Sovrani
’E
nel giardino d
uropa
Pisa e i Lorena
Guida breve a cura di
Romano Paolo Coppini
Alessandro Tosi
Testi di
Franco Angiolini,
Emanuele Barletti,
Danilo Barsanti, Giuliana
Biagioli, Alessandro
Breccia, Edda Bresciani,
Stefano Bruni, Moira
Brunori, Mariagiulia
Burresi, Maria Cataldi,
Giulia Cavallo, Caterina
Chiarelli, Romano Paolo
Coppini, Pietro Corsi,
Fabio Garbari, Orsola
Gori, Gaetano Greco,
Eva Gregorovičova,
Maria Teresa Lazzarini,
Claudio Luperini,
Marco Manfredi, Dario
Matteoni, Maria Augusta
Morelli Timpanaro,
Benedetta Moreschini,
Silvia Pagnin, Emanuele
Pellegrini, Stefano
Renzoni, Mirella
Scardozzi, Federico
Tognoni, Alessandro Tosi,
Alessandro Volpi, Alberto
Zampieri, Marco Zuffi
Pacini
Editore
Arte
SOVRANI
NEL GIARDINO D’EUROPA
PISA E I LORENA
Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale
20 settembre - 14 dicembre 2008
Sotto l’Alto Patronato del
Presidente della Repubblica
Italiana
Coordinamento tecnico
amministrativo
Venanzio Guerrini
Con il patrocinio di
Presidenza del Consiglio dei
Ministri
Presidenza della Regione
Toscana
Progettazione e realizzazione
dell’allestimento
Marco Guerrazzi
Alessandro Sonetti
Enti promotori
Provincia di Pisa
Comune di Pisa
Fondazione Cassa di
Risparmio di Pisa
Società Storica Pisana
Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E.
per le province di Pisa e Livorno
Università di Pisa
Collaborazione scientifica
Archivio Nazionale di Praga
Biblioteca Nazionale di Praga
Archivio di Stato di Firenze
Archivio di Stato di Pisa
Mostra a cura di
Romano Paolo Coppini
Direzione scientifica
Romano Paolo Coppini
Alessandro Tosi
Comitato scientifico
Romano Paolo Coppini
(coordinatore scientifico del
progetto), Franco Angiolini,
Clara Baracchini, Danilo
Barsanti, (†) Rodolfo
Bernardini, Giuliana Biagioli,
Maurizio Bossi, Edda Bresciani,
Mariagiulia Burresi, Pietro
Corsi, Mario Ferretti, Fabio
Garbari, Orsola Gori, Eva
Gregorovič ova, Maria Teresa
Lazzarini, Riccardo Lorenzi,
Guglielmo Maria Malchiodi,
Danilo Marrara, Dario
Matteoni, Silvia Pagnin, Sandra
Pesante, Gian Bruno Ravenni,
Stefano Renzoni, Carlo Sisi,
Giovanna Tanti, Maria Augusta
Morelli Timpanaro, Lucia
Tongiorgi Tomasi, Alessandro
Tosi, Alessandro Volpi
Collaborazione organizzativa
Gli Amici dei Musei e
Monumenti Pisani
si ringrazia in particolare il
presidente Mauro Del Corso
Segreteria organizzativa
Jenny Del Chiocca
Marco Paoletti
Federico Tognoni
Sezione didattica
Valeria Barboni
Mariagiulia Burresi
Alessandra Peretti
Ufficio stampa
Pacini Editore
Spaini & Partners
Dorado Communications
Promozione
Pacini Editore
Dorado Communications
Assicurazioni
Service Assicurazioni
Cattolica Assicurazioni, Pisa
Coordinamento spostamenti
delle opere d’arte del Museo
Nazionale di Palazzo Reale
Pierluigi Nieri
Allestimento
A.S. Impianti s.r.l., Ospedaletto
Barbj, Firenze
Colombini Impianti, Cascina
Erisist, Firenze
Fantozzi s.r.l., Ospedaletto
Gigante Legno, Livorno
Idea Gesso, Calcinaia
Idealfer s.a.s.
Idros, Livorno
Neon Errepi s.a.s, Ospedaletto
Pubblidea, Pisa
Sipario Allestimenti, Cascina
Stefano Vigilucci, Asciano
Trasporti
Kunsttrans Praha, Praga
Dafne, Firenze
Arteria, Milano
Bookshop e biglietteria
Gruppo Pacini Editore
Albo dei prestatori
Archivio di Stato di Firenze,
Firenze
Archivio di Stato di Pisa, Pisa
Biblioteca Universitaria, Pisa
Centro per la conservazione
e lo studio degli strumenti
scientifici, Dipartimento di
Fisica “E. Fermi”, Università
di Pisa
Dipartimento di Scienze della
Terra, Università di Pisa
Dipartimento di Scienze
Storiche del Mondo Antico,
Università di Pisa
Fondazione Cassa di
Risparmio di Firenze, Firenze
Fondazione Cassa di
Risparmio di Pisa, Pisa
Fondazione Teatro Verdi, Pisa
Galleria d’Arte Moderna,
Palazzo Pitti, Firenze
Galleria del Costume, Palazzo
Pitti, Firenze
Istituto Matteucci, Viareggio
Musei Provinciali di Gorizia,
Gorizia
Museo di Storia Naturale e del
Territorio, Calci (Pisa)
Museo Nazionale di Palazzo
Reale, Pisa
Národní Galerie, Praga
Národní Archiv, Praga
Národní knihovna České
republiky (National Library
of the Czech Republic, Music
Dept.), Praga
Opera Primaziale, Pisa
Pražská Konservatoř, Praga
Scuola Medica, Istituto
di Anatomia Umana,
Dipartimento di Morfologia
Umana e Biologia Applicata,
Università di Pisa
Maurizio Siniscalco, Napoli
Società Toscana per la Storia
del Risorgimento, Firenze
Si ringraziano tutti gli Enti e i
direttori dei Musei che hanno
generosamente acconsentito
ai prestiti delle opere e tutti
coloro che, a vario titolo,
hanno offerto la loro preziosa
collaborazione e in particolare
Alberto Ambrosini, mons.
Aldo Armani, Umberto
Ascani, Barbara Baldasseroni
Corsini, Floridia Bandettini,
Anna Bellinazzi, Aureliano
Benedetti, Piero Benetti,
Mauro Bernardini, Marcello
Berti, Anna Bosco, Claudio
Casini, Marco Cini, Simonella
Condemi, Emilio Cristiani,
Costanza D’Elia, Gigetta
Dalli Regoli, Gianluca De
Felice, Massimo Donati, Eva
Drasarova, Fedora Durante,
Antonio Fascetti, Neri Fatigati,
Diego Fiorini, Gabriella
Garzella, Simona Garzella,
Annamaria Giusti, Maria
Adriana Giusti, Diego Guidi,
Laura Jandolo, Vlastimil
Jezek, Milan Knizak, Blanka
Kubikova, Walter Landini,
Ilario Luperini, Alvaro Maffei,
Alessandra Martina, Giuliano
Matteucci, Francesco Mazzoni,
Donatella Montanari, Laura
Mori, Giuseppe Moriello,
Eugenia Naldini Segre,
Gianfranco Natale, Magda
Nemcova, Francesco Nerli,
Ida Niccolini, Rolando Nieri,
Milan Novak, Gino Nunes,
Sara Pallucco, Alessandro
Panaja, Paolo Panattoni,
Antonio Paparelli, Paolo
Pazzini, Antonio Pellegrini,
Aurelio Pellegrini, Cristina
Pennyson, Zuzana Petraskova,
Claudio Poeta, Petr Pribyl,
Umberto Rinaldi, Sandro
Rogari, Mauro Rosi, Adela
Ruzickova, Raffaella Sgubin,
Flora Silvano, Maurizio
Siniscalco, Gabriele Tanzi,
Paolo Tongiorgi, Giorgio Tori,
Ivana Tosi Cantenne, Roberto
Vergara Caffarelli
il personale di vigilanza del
Museo Nazionale di Palazzo
Reale
Catalogo a cura di
Romano Paolo Coppini
Alessandro Tosi
Referenze fotografiche
Stefano Del Ry
Stefano Casadio
Gabinetto Fotografico della
Soprintendenza Speciale per il
Patrimonio Storico, Artistico ed
Etnoantropologico e per il Polo
Museale della città di Firenze
Martin Hrubeš
Enrico Mangano
Domenico Pineider
Luciano Romano
© Copyright 2008
by Pacini Editore SpA
ISBN 978-88-6315-038-4
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“... nelle Cause Criminali, e nel Giudizio dei Delitti e nella condanna dei Rei non dovrà intervenire in modo
alcuno l’autorità predetta (Sovrano), ma dovranno puramente e con sana, e costante intelligenza osservarsi
le Leggi, e specialmente in tutte le sue parti la Riforma e la nuova Legge Criminale colla data in Pisa de’
30 novembre 1786, poiché la sicurezza personale dei sudditi nelli Stati di Toscana non deve essere esposta in
modo alcuno a verun atto di arbitrio, ma protetta dall’autorità e soggetta unicamente alle Leggi e conservarla
in benefizio universale, mediante la punizione di chi l’offende con delitti”.
(«Progetto di Costituzione per la Toscana», 1787)
Appena giunto in Toscana,
Pietro Leopoldo aveva visto «con
aborrimento» che «per l’infelicità
dei tempi e turbolenze», con cui era
stato stabilito il regime Mediceo,
«era sorto un governo senza veruna
legge fondamentale, ed interamente arbitrario ed ingiusto, perché
fondato sulla violenza e non sul
consenso dei popoli che solo possono legittimarne l’istituzione».
Scuotere «il giogo della tirannia
e dell’errore» rappresentava il fine
perseguito dall’opera riformatrice
di Pietro Leopoldo: un’opera attuata attraverso le leggi sulla libertà commerciale, la soppressione
Wolfgang Amadeus Mozart, La
Clemenza di Tito, ca. 1822. Praga,
Biblioteca Nazionale
dell’appalto generale, la riforma
dei dazi e gabelle, la riforma municipale, la riforma della giustizia
penale. E che avrebbe dovuto trovare il suo necessario e ineludibile
sbocco nella legge sulla rappresentanza nazionale toscana.
«... abbiamo sempre riguardato come nostro principal dovere di far sperimentar ai nostri
amatissimi sudditi un governo»,
assicurando loro «la possibile
umana felicità nell’onesto esercizio della libertà civile e nel sicuro e pacifico godimento delle
loro sostanze»
(Proemio al «Progetto di
Costituzione per la Toscana»,
1787)
Nel «Progetto di Costituzione
per la Toscana» del 1787, conservato presso l’Archivio Nazionale
di Praga, la città di Pisa, dove la
corte lorenese trascorreva tanta
parte del periodo invernale, veniva individuata come il luogo più
qualificato per apprezzare l’emanazione della Legge Criminale
Leopoldina.
Purtroppo il «Progetto di Costituzione per la Toscana» rimase
nello scrittoio dello studiolo di
Pietro Leopoldo e in quel cassetto lo avrebbero conservato i suoi
successori.
Della grandiosa e innovativa
opera del granduca, soprattutto
la Legislazione Criminale avrebbe
continuato ad essere ammirata in
Progetto Costituzione per la Toscana,
1787. Praga, Archivio Nazionale
Europa. In occasione della spettacolare cerimonia della sua incoronazione a Praga, il 6 settembre
1791, Wolfgang Amadeus Mozart
giubilava l’umanità e generosità
del sovrano illuminato musicando
il testo metastasiano La clemenza
di Tito, che vede l’imperatore romano perdonare chi congiurò contro di lui, preferendo essere amato
piuttosto che temuto.
Nella Toscana della Restaurazione, il mito dell’opera riformatrice e della costituzione «inattuata»
resisteva ancora nelle speranze dei
ceti intellettuali e in alcune frange
degli ambienti governativi.
Il monumento a Pietro Leopoldo,
voluto dalla Deputazione comunale
pisana al centro della ristrutturata
piazza Santa Caterina (oggi Martiri della Libertà) e inaugurato nel
1833, assumeva il significato di un
ambiguo consenso attraverso il messaggio che l’opera di Luigi Pampaloni poteva suggerire, con allusioni
alla vasta opera del sovrano capace
di indirizzarsi nei più diversi campi
e suggerita nel monumento dalla
mano poggiata su un volume ed un
corposo carteggio, simboli della sua
attenzione ai fermenti culturali coevi, che egli seppe tradurre in felici e
saggi atti legislativi.
Tra la fine degli anni trenta e i
primi anni quaranta, Pisa aveva assunto i tratti di una capitale culturale, in grado di rivestire un ruolo di
primo piano nel panorama europeo
grazie soprattutto ad alcuni docenti
della sua Università come Paolo e
Gaetano Savi, Giovanni Carmignani, Pietro Capei, Ippolito Rosellini,
Luigi Puccinotti, Maurizio Bufalini
ed altri ancora, noti e considerati a
livello internazionale.
La Prima Riunione degli Scienziati Italiani, che nel 1839 riunì a
Pisa scienziati italiani ed europei,
fu fortemente voluta dalla cultura moderata toscana, da Cosimo
Ridolfi, Giovan Pietro Vieusseux,
Gino Capponi e Gaetano Giorgini,
sostenuti dal granduca e dal principe Carlo Luciano Bonaparte.
Questa riunione doveva rappresentare la più chiara e definitiva
espressione della legittimazione e
collegamento dell’Università di Pisa
alle prospettive scientifiche europee.
Dalle discussioni delle sei sezioni,
in cui si articolò il Congresso, che
si tenne dal 15 ottobre 1839 e rac
Maria Luisa e Pietro Leopoldo, Napoli, Collezione Siniscalco
colse l’adesione di quattrocento
studiosi italiani e quaranta stranieri,
emerse con chiarezza la possibilità
della scienza e degli organismi cul-
turali di offrire soluzioni pratiche a
cruciali problemi minerari, agronomici, di sistemazione idraulica e di
arricchimento dei terreni.
Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani in Pisa del 1839.
Praga, Archivio Nazionale, particolare
Nel biennio riformatore (184648), dopo la concessione della
libertà di stampa s’imponeva la
concessione di una carta costituzionale.
Il 17 febbraio 1848 lo Statuto
fu concesso anche in Toscana, ed il
21 fu letto nell’atrio della Sapienza davanti alla statua di Galileo.
Centofanti, di fronte ad un gran
concorso di folla, toccava le corde
della riconoscenza a Leopoldo II,
che aveva saputo «soddisfare alle
esigenze delle cose e ai giusti voti
della nazione».
Nel frattempo «l’esigenza delle
cose» mutava con grande rapidità
nell’intero scacchiere europeo, e lo
stesso Centofanti il 15 marzo lesse
la famosa lezione Sul Risorgimento, in cui esortava Carlo Alberto
ad «impugnare la fulminatrice
spada». Nello stesso giorno alle
truppe regolari inviate per difendere i confini dello stato, si univa
il tripudiante Battaglione Universitario. Ben 389 uomini, guidati
da una trentina di docenti, sotto
il comando di Mossotti e Matteucci, dopo avere attraversato la città,
partivano al canto di «Addio, mia
bella addio».
In questo clima appassionato,
il 29 maggio si giunse al compimento del sacrificio tanto atteso da
essere raccontato solo attraverso le
voci giunte dal fronte, senza notizie certe, nei termini più luttuosi:
«Oggi, l’Ascensione è giornata di
grande mestizia per la Toscana».
L’armata pisana era stata battuta sul campo di Curtatone «da
ottomila austriaci in una loro sortita dalla fortezza. Hanno tutti resistito al fuoco eroicamente, ma in
quella posizione non essendo che
mille, sopraffatti dal numero furono quasi tutti sacrificati».
La strenua resistenza dei volontari pisani, essenziale per la vittoria
piemontese del giorno seguente a
Goito, venne immediatamente riferita con toni di accentuata passionalità «unicamente paragonabile
al fatto delle Spartane Termopili»,
figura simbolica intrisa di eroismo
antico, ripresa poi in tanti scritti e
commemorazioni.
Il racconto di tanto leggendaria resistenza fu immediatamente
diffuso dalla stampa piemontese:
«per cinque ore sostennero l’impeto di un nemico immensamente
maggiore in numero»; i combattenti «non si ritirarono che uccisi
tutti i loro artiglieri meno uno che
solo rispondea ancora con tre pezzi d’artiglieria ai ventidue pezzi
del nemico; nudo e solo per essersi dovuto togliere i panni che gli
bruciavano addosso».
Si trattava del cannoniere
Elbano Gasperi, la cui immagine avrebbe avuto il meritato
successo e notorietà, riprodotta
Pietro Senno, I Toscani a Curtatone [I Toscani a Curtatone. Campagna del 1848, veduta pres a sul ponte dell’Osone],
1861. Firenze, Collezione Ente Cassa di Risparmio di Firenze
Antonio Puccinelli, Ritratto
di giovane volontario toscano,
1849. Firenze, Galleria d’Arte
Moderna di Palazzo Pitti
in stampe e incisioni fin dal 17
luglio.
Documento suggestivo è il dipinto I Toscani a Curtatone. Campagna del 1848, veduta presa sul
ponte dell’Osone, realizzato nel
1861 dall’elbano Pietro Senno
(che prese parte al contingente
toscano) ed esposto in quell’anno
all’Esposizione Italiana di Firenze.
La scena illustrata da Senno è
ambientata presso il villaggio di
Curtatone, con la linea del fronte
sullo sfondo, il caseggiato della
locanda sulla sinistra, il ponte sull’Osone in primo piano e la strada
principale. Al centro della rappresentazione, il generale Cesare De
Laugier sul cavallo nero che incita i suoi, affiancato, sul cavallo
bianco, quasi certamente dal suo
luogotenente, Giuseppe Cipriani;
sulla destra, due portantini reggono la barella con un ferito e due
commilitoni si sorreggono l’uno
con l’altro di cui uno seminudo,
forse l’eroico cannoniere Elbano
Gasperi.
La restaurazione granducale
del 1849 rappresentò la fine del
sogno liberale della Toscana tutta,
che trovò la sua più dolorosa sanzione nella revoca dello Statuto.
Una cupa atmosfera piombò sugli ambienti delle due Università,
Siena e Pisa, che avevano dato un
contributo di eroismo divulgato
immediatamente dalla stampa internazionale.
A ricordare la gloriosa Campagna del ’48, nell’Aula Magna della
Sapienza rimase soltanto il tricolore, cucito per il Battaglione Universitario dalle donne di Reggio e
portato a Pisa dai reduci della prima guerra d’indipendenza. Questa
bandiera acquisì immediatamente
l’alto valore di simbolo del sacrificio del corpo universitario e del
suo sentito impegno politico per
un rinnovato inizio delle vicende
dell’ateneo e della città, e solo il
29 maggio 1859 poté tornare nella manifestazioni ufficiali.
La politica, le istituzioni
L’Università e i ceti
dirigenti
All’avvento dei Lorena la sostanziale staticità della situazione
economica cittadina non faceva
che confermare come il destino
della comunità di Pisa e dei suoi
ceti dirigenti fosse sempre più legato al mantenimento dell’ormai
consolidato ruolo di importante
centro “burocratico-amministrativo” del granducato.
Le tre principali istituzioni che vi
risiedevano, l’Università, l’Ordine di
Santo Stefano e l’Uffizio dei Fossi,
rappresentavano infatti altrettante
fonti di risorse finanziarie pubbliche
e di legittimazione sociale in un nucleo urbano che di lì a qualche anno
avrebbe peraltro visto ulteriormente
confermata la propria funzione “di
rappresentanza” dall’acquisizione
dello status di residenza invernale
del granduca e della sua corte.
Le élites locali difesero con
determinazione i benefici loro garantiti, in maniera non troppo indiretta, dalla presenza dell’Uffizio
dei Fossi e dall’Ordine di Santo
Stefano: il primo era una sorta di
farraginoso e costoso «ministero
dei lavori pubblici» di quell’area,
mentre il secondo offriva opportunità di carriera nel suo ridondante “apparato” e soprattutto
possedeva la preziosa prerogativa
di “nobilitare”, conferendo il titolo
di cavaliere a chi acquistasse una
commenda di padronato.
Nonostante l’accanita resistenza del magistrato locale, Pietro
Leopoldo riformò l’Uffizio dei
Fossi nel 1775, snellendone la
struttura e subordinandone l’azione amministrativa alla figura del
provveditore di nomina granducale, pur cercando una mediazione
con gli interessi locali.
Negli stessi anni veniva pure
completata la riorganizzazione
Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani in Pisa del 1839.
Praga, Archivio Nazionale
dell’Ordine di Santo Stefano, anch’esso oggetto di pesanti attacchi
per la sua dispendiosa esistenza,
riconducendolo
definitivamente sotto il controllo della corona
e ridimensionandone la pesante
struttura, ma accentuando il carattere “pisano” dell’istituzione;
progressivamente, infatti, le principali famiglie della città avrebbero
avuto modo di disporre con ampia
discrezionalità degli incarichi più
ambiti. D’altro canto, nel corso
del Settecento a Pisa proprio le opportunità offerte dall’Ordine stefaniano propiziarono una graduale
evoluzione dei ceti dominanti: la
citata prerogativa del cavalierato
nobilitante si era infatti configurata come un ideale canale di cooptazione a disposizione dell’aristocrazia, che in qualche significativo
caso aveva contribuito a realizzare
un embrionale amalgama tra pos-
Cerimonia in Santo Stefano dei Cavalieri. Praga,
Archivio Nazionale
sidenti, nobili e “borghesi”, facendo forse assumere all’aristocrazia
pisana connotati originali.
Anche nel caso della terza istituzione cittadina, l’università, Pietro
Leopoldo puntò a creare una struttura più razionale e ad accentuarne il grado di subordinazione alle
direttive granducali. Nell’ottica del
“principe illuminato” il sistema universitario, che attraversava una fase
di faticosa transizione nel tentativo
di rinnovare un modello di formazione di impronta aristotelico-scolastica ormai non più adeguato ai
grandi mutamenti scientifico-culturali del “secolo dei Lumi”, doveva
orientarsi a diventare un canale di
reclutamento della classe dirigente
e di una efficiente burocrazia statale nonché diventare interprete di
un “sapere utile” e pubblico consacrato dall’approvazione sovrana.
Di fronte a simili riforme, che
facevano affiorare la cifra politica
del disegno leopoldino, il ceto dominante locale continuò tuttavia
ad opporre un sottile ostruzionismo, fino a rinverdire – nella
successiva stagione ferdinandea
e negli anni del Regno d’Etruria
– velleitarie speranze di conservare “a oltranza” i privilegi del
passato.
M.lle De La Morinière , Il cortile della Sapienza con
la statua di Galileo, 1840. Pisa, Fondazione Cassa di
Risparmio di Pisa
Sotto l’impero napoleonico,
tali élites, adeguatamente rappresentate nei massimi incarichi pubblici cittadini, assecondarono ulteriormente il processo di ralliement
con alcune figure “borghesi”.
Il riassetto istituzionale seguito al ritorno dei Lorena inaugurò
una fase di crescente divergenza
con il potere monarchico, che con
Leopoldo II giunse a perseguire
un modello di «paternalismo illuminato» ben poco aperto alla
mediazione con i ceti dirigenti. Gli
inevitabili attriti così suscitati furono solo parzialmente leniti dalla
scelta granducale di ripristinare
l’Ordine di Santo Stefano dopo
l’abolizione in età francese, mentre l’altra istituzione universitaria,
rinnovata in profondità dall’inserimento nel sistema imperiale francese, vedeva ripristinato l’ordinamento didattico precedente senza
peraltro subire l’“epurazione” di
prestigiosi insegnanti compromessi con il regime napoleonico.
La strisciante conflittualità tra i
gruppi dominanti e la corona sembrò stemperarsi alla fine degli anni
Trenta dell’Ottocento, quando proprio a Pisa, con il Primo congresso
degli scienziati e ancor più con la
riforma universitaria di Gaetano
Giorgini, emerse con la massima
evidenza la rinnovata, anche se
transitoria, sintonia tra il granduca
e i notabili toscani. L’ambizioso
rilancio dell’ateneo pisano suscitò
ovviamente i più vivi apprezzamenti delle massime cariche comunitative per le interessanti prospettive di rivitalizzazione della città
che portava con sé, sotto il profilo
culturale ma anche sotto quello
economico; diventata uno dei centri universitari più importanti della penisola, negli anni Quaranta
Pisa si distinse per una peculiare
vivacità politica, sia pure ricca di
ambiguità e approssimazioni, che
coinvolgeva in un unico slancio
“nazionale” cittadini, studenti e
molti professori dell’ateneo.
Quella stagione, conclusasi con
la spedizione degli universitari a
Curtatone e Montanara, fu definitivamente accantonata dalla decisione granducale, nel 1851, di abrogare la riforma trasferendo a Siena
parte cospicua di insegnamenti e
studenti. Immediatamente si elevò
la vibrante protesta del consiglio
municipale di Pisa: una rottura con
il potere granducale che non sarebbe stato più possibile ricomporre.
La riforma comunitativa
In età lorenese, le riforme dell’ordinamento comunale furono
ben quattro (datate rispettivamente 1776, 1816, 1849, 1853), cui
vanno aggiunte quella napoleonica del 1808 e l’altra del governo
provvisorio toscano del 1859.
La prima grande riforma amministrativa importante fu a Pisa
quella delle comunità, emanata
da Pietro Leopoldo il 17 giugno
1776, volta a concedere ampia
autonomia amministrativa all’ente
locale e ad affiancare ai nobili nel
maneggio degli affari i più facoltosi possessori. Il regolamento stabiliva che la comunità fosse rappresentata da un magistrato formato
da 3 gonfalonieri e 3 priori e da
un consiglio generale composto
da 12 residenti, tutti nominati per
mezzo di tratta o estrazione.
Sotto la dominazione napoleonica tutto cambiò in campo
amministrativo con la nascita del
dipartimento del Mediterraneo,
della sottoprefettura di Pisa, delle
mairies e la soppressione dell’Ufficio dei Fossi nel 1808, nella chiara
volontà di porre qualsiasi interven-
to pubblico sotto l’unicità direttiva
ed esecutiva di un’amministrazione strettamente dipendente dal
ministero dell’Interno.
Ogni comune aveva a capo un
maire (a Pisa ricoprirono tale carica Giovan Battista Ruschi e Tommaso Poschi), coadiuvato da uno o
più aggiunti (sorta di assessori tutti
nominati dal potere centrale) e dal
consiglio municipale elettivo, composto da un numero di membri
proporzionale alla popolazione.
La riforma ferdinandea del 16
settembre 1816 fu una via di mezzo
fra autonomia leopoldina e centralismo napoleonico e la sua novità
principale consisté nel fatto che il
gonfaloniere diveniva un funzionario
statale con il quale il governo operava un’efficace azione di controllo.
Per trovare novità in materia
amministrativa, bisogna arrivare
al clima di entusiasmo creato dalle
concessioni liberali di Leopoldo
II del 1847-48, quando si tornò
più volte a parlare di una riforma municipale che sostituisse il
vecchio regolamento ferdinandeo
del 1816, ormai ampiamente criticato per il suo eccessivo accentramento. Fu nominata un’apposita
commissione
per lo studio
della riforma
comunale e nel
settembre 1848
fu rimesso dal sovrano all’esame delle
assemblee legislative un
progetto di legge municipale, ma
le vicende di quei mesi impedirono la sua definitiva approvazione.
Con la nuova legge municipale del 20 novembre 1849 ogni
comune era rappresentato da un
consiglio comunale eletto a scrutinio segreto dai contribuenti in
numero proporzionale agli abitanti della comunità (al comune
di Pisa toccavano 32 consiglieri e
4 supplenti) e da un gonfaloniere
assistito dal collegio dei priori con
libera amministrazione di tutte le
proprie entrate. Il gonfaloniere,
cui spettava di mettere in esecuzione le decisioni del consiglio, era
nominato dal granduca fra i componenti del consiglio comunale
stesso e restava in carica 4 anni.
Era questa in assoluto, per quanto promulgata nella seconda restaurazione del 1849, la prima legge
comunale toscana che introduceva
il sistema elettorale, sia pure per il
solo consiglio comunale, dopo secoli di amministratori scelti esclusivamente per tratta fra gli imborsati.
hL’ultimo provvedimento sull’amministrazione locale assunto da un governo toscano prima
dell’annessione al regno d’Italia
si ebbe con i decreti del governo
provvisorio e relativo regolamento
del 31 dicembre 1859, che in sostanza ripristinarono l’ordinamento comunale elettivo del 1849.
In alto:
Stemma Asburgo Lorena, XVIII
secolo. Pisa, Archivio di Stato
Carta dello Stato Pisano, post 1825.
Praga, Archivio Nazionale
Gli ebrei a Pisa in età lorenese
Per festeggiare Pietro Leopoldo,
la Nazione ebrea di Pisa non badò
a spese. L’importo della “colletta”
tra i connazionali fu aumentato di
ben sette volte per mettere insieme
la somma che occorreva non solo
per illuminare la facciata di uno dei
palazzi di via Santa Maria ma anche
e soprattutto per organizzare una
corsa di “barberi” sul Lungarno.
Il 15 maggio 1766 i massari furono ammessi a Palazzo Reale e al
loro baciamano Pietro Leopoldo
rispose assicurando «la continuazione della Sua Real protezione».
Il 17 maggio due rappresentanti
della Nazione tornarono a Palazzo
per presentare al sovrano e a sua
moglie «la lista de’ barberi che dovevano correre, stampata in raso
con lato guarnito con trina d’oro,
che furono [sic] benignamente
presi con la propria real mano da
ambedue le AARR ed espressone
il gradimento verso la Nazione».
Il giorno successivo, lo spettacolo
si dispiegò nel centro cittadino
per l’intera giornata. Al mattino il
palio di seta uscì da palazzo Lanfranchi Lanfreducci, portato da un
fantino «in vaga spoglia guarnita
d’argento” e seguito dai “corsieri
barberi condotti da loro custodi»;
il corteo passò sotto le finestre del
granduca e proseguì la parata per
le strade della città. Nel pomeriggio sul Lungarno di tramontana,
dopo che il fondo stradale era stato cosparso di sabbia, “cominciò il
passeggio delle carrozze in numero
di 120 […] alle quali precedevano
le mute a 6 delle RRAA e guardia
nobile a cavallo […] e dopo avere
passeggiato il corso per quattro
volte consecutive, fra la gran folla
del popolo concorsovi, ritornarono i sovrani al Palazzo e ritiratosi
tutte le carrozze si affacciarono le
AARR al terrazzino del R. Palazzo
[…] riescì la corsa bellissima con
10
Seder (liturgia israelitica), 1810. Pisa, Biblioteca Universitaria
numero 6 barberi […] la mossa fu
data dal canto di via Le Vele che introduce alla fornacia de’ vetri [oggi
l’inizio di via Roma] e se riprese
alla piazza di S. Silvestro”.
In una memoria presentata a
Pietro Leopoldo nel 1766, qualche
giorno dopo la festa in suo onore,
la Nazione ebrea pisana rivendica-
va ai suoi connazionali il merito
di aver introdotto in città «la fabbrica di corallo ad uso di Livorno,
valichi, filatori e tessitori di seta,
la manifattura delle cuoia, con le
quali arti solamente senza considerare l’altri loro traffichi tengono
impiegati considerabil numero di
povere famiglie cristiane».
Manifatture di seta e di panni
di lana o concerie gestite da ebrei
sono attestate in città già alla metà
del Seicento. Per il secolo successivo, l’archivio della Comunità
ebraica pisana conserva una corposa documentazione, che sarà
consultabile agevolmente, però,
solo dopo la fine del riordinamento oggi in corso. La «fabbrica
di corallo ad uso di Livorno» era
probabilmente quella di Moisè
Baruch Carvaglio, come emerge
dalle carte del contenzioso che
si aprì sul lascito, disposto per
testamento nel 1760, a favore
del mantenimento dello “studio”
già esistente nella sua casa di via
San Francesco. Il fatto che nell’eredità Carvaglio comparissero
obbligazioni della Compagnia
delle Indie e della Corona inglese è un indizio di un’ampiezza di
relazioni commerciali, che d’altra
parte è già ben nota per le ditte
livornesi di lavorazione del corallo. Dopo la morte di Moisè, la
produzione continuò con suo nipote Jacob, che negli anni settanta
appare come il più facoltoso tra i
governanti della Nazione; la ditta
probabilmente cessò nel 1782 per
un rovescio commerciale.
All’impresa Carvaglio era interessato anche Samuel Lusena,
titolare di una società della quale
sono rimasti diversi libri contabili
per gli anni 1773-1779 (Giornale,
Debitori e creditori, Copie di conti,
Copialettere). La ditta produceva
tessuti di seta, ma si leggono anche riferimenti all’importazione
di armi da Amsterdam o al traffico di berretti tra Tunisi e Smirne.
Probabilmente più antica, e forse
più specializzata nella lavorazione della seta, in filo e tessuta, era
l’impresa Leucci, sulla quale pure
si conserva documentazione di
grande interesse; le sue commissioni di drappi, si dice in una delle
moltissime carte, «sogliono venire
dal Levante e Barberia».
All’inizio dell’Ottocento, negli
anni dell’Impero, non restò più
traccia delle antiche attività. Due
ditte livornesi, quelle dei Cesana
e dei Bassano, gestivano rispettivamente una fabbrica di cremor
tartaro e un saponificio, che chiusero presto i battenti. Ebbe breve
durata anche la tipografia ebraica,
rappresentata a fine Settecento dai
Fuà e poi da Samuel Molco, che
lasciò Pisa per Livorno nel 1822.
Fu solo a partire dagli anni
trenta che l’insediamento ebraico
riprese a contribuire significativamente all’economia cittadina. Nel
1837 Saul Baruch Carvaglio, discendente da un ramo della famiglia sopra ricordata, fece inserire su
un periodico ufficiale l’avviso che
trasferiva il suo domicilio da Livorno a Pisa: dapprima rivenditori di
cuoio, i Carvaglio diventarono i
più importanti proprietari di concerie della città. Il settore nel quale
la presenza ebraica fu più incisiva
e duratura fu però quello tessile.
Nel 1836 Daniel Cardoso Laines,
che aveva proseguito la produzione di berretti “alla levantina” impiantata a Livorno da suo padre,
acquistò una casa in Santa Marta
e prese in affitto un “ruotone” sul
Canale Macinante per avviare una
filatura; il filo di lana prodotto era
“da berretti” oppure “da fabbricante”, ossia per tessuti. In questi anni
(1850-52) la ditta utilizzava per la
filatura anche un mulino di Calci
ed era articolata nelle tre sedi di
Palazzo Franco, via San Lorenzo, gli affreschi sulle pareti del salone dell’appartamento padronale
11
Livorno, Pisa e Prato, ciascuna
specializzata in una fase del ciclo
produttivo e commerciale.
Pressoché contemporaneamente
sorgevano i primi cotonifici. Amaddio Nissim e suo figlio Giacomo
vennero a Pisa da Livorno dopo
il fallimento della grande casa di
commercio per la quale lavoravano; anch’essi, come Cardoso, si
impiantarono in Santa Marta, per
sfruttare la disponibilità d’acqua.
Nel 1850 il loro era già il terzo più
importante cotonificio cittadino,
dopo quelli dei Viti e di Francesco
Padreddii. Oltre ai Nissim, altri appartenenti alla comunità ebraica
erano già presenti nel settore, ma
fu solo nel 1859 che, alla fine di via
San Lorenzo, fu costruita la grande
fabbrica di Isach Gentiluomo. I
Gentiluomo erano pisani da generazioni, ma i soci di Isach nell’accomandita che portava il suo nome
erano tutti livornesi: di nuovo,
dunque, quel rapporto tra Pisa e Livorno, che la Nazione ebrea aveva
assicurato e alimentato per secoli.
A partire dagli anni trenta
dell’800 l’immagine degli ebrei di
Pisa cambiò: ridotto il numero dei
venditori ambulanti, ai pochi negozianti-imprenditori del passato
si sostituì uno strato intermedio di
agiati commercianti e soprattutto
uno strato consistente di proprietari, possessori non solo di immobili
urbani ma anche di poderi o fattorie. Si tratta, per ricordarne solo
alcuni, dei Perugia ad Orciano, dei
Gentiluomo a Fauglia, degli Abu-
12
darham a San Regolo e a Mezzana, dei Recanati in località Pratale,
appena fuori le mura urbane. La
proprietà spianò la strada dell’integrazione con l’élite cittadina, un
processo rappresentato simbolicamente dall’acquisto da parte dei
livornesi Franchetti di uno dei più
prestigiosi palazzi sul Lungarno,
ma anche dalla costruzione, ristrutturando abitazioni già esistenti tra
via Cacciarella (oggi Fucini) e via
Santa Cecilia, dell’imponente residenza degli Abudarham. Il 13 febbraio 1850 Matilde Manzoni scrive
sul suo diario: «La sera c’è stato
ballo da Abudarham […] L’appartamento di casa Abudarham è
magnifico […] io mi sono divertita
moltissimo ed ho ballato assai con
Prini, Abudarham, Luigi Bevilacqua, Lovatelli, Uzielli».
L’interazione sociale si fondava su un’ampia convergenza di
idee politiche, sulla condivisione
dell’opinione
liberal-moderata.
Non è un caso che nel biennio
cruciale 1847-1848, sulla stampa
finalmente libera, in Toscana assai
più che altrove si sia discusso di
emancipazione ebraica.
Erano state le stesse Università israelitiche a mobilitarsi perché
l’emancipazione ebraica entrasse a
pieno titolo nel grande movimento
riformatore. Lo Statuto infatti aveva
recepito una memoria presentata in
precedenza al granduca dalle Università di Livorno e di Pisa. I principali ispiratori del documento, e dell’azione di sostegno e di pressione
che l’aveva accompagnato, erano
stati Sansone Uzielli e Abramo Pardo Roques. Pur appartenendo entrambi alla comunità livornese, essi
risiedevano abitualmente a Pisa
e il primo non solo frequentava i
Giorgini, ma era in strette relazioni di amicizia con molti esponenti
del liberalismo toscano, a Pisa con
Giovan Battista Toscanelli, uno dei
notabili cittadini tra i più coinvolti
nella mobilitazione del ’48, non
solo come padre di due volontari
ma anche come finanziatore della
Guardia civica.
Nel battaglione universitario partito da Pisa nel marzo del
1848, gli ebrei erano 5 su 369, sicuramente non pochi rispetto alla
percentuale degli ebrei sul totale
degli studenti universitari; uno dei
cinque era Giuliano Guastalla, di
Bozzolo (MN), studente di giurisprudenza, che qualche mese più
tardi sarebbe diventato il vice presidente del Circolo politico degli
studenti universitari. Il giovane avvocato Angiolo Segrè, piemontese
residente a Pisa da qualche anno,
fu invece uno dei promotori del
Circolo politico cittadino e – insieme a Michele Perugia, a Giacomo
Franco e al citato Guastalla – fu
uno dei componenti del Comitato
compartimentale pisano “Pro Venezia”. Nel febbraio 1849 infine,
quando la Guardia civica fu sostituita dalla Guardia nazionale, un
israelita, il capitano Abramo Farfara, fu posto a capo di una delle
compagnie cittadine.
La corte
Pietro Leopoldo, una volta
divenuto granduca di Toscana il
13 settembre 1765, arrivò per la
prima volta a Pisa con la moglie
Maria Luisa nella primavera dell’anno successivo.
Il corteo reale arrivò a Pisa alle
sei e mezza del 14 maggio 1766,
ricevuto alla porta della città dal
commissario di Pisa, Bindo Panciatichi, e a Palazzo Reale dalle
più alte cariche cittadine e dalla
nobiltà.
Il giorno seguente i sovrani
visitarono il giardino botanico, il
museo, la specola «ove hanno veduti con piacere tutti gli strumenti
astronomici» e il gabinetto sperimentale dove assisterono «alle
più difficili esperienze» fatte dal
medico Carlo Alfonso Guadagni.
Nei giorni successivi visitarono gli
edifici delle Reali razze, i Bagni di
San Giuliano e la tenuta di San
Rossore «avendo passeggiato lungo la spiaggia del mare».
I trasferimenti da Firenze a Pisa
avvenivano solitamente in carrozza,
ma la sovrana, anche per le frequenti gravidanze (a Pisa nacquero gli
ultimi tre ar iduchini della coppia
reale: Ranieri, nato il 30 settembre
1783 al quale non a caso venne imposto il nome del patrono della città; Luigi, nato il 13 dicembre 1784;
Rodolfo nato l’8 gennaio 1788) arrivava a Pisa in gondola.
Ad esempio, il 31 ottobre
1768 i sovrani più le cariche di
corte partirono «per la via d’Arno
in gondola» e dopo aver pernottato due giorni alla villa dell’Ambrogiana, il 3 novembre arrivarono
a Pisa, dove «smonta[rono] dalla
loro gondola allo scalo di faccia
al palazzo», cioè Palazzo Reale sul
Lungarno, e qui vennero accolti da
magistrati, nobiltà e popolo.
Le gondole, leggere e sottili
imbarcazioni lunghe circa dieci
metri (21-22 braccia) e larghe 5
braccia, con remi dipinti in bianco e rosso, i colori degli Asburgo,
gli stessi colori delle divise dei
gondolieri – visibili in mostra in
alcuni disegni – avevano l’interno
riccamente adornato: l’abitacolo
(«carrozza») di legno era dorato,
fornito di persiane, sportelli e vetri
di cristallo di Boemia e tende color verde, passamani di seta, con
panche a canapè, sedie in ciliegio
Giovanni Battista Minghi, Capo
gondoliere. Firenze, Archivio di
Stato
e tappeti che ornavano il tavolo e il
pavimento. La gondola, il cui personale era composto dal gondoliere, dal timoniere e da remiganti,
era preceduta da un navicello che
fungeva da guida.
G. Piattoli - G. Fabbrini - A. Nistri Tonelli - G.B. Cecchi - B. Eredi, Pietro
Leopoldo con la famiglia, 1785. Collezione privata
13
Le sedi
I palazzi di cui i sovrani e la
corte disponevano nel loro soggiorno pisano erano costituiti
da Palazzo Reale sul Lungarno,
da Palazzo Vitelli, con giardino e
scuderia, anch’esso sul Lungarno,
dove abitavano il Maggiordomo
Maggiore conte Franz Orsini Rosenberg, il Cavallerizzo Maggiore,
il confessore e due segretari; dal
Palazzo in via Santa Maria detto la “Dispensa vecchia”, e dalla
Casa delle Vedove, così chiamata in quanto residenza, in epoca
anteriore, delle «vedove» di casa
Medici, dove ora si trovavano i locali per il personale di servizio di
S.A.R. e per il forno, la pasticceria,
la rosticceria, mentre le stalle e le
rimesse erano collocate sotto gli
archi dell’Arsenale. Altre cariche
di corte quali il sen. Francesco
Maria Gianni, maggiordomo della
Real Casa, il conte Anton Thurn e
il conte Carl von Goëss alloggiarono in edifici presi in affitto, rispettivamente palazzo Lanfreducci,
palazzo Roncioni e palazzo Beltrami, così come, in edifici meno
sontuosi, prese alloggio una parte
del personale inserviente.
Inoltre il sovrano volle che oltre al personale di corte si trasferissero stabilmente a Pisa durante
la sua permanenza anche le tre
Segreterie di Stato, di Finanze e
di Guerra con i rispettivi direttori Pompeo Neri, Angelo Tavanti e
conte Alberti, per poter seguire da
vicino i loro lavori e presiedere le
adunanze del Consiglio di Stato.
14
Fu così che le prime due vennero
ospitate, e fornite del mobilio occorrente, al secondo piano del Palazzo dei Cavalieri della Religione
di Santo Stefano, mentre la seg. di
Guerra venne ospitata nel palazzo
della Conventuale nell’omonima
piazza.
Complessivamente ogni inverno si trasferivano a Pisa diverse
centinaia di persone, tra personale
di corte e funzionari di stato, oltre
al personale inserviente. Il solo Dipartimento del Cavallerizzo maggiore contava una sessantina di
persone tra cocchieri, palafrenieri,
cavalcanti, officiali della cavallerizza e garzoni, mentre le scuderie ne
contavano settanta oltre a un centinaio di cavalli e muli.
Nell’inverno del 1769 vennero iniziati lavori di restauro e di
«muratura» a Palazzo Reale, danneggiato anche dall’umidità, e la
coppia granducale si trasferì temporaneamente in palazzo Roncioni e palazzo Lanfranchi.
Un prezioso cabreo, che il
granduca ordinò di eseguire ai
suoi ingegneri ed architetti, illustra
la destinazione d’uso dei vari ambienti dei palazzi.
Nelle sale a pian terreno di Palazzo Reale si trovavano i locali di
servizio: la Guardaroba, con tutto
l’occorrente per le camere da letto
(centinaia e centinaia di lenzuoli,
candelieri, scaldaletti, catini in
rame etc.), una stanza con i serviti da tavola, che comprendevano
anche centinaia di «bicchieri di
sciampagna», altri di «vino di Borgogna», chicchere da cioccolata e
da caffè, giarine da sorbetti; segui-
vano due stanze per la «confettureria», e relativa cucina, con tutto
l’occorrente per la fabbricazione
di dolci (calderotti di rame e di
ottone, «un vaso di rame per struggere la cioccolata», cioccolatiere di
rame, bricchi e macinini da caffè,
mortai, sorbettiere, «forme di stagno per frutte gelate» dalle svariate forme (di albicocca, limoncello,
susina, arancia, cedrato ed alcune
più grandi «da chiocciolone marino», da delfino e perfino da turbante).
Seguivano stanze per l’ufficio
degli argenti, per la dispensa, per
la biancheria, per la rosticceria,
per la pasticceria, per la «boulangeria» e per la «cucina reale»; in
questi ultimi locali, oltre ai mobili
e agli utensili si trovavano anche
materasse, pagliericci, coltroni, segno che il personale di servizio si
riposava qui nei lunghi preparativi
di pranzi e cene reali.
Al primo piano si trovavano
le sale di rappresentanza quali la
sala dei pranzi e la sala dell’udienza oltre ad una sala da gioco con
5 tavolini da gioco e 50 sgabelletti
e circa venti stanze tra salotti e camere da letto, oltre a retrocamere,
stanze di servizio, vestiboli, ricetti,
cappella e coretto. Anche in molte
di queste stanze riccamente arredate, con quadri ed arazzi alle pareti,
erano presenti gli immancabili tavolini da gioco, segno della socialità del tempo. Il secondo piano
era quasi tutto riservato a camere
da letto, in alcune delle quali si
trovavano più letti per il personale
di servizio.
Palazzi di Sua Altezza Reale in Pisa, Livorno, Pistoia, Siena e Roma, XVIII secolo. Praga, Archivio Nazionale
15
La Certosa di Calci
I Lorena ebbero un’attenzione
particolare per la Certosa di Calci, la quale – come ebbe a scrivere nelle memorie segrete Pietro
Leopoldo, mentre procedeva alle
soppressioni – «era da conservare
e lasciare perché reputata la più
bella».
Nel 1764, al tempo del governo di Francesco Stefano di Lorena,
veniva eletto priore della Certosa
di Calci il monaco milanese Giuseppe Alfonso Maggi.
Durante il governo di Pietro
Leopoldo, il priore Maggi escogitò
strategie miranti a conciliare lo sviluppo e l’abbellimento della Certosa con l’attuazione di politiche
“imprenditoriali” in linea con la
politica granducale e con i progetti di bonifica e di riforma agraria
attuati dal governo dei Lorena.
Il 2 maggio 1767 i nuovi granduchi, insieme con ampio seguito,
resero omaggio ai certosini visitando la certosa pisana, dove furono
«lautamente trattati nella Foresteria di un nobile rinfresco, quale le
altezze Loro si degnarono di gradire, come ancora alcune corone di
profumi, ed abitini ricamati».
Ma non furono certo gli onori
tributati a convincere il sovrano,
quanto i progetti del priore Maggi di rendere produttive le fattorie
di Montecchio, Latignano, Alica e
Salviano, chiamando come consulente alle bonifiche il famoso abate
Ximenes per potenziarne la rendita agraria
Per questo la Certosa di Calci conobbe in questo periodo un
grande sviluppo economico e il
Maggi poté attuare ottimi investimenti edilizi e chiamare artisti
di fama. Il monumentale fabbricato della Certosa di Calci fu totalmente ristrutturato, le grance
di Alica e di Montecchio furono
16
ammodernate e, come richiesto
esplicitamente dal granduca, i certosini finanziarono l’ampliamento del complesso architettonico
affacciato sulla piazza dei Bagni
di San Giuliano per contribuire
al lancio della stazione termale.
Le case cittadine, dette ospizi, di
Pisa, Livorno, Firenze e Pontedera
furono rinnovate. Non riuscirono
invece ad ottenere il permesso di
vendere, come avrebbero voluto, i
beni improduttivi della Gorgona
La facciata della Certosa di Calci
e quelli della Corsica minacciati
da confisca del governo francese,
come avvenne.
Nella ristrutturazione dell’intero complesso monumentale
della Certosa il Maggi convogliò
cospicui finanziamenti e ben oltre
trent’anni di intensa attività edilizia ed esornativa.
Il primo dei lavori importanti, a
cui il Maggi volle si ponesse mano,
fu l’edificazione e l’abbellimento della foresteria, posta nel lato
Pietro Giarrè, Pietro Leopoldo e Maria Luisa. Calci, Certosa
volto ad oriente del piano nobile,
detta “granducale” perché destinata ad accogliere il granduca Pietro
Leopoldo nelle soste calcesane.
Nelle pareti del Refettorio,
in due riquadri dipinti da Pietro
Giarré nel 1776 furono raffigurati
episodi di vita certosina: Cosimo
III a pranzo con i certosini di Pisa
con il motto Disciplina zelo e Caterina de’ Medici che serve a mensa i
monaci della Certosa di Parigi con
il motto Religionis obsequio, una
sorta di monito indiretto a Pietro
Leopoldo, richiamato a compor-
tamenti simili a quelli tenuti dai
predecessori sul trono toscano
nei confronti dell’ordine certosino. Un invito pienamente accolto
perché la Certosa di Calci fu esclusa dalle soppressioni di conventi
volute da Pietro Leopoldo; anzi i
certosini di Calci furono incentivati dal sovrano a proseguire nei
grandi interventi di miglioramento
a carattere economico e artistico
dei loro grandi possedimenti e in
Certosa.
Solo con l’avvento del governo
napoleonico, nel 1808 la Certosa
conobbe la soppressione e, con la
perdita dei beni, la decadenza.
Nel 1816 Ferdinando III di Lorena restituì ai monaci la proprietà
della Certosa e di una parte dei
loro antichi beni, fra cui la fattoria
di Montecchio. Il 25 febbraio 1818
si ricostituì l’ordine certosino: il
monastero della certosa fu nuovamente fondato e furono intraprese
opere di abbellimento artistico e di
acquisizioni di arredi. Così fu fino
al 7 luglio 1866, data in cui la Certosa fu soppressa una seconda volta per decreto del governo italiano.
17
Le feste
Nella primavera del 1767 i
sovrani partirono per Pisa per assistere, dalla terrazza del palazzo
pretorio, al Gioco del Ponte.
La domenica del 3 maggio
1767, alla presenza della corte, si
effettuò con il consueto grandioso
apparato la “mostra”, cioè la sfilata
sui lungarni dei due eserciti, che
avevano un totale di 1.070 uomini.
Accanita come sempre la mischia
fra i combattenti che, dopo alterne
vicende e mosse strategiche, vide
alla fine la vittoria di Tramontana.
Per la prima volta, il Gioco fu
funestato da una grave sciagura: la
morte di un Celatino della squadra di Calci, deceduto al termine
dello scontro, probabilmente per
una targonata ricevuta in testa.
La vedova avanzò in seguito una
supplica al sovrano per ottenere
un sussidio per sé ed i cinque figli
minorenni, essendo venuto a mancare il capo famiglia. La richiesta
fu accolta, ed il granduca obbligò
tutti gli ufficiali ed i comandanti
delle due fazioni a tassarsi per il
corso di 18 anni per la somma
complessiva di scudi cinque mensili, in favore della supplicante.
Nel gennaio 1770, in onore
dei due generali moscoviti conte
di Orloff e di Shevaloff e «atteso
il concorso dei forestieri ed ufizialità moscovita che si trova in Pisa»,
furono date in sette giorni ben cinque feste da ballo a corte, cui parteciparono oltre alle alte cariche,
cavalieri e dame, anche il nunzio
di Portogallo Conti, il principe
Ruspoli ed il marchese Sommonio
di Lodi. «A tali feste non è stato
permesso l’ingresso a veruno degli
studenti nelle Università».
Nel maggio 1785 si ritrovarono a Pisa due fratelli di Pietro Leopoldo, l’arciduchessa Maria Carolina col marito Ferdinando IV di
Borbone, re delle Due Sicilie, e
18
l’arciduca Ferdinando, governatore della Lombardia.
La prima sera vi fu una «grandiosa festa da ballo in maschera»
a teatro a cui partecipò la nobiltà
di tutto lo stato, i ministri stranieri e le cariche di corte. Nei giorni
successivi visitarono Livorno, dove
pranzarono a bordo di navi con
«portate di confetture e gelati alla
foggia napoletana», i Bagni di San
Giuliano e il 12 maggio assisterono al Gioco del Ponte dalla loggia
del Palazzo pretorio, mentre «il popolo, che aveva preso posto sopra
i palchi, finestre e tetti formava un
bellissimo anfiteatro».
La sera il granduca dette in
loro onore una festa da ballo in
maschera nel cortile del palazzo
della Sapienza ed in quattordici
sale attigue «per trattenere il popolo e divertirlo con giuoco di carte».
Furono profusi «gelati e rinfreschi
di ogni sorte» sino al mattino seguente. Il giorno successivo, dopo
aver pranzato a Palazzo reale col
concorso di «diversi forestieri di
primo rango», passeggiarono in
carrozza lungo l’Arno ed in città
ed assistettero dalla ringhiera del
palazzo alla corsa dei cavalli.
Il 21 maggio per la «superba
festa che si dà a Pisa» fu fatta «grandiosa illuminazione del Lungarno».
Sono le preziose tempere di
Giuseppe Maria Terreni a restituire il fascino della festa da ballo in
Sapienza e della spettacolare edizione del Gioco del Ponte.
Il motuproprio del 21 gennaio
di quell’anno fissa in 12 articoli
le direttive da seguire per il Gioco
del Ponte, in cui viene ridefinita la
struttura ed il significato dell’evento. Non si dovrà parlare di “disfida”
ma solo di “invito”; dovranno essere abolite le funzioni di benedizione delle bandiere e responsabili di
tutto saranno i comandanti, gli ufficiali e gli armatori; i nomi di tutti
i partecipanti dovranno essere pre-
ventivamente comunicati ai tribunali e da questi approvati; immediate
le pene per i trasgressori. L’incarico
dell’organizzazione fu affidato in
gran parte alla nobiltà cittadina ed
intensi furono i preparativi per la
migliore riuscita della manifestazione. Il granduca richiese anche che
le varie divise si presentassero più
decorative ed appariscenti e così fu
fatto, senza badare alle spese.
Il 10 maggio si svolse la prevista “Mostra delle Truppe”, questa
volta sul prato del Duomo, ove erano stati innalzati a semicerchio 12
padiglioni uguali per le varie squadre, oltre ad uno più grandioso e
centrale per gli ufficiali e la nobiltà.
Il sontuoso palco reale fu eretto
invece lungo il muro dell’ospedale.
Due giorni dopo si rinnovò l’evento sul ponte. Dopo le rituali operazioni di controllo del numero degli
armati, si schierarono le truppe e
allo sparo dei due mortaretti iniziò lo scontro che si concluse, allo
scadere dei tre quarti d’ora previsti,
con la vittoria di Mezzogiorno.
Quest’anno le pubblicazioni a
stampa raggiunsero il numero più
alto mai avuto nella storia del Gioco. Fu questa l’ultima edizione del
XVIII secolo.
Il Gioco tornerà come rievocazione solo una volta, nel 1807
durante il regno di Etruria e sotto
la breve reggenza di Maria Luisa.
Dopo questa data, per tutto il corso dell’Ottocento, non si ebbero
più, per il concatenarsi di molteplici fattori politici e militari, altre edizioni di questa manifestazione. Le
armature ed i costumi furono accatastati nelle soffitte del palazzo comunale, nella polvere e nell’oblio,
e così un lungo periodo di silenzio
cadde su questa antica tradizione
cittadina. Dovranno passare quasi 130 di interruzione, perché nel
1935 il Gioco torni a rivivere negli
anni immediatamente precedenti
l’ultimo conflitto mondiale.
Giuseppe Maria Terreni, Festa da
Ballo nel cortile del palazzo della
Sapienza; La vittoria del Gioco
del Ponte; Accampamento delle
truppe destinate al Gioco del Ponte
nella piazza del Duomo, 1785.
Firenze, Galleria d’Arte Moderna
di Palazzo Pitti
19
L’abito al tempo dei Lorena
Con l’arrivo a Firenze del nuovo granduca Pietro Leopoldo I
e della moglie Maria Luisa di
Borbone s’interrompe il periodo
della Reggenza durante il quale
il Granducato di Toscana, privato
per oltre trenta anni dell’apparato
di una corte stanziale, ha condotto
una ‘vita di provincia’.
Il supporto offerto alle manifatture fiorentine dalla politica di Pietro Leopoldo non si esaurisce nelle
consistenti e ripetute committenze
per i fabbisogni della corte, ma si
traduce in un costante impegno
profuso per la modernizzazione e
la salvaguardia delle attività tessili
del territorio considerate patrimonio della comunità e dello stato
granducale.
Tra le consuetudini vestimentarie nella Toscana dei Lorena,
la dipendenza della nobiltà dalla
moda francese e il tentativo dei
granduchi, in particolare di Pietro
Leopoldo, di arginare le manifestazioni di lusso sfrenato.
L’adozione di uno stile nuovo, misurato e moderno, riduce
drasticamente anche l’impiego di
merletti e ricami privilegiando la
scelta per tessuti uniti dai colori
fiammanti e puri, evocativi delle
insegne di corte.
L’uniforme di rappresentanza
diventa la veste con la quale il
granduca sceglie di comparire ufficialmente: espressione di un codice semantico dalla doppia valenza,
segno inequivocabile di comando
ma anche elemento distintivo di
un’autorità incorruttibile, consapevole e rispettosa del mandato
conferitole dalla collettività.
L’uso dell’uniforme, strettamente regolamentato, è da con-
20
siderarsi elemento innovativo di
primaria importanza anche nell’opera di riorganizzazione delle
cariche di corte promossa dallo
stesso Pietro Leopoldo, attenendosi a un decreto emanato dalla
casa d’Austria, che stabiliva, nell’abbigliamento maschile di corte,
la definitiva scomparsa dell’“abito
alla spagnola” dal cerimoniale della casa d’Austria, in favore delle
divise militari.
La foggia austera, ispirata allo
stile militare, influenza tutta la
moda maschile di fine Settecento
ispirando soluzioni fortemente innovative, ben esemplificate dalla
semplice marsina dei Musei Provinciali di Gorizia confezionata in
taffetas cangiante violaceo, leggera ed elegante, del tutto priva di
ornamenti o elementi aggiuntivi,
nella quale il gusto per la monocromia si impone persino nei bottoni, fasciati nello stesso tessuto di
confezione.
Anche l’abito della granduchessa segue i nuovi dettami stabiliti dal progressivo semplificarsi
delle vesti che si riducono nei
volumi acquistando in fluidità e
morbidezza. Busti, sottanini e sopravvesti, confezionati con tessuti
semplici e luminosi, accompagnano i movimenti del corpo assecondando una gestualità più disinvolta ed informale.
Anche le decorazioni degli
abiti si semplificano sostituendo
pizzi e passamanerie a contrasto
con nastri e ruches realizzati nel
medesimo tessuto di confezione:
guarniture in merletto vengono
limitate alla scollatura a alle engageantes. La silhouette femminile,
ridimensionata nell’uso del panier
e del guardinfante, si slancia anche grazie all’affermarsi di acconciature alte e vaporose.
In contrapposizione alle stoffe
broccate dai colori sgargianti della
moda precedente, per le confezioni degli abiti da giorno s’impiegano semplici mussole e sottili tele
bianche di lino o cotone, evocative di luce e candore marmoreo.
Le decorazioni, tono su tono, eseguite a ricamo, si complicano sino
a raggiungere effetti a rilievo che
si esaltano nel gioco di ombre e
nella trasparenza dei tessuti, come
si può rilevare nell’esemplare dalla
foggia en chemise in sottile mussola di cotone, guarnito da ricami e
merletti, esposto in mostra e proveniente dalla Galleria del Costume di Palazzo Pitti.
Le vesti di gala o di corte adottano il modello ispirato alla classicità aggiungendo alcuni elementi
distintivi di rappresentanza come
lo strascico, spesso accompagnato
dal manto, e l’impiego di sete e filati metallici preziosi per i decori
che si dispongono soprattutto nella zona centrale della veste o lungo i bordi. L’abito in tulle Rachel
dal prezioso ricamo in seta e filato
metallico, proveniente dai Musei
Provinciali di Gorizia, costituisce
un esempio significativo di veste di
corte per l’eleganza codificata della forma, l’eccellenza dei materiali,
l’originalità e il fasto dei decori.
Negli anni del governo di Ferdinando III, se nella moda femminile si torna alla coercizione di
busti e voluminose gabbie, documentate dal romantico abito cupoliforme proveniente dalla Galleria
del Costume di Palazzo Pitti, il
guardaroba dell’uomo borghese
definisce, ormai in modo inequivocabile, le linee dell’abbigliamento maschile moderno, rompendo
definitivamente gli schemi del vecchio codice vestimentario.
Manifattura francese (?), abito di corte in tulle di seta
color avorio con applicazioni in seta violacea, pailletes
e cannette di vetro, ricamo policromo in ciniglia di seta,
1805-10. Gorizia, Musei Provinciali, Museo della Moda
Manifattura italiana, Marsina in taffetas cangiante
violaceo, 1790 ca. Gorizia, Musei Provinciali, Museo
della Moda
Manifattura italiana, Abito da giorno in mussola bianca
ricamata in bianco, 1815-16 ca. Firenze, Palazzo Pitti,
Galleria del Costume
Manifattura italiana (?), Abito da giorno in due pezzi,
Mussola di cotone bianca ricamata in bianco, 1840 ca.
Firenze, Palazzo Pitti, Galleria del Costume
21
«È essenziale che chi sarà alla testa del governo di Toscana abbia sempre in vista di procurare i maggiori
vantaggi possibili alla vasta e fertile provincia pisana, troppo interessante»
(Pietro Leopoldo, Relazioni del governo della Toscana)
Ogni anno, durante i soggiorni
invernali, oppure d’estate, Pietro
Leopoldo aveva modo di passeggiare per le vie cittadine, di visitare
le campagne a cavallo, di navigare per fiumi e fossi per osservare
personalmente lo stato delle cose,
per rendersi conto, sulla base delle relazioni dei suoi funzionari,
dei provvedimenti da prendere o
verificare che gli ordini impartiti
fossero stati eseguiti. Così si fece
ben presto un’idea dei principali
problemi e della complessità di
tutto il sistema idrico e viario di
quell’area sia dal punto di vista
economico che sanitario e viario.
A Pisa visitò le fabbriche di
chincaglierie e di orologi in via
Santa Maria, la fabbrica del sapone, molto fiorente; visitò, «senza
che nessuno ne fosse informato» preventivamente, lo spedale
dei trovatelli, che trovò in cattive
condizioni, a cui fece apportare
migliorie ed ingrandire; passeggiò
da solo per «diverse piccole strade della città verso San Paolo» per
osservare i nuovi lastrici che davano problemi per lo scolo delle
acque poiché i lavori erano stati
fatti «malissimo e contro tutte le
regole dell’arte», passò da piazza
delle Erbe e vide che «le fontane
buttavano tutte bene».
I soggiorni pisani davano anche occasione al sovrano di poter
esaminare da vicino il funzionamento delle magistrature locali e
di poter prendere visione direttamente dei problemi della città, del
funzionamento delle istituzioni
e del carattere dei suoi abitanti.
Nelle campagne circostanti visitò
la tenuta di San Rossore, le fattorie di Collesalvetti e di Vecchiano,
i Bagni di Pisa, che alimentavano
22
un flusso di visitatori stranieri e
a cui vennero apportate migliorie
con il rifacimento dei bagni in
marmo. La regimazione fluviale,
l’opera di canalizzazione e di «colmata» dei tanti acquitrini che persistevano nell’area diviene uno dei
punti focali del governo del terri-
torio da parte di Pietro Leopoldo.
Particolare importanza aveva tutto
il sistema delle acque composto
dal fiume Arno, dal Serchio, il Fosso reale, il Fosso dei Navicelli che
collegava Pisa a Livorno, il Calambrone, la Tora, la Serezza, il fiume
Morto.
Piante delle diverse possessioni di S.A.R., XVIII secolo. Praga, Archivio
Nazionale
Le arti, il territorio
Mappe e Piante dall’Archivio
Nazionale di Praga
“Nel dolore di renunziare
a quello era a me di più caro,
a quello per cui avea valore la
vita mia … Salva è Toscana pel
mio sacrificio, ella sa che sino
alla fine io l’ho amata”.
Così scriveva Leopoldo II, ultimo granduca di Toscana della
secondogenitura del Casato degli
Asburgo Lorena, che con la sua
abdicazione il 21 luglio 1859 aveva messo fine al governo durato
più di un secolo, a conclusione
delle memorie scritte nel castello
di Brandýs sull’Elba in Boemia negli anni 1860-1868.
I nuclei principali dell’archivio
familiare odierno conservato presso l’Archivio Nazionale a Praga
(prima del 2005 Archivio Centrale
dello Stato a Praga) furono formati in base alla classificazione della
documentazione rimasta dopo
gli Asburgo Lorena nei locali di
Palazzo Pitti e che fu selezionata
dalla commissione costituita dal
governo provvisorio toscano nel
1859.
Tutta la documentazione degli
anni 1765-1859, raccolta nel periodo dei governi di Pietro Leopoldo, Ferdinando III e Leopoldo II,
oltre alla Collezione delle mappe e
piante, diventò la base dell’archivio di famiglia praghese.
Il complesso archivistico degli Asburgo di Toscana (Rodinný
archiv toskánských Habsburků,
abbr. RAT) è oggi raggruppato in
13 sezioni, cioè gli archivi di Pietro Leopoldo, di Ferdinando III,
di Leopoldo II, di Ferdinando IV,
di Luigi Salvatore, di Giovanni
Nepomuceno (Orth), di Giuseppe
Ferdinando, la Raccolta di diplomi
(1779-1867), la Collezione delle
mappe e piante (ca 2000 mappe
e piante dei secoli XVII e XIX),
quella di fotografie (ca 4000 pezzi
dalla metà dell’Ottocento fino all’inizio del Novecento), di disegni
e di stampe. Le ultime tre sezioni
contengono la documentazione
delle Legazioni toscane all’estero (a Parigi, a Vienna, a Roma e
Francesco Giachi, Il Granducato di Toscana diviso in tre province, 1780.
Praga, Archivio Nazionale
a Napoli degli anni 1814-1873),
quelle della Liquidazione toscana
dei crediti rivendicati da sudditi
toscani contro la Francia (18121835) e dell’Amministrazione dei
beni della casa granducale in Boemia (1852-1872).
La più antica relazione sul territorio Pisano, conservata in una
copia più tarda, risale alla visita
di Pompeo Neri e Tommaso Perelli all’Ufficio de Fossi di Pisa nel
1740.
Particolarmente prezioso è il
complesso della Collezione delle
mappe e piante disegnate nella seconda metà del Settecento o per la
minor parte stampate nella prima
metà dell’Ottocento.
Lo sviluppo del territorio pisano, livornese e volterrano può
essere studiato partendo dalle
carte geografiche e topografiche
che riproducono in linee generali
i grandi distretti della Toscana fino
ad arrivare a consultare le mappe
delle varie località.
Oltre alle carte geografiche generali del Granducato di Toscana
più belle (di Francesco Giachi,
Andrea Dolcini, Girolamo Segato, Ferdinando Morozzi) particolarmente prezioso è il complesso
costituito dalle piante di vicariati,
podesterie o diocesi risalenti alla
seconda metà del Settecento e disegnate da Ferdinando Morozzi
e Luigi Giachi. Eseguite con una
straordinaria precisione tecnica
che riproduce una grande quantità d’informazioni cartografiche, le
piante hanno anche – in particolare quelle eseguite da Morozzi – un
gran valore storico-artistico, in
quanto recano a margine delle
bellissime vedute di città, cittadine, campagne, monasteri, castelli,
forti, bagni, porti, isole ed altri
costruzioni o fabbricati che testimoniano l’intervento umano nei
territori del Pisano.
23
La cultura del territorio
I metodi seguiti per la realizzazione del catasto toscano segnano
il traguardo più avanzato dei catasti
ottocenteschi dal punto di vista della realizzazione tecnica: per l’epoca,
la rappresentazione cartografica è
impeccabile e la descrizione dell’uso del suolo particella per particella ne fa un unicum prezioso per
la conoscenza storica del territorio.
Per quanto riguarda la determinazione dell’imponibile, invece,
furono il frutto della mediazione
tra potere centrale ed interessi
privati, presentando un aspetto
molto poco neutro per quanto
concerne la valutazione dei fondi,
e dunque il fine ultimo del catasto,
l’equa ripartizione dei tributi. Un
attento studio dei suoi risultati dimostra infatti che i criteri di stima
lasciavano un margine non tassato
alle unità produttive più grandi
ed organizzate (poderi e fattorie)
rispetto ai possessori di piccoli
appezzamenti sparsi, che erano
numericamente i più diffusi.
La cartografia realizzata per il
catasto servì per molte altre applicazioni, come ad esempio per le
bonifiche. Prima di questa documentazione, infatti, non si erano
avute misurazioni precise della
reale superficie delle aree paludose. Il recupero di terreno alla coltivazione era una priorità vitale per
la Toscana lorenese, perché i cereali prodotti all’interno non erano
sufficienti al fabbisogno delle città
e delle campagne; si doveva così
ricorrere a consistenti importazioni. La strutturale carenza di cereali
spiega da un lato la scelta da parte
del governo toscano di continuare
ad applicare una politica di libertà di commercio negli anni venti
dell’Ottocento, quando a seguito della caduta dei loro prezzi la
maggior parte degli stati si chiuse
di nuovo nella protezione del mer24
cato nazionale; dall’altro, il pressante bisogno di recuperare terre
all’agricoltura.
Il piano di bonifica che partì
nel 1828 coinvolse la Maremma
pisana e grossetana compresa tra
Rosignano e Alberese. Non si limitava ai progetti di disseccamento
dalle acque e risanamento dalla
malaria; era piuttosto ispirato all’idea di quella che nel Novecento
si chiamerà ‘bonifica integrale’.
Comprendeva infatti anche il popolamento dell’area, la colonizzazione che già Pietro Leopoldo
aveva tentato senza successo, la
messa a coltura delle aree prosciugate, la ricostruzione della rete di
comunicazioni via terra. Ne fecero
dunque parte anche i lavori delle
nuove strade, dalle longitudinali
alle trasversali, le allivellazioni e
vendite di terre granducali, demaniali e delle Mense ecclesiastiche.
La sfida maggiore fu quella del
recupero della Maremma grossetana. Qui, oltre alle vaste paludi, facevano ostacolo all’insediamento
stabile e alla messa a coltura anche
la mancanza di strade e la grave
infezione malarica.
Nel 1828 si diede inizio alla sua
bonifica per colmata, su consiglio
di Fossombroni che aveva avuto
buoni risultati con questo metodo
in val di Chiana. Le operazioni furono affidate ad Alessandro Manetti, già responsabile delle bonifiche
nella stessa valle e che dal 1834 diverrà il potente direttore di uno dei
servizi granducali dei lavori pubblici, quello del ‘Corpo degli ingegneri di Acque e Strade’. Le colmate furono effettuate con deviazioni delle
acque torbide dell’Ombrone.
Per quanto riguarda la Maremma pisana, i lavori interessarono la
valle del Cecina e ancor più quella
del Cornia, a partire dal 1830. La
bonifica si fece in parte per colmata (padule di Piombino e quello di
Torre mozza) e parte per prosciuga-
mento (lago di Rimigliano, appositamente acquistato dal Demanio).
Un’altra bonifica apparentemente meno complicata da realizzare quanto ad assetto territoriale
complessivo, ma che da secoli non
si era riusciti a risolvere, fu ripresa
ancora una volta poco più tardi:
quella del lago di Bientina, che costituiva uno dei principali problemi
idraulici della pianura tra Lucca e
Pisa Si trattava per 1600 ettari di
lago perenne, da 2700 ha dalle
adiacenze palustri dello stesso lago,
che davano un piccolo reddito, e da
5500 ha di fertile campagna. Il lago
era costituito da una zona chiara
e profonda al centro del lago, alimentata da polle sotterranee, e da
un altrettanto vasto padule periferico, che nell’estate spesso si prosciugava. Dava proventi economici
(pesce, vegetazione palustre) ed era
inoltre un’ottima via d’acqua per i
commerci tra Livorno, l’Arno e la
Lucchesia. Fino al 1847 appartenne per metà alla repubblica di Lucca e per metà al granducato di Toscana, con un notevole contenzioso
sul regime delle acque e frequenti
liti che ritardarono la bonifica. Lo
scolo era parte in Arno e parte in
Serchio, ma con così poca pendenza che ad ogni piena dei due fiumi
l’acqua allagava la pianura fino a
poca distanza da Lucca.
Un altro importante capitolo
della politica territoriale dei Lorena
aveva sempre riguardato la struttura dei trasporti, sia per terra sia per
mare. Già Pietro Leopoldo aveva
compiuto un’importante opera di
miglioramento non solo delle vie
regie, ma anche di quelle di interesse locale. Dopo la Restaurazione, tuttavia, nonostante gli sforzi
compiuti nel secolo precedente,
molte parti della Toscana avevano
ancora una rete stradale inadatta
ad un traffico carrozzabile.
L’azione di Leopoldo II fu decisiva in questo settore. Sul mo-
dello della struttura dei Ponts et
chaussées introdotta dai Francesi,
l’ultimo granduca riportò la politica viaria nell’ambito del controllo
governativo.
Lo sforzo maggiore a livello
centrale si concentrò sull’allestimento di un vasto sistema di strade
carrozzabili, con la creazione di
assi rotabili che formassero una
rete unificante le varie province
del Granducato, e riducessero le
disparità di comunicazione. I circuiti principali erano due. Il primo
era quello della comunicazione tra
la Toscana e gli Stati confinanti;
aveva anche risvolti politici, per
una più facile comunicazione con
i territori austriaci. Altre arterie
transappenniniche furono tracciate
da Manetti, come la strada Regia
militare della Cisa in Lunigiana,
la provinciale forlivese. Il secondo
circuito comprendeva i collegamenti all’interno del Granducato ed in
particolare quelli che potevano
aprire agli scambi economici aree
fino ad allora isolate. In questo caso
la costruzione di strade assicurò comunicazioni rotabili fino ad allora
assenti al Volterrano, al Chianti, al
Senese, alla Maremma, alla val di
Nievole, alla Romagna, al Monte
Amiata, alla val d’Ambra.
L’elenco delle strade costruite
a carico dell’erario dalla Restaurazione alla metà del secolo è molto
lungo: dal 1814 al 1846 comprende già almeno 27 strade tra
rotabili, provinciali e regie. I più
cospicui finanziamenti seguono
la traccia delle bonifiche ed interessarono sotto Ferdinando III la
val di Chiana e il complesso dell’Aretino. Con Leopoldo II, nelle
Maremme, fu tracciato di nuovo
e variato il percorso delle antiche
strade romane nella costa occidentale: la litoranea Aurelia-Emilia,
con le varianti e i collegamenti trasversali, andava da Pisa al confine
con lo Stato pontificio. Strade di
collegamento dei percorsi costieri con l’interno furono aperte tra
questa viabilità costiera e Colle val
d’Elsa, Siena, Volterra.
Per sottolineare l’importanza di
tutte queste imprese, basta citare
un dato. All’indomani dell’Unità,
la rete stradale in Toscana aveva
una dimensione di km. 12.381,
con 566 m/kmq contro i 366 della media nazionale. Un’analisi più
dettagliata, riguardante le strade
nazionali e provinciali, mostra la
Toscana al primo posto in Italia
con 139 m/kmq, seguita dalla Romagna (in parte ex Toscana) con
109 e dalla Lombardia con 105.
La Toscana era dunque in testa
tra le aree più servite dalle strade
di grande comunicazione. Come
rete ferroviaria, alla stessa data,
l’ex Granducato era al secondo
posto in Italia dopo il Regno di
Sardegna.
Compartimento Pisano. Territorio unito, XIX secolo. Praga, Archivio
Nazionale
25
La Macchia di San Rossore
Durante gli anni della Reggenza lorenese (1737-1765), proseguì
il graduale abbandono delle strutture agro-pastorali presenti in San
Rossore in seguito all’interruzione
delle attività lavorative delle comunità stagionali che, un tempo,
occupavano anche le capanne dei
pescatori lungo il litorale tirrenico
a sud e a nord della nuova foce
dell’Arno, o trovavano impiego
nelle Fornaci Medicee, ai margini
dell’antico Bosco di San Lussorio.
L’accrescimento delle terre oltre
la voltata di Barbaricina e le piane
di San Piero a Grado, occupate per
la maggior parte dalle boscaglie di
San Rossore e di Tombolo, iniziò
negli anni settanta del Settecento,
quando il nuovo indirizzo politico
di Pietro Leopoldo (1765-1790)
diede finalmente avvio alla rinascita socio-economica dei luoghi.
Le tenute furono gradualmente
sottoposte a interventi di trasformazione, divenendo luoghi di
rappresentanza e di svago per la
Corte granducale e i suoi ospiti.
Alla fine del XVIII secolo, nella
vasta pianura occidentale di Pisa,
che includeva la porzione più estesa di tutta l’area soggetta alla giurisdizione ecclesiastica della chiesa di
Sant’Apollinare in Barbaricina (con
una superficie che sfiorava i 5.000
ettari e un perimetro di 20 miglia),
soltanto San Rossore, insieme ad
altri piccoli e irrilevanti appezzamenti, rimase proprietà dei Lorena.
Pietro Leopoldo dapprima unificò la Tenuta sotto l’unica denominazione di San Rossore e successivamente riuscì ad ottenerne
anche la definitiva affrancazione
dal canone livellare, con un’iniziativa avviata ufficialmente nel
1789, ma formalizzata nel 1822
da Ferdinando III.
Ebbe cura di incrementare il
patrimonio boschivo con l’inseri26
mento di pini selvatici, ampliando
ulteriormente la già estesa macchia
forestale tipicamente mediterranea
dopo l’introduzione medicea dei
pini domestici. Provvide all’arricchimento del patrimonio faunistico
con il potenziamento di bovini e cavalli bradi e attuò sapienti operazioni di regimazione idraulica e di bonifica delle aree palustri mediante
l’esecuzione di alcune colmate per
aumentare i terreni a pastura nelle
aree di Piaggelta e Oncino e nella
zona prossima alle Lame di Fuori.
Una maggiore caratterizzazione architettonica e urbanistica della tenuta si realizzò nel 1771 con
la costruzione, sulla sponda destra
dell’Arno, del maestoso complesso rurale delle Nuove Cascine, poi
Cascine Nuove, così definite in
contrapposizione alle Cascine Vecchie di impianto mediceo.
Ciò che più segna e caratterizza
in modo definitivo San Rossore è
la razionale riorganizzazione del
sistema viario: a Pietro Leopoldo
si devono infatti il progetto, e buona parte della realizzazione, dei
grandi viali che per “comodo”, “
utilità” e “delizia” si decise di aprire e di affiancare alle vie esistenti
in San Rossore.
I nuovi viali, ortogonali al
precedente sistema viario della
Tenuta, identificavano un crocevia fondamentale per l’economia
degli spostamenti nella vasta pianura occidentale pisana. Orientati secondo i punti cardinali, partivano dal piazzale rotondo delle
Cascine Vecchie per raggiungere
agevolmente gli insediamenti che
nei secoli erano stati realizzati e
si erano consolidati nei luoghi
strategici dell’esteso territorio:
Cascine Nuove sull’Arno, la Sterpaia e la zona del Marmo sul Serchio, il Gombo sul mare, e altri
nuclei insediativi situati fuori dai
confini territoriali dell’antica selva: il caseggiato di San Piero a
Grado, raggiungibile dalle Cascine Nuove a mezzo di un navicello
che traversava l’Arno, e la stessa
città di Pisa, il cui collegamento
con San Rossore fu enfatizzato
con iniziative di abbellimento e
allargamento dello Stradone Mediceo.
Con la Restaurazione di Ferdinando III, ma soprattutto sotto il
governo del figlio Leopoldo II, si
consacrò l’aspetto di rappresentanza della tenuta: Cascine Vecchie e Cascine Nuove, ristrutturate
e ampliate, si consolidarono come
i due poli attorno ai quali gravitavano le attività più significative per
la vita dell’intero territorio.
Pianta delle IV Tenute di Migliarino, di S. Rossore, di Tombolo e Arno Vecchio,
di Coltano e Castagnolo. Praga, Archivio Nazionale
A Cascine Vecchie, il granduca
intese stabilirsi nella Villa Reale
(1829-1832) – oggi distrutta – voluta espressamente dalla consorte
Maria Anna Carolina, durante la
permanenza della Corte in San
Rossore.
L’area di Cascine Vecchie diventa nodo distributivo per l’intero
sistema viario della Tenuta, determinando contemporaneamente l’organizzazione del sistema spaziale con
il suo doppio perimetro di recinto
arboreo: piante a doppio filare all’interno e un ulteriore doppio filare su un solo lato, all’esterno, in
corrispondenza del raccordo con il
viale rettilineo verso la città. Questo,
ombreggiato da pioppi bianchi e
neri piantati nel 1830 (sostituiti con
platani nel 1895), ingentilito dalla
siepe di mirto e corredato di sedili,
diventa promenade a piedi, a cavallo, in carrozza. Un recinto arboreo
circonda e conferisce peculiare unitarietà a un insieme di edifici con differenti funzioni, mentre il suo punto
di innesto con il viale verso Pisa
determina la gerarchia degli edifici
nella percezione della traiettoria diagonale verso il centro della palazzina residenziale. Tale sistemazione è
attribuibile con ogni probabilità a
Luigi De Cambray Digny, attivo tra
il 1828 e il 1829 al Palazzo Reale
di Pisa, su incarico del granduca, e
richiama analoghi indirizzi europei
correlati alla realizzazione di parchi
pubblici, alla funzionalizzazione di
aree esterne alle città e al fenomeno dell’embellissement, diffusosi tra
XVII e XIX secolo.
I bagni marini del Gombo, costruiti dopo l’apertura dell’ultimo
viale in direzione del mare, amplificando il concetto della Tenuta
come “bene pubblico”, permisero
di conoscere, anche fuori dai confini granducali, le ancora poco diffuse, straordinarie peculiarità naturalistiche del luogo e dotarono
la spiaggia di nuove costruzioni,
fra le quali una palazzina adibita
a pensione e una cappella.
A suggello del consolidato, antico legame con Pisa, si intraprese
la realizzazione del “Prato degli
Escoli”, il primo ippodromo cittadino che esalterà il valore storico
della presenza del cavallo in San
Rossore. Inizialmente allo stato
brado, poi in razze diverse atte al
lavoro e al trasporto, infine come
animale da competizione, il cavallo sarà destinato a lasciare un
segno tangibile e duraturo nella
storia della tenuta, dove l’attività
ippica si svolge immutata da quasi
duecento anni.
Significativa
testimonianza
delle prime importanti competizioni ippiche di metà Ottocento
sul Prato degli Escoli è il dipinto
dell’artista belga Louis Paternostre (Bruxelles 1824-1879), che
riproduce con ricchezza di particolari l’arrivo di una corsa al
galoppo alla presenza di un folto
pubblico e in corrispondenza del
palco reale.
Louis Paternostre, Corsa di cavalli a San Rossore. Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale
27
L’olio di Calci
Nell’“escursione agraria fatta
nel territorio di Calci”, pubblicata
sul “Giornale agrario toscano” del
1846, Niccolò Cherici scriveva:
In prossimità della valle di
Calci le diverse culture vanno a
poco per volta mancando, fino
a che l’olivo si vede occupare
tutta la superficie del suolo; e
non solo il monte ma invade
anco la sottostante pianura.
Questa preziosa pianta, unica o
principalissima cura degli abitatori di queste pendici, forma
la loro ricchezza; ed il prodotto
che se ne ottiene gode in paese e fuori di estesa e meritata
rinomanza. Non sono remoti i
tempi nei quali l’olio di Calci
passava monti e mari, ed era
ambito in Inghilterra, in Egitto,
in America. Oggi segue i destini
dell’olio di Toscana e di Lucca,
e non essendo più oggetto di
special domande, l’olio di Calci
giunge tutto al più ad ornare
della sua vista e del suo profumo alcune più difficili mense della gentile Firenze. Come
medicamento per gli stomachi
umani, il suo uso è pure alquanto esteso.
Gaetano Savi, Flora Italiana, Pisa, Capurro, 1818-1824. Pisa, Biblioteca Universitaria
28
La trasformazione del
paesaggio
“La Toscana viene spesso chiamata il giardino d’Italia, è quasi
come dire quello d’Europa”
(Sismondi J.C.L. Simonde
de, Tableau de l’agriculture
Toscane, 1801)
L’attenta politica del territorio
perseguita dai Lorena fin dal loro
insediamento alla guida del Granducato trova riflesso non solo nell’attività dei cartografi, ma anche
in quella degli artisti.
Dalle vedute con cui alla metà
del ‘700 Giuseppe Zocchi documentava la ristrutturazione dei Bagni di San Giuliano, uno dei più si-
gnificativi interventi architettonici
effettuati negli anni della reggenza
lorenese, fino ai dipinti eseguiti da
Nino Costa nell’autunno del 1859
al Gombo e a San Rossore, è la
storia di un paesaggio letto con
occhi nuovi.
Un paesaggio descritto da
Giovanni Targioni Tozzetti, dai
naturalisti settecenteschi, dai viaggiatori romantici, dagli agronomi
sulle pagine del “Giornale agrario
toscano” che Giovan Pietro Vieusseux iniziava a stampare a Firenze
nel 1824, e restituito dalle celebri
vedute di Volterra dipinte da Corot
durante il secondo soggiorno italiano del 1834, dall’album di vedute eseguite dalla giovane pittrice
francese De La Morinière durante
il soggiorno a Pisa dal 1837 al
1841, dai dipinti di Carlo Markò
o Lorenzo Gelati.
L’ Inondazione del Serchio del
“pittore di corte” Giovanni Signorini documenta l’alluvione del Serchio del 1843:
Il Serchio gonfiò più di un
braccio sopra il livello cui giunse a Ripafratta nella gran piena
del 1836, cosicché nella notte
precedente il dì 16 gli argini non
furono più bastanti a contenerlo; e la settentrionale pianura
pisana restò tutta inondata. Fu
rotta la riva destra a Filettole,
ad Avane, al podere dell’Isola;
e la riva sinistra a Ripafratta, a
Colognole, ad Arena, alla Barca
d’Albavola, e più ampiamente
presso S. Andrea in Pescajola.
L’acqua che sboccava impetuosa per tante rotte fece tutto un
lago dal Serchio all’Arno, e dai
monti di S. Giuliano alle boscaglie di San Rossore. Rovesciò
alcune muraglie e case; altre ne
sommerse, mentre gli agricoltori spaventati fuggivano traendo
seco quel che potevano. Molti
con le masserizie e gli armenti
si ripararono a Pisa e nei luoghi più elevati; altri restarono
nei loro abituri divenuti isole
nell’improvviso lago...
(“Gazzetta di Firenze”, 24 gennaio 1843)
L’appassionata partecipazione
di Leopoldo II al tragico evento
si traduceva nella commissione a
Giovanni Signorini ed Enrico Pollastrini di un ciclo di dipinti che
dovevano raffigurarne l’episodio
più commovente, ovvero l’eroico
salvataggio della giovane Alessandra Mazzanti e dei suoi due figli.
I quadri (due redazioni dell’Inondazione del Serchio realizzate
da Signorini e la grande tela Una
famiglia salvata dall’inondazione
del Serchio di Pollastrini) venivano esposti con notevole successo
a Pisa nel giugno 1845 e quindi
inviati a Firenze per l’esposizione
della Promotrice.
Dall’alto:
G. Zocchi - N. Mogalli, Veduta
generale dei Bagni di Pisa, in
A. Cocchi, Dei Bagni di Pisa,
Firenze, 1750
Nino Costa, Il fiume morto
al Gombo. Viareggio, Istituto
Matteucci
Giovanni Signorini, Inondazione
del Serchio, 1845. Firenze,
Palazzo Pitti, Galleria d’Arte
Moderna
29
La cultura, le idee
Carlo Goldoni a Pisa
Carlo Goldoni soggiornò a
Pisa dalla fine del 1744 ai giorni
immediatamente seguenti alla Pasqua del 1748.
Goldoni svolse a Pisa la professione di avvocato civile e criminale, uniformandosi allo stile della
pratica giudiziaria toscana, diversa
da quella del foro veneto: ebbe
così modo di osservare una realtà
variegata di nobili, di mercanti di
artigiani, di persone comuni, un
universo che costituì, nella molteplicità di esperienze e di uomini,
un bagaglio a cui attingere per sue
commedie, fedeli, appunto, alla
realtà effettuale.
Il suo primo contatto con l’ambiente cittadino avvenne nella colonia d’Arcadia, la colonia Alfea,
dove fu ammesso con tutti gli onori, ed insignito del nome di Polisseno Fegejo, con cui sempre si fregiò
nelle sue opere insieme al titolo
di avvocato. Proprio in Arcadia, a
Pisa, conobbe Ranieri Bernardino
Fabbri (Odisio Licurio), vicecustode della colonia Alfea, primo ministro nella Cancelleria dell’Ordine
di Santo Stefano, pubblico notaio,
con cui stabilì un rapporto di calda
amicizia; il Fabbri lo aiutò moltissimo ad inserirsi nella società pisana e a svolgere la professione di
avvocato, perché ovviasse alle sue
precarie condizioni economiche:
quanto il Goldoni fosse legato a
questa figura risulta dalla dedica,
a lui rivolta, ne Il servitore di due
padroni, commedia il cui canovaccio aveva scritto proprio a Pisa,
nel 1745.
A Pisa, Goldoni scrisse poesie d’occasione, ma anche composizioni poetiche impegnate,
inserendosi nei dibattiti propri
dell’età delle riforme lorenesi: la
canzone sull’“utilità delle leggi
scritte”, composta probabilmente
del 1747, che costituisce anche
un omaggio a Pietro Girolamo
Inghirami, «Commissario, e Capitano Generale della città di Pisa,
Giudice, Cognitore, e Decisore
di tutte le cause civili, criminali, e
miste», con cui Goldoni collaborò
molto nell’esercizio della sua attività di avvocato civile e criminale;
all’Inghirami il Goldoni dedicò Il
tutore.
Nel 1745 distese due scenari,
Il servitore di due padroni e Il
figlio di Arlecchino perduto e ritrovato (che non completerà, che
ebbe tuttavia fortuna in Francia,
e il successo riportato fu uno dei
motivi per cui il Goldoni fu chiamato molto dopo in quel paese);
nel 1747, il Tonin bella grazia (che
divenne Il Frappatore, con dedica
a Marco Pitteri); I due gemelli veneziani (commedia recitata, forse,
a Pisa, nel 1747); L’uomo prudente, per il quale il commediografo
si era ispirato ad un grave fatto di
sangue avvenuto in Toscana.
Annibale Gatti, Goldoni a
Pisa che recita un sonetto
nel giardino di palazzo
Scotto alla presenza degli
Arcadi Alfei, 1867. Pisa,
Teatro Verdi
30
La cultura antiquaria
Gli anni di Pietro Leopoldo
vedono il nascere in città di una
nuova attenzione per la storia più
antica di Pisa e per i monumenti
che la documentano.
Per quanto riguarda i monumenti archeologici presenti in città
e i ritrovamenti effettuati in quegli
anni, un osservatorio privilegiato
è indubbiamente costituito dai
rapporti di Pisa con la Galleria
di Firenze, dove confluiranno i
principali ritrovamenti effettuati in
città e nel territorio: dai materiali
recuperati a Terricciola nel 1756
a quelli di Montefoscoli scoperti
nel 1773, dal ripostiglio di vittoriati ritrovato nel 1763 nell’area
di Porta a Lucca ai materiali di alcune sepolture arcaiche rinvenute
nel 1771 nel corso dei lavori per il
taglio dell’ansa dell’Arno, ai resti
delle tombe ritrovati nel 1783 nel
corso di lavori alla Fattoria granducale dei Navicelli.
Tuttavia, se l’atteggiamento
primario dei Lorena sembra essere
quello di incrementare anche con
i monumenti pisani la Galleria
di Firenze, non minore rilievo ha
l’inserimento di monumenti antichi voluto dal Granduca nella sua
residenza pisana, oggetto in quegli
anni di una vasta ristrutturazione.
Si colloca in questi anni l’inserimento della statua ideale antica
sullo scalone del Palazzo Reale sul
lungarno, mentre risale al 1786
l’ordine d’invio da Boboli di quattro statue raffiguranti deità antiche
che Pietro Leopoldo destinò a
completare l’apparato scenografico dello Stradone delle Cascine.
Statua antica con integrazioni e
restauri di Francesco Carradori
identificata con Giunone, collocata
nel marzo 1789 per volontà di
Pietro Leopoldo sul piedistallo
dello scalone. Pisa, Palazzo Reale
31
La scultura
Allo scultore Giuseppe Vaccà
spetta la fontana situata ad apertura della piazza del Duomo, eseguita nel 1746 su commissione dell’Operaio Francesco Quarantotti.
Nel 1765 venne realizzato dallo scultore carrarino Giovanni Antonio Cybei il gruppo marmoreo
raffigurante tre putti che si contendono lo stemma dell’Opera della
Primaziale.
Proprio al Cybei, oltre alle parti più significative dello splendido
Monumento Algarotti in Camposanto – inaugurato nel 1768 e
progettato da Mauro Tesi e Carlo Bianconi – e al busto funebre
del conte Francesco Del Testa del
1780, collocato nella chiesa di
San Martino, si deve il Busto di
Pietro Leopoldo del Museo Nazionale di Palazzo Reale.
Nel 1829 arrivava a Pisa il Monumento Vaccà destinato al Camposanto, opera del celebre scultore danese Bertel Thorvaldsen e
di cui resta un bel disegno assai
fedele all’opera finita. Costituito
da un rilievo antichizzante raffigurante Tobia che risana il padre
dalla cecità, il Monumento Vaccà
provocò una durissima polemica,
perché Ridolfo Castinelli affidò alle pagine della «Antologia»
– e sotto pseudonimo – un severa critica alla scelta iconografica
adottata dal danese per alludere
alle virtù medico-chirurgiche del
defunto.
Quando nel 1830 una apposita Deputazione decise di abbellire
piazza Santa Caterina con la statua colossale di Pietro Leopoldo, i
due progetti presentati da Lorenzo
Bartolini (la cui impronta stilistica
sopravvisse comunque nel Monumento a Galileo Galilei del livornese Paolo Emilio Demi, inaugurato
nel 1839 in occasione della Prima
Riunione degli Scienziati Italiani)
32
Bertel Thorvaldsen, disegno del monumento a Vaccà Berlinghieri in
Camposanto. Pisa, Biblioteca universitaria
non incontrarono i favori della
committenza.
Il Monumento a Pietro Leopoldo
venne allora affidato a Luigi Pampaloni, mentre i tre rilievi della
base furono eseguiti da Temistocle Guerrazzi ed Emilio
Santarelli.
Giovanni Antonio Cybei,
Modelletto per il gruppo dei
Putti sormontante la fontana in
piazza del Duomo. Pisa, Museo
dell’Opera della Primaziale
I Lorena e l’Egitto
“La Toscana che sotto sì fatti
auspici può sdegnare ogni posto
inferiore nei seggi dell’umano
sapere, sarà la prima, dopo lo
Champollion, ad essere appellata
benemerita dello svelato Egitto”
(Ippolito Rosellini, Lettera
Quinta indirizzata ai colleghi
pisani, da Tebe, marzo 1829)
Leopoldo II di Lorena seppe
riconoscere, sostenere e realizzare il progetto di una spedizione
letteraria franco-toscana in Egitto
e in Nubia, realizzata tra il 1828
e il 1829 sotto la conduzione di
Jean-François Champollion e di
Ippolito Rosellini, professore nell’Università di Pisa.
I rapporti di Jean-François
Champollion con il Granduca
Leopoldo II furono intensi e fruttuosi fin dal 1825, da quando, nell’estate di quell’anno, visitò per la
prima volta Firenze e Livorno.
Champollion contava di trovare
presso il Granduca l’appoggio per
la realizzazione dell’impresa che
tanto e da tanto tempo gli stava a
cuore: una Spedizione internazionale in Egitto per l’esplorazione
dei monumenti della Valle del Nilo,
una spedizione che andasse ancor
più a sud di quanto si era spinta
la Commission napoleonica, e che
andasse molto più avanti nell’interpretazione dei monumenti grazie al
fatto che le sue scoperte potevano
ormai far parlare i geroglifici che
coprivano le vecchie pietre.
Una conseguenza delle benevoli disposizioni di Leopoldo II verso i neonati studi egiziani, è stato
l’incoraggiamento in questo senso
dato al professore di Lingue Orientali nell’Università di Pisa, Ippolito
Rosellini (che dello Champollion
divenne scolaro e amico fedele).
Presso l’Università di Pisa, nel
1826, Leopoldo II apriva – primo
Frontespizio
per gli Atlanti
dell’opera I
Monumenti
dell’Egitto e della
Nubia di Ippolito
Rosellini. Pisa,
Collezioni
Egittologiche
dell’Università
sovrano in Europa, anzi nel mondo
– un pubblico insegnamento di Egittologia, affidato a Ippolito Rosellini.
Ippolito ottenne di raggiungere
lo Champollion a Parigi, dove soggiornò fino a tutto il 1827, collaborando con lo Champollion alla catalogazione del materiale egiziano del
Louvre; là Ippolito conobbe, amò e
sposò Zenobia Cherubini, figlia del
compositore Luigi Cherubini.
Nella primavera di quell’anno
i due fratelli Champollion, JeanFrançois e Jacques, con il Rosellini e il suo zio ingegnere Gaetano
Rosellini, compirono la stesura
del progetto della spedizione in
Egitto e in Nubia, da sottoporre
in Francia al re Charles X e in
Toscana al Granduca Leopoldo
(Mémoire sur le projet de voyage
littéraire en Egypte).
Scopo principale della spedizione era il rilievo dei monumenti
e la copia di tutte le iscrizioni dell’Egitto e della Nubia.
La commissione toscana risultò composta, oltre che da Ippolito
Rosellini, direttore e responsabile
del gruppo toscano, da Gaetano
Rosellini, dal pittore fiorentino G.
Angelelli, da Alessandro Ricci, e
dal naturalista fiorentino Giuseppe Raddi con un assistente-pre-
paratore, Felice Galastri. La partecipazione di Gerolamo Segato,
che era prevista, purtroppo non fu
approvata dal Governo.
La commissione francese, oltre
allo Champollion, comprendeva
Alexandre Bibent ingegnere (presto rientrato in Francia dall’Egitto) e vari disegnatori: Duschesne
fils, Bertin fils, Nestor l’Hote, il
Lehoux e, per ambedue le spedizioni, il pittore Salvador Cherubini, fratello di Zenobia.
Il gruppo misto arrivò ad Alessandria il 18 agosto 1828, a bordo
della corvetta, l’Eglé, messa a disposizione dalla marina francese.
Nei quindici mesi della spedizione in Egitto e in Nubia fino a Uadi
Halfa, le commissioni, la Francese e
la Toscana, misero insieme una messe incredibile, enorme, di documentazione, ancora importante nella
prospettiva di una storia dell’archeologia, permettendo di riconoscere i
metodi di rilievo dei monumenti e
la copia delle scene e delle iscrizioni. Il tutto in uno spirito di collaborazione e di reciprocità mai smentite
da parte dei due direttori; il sistema
dello scambio dei documenti portò
al fatto che ognuna delle spedizioni
ebbe ciascuna un portafoglio di disegni eguale e completo.
33
Il viaggio è documentato in
maniera diretta, per la parte francese, dalle note e dalla corrispondenza dello Champollion e dei
suoi compagni, e dalle notizie di
stampa; per la parte toscana, dal
ricco materiale, edito e in parte
inedito, conservato nella Biblioteca Universitaria di Pisa
Ad Alessandria, alla fine del
1829, le due commissioni si divisero per il rientro in patria. Le
settantasei casse con le antichità
scavate o acquistate sul mercato
d’Egitto dalla Commissione Toscana arrivarono a Livorno il 22 dicembre sulla nave sarda Cleopatra.
Arrivarono a Livorno anche le
casse del Raddi frattanto morto;
il materiale botanico raccolto in
Egitto fu destinato all’Orto Botanico di Pisa.
Il materiale archeologico riportato dall’Egitto incrementò le collezioni granducali a Firenze in ma-
niera molto consistente, e si deve al
Rosellini se questo Museo Egizio è,
in Italia, secondo per importanza
soltanto a quello di Torino; contiene anche pezzi rari, come per
esempio uno dei più bei “ritratti del
Fayum” che si conoscano, il primo
“ritratto” che sia giunto in Italia.
Nel 1830, Rosellini organizzò
una mostra degli oggetti nell’Accademia delle Arti e Mestieri in Santa
Caterina a Firenze, accompagnate
da una scelta dei disegni dei monumenti. E subito dopo a Pisa, nelle
due sale della Accademia di Belle
Arti in palazzo Pretorio, Rosellini esponeva “un piccolo Saggio”
dei moltissimi disegni “eseguiti ai
monumenti d’Egitto e della Nubia
dalla Spedizione Toscana”, alcuni
“coloriti, altri puramente disegnati”, che raffiguravano “la Storia che
i più antichi Faraoni fecero scolpire in grandi Bassi-rilievi sulle mura
dei Palazzi e dei Templi”, “le mate-
Ippolito Rosellini, Monumenti del Culto, Tav. LXXIV
34
rie religiose degli antichi egiziani”
e “le cose che riferisconsi allo stato civile, pubblico e privato della
nazione e degl’individui” (Breve
dichiarazione dei disegni esposti
nella R. Accademia di Belle arti in
Pisa per dare un saggio al pubblico
del portafoglio riportato dalla Spedizione letteraria toscana in Egitto
e in Nubia, Pisa, Nistri 1830)
Ippolito Rosellini passò gli
anni successivi al rientro dall’Egitto nella faticosa opera di pubblicazione, a Pisa, dei Monumenti: l’edizione degli Atlanti avvenne presso
la ditta tipografico-libraria Niccolò Capurro e C. tra il 1832 e il
1836; il terzo volume degli infolio,
I monumenti del Culto, e il nono
volume dei Testi, furono editi nel
1844 a cura dei colleghi Francesco
Bonaini e Flaminio Severi, dopo
la morte che colse lo studioso il 4
giugno 1843, nella sua casa in via
di San Michele degli Scalzi.
Ippolito Rosellini, Monumenti Storici, Tav. CXVIII
Le scienze
La Cattedra di Fisica Sperimentale, con relativo Gabinetto, fu istituita
nel 1748 e assegnata, su suggerimento del Provveditore dell’Università di Pisa Monsignor Gaspare Cerati, a Carlo Alfonso Guadagni.
Il Guadagni arrivò alla Cattedra
insieme alle sue 115 macchine, riguardanti la Statica, l’Idrostatica, la
Pneumatica, il Magnetismo, l’Ottica
e l’Elettricità. Queste macchine furono acquistate dall’Università di Pisa
nel 1750 per 907 ducati e 3 soldi.
Nel Gabinetto di Fisica, prima
dell’arrivo del Guadagni, era stata
fatta trasferire, dal Giardino dei
Semplici, la Macchina Pneumatica
di Musschenbroek (che era stata
donata all’Università di Pisa nel
1691 da Anna Maria Ludovica
de’ Medici). Il Gabinetto era situato in via Santa Maria nell’edificio
accanto alla Specola (costruita nel
1734 e demolita per ragioni di
precaria stabilità nel 1826).
Nell’inventario del 1792 le
macchine risultavano in numero di
122, tra cui 115 erano quelle originali del 1748. Inoltre nel 1793
l’Università acquistò dal Guadagni
altri 51 oggetti che dimostravano
il continuo ammodernamento delle attrezzature da lui perseguito.
Fra questi segnaliamo il Ventilatore
d’Haley, una macchina per dimostrare la forza dell’aria quando è
compressa (di ’sGravesande), un
igrometro con quadrante d’ottone
e suo indice, un conduttore elettrico di Nairn, una macchina elettrica a piatto d’Inghenus, una pistola
elettrica del Volta e un sistema solare elettrico del Ferguson.
I professori che si succedettero
alla Cattedra – Leopoldo Vaccà
Berlinghieri (1795-1800), Gaetano Cioni (1800), Gaetano Savi
(1801-1809), Giuseppe Gatteschi
(1810-1826) e Olinto Dini (18271830) – si limitarono all’acquisto
di alcuni strumenti per arricchire
la dotazione del Gabinetto.
Nel 1831 a Dini succedette Luigi Pacinotti che contribuì ad aumentare notevolmente il numero degli
strumenti del Gabinetto di Fisica.
Infatti acquistò molti apparecchi
moderni legati ai nomi di Oersted,
Nobili, Bellani, Daniell, Savart, Cagnard de la Tour, Melloni, Breguet,
Amici, Volta, Gay-Lussac, Thenard e
altri ne fece costruire lui stesso.
Su suggerimento del provveditore Gaetano Giorgini, nel 1839
Leopoldo II iniziò una profonda
riforma dell’Università, che prevedeva, fra l’altro, la divisione della
Sectio physico-mathematica nel
Collegium mathematicorum e nel
Collegium physicorum. A seguito
di questa divisione a Luigi Pacinotti fu assegnata, contro la sua volontà, la Cattedra di Fisica Tecnologica
afferente al primo Collegio, mentre
alla Cattedra di Fisica Sperimentale, afferente al secondo Collegio, fu
chiamato Carlo Matteucci.
L’arrivo del Matteucci alla Cattedra di Fisica Sperimentale è da
considerarsi di grande importanza
soprattutto perché il Matteucci fu il
primo a pensare ad un laboratorio
di Fisica che non servisse solamente
alla didattica ma anche alla ricerca:
si occupò di elettricità e magnetismo, di induzione elettromagnetica, di meteorologia, di telegrafia,
ed è considerato fra i fondatori dell’elettrofisiologia per aver scoperto
la generazione di corrente elettrica
generata dallo sforzo muscolare.
Nel 1844, insieme a Riccardo Felici e Enrico Betti, Matteucci fondò
la rivista Il Cimento (poi Il Nuovo
Cimento dal 1855) e nel 1862, già
senatore del Regno d’Italia, fu ministro dell’Istruzione Pubblica.
Alla fine del periodo lorenese,
a Pisa inizia l’opera di una figura
di fondamentale importanza per la
scienza: Antonio Pacinotti. Nato a
Pisa il 7 giugno 1841, nel 1856,
finiti gli studi liceali, superò gli esami di ammissione ai corsi di matematiche applicate all’Università
di Pisa e l’anno seguente conseguì
il diploma di Baccelliere. Sui suoi
appunti personali, datati 1858,
si trovano descrizioni relative all’invenzione della prima dinamo
a corrente continua: un piccolo
dispositivo la cui parte principale
è costituita da un anello toroidale
sul quale è avvolta una spirale di
filo conduttore chiusa su se stessa
(denominata elica chiusa). L’anello, posto in un campo magnetico
esterno, ruota se si fornisce corrente oppure produce corrente se lo si
fa ruotare manualmente. Si tenga
presente che al tempo di Pacinotti
tutte le macchine per la produzione
di corrente elettrica fornivano esclusivamente correnti alternate che, al
bisogno, venivano raddrizzate con
dei dispositivi chiamati commutatori. Questo anello dinamo-motore si
perfezionò poi in un’altra macchina, costruita da Pacinotti nel 1860,
e da tutti conosciuta come macchinetta di Pacinotti, presente tuttora
fra gli strumenti scientifici del Dipartimento di Fisica. Antonio Pacinotti, diventato professore di Fisica
Sperimentale a Cagliari nel 1873 e
poi professore di Fisica tecnologica
a Pisa nel 1881, realizzò numerose altre invenzioni e s’interessò di
molti argomenti di carattere scientifico; qui ricordiamo solamente
che a lui si deve l’invenzione della
trazione elettromagnetica.
Telescopio a riflessione di Short, XVIII
sec. Pisa, Centro per la Conservazione
e lo Studio degli Strumenti Scientifici,
Dipartimento di Fisica
35
Nella prima metà dell’800, Pisa
divenne un centro di primo piano
nel settore delle scienze naturali.
Allo sviluppo dell’Orto botanico e
delle collezioni del Museo di storia
naturale (nel 1787 era stato acquistato lo splendido corpus di tavole
ornitologiche eseguite da Violante
Vanni e da Lorenzo Lorenzi per la
Storia naturale degli Uccelli trattata con metodo ed adornata di
figure intagliate in rame e miniate
al naturale... di Saverio Manetti,
stampata a Firenze tra il 1767 e
il 1776), si univa una produzione
tipografica e calcografica in grado
di lasciare testimonianze di rilevanza assoluta.
La Pomona Italiana di Giorgio
Gallesio rappresenta una delle più
felici testimonianze dell’illustrazione naturalistica del XIX secolo.
Stampata tra il 1817 e il 1839 nella tipografia “Niccolò Capurro” del
celebre letterato e scrittore d’arte
Giovanni Rosini, l’opera intendeva censire le varietà fruttifere nazionali attraverso uno splendido
apparato iconografico, raggiungendo esiti pari, se non superiori,
alle più importanti opere pomologiche e botaniche pubblicate in
Europa agli inizi del secolo.
Episodio unico e per molti
aspetti irripetibile – proprio per la
qualità e complessità dell’impresa
editoriale – la Pomona Italiana
costituì un esempio prontamente
seguito da altri naturalisti. Dal
1818 al 1824, infatti, ancora dalla
tipografia “Niccolò Capurro” veniva stampata la Flora Italiana ossia
raccolta delle piante più belle che
si coltivano nei giardini d’Italia,
realizzata da Gaetano Savi e le cui
eleganti tavole illustravano esemplari dell’Orto botanico pisano.
36
Saverio Manetti, Storia naturale degli uccelli, Firenze, Stamperia Moückiana,
1767-1776. Pisa, Biblioteca Universitaria
Riflesso di un gusto e di una
cultura che in orti e giardini aveva
trovato continue fonti di ispirazione figurative e letterarie, tali opere
documentavano soprattutto quel
clima di forte impegno intellettuale
culminante con la celebre prima riunione degli scienziati tenuta a Pisa
nel 1839, avvenimento che, con la
sovrana protezione di Leopoldo II,
apriva una nuova e più moderna
stagione della scienza italiana.
Nel 1823 veniva stampato a
Pisa, dalla tipografia di Niccolò Capurro, il primo fascicolo della Anatomia Universa di Paolo Mascagni,
“opera certamente unica negli annali dell’Anatomia”, promossa da
Andrea Vaccà Berlinghieri, Giacomo Barzellotti e Giovanni Rosini.
La “Grande Anatomia” del medico senese, scomparso nel 1815,
veniva ammirata per le splendide
tavole eseguite dall’ “egregio incisore anatomico” Antonio Serantoni.
La recensione apparsa nel 1824
sul “Nuovo Giornale de’ Letterati” di
Pisa lodava “la perizia con cui conduce a compimento e perfezione le
tavole tirate in colori, per mezzo del
pennello, onde ogni parte precisamente apparisca come nel cadave-
re si vede...”; e si rallegrava “con la
Toscana, sempre feconda di belli e
grandi ingegni, e patria del nostro
sommo Anatomico, e più ancora
coll’Italia madre e maestra delle più
colte nazioni, ove l’anatomia rinacque, ed ove si è fatta adulta, per la
pubblicazione del più onorevole, e
durevole testimone del suo perfezionamento ricevuto fra noi...”
Antonio Serantoni, Tavole anatomiche dalla Grande Anatomia del corpo umano di Paolo Mascagni, Pisa,
Capurro, 1823-1831. Pisa, Scuola Medica, Istituto di Anatomia
37
L’Orto botanico, l’antico Giardino dei Semplici dell’Università
di Pisa fondato nel 1544 (primo
al mondo), in epoca lorenese conobbe un periodo di grande splendore e vivacità grazie a importanti
figure di naturalisti come Giorgio
Santi, Gaetano Savi, Paolo Savi.
Agli inizi del XIX secolo si presentava come una realtà scientifica
di grande livello sia in Italia che
all’estero, testimoniata da scambi
di materiali, di semi, di volumi, di
exsiccata, di esperienze tecniche di
coltivazione e acclimatazione di
molte specie autoctone e esotiche.
L’Orto botanico, con il suo Museo, fu sede delle sessioni dedicate
alla Botanica e alla Fisiologia vegetale durante la Prima Riunione
degli Scienziati Italiani del 1839,
presiedute dal Praefectus Gaetano
Savi.
Nella Terza Adunanza, Giovanni Battista Amici lesse la sua celebre memoria intitolata Sul processo
col quale gli ovuli vegetabili ricevono l’azione fecondante del polline e
dimostrò la validità delle proprie
osservazioni valendosi direttamen-
L. Calamai, Modello in cera della fecondazione della
Cucurbita pepo, 1836-1839. Pisa, Museo Botanico
38
te del modello in cera, preparato
da Luigi Calamai, riproducente la
Fecondazione delle piante Fanerogame scoperta dall’Amici nel Melopepo (Pepo macrocarpus), cioè
della zucca, il cui nome scientifico
è Cucurbita pepo L.
Le spiegazioni del fenomeno e
la qualità dell’opera entusiasmarono i convenuti e lo stesso Leopoldo II, il quale decise di acquistare
il modello della Zucca, ancora
oggi conservato nel Museo botanico presso il Giardino dei Semplici
pisano
Gaetano Savi, Flora Italiana, Pisa, Capurro, 1818-1824.
Pisa, Biblioteca Universitaria
Paolo Savi, nominato nel 1818
aiuto del padre Gaetano nella cattedra di botanica, nel 1823 era
succeduto a Giorgio Santi nella
direzione del Museo e nell’insegnamento della storia naturale,
alternando i corsi di geologia e
mineralogia a quelli di zoologia e
anatomia comparata.
Ben presto iniziava a preparare gli animali con tale maestria e
accuratezza da meritarsi una fama
internazionale: alla collezione ornitologica toscana, che diventerà
un modello per molte raccolte
conservate nei principali musei naturalistici del mondo, si univano
i gruppi di animali che stupivano
– e stupiscono ancor oggi, nei locali del Museo di Storia naturale e
del Territorio nella Certosa di Calci – per complessità e fantasia.
Il diorama del cinghiale con
cani (“il Cinghiale ferito da lancia,
sbranato che ha un cane, tenta di
fuggire ma un altro cane lo afferra per un orecchio e lo arresta...”)
realizzato tra il 1821 e il 1824, è
quasi sicuramente uno dei primi
diorami al mondo noti e documentati: l’insieme dei preparati, la
ricostruzione della scena e, in ultimo, il pregevole contenitore con
il basamento e maniglie e la teca
con vetri soffiati, rendono l’oggetto un’opera unica nel suo genere
e di indubbio valore museografico,
museologico, zoologico e tassidermistico, e un valore aggiunto delle
collezioni zoologiche dell’ateneo
pisano.
Paolo Savi,
Lotta tra
cinghiale
e cani,
1821-1824.
Calci, Museo
di Storia
Naturale e
del Territorio
39
Nelle memorie redatte negli
anni dell’esilio, Lepoldo II scriverà che la Toscana era a suo avviso
la Sassonia del Sud, percorsa nelle
sue viscere da filoni estesissimi di
carbon fossile. Il loro sfruttamento
avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili per il suo Granducato.
Sin dai primissimi anni di regno, Leopoldo aveva cercato di
imitare altri paesi europei dotando l’Università di Pisa di un moderno insegnamento della geologia affidato a Paolo Savi, da anni
impegnato in classiche ricerche
sull’ornitologia toscana e che nel
1833 realizzava la prima versione
della Carta Geologica dei Monti
Pisani.
Nel 1842 la cattedra di geologia veniva affidata al napoletano
Leopoldo Pilla, che morì a Curtatone il 29 maggio del 1848, e
quindi a Giuseppe Meneghini.
Carta geologica dei Monti
Pisani levata dal vero
dal Prof. Paolo Savi nel
1832. Pisa, Dipartimento
di Scienze della terra
Carta geologica dei Monti
Pisani levata dal vero
dal Cav. Prof. Paolo Savi
nel 1832, aumentata e
corretta nel 1858. Pisa,
Dipartimento di Scienze
della terra
40