes. La silhouette femminile, ridimensionata nell’uso del panier e del guardinfante, si slancia anche grazie all’affermarsi di acconciature alte e vaporose. In contrapposizione alle stoffe broccate dai colori sgargianti della moda precedente, per le confezioni degli abiti da giorno s’impiegano semplici mussole e sottili tele bianche di lino o cotone, evocative di luce e candore marmoreo. Le decorazioni, tono su tono, eseguite a ricamo, si complicano sino a raggiungere effetti a rilievo che si esaltano nel gioco di ombre e nella trasparenza dei tessuti, come si può rilevare nell’esemplare dalla foggia en chemise in sottile mussola di cotone, guarnito da ricami e merletti, esposto in mostra e proveniente dalla Galleria del Costume di Palazzo Pitti. Le vesti di gala o di corte adottano il modello ispirato alla classicità aggiungendo alcuni elementi distintivi di rappresentanza come lo strascico, spesso accompagnato dal manto, e l’impiego di sete e filati metallici preziosi per i decori che si dispongono soprattutto nella zona centrale della veste o lungo i bordi. L’abito in tulle Rachel dal prezioso ricamo in seta e filato metallico, proveniente dai Musei Provinciali di Gorizia, costituisce un esempio significativo di veste di corte per l’eleganza codificata della forma, l’eccellenza dei materiali, l’originalità e il fasto dei decori. Negli anni del governo di Ferdinando III, se nella moda femminile si torna alla coercizione di busti e voluminose gabbie, documentate dal romantico abito cupoliforme proveniente dalla Galleria del Costume di Palazzo Pitti, il guardaroba dell’uomo borghese definisce, ormai in modo inequivocabile, le linee dell’abbigliamento maschile moderno, rompendo definitivamente gli schemi del vecchio codice vestimentario. Manifattura francese (?), abito di corte in tulle di seta color avorio con applicazioni in seta violacea, pailletes e cannette di vetro, ricamo policromo in ciniglia di seta, 1805-10. Gorizia, Musei Provinciali, Museo della Moda Manifattura italiana, Marsina in taffetas cangiante violaceo, 1790 ca. Gorizia, Musei Provinciali, Museo della Moda Manifattura italiana, Abito da giorno in mussola bianca ricamata in bianco, 1815-16 ca. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria del Costume Manifattura italiana (?), Abito da giorno in due pezzi, Mussola di cotone bianca ricamata in bianco, 1840 ca. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria del Costume 21 «È essenziale che chi sarà alla testa del governo di Toscana abbia sempre in vista di procurare i maggiori vantaggi possibili alla vasta e fertile provincia pisana, troppo interessante» (Pietro Leopoldo, Relazioni del governo della Toscana) Ogni anno, durante i soggiorni invernali, oppure d’estate, Pietro Leopoldo aveva modo di passeggiare per le vie cittadine, di visitare le campagne a cavallo, di navigare per fiumi e fossi per osservare personalmente lo stato delle cose, per rendersi conto, sulla base delle relazioni dei suoi funzionari, dei provvedimenti da prendere o verificare che gli ordini impartiti fossero stati eseguiti. Così si fece ben presto un’idea dei principali problemi e della complessità di tutto il sistema idrico e viario di quell’area sia dal punto di vista economico che sanitario e viario. A Pisa visitò le fabbriche di chincaglierie e di orologi in via Santa Maria, la fabbrica del sapone, molto fiorente; visitò, «senza che nessuno ne fosse informato» preventivamente, lo spedale dei trovatelli, che trovò in cattive condizioni, a cui fece apportare migliorie ed ingrandire; passeggiò da solo per «diverse piccole strade della città verso San Paolo» per osservare i nuovi lastrici che davano problemi per lo scolo delle acque poiché i lavori erano stati fatti «malissimo e contro tutte le regole dell’arte», passò da piazza delle Erbe e vide che «le fontane buttavano tutte bene». I soggiorni pisani davano anche occasione al sovrano di poter esaminare da vicino il funzionamento delle magistrature locali e di poter prendere visione direttamente dei problemi della città, del funzionamento delle istituzioni e del carattere dei suoi abitanti. Nelle campagne circostanti visitò la tenuta di San Rossore, le fattorie di Collesalvetti e di Vecchiano, i Bagni di Pisa, che alimentavano 22 un flusso di visitatori stranieri e a cui vennero apportate migliorie con il rifacimento dei bagni in marmo. La regimazione fluviale, l’opera di canalizzazione e di «colmata» dei tanti acquitrini che persistevano nell’area diviene uno dei punti focali del governo del terri- torio da parte di Pietro Leopoldo. Particolare importanza aveva tutto il sistema delle acque composto dal fiume Arno, dal Serchio, il Fosso reale, il Fosso dei Navicelli che collegava Pisa a Livorno, il Calambrone, la Tora, la Serezza, il fiume Morto. Piante delle diverse possessioni di S.A.R., XVIII secolo. Praga, Archivio Nazionale Le arti, il territorio Mappe e Piante dall’Archivio Nazionale di Praga “Nel dolore di renunziare a quello era a me di più caro, a quello per cui avea valore la vita mia … Salva è Toscana pel mio sacrificio, ella sa che sino alla fine io l’ho amata”. Così scriveva Leopoldo II, ultimo granduca di Toscana della secondogenitura del Casato degli Asburgo Lorena, che con la sua abdicazione il 21 luglio 1859 aveva messo fine al governo durato più di un secolo, a conclusione delle memorie scritte nel castello di Brandýs sull’Elba in Boemia negli anni 1860-1868. I nuclei principali dell’archivio familiare odierno conservato presso l’Archivio Nazionale a Praga (prima del 2005 Archivio Centrale dello Stato a Praga) furono formati in base alla classificazione della documentazione rimasta dopo gli Asburgo Lorena nei locali di Palazzo Pitti e che fu selezionata dalla commissione costituita dal governo provvisorio toscano nel 1859. Tutta la documentazione degli anni 1765-1859, raccolta nel periodo dei governi di Pietro Leopoldo, Ferdinando III e Leopoldo II, oltre alla Collezione delle mappe e piante, diventò la base dell’archivio di famiglia praghese. Il complesso archivistico degli Asburgo di Toscana (Rodinný archiv toskánských Habsburků, abbr. RAT) è oggi raggruppato in 13 sezioni, cioè gli archivi di Pietro Leopoldo, di Ferdinando III, di Leopoldo II, di Ferdinando IV, di Luigi Salvatore, di Giovanni Nepomuceno (Orth), di Giuseppe Ferdinando, la Raccolta di diplomi (1779-1867), la Collezione delle mappe e piante (ca 2000 mappe e piante dei secoli XVII e XIX), quella di fotografie (ca 4000 pezzi dalla metà dell’Ottocento fino all’inizio del Novecento), di disegni e di stampe. Le ultime tre sezioni contengono la documentazione delle Legazioni toscane all’estero (a Parigi, a Vienna, a Roma e Francesco Giachi, Il Granducato di Toscana diviso in tre province, 1780. Praga, Archivio Nazionale a Napoli degli anni 1814-1873), quelle della Liquidazione toscana dei crediti rivendicati da sudditi toscani contro la Francia (18121835) e dell’Amministrazione dei beni della casa granducale in Boemia (1852-1872). La più antica relazione sul territorio Pisano, conservata in una copia più tarda, risale alla visita di Pompeo Neri e Tommaso Perelli all’Ufficio de Fossi di Pisa nel 1740. Particolarmente prezioso è il complesso della Collezione delle mappe e piante disegnate nella seconda metà del Settecento o per la minor parte stampate nella prima metà dell’Ottocento. Lo sviluppo del territorio pisano, livornese e volterrano può essere studiato partendo dalle carte geografiche e topografiche che riproducono in linee generali i grandi distretti della Toscana fino ad arrivare a consultare le mappe delle varie località. Oltre alle carte geografiche generali del Granducato di Toscana più belle (di Francesco Giachi, Andrea Dolcini, Girolamo Segato, Ferdinando Morozzi) particolarmente prezioso è il complesso costituito dalle piante di vicariati, podesterie o diocesi risalenti alla seconda metà del Settecento e disegnate da Ferdinando Morozzi e Luigi Giachi. Eseguite con una straordinaria precisione tecnica che riproduce una grande quantità d’informazioni cartografiche, le piante hanno anche – in particolare quelle eseguite da Morozzi – un gran valore storico-artistico, in quanto recano a margine delle bellissime vedute di città, cittadine, campagne, monasteri, castelli, forti, bagni, porti, isole ed altri costruzioni o fabbricati che testimoniano l’intervento umano nei territori del Pisano. 23 La cultura del territorio I metodi seguiti per la realizzazione del catasto toscano segnano il traguardo più avanzato dei catasti ottocenteschi dal punto di vista della realizzazione tecnica: per l’epoca, la rappresentazione cartografica è impeccabile e la descrizione dell’uso del suolo particella per particella ne fa un unicum prezioso per la conoscenza storica del territorio. Per quanto riguarda la determinazione dell’imponibile, invece, furono il frutto della mediazione tra potere centrale ed interessi privati, presentando un aspetto molto poco neutro per quanto concerne la valutazione dei fondi, e dunque il fine ultimo del catasto, l’equa ripartizione dei tributi. Un attento studio dei suoi risultati dimostra infatti che i criteri di stima lasciavano un margine non tassato alle unità produttive più grandi ed organizzate (poderi e fattorie) rispetto ai possessori di piccoli appezzamenti sparsi, che erano numericamente i più diffusi. La cartografia realizzata per il catasto servì per molte altre applicazioni, come ad esempio per le bonifiche. Prima di questa documentazione, infatti, non si erano avute misurazioni precise della reale superficie delle aree paludose. Il recupero di terreno alla coltivazione era una priorità vitale per la Toscana lorenese, perché i cereali prodotti all’interno non erano sufficienti al fabbisogno delle città e delle campagne; si doveva così ricorrere a consistenti importazioni. La strutturale carenza di cereali spiega da un lato la scelta da parte del governo toscano di continuare ad applicare una politica di libertà di commercio negli anni venti dell’Ottocento, quando a seguito della caduta dei loro prezzi la maggior parte degli stati si chiuse di nuovo nella protezione del mer24 cato nazionale; dall’altro, il pressante bisogno di recuperare terre all’agricoltura. Il piano di bonifica che partì nel 1828 coinvolse la Maremma pisana e grossetana compresa tra Rosignano e Alberese. Non si limitava ai progetti di disseccamento dalle acque e risanamento dalla malaria; era piuttosto ispirato all’idea di quella che nel Novecento si chiamerà ‘bonifica integrale’. Comprendeva infatti anche il popolamento dell’area, la colonizzazione che già Pietro Leopoldo aveva tentato senza successo, la messa a coltura delle aree prosciugate, la ricostruzione della rete di comunicazioni via terra. Ne fecero dunque parte anche i lavori delle nuove strade, dalle longitudinali alle trasversali, le allivellazioni e vendite di terre granducali, demaniali e delle Mense ecclesiastiche. La sfida maggiore fu quella del recupero della Maremma grossetana. Qui, oltre alle vaste paludi, facevano ostacolo all’insediamento stabile e alla messa a coltura anche la mancanza di strade e la grave infezione malarica. Nel 1828 si diede inizio alla sua bonifica per colmata, su consiglio di Fossombroni che aveva avuto buoni risultati con questo metodo in val di Chiana. Le operazioni furono affidate ad Alessandro Manetti, già responsabile delle bonifiche nella stessa valle e che dal 1834 diverrà il potente direttore di uno dei servizi granducali dei lavori pubblici, quello del ‘Corpo degli ingegneri di Acque e Strade’. Le colmate furono effettuate con deviazioni delle acque torbide dell’Ombrone. Per quanto riguarda la Maremma pisana, i lavori interessarono la valle del Cecina e ancor più quella del Cornia, a partire dal 1830. La bonifica si fece in parte per colmata (padule di Piombino e quello di Torre mozza) e parte per prosciuga- mento (lago di Rimigliano, appositamente acquistato dal Demanio). Un’altra bonifica apparentemente meno complicata da realizzare quanto ad assetto territoriale complessivo, ma che da secoli non si era riusciti a risolvere, fu ripresa ancora una volta poco più tardi: quella del lago di Bientina, che costituiva uno dei principali problemi idraulici della pianura tra Lucca e Pisa Si trattava per 1600 ettari di lago perenne, da 2700 ha dalle adiacenze palustri dello stesso lago, che davano un piccolo reddito, e da 5500 ha di fertile campagna. Il lago era costituito da una zona chiara e profonda al centro del lago, alimentata da polle sotterranee, e da un altrettanto vasto padule periferico, che nell’estate spesso si prosciugava. Dava proventi economici (pesce, vegetazione palustre) ed era inoltre un’ottima via d’acqua per i commerci tra Livorno, l’Arno e la Lucchesia. Fino al 1847 appartenne per metà alla repubblica di Lucca e per metà al granducato di Toscana, con un notevole contenzioso sul regime delle acque e frequenti liti che ritardarono la bonifica. Lo scolo era parte in Arno e parte in Serchio, ma con così poca pendenza che ad ogni piena dei due fiumi l’acqua allagava la pianura fino a poca distanza da Lucca. Un altro importante capitolo della politica territoriale dei Lorena aveva sempre riguardato la struttura dei trasporti, sia per terra sia per mare. Già Pietro Leopoldo aveva compiuto un’importante opera di miglioramento non solo delle vie regie, ma anche di quelle di interesse locale. Dopo la Restaurazione, tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti nel secolo precedente, molte parti della Toscana avevano ancora una rete stradale inadatta ad un traffico carrozzabile. L’azione di Leopoldo II fu decisiva in questo settore. Sul mo- dello della struttura dei Ponts et chaussées introdotta dai Francesi, l’ultimo granduca riportò la politica viaria nell’ambito del controllo governativo. Lo sforzo maggiore a livello centrale si concentrò sull’allestimento di un vasto sistema di strade carrozzabili, con la creazione di assi rotabili che formassero una rete unificante le varie province del Granducato, e riducessero le disparità di comunicazione. I circuiti principali erano due. Il primo era quello della comunicazione tra la Toscana e gli Stati confinanti; aveva anche risvolti politici, per una più facile comunicazione con i territori austriaci. Altre arterie transappenniniche furono tracciate da Manetti, come la strada Regia militare della Cisa in Lunigiana, la provinciale forlivese. Il secondo circuito comprendeva i collegamenti all’interno del Granducato ed in particolare quelli che potevano aprire agli scambi economici aree fino ad allora isolate. In questo caso la costruzione di strade assicurò comunicazioni rotabili fino ad allora assenti al Volterrano, al Chianti, al Senese, alla Maremma, alla val di Nievole, alla Romagna, al Monte Amiata, alla val d’Ambra. L’elenco delle strade costruite a carico dell’erario dalla Restaurazione alla metà del secolo è molto lungo: dal 1814 al 1846 comprende già almeno 27 strade tra rotabili, provinciali e regie. I più cospicui finanziamenti seguono la traccia delle bonifiche ed interessarono sotto Ferdinando III la val di Chiana e il complesso dell’Aretino. Con Leopoldo II, nelle Maremme, fu tracciato di nuovo e variato il percorso delle antiche strade romane nella costa occidentale: la litoranea Aurelia-Emilia, con le varianti e i collegamenti trasversali, andava da Pisa al confine con lo Stato pontificio. Strade di collegamento dei percorsi costieri con l’interno furono aperte tra questa viabilità costiera e Colle val d’Elsa, Siena, Volterra. Per sottolineare l’importanza di tutte queste imprese, basta citare un dato. All’indomani dell’Unità, la rete stradale in Toscana aveva una dimensione di km. 12.381, con 566 m/kmq contro i 366 della media nazionale. Un’analisi più dettagliata, riguardante le strade nazionali e provinciali, mostra la Toscana al primo posto in Italia con 139 m/kmq, seguita dalla Romagna (in parte ex Toscana) con 109 e dalla Lombardia con 105. La Toscana era dunque in testa tra le aree più servite dalle strade di grande comunicazione. Come rete ferroviaria, alla stessa data, l’ex Granducato era al secondo posto in Italia dopo il Regno di Sardegna. Compartimento Pisano. Territorio unito, XIX secolo. Praga, Archivio Nazionale 25 La Macchia di San Rossore Durante gli anni della Reggenza lorenese (1737-1765), proseguì il graduale abbandono delle strutture agro-pastorali presenti in San Rossore in seguito all’interruzione delle attività lavorative delle comunità stagionali che, un tempo, occupavano anche le capanne dei pescatori lungo il litorale tirrenico a sud e a nord della nuova foce dell’Arno, o trovavano impiego nelle Fornaci Medicee, ai margini dell’antico Bosco di San Lussorio. L’accrescimento delle terre oltre la voltata di Barbaricina e le piane di San Piero a Grado, occupate per la maggior parte dalle boscaglie di San Rossore e di Tombolo, iniziò negli anni settanta del Settecento, quando il nuovo indirizzo politico di Pietro Leopoldo (1765-1790) diede finalmente avvio alla rinascita socio-economica dei luoghi. Le tenute furono gradualmente sottoposte a interventi di trasformazione, divenendo luoghi di rappresentanza e di svago per la Corte granducale e i suoi ospiti. Alla fine del XVIII secolo, nella vasta pianura occidentale di Pisa, che includeva la porzione più estesa di tutta l’area soggetta alla giurisdizione ecclesiastica della chiesa di Sant’Apollinare in Barbaricina (con una superficie che sfiorava i 5.000 ettari e un perimetro di 20 miglia), soltanto San Rossore, insieme ad altri piccoli e irrilevanti appezzamenti, rimase proprietà dei Lorena. Pietro Leopoldo dapprima unificò la Tenuta sotto l’unica denominazione di San Rossore e successivamente riuscì ad ottenerne anche la definitiva affrancazione dal canone livellare, con un’iniziativa avviata ufficialmente nel 1789, ma formalizzata nel 1822 da Ferdinando III. Ebbe cura di incrementare il patrimonio boschivo con l’inseri26 mento di pini selvatici, ampliando ulteriormente la già estesa macchia forestale tipicamente mediterranea dopo l’introduzione medicea dei pini domestici. Provvide all’arricchimento del patrimonio faunistico con il potenziamento di bovini e cavalli bradi e attuò sapienti operazioni di regimazione idraulica e di bonifica delle aree palustri mediante l’esecuzione di alcune colmate per aumentare i terreni a pastura nelle aree di Piaggelta e Oncino e nella zona prossima alle Lame di Fuori. Una maggiore caratterizzazione architettonica e urbanistica della tenuta si realizzò nel 1771 con la costruzione, sulla sponda destra dell’Arno, del maestoso complesso rurale delle Nuove Cascine, poi Cascine Nuove, così definite in contrapposizione alle Cascine Vecchie di impianto mediceo. Ciò che più segna e caratterizza in modo definitivo San Rossore è la razionale riorganizzazione del sistema viario: a Pietro Leopoldo si devono infatti il progetto, e buona parte della realizzazione, dei grandi viali che per “comodo”, “ utilità” e “delizia” si decise di aprire e di affiancare alle vie esistenti in San Rossore. I nuovi viali, ortogonali al precedente sistema viario della Tenuta, identificavano un crocevia fondamentale per l’economia degli spostamenti nella vasta pianura occidentale pisana. Orientati secondo i punti cardinali, partivano dal piazzale rotondo delle Cascine Vecchie per raggiungere agevolmente gli insediamenti che nei secoli erano stati realizzati e si erano consolidati nei luoghi strategici dell’esteso territorio: Cascine Nuove sull’Arno, la Sterpaia e la zona del Marmo sul Serchio, il Gombo sul mare, e altri nuclei insediativi situati fuori dai confini territoriali dell’antica selva: il caseggiato di San Piero a Grado, raggiungibile dalle Cascine Nuove a mezzo di un navicello che traversava l’Arno, e la stessa città di Pisa, il cui collegamento con San Rossore fu enfatizzato con iniziative di abbellimento e allargamento dello Stradone Mediceo. Con la Restaurazione di Ferdinando III, ma soprattutto sotto il governo del figlio Leopoldo II, si consacrò l’aspetto di rappresentanza della tenuta: Cascine Vecchie e Cascine Nuove, ristrutturate e ampliate, si consolidarono come i due poli attorno ai quali gravitavano le attività più significative per la vita dell’intero territorio. Pianta delle IV Tenute di Migliarino, di S. Rossore, di Tombolo e Arno Vecchio, di Coltano e Castagnolo. Praga, Archivio Nazionale A Cascine Vecchie, il granduca intese stabilirsi nella Villa Reale (1829-1832) – oggi distrutta – voluta espressamente dalla consorte Maria Anna Carolina, durante la permanenza della Corte in San Rossore. L’area di Cascine Vecchie diventa nodo distributivo per l’intero sistema viario della Tenuta, determinando contemporaneamente l’organizzazione del sistema spaziale con il suo doppio perimetro di recinto arboreo: piante a doppio filare all’interno e un ulteriore doppio filare su un solo lato, all’esterno, in corrispondenza del raccordo con il viale rettilineo verso la città. Questo, ombreggiato da pioppi bianchi e neri piantati nel 1830 (sostituiti con platani nel 1895), ingentilito dalla siepe di mirto e corredato di sedili, diventa promenade a piedi, a cavallo, in carrozza. Un recinto arboreo circonda e conferisce peculiare unitarietà a un insieme di edifici con differenti funzioni, mentre il suo punto di innesto con il viale verso Pisa determina la gerarchia degli edifici nella percezione della traiettoria diagonale verso il centro della palazzina residenziale. Tale sistemazione è attribuibile con ogni probabilità a Luigi De Cambray Digny, attivo tra il 1828 e il 1829 al Palazzo Reale di Pisa, su incarico del granduca, e richiama analoghi indirizzi europei correlati alla realizzazione di parchi pubblici, alla funzionalizzazione di aree esterne alle città e al fenomeno dell’embellissement, diffusosi tra XVII e XIX secolo. I bagni marini del Gombo, costruiti dopo l’apertura dell’ultimo viale in direzione del mare, amplificando il concetto della Tenuta come “bene pubblico”, permisero di conoscere, anche fuori dai confini granducali, le ancora poco diffuse, straordinarie peculiarità naturalistiche del luogo e dotarono la spiaggia di nuove costruzioni, fra le quali una palazzina adibita a pensione e una cappella. A suggello del consolidato, antico legame con Pisa, si intraprese la realizzazione del “Prato degli Escoli”, il primo ippodromo cittadino che esalterà il valore storico della presenza del cavallo in San Rossore. Inizialmente allo stato brado, poi in razze diverse atte al lavoro e al trasporto, infine come animale da competizione, il cavallo sarà destinato a lasciare un segno tangibile e duraturo nella storia della tenuta, dove l’attività ippica si svolge immutata da quasi duecento anni. Significativa testimonianza delle prime importanti competizioni ippiche di metà Ottocento sul Prato degli Escoli è il dipinto dell’artista belga Louis Paternostre (Bruxelles 1824-1879), che riproduce con ricchezza di particolari l’arrivo di una corsa al galoppo alla presenza di un folto pubblico e in corrispondenza del palco reale. Louis Paternostre, Corsa di cavalli a San Rossore. Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale 27 L’olio di Calci Nell’“escursione agraria fatta nel territorio di Calci”, pubblicata sul “Giornale agrario toscano” del 1846, Niccolò Cherici scriveva: In prossimità della valle di Calci le diverse culture vanno a poco per volta mancando, fino a che l’olivo si vede occupare tutta la superficie del suolo; e non solo il monte ma invade anco la sottostante pianura. Questa preziosa pianta, unica o principalissima cura degli abitatori di queste pendici, forma la loro ricchezza; ed il prodotto che se ne ottiene gode in paese e fuori di estesa e meritata rinomanza. Non sono remoti i tempi nei quali l’olio di Calci passava monti e mari, ed era ambito in Inghilterra, in Egitto, in America. Oggi segue i destini dell’olio di Toscana e di Lucca, e non essendo più oggetto di special domande, l’olio di Calci giunge tutto al più ad ornare della sua vista e del suo profumo alcune più difficili mense della gentile Firenze. Come medicamento per gli stomachi umani, il suo uso è pure alquanto esteso. Gaetano Savi, Flora Italiana, Pisa, Capurro, 1818-1824. Pisa, Biblioteca Universitaria 28 La trasformazione del paesaggio “La Toscana viene spesso chiamata il giardino d’Italia, è quasi come dire quello d’Europa” (Sismondi J.C.L. Simonde de, Tableau de l’agriculture Toscane, 1801) L’attenta politica del territorio perseguita dai Lorena fin dal loro insediamento alla guida del Granducato trova riflesso non solo nell’attività dei cartografi, ma anche in quella degli artisti. Dalle vedute con cui alla metà del ‘700 Giuseppe Zocchi documentava la ristrutturazione dei Bagni di San Giuliano, uno dei più si- gnificativi interventi architettonici effettuati negli anni della reggenza lorenese, fino ai dipinti eseguiti da Nino Costa nell’autunno del 1859 al Gombo e a San Rossore, è la storia di un paesaggio letto con occhi nuovi. Un paesaggio descritto da Giovanni Targioni Tozzetti, dai naturalisti settecenteschi, dai viaggiatori romantici, dagli agronomi sulle pagine del “Giornale agrario toscano” che Giovan Pietro Vieusseux iniziava a stampare a Firenze nel 1824, e restituito dalle celebri vedute di Volterra dipinte da Corot durante il secondo soggiorno italiano del 1834, dall’album di vedute eseguite dalla giovane pittrice francese De La Morinière durante il soggiorno a Pisa dal 1837 al 1841, dai dipinti di Carlo Markò o Lorenzo Gelati. L’ Inondazione del Serchio del “pittore di corte” Giovanni Signorini documenta l’alluvione del Serchio del 1843: Il Serchio gonfiò più di un braccio sopra il livello cui giunse a Ripafratta nella gran piena del 1836, cosicché nella notte precedente il dì 16 gli argini non furono più bastanti a contenerlo; e la settentrionale pianura pisana restò tutta inondata. Fu rotta la riva destra a Filettole, ad Avane, al podere dell’Isola; e la riva sinistra a Ripafratta, a Colognole, ad Arena, alla Barca d’Albavola, e più ampiamente presso S. Andrea in Pescajola. L’acqua che sboccava impetuosa per tante rotte fece tutto un lago dal Serchio all’Arno, e dai monti di S. Giuliano alle boscaglie di San Rossore. Rovesciò alcune muraglie e case; altre ne sommerse, mentre gli agricoltori spaventati fuggivano traendo seco quel che potevano. Molti con le masserizie e gli armenti si ripararono a Pisa e nei luoghi più elevati; altri restarono nei loro abituri divenuti isole nell’improvviso lago... (“Gazzetta di Firenze”, 24 gennaio 1843) L’appassionata partecipazione di Leopoldo II al tragico evento si traduceva nella commissione a Giovanni Signorini ed Enrico Pollastrini di un ciclo di dipinti che dovevano raffigurarne l’episodio più commovente, ovvero l’eroico salvataggio della giovane Alessandra Mazzanti e dei suoi due figli. I quadri (due redazioni dell’Inondazione del Serchio realizzate da Signorini e la grande tela Una famiglia salvata dall’inondazione del Serchio di Pollastrini) venivano esposti con notevole successo a Pisa nel giugno 1845 e quindi inviati a Firenze per l’esposizione della Promotrice. Dall’alto: G. Zocchi - N. Mogalli, Veduta generale dei Bagni di Pisa, in A. Cocchi, Dei Bagni di Pisa, Firenze, 1750 Nino Costa, Il fiume morto al Gombo. Viareggio, Istituto Matteucci Giovanni Signorini, Inondazione del Serchio, 1845. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna 29 La cultura, le idee Carlo Goldoni a Pisa Carlo Goldoni soggiornò a Pisa dalla fine del 1744 ai giorni immediatamente seguenti alla Pasqua del 1748. Goldoni svolse a Pisa la professione di avvocato civile e criminale, uniformandosi allo stile della pratica giudiziaria toscana, diversa da quella del foro veneto: ebbe così modo di osservare una realtà variegata di nobili, di mercanti di artigiani, di persone comuni, un universo che costituì, nella molteplicità di esperienze e di uomini, un bagaglio a cui attingere per sue commedie, fedeli, appunto, alla realtà effettuale. Il suo primo contatto con l’ambiente cittadino avvenne nella colonia d’Arcadia, la colonia Alfea, dove fu ammesso con tutti gli onori, ed insignito del nome di Polisseno Fegejo, con cui sempre si fregiò nelle sue opere insieme al titolo di avvocato. Proprio in Arcadia, a Pisa, conobbe Ranieri Bernardino Fabbri (Odisio Licurio), vicecustode della colonia Alfea, primo ministro nella Cancelleria dell’Ordine di Santo Stefano, pubblico notaio, con cui stabilì un rapporto di calda amicizia; il Fabbri lo aiutò moltissimo ad inserirsi nella società pisana e a svolgere la professione di avvocato, perché ovviasse alle sue precarie condizioni economiche: quanto il Goldoni fosse legato a questa figura risulta dalla dedica, a lui rivolta, ne Il servitore di due padroni, commedia il cui canovaccio aveva scritto proprio a Pisa, nel 1745. A Pisa, Goldoni scrisse poesie d’occasione, ma anche composizioni poetiche impegnate, inserendosi nei dibattiti propri dell’età delle riforme lorenesi: la canzone sull’“utilità delle leggi scritte”, composta probabilmente del 1747, che costituisce anche un omaggio a Pietro Girolamo Inghirami, «Commissario, e Capitano Generale della città di Pisa, Giudice, Cognitore, e Decisore di tutte le cause civili, criminali, e miste», con cui Goldoni collaborò molto nell’esercizio della sua attività di avvocato civile e criminale; all’Inghirami il Goldoni dedicò Il tutore. Nel 1745 distese due scenari, Il servitore di due padroni e Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato (che non completerà, che ebbe tuttavia fortuna in Francia, e il successo riportato fu uno dei motivi per cui il Goldoni fu chiamato molto dopo in quel paese); nel 1747, il Tonin bella grazia (che divenne Il Frappatore, con dedica a Marco Pitteri); I due gemelli veneziani (commedia recitata, forse, a Pisa, nel 1747); L’uomo prudente, per il quale il commediografo si era ispirato ad un grave fatto di sangue avvenuto in Toscana. Annibale Gatti, Goldoni a Pisa che recita un sonetto nel giardino di palazzo Scotto alla presenza degli Arcadi Alfei, 1867. Pisa, Teatro Verdi 30 La cultura antiquaria Gli anni di Pietro Leopoldo vedono il nascere in città di una nuova attenzione per la storia più antica di Pisa e per i monumenti che la documentano. Per quanto riguarda i monumenti archeologici presenti in città e i ritrovamenti effettuati in quegli anni, un osservatorio privilegiato è indubbiamente costituito dai rapporti di Pisa con la Galleria di Firenze, dove confluiranno i principali ritrovamenti effettuati in città e nel territorio: dai materiali recuperati a Terricciola nel 1756 a quelli di Montefoscoli scoperti nel 1773, dal ripostiglio di vittoriati ritrovato nel 1763 nell’area di Porta a Lucca ai materiali di alcune sepolture arcaiche rinvenute nel 1771 nel corso dei lavori per il taglio dell’ansa dell’Arno, ai resti delle tombe ritrovati nel 1783 nel corso di lavori alla Fattoria granducale dei Navicelli. Tuttavia, se l’atteggiamento primario dei Lorena sembra essere quello di incrementare anche con i monumenti pisani la Galleria di Firenze, non minore rilievo ha l’inserimento di monumenti antichi voluto dal Granduca nella sua residenza pisana, oggetto in quegli anni di una vasta ristrutturazione. Si colloca in questi anni l’inserimento della statua ideale antica sullo scalone del Palazzo Reale sul lungarno, mentre risale al 1786 l’ordine d’invio da Boboli di quattro statue raffiguranti deità antiche che Pietro Leopoldo destinò a completare l’apparato scenografico dello Stradone delle Cascine. Statua antica con integrazioni e restauri di Francesco Carradori identificata con Giunone, collocata nel marzo 1789 per volontà di Pietro Leopoldo sul piedistallo dello scalone. Pisa, Palazzo Reale 31 La scultura Allo scultore Giuseppe Vaccà spetta la fontana situata ad apertura della piazza del Duomo, eseguita nel 1746 su commissione dell’Operaio Francesco Quarantotti. Nel 1765 venne realizzato dallo scultore carrarino Giovanni Antonio Cybei il gruppo marmoreo raffigurante tre putti che si contendono lo stemma dell’Opera della Primaziale. Proprio al Cybei, oltre alle parti più significative dello splendido Monumento Algarotti in Camposanto – inaugurato nel 1768 e progettato da Mauro Tesi e Carlo Bianconi – e al busto funebre del conte Francesco Del Testa del 1780, collocato nella chiesa di San Martino, si deve il Busto di Pietro Leopoldo del Museo Nazionale di Palazzo Reale. Nel 1829 arrivava a Pisa il Monumento Vaccà destinato al Camposanto, opera del celebre scultore danese Bertel Thorvaldsen e di cui resta un bel disegno assai fedele all’opera finita. Costituito da un rilievo antichizzante raffigurante Tobia che risana il padre dalla cecità, il Monumento Vaccà provocò una durissima polemica, perché Ridolfo Castinelli affidò alle pagine della «Antologia» – e sotto pseudonimo – un severa critica alla scelta iconografica adottata dal danese per alludere alle virtù medico-chirurgiche del defunto. Quando nel 1830 una apposita Deputazione decise di abbellire piazza Santa Caterina con la statua colossale di Pietro Leopoldo, i due progetti presentati da Lorenzo Bartolini (la cui impronta stilistica sopravvisse comunque nel Monumento a Galileo Galilei del livornese Paolo Emilio Demi, inaugurato nel 1839 in occasione della Prima Riunione degli Scienziati Italiani) 32 Bertel Thorvaldsen, disegno del monumento a Vaccà Berlinghieri in Camposanto. Pisa, Biblioteca universitaria non incontrarono i favori della committenza. Il Monumento a Pietro Leopoldo venne allora affidato a Luigi Pampaloni, mentre i tre rilievi della base furono eseguiti da Temistocle Guerrazzi ed Emilio Santarelli. Giovanni Antonio Cybei, Modelletto per il gruppo dei Putti sormontante la fontana in piazza del Duomo. Pisa, Museo dell’Opera della Primaziale I Lorena e l’Egitto “La Toscana che sotto sì fatti auspici può sdegnare ogni posto inferiore nei seggi dell’umano sapere, sarà la prima, dopo lo Champollion, ad essere appellata benemerita dello svelato Egitto” (Ippolito Rosellini, Lettera Quinta indirizzata ai colleghi pisani, da Tebe, marzo 1829) Leopoldo II di Lorena seppe riconoscere, sostenere e realizzare il progetto di una spedizione letteraria franco-toscana in Egitto e in Nubia, realizzata tra il 1828 e il 1829 sotto la conduzione di Jean-François Champollion e di Ippolito Rosellini, professore nell’Università di Pisa. I rapporti di Jean-François Champollion con il Granduca Leopoldo II furono intensi e fruttuosi fin dal 1825, da quando, nell’estate di quell’anno, visitò per la prima volta Firenze e Livorno. Champollion contava di trovare presso il Granduca l’appoggio per la realizzazione dell’impresa che tanto e da tanto tempo gli stava a cuore: una Spedizione internazionale in Egitto per l’esplorazione dei monumenti della Valle del Nilo, una spedizione che andasse ancor più a sud di quanto si era spinta la Commission napoleonica, e che andasse molto più avanti nell’interpretazione dei monumenti grazie al fatto che le sue scoperte potevano ormai far parlare i geroglifici che coprivano le vecchie pietre. Una conseguenza delle benevoli disposizioni di Leopoldo II verso i neonati studi egiziani, è stato l’incoraggiamento in questo senso dato al professore di Lingue Orientali nell’Università di Pisa, Ippolito Rosellini (che dello Champollion divenne scolaro e amico fedele). Presso l’Università di Pisa, nel 1826, Leopoldo II apriva – primo Frontespizio per gli Atlanti dell’opera I Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Ippolito Rosellini. Pisa, Collezioni Egittologiche dell’Università sovrano in Europa, anzi nel mondo – un pubblico insegnamento di Egittologia, affidato a Ippolito Rosellini. Ippolito ottenne di raggiungere lo Champollion a Parigi, dove soggiornò fino a tutto il 1827, collaborando con lo Champollion alla catalogazione del materiale egiziano del Louvre; là Ippolito conobbe, amò e sposò Zenobia Cherubini, figlia del compositore Luigi Cherubini. Nella primavera di quell’anno i due fratelli Champollion, JeanFrançois e Jacques, con il Rosellini e il suo zio ingegnere Gaetano Rosellini, compirono la stesura del progetto della spedizione in Egitto e in Nubia, da sottoporre in Francia al re Charles X e in Toscana al Granduca Leopoldo (Mémoire sur le projet de voyage littéraire en Egypte). Scopo principale della spedizione era il rilievo dei monumenti e la copia di tutte le iscrizioni dell’Egitto e della Nubia. La commissione toscana risultò composta, oltre che da Ippolito Rosellini, direttore e responsabile del gruppo toscano, da Gaetano Rosellini, dal pittore fiorentino G. Angelelli, da Alessandro Ricci, e dal naturalista fiorentino Giuseppe Raddi con un assistente-pre- paratore, Felice Galastri. La partecipazione di Gerolamo Segato, che era prevista, purtroppo non fu approvata dal Governo. La commissione francese, oltre allo Champollion, comprendeva Alexandre Bibent ingegnere (presto rientrato in Francia dall’Egitto) e vari disegnatori: Duschesne fils, Bertin fils, Nestor l’Hote, il Lehoux e, per ambedue le spedizioni, il pittore Salvador Cherubini, fratello di Zenobia. Il gruppo misto arrivò ad Alessandria il 18 agosto 1828, a bordo della corvetta, l’Eglé, messa a disposizione dalla marina francese. Nei quindici mesi della spedizione in Egitto e in Nubia fino a Uadi Halfa, le commissioni, la Francese e la Toscana, misero insieme una messe incredibile, enorme, di documentazione, ancora importante nella prospettiva di una storia dell’archeologia, permettendo di riconoscere i metodi di rilievo dei monumenti e la copia delle scene e delle iscrizioni. Il tutto in uno spirito di collaborazione e di reciprocità mai smentite da parte dei due direttori; il sistema dello scambio dei documenti portò al fatto che ognuna delle spedizioni ebbe ciascuna un portafoglio di disegni eguale e completo. 33 Il viaggio è documentato in maniera diretta, per la parte francese, dalle note e dalla corrispondenza dello Champollion e dei suoi compagni, e dalle notizie di stampa; per la parte toscana, dal ricco materiale, edito e in parte inedito, conservato nella Biblioteca Universitaria di Pisa Ad Alessandria, alla fine del 1829, le due commissioni si divisero per il rientro in patria. Le settantasei casse con le antichità scavate o acquistate sul mercato d’Egitto dalla Commissione Toscana arrivarono a Livorno il 22 dicembre sulla nave sarda Cleopatra. Arrivarono a Livorno anche le casse del Raddi frattanto morto; il materiale botanico raccolto in Egitto fu destinato all’Orto Botanico di Pisa. Il materiale archeologico riportato dall’Egitto incrementò le collezioni granducali a Firenze in ma- niera molto consistente, e si deve al Rosellini se questo Museo Egizio è, in Italia, secondo per importanza soltanto a quello di Torino; contiene anche pezzi rari, come per esempio uno dei più bei “ritratti del Fayum” che si conoscano, il primo “ritratto” che sia giunto in Italia. Nel 1830, Rosellini organizzò una mostra degli oggetti nell’Accademia delle Arti e Mestieri in Santa Caterina a Firenze, accompagnate da una scelta dei disegni dei monumenti. E subito dopo a Pisa, nelle due sale della Accademia di Belle Arti in palazzo Pretorio, Rosellini esponeva “un piccolo Saggio” dei moltissimi disegni “eseguiti ai monumenti d’Egitto e della Nubia dalla Spedizione Toscana”, alcuni “coloriti, altri puramente disegnati”, che raffiguravano “la Storia che i più antichi Faraoni fecero scolpire in grandi Bassi-rilievi sulle mura dei Palazzi e dei Templi”, “le mate- Ippolito Rosellini, Monumenti del Culto, Tav. LXXIV 34 rie religiose degli antichi egiziani” e “le cose che riferisconsi allo stato civile, pubblico e privato della nazione e degl’individui” (Breve dichiarazione dei disegni esposti nella R. Accademia di Belle arti in Pisa per dare un saggio al pubblico del portafoglio riportato dalla Spedizione letteraria toscana in Egitto e in Nubia, Pisa, Nistri 1830) Ippolito Rosellini passò gli anni successivi al rientro dall’Egitto nella faticosa opera di pubblicazione, a Pisa, dei Monumenti: l’edizione degli Atlanti avvenne presso la ditta tipografico-libraria Niccolò Capurro e C. tra il 1832 e il 1836; il terzo volume degli infolio, I monumenti del Culto, e il nono volume dei Testi, furono editi nel 1844 a cura dei colleghi Francesco Bonaini e Flaminio Severi, dopo la morte che colse lo studioso il 4 giugno 1843, nella sua casa in via di San Michele degli Scalzi. Ippolito Rosellini, Monumenti Storici, Tav. CXVIII Le scienze La Cattedra di Fisica Sperimentale, con relativo Gabinetto, fu istituita nel 1748 e assegnata, su suggerimento del Provveditore dell’Università di Pisa Monsignor Gaspare Cerati, a Carlo Alfonso Guadagni. Il Guadagni arrivò alla Cattedra insieme alle sue 115 macchine, riguardanti la Statica, l’Idrostatica, la Pneumatica, il Magnetismo, l’Ottica e l’Elettricità. Queste macchine furono acquistate dall’Università di Pisa nel 1750 per 907 ducati e 3 soldi. Nel Gabinetto di Fisica, prima dell’arrivo del Guadagni, era stata fatta trasferire, dal Giardino dei Semplici, la Macchina Pneumatica di Musschenbroek (che era stata donata all’Università di Pisa nel 1691 da Anna Maria Ludovica de’ Medici). Il Gabinetto era situato in via Santa Maria nell’edificio accanto alla Specola (costruita nel 1734 e demolita per ragioni di precaria stabilità nel 1826). Nell’inventario del 1792 le macchine risultavano in numero di 122, tra cui 115 erano quelle originali del 1748. Inoltre nel 1793 l’Università acquistò dal Guadagni altri 51 oggetti che dimostravano il continuo ammodernamento delle attrezzature da lui perseguito. Fra questi segnaliamo il Ventilatore d’Haley, una macchina per dimostrare la forza dell’aria quando è compressa (di ’sGravesande), un igrometro con quadrante d’ottone e suo indice, un conduttore elettrico di Nairn, una macchina elettrica a piatto d’Inghenus, una pistola elettrica del Volta e un sistema solare elettrico del Ferguson. I professori che si succedettero alla Cattedra – Leopoldo Vaccà Berlinghieri (1795-1800), Gaetano Cioni (1800), Gaetano Savi (1801-1809), Giuseppe Gatteschi (1810-1826) e Olinto Dini (18271830) – si limitarono all’acquisto di alcuni strumenti per arricchire la dotazione del Gabinetto. Nel 1831 a Dini succedette Luigi Pacinotti che contribuì ad aumentare notevolmente il numero degli strumenti del Gabinetto di Fisica. Infatti acquistò molti apparecchi moderni legati ai nomi di Oersted, Nobili, Bellani, Daniell, Savart, Cagnard de la Tour, Melloni, Breguet, Amici, Volta, Gay-Lussac, Thenard e altri ne fece costruire lui stesso. Su suggerimento del provveditore Gaetano Giorgini, nel 1839 Leopoldo II iniziò una profonda riforma dell’Università, che prevedeva, fra l’altro, la divisione della Sectio physico-mathematica nel Collegium mathematicorum e nel Collegium physicorum. A seguito di questa divisione a Luigi Pacinotti fu assegnata, contro la sua volontà, la Cattedra di Fisica Tecnologica afferente al primo Collegio, mentre alla Cattedra di Fisica Sperimentale, afferente al secondo Collegio, fu chiamato Carlo Matteucci. L’arrivo del Matteucci alla Cattedra di Fisica Sperimentale è da considerarsi di grande importanza soprattutto perché il Matteucci fu il primo a pensare ad un laboratorio di Fisica che non servisse solamente alla didattica ma anche alla ricerca: si occupò di elettricità e magnetismo, di induzione elettromagnetica, di meteorologia, di telegrafia, ed è considerato fra i fondatori dell’elettrofisiologia per aver scoperto la generazione di corrente elettrica generata dallo sforzo muscolare. Nel 1844, insieme a Riccardo Felici e Enrico Betti, Matteucci fondò la rivista Il Cimento (poi Il Nuovo Cimento dal 1855) e nel 1862, già senatore del Regno d’Italia, fu ministro dell’Istruzione Pubblica. Alla fine del periodo lorenese, a Pisa inizia l’opera di una figura di fondamentale importanza per la scienza: Antonio Pacinotti. Nato a Pisa il 7 giugno 1841, nel 1856, finiti gli studi liceali, superò gli esami di ammissione ai corsi di matematiche applicate all’Università di Pisa e l’anno seguente conseguì il diploma di Baccelliere. Sui suoi appunti personali, datati 1858, si trovano descrizioni relative all’invenzione della prima dinamo a corrente continua: un piccolo dispositivo la cui parte principale è costituita da un anello toroidale sul quale è avvolta una spirale di filo conduttore chiusa su se stessa (denominata elica chiusa). L’anello, posto in un campo magnetico esterno, ruota se si fornisce corrente oppure produce corrente se lo si fa ruotare manualmente. Si tenga presente che al tempo di Pacinotti tutte le macchine per la produzione di corrente elettrica fornivano esclusivamente correnti alternate che, al bisogno, venivano raddrizzate con dei dispositivi chiamati commutatori. Questo anello dinamo-motore si perfezionò poi in un’altra macchina, costruita da Pacinotti nel 1860, e da tutti conosciuta come macchinetta di Pacinotti, presente tuttora fra gli strumenti scientifici del Dipartimento di Fisica. Antonio Pacinotti, diventato professore di Fisica Sperimentale a Cagliari nel 1873 e poi professore di Fisica tecnologica a Pisa nel 1881, realizzò numerose altre invenzioni e s’interessò di molti argomenti di carattere scientifico; qui ricordiamo solamente che a lui si deve l’invenzione della trazione elettromagnetica. Telescopio a riflessione di Short, XVIII sec. Pisa, Centro per la Conservazione e lo Studio degli Strumenti Scientifici, Dipartimento di Fisica 35 Nella prima metà dell’800, Pisa divenne un centro di primo piano nel settore delle scienze naturali. Allo sviluppo dell’Orto botanico e delle collezioni del Museo di storia naturale (nel 1787 era stato acquistato lo splendido corpus di tavole ornitologiche eseguite da Violante Vanni e da Lorenzo Lorenzi per la Storia naturale degli Uccelli trattata con metodo ed adornata di figure intagliate in rame e miniate al naturale... di Saverio Manetti, stampata a Firenze tra il 1767 e il 1776), si univa una produzione tipografica e calcografica in grado di lasciare testimonianze di rilevanza assoluta. La Pomona Italiana di Giorgio Gallesio rappresenta una delle più felici testimonianze dell’illustrazione naturalistica del XIX secolo. Stampata tra il 1817 e il 1839 nella tipografia “Niccolò Capurro” del celebre letterato e scrittore d’arte Giovanni Rosini, l’opera intendeva censire le varietà fruttifere nazionali attraverso uno splendido apparato iconografico, raggiungendo esiti pari, se non superiori, alle più importanti opere pomologiche e botaniche pubblicate in Europa agli inizi del secolo. Episodio unico e per molti aspetti irripetibile – proprio per la qualità e complessità dell’impresa editoriale – la Pomona Italiana costituì un esempio prontamente seguito da altri naturalisti. Dal 1818 al 1824, infatti, ancora dalla tipografia “Niccolò Capurro” veniva stampata la Flora Italiana ossia raccolta delle piante più belle che si coltivano nei giardini d’Italia, realizzata da Gaetano Savi e le cui eleganti tavole illustravano esemplari dell’Orto botanico pisano. 36 Saverio Manetti, Storia naturale degli uccelli, Firenze, Stamperia Moückiana, 1767-1776. Pisa, Biblioteca Universitaria Riflesso di un gusto e di una cultura che in orti e giardini aveva trovato continue fonti di ispirazione figurative e letterarie, tali opere documentavano soprattutto quel clima di forte impegno intellettuale culminante con la celebre prima riunione degli scienziati tenuta a Pisa nel 1839, avvenimento che, con la sovrana protezione di Leopoldo II, apriva una nuova e più moderna stagione della scienza italiana. Nel 1823 veniva stampato a Pisa, dalla tipografia di Niccolò Capurro, il primo fascicolo della Anatomia Universa di Paolo Mascagni, “opera certamente unica negli annali dell’Anatomia”, promossa da Andrea Vaccà Berlinghieri, Giacomo Barzellotti e Giovanni Rosini. La “Grande Anatomia” del medico senese, scomparso nel 1815, veniva ammirata per le splendide tavole eseguite dall’ “egregio incisore anatomico” Antonio Serantoni. La recensione apparsa nel 1824 sul “Nuovo Giornale de’ Letterati” di Pisa lodava “la perizia con cui conduce a compimento e perfezione le tavole tirate in colori, per mezzo del pennello, onde ogni parte precisamente apparisca come nel cadave- re si vede...”; e si rallegrava “con la Toscana, sempre feconda di belli e grandi ingegni, e patria del nostro sommo Anatomico, e più ancora coll’Italia madre e maestra delle più colte nazioni, ove l’anatomia rinacque, ed ove si è fatta adulta, per la pubblicazione del più onorevole, e durevole testimone del suo perfezionamento ricevuto fra noi...” Antonio Serantoni, Tavole anatomiche dalla Grande Anatomia del corpo umano di Paolo Mascagni, Pisa, Capurro, 1823-1831. Pisa, Scuola Medica, Istituto di Anatomia 37 L’Orto botanico, l’antico Giardino dei Semplici dell’Università di Pisa fondato nel 1544 (primo al mondo), in epoca lorenese conobbe un periodo di grande splendore e vivacità grazie a importanti figure di naturalisti come Giorgio Santi, Gaetano Savi, Paolo Savi. Agli inizi del XIX secolo si presentava come una realtà scientifica di grande livello sia in Italia che all’estero, testimoniata da scambi di materiali, di semi, di volumi, di exsiccata, di esperienze tecniche di coltivazione e acclimatazione di molte specie autoctone e esotiche. L’Orto botanico, con il suo Museo, fu sede delle sessioni dedicate alla Botanica e alla Fisiologia vegetale durante la Prima Riunione degli Scienziati Italiani del 1839, presiedute dal Praefectus Gaetano Savi. Nella Terza Adunanza, Giovanni Battista Amici lesse la sua celebre memoria intitolata Sul processo col quale gli ovuli vegetabili ricevono l’azione fecondante del polline e dimostrò la validità delle proprie osservazioni valendosi direttamen- L. Calamai, Modello in cera della fecondazione della Cucurbita pepo, 1836-1839. Pisa, Museo Botanico 38 te del modello in cera, preparato da Luigi Calamai, riproducente la Fecondazione delle piante Fanerogame scoperta dall’Amici nel Melopepo (Pepo macrocarpus), cioè della zucca, il cui nome scientifico è Cucurbita pepo L. Le spiegazioni del fenomeno e la qualità dell’opera entusiasmarono i convenuti e lo stesso Leopoldo II, il quale decise di acquistare il modello della Zucca, ancora oggi conservato nel Museo botanico presso il Giardino dei Semplici pisano Gaetano Savi, Flora Italiana, Pisa, Capurro, 1818-1824. Pisa, Biblioteca Universitaria Paolo Savi, nominato nel 1818 aiuto del padre Gaetano nella cattedra di botanica, nel 1823 era succeduto a Giorgio Santi nella direzione del Museo e nell’insegnamento della storia naturale, alternando i corsi di geologia e mineralogia a quelli di zoologia e anatomia comparata. Ben presto iniziava a preparare gli animali con tale maestria e accuratezza da meritarsi una fama internazionale: alla collezione ornitologica toscana, che diventerà un modello per molte raccolte conservate nei principali musei naturalistici del mondo, si univano i gruppi di animali che stupivano – e stupiscono ancor oggi, nei locali del Museo di Storia naturale e del Territorio nella Certosa di Calci – per complessità e fantasia. Il diorama del cinghiale con cani (“il Cinghiale ferito da lancia, sbranato che ha un cane, tenta di fuggire ma un altro cane lo afferra per un orecchio e lo arresta...”) realizzato tra il 1821 e il 1824, è quasi sicuramente uno dei primi diorami al mondo noti e documentati: l’insieme dei preparati, la ricostruzione della scena e, in ultimo, il pregevole contenitore con il basamento e maniglie e la teca con vetri soffiati, rendono l’oggetto un’opera unica nel suo genere e di indubbio valore museografico, museologico, zoologico e tassidermistico, e un valore aggiunto delle collezioni zoologiche dell’ateneo pisano. Paolo Savi, Lotta tra cinghiale e cani, 1821-1824. Calci, Museo di Storia Naturale e del Territorio 39 Nelle memorie redatte negli anni dell’esilio, Lepoldo II scriverà che la Toscana era a suo avviso la Sassonia del Sud, percorsa nelle sue viscere da filoni estesissimi di carbon fossile. Il loro sfruttamento avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili per il suo Granducato. Sin dai primissimi anni di regno, Leopoldo aveva cercato di imitare altri paesi europei dotando l’Università di Pisa di un moderno insegnamento della geologia affidato a Paolo Savi, da anni impegnato in classiche ricerche sull’ornitologia toscana e che nel 1833 realizzava la prima versione della Carta Geologica dei Monti Pisani. Nel 1842 la cattedra di geologia veniva affidata al napoletano Leopoldo Pilla, che morì a Curtatone il 29 maggio del 1848, e quindi a Giuseppe Meneghini. Carta geologica dei Monti Pisani levata dal vero dal Prof. Paolo Savi nel 1832. Pisa, Dipartimento di Scienze della terra Carta geologica dei Monti Pisani levata dal vero dal Cav. Prof. Paolo Savi nel 1832, aumentata e corretta nel 1858. Pisa, Dipartimento di Scienze della terra 40