Terrorismo di matrice islamica fondamentalista - Digilander

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MICHELE AVINO
Intel Analisys on Global Terrorism [ Aprile 2009]
Il Terrorismo internazionale di
“matrice islamica fondamentalista ” Analisi
Investigativa e Modalità di contenimento
MICHELE AVINO – Intel Analisys on Global Terrorism [Aprile 2009]]
 Michele AVINO
Autoriproduzione
[email protected]
http://digilander.libero.it/micheleavino/
Sommario
Introduzione
CAPITOLO 1
Cenni storici sul
fondamentalismo islamico
CAPITOLO 2
La matrice “suicida” nel
fondamentalismo islamico
CAPITOLO 3
Terrorismo di matrice
islamica: analisi italiana
CAPITOLO 4
L’attività investigativa e di
sicurezza nel contrasto al
terrorismo
MICHELE AVINO – Intel Analisys on Global Terrorism [Aprile 2009]]
Introduzione
I
l contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica si muove attraverso
complesse problematiche investigative. La perdita di precisi punti di
riferimento etnici, nazionali o organizzativi ha comportato un diverso modello
di struttura dei gruppi terroristici: questi si presentano oggi estremamente
compositi. Persino i conflitti nazionali contro i rispettivi regimi passano in secondo
piano ed il collante che oggi unisce i combattenti di diversa provenienza diventa
esclusivamente ideologico/operativo, cioè il jihadismo militante: La comune militanza
nei campi di addestramento bosniaci prima, afgani ed iracheni dopo, ha contribuito
a rinsaldare i legami tra mujaheddin. Nelle inchieste più recenti, infatti, emerge la
coesistenza nella medesima struttura di soggetti tunisini, marocchini, algerini,
egiziani, somali, curdi etc., le cui attività sono direttamente o indirettamente
riconducibili al modello “elastico”, suggerito da Bin Laden e da Al-Qa’ida.
Nonostante i molteplici tentativi susseguitisi nel tempo in seno alla comunità
internazionale, non esiste ancora una definizione organica, universalmente
recepita, del fenomeno.
Già nel 1977 lo storico Walter Laqueur profeticamente sosteneva che una
definizione organica del terrorismo “… non esiste né si formulerà in un futuro
prevedibile”.
Nel panorama globale delle diverse definizioni che sono state fornite del
terrorismo si rilevano due definizioni di cui si avvale il Governo degli Stati
Uniti fornite dal Federal Bureau of Investigation e dal Dipartimento di Stato
che attengono rispettivamente al terrorismo interno e l’altra alla delimitazione
del terrorismo cosiddetto globale.
Secondo il FBI, per terrorismo interno s’intende l’impiego illecito o la minaccia illecita
della forza o della violenza, ad opera di un gruppo o di un individuo stanziato e operante
interamente negli Stati Uniti o nei suoi possedimenti territoriali, e privo di legami stranieri,
contro persone o beni al fine di intimidire o costringere un governo, la popolazione civile o le
loro componenti nel perseguimento di predeterminati obiettivi politici o sociali1
Il Dipartimento di Stato, assieme alla Central Intelligence Agency (CIA),
definisce tre termini collegati fra loro, ossia terrorismo, terrorismo internazionale e
gruppo terroristico, inquadrandoli nel modo seguente2:
Il termine “terrorismo” significa violenza premeditata e politicamente motivata,
perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi subnazionali [non statali] o
agenti clandestini.
Il termine “terrorismo internazionale” significa terrorismo in cui sono coinvolti
cittadini o territorio di più di uno stato.
Il termine “gruppo terroristico” significa qualsiasi gruppo che pratica, o che dispone
di sottogruppi consistenti, che praticano il terrorismo internazionale.
1
U.S. Department of Justice, Federal Bureau of Investigation, 1999, Terrorism in the
United States, 30 Years of Terrorism, A Special Retrospective Edition, Washington, D.C..
2
U.S. Department of State, Office of the Coordinator for Counterterrorism, 2007, Country
Reports on Terrorism 2006, Washington D.C., aprile, p. 318.
1
Per quanto attiene all’Unione Europea (UE) non esiste una definizione del
terrorismo, ma la definizione di nozione di reati terroristici, utilizzando appunto
il plurale, e ne elenca numerose fattispecie.
In particolare per la UE sono reati terroristici: gli atti intenzionali [...] che, per
la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a
un’organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di intimidire
gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o
un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un
qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente le strutture politiche fondamentali,
costituzionali, economiche o sociali di un Paese o di un’organizzazione
internazionale3
Il terrorismo è comunque inquadrabile sulla base di osservazioni e
considerazioni che conducono ad una descrizione funzionale.
Ai fini del presente lavoro, preferiamo avvalerci della definizione che vede il
terrorismo contemporaneo quale forma di conflittualità non convenzionale
caratterizzata dalla violenza criminale, dal movente politico, da quello politicoreligioso o da quello politico-sociale e non ultimo, dall’impiego di strutture e
dinamiche clandestine.
La definizione di “terrorismo cosiddetto islamico” viene qui adottata in ossequio alle
affermazioni di autorevoli esponenti delle magistrature e delle forze di polizia
di vari paesi islamici i quali, nel corso di vari incontri (Conferenze organizzate
dalla New York University a Madrid il 24/25.2.06, a Firenze il 25/27.5.06 ed a
New York, il 23/24.6.06) motivati da ragioni scientifiche e da esigenze di
cooperazione internazionale, hanno osservato che solo l’espressione di “so
called islamic terrorism” può ritenersi idonea ad evitare ogni impropria, se non
offensiva, generalizzazione.
Il terrorismo non nasce dal vuoto, ma sfrutta una serie di situazioni ambientali
di natura storica, politica, sociale, economica o religiosa, che di volta in volta
affliggono individualmente o in concerto fra loro diverse realtà geopolitiche.
Ogni aggregazione terroristica, si dota normalmente di una struttura impostata
su canoni di clandestinità e deve adottare metodiche compatibili con la
conflittualità asimmetrica, ossia lo sfruttamento da parte di un avversario più
debole delle debolezze di un avversario più forte.
Oltre alla clandestinità, rientrano nelle strutture e dinamiche del terrorismo la
tipica struttura a cellula; la compartimentazione; l’iniziativa accompagnata dal
proditorio e dalla sorpresa; l’attenta e minuziosa gestione di tutte le funzioni –
riguardanti il personale, le informazioni, le operazioni e la logistica – atte alla
sopravvivenza e allo sviluppo di aggregazioni relativamente deboli protese
verso la conflittualità non convenzionale di lunga durata. La violazione delle
relative norme e procedure comporta sicuro insuccesso.
3
Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13 giugno 2002 sulla Lotta
contro il Terrorismo (2002/475/GAI), Articolo 1 – Reati terroristici e principi
giuridici fondamentali.
2
Il Dipartimento di Stato degli USA nel Country Reports on Terrorism pubblicato il
30 aprile 2007 ha indicato ben 46 aggregazioni con fini politico-religiosi, di cui
43 sono di stampo radicale islamico.
• “Hamas” ovvero “Movimento di Resistenza Islamica” (Territori
Palestinesi);
• “Jihad [Guerra Santa] Islamica Palestinese”;
• “Hizballah” ovvero “Partito di Dio” (Libano);
• “Asbat al-Ansar” ovvero “Lega dei Seguaci” (Libano);
• “Ansar al-Sunna” ovvero “Lega della Sunna” (Iraq);
• “al-Qaida” [La Base] in Iraq;
• “Armata Islamica dell’Aden” (Yemen);
• “Gama’a al-Islamiyya” ovvero “Gruppo Islamico” (Egitto);
• “al-Jihad” ovvero “Guerra Santa” (Egitto);
• “al-Tawhid w’al Jihad” ovvero “Monoteismo e Guerra Santa” (EgittoSinai);
• “Gruppo Islamico Armato” (Algeria);
• “Gruppo Combattente Islamico Marocchino”;
• “Gruppo Combattente Tunisino”;
• “al-Qaida” nel Maghreb Islamico”;
• “Gruppo Combattente Islamico Libico”;
• “al-Ittihad al-Islami” ovvero “Unità Islamica” (Somalia);
• “Popolo Contro Banditismo e Droghe” (Sud Africa);
• “Grandi Incursori Islamici del Fronte Orientale” (Turchia);
• “Hizballah Turco”;
• “Battaglione Ricognizione/Sabotaggio dei Martiri Ceceni RiyadusSalikhin” (Russia);
• “Brigata Internazionale Islamica per il Mantenimento della Pace”
(Russia);
• “Reggimento Islamico per le Missioni Speciali” (Russia);
• “Unione della Jihad [Guerra Santa] Islamica” (Uzbekistan);
• “Movimento Islamico dell’Uzbekistan”;
• “Movimento Islamico del Turkistan Orientale” (Afghanistan e Cina);
• “Hizb-I Islami Gulbuddin” (Afghanistan e Pakistan);
• “Tehrik Mifaz-E-Shariah Mohammadi” (Afghanistan e Pakistan);
• “Harakat ul-Mujahedin” ovvero “Movimento Combattenti Islamici”
(Pakistan-Kashmir);
• “Jaish-e-Mohammed” ovvero “Armata di Maometto” (PakistanKashmir);
• “Lashkar e-Tayyiba” ovvero “Armata del Virtuoso” (PakistanKashmir);
• “Harakat ul-Jihad-I-Islami” ovvero “Movimento Guerra Santa Islam”
(Pakistan-Kashmir);
• “Jamiat ul-Mujahedin” (Pakistan-Kashmir);
• “Hizbul-Mujahedin” (Pakistan-Kashmir);
3
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•
“Lashkar i Jhangvi” (Pakistan);
“Sipah-I Sahaba/ Pakistan”;
“al-Badhr Mujahedin” (Kashmir);
“Harakat ul-Jihad-I-Islami/Bangladesh”;
“Jamaatul-Mujahedin Bangladesh”;
“Gruppo Abu Sayyaf” (Filippine);
“Movimento Rajah Solaiman” (Filippine);
“Jemaah Islamiya" ovvero “Comunità Islamica” (Indonesia);
“Kumpulan Mujahedin Malaysia”;
“al-Qaida” ovvero “La Base” (Afghanistan e Pakistan).
Le organizzazioni terroristiche presentano caratteristiche ben diverse dai
gruppi criminali tradizionali, in particolare quelli di tipo mafioso.
Caratteristiche che costituiscono la loro vera forza, perché le rendono più
“sfuggenti” alla conoscenza e quindi meno permeabili dalle indagini. Mentre le
associazioni mafiose sono caratterizzate da forte strutturazione e radicamento
territoriale, le “cellule” islamiste non sono strutturate rigidamente in un’unica
organizzazione gerarchica, ma confederate tra loro, peraltro del tutto
informalmente; ruotano intorno a “strutture di servizio” (finanziario e
logistico); operano con estrema mobilità nell’ambito di una “rete”
transnazionale del terrore, nel cui ambito vengono progressivamente superate
anche le identità etnico-nazionali.
E’ doveroso formulare una constatazione ossia, fino all’11 marzo del 2004, gli
esperti internazionali, nonostante le minacce e gli anatemi provenienti da
numerosi esponenti di rilievo delle principali organizzazioni terroristiche di cd.
matrice islamica, consideravano l’Europa una sorta di retroterra logistico,
utilizzato, cioè, per attività di proselitismo ad ampio raggio (specie tra le masse
di immigrati clandestini), per organizzare l’invio nelle zone di guerra di
militanti muniti di documenti falsi di identità e per raccogliere mezzi e denaro
(anche attraverso attività illecite) da spedire ai combattenti per sostenerne e
finanziarne le attività.
Le stragi di Madrid dell’11 marzo 2004 e quella di Londra del luglio del 2005 hanno
spinto gli addetti ai lavori a dotarsi di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno
terroristico internazionale.
Il livello di pericolosità del progetto jihadista per gli italiani e gli europei non è
comunque connesso solo al numero delle vittime ed alla quantità di distruzioni
che gli atti terroristici possono determinare ma dipende, infatti, anche dal
grado di penetrazione del jihadismo in Europa che tende a strutturare pezzi di
territorio – soprattutto le periferie urbane dove più massiccia è la presenza
dell’immigrazione musulmana – in appendici del dar al-islam4 in versione
fondamentalista.
Il fenomeno del terrorismo di matrice islamica quale fenomenologia specifica
del terrorismo religioso, è ormai una realtà in continua trasformazione.
4
“Dar-al-Islam”: Regno dell’Islam.
4
L’azione informativa e di contrasto continua a disegnare l’Europa quale
piattaforma d’interesse prioritario per il jihad internazionale, sia per le attività
logistiche sia come eventuale ambito d’azione armata.
L’elemento di maggiore preoccupazione è la nascita di gruppi che nascono in
maniera autonoma, di cosiddette cellule spontanee che restano comunque
fedeli ad un unico Capo ma operano in via del tutto indipendente, senza legami
ma capaci di agire al momento opportuno.
Siamo quindi di fronte ad una nuova fase del terrorismo ad una nuova jihad
condotta da soggetti che non frequentano necessariamente luoghi di culto
islamici, che si auto addestrano e che possono essere innescati con messaggi in
codice trasmessi via internet, radio o TV dai Capi religiosi.
Si tratta di figure che vivono apparentemente una vita regolare cercando di
integrarsi nel contesto sociale di residenza ma contemporaneamente coltivano
in via del tutto illegale il culto e la passione per la guerra santa decidendo poi in
maniera spontanea la sua voglia di martirio e azione attraverso un continuo
allenamento psicologico.
Nello scenario delineato assume sempre più importanza una nuova tendenza
ovvero la conversione alla causa jihadista di cittadini europei per questo
ribattezzati “emiri dagli occhi blu”.
Si tratta di cittadini comunitari che sposando la causa partono per campi di
addestramento ai confini tra Pakistan ed Afghanistan dove si addestrano
insieme ai mujaheddin uzbeki dell’Unione della jihad islamica, imparano a
preparare ordigni con materiale civile, studiano tecniche di contro-intelligence,
elaborano nuove tattiche e sono poi pronti per entrare in azione in Europa.
Non hanno bisogno di ingresso illegale in Europa, non necessitano di
documenti falsi ma facendo rientro a casa possono operare da perfetti
insospettabili.
Lo scenario analizzato, ai fini dell’analisi della minaccia, deve inoltre tenere conto
che da un lato esiste una cosiddetta “prima generazione” di figli di immigrati che
annovera nelle sue fila giovani e brillanti laureati felicemente integrati che
partecipano attivamente alle dinamiche sociali costituendo un elemento
caratterizzante dello sviluppo europeo.
All’altro estremo esistono giovani anch’essi appartenenti alla “prima generazione”
di immigrati che enfatizzano la rottura con l’Europa in chiave fondamentalista
islamica e rifiutano qualsiasi forma di integrazione ritenendola lesiva della propria
identità.
Sono proprio questi ultimi a costituire il potenziale pericolo per l’Europa, si
tratta di giovani pronti al ricorso alla violenza pur di manifestare l’odio
religioso ed il risentimento sociale verso l’occidente nell’attesa di poter lanciare
la cosiddetta islamizzazione dell’Europa secondo i proclami di Bin Laden.
5
1. Cenni storici sul fondamentalismo
islamico
I
l fenomeno comunemente noto come fondamentalismo islamico dev’essere
letto come una forma storicamente determinata della “rinascita islamica”.
Con quest’ultimo termine, infatti, si traduce in italiano il significato letterale della
parola nahda. Per intenderci, senza forzare più di tanto il parallelismo, si può
affermare che, dopo un lungo periodo di decadenza culturale, politica e religiosa ,
segnata per molti Paesi islamici dalla dominazione coloniale europea, si assiste al
sorgere di movimenti collettivi che si incaricano di dare voce ad una fondamentale
esigenza di identità: essere musulmani in un mondo che cambia senza rinunciare ai
tratti originari della propria cultura di appartenenza.
E in particolare, larghissima diffusione ha avuto la definizione di “fondamentalismo
islamico”, per identificare dei movimenti di attivismo sociale e politico fondati
sull’islam; un islam a un tempo ideologia politica e religione. In essi è fondamentale
– quando non addirittura ossessiva – l’idea di tornare alle fonti dell’islam più puro,
come il Corano (il Libro sacro che contiene le rivelazioni fatte da Dio tramite
Maometto, e che è quindi direttamente parola di Dio), la shari‘a, la comunità
primigenia dell’islam, del periodo del Profeta e dei primi califfi (i cosiddetti alRashidun, i “Ben guidati”).
Negli ultimi anni si è andato diffondendo nel nostro paese la definizione di
“islamismo” e di “islamisti” – movimenti islamismi, ideologia islamista, etc. – per
definire queste realtà. E’ un termine ripreso dal francese les islamistes (a sua volta
derivato dall’arabo al-islamiyyun), ma che ha trovato delle resistenze per i suoi
possibili fraintendimenti, dato che in Italia, l’islamista è anche lo studioso di cose
islamiche, l’esperto di islam.
In linea generale, la storiografia che si occupa di Islam e di fondamentalismo
islamico è concorde nel porre le radici del fenomeno in esame intorno agli ultimi
decenni del secolo XIX. Pur se manifestazioni di estremismo religioso non erano
mancate anche in epoche precedenti, solo alla fine dell’800 l’organizzazione di un
movimento di riflessione e mobilitazione politico-religiosa e culturale assume una
sistematicità realmente incisiva.
La rinascita islamica si pone come un fenomeno moderno, per usare le nostre
categorie storiografiche; in realtà, vista dal mondo musulmano essa è espressione di
rottura e riscatto nei confronti del colonialismo europeo. Questo fondamentalismo
è un insieme di movimenti sociali, politici e religiosi che interpretano tre
fondamentali bisogni emergenti nel mondo musulmano moderno e
contemporaneo:
6
- il bisogno di tornare alle origini, alle forme pure ed ai fondamenti originari
dell’islam;
- il bisogno di riaffermare un’identità perduta o minacciata, sforzandosi di adattare
l’islam alla modernità senza lasciarsi distruggere definitivamente da essa;
- il bisogno radicale di ricostituire in terra uno Stato etico-religioso fondato sulla
legge di Dio.
Tutte le aggregazioni terroristiche di stampo radicale islamico, oltre ad essere
protese verso la creazione di uno stato teocratico nel proprio paese, o in tutti
quelli della propria area geopolitica o su scala mondiale, sono accomunate da
una o più delle seguenti caratteristiche: una duplice struttura, la prima alla luce
del sole (per l’azione politica, il magistero religioso, il proselitismo, la raccolta
di fondi e l’assistenza sociale) e, l’altra clandestina (per le iniziative
terroristiche); l’odio nei confronti d’Israele; la presenza di organi periferici
all’estero; l’azione terroristica estesa al di là dei propri confini; la guerra santa
senza quartiere contro l’infedele a livello globale.
Nella letteratura scientifica si è spesso ricorso anche a perifrasi come “movimenti
dell’attivismo islamico”, o a definizioni come “l’islam politico”, o “islam militante”.
Con queste parole si voleva evidenziare il fatto che i movimenti islamici che si
andavano descrivendo non perseguissero tanto, o solo, un’imposizione artificiale
sopra tutta la società islamica di pratiche religiose e consuetudini di un passato
immaginato; essi tentavano piuttosto di ri-organizzare l'intero ordine socio-politico
secondo la loro lettura del religioso.
Un’utopia affascinante, che promette di restaurare la società giusta dei primordi
dell’islam, di trovare soluzioni ai fallimenti economici dei nuovi regimi usciti dalla
fase di decolonizzazione, di eliminare gli squilibri sociali e la dilagante corruzione, di
proteggere le famiglie dalle impetuose trasformazioni sociali imposte dalla
modernizzazione, di dare voce al dissenso e di combattere l’autoritarismo e la
soppressione delle libertà civili. Un pensiero facilmente traducibile in slogan efficaci
e che semplificano dualisticamente la complessa realtà contemporanea. Il tutto
restaurando in pieno i valori profondi della civiltà islamica, espressi nel Corano. Il
ritorno inderogabile alla Legge, la shari‘a, e la sua piena applicazione nella società
sono obiettivi conclamati. Non è l’islam che deve adattarsi alla modernità. E’ la
modernità che deve essere islamizzata.
Alle origini di questo radicalismo vi è l’associazione dei Fratelli Musulmani
(Ikhwan al-Muslimun) fondata nel 1928-1929 dall’egiziano Hasan al Banna.
L’associazione nasce come società filantropico-religiosa, strutturandosi come
movimento di crescente mobilitazione e sensibilizzazione politico-religiosa: il
movimento fondamentalista islamico. Con la nascita di detto movimento, i
fondamentalisti si sentirono liberi di riproporre la tradizionale dottrina delle fonti
religiose per il governo dei rapporti con l’esterno. Emerse così il carattere
conflittuale, oppositivo e pugnace del fondamentalismo a noi noto: l’esterno è
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infedele, e come tale va convertito e, se refrattario alla conversione, combattuto,
annientato e coercito alla conversione.
Il fondamentalismo islamico della seconda metà del ‘900 fu storicamente coinvolto
con l’ascesa al potere di molti leader (fra cui il generale Gamal Abdul Nasser, in
Egitto); tale coinvolgimento non portò frutti, anzi le leadership emerse grazie
all’appoggio fondamentalista, stabilizzato il proprio potere, generalmente non
esitarono a perseguitare gli alleati scomodi nel loro rivendicare l’attuazione di
politiche allineate ai dettami della dottrina religiosa. Queste persecuzioni e la
frustrazione costante delle proprie iniziative furono la causa della deriva dottrinaria
e pratica cui andarono incontro le organizzazioni fondamentaliste attive dagli anni
’70 fino ad oggi, tutte sostanzialmente filiazioni dei Fratelli Musulmani e tutte
artefici di una radicalizzazione estrema delle ideologie politico-religiose nate in seno
alla confraternita egiziana. Anche per questo molti analisti sono indotti a
confondere il fenomeno specifico del fondamentalismo islamico con un più
generico fenomeno terroristico.
L’ideologo di punta del radicalismo islamico è Sayyid Qutb5 già militante dei Fratelli
Musulmani, la cui opera costituisce, insieme a quella del pakistano Mawdudi il
riferimento teorico di tutti i gruppi fondamentalisti contemporanei. Nella
Fratellanza Musulmana Sayyd Qutb è il primo a concettualizzare l’islam politico e
durante il suo soggiorno negli Stati Uniti sviluppa una specie di autocoscienza
dell’islam e scrive una serie di articoli dal titolo l’America che ho visto che sollevano
numerose proteste da parte dei sostenitori degli Stati Uniti.
Sayyd Qutb risulta molto importante nell’islam politico e rivoluzionario perché egli
concettualizza l’idea di lotta politica e di movimento (harakat) sulla base di una
rilettura del Corano e di un trasferimento concettuale nei confronti del pensiero
politico moderno. Nel formulare una definizione del governo islamico, egli afferma
in La battaglia dell’islam contro il capitalismo: “Qualsiasi regime in cui si applichi la
legge islamica è un regime islamico, quale che sia la sua forma e la sua
denominazione e qualsiasi regime nel quale non si applichi questa legge non è
riconosciuto dall’islam, anche se è diretto da un collegio religioso musulmano o se
porta un titolo musulmano”.
Ma il rovesciamento più spettacolare è il ruolo che Qutb attribuisce allo jihad.
Infatti secondo l’ideologo è nello jihad che sono contenute le premesse
dell’ideologia della lotta. Come egli stesso afferma: “L’islam è costretto alla lotta
dall’obiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è
un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma
collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli
avversari sono anch’essi degli individui, raggruppati in classi, in Stati, in coalizioni.
Lo jihad è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza, è un jihad
mondiale, permanente. Così essere musulmano significa essere guerriero, una
comunità di guerrieri sinceri pronti ad essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e
quando lo vuole perché solo lui è il Capo della battaglia”.
5
Said Qutb scrittore e ideologo dei Fratelli Musulmani, condannato e giustiziato per
complicità nell’attentato a Sadat
8
IL RADICALISMO ISLAMICO: TENDENZA INNATA O
EPIFENOMENO? Estratto da un articolo di Paolo Branca
pubblicato su «Annali di Scienze religiose», 4/1999.
[….]
Se alcuni caratteri presenti nella formulazione tradizionale dell'islam,
insieme a talune funzioni mancanti o quanto meno bloccate, sembrano
favorire l'emergere del radicalismo musulmano, non possiamo esimerci dal
notare che le forme e le dimensioni da quest'ultimo recentemente assunte
devono essere ricondotte anche e forse soprattutto a fattori legati a
situazioni storico-politiche: "Islamic fundamentalism is both fully politics
and fully religion". La grande mobilitazione che ha caratterizzato la recente
storia del mondo arabo-musulmano ha portato fatalmente al privilegiare un
pensiero finalizzato al raggiungimento di obiettivi pratici che esso
contribuiva a sostenere e legittimare, mettendo tra parentesi la funzione
critica che pure dovrebbe contraddistinguere l'azione degli intellettuali. Pur
nelle mutate condizioni storiche e culturali l'idéologie de combat persiste,
con la funzione di «ridurre la complessità delle realtà storiche, sociologiche
e psicologiche a un insieme di affermazioni più o meno coerenti, destinate a
valorizzare e legittimare gli obiettivi dell'azione collettiva. Non si tratta
tanto di raggiungere l'obiettività - come si sforza di fare il pensiero
scientifico - quanto di trasformare condizioni di vita ritenute insopportabili
in altre che vengono idealizzate per renderle più desiderabili».
«La situazione culturale, politica ed economica attuale del mondo arabo fa
sì che sia impossibile, soprattutto se si è arabi e dal mondo arabo, parlare
della religione come di un fenomeno sociale totalmente spiegabile [...]Il
risultato è che ogni discorso sulla società, sulla religione, sul diritto suppone
preventivamente una sorta di autocensura da parte di chi parla o scrive.
Quest’ultima consiste nel riconoscere l’incontestabilità di alcune verità e
principii per la ragione - anch’essa incontestabile - che essi non possono
essere messi in discussione. Il massimo di libertà che ci si può permettere di
fronte a tutto ciò è quindi far finta di niente, cercare di cavarsela con giochi
di parole o correre il rischio della scomunica (Ali Abdurrazik, Tahar
Haddad...) o della messa a morte (Mahmoud Mohamed Taha, giustiziato da
Numeiry nel 1985). E’ dunque un dibattito quasi impossibile, poiché gli
mancano due condizioni indispensabili all’obiettività: l’accordo sugli
strumenti d’analisi e l’autonomia di giudizio. In generale, l'analisi del
fenomeno religioso coinvolge colui che la conduce in prima persona e ciò
non è dovuto esclusivamente a una debolezza intrinseca alla sua personalità
o alla sua formazione, ma all’ambiente in cui opera. Infatti ciò che egli
scriverà, a dispetto della neutralità che si sforzerà di mantenere, sarà
percepito come una scelta di campo religioso, ideologico, etnico o politico.
Per quanto egli tenterà di dissociarsi, la società continuerà a valutarlo
secondo i propri criteri e gli negherà ogni neutralità. [...] Egli lo sa e sa che,
impegnandosi nella ricerca, è condannato a perdere la propria innocenza, in
quanto sa che alla fine potrà essere condannato.
9
E’ quindi del tutto naturale che - non essendo ogni intellettuale
necessariamente un eroe - in tali condizioni non tutto venga detto e che il
discorso dell’intellettuale a proposito della religione, del diritto, della
politica sia diplomatico, fatto di silenzi, prudenza e furbizie, sia in definitiva
un discorso corrotto».
E' indubbio che su questa situazione hanno influito anche elementi esterni:
l'incapacità di contribuire alla soluzione dei conflitti, allo sviluppo
economico e al superamento di condizioni sfavorevoli all'armonica
coesistenza fra differenti civiltà non soltanto non contribuisce a rimuovere,
ma col tempo rafforza una logica del rifiuto e della contrapposizione che ha
come conseguenza sul piano interno il ripiegamento su di sé nella ricerca di
un modello proprio e autosufficiente che, per quanto mitico, svolge una
funzione di rifugio e di rassicurazione che contribuisce alla sua diffusione al
suo successo.
[…]
Credo che questi tratti possano essere riscontrati nella visione tradizionale
di molte religioni e che l'islam sembrerebbe addirittura più predisposto a
svilupparle in forza sia di alcune sue originarie disposizioni, sia della fase
involutiva che sta attraversando, sia infine dei fattori esterni che ne
condizionano lo sviluppo. Il radicalismo religioso si configura così
nell'islam come una sorta di fenomeno ritornante, esito di alcuni nodi
irrisolti di base uniti alla funzione che la religione è chiamata ad assolvere
periodicamente da quanti la utilizzano per legittimare la propria azione,
poco importa se finalizzata al mantenimento o al rovesciamento dello status
quo. Quanto questo stato di cose sia pernicioso per la stessa sorte dell'islam
è chiaramente percepito da alcuni: «La religione, ben lungi dall'essere
l'origine di questa difficile situazione, ne è la prima vittima».
Nel tentativo di rispondere alla difficile domanda che ci siamo posti e alla
quale non pretendiamo di aver fornito una risposta completa né definitiva,
ho dato voce quasi esclusivamente ad autori musulmani.
Voglio concludere sottolineando questo punto poiché mi sembra la più
chiara dimostrazione che, in definitiva, qualsiasi determinismo sarebbe
indebito e ingiustificato: l'islam non è un blocco monolitico e i musulmani
non sono meri esponenti di un sistema statico e inalterabile. Oltre le grida
di chi fa la voce più grossa il dibattito è vivo e merita rispetto e
considerazione più di quanto comunemente avviene. Mi sembra dunque
giusto e opportuno terminare con le considerazioni di uno di quanti vi
partecipano, se non altro per contribuire a fare uscire dall'ombra una delle
tante figure che meriterebbero ben maggiore visibilità: «Al di là della crisi
politica e sociale, il mondo musulmano affronta tuttavia, oggi, la sua più
grande crisi religiosa. Così come la mancanza di un pensiero politico critico
va di pari passo con lo strapotere dello Stato, la mancanza di un'autorità
legittima religiosa seguita dai fedeli fa perdere il controllo sulle forze
spirituali della religione.
10
Volendo tracciare le origini del jihadismo possiamo ricordare che, il 6 ottobre
1981, la “Jihad islamica”, dopo aver attentato alla vita di Galmal Abd elNasser, uccide il presidente egiziano Anwar el Sadat (1918-1981).
Negli Anni ’70, sulla base del pensiero di Said Qutb, erano, infatti, nate, due
organizzazioni armate, figlie dell’ala più radicale dei Fratelli Musulmani: AlJihad e la Jama’at al-Islamyyah; organizzazioni che nel febbraio 1998 hanno
sottoscritto unitamente ad Al Qaeda, al “Movimento Jihad”, e alla “Jamat-ulUlema”, la fatwa anti-occidentale di Osama Bin Laden.
Per Abd Salam al-Faraj, fondatore di Al-Jihad, autore di uno scritto intitolato
“Al-Faridah al-Ga’ibah” (Il dovere nascosto), pubblicato sul quotidiano egiziano
“Al Ahrar” il 14 dicembre 1981, il jihad, al pari dei “cinque pilastri della fede”, è
un obbligo che ulama e faqih hanno storicamente occultato per loro interesse.
Faraj afferma che, tanto il Corano quanto gli Hadith, quando parlando del jihad
alludono alla guerra, al combattimento, allo spargimento di sangue. Il concetto
di jihad deve, pertanto, essere interpretato in modo letterale e non
allegoricamente come hanno fatto i mistici e parte della dottrina. Il jihad, deve
essere condotto contro tutti coloro che deviano dagli obblighi morali e sociali
imposti dalla shari’ah, siano questi infedeli o apostati. Secondo Faraj, i mezzi
pacifici e legali, sono inadeguati alla guerra contro gli “empi”. Nel suo scritto
Faraj sottolinea il come impegnarsi in queste azioni costituisca per tutti i veri
musulmani un obbligo ricompensato da Dio con il paradiso.
Abd Salam al-Faraj, ha incassato la propria ricompensa, nel 1982, anno in cui è
stata eseguita la condanna a morte inflittagli per il ruolo avuto nell’assassinio
del presidente Sadat.
Vale la pena evidenziare che la giustificazione teorica dell’assassinio di Anwar
al Sadat è senza dubbio l’esempio più eclatante di eversione politica in ambito
islamico. Nel manifesto politico dal titolo “L’obbligo assente”, pubblicato nel
1980, Abd al-Salam Farag teorizza la delegittimazione degli stati islamici e
l’obbligo di destituire i loro dirigenti. Nel caso specifico, Sadat fu giudicato
colpevole di aver firmato gli accordi di Camp David con Israele e di non
applicare la shari’a in Egitto.
L’attentato organizzato contro il presidente egiziano Anwar Sadat, segna
ufficialmente l’inizio del moderno jihadismo, introducendo in modo stabile la
dimensione rivoluzionaria nella lotta dei movimenti islamici radicali contro i
“poteri corrotti”.
Negli anni a seguire l’offensiva jihadista è proseguita indirizzando la propria
azione terroristica prevalentemente nei confronti di bersagli occidentali,
finendo con il confondersi con Al Qaeda (“la Base”…della jihad) ossia il
network terroristico di Osama Bin Laden.
Nel 1983, in Libano, compare per la prima volta il terrorismo suicida., con il
quale “Hezbollah” colpisce, in aprile, l’ambasciata degli Stati Uniti a Beirut e, in
ottobre, i contingenti americano e francese della forza multinazionale di pace.
uccidendo 241 marines e 58 soldati francesi.
In Algeria, il terrorismo islamico di stampo salafita inizia la propria attività nel
1991, dopo l’annullamento, da parte del governo delle elezioni vinte dal Fronte
Islamico di Salvezza (FIS). In un primo tempo la violenza è rivolta
esclusivamente nei confronti degli stranieri, della leadership politica e degli
11
intellettuali moderati. Il 29 giugno 1992 l’Armata Islamica di Salvezza (AIS)
uccide il presente Boudiaf, e, il 28 dicembre 1993, il poeta Youssef Sebti, che
diviene il diciottesimo intellettuale assassinato in dieci mesi. Nella campagna
terroristica dell’AIS viene ucciso anche il leader moderato del FIS Abdalbaki
Saharaoui. In seguito, i “Gruppi Islamici Armati” (GIA), che controllano una
parte del territorio mettono in atto una vera e propria “strategia del terrore”
che troverà il culmine nel massacro compiuto nella Regione di Elisane, il 29
dicembre 1997,allorquando senza motivo vengono trucidate 412 persone, fra le
quali numerose donne e bambini.
In Palestina, l’assassinio del premier Ytzhak Rabin (4 novembre 1995) pone
fine al processo di pace iniziato due anni prima ad Oslo. L’inizio della seconda
intifadah (28 settembre 2000) segna l’aumento delle azioni suicida da parte di
“Hamas” e della “Jihad islamica palestinese”, azioni in seguito, condotte in
modo sinergico con il “Tanzim” e le “Brigate Al-Aqsa”, fazioni armate di alFatah, scese in campo allo scopo di non perdere, a vantaggio delle
organizzazioni religiose, il consenso acquisito in passato tra la popolazione
palestinese. Assume così un ruolo strategico lo “shahid”, il testimone di fede,
disposto al martirio in cambio della ricompensa eterna.
In Cecenia, la disgregazione dell’impero sovietico determina una miscela di
patriottismo, terrorismo e crimine organizzato, nella quale è possibile rinvenire
una serie di azioni terroristiche in funzione anti-russa. Nel giugno 1995, un
commando penetra nell’ospedale di Budjonnovsk e prende in ostaggio un
migliaio persone. Nel gennaio 1996 i ceceni assaltano la città di Kisljar che
abbandonano portando con sé un centinaio di ostaggi. Nell’aprile 2001
terroristi filo-ceceni prendendo in ostaggio 150 persone nello Swiss Hotel di
Istambul.
L’8 agosto 2000, una bomba esplode nella metropolitana di Mosca. Il 24
ottobre 2002 un commando guidato da Movsar Baraeyv, nipote di Arbi
Baraeyv, leader ceceno ucciso dai russi nel giugno 2001, irrompe nel teatro
situato nell’ex stabilimento Moskovskij Podshipnik, prendendo in ostaggio 700
persone che saranno liberate in seguito ad un’azione dei reparti speciali che
costerà la vita all’intero commando e a 117 ostaggi. Infine, a Beslan, in Ossezia,
il 1 settembre 2004 un commando terroristico appartenente al “Battaglione dei
martiri” di Shamil Basaev irrompe in un asilo prendendo in ostaggio circa
1.500 persone fra adulti e bambini. L’epilogo della vicenda condurrà al tragico
bilancio di 394 morti fra i quali 156 bambini.
Nel 1991, dopo la II Guerra del Golfo, la permanenza di forze armate
statunitensi in Arabia Saudita, da inizio al conflitto tra l’internazionale jihadista
di Osama Bin Laden ed il “Grande Satana” americano. Riconducibile al
pensiero giuridico-religioso hanbalita6 e al wahabbismo7 lo jihadismo, si propone
di ripristinare, nel Dar al-Islam, e cioè nel mondo islamizzato, il legame fra
6
Scuola giuridico- religiosa fondata dal giurista-teologo Ibn Hanbal, caratterizzata da
una rigorosa interpretazione del Corano e della shari’a e dall’affermazione della
sovranità di Dio anche sul piano temporale.
7
Movimento religioso fondato nel 1754, nel Neged, da Mohammed Bin Abdul
Wahhab, di scuola hanbalita, sostenitore dell’interpretazione radicale del Corano. Il
Wahabbismo è oggi la religione di stato saudita.
12
religione, società e stato (din-dunya-dawla) che aveva caratterizzato il modello
politico originario, il califfato, dove il califfo (khalifa - letteralmente
“luogotenente”, “vicario” …del Profeta) era al contempo guida politica e
spirituale di una comunità di fedeli (umma) governata secondo la legge religiosa
(shari’a). Lo strumento è la guerra santa (jihad) contro l’Occidente, ed in
particolare contro gli Stati Uniti, Israele e i governi dei Paesi musulmani
considerati apostati in quanto filo occidentali.
Il 23 febbraio 1993, esplode una bomba al Word Trade Center di Manhattan
uccidendo 5 persone e ferendone quasi un migliaio; l’ottobre dello stesso anno
a Mogadiscio vengono trucidati 18 marines. Nel 1996 un proclama di Bin
Laden noto come “Dichiarazione di guerra contro gli americani” ufficializza il
conflitto con gli Stati Uniti. Il 25 giugno, a Daharan, in Arabia Saudita, un
attentato esplosivo uccide 19 soldati americani.
Il 23 febbraio 1998 a nasce a Kandahar il “Fronte islamico internazionale per
la Jihad contro gli ebrei e i crociati”, ideologicamente fondato sulla fatwa di Bin
Laden “contro gli ebrei e i crociati”, al quale aderiscono gruppi egiziani a
matrice salafista quali “Al-Jihad” di Ayman al-Zawahiri, la “Jama’at al Isalmyya”
e l’“Avanguardia della conquista” di Yasser al Sirri, nonché il pachistano
“Harakat al-Ansar” ed il giordano “Esercito di Muhammad”. II l7 ottobre dello
stesso anno l’“Esercito per la liberazione dei luoghi santi”, altra organizzazione
affiliata ad “Al-Qaeda”, compie attentati esplosivi contro le ambasciate
americane di Nairobi e Dar es-Salam, nei quali perdono la vita 210 persone.
L’11 settembre 2001 Al-Qaeda compie lo storico attentato contro il World Trade
Center e Pentagono. Seguiranno gli attentati a Madrid l’11 marzo 2004 e a Londra il
07 luglio 2005.
Questi ultimi episodi in particolare hanno confermato la fondatezza della minaccia
del radicalismo religioso nella forma in cui lo abbiamo descritto in precedenza e
l’espandersi della sua azione.
In buona sostanza è dall’inizio degli anni ’90 che si è assistito a una trasformazione
del pensiero islamico radicale che per alcuni anni non è stato percepito nella sua
interezza in Occidente: vi è stata una radicalizzazione dei movimenti islamisti, e una
loro crescente frammentazione. L’aumento delle violenze e la crescente radicalità
delle posizioni ha finito per favorire il frazionamento di questi movimenti, e ne ha
ridotto il sostegno popolare, in particolare presso il ceto medio tradizionale.
Afghanistan, Kashmir, Cecenia sono divenuti dei centri di training per cellule
terroristiche, per singoli combattenti in nome dell’islam; si sono formati gruppi
para-militari dotati di un’alta mobilità nelle diverse “aree calde” internazionali (dal
Medio Oriente, al Maghreb, dal Sudan alla Bosnia, al Sud-est asiatico), grazie a un
network di movimenti e organizzazioni clandestine sempre più ramificato (alQa’ida ne è l’esempio più famoso). Il fenomeno del reducismo di combattenti
mujaheddin, i quali ritornavano nei propri paesi dopo aver combattuto i «nemici
dell’islam» in Afghanistan, Sudan, Kashmir, Cecenia, ex Jugoslavia, Algeria, etc. ha
favorito l’emergere di gruppi islamisti e jihadisti spesso non legati ai tradizionali
movimenti islamico radicali più strutturali, o comunque non controllabili.
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La spirale di violenze, la fuga verso posizioni sempre più massimaliste, il clamore
delle azioni di alcuni gruppi militanti (come gli attentati del settembre 2001 a
Washington e New York) ha enfatizzato oltre misura la loro azione e il loro peso
effettivo all’interno del Dar al-islam. In realtà proprio queste tendenze sembrano
aver ridotto la capacità di diffusione dell’islamismo radicale, e ne hanno favorito
una divaricazione fra movimenti islamisti politici e gruppi jihadisti.
E’ utile ricordare ai fini della nostra riflessione che, la lotta in Afghanistan contro il
regime comunista di Kabul e le truppe d’occupazione sovietiche da parte dei
muhajeddin è stata un turning point fondamentale, assieme alla vittoria della
rivoluzione popolare in Iran, che permise a Khomeyni di instaurare una repubblica
islamica radicale.
Da qui infatti nasce la ripresa dell’idea califfale, con il progetto politico di un nuovo
califfato islamico che superi ogni divisione etnica, regionale e culturale in favore di
una nuova presa di coscienza della umma islamica.
Se il Nemico è globale e pervasivo, anche il jihad deve essere globale e pervasivo,
colpendo i nemici della vera fede ovunque sia possibile e in tutte le forme che siano
possibili.
Il complesso significato del termine jihad
Jihad è un termine di lingua araba entrato ormai nel linguaggio comune,
spesso tradotto imprecisamente come “guerra santa” – una guerra che i
musulmani dovrebbero combattere contro “gli infedeli”.
Da un punto di vista filologico, la parola jihad deriva dalla radice jhd, che
indica lo “sforzo”, “l’applicarsi verso qualcosa”.
La dottrina giuridica musulmana classica ha poi codificato quattro modalità
in cui è possibile attuare il jihad: con l’animo, con la parola, con la mano e
con la spada.
In ogni caso il jihad con la spada è un obbligo che di solito attiene alla
comunità dei musulmani (umma), non al singolo individuo (non vincola
cioè tutti i singoli i credenti, ma
solo un numero “sufficiente” all’interno della comunità, a meno che sia in
pericolo l’esistenza della comunità). E non può essere utilizzato per indicare
il concetto di guerra (di conquista, di bottino, etc.) in generale. E’ un
conflitto armato teso alla difesa o all’espansione dell’islam – da qui la
ripresa del concetto di “guerra santa” - che può essere combattuto solo in
certi casi, rigidamente definiti dai giuristi classici musulmani, e solo contro
certe categorie sociali.
Per la dottrina classica, il jihad deve essere combattuto:
1) contro i pagani, i politeisti e gli idolatri (kafirun), ma solo dopo aver
formulato chiari inviti alla loro conversione, e dopo aver accertato il loro
rifiuto. Non può esser combattuto contro ebrei, cristiani e zoroastriani – a
meno che essi minaccino l’umma islamica - dato perché essi godono di uno
statuto particolare e non sono considerati kafirun (infedeli);
2) contro gli apostati (irtidad), una colpa molto grave nell’islam, che la
shari‘a sanziona con la pena di morte;
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3) contro i ribelli politici, se la loro ribellione al legittimo imam minaccia
l’unità e la sicurezza della comunità musulmana
4) per la difesa delle frontiere del Dar al-islam, ossia tutti i territori in cui
prevalga l’islam, e viga la shari‘a (questa forma di difesa viene chiamata
ribat).
In ogni caso – secondo la dottrina - esso deve risparmiare donne, bambini,
vecchi e infermi, e può essere proclamato solo da ‘ulema’ abilitati, capaci di
valutarne i rischi e i vantaggi. Un punto su cui oggi esiste un dibattito molto
vivo nel mondo musulmano dato che esso contrasta con la dottrina jihadista
contemporanea della lotta globale contro ogni occidentale e con ogni
espediente, sfruttando la forza del martirio per la vera fede.
Nell’epoca contemporanea il jihad è divenuto via via una potente arma
ideologica per la lotta politica interna ai vari stati del mondo musulmano,
per screditare e delegittimare l’avversario, e per giustificare azioni violente
anche all’interno del mondo musulmano. Il jihad, infatti, va combattuto
anche contro gli apostati, fra cui vi sono tutti quei musulmani che rifiutano
la vera interpretazione dell’islam e che servono l’Occidente. Uno degli
esempi più noti e quello dell’uccisione del presidente egiziano Anwar Sadat
da parte di gruppi islamico-radicali: per loro, Sadat era divenuto un
apostata, e la sua uccisione un dovere della comunità islamica. Il termine è
stato rilanciato dalla guerriglia tribale e islamica contro il regime comunista
di Kabul dopo il colpo distato comunista del 1978 e il successivo
intervento sovietico: i guerriglieri si definirono mujaheddin, ossia
combattenti il jihad, difensori del Dar al-islam. Il termine si rivelò un
potente ed efficacissimo veicolo di propaganda in tutto il mondo islamico,
attirando un variegato insieme di combattenti non afgani che si
mobilitarono per difendere la fede.
La diffusione del concetto di jihad e la sua rilettura con un canone
teoretico innovativo, del resto, era già avvenuta con i grandi ideologi del
radicalismo islamico, ossia Mawdudi e Qutb.
Per quest’ultimo, chiunque avesse compreso la vera natura dell’islam si
sarebbe reso conto della «assoluta necessità che il movimento islamico non
si limiti alla predicazione e al proselitismo, ma comprenda anche la lotta
armata». Il jihad, inoltre, non è da considerasi come un’azione difensiva,
bensì uno strumento di liberazione dell’uomo che non esista a ricorre a
tutti gli strumenti necessari per ottenere la vittoria contro il Nemico e per il
trionfo
dell’islam. Una lettura radicale che si è rivelata uno straordinario volano
propagandistico, ma che sembra allontanarsi dalle interpretazioni della
giurisprudenza classica.
I proclami di Osama bin Laden, soprattutto dopo il 1998 e la creazione di un
«Fronte islamico per il jihad» sono un esempio tipico di questo slittamento
teoretico: sfruttando l’arma del martirio, ossia di attentatori suicidi, la battaglia per
l’autentica fede deve essere combattuta ovunque e adottando qualsivoglia
stratagemma. Essa deve portare a un’unione dei gruppi jihadisti locali per una
mondializzazione della lotta.
15
In verità l’obiettivo principe del leader saudita non era tanto creare un vero e
proprio esercito alle sue dirette dipendenze – fattore che, tra l’altro, avrebbe
rischiato di alienargli le simpatie dei nuovi leader del Paese – ma rafforzare i legami
intessuti con le organizzazioni islamiche radicali con le quali era entrato in contatto,
così da creare un network potenzialmente in grado di agire a livello globale.
In realtà, sull’unione e sul presunto coordinamento fra gruppi jihadisti non vi è un
vero accordo da parte degli esperti. Per molti, al contrario, è proprio la semplicità, la
trasmettibilità e la fruibilità degli slogan jihadisti contemporanei a favorire la
proliferazione di gruppi jihadisti scollegati o non dipendenti gerarchicamente, con
una sorta di franchising del terrore e del tema jihadista.
Al-Qaeda diviene così non solo una struttura terroristica, bensì un ombrello
strategico, dottrinale e ideologico per una varietà di movimenti, di gruppi e per
quella gioventù islamica auto-radicalizzata che funge da serbatoio e da veicolo
proliferante del jihadismo globale.
Questa gioventù – per lo più ben alfabetizzata e urbanizzata – non è più intercettata
solo dai movimenti islamisti più “istituzionali” e politici: spesso si tratta di piccoli
gruppi che si richiamano alla ideologia jihadista appresa da internet, ma che non
hanno vere guide dottrinali; per l’esegesi delle fonti sciaraitiche – il Corano e la
Sunna fra tutte – essi spesso semplicemente bypassato gli ‘ulema’ e gli esperti della
legge religiosa ufficiali, preferendo un approccio più individuale, una
manifestazione della propria fede, basata sul mito del martirio e sulla professione
religiosa come atto di volontà (riprendendo l’esempio di Sayyid Qutb).
Questa separazione fra islamisti politici e ‘ulema’ accreditati e giovani jihadisti
salafisti – che a mio giudizio riproduce a ben vedere la spaccatura del primo
riformismo islamico fra ‘ulema’ tradizionalisti e nuovi pensatori religiosi che
volevano il rinnovamento dell’islam, tipico del mondo musulmano a cavallo dei
secoli XIX e XX – rappresenta una vera e propria fitna, ossia una divisone, una
frattura gravida di pericolose conseguenze per le società del mondo islamico,come
sostiene Kepel8. Secondo lo studioso francese: «Gli ulema dell’islam
contemporaneo hanno perduto il controllo della dichiarazione di jihad, non hanno
più i mezzi per ammonire i fedeli contro l’avvento della fitna: sono stati superati dai
militanti attivi che possono fare a meno della cautela, e soprattutto ignorano
deliberatamente la lunga storia delle società musulmane, ma padroneggiano le
tecnologie postmoderne, navigano su internet e pilotano aerei, nutriti da una
visione dell’universo fortemente limitata». Questa spaccatura accentua la ricerca del
martirio – e li rende letteralmente «avidi della propria morte» - certi che il loro
sacrificio avrà una valenza salvifica e catartica, con una visione millenarista che era
fino a pochi anni fa patrimonio più dell’islam sciita che di quello sunnita.
Il radicalismo islamico preoccupa non solo a causa del proprio carattere
illiberale e dispotico, ma altresì in quanto: manifestamente violento, antimodernistico; fautore di mire espansioniste, geograficamente anche al di là
della ricostituzione dello storico Califfato, basate sulla convinzione che le terre
8
Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Roma-Bari, 2004, p.275.
16
non islamiche debbono essere sottomesse; perturbatore delle stabilità regionali.
Questi aspetti sono di conseguenza percepiti come lesivi della sicurezza
collettiva.
Le stesse dichiarazioni provenienti da fonti radicali islamiche risultano
palesemente inquietanti. Seguono alcuni esempi:
o la costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran recita: Tutti i
musulmani formano un’unica nazione. Il governo della Repubblica Islamica
dell’Iran ha il dovere di formulare la sua politica generale ai fini della fusione e
unione di tutti i popoli musulmani e deve costantemente impegnarsi per raggiungere
l’unità politica, economica e culturale del mondo islamico;
o la Carta Fondamentale di “Hamas” − il “Movimento di Resistenza
Islamica”, organizzazione palestinese chiaramente d’ispirazione
politico-religiosa, recita: “La Palestina è terra di proprietà islamica consacrata
alle generazioni musulmane fino al giorno del giudizio [ …] Israele esisterà e
continuerà ad esistere finché l’Islam non lo cancellerà proprio come ha cancellato
altri prima di esso”
o Hussein Massaiwi, esponente dell’organizzazione radicale islamica
libanese “Hizballah” ha dichiarato: “Noi non combattiamo affinché ci offriate
qualcosa. Noi combattiamo per eliminarvi”;
o Osama bin Laden, figura portante di “al-Qaida” ha ingiunto ai suoi
correligionari − abusivamente sotto forma di fatwa o editto giuridicoreligioso del 23 febbraio 1998 − di “uccidere gli americani e i loro alleati, sia
civili sia militari, […] ovunque possibile”;
o gli intendimenti e le metodiche del radicalismo islamico sono definiti in
modo ben chiaro in un documento dal titolo Studi Militari sulla Jihad
contro i Tiranni, rinvenuto in Inghilterra già nel maggio 2000, il quale in
parte recita: “La missione principale […] è il rovesciamento dei regimi senza Dio
e la loro sostituzione con un regime islamico.
o nella sua opera, “Chiamata ad Una Resistenza Islamica Globale”,
l’ideologo jihadista Mustafa Setmarian Nasar, più noto come Abu
Masub al-Suri, sottolinea l’importanza di condurre la “guerra santa” a
livello globale, quindi contemporaneamente sia in terre islamiche sia in
quelle “occidentali”.
17
2. La matrice “suicida” nel fondamentalismo
islamico
E’
facilmente riscontrabile una incipiente ed inquietante tendenza ad
imitare ed esaltare il fanatismo dei radicali islamici da parte di
elementi estremisti d'impostazione laica, anche se culturalmente appartenenti
alla stessa fede, come si evince nel caso degli attentati suicidi di recente
ripetutamente posti in essere in Israele e nei territori occupati, da elementi
palestinesi che fanno capo alla Brigata dei Martiri di al-Aqsa.
Questa tendenza ha un’unica regia, che del resto si intravede nella consuetudine,
ancorché mossa da sentimenti puramente umanitari, di offrire risarcimenti ai
familiari di coloro che muoiono per la fede, eufemismo per descrivere attivisti
violenti e, in particolare, attentatori suicidi che di regola colpiscono vittime inermi.
Vediamo come e dove nasce questa nuova forma di terrorismo.
Nella storia del terrorismo islamico gli anni ottanta possono considerarsi tra i più
sanguinosi. Ne sono prova evidente gli attentati che distrussero gli alloggi del
contingente americano e francese a Beirut nel 1983. Le azioni furono rivendicate da
estremisti islamici che utilizzarono, per la prima volta, la tattica delle autobomba
senza considerare alcuna possibilità di fuga. Un modo nuovo di uccidere era andato
ad arricchire il repertorio di morte del moderno terrorismo: un’azione suicida il cui
successo dipendeva dall’eliminazione dell’esecutore. Sulle prime, la novità aveva
disorientato gli esperti dei servizi di sicurezza. Duecento anni di storia avevano
lasciato intendere che i terroristi, sebbene disposti a rischiare la vita, desideravano
sopravvivere all’attentato.
Questa forma inedita di terrorismo, invece, sfuggiva a tale logica: diversa, quasi
sovrumana, veramente letale e difficilissima da fermare. Nei sei mesi successivi
agli attentati, Francia e Stati Uniti ritirarono i militari dal Libano, riconoscendo
implicitamente che la nuova forma di terrorismo vanificava ogni contromisura.
La gran diffusione del terrorismo suicida, nel corso degli ultimi venti anni,
conferma la sua raccapricciante efficacia. Esso ha rappresentato il nucleo di
numerose campagne di attentati, incluse l’operazione degli Hezbollah contro
l’invasione israeliana del Libano a metà degli anni 80, gli attentati suicidi di
Hamas agli autobus di linea, nel periodo 1994-96, volti a fermare il processo di
pace tra Israele e Palestina, la lotta del Pkk curdo contro la Turchia negli anni
dal 1995 aI 1999, gli attentati di al-Qaida contro gli Stati Uniti d’America dal
1999 al 2002. A quasi vent’anni dal suo debutto nella storia moderna, il
terrorismo suicida conserva l’immagine di strumento estremo del terrore.
Non è possibile tracciare un unico identikit psicologico o sociale di questi
terroristi. Le situazioni intensamente conflittuali finiscono per produrre
numerose tipologie di individui potenzialmente determinati a sacrificarsi per la
loro causa. Non esiste organizzazione in grado di creare la personale
disposizione al sacrificio.
18
L’obiettivo dei reclutatori, dunque, non è produrre, ma identificare e rafforzare
tale predisposizione. Nell’indottrinare gli aspiranti terroristi, i reclutatori
sfruttano spesso le credenze religiose, servendosi della fede che i loro
subordinati nutrono in una ricompensa ultraterrena. Esistono anche altre cause
che rafforzano la tendenza al martirio, compresi il patriottismo, l’odio per il
nemico e un sentimento profondo del sacrificio. Un terrorista suicida è spesso
l’ultimo anello di una lunga catena organizzativa che coinvolge molti attori:
dozzine di complici che non hanno alcun’intenzione dì suicidarsi, ma senza i
quali non potrebbe realizzarsi alcun’azione suicida.
Un esame dettagliato delle principali organizzazioni che hanno fatto ricorso a
questo tipo di atti terroristici, dal 1983, rivela come la distinzione più rilevante
al loro interno riguardi il livello di istituzionalizzazione. Le azioni suicide di
Hamas e della Jihad islamica palestinese in Israele, nel corso degli anni
novanta, furono precedute da un’ondata di attentati all’arma bianca alla fine del
decennio precedente. Gli attentatori, in questi casi, non avevano mai
organizzato una via di fuga e furono spesso uccisi sul posto.
Si trattava di azioni che non coinvolgevano alcun’organizzazione conosciuta ed
erano per lo più spontanee. Tuttavia, esse rivelavano un atteggiamento diffuso
tra i giovani palestinesi della Jihad contro Israele che contribuì a creare le
premesse per l’istituzionalizzazione del terrorismo suicida, avvenuta nel
decennio successivo. Ad un livello differente si pongono quei gruppi che
adottano formalmente il terrorismo suicida come strategia temporanea. I
leaders di questi movimenti ottengono (o garantiscono) legittimazione
ideologica o religiosa per questa pratica, reclutano e addestrano volontari e li
spingono ad agire avendo in mente un obiettivo specifico. I gruppi che
ricorrono a tale tipo di terrorismo sono in genere spinti dalla fiducia
nell’efficacia di questa nuova tattica, dall’approvazione dell’establishment
religioso e ideologico, dall’appoggio entusiasta della comunità di appartenenza.
Sono tuttavia ben consapevoli della natura mutevole di queste condizioni e dei costi
potenzialmente associati all’attività del terrorismo suicida (come, per esempio,
ritorsioni militari). Di conseguenza, i dirigenti non hanno difficoltà a sospendere o
revocare del tutto questa pratica. Un esempio calzante è la decisione degli
Hezbollah di dare corso al terrorismo suicida nel 1983. Sappiamo, oggi, che
numerosi dirigenti dell’organizzazione erano in dubbio: per esempio, lo sceicco
Fadlallah insisteva nel ricordare che l’Islam non approva il suicidio. Tuttavia, il
terrorismo suicida si rivelò un’arma talmente efficace per scacciare gli stranieri dal
Libano che non c’era motivo di smetterla. Ne risultò, da ciò, una disputa teologica
che risolvendo il problema, definì gli attentatori suicidi soldati speciali, i quali
mettevano a rischio la propria vita combattendo una guerra sulla via di Dio.
In seguito alla ritirata israeliana dal Libano nel 1985, i leaders religiosi
Hezbollah hanno ordinato la fine del ricorso sistematico al terrorismo suicida.
Non è possibile, stabilire con precisione, il momento in cui i dirigenti di Hamas
decisero di trasformare i loro attentati suicidi contro Israele in una precisa
strategia di lotta contro il processo di pace. La loro campagna, iniziata in modo
non sistematico nel 1992 e diretta contro gli obiettivi militari e gli insediamenti
19
civili nei territori occupati, non produsse risultati evidenti. Il massacro di
Hebron nel 1994, allorquando il medico israeliano Baruch Goldstein assassinò
ventinove palestinesi nella Moschea al-Ibrahim di Hebron, cambiò tutto.
Decisi a vendicare l’uccisione dei compatrioti, gli organizzatori di Hamas
ricorsero agli attentati suicidi contro gli autobus nelle città israeliane. Nel giro
di poche settimane, la nuova ondata di terrorismo aveva eroso la fiducia del
popolo israeliano nel processo di pace. Nel 1995, all’improvviso questi attentati
cessarono del tutto.
La forza comunemente attribuita ai terroristi suicidi risiede nel fatto che essi
vengono ritenuti fanatici solitari e irrazionali che non possono essere dissuasi.
La loro debolezza reale è costituita dal fatto che essi sono il prodotto di una
decisione calcolata e razionale presa dai loro capi, i quali si aspettano un
vantaggio tangibile per l’organizzazione dall’adozione di tale pratica9.
Può risultare a questo punto interessante analizzare la peculiarità dei maggiori
gruppi del terrorismo suicida. Gli attacchi terroristici di matrice suicida, come
abbiano avuto occasione di rilevare, hanno avuto inizio in Libano nel 1983. Un
piccolo gruppo, fino ad allora sconosciuto, dal nome Hezbollah ha diretto un certo
numero di attacchi suicidi contro obiettivi occidentali. Il primo attacco è stato
diretto all’ambasciata americana di Beirut (aprile deI 1983), seguito da altri alle forze
militari statunitensi ed alla forza multinazionale francese (ottobre del 1983). Queste
operazioni hanno avuto un’incidenza impressionante sull’opinione pubblica
internazionale. Dopo il ritiro delle forze armate occidentali dal Libano, gli
Hezbollah hanno orientato le relative attività terroristiche suicide contro le forze
militari israeliane e contro le popolazioni cristiano-maronite libanesi.
Successivamente, hanno fatto diminuire significativamente l’uso di questo modus
operandi. Nonostante tutto ciò, restano gli inventori di questa nuova ed
impressionante tattica militare.
Gli obiettivi delle missioni suicide degli Hezbollah sono cambiati e si sono
sviluppati nel tempo. Inizialmente, essi erano interessati allo sviluppo della loro
9 Un ulteriore elemento è dato dall’importante ruolo delle donne nell’attività
terroristica di alcuni dei gruppi che usano le tattiche suicide. Questa caratteristica,
però, è limitata prevalentemente alle organizzazioni con un orientamento nazionalista.
I gruppi terroristici retti dal fondamentalismo islamico non lasciano facilmente
partecipare le donne alle loro attività e tanto meno al terrorismo suicida. I gruppi di
matrice nazionalista, quali il PKK curdo o i terroristi Ceceni, invece, permettono alle
donne di partecipare al loro modus operandi estremo. Le guide di questi gruppi
sfruttano spesso il desiderio profondo dei membri femminili di dimostrare
l’uguaglianza con i maschi. Il numero di donne che hanno realizzato e partecipato ad
attacchi terroristici suicidi è sufficientemente alto. Nel PKK, per citare un dato, esse
hanno effettuato 11 attacchi suicida su 15. I motivi per cui usano le donne in questo
genere di attività, sono molteplici e principalmente di natura strategica. Ad esempio,
tutti questi gruppi, hanno usato ingannevolmente l’apparenza di un donna incinta per
eludere le disposizioni di sicurezza. Tutti, infine, hanno giocato sul desiderio delle
donne di dimostrare le loro abilità e devozione all’organizzazione ed alla loro guida
suprema.
20
immagine di potenza. Poiché, fino ad allora, erano un piccolo gruppo poco noto
nel Libano, e tanto meno nel resto del mondo, si sono serviti di questo nuovo
strumento di morte per ottenere notorietà a livello internazionale.
Gli Hezbollah, inoltre, hanno rappresentato i relativi “sponsor” iraniani dando
un impulso importante alla diffusione della rivoluzione islamica. La prontezza
di questi terroristi impavidi e disposti a sacrificarsi per la difesa dall’oppressore
occidentale sono stati uno strumento propagandistico importante sia per l’Iran
sia per loro stessi.
Gli attacchi suicidi sono riusciti a scacciare le forze di pace straniere dal
Libano, inducendo l’esercito israeliano a ritirarsi in una striscia stretta nel sud.
Sono serviti, inoltre, all’organizzazione come arma di rappresaglia e deterrenza
contro Israele10. Anche Hamas e la Jihad sono stati ispirati ed aiutati dagli
Hezbollah. La direzione di questi gruppi ha avuto rapporti con l’Iran e gli
Hezbollah dall’inizio degli anni ‘80. Il rapporto fra Hamas ed Hezbollah si è
rafforzato quando Israele ha deportato pri gionieri palestinesi in Libano (nel
1992).
Hamas e la Jihad hanno iniziato i loro attacchi suicidi verso obiettivi militari
nei cd. territori occupati ma, ben presto, la loro attenzione si è spostata alle città ed
ai civili. I due gruppi fondamentalisti palestinesi sono riusciti ad infliggere un
altissimo numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ottenendo un effetto
negativo profo ndo sull’opinione pubblica israeliana e sull’efficacia dei sistemi di
sicurezza personale. Quest’effetto è stato intensificato dal fatto che la campagna di
terrore ha accompagnato un processo di pace, che è stato voluto per portare
tranquillità ai rapporti fra gli israeliani e palestinesi. Un altro fattore destabilizzante
era la frequenza degli attacchi: a volte erano un caso settimanale, in altre si è arrivati
a due al giorno. Tutto ciò, ha senza dubbio avuto un’influenza strategica sul
processo di pace Israelo-Palestinese. All’inizio del 2000, Hamas ha tentato di
effettuare altri attacchi suicidi in città israeliane. Nell’ultimo biennio, gli attacchi dei
cd. kamikaze si sono intensificati e nei primi otto mesi del 2002 le vittime del
terrorismo suicida sono moltissime e in gran parte civili inermi. Il conflitto è tra i
più lunghi e sanguinosi della storia terroristica.
Un’altra organizzazione che ha fatto parlare molto di sè, soprattutto per i suoi
stretti legami con al-Qaida è Ansar-al-Islam, che si è resa protagonista di
numerosi attentati perpetrati con la tecnica della bomba umana. Diversi campi
di addestramento di questo gruppo terroristico, situati soprattutto nel
Curdistan, sono stati localizzati e neutralizzati dalle forze militari statunitensi.
10 Dopo che gli israeliani hanno ucciso il segretario generale degli Hezbollah Mussavi,
nel febbraio del 1992, l’organizzazione ha effettuato un attacco suicida contro
l’ambasciata israeliana a Buenos Aires (marzo del 1992) uccidendo 29 persone e
ferendone circa 250. Il Libano ha vissuto oltre 50 attacchi suicidi fra il 1983 ed il 1999.
Quasi tutti hanno raggiunto il loro scopo: la destabilizzazione dell’area. In Israele, il
terrorismo suicida ha avuto inizio nel 1993. Hamas e la Jihad islamico-palestinese
(PLI) hanno effettuato circa 50 attacchi suicidi causando circa 170 vittime e ferendone
almeno 200 (dati risalenti al gennaio 2001).
21
Anche i gruppi terroristici egiziani hanno contribuito allo sviluppo della
matrice suicida. Ciascuno dei due gruppi principali, al-Islamiya di Gama e la
Jihad islamica egiziana, hanno effettuato attacchi terroristici suicidi11. A
differenza di altri gruppi islamici, questi in esame, hanno sempre evitato di
usare tali tattiche sul territorio egiziano. Ciò, può essere attribuito alla loro
riluttanza ad incrinare il consenso di cui godono in Egitto. Un altro gruppo che
ha usato il terrorismo suicida è il Partito Operaio del Curdistan (PKK). Il PKK
è ricorso al terrorismo suicida in un momento di crisi a causa della dura lotta
che la Turchia aveva intrapreso per combattere questi gruppi rivoluzionari12.
Al-Qaida, organizzata dal saudita Osama Bin Laden è l’ultimo gruppo a ricorrere
agli attacchi suicidi ed ha, come detto, collegamenti operativi vicini a molti gruppi
islamici. Que sto gruppo è responsabile di due attentati contro le ambasciate
americane a Nairobi ed in Dar-es-Salaam nell’agosto del 1998 provocando trecento
vittime e cinquecento feriti, la maggior parte civili.
“Morire per vincere” - è il titolo di un libro di Robert Pape, pubblicato negli Stati
Uniti da Random House (giugno 2005). L'argomento del libro, è "la logica strategica,
sociale e individuale del terrorismo suicida". Robert Pape, docente di scienze
politiche all'Università di Chicago ed editorialista per il New York Times, è uno dei
massimi esperti nel campo e il suo libro è probabilmente l'analisi più ampia e
dettagliata che si possa all'oggi reperire su questa inedita e agghiacciante modalità
di "guerra partigiana". È importante sottolineare che il libro è stato preceduto da
un lungo articolo ("The strategic logic of suicide terrorism") apparso nel 2003
sull'American Political Science Review, articolo della cui importanza, in Italia, si è
accorto soltanto un giornalista: Emanuele Giordana.
La rete terrorista responsabile degli attentati verificatisi a New York, Madrid,
Londra, Sharm El Sheik, presente in quasi tutti e cinque i continenti, è “figlia”
Al-Islamiya, ha agito anche in Croazia nel 1995, colpendo una stazione di polizia
locale in Rijake e causando 10 vittime. Quest’operazione fu un atto di rappresaglia per
la scomparsa di una delle guide del gruppo in Croazia. Il gruppo della Jihad egiziana,
invece, ha usato uomini-bomba per distruggere l’ambasciata egiziana in Pakistan
causando 15 vittime e decine di feriti (novembre del 1995). Quest’attacco rappresentò
la risposta armata alla cooperazione Pakistano-Egiziana per estradare i terroristi in
Egitto.
12 Il PKK ha effettuato un totale di 21 attacchi suicidi. La campagna di matrice suicida
è cominciata nel 1996 ed è cessata nel 1999 per volontà della guida del movimento
Abdullah Ocalan, attualmente in vinculis. Questa campagna di terrore ha causato 19
vittime e 138 feriti. Ciò determinò un effetto contrario sulla morale dei relativi
membri. Di conseguenza le attività terroristiche del gruppo sono scemate
costantemente nel periodo 1994-1996. L’organizzazione doveva assolutamente cercare
mezzi efficaci per invertire questa tendenza e per rinvigorire gli animi dei relativi
combattenti. Le missioni suicide, quindi, sono state uno strumento di consolidamento
del gruppo. Sono servite a dimostrare la possibilità del PKK di funzionare e
danneggiare i loro nemici. Gli attacchi hanno dimostrato la predisposizione a
sacrificare tutto, compreso la vita, per gli obiettivi nazionali del popolo curdo. Per un
certo tempo, tali attacchi sono stati usati anche per scopi di rappresaglia.
11
22
dei conflitti (passati e presenti) in Palestina, Cecenia, Afghanistan, Bosnia,
Algeria, Kashmir, Iraq.
Il terrorismo “islamico” si serve di una tecnica sconosciuta ai passati
movimenti di guerriglia: l’attentato suicida. Benchè l’Islam condanni il suicidio
in quanto solo Dio può dare e togliere la vita, alcuni esperti di teologia islamica
hanno emesso fatawa (sentenze) favorevoli a questi combattenti definiti
“martiri”. La religione è il miglior pretesto per fare proselitismo e demagogia:
dalle Crociate del Medioevo alla guerra nei Balcani, la fede religiosa è sempre
stata la motivazione preferita per legittimare un conflitto di fronte alla
comunità.
Per i terroristi suicidi il corpo diventa quindi arma e ciò, sotto il profilo
strategico e tattico offre il vantaggio di una grande asimmetria di costi fra
attacco e difesa. Sotto tale ottica basta pensare che l’attentato alle torri gemelle
si stima abbia avuto un costo inferiore ad 1 milione di dollari ma ha provocato
danni diretti per oltre 50 miliardi di dollari a cui si devono aggiungere non solo
i danni collaterali ma soprattutto l’instaurarsi della cosiddetta “economia della
paura” a livello globalizzato.
Sotto il profilo strategico e tattico e fermo restando l’aspetto costi a favore
dell’attacco, il terrorismo suicida presenta numerosi vantaggi:
- se il terrorista fallisce l’attentato, sicuramente si fa esplodere lo stesso
provocando comunque dei danni eliminando inoltre la possibilità di
essere arrestato e sottoposto ad interrogatorio;
- il terrorismo suicida ha un’elevata percentuale di successo ed è
tatticamente flessibile potendo cambiare obiettivo anche all’ultimo
momento;
- il terrorismo suicida si avvale dell’effetto sorpresa e della clandestinità
considerato che il numero delle infrastrutture critiche e degli obiettivi
sensibili da proteggere è elevato.
Il livello socio-culturale ed economico dei terroristi suicidi è di gran lunga
superiore a quello della popolazione comune, per esempio, nell’Intifada ben il
50% è diplomato molti degli affiliati ad Al Qaeda sono laureati.
I suicidi si considerano una vera e propria avanguardia per il riscatto dell’Islam,
volta a rovesciare regimi islamici corrotti, inefficienti e servi dell’Occidente per
subentrare alle attuali élites che non li lasciano emergere.
Uno studio prodotto dalle autorità israeliane ha evidenziato che non esiste una
psicopatologia del terrorista suicida ma le convinzioni ideologiche degli
attentatori e la loro formazione da parte di chi dirige l’organizzazione
terroristica vengono consolidati con mezzi simili a quelli utilizzati in Europa
nel corso della II G.M. per convincere soldati della gioventù hitleriana ad
uccidere e farsi uccidere.
Un altro aspetto di interesse è l’uso sempre più spinto delle donne negli
attentati suicida.
I ruoli oggi assunti dalle donne, fino a poco tempo fa appartenevano
esclusivamente all’universo maschile: andare in guerra, torturare, uccidere,
suicidarsi. Nel caso delle donne “martiri” l’utilizzare la donna suicida sembra
sottolineare, rovesciandola, l’eguaglianza fra uomo e donna, come se
23
quell’uguaglianza non potesse realizzarsi se non nell’assassinio e nella morte,
come se l’unica possibilità data alla donna di essere uguale all’uomo fosse
collegata al sangue, sangue della vita e sangue della morte.
Il coinvolgimento delle donne, da sempre relegate dalla tradizione musulmana
alla sfera domestica in qualità di angeli del focolare, ha suscitato un enorme
stupore mediatico e tuttavia un senso di sconforto e non accettazione da parte
di molte organizzazioni terroristiche che, invece, andando a volte
controcorrente, hanno cercato all’interno del Corano delle fatwa contrarie alla
presenza femminile sul “campo di battaglia”.
Ad esempio, due movimenti, Hamas e il Jihad islamico, hanno all’inizio
reputato assolutamente impropria la presenza di donne all’interno di
dimostrazioni violente, sottolineando come esse debbano rimanere legate al
loro ruolo tradizionale di mogli, madri e donne di casa.
Al contrario, il leader palestinese Yasser Arafat, nel discorso del 27 gennaio del
2002, ha invocato la presenza di donne a sostegno della causa palestinese.
Come ricorda Barbara Victor “Women and man are equal” He proclaimed with
his hands raised above his head and his fingers forked in a sign of victory “You
are my army of roses that will crush Israeli tank”13.
Quello di cui Arafat aveva bisogno all’inizio della seconda Intifada era
spaventare gli oppositori islamici e terrorizzare i nemici israeliani, e tutto ciò
poteva accadere con qualcosa di estremamente nuovo ed imprevedibile.
Con la seconda Intifada, l’identikit degli aspiranti martiri è radicalmente
cambiato. L’età si è estesa dalla fascia tra i 17 e i 22 anni ai trentenni e a
qualche quarantenne. Il livello di istruzione è salito da quello elementare a una
maggioranza di laureati e di diplomati. Lo stato civile non registra più solo
single ma anche diversi coniugati tra i quali qualcuno con prole. Il tenore
economico non è più limitato ai nullatenenti ma abbraccia i benestanti.
Tuttavia due sono le maggiori novità che hanno trasformato radicalmente il
fenomeno del terrorismo suicida: il coinvolgimento dei palestinesi laici e
soprattutto la partecipazione delle donne.
Il primo attentato suicida è avvenuto nel dicembre del 2001 quando, nel cuore
di Gerusalemme, due kamikaze si sono fatti esplodere uccidendo 11 israeliani.
Uno dei due, Osama Baher, agente della polizia dell’Autorità nazionale
palestinese, è stato il primo “martire laico” affidato alle Brigate dei martiri di Al
Aqsa, il braccio terroristico di Al Fatah, la maggiore organizzazione palestinese
presieduta dallo stesso Arafat. Il segnale era chiaro. In un contesto in cui oltre i
due terzi dei morti israeliani sono vittime degli attentati suicidi, lasciare il
campo libero alle organizzazioni islamiche avrebbe significato perdere la guida
della nuova Intifada. Arafat fece cosi propria la stessa arma impiegata dagli
islamici per sabotare la pace con Israele che lui sosteneva di volere ancora, al
fine di assicurare la continuità del suo potere sempre più scalfito dalle
dissidenze interne e dal logoramento delle forze palestinesi operato
dall’esercito israeliano.
Il battesimo di sangue della prima donna “kamikaze” palestinese in Israele è
avvenuto il 27 Gennaio 2002 con l’estremo sacrificio di Wafa Idris,
Barbara Victor, Army of roses, Rodale Press, Emmau, Pennsylvania, USA, 2003,
pag.19
13
24
ventottenne laureata, che si occupava di handicappati, entra in un negozio di
Gerusalemme, chiede il prezzo di un paio di scarpe e un momento dopo
aziona una carica esplosiva tra la folla causando la morte di un anziano.
Questo primo attacco suicida al femminile, e quarantasettesimo attacco
kamikaze, ha allarmato notevolmente i media, i quali hanno parlato d’un
inquietante salto di qualità nella strategia della violenza di matrice islamica,
poiché queste azioni suicide vengono a costituire una svolta rilevante nel
delicato “equilibrio del terrore” che vige tra le organizzazioni fondamentaliste
palestinesi e lo stato d’ Israele.
Nel 2003 è l’uzbeka Dilnova Holmuradova ad agire a Tashkent, viene da una
buona famiglia, parla cinque lingue ma diventa una “sorella benedetta”
massacrando 47 persone su ordine di un gruppo islamista.
Secondo la studiosa Farhana Ali (RAND Corporation) sono le quattro “R” a
trasformare una madre di famiglia in assassina: La vendetta (Revenge) per la
perdita di un familiare; Dimostrare (Reassurance) che la donna è in grado di
imitare l’uomo; Reclutare (Recruit) altre simpatizzanti e dare l’esempio;
Ottenere il rispetto e la considerazione sociale (Respect) della comunità.
Qualche anno fa (2004), Al Qaeda attivò anche un sito Internet: dedicato
esclusivamente alle donne. Il movimento di Bin Laden elogiava innanzitutto la
loro partecipazione alla jihad - la guerra santa - e le spronava affinché si
addestrassero militarmente e si allenassero per potenziare la loro resistenza
fisica, invitandole ad assumere un regime alimentare "equilibrato", seguendo
diete apposite. Il sito si chiamava Al Qhansaaben Omar. E' il nome di una
poetessa convertita all'Islam, considerata la gran madre degli "shahidim", i
martiri, perché rifiutò di portare il lutto dopo la morte dei quattro figli, uccisi
durante una battaglia contro gli infedeli.
Inoltre, nello stesso periodo, sul giornale arabo "Asharq al-Awsat" che si stampava
a Londra, uscì un'intervista. A parlare, una attivista di Al Qaeda che annunciava la
creazione di un'unità femminile "capace di far scordare agli Stati Uniti persino il
loro nome". Una spacconata? O qualcosa, invece, di più serio? Comunque l'Fbi
iniziò a dedicare particolare attenzione al terrorismo islamico femminile.
L'attenzione al mondo femminile da parte di Al Qaedsa non è affatto casuale:
le donne terroriste sembrano essere in costante aumento, e lo sono soprattutto
le kamikaze, che siano palestinesi o cecene. Gli zelanti censori dell'ortodossìa
islamica sono nei loro confronti assai più tolleranti che con il resto delle donne
musulmane. La minore discriminazione è direttamente collegata al fatto che le
kamikaze rappresentano, ormai, un vero e proprio incubo per i servizi di
sicurezza, che sono stati costretti a cambiare radicalmente approccio e tattica
sia nella prevenzione che nel contrasto.
Il fanatismo e il culto della morte conduce in qualche maniera alla liberazione
della donna musulmana? Chi addestra le kamikaze ha tutto l'interesse ad
avvalorare questa tesi, sfruttando le frustrazioni e la vulnerabilità della
25
condizione femminile. Ma in ogni situazione conflittuale violenta, il posto della
donna è costantemente centrale, "la donna, la madre, la sorella e la figlia
costituiscono una delle molli psicologiche maggiori della guerra prolungata", è
l'analisi di François Géré, docente universitario autore dell'interessante "Le
volontarie della morte".
Sui 41 membri del commando suicida che aveva preso in ostaggio oltre 800
persone al teatro Dubrovka di Mosca, 19 erano donne, le kamikaze chiamate
"vedove nere" perchè i loro abiti sono quelli del lutto, il lutto per aver perso
mariti, figli, padri, fratelli nella guerra contro i russi, così come sono parecchie
le donne che hanno fatto l'irruzione alla scuola di Beslan (qui le cifre esatte
non sono ancora chiare), azione rivendicata da Shamil Bassaiev, capo delle
Brigate islamiche dei martiri.
Quello delle donne martiri cecene è un caso molto particolare ben descritto nel
libro della giornalista russa Julija Juziki dal titolo “Le mille fidanzate di Allah”
(2004).
La Juzik ha percorso per un anno la Cecenia per capire da dove venivano le giovani
che si erano fatte saltare in questo o quell’attentato per ricostruire i passaggi che le
hanno portate a diventare martiri.
Secondo la giornalista, la religione c’entra molto poco con la scelta di tante giovani
cecene di farsi shahidi (donne maritiri) come le chiamano i russi dalla parola araba
shahid. Le loro storie personali dicono ben altro, la spinta a cercare la morte è una
tragedia personale o una vita infelice.
In Cecenia, secondo l’indagine della Juzik, gli uomini non si fanno saltare in aria
perché danno un valore troppo alto alle proprie vite, muoiono solo le donne e
spesso neppure di propria volontà. Più dell’islam, nei destini di quelle ragazze conta
una struttura sociale tradizionale in cui le donne sono sottomesse, la cui vita è stata
distrutta e che non vanno a morire soltanto per dimostrare la loro devozione ad
Allah.
Per quanto concerne le possibilità di contrasto al terrorismo suicida ed in
particolare all’attacco suicida, occorre immediatamente evidenziare che queste sono
minime poiché il terrorista non cerca una via di scampo e sceglie lui stesso tempo e
modalità di attacco pianificando nel tempo la propria e l’altrui morte.
Quanto sopra esposto induce senza dubbio a ritenere che più che sui singoli
individui, la lotta al terrorismo suicida dovrebbe essere
indirizzata
all’indebolimento della leadership dell’organizzazione terroristica per diminuire la
possibilità che essa utilizzi per i propri fini l’altrui suicidio.
26
3. Terrorismo di matrice islamica: analisi
italiana
D
a anni, ormai, l’islam si è trasferito a Ovest. Un “trasferimento” non
avvenuto sull’onda di conquiste militari o proselitismo religioso, come
per quasi tutte le terre entrate a far parte della dar al-islam ma come conseguenza
della migrazione verso l’Europa di milioni di musulmani, attratti dalle migliori
possibilità di vita e dalla prospettiva di un lavoro stabile. Milioni di musulmani,
provenienti dalle più diverse regioni dei mondi islamici e portatori di ortoprassi
religiose, sociali e culturali estremamente variegate, si sono ritrovati in società
percepite come ostili o che tendevano a relegarli ai loro margini. Quanto qui
interessa far emergere è il fenomeno cosiddetto della re-islamizzazione
conservatrice e di un neo-fondamentalismo islamico che inventa una tradizione e
un’identità panislamica sia per accreditare i rappresentanti auto-proclamatisi come
rappresentanti ufficiali e riconosciuti dell’islam, sia come effetto della perdita di
identità culturale e di straniamento.
In altre parole, la re-islamizzzione degli immigrati musulmani, anche di seconda o
terza generazione, permette in primo luogo di riaffermare la propria identità.
Va anche sottolineato come il jihadismo globale sia stato estremamente abile a
penetrare negli “interstizi” culturali e disagi socio-identitari, facendo proseliti anche
fra i musulmani della terza o quarta generazione, creando cellule salafite e jihadiste
estremamente difficili da localizzare e neutralizzare. Gli esperti di sicurezza
dibattono da tempo se i gruppi salafiti e jihadisti attivi in Europa siano controllati e
diretti da al-Qa’ida o siano una sorta di gruppi in “franchising”, ispirati dal
messaggio del jihad globale ma sostanzialmente autonomi.
In sostanza, sembrerebbe esservi almeno tre tipi distinti di jihadisti “europei”:
1) il primo è quello rappresentato dagli immigrati di prima generazione che non
riescono a inserirsi nel modello di vita occidentale (e non si tratta necessariamente
di elementi socialmente marginalizzati);
2) il secondo è quello degli immigrati di seconda e terza generazione che sono
ormai deculturalizzati rispetto alla cultura d’origine dei loro padri, ma che
interiorizzano una visione apologetica e dogmatica dell’islam neofondamentalista
(vedi pagine precedenti). In questa loro riconversione giocano un ruolo
importantissimo tanto le moschee e gli imam radicali presenti in Europa, quanto
l’auto-radicalizzazione dei giovani attraverso internet e ideologi improvvisati, esterni
alle scuole religiose riconosciute del mondo islamico;
3) il terzo è quello degli europei convertiti, un fenomeno difficilmente quantificabile
nella sua reale dimensione, dato che molti si convertono all’islam solo per poter
sposare donne musulmane. In ogni caso, gli europei convertiti e avvicinati
all’ideologia del jihad globale sembrano rappresentare un obiettivo particolarmente
27
importante per al-Qa’ida e per i vari gruppi jihadisti, dato che essi rappresentano
elementi ancor più difficili da controllare per le forze di sicurezza europee.
Per quanto concerne la situazione italiana, va subito precisato che sono stati
numerosi gli aderenti ad organizzazioni terroristiche di cd. matrice islamica
condannati in questi ultimi anni in Italia in via definitiva; ma le condanne
definitive riguardano prevalentemente i reati di associazione per delinquere
(art. 416 cp) finalizzate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o al
traffico di documenti di identità falsi etc. nonché, eventualmente, ad altri
specifici reati-fine. Ciò dipende dal fatto che il reato di associazione per
delinquere con finalità di terrorismo anche internazionale è stato inserito nel
sistema penale solo con il nuovo articolo 270 bis del Codice Penale.
In precedenza, infatti, il reato di associazione terroristica riguardava solo i
gruppi che si proponevano finalità di sovversione o terrorismo in danno del
solo ordinamento italiano. Dunque, nelle sentenze di condanna definitive
prima citate viene esplicitamente riconosciuto che le condotte dei condannati
rientravano nel programma criminale di associazione terroristiche di cd.
Matrice islamica, ma tali condotte sono state sanzionate con pene meno gravi
(quelle previste per il reato di associazione criminale semplice) di quelle
previste a partire dall’entrata in vigore dell’art. 270 bis cp.
Ciò si deve specificare doverosamente visto che, di seguito, le persone alle
quali si farà riferimento saranno spesso qualificate “terroristi” o “appartenenti
ad associazioni terroristiche”, pur in presenza di condanne che non le
qualificano espressamente come tali per le ragioni suddette.
Alla luce delle indagini svolte e dei procedimenti già celebrati, è possibile
affermare che i cd. terroristi islamici operanti in Italia, provengono soprattutto
dall’area nord africana, anche se si registrano presenze di militanti provenienti
pure dal Kurdistan, dall’Iraq e dal Pakistan. Nei primi anni del manifestarsi in
Italia del fenomeno terroristico in esame, i gruppi di militanti hanno
conservato la loro specifica identità nazionale. All'inizio degli anni Novanta si
stabilirono in Italia soprattutto gruppi di terroristi algerini. Essi hanno
utilizzato il nostro Paese come base logistica e per fare proselitismo. Ma si
trattava di gruppi isolati che hanno sfruttato i flussi migratori dei loro
connazionali in Europa. Essi si sono innestati nelle comunità etniche per
mimetizzarsi meglio e si sono spesso radicati attorno a luoghi di culto,
moschee e centri islamici. Una presenza rilevante riguarda nel nostro Paese gli
algerini del Gia (Gruppo islamico armato) e di Takfit w-al-Higra (Anatema ed
Esilio), poi di egiziani (al-Jihad e al-Gamà al-Islamia) e di marocchini. Ma negli
ultimi 5-6 anni in Italia, numerosi ed importanti si sono rivelati anche gli
integralisti tunisini, oppositori del regime di Ben Ali, ben radicati a Milano
aderenti al Gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento.
Le indagini hanno consentito di accertare anche le attività di copertura, spesso
costituite da attività imprenditoriali autonome, società di servizi di pulizia o di
fornitura di servizi commerciali in genere, aziende di import-export, cali center. Si
annoverano tuttavia tra gli estremisti anche studenti, tecnici specializzati, artigiani,
operai, disoccupati, che vivono in modo assolutamente regolare, attenti a non
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destare sospetti, soprattutto nell'hinterland delle grandi città, dove è più facile
mimetizzarsi. Le moschee continuano a rappresentare lo snodo delle varie cellule
fondamentaliste, non necessariamente in quanto centro di estremismo ma
comunque di agevole contatto. Il ruolo delle cellule islamiche in Italia, finora, è
stato principalmente di supporto logistico, anche di altri gruppi operanti all'estero,
soprattutto con finanziamenti e la fabbricazione di documenti falsi. Le indagini
hanno dimostrato infatti che il procacciamento di documenti falsi di buona fattura
rappresenta una delle attività fondamentali per lo svolgimento dell'attività
terroristica. La disponibilità di documenti affidabili per livello tecnico di
falsificazione consente ai responsabili dei gruppi terroristici o ai potenziali esecutori
di attentati, di spostarsi con pochi rischi. Salvo rare eccezioni, non sono state
trovate armi nella disponibilità di terroristi o sospetti all'atto del loro arresto o delle
perquisizioni subite, anche se spesso le attività tecniche hanno evidenziato anche
questi traffici. Le cellule si autofinanziano svolgendo attività delinquenziali comuni,
furti, traffico di stupefacenti, tradizionalmente condannate dalla legge islamica, ma
giustificate dalla finalità perseguita (takfir).
Verso la fine degli anni `90, i risultati ottenuti con l'azione repressiva dei Paesi della
fascia nord africana e maghrebina e le divisioni in seno alle principali organizzazioni
terroristiche determinavano l'affievolimento della forza dei gruppi terroristici
algerini, con l'eccezione del G.S.P.C. Le indagini sul "Gruppo Salafita per la
Predicazione ed il Combattimento" (nato da una scissione del GIA) avevano interessato
soprattutto la Campania dove erano presenti algerini aderenti a tale sodalizio, dediti
a traffici internazionali di documenti falsi, con collegamenti con le aree di Milano,
Vicenza e Santa Maria Capua Vetere e con soggetti operanti in altri Paesi europei.
In questo quadro, l'Italia, anche per la sua collocazione, si conferma importante
snodo internazionale, ove reti estremistiche islamiche installano le proprie strutture
di sostegno, finalizzate alla ricerca di falsi documenti o altro materiale logistico, al
reperimento di fondi, all'aiuto nei confronti di coloro che devono sottrarsi alle
ricerche di altre autorità. In Italia si sta anche assistendo a forme nuove di
dislocazione territoriale dei jihadisti che molto spesso si spostano dalle grandi città
verso località periferiche ove i controlli vengono ritenuti minori. Le moschee
mantengono un ruolo importante per il fondamentalismo islamico, poiché
frequentemente vengono utilizzate per la diffusione di messaggi propagandistici di
contenuto radicale e di tono antioccidentale rivolti alla comunità dei fedeli. In questi
casi, il confine tra libertà di culto ed attività illegali può facilmente essere superato,
con una costante azione di proselitismo e con vere e proprie attività di
finanziamento, attraverso la zakat.
Per quanto concerne eventuali connessioni con i sodalizi criminali territoriali, il
più concreto elemento che dimostra l’esistenza di collegamenti tra le
associazioni terroristiche internazionali e la criminalità comune italiana consiste
nella ampia ed accertata disponibilità, da parte delle prime, di documenti di identità
di ogni tipo, spesso ricettati e molte volte falsificati, nonché nella possibilità di
procurarsi, come si è prima detto, sostanze stupefacenti e banconote false.
Sembra ragionevole supporre, infatti, che il relativo approvvigionamento sia
realizzato presso delinquenti comuni, dediti a questi traffici lucrosi.
29
E’ un fatto comunque che, salvo rarissimi casi, i procedimenti per fatti di
terrorismo cd. islamico non hanno visto imputati cittadini italiani per questo tipo di
reati, mentre è vero anche che spesso vengono arrestati cittadini marocchini,
tunisini etc., trovati in possesso di documenti falsi o ricettati, senza che emergano
elementi di sospetto circa loro collegamenti con gruppi terroristici14.
Di seguito verranno sinteticamente illustrati i principali gruppi e le principali
indagini svoltesi in Italia negli ultimi anni nel settore del terrorismo cd. islamico,
cercando di raggrupparle a seconda delle specifiche organizzazioni terroristiche cui
si riferiscono. Anche da questa schematica elencazione, sarà agevole rilevare
come la realtà attuale denoti la sostanziale impossibilità di considerare gli
indagati affiliati con precisione all’una o all’altra sigla, essendo ormai diventato
sempre più complesso l’intreccio dei loro rapporti criminali.
Il “GRUPPO ISLAMICO ARMATO” (“GIA”)
Il “GIA” è stato formato in Algeria da reduci della guerra afgana ed è stato
al centro di numerose ed importanti indagini condotte in Francia, Belgio,
Gran Bretagna.
Il “GIA” è stato formato in Algeria da reduci della guerra afgana. I primi
contatti tra
organizzazioni terroristiche stanziate in Algeria ed “AL-QA’IDA” avevano
avuto inizio a Khartoum, nel 1992, e si erano conclusi con la promessa di
“AL-QA’IDA” di fornire loro supporto logistico e finanziario, il che
avvenne in favore del “GIA” almeno fino al 1995. Proprio in quel periodo,
il gruppo aveva deciso di colpire la Francia, con l’appoggio di un
simpatizzanti algerini in Belgio, individuati dalla polizia belga, l’1. 4.1995.
Ciò aveva determinato la riorganizzazione della rete di sostegno in Francia.
A Londra operava RACHID RAMDA, anch’egli veterano afghano, che,
sempre a Londra, aveva collaborato alla rivista “Al Ansar” destinata alla
propaganda di tutte le cause del jihad nel mondo ed in particolare al
sostegno del “GIA”. Si ritiene generalmente che, a partire dal novembre
1995, JAMEL ZITOUNI, si fosse assicurato un’autorità assoluta all’interno
dell’organizzazione che, si ricorderà, è responsabile dei massacri di
popolazioni civili in Algeria.
Dopo l’omicidio dello Zitouni, suo successore divenne Antar ZOUABRI,
ma il movimento appare ormai indebolito da numerose dissidenze. Anche
in quest’ultimo periodo, la formazione prosegue la sua ribellione armata per
“la creazione di uno stato islamico in Algeria”, a seguito della definitiva
rinuncia della cosiddetta “politica di riconciliazione”, avviata sin dal 1999
dal Presidente ABDELAZIZ BOUTEFLIKA.
Si susseguono in Algeria attentati ed azioni di guerriglia urbana, anche a
seguito all’arresto del leader dell’organizzazione, l’emiro RACHID ABOU
TOURAH.
14 Tra i casi più recenti va segnalato quello del cittadino marocchino EL KHAISSI
M’Hamed, nato a Ouled Arif il 28.1.1973, che il 18.5.05 è stato fermato in Milano e
trovato in possesso di documenti e materiale vario per realizzare falsi documenti di
identità, permessi di soggiorno etc., di cui si sono forniti anche vari personaggi
imputati di appartenenza ad associazione con finalità di terrorismo internazionale.
30
E’ attribuito al “GIA” l’assassinio del principe saudita TALLAL IBN
ABDELAZIZ ARRASHID, avvenuto nella notte tra il 27 ed il 28/11/03 ad
opera di miliziani armati che, in località Messaad nella regione di Djelfa,
duecentosettantacinque chilometri a sud di Algeri, uccidevano anche sette
membri della sua scorta e ferivano un numero imprecisato di dignitari sauditi.
Questo episodio colloca il “GIA” fra i movimenti islamici armati che, di fatto, si
prefiggono di agire aggressione contro l'Arabia Saudita, a sua volta presa di mira
con la realizzazione di clamorosi attentati terroristici. In ambito europeo, la
magistratura francese ha confermato, in appello, la condanna all’ergastolo
dell’integralista algerino BOUALEM BENSAID, militante del “GIA” imputato
di aver collocato gli ordigni esplosi in data 25/07/95 nella stazione della
metropolitana francese “Saint Michel”, nel Quartiere Latino, in data 06/10/95
presso la stazione metropolitana “Maison Blanche”, e quella del “Museè
d’Orsay” in data 17/10/95, attentati che causavano complessivamente la morte
di otto persone ed il ferimento di duecentotrenta.
Per lungo tempo, ed a partire almeno dal ’95, la componente algerina della galassia
terroristica islamica è stata la più presente in Italia e quella che maggiormente ha
attirato l’attenzione degli inquirenti.
La presenza ed operatività in Italia di gruppi terroristici algerini è ampiamente
documentata: nel corso del ‘96, l’inchiesta milanese denominata “Al Shabka”
ha avuto ad oggetto ancora l’estremismo algerino, indagato proprio sul
versante del sanguinario G.I.A. (Gruppo Islamico Armato). Il contesto entro il
quale la cellula milanese si inquadrava appariva caratterizzato, infatti, dal più
ampio progetto di ricostruzione in territorio nazionale di un reticolo di
strutture di supporto all’azione dell’organizzazione, gravemente colpita da
importanti operazioni di polizia realizzate in altri Paesi europei.
A Bologna un’inchiesta sugli appartenenti del G.I.A. algerino ha avuto ad
oggetto un elevato numero di persone (circa 40) per fatti riconducibili al
medesimo periodo in cui si collocano quelli oggetto delle inchieste di Milano
(anni 1996 e 1997).
L’indagine bolognese, infatti, ha consentito di accertare numerosi contatti tra i
gruppi operanti in tali aree geografiche. Il dibattimento si è concluso nel
gennaio 2003 ed ha visto le condanne per il reato associativo (art. 416 c.p.) di
circa una decina di imputati; reati fine della associazione vennero individuati
(analogamente alle altre inchieste sul territorio nazionale) nella falsificazione di
documenti, reati vari contro il patrimonio, spaccio di banconote false. Il
gruppo bolognese degli affiliati al G.I.A. si è rivelato, anche ex post, di notevole
spessore e interesse investigativo: per cinque degli imputati di quel processo è
stata successivamente accertata la loro detenzione presso la base di X-Ray di
Guantanamo Bay (Cuba), pare perché catturati sui campi di battaglia in
Afghanistan. Attualmente la loro posizione è al vaglio delle autorità militari
U.S.A. ed il processo per loro è sospeso. Un imputato, condannato a Bologna
anche per il possesso di armi venne successivamente arrestato in Germania per
fatti di terrorismo.
31
“GRUPPO SALAFITA PER LA PREDICAZIONE ED IL
COMBATTIMENTO” (“GSPC”)
L’evoluzione dei gruppi radicali fondamentalisti in Algeria e più in generale
nell’Africa del nord, è caratterizzata da una costante evoluzione nelle alleanze e
nelle associazioni dei gruppi e dei loro emiri. Un esempio di questa tendenza è il
“GSPC” , operante soprattutto nella parte meridionale dell’Algeria.
Nato dal “GIA”, veniva costituito da HASSAN HATTAB a seguito di disaccordi
sulla strategia del “GIA”. Le divergenze si manifestarono sin dal 1996 e la
fondazione del “GSPC” venne annunciata nel settembre 1998 su due giornali
pubblicati a Londra, “AL SHARQ AL AWSAT” ed “AL HAYAT”. Elementi di
altri gruppi salafiti in Algeria si sono riuniti o alleati con il “GSPC”, che intendeva
presentarsi come erede del “GIA” “storico” ed incarnare la legittimità della jihad in
Algeria.
Appare utile rammentare che molti avvenimenti e documenti recenti hanno già
dimostrato la volontà di alcuni alti responsabili del “GSPC” di sostenere la causa
jihadista internazionale difesa da “AL-QA’IDA”: ciò, ovviamente, rischia di
accrescere la minaccia terroristica, non soltanto in Algeria, ma anche in Europa.
Peraltro, a partire dalla metà del 2000, il “GSPC”, grazie ai suoi simpatizzanti in
Europa, aveva ricevuto il sostegno del movimento moujahidin in Europa, legato
alla regione afghano-pakistana ed alla jihad cecena.
La struttura italiana del “GIT”, ad esempio, facente capo nella zona di Milano
al tunisino ESSID SAMI BEN KHEMAIS, veterano afgano, è risultata
pacificamente operante in stretto collegamento con il GSPC.
Sulla scorta delle risultanze e delle esperienze investigative acquisite all’esito
delle indagini sviluppate nella zona di Milano negli anni ‘95/2000, nasceva
l’operazione “Al Muhajirun” – strutturata in tre fasi fra loro collegate,
conclusesi rispettivamente nell’aprile, nell’ottobre e nel novembre 2001 –
condotta nei confronti di aderenti ad una cellula terroristica algerino-tunisina
del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento attiva in Lombardia,
gravitante intorno all’Istituto Culturale Islamico di Milano. E’ decisamente
prevalente, in questa indagine, la componente tunisina che – è stato dimostrato
– aveva stretto significativi rapporti di fratellanza militante con quella algerina
nei campi di addestramento afgani.
Uno dei provvedimenti di custodia cautelare in carcere veniva emesso nel 2001
a carico del cittadino belga di origine tunisina Maaroufi Tarek, di anni 36,
residente in Belgio, che era risultato un importante ideologo islamista, anello di
congiunzione tra varie cellule del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il
Combattimento operanti in Inghilterra, Belgio, Spagna, Francia, Germania ed
Italia. E’ interessante notare come il Maaroufi, non estradato a causa del suo
status di cittadino belga, è stato arrestato, nel dicembre successivo, dalle
autorità di Bruxelles, nel contesto delle indagini relative all’omicidio del leader
storico delle forze afghane di opposizione al regime talebano Ahmad Shan
Massud, avvenuto il 9 settembre 2001, due giorni prima i fatti di N.Y.C. e
Washington.
Le indagini, comunque, hanno consentito di accertare che il gruppo, organico
al Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento, era capeggiato dal citato
Essid Sami Ben Khemais e che esso fungeva da supporto logistico per reclutare
militanti islamisti da indottrinare ed inviare successivamente in aree di guerra e
32
segnatamente in Cecenia.
L’impianto accusatorio è stato suffragato da sentenze di condanna ormai
definitive: gli imputati sono stati ritenuti responsabili dei reati di associazione
per delinquere, ricettazione, formazione di atti falsi e favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina.
Nella seconda fase della indagine (conclusasi il 10 ottobre 2001), sono
maggiormente emerse le connotazione transazionali del movimento salafita e ad
anche il traffico di armi veniva in evidenza come uno dei fini della associazione
per delinquere indagata.
Anche per gli arrestati dell’ottobre del 2001 sono intervenute sentenze
definitive di condanna per associazione per delinquere semplice e connessi
reati fine.
Le indagini hanno interessato anche l’Istituto Culturale Islamico di viale Jenner n.
50 a Milano ove, oltre ad ingente documentazione è stato rinvenuto un
passaporto falso di Es Sayed Abdelkader Mahmoud. Nella sentenza di condanna
del 2.2.04. il Tribunale di Milano ha posto in evidenza la circostanza che il
gruppo dei condannati gravitava attorno alle due principali moschee milanesi.
Il MOVIMENTO ISLAMICO RADICALE MAROCCHINO
Il movimento islamico radicale marocchino è sorto a seguito della radicalizzazione
di movimenti marginali, determinati a creare anche in Marocco, attraverso violenza
ed azioni clandestine, un regime rigidamente ispirato alle regole islamiche. Al
momento della nascita del Movimento della Gioventù Islamica Marocchina, anche
molti giovani marocchini si recarono, quali volontari, in Afghanistan. In tal modo
nacque un nuovo movimento radicale, legato alle organizzazioni salafiste.
Se questo movimento marocchino, essenzialmente formato da marocchini in esilio,
è apparso più come un fenomeno di appoggio al “GIA”, sino al 1996, le indagini
realizzate nei confronti dell'”HASM” e del “GIC” hanno permesso di stabilire che
rappresenta ora un rischio reale, anche se, in Marocco, la sovversione armata
sembra efficacemente contrastata..
Il movimento della GIOVENTÙ ISLAMICA MAROCCHINA (MJIM) nasce
ufficialmente il 29.10.72, a Casablanca, replicando il modello dei "FRATELLI
MUSULMANI" egiziani, una cui deriva radicale fu responsabile, nel 1981, in
Egitto, dell’omicidio del presidente ANOUAR EL SADAT.
Il “MJIM” aveva anche svolto azione di reclutamento tra i giovani
dell'immigrazione marocchina in Europa, (ad eccezione della Francia e della Gran
Bretagna, la comunità marocchina è generalmente la più numerosa tra gli immigrati
maghrebini nei paesi europei). Due dei leaders operanti in Francia, ZINNEDINE
MOHAMED e ZIAD ABDELLAH orientavano allora l'azione del “MJIM” verso
il sostegno alla Jihad internazionale. Il 24/8/1994, alle 10.30, tre individui armati
penetrarono nella hall dell'albergo Atlas Asni di Marrakech, uccidendo due turisti
spagnoli e ferendone tre. L'intervento della polizia marocchina permetteva l'arresto
successivo di otto individui.
Quattro commandos terroristi, ciascuno composto da tre uomini, vennero
identificati dai marocchini: gli arrestati denunciarono l'esistenza in Francia di vari
gruppi di militanti diretti
proprio da ZINNEDINE MOHAMED e ZIAD ABDELLAH che dovevano
assicurare il trasporto di
armi ed il compimento di atti terroristici in Marocco. Secondo diverse fonti
ZINEDDINE, dopo la sua fuga dalla Francia, aveva potuto trovare
successivamente rifugio in Siria , in Pakistan, in Turchia e poi in Bosnia.
33
Esistono altri gruppi terroristici marocchini: il Movimento Combattente
Islamico Marocchino (Al Harakat Al Islamiya Al Maghribia Al Moukatila HASM) di cui la rivista L'Eco del Marocco (ultimo numero apparso nel
novembre 1998), diffusa nel giugno e luglio ’97 anche dinanzi alla moschea di
Cremona, è stato l’organo di propaganda ufficiale (auspicando la Jihad per
rovesciare le istituzioni marocchine ed i suoi alleati cristiani ed ebrei), il
Gruppo Islamico Combattente Marocchino il cui atto di fondazione, datato
16/6/1997, è stato sequestrato a Cremona il 10.2.98 (con una presentazione
più accurata di quella rinvenuta in duplice esemplare un mese più tardi a
Bruxelles). Nell’occasione sono stati anche scoperti documenti di identità
falsificati, manoscritti sull'uso e la fabbricazione di armi, manuali di
addestramento militare e di lotta clandestina oltre che videocassette di
propaganda. Il documento del “GIC” contiene, sotto forma di prediche, un
appello alla Jihad in Marocco.
L'obiettivo principale annunciato di questo movimento è la guerra santa per
rovesciare il regime “sceriffale”, ma esorta il popolo marocchino a combattere
anche gli alleati di questo regime (gli ebrei ed i cristiani). Il testo, di perfetto
rigore salafista, rivendica l'alleanza del “GICM” con altri gruppi combattenti
salafisti. Diverse analisi consentono di ritenere che questi testi riflettono
un’ideologia di gruppo ricalcata su quella del “GIA”.
Nel luglio del 1998 è stato anche diffuso un comunicato proveniente da
un'altra organizzazione marocchina fino ad allora sconosciuta, il Gruppo
Islamico della Jihad Marocchina (GIJ). Quello si proponeva di ricostituire
il "grande Marocco", vale a dire uno stato islamico ove si parlano lingue araba
e berbera, delimitato ad ovest dall'Atlantico, a est dalla Tunisia e dalla Libia, a
sud dai fiumi del Senegal, del Niger e dal Mali ed a nord dal Mediterraneo.
Il “GIJ” ha ugualmente l'obiettivo di rovesciare il regime di HASSAN
HATTAB, di lottare contro gli ebrei residenti in Marocco e le personalità
straniere (politici, giornalisti, artisti) ostili all'Islam.
Il “GIJ” sarebbe diretto dall'emiro ABOU ABDELLAH CHARIF.
Dopo gli attentati di Casablanca del 16.5.2003 (che hanno determinato 45
vittime), comunque, l’attenzione degli inquirenti marocchini – e di tutto il
mondo- si è concentrata sulla cellula integralista islamica Salafiya Jihadiya che
ne è ritenuta la responsabile.
La Procura Generale del Re presso la Corte d’Appello di Rabat, competente su
tutto il territorio nazionale in materia di terrorismo, è convinta, sulla base delle
dichiarazioni di vari adepti già condannati, che si tratti di un’organizzazione
anch’essa costituitasi dopo il conflitto sovietico-afghano, che vanti articolazioni
anche in Algeria e Tunisia.
La stessa organizzazione risulta coinvolta nelle stragi di Madrid dell’11.3.2004.
Nel mese di dicembre 2008 Rachid Ilahami, 31 anni, di mestiere saldatore, e
Abdelkader Ghafir, 42enne operaio edile, marocchini, animatori del centro
culturale "Pace Onlus" di Macherio, sono stati arrestati dalla Digos con
l’accusa di aver dato vita a una cellula fondamentalista islamica pronta a colpire
nei teatri di guerra ma anche nel nostro Paese.
A parole, avrebbero voluto farsi saltare in aria contro un supermercato, la
caserma dei carabinieri di Giussano e l’ufficio immigrazione della Questura di
Milano.
34
“ANSAR AL ISLAM”
Il profilo di questo movimento islamico ed i primi indizi di legami con il terrorismo
si ricavano dalle dichiarazioni rese alle autorità norvegesi dallo stesso fondatore,
NAJMUDDIN FARAJ AHMAD, più noto come MULLAH KREKAR, nato a
Sulaymania (Iraq) il 07/07/56, il quale, attualmente in regime di asilo politico in
quel Paese, è stato sottoposto ad indagine successivamente all’inserimento
dell’organizzazione “ANSAR AL ISLAM” tra i gruppi terroristici aventi legami con
“AL-QA’IDA”, il 24/02/03, in base alla risoluzione ONU 1267/99.
Il gruppo era stato fondato il 10/12/01 e traeva origine dalla fusione tra lo
“I.M.K.” (“MOVIMENTO ISLAMICO DEL KURDISTAN IRACHENO”) e
“JUND AL ISLAM” ed era composto da circa seicento membri di cui trecento
militari; la maggior parte dei componenti era di origine curda, tranne undici
membri arabi residenti nel Kurdistan e sposati a donne di quella etnia.
“ANSAR” controllava una piccola enclave montuosa nel nord dell’Iraq sul confine
iraniano ed aveva l’obiettivo politico di combattere il regime secolare di SADDAM
HUSSEIN e le spinte occidentalistiche del “PUK” (“UNIONE PATRIOTTICA
DEL KURDISTAN”) per creare, nel territorio controllato dal gruppo, uno stato
islamico nel quale dare applicazione alla sharia (legge islamica).
I soldati ricevevano indottrinamento sull’uso delle armi leggere, mentre solo alcuni
seguivano un corso sull’uso di materiali esplosivi; gli stage erano gestiti da ex
militari di etnia curda privi tuttavia di precedenti in Afghanistan o Cecenia.
Esisteva un sistema di prelievo di tributi di circa dieci-dodici dollari USA per ogni
veicolo impiegato nel commercio transfrontaliero verso l’Iran, contro garanzie di
sicurezza; inoltre, esisteva una raccolta organizzata presso le varie moschee (zakat)
realizzata dai sostenitori del gruppo presenti in Europa, USA ed Australia, i quali
inviavano successivamente le somme di denaro attraverso il sistema della hawala
banking20. Altre fonti indicano che il citato gruppo ha avuto origine sin dal
settembre 2001, ma che già nell’agosto precedente alcuni dirigenti di gruppi
islamisti del Kurdistan avevano effettuato visite ai
dirigenti di “AL-QA’IDA” in Afghanistan, con la finalità di creare una base
alternativa per l’organizzazione nel nord dell’Iraq; l’intenzione era quella di aderire
alla lotta condotta dal network di BIN LADEN al fine di espellere gli ebrei ed i
cristiani dal Kurdistan ed unirsi al jihad sottoponendo il territorio alle regole della
legge islamica (sharia).
L’organizzazione radicale curda opera nella zona montuosa posta tra l’Iran e l’Iraq
conosciuta come “Little Tora Bora”; qui i membri del gruppo, di origine curda,
irachena, libanese, giordana, marocchina, siriana, palestinese ed afghana
condurrebbero addestramento alla guerriglia; circa trenta membri di “ALQA’IDA” si sarebbero uniti ad “ANSAR” già dal 2001 e da allora la consistenza
del gruppo sarebbe aumentata raggiungendo circa centoventi unità.
Il sodalizio, che dispone di armi pesanti, mortai ed armi antiaereo, persegue la
visione di un jihad globale, nel senso precedentemente descritto, di cui il più
autorevole sostenitore è il luogotenente di BIN LADEN, AL ZAWAHIRI.
Nell’anno 2001, i gruppi curdi “HAMAS” e “TAHWID” si uniscono nel gruppo
“JUND AL ISLAM” che successivamente assumeva la denominazione di
“ANSAR AL ISLAM”. L’obiettivo dichiarato dall’organizzazione era la distruzione
della società civile e l’instaurazione nel Kurdistan iracheno di un regime salafita
simile a quello talebano in Afghanistan, secondo il retaggio ideologico-religioso dei
“FRATELLI MUSULMANI”. A tal fine, nell’organizzazione e nel territorio
controllato dalla stessa viene bandita la musica, l’alcool, le fotografie, le donne
sono interdette dall’istruzione e vengono obbligate a coprirsi il capo secondo i
canoni tradizionali, gli uomini hanno anch’essi i segni esteriori distintivi
dell’ortodossia islamista.
35
La funzione di “ANSAR AL ISLAM” quale struttura destinata a recepire,
contenere e dare nuovo slancio all’azione dei gruppi terroristici transfughi
dall’Afghanistan, risulta peraltro da più indicazioni convergenti.
Dopo l’intervento americano dell’ottobre del 2001 (Enduring freedom), e la
campagna militare in Afghanistan contro il regime talebano, si determinavano la
dissoluzione della struttura di “ALQA’IDA” e la conseguente diaspora dei dirigenti
e dei membri verso località nuove, ritenute protette ed idonee agli scopi
dell’organizzazione: Una delle zone in cui appartenenti ad “ALQA’IDA”
avrebbero trovato rifugio e sostegno è stata proprio la località del nord dell’Iraq, al
confine con l’Iran, regione territoriale controllata da “ANSAR AL ISLAM”.
Risulta, infatti, che già nell’agosto del 2001 i dirigenti di alcune fazioni islamiche
curde radicali si erano recati in Afghanistan presso la dirigenza della rete terroristica
diretta da OSAMA bin LADEN al fine di creare una base alternativa per
l’organizzazione nel nord dell’Iraq; infatti, in una sorta di documento
programmatico erano state tracciate le linee guida di questa alleanza al fine di
espellere gli ebrei ed i cristiani dal Kurdistan, condividere l’applicazione del jihad
ed imporre in quelle località le regole della sharia. In sostanza, il fine ultimo di
“ANSAR” – la creazione di un regime, simile a quello talebano, nel nord dell’Iraq –
va ad inserirsi in questa fase nel progetto federativo internazionale di matrice
terroristica, che fa riferimento alla fatwa emessa nel febbraio 1998, proposta dallo
sceicco OSAMA bin LADEN e rappresentata dal “FRONTE MONDIALE
ISLAMICO PER IL JIHAD CONTRO GLI EBREI E I CROCIATI”. La nuova
struttura, pertanto, prendeva possesso delle regioni montuose del Kurdistan
iracheno lungo la linea di confine con l’Iran, raggiungendo la dimensione massima
di circa settecento combattenti affiancati da circa centocinquanta talebani di “ALQA’IDA”; dalla data di insediamento nelle citate zone, l’organizzazione
estremistica curda si è scontrata con la “UNIONE PATRIOTTICA DEL
KURDISTAN” (“PUK”), movimento filo occidentale che, a sua volta, si
opponeva ai tentativi di insediamento e di radicalizzazione sociale perseguiti dai
seguaci di “ANSAR”. Tra i più noti leader terroristici che avrebbero trovato riparo
presso le basi di “ANSAR” vi era il anche il giordano-palestinese FAZEL INZAL
AL KHALAYLEH, più noto come ABOU MUSSAB AL ZARKAWI, ucciso
dalle forze statunitensi nel 2006. Ormai, “ANSAR AL ISLAM” dispone di
rappresentanti clandestini e coordina le sue attività di raccolta dei volontari con le
organizzazioni terroristiche “OSBAT EL ANSAR” (Libano), “JAMAAT EL
HAQ” (Libano), “AFHAD EL RASSOUL” (Arabia Saudita), “IBAD-C”
(Turchia), “EL ISLAH OUA TAHADI” (Giordania), “BAITH EL IMAM”
(Giordania), il “GSPC” , il “GIA” ed il “DHDS” (Algeria) ed altri piccoli gruppi.
La Procura della Repubblica di Milano, tra l’altro, ha ottenuto assistenza
giudiziaria dalla A.G. norvegese provvedendo anche all’esame, in formale
attività rogatoriale, del MULLAH KREKAR. Costui, nell’ammettere di essere
stato fondatore e capo di Ansar Al Islam, ha specificato di avere abbandonato
l’organizzazione dopo la sua svolta terroristica, essendosi in precedenza
limitato a svolgervi attività legale, religiosa o politica. Ma sono state acquisite
anche dichiarazioni rese nell’ottobre del 2003 da militanti di Ansar Al Islam,
attualmente detenuti in Kurdistan, arrestati con esplosivo indosso con cui
intendevano farsi esplodere in attentati suicidi, i quali hanno precisato di essere
stati incaricati di quei programmati atti terroristici proprio dal Mullah Krekar.
36
Detto questo sul leader e fondatore di Ansar Al Islam, al quale vennero
peraltro sequestrati numeri telefonici di indagati in procedimenti pendenti
presso la Procura di Milano, va specificato, quanto alle indagini sulle sue
ramificazioni in Italia, che nel marzo e nel novembre del 2003 sono stati colpiti
da provvedimenti restrittivi emessi dal G.I.P. di Milano, nonché, nel febbraio
del 2004, da quelli emessi dal G.U.P. di Brescia, vari personaggi ritenuti
aderenti a tale organizzazione, i quali sono stati già giudicati dalle Corti
d’Assise di Milano e Cremona, nonché dalla Corte d’Assise d’Appello di
Brescia ed in buona parte condannati per appartenenza ad associazione con
finalità di terrorismo internazionale, ricettazione di documenti di identità ed
agevolazione all’immigrazione clandestina sul nostro territorio.
L’attività investigativa ha documentato l’esistenza di una rete di reclutamento
per l’invio di volontari/mujaheddin nei campi di addestramento situati a Kurmal,
distretto di Sulemaniya, enclave curda nel Nord Iraq sotto il controllo di Ansar
Al Islam, attraverso un percorso che partendo dall’Italia, prevedeva soste in
Turchia e Siria, paesi in cui sono (o erano) presenti strutture di sostegno
all’organizzazione. La cellula, con ramificazioni in altre città del Nord Italia, era
altresì dedita al sostentamento logistico della “filiera”, attraverso il reperimento
di falsi documenti d’identità e l’invio di somme di denaro ai fratelli
combattenti.
Altri imputati di origine nord africana (prevalentemente tunisina), accusati di
violazione dell’art. 270 bis C.P. ed, in fatto, di avere avuto stretti rapporti
operativi con Ansar Al Islam, verranno altresì giudicati a breve dalla Corte
d’Assise di Milano, nell’ambito di procedimento scaturito dalla collaborazione
processuale di due di essi.
In conclusione si fa cenno all’organizzazione HIZB UT TAHIR AL ISLAMI è
oggetto di indagini più recenti ed è prevalentemente costituita da militanti
marocchini e tunisini. Essa appare strutturata in Compagnie, impegnate
costantemente nel reclutamento di adepti da inviare in aree “calde” quali l’Iraq
ed l’Afghanistan, per addestramento militare e per commettervi azioni
terroristiche. Le Compagnie risultano diffuse non solo in varie zone d’Italia ma
anche in altri Stati dell’Europa occidentale, nonché in Algeria, Siria ed altre
aree del Medio Oriente. Membri di tale organizzazione manterrebbero legami,
anche indiretti, con la prima citata ANSAR AL ISLAM. Come in ogni altra
inchiesta condotta in Italia, ancora risulta prevalente l’attività di falsificazione
di documenti di identità e di agevolazione della immigrazione ed emigrazione
clandestine.
Nel mese di dicembre 2008, due marocchini, Rachid Ilahami, 31 anni, di
mestiere saldatore, e Abdelkader Ghafir, 42enne operaio edile, animatori del
centro culturale "Pace Onlus" di Macherio, sono stati arrestati dalla Digos di
Milano con l’accusa di aver dato vita a una cellula fondamentalista islamica
pronta a colpire nei teatri di guerra ma anche nel nostro Paese. «Non c’è
bisogno di raggiungere l’Afghanistan per sentirsi di Al Qaeda, possiamo
37
combattere i miscredenti anche qui», ragionavano i due marocchini al telefono
e, intanto, si "allenavano" per la missione a due passi dalla Villa Belvedere di
Silvio Berlusconi, a Macherio, seimila abitanti in Brianza. Ogni sera, terminati i
sermoni dai toni pacati, quando gli incontri pubblici nel vecchio magazzino di
via Toti si concludevano, Ghafir e Rachid tiravano notte a studiare proclami
diffusi dai leader di Al Qaeda e a scaricare da internet filmati sulle tecniche di
lotta corpo a corpo e sulla fabbricazione di bombe.
A parole, avrebbero voluto farsi saltare in aria contro un supermercato, la
caserma dei carabinieri di Giussano e l’ufficio immigrazione della Questura di
Milano.
Dalle intercettazioni si evince che gli indagati, complessivamente una decina e
che nei loro dialoghi rivendicavano la propria appartenenza ad Al Qaeda,
avrebbero avuto inizialmente intenzione di utilizzare un camion di esplosivo.
Resisi conto delle difficoltà, avrebbero ripiegato su alcune bombole ad
ossigeno il cui uso era stato tratto da Internet..
Forse si trattava di cani sciolti ma infervorati da un radicalismo islamico che
avevano imparato a coltivare e diffondere e che stava per concretizzarsi con
l’ideazione dei primi attentati.
Nel mese di marzo 2009 due presunti terroristi, un marocchino ed un tunisino,
sono stati espulsi dall'Italia e rimpatriati nei paesi d'origine per motivi di
sicurezza in quanto indagati per associazione con finalità di terrorismo
internazionale.
Gli investigatori hanno accertato che il marocchino viveva a Gaiarine da
tempo, ma non si era integrato e più volte aveva manifestato sentimenti di
ostilità verso l'Italia. Una delle sue attività principali, sottolineano le fonti, era
quella di svolgere attività costante di proselitismo della jihad, ripetendo spesso
che "il credente é legittimato a concludere con il martirio il proprio percorso di
vita spirituale".
Il tunisino invece, è considerato il leader della comunità musulmana di
ispirazione salafita del nord est, l'uomo però non svolgeva attività di
predicazione ne' si era esposto con interventi pubblici: apparentemente, quindi,
agiva come uno dei tanti lavoratori immigrati che sono impiegati nelle attività
produttive del Friuli. Ma, secondo gli investigatori, manteneva invece stretti
contatti con esponenti di gruppi integralisti islamici attivi in Tunisia e finanziati
da Al Qaida, arrestati nel paese nordafricano in seguito ad alcuni scontri armati
con le forze di polizia. In particolare, in una conversazione intercettata,
avrebbe parlato di un attentato nel nostro paese enfatizzando gli effetti che
potrebbero derivare dall'esplosione di una bomba.
In Italia, il panorama integralista emerso, sembrerebbe essere distinto dalla
presenza di ristretti circuiti di matrice estremista spesso raccolti intorno a
personaggi carismatici con pregressa esperienza e trascorsi di militanza in
organizzazioni terroristiche capaci di radicalizzare giovani conquistati alla
causa.
Tale fenomeno è parso, a similitudine di quanto già osservato in Francia, in
crescita negli ambienti carcerari dove è stata riscontrata una pericolosa ed
insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da soggetti
38
condannati per appartenenza ad organizzazioni terroristiche in favore di
detenuti connazionali e non quale attività di proselitismo.
I riscontri investigativi hanno evidenziato che la Lombardia si conferma essere
una delle principali piazze per la proliferazione del fondamentalismo di matrice
islamica con continuo ricambio generazionale che vede l’ingresso in scena di
nuove leve oggetto di attenzione da parte delle forze di polizia.
E’ utile, a questo punto, prendere in esame alcune specifiche questioni relative
ai possibili canali di finanziamento del cd. terrorismo islamico ed ai suoi
eventuali contatti con la criminalità organizzata comune ed i gruppi terroristici
interni: il tutto alla luce delle risultanze delle indagini effettuate in Italia.
Non saranno qui trattati i problemi giuridici connessi all’applicazione della L..
n. 438/2001 sul finanziamento delle associazioni terroristiche od eversive, nè si
parlerà, in dettaglio, dei provvedimenti di congelamento dei beni, delle società
o dei soggetti inseriti nelle liste formate presso l’ONU (Comitato sanzioni del
Consiglio di sicurezza - che ha il compito di dare attuazione alle Risoluzioni
1267, 1333 e 1390) o degli altri strumenti similari predisposti a livello
internazionale o nazionale.
Si è già visto come il finanziamento dei “combattenti” costituisca non solo una
delle principali attività che impegna gli appartenenti ai gruppi inquisiti, ma
anche una precisa ed ineludibile regola di comportamento.
Tanto premesso, va detto che nell’esperienza applicativa:
- non sono emerse prove di finanziamenti provenienti da supposti vertici
collocati all’estero per lo svolgimento dell'attività quotidiana degli appartenenti
a cellule terroristiche operanti in Italia;
- non sono stati ancora individuati veri e propri casi di finanziamento, intesi
anche in senso tecnico e continuativo, con ricorso, ad es., a strumenti bancari
particolarmente sofisticati;
- è stata raggiunta la prova giuridica piena della trasmissione di denaro (o
addirittura della consegna) da determinati soggetti ritenuti appartenenti ad
un’associazione terroristica a loro sodali coinvolti nelle stesse attività, spesso
quando costoro si trovavano fuori dall’Italia, talvolta addirittura in campi di
addestramento. Al riguardo, nel corso delle indagini, sono stati accertati
trasferimenti di piccole somme di denaro (mai superiori a dieci milioni di
vecchie lire) attraverso canali alternativi rispetto a quelli bancari, come ad es.
quelli della Western Union;
- è anche emersa la costituzione di piccole società intestate a personaggi
sospettati di attività terroristiche, sicchè appare verosimile il loro utilizzo a
scopi di illegale finanziamento delle stesse;
- è stata raggiunta la prova, grazie anche alle dichiarazioni di alcuni
collaboratori processuali, che l’attività dei gruppi terroristici in Italia è stata
finanziata anche attraverso compravendita di banconote false e traffici di
stupefacenti : ma in entrambi i casi non è possibile affermare che si sia trattato
di attività concernenti quantità ingenti di banconote e stupefacenti.
La realtà descritta per la situazione italiana, così come quella emergente dalla
maggior parte delle indagini europee, sembra provare che finanziamenti
39
provengono prevalentemente dal basso, cioè da attività criminali comuni di
non elevato livello (traffico di stupefacenti, di documenti e banconote falsi) o
dalle offerte di fedeli inconsapevoli, il che ovviamente pone agli investigatori
problemi diversi.
40
4. L’attività investigativa e di sicurezza nel
contrasto al terrorismo
F
ornire una risposta definitiva ed esauriente per l’individuazione di
metodologie di contrasto al terrorismo valide ed efficaci a debellare il
fenomeno sarebbe illusorio in virtù del fatto che ancora oggi il terrorismo è
fenomeno complesso, il termine terrorismo non trova ancora una definizione
generalmente accettata e non ultimo le misure di prevenzione e repressione
sono talvolta controverse.
Ci si propone pertanto di formulare osservazioni e riflessioni su quelli che
possono essere dei criteri di riferimento sui quali poggiare la complessa opera
di contrasto al terrorismo in considerazione di quelli che sono gli strumenti
disponibili.
Il particolare atteggiarsi della minaccia derivante dal terrorismo di matrice
islamica ha indotto i maggiori paesi d’Europa a creare dei tavoli o delle
strutture destinate alla valutazione di tale insidia, alla condivisione delle
informazioni tra Organismi di intelligence e di Law enforcement, alla
predisposizione congiunta delle misure di contrasto.
Il terrorismo ha una forte capacità di moltiplicare l’effetto delle sue azioni e di
fare proseliti, padroneggiando, ormai, i più moderni mezzi di comunicazione.
È multiforme, potendo impiegare tutti gli strumenti – convenzionali e non
convenzionali – facilmente reperibili nelle moderne società tecnologiche.
Come ha avuto modo di evidenziare il Prof. Vittorfranco Pisano15 Il terrorismo può essere
praticato a livello di mera tattica, in via occasionale e quindi non sistematica, da
agitatori sovversivi di varia matrice o può manifestarsi come un vero e proprio
stadio nello spettro della conflittualità non convenzionale. Quando si manifesta
come stadio, il terrorismo costituisce il passaggio dall’agitazione sovversiva per
lo più di strumenti non violenti o comunque non clandestini, ad una fase più
avanzata della conflittualità non convenzionale. Sia gli agitatori sovversivi sia i
terroristi di stampo politico o politico-religioso mirano generalmente a
raggiungere lo stadio finale, ovvero la rivoluzione.
Va altresì distinto il terrorismo interno da quello internazionale (talvolta
denominato transnazionale), il quale coinvolge i cittadini o il territorio di due o
Il Professor Vittorfranco Pisano, colonnello t.SG (Ris.) della Polizia Militare dell’Esercito
degli Stati Uniti d’America, è specializzato in istituzioni politiche comparate e sicurezza
internazionale. Laureato in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, è attualmente docente del
corso sul Terrorismo e Conflittualità Non Convenzionale nel Master in Intelligence & Security
presso la sede romana (Link Campus) dell’Università di Malta. Ha precedentemente insegnato
presso la Georgetown University, il Defense Intelligence College, lo U.S. Army War College, la
Troy State University European Division, l’Università degli Studi di Urbino e la John Cabot
University. E’ stato consulente della Sottocommissione per la Sicurezza e il Terrorismo del
Senato degli Stati Uniti ed è tuttora revisore dei corsi gestiti dal Dipartimento di Stato degli
Stati Uniti nell’ambito del Programma di Assistenza Anti-Terrorismo.
15
41
più Stati. Entrambe le forme costituiscono una minaccia all’ordine pubblico e,
in determinati casi, anche alla sicurezza nazionale e alla stabilità geopolitica
regionale.
La minaccia del terrorismo interno, ancorché embrionale, era riscontrabile già
dagli anni Sessanta, mentre quella transnazionale era già sorta tra la fine degli
anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. A titolo di esempio basta ricordare,
da un lato, aggregazioni endogene − longeve e di varia natura − quali il Front
National de Libération de la Corse (Francia), la Rote Armee Fraktion (Germania), le
Brigate Rosse (Italia), il Provisional Irish Republican Army (Regno Unito) ed Euzkadi
ta Askatasuna (Spagna) e, dall’altro lato, aggregazioni palestinesi laiche, ma con
sfumature politiche o ideologiche diverse, quali Fatah, Settembre Nero, il Fronte
Popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte Popolare della Palestina–Comando
Generale.
A partire dalla metà degli anni Novanta, la potenziale minaccia più visibile e
maggiormente inquietante è costituita dal terrorismo di stampo
prevalentemente esogeno e nel contempo politico-religioso, piuttosto che
precipuamente politico.
Tra gli strumenti ordinari disponibili16 per combattere il terrorismo si è preferito
focalizzare l’attenzione sull’intelligence e sull’attività preventiva e repressiva di
polizia.
Non vi è dubbio sul fatto che il contrasto al terrorismo necessita di una solida
base informativa leggibile e facilmente interpretabile quale immediato supporto
per il potere decisionale unitamente ad una attenta analisi della minaccia
Nel mutato contesto storico caratterizzato da una conflittualità non
convenzionale è ravvisabile la necessità di un adeguamento dell’intelligence
per far fronte a nuove e sfuggenti sfide caratterizzate dalla presenza sullo
scenario di attori e metodologie non tradizionali. Negli ultimi vent’anni,
l’evoluzione straordinaria dei sistemi di informazione e comunicazione e delle
tecnologie ad essi collegate ha influenzato il processo decisionale di policymaker.
La gestione delle informazioni deve comportare un continuo flusso di dati, una
standardizzazione dei linguaggi e della procedure, potenti funzioni di ricerca e
strumenti sofisticati di indicizzazione-visualizzazione che consentano i più
svariati collegamenti relazionali, temporali, georeferenziali, cui deve essere
aggiunto un apporto notevole in termini di risorse umane adeguate.
In ordine alla collection, occorre sottolineare che tale raccolta informativa, in
un continuo cammino evolutivo, può avvalersi di diverse fonti che secondo
l’ormai acquisita terminologia anglosassone, corrispondono a quelle umane
(“HUMINT”-Human intelligence ), elettromagnetiche (“SIGINT”- Signal
16
(1) l’intelligence, (2) la sensibilizzazione della popolazione, (3) la responsabilizzazione
dei mezzi di comunicazione di massa, (4) la formazione professionale, (5) le operazioni
preventive e repressive di polizia, (6) la diplomazia, (7) gli accordi internazionali, (8) la
collaborazione bilaterale e multilaterale, (9) le sanzioni, (10) gli incentivi economici, (11)
le operazioni psicologiche e (12) l’aggiornamento istituzionale e giuridico.
42
intelligence, “ELINT”- Electronic Intelligence, “IMINT”- Imagery
Intelligence) ed aperte, costituite da documenti, studi, stampa, Internet.
In particolare per ciò che concerne la parte relativa alla raccolta di
comunicazioni e segnali cosiddetta SIGINT17 (Signal Intelligence) occorre
evidenziare preliminarmente che, la clandestinità terroristica incide fortemente
sull’attività di intercettazione preso atto che le varie aggregazioni non operano
da basi fisse e spesso si avvalgono di comunicazioni tramite interposta persona
o con messaggi depositati, recentemente sempre più con l’ausilio della rete.
Il 90% delle informazioni sono ricavate dalle fonti aperte, l’OSINT, la quale
senz’altro costituisce un importanza e tra l’altro negli ultimi tempi è cresciuta
considerevolmente a discapito della Human Intelligence; due sono le principali
caratteristiche che evidenziano tale crescita e sono dovute alla enorme quantità
di informazioni ricavanti e dal basso costo che tale fase di acquisizione
comporta.
La risorsa umana è stata messa da parte per far spazio alle nuove tecnologie
investigative e di intelligence: più IMINT e TECHNINT le quali insieme
all’OSINT hanno costituito il quadro di ricerca principale delle informazioni.
La diffusione capillare ed enorme di informazioni che attualmente esistono e
sono rintracciabili attraverso i vari canali mediatici precludono una istantaneità
di analisi, poiché intrinseche l’una all’altra e spesso cornice di quadri
destabilizzanti o celanti la natura propria della notizia o dell’informazione.
Le fonti umane cosiddette HUMINT (Human Intelligence) a parere di chi
scrive, rimangono il veicolo principale per l’acquisizione diretta di informazioni
e per seguire tracce di interesse sebbene ciò comporti di conseguenza l’uso di
infiltrati e di informatori, questi ultimi non sempre affidabili.
Il compito dell’HUMINT è proprio quello di acquisire informazioni
provenienti da fonti umane per identificare intenzioni, composizione, forza,
tattiche, equipaggiamenti, personale e capacità dell’avversario.
In tale contesto assume particolare importanza l’individuazione di ogni fattore
storico, politico, sociale religioso o di altra natura passibile di sfruttamento da
parte dei terroristi.
Contemporaneamente diventa determinante identificare la presenza di una o
più aggregazioni radicali, potenzialmente portatrici di disegni terroristici
analizzando gli eventuali scritti ideologici per meglio comprendere finalità ed
obiettivi.
Un aspetto che deve essere oggetto di continuo monitoraggio e valutazione è il
modus operandi delle varie aggregazioni. Infatti il livello di qualità e capacità varia
da aggregazione ad aggregazione in termini di addestramento, scelta degli
obiettivi e modalità operative.
Il modus operandi, è indicativo delle potenzialità presenti e future di ciascuna
aggregazione. Il fatto che due o più aggregazioni scaturiscano dalla stessa
sottocultura non significa che condividano in tutto e per tutto le modalità
17 La Signal Intelligence è una categoria di acquisizione di informazioni provenienti dallo
spettro elettromagnetico (onde elettromagnetiche caratterizzate da una lunghezza d’onda e
frequenza )
43
operative. Il modus operandi è, peraltro, soggetto a mutamenti nel corso del
tempo.
La struttura di un’aggregazione terroristica fornisce indicazioni circa il suo
potenziale a breve e a lungo termine. La struttura e le dimensioni di ciascuna
aggregazione condizionano non soltanto la sicurezza, la disciplina,
l’addestramento, le leve di comando, il controllo, le comunicazioni, la
pianificazione, le operazioni e la logistica, ma anche il ciclo vitale
dell’aggregazione stessa. I militanti delle aggregazioni terroristiche vengono
impiegati a tempo pieno, a tempo parziale o in entrambi i modi. Le
aggregazioni terroristiche – per motivi di sicurezza monocellulari o
pluricellulari e compartimentate – sono strutturate, secondo propri criteri
selettivi, in forma rigida o flessibile con una leadership centralizzata o
decentralizzata. Alcune di esse possono fungere da ombrello o rete per altre
aggregazioni di minore entità che condividono gli stessi fini.
In relazione alle strutture e al modus operandi delle aggregazioni terroristiche è
parimenti opportuno analizzare quali di esse rappresentano la maggiore
minaccia nelle aree d’interesse; quali sono le capacità informative e
tecnologiche delle varie aggregazioni; quali tipologie aggressive sono
attualmente e potenzialmente le più pericolose; quali mutamenti nelle strategie,
strutture organizzative, scelta dei bersagli e dinamiche operative sono più
rilevanti; e come si prospettano le potenzialità nel breve, nel medio e nel lungo
termine con riferimento alla composizione numerica, all’intensità operativa e al
raggio geografico di azione.
Nel monitoraggio e nell’analisi delle strutture e del modus operandi è comunque
sempre importante curare la memoria storica dato che il terrorismo attrae
l’imitazione e manifesta forte continuità nella sostanza, pur variando nel
dettaglio.
Ci si rende conto che per combattere efficacemente il terrorismo
fondamentalista, occorrono sì strumenti normativi incisivi e maggiori poteri
per gli organi di Polizia e di Intelligence, ma appare ineludibile l’esigenza di
prevenire le minacce attraverso una capillare raccolta di informazioni ed una
loro valutazione congiunta tra tutti gli attori coinvolti nella lotta a tale
fenomeno.
Una soluzione pratica a tale necessità è stata individuata in Italia con la nascita
del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, istituito per volere del
Ministro dell’Interno quale tavolo permanente tra organismi di Law
Enforcement e Servizi di Intelligence, per la condivisione e la contestuale
valutazione delle informazioni inerenti la minaccia terroristica interna ed
internazionale.
La costituzione di quello che d’ora in avanti verrà più semplicemente indicato
con l’acronimo C.A.S.A., dopo una prima fase sperimentale protrattasi dal 30
dicembre 2003 al 14 maggio 2004, è stata formalizzata con il D.M. 6 maggio
2004, recante il Piano Nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica
unitamente alle procedure e le modalità di funzionamento dell’Unità di Crisi, ai
sensi della legge n. 133 del 2 luglio 2002.
44
L’Organismo de quo espleta in generale i compiti di analisi e di valutazione
delle segnalazioni particolarmente rilevanti relative al terrorismo interno ed
internazionale, che confluiscono presso il Dipartimento della Pubblica
Sicurezza, per poi dar corso alle misure preventive attraverso il canale delle
autorità provinciali di pubblica sicurezza.
Il C.A.S.A. si atteggia a vero organo di elevato spessore sia sotto il profilo
decisionale che di coordinamento delle successive iniziative preventive che le
Forze di Polizia intendono intraprendere, in modo da evitare duplicazioni o
inutili sovrapposizioni che in questo settore assumono non solo una valenza
negativa in termini di efficacia ed economicità dell’azione, ma possono
cagionare anche eventuali lacune o spazi vuoti destinati a riverberarsi sulla
sicurezza nazionale.
Il modus operandi della Struttura si estrinseca in una costante consultazione e
in un meccanismo di raccordo tra le varie componenti che permette una
penetrante analisi delle informazioni che vengono così approfonditamente
ponderate al fine di adottare le necessarie misure in senso preventivo e/o
repressivo.
Sul fronte delle iniziative operative intraprese, il Comitato ha individuato quali
interventi di interesse strategico a livello nazionale:
- Il monitoraggio della rete internet con riguardo ai siti jihadisti ed in
particolare ai fora di discussione che rappresentano tra le più
importanti fonti aperte destinate a fornire una misura del grado di
ricettività e di penetrazione del messaggio promanante da Al Qaeda e
dalle Organizzazioni che ad essa si ispirano;
- Le attività di prevenzione espletate mediante il controllo dei luoghi di
aggregazione abitualmente frequentati da elementi radicali come call
center, internet point, money transfer o direttamente condotti su
soggetti contigui ad ambienti fondamentalisti ;
- Individuazione ed espulsione con decreto del Ministro dell’Interno di
elementi pericolosi ;
- Approfondimenti sui canali di finanziamento demandati alla Guardia di
Finanza.
Ancora oggi sono importantissime le intercettazioni telefoniche ed ambientali
quali strumenti investigativi a disposizione contro fenomeni criminali di una
certa gravità.
La sterilità di certe polemiche su presunti abusi in questo campo è dimostrata
dal fatto che tali polemiche intervengono solo in determinati casi e per una
certa tipologia di imputati.
Il tema delle intercettazioni preventive- con riferimento non solo alla disciplina
regolatrice ma anche alle finalità cui sono mirate – è di grande attualità, almeno
da quando il New York Times ha svelato nel novembre 2005 l’autorizzazione
del presidente Bush a monitorare milioni di telefonate di cittadini statunitensi
senza autorizzazione del giudice. La Casa Bianca non ha negato tale prassi, l’ha
giustificata in nome della lotta al terrorismo e della necessità di prevenirne le
manifestazioni. Infine, ha accusato il quotidiano newyorkese di avere recato un
grave danno alla sicurezza dello Stato attraverso la pubblicazione dei suoi
articoli di denuncia.
45
Il tema delle intercettazioni preventive è in ogni caso oggetto di serrato
dibattito tra gli addetti ai lavori, anche se – alla luce di quanto sostenuto da
numerosi magistrati – non è possibile affermare che in Italia si sia registrato
fino a questo momento un abuso o anche solo un uso quantitativamente
eccessivo di questo strumento da parte dei Servizi di Informazioni. Si tratta di
una constatazione decisamente confortante specie se si pensi ai livelli ed alle
dimensioni che il fenomeno ha raggiunto negli Stati Uniti (dove, peraltro, non
interviene alcun provvedimento da parte dell’Autorità Giudiziaria). Il relativo
dibattito, anzi, ha superato l’ambito strettamente giornalistico e politico per
approdare alle aule giudiziarie: infatti, il 17.8.06, dopo che il New York Times,
alla fine del 2005 – senza piegarsi alle pressioni della Casa Bianca – aveva
rivelato il programma di intercettazioni segrete (TSP – Terrorist surveillance
program), è intervenuta negli Stati Uniti una sentenza lapidaria, destinata a
passare alla storia “L’America non ha monarchie ereditarie ed il suo governo non ha
poteri non previsti dalla Costituzione” ha sancito un giudice federale di Detroit che
ha bollato come “anticostituzionali” le intercettazioni telefoniche e di e-mail
effettuate dall’amministrazione Bush su cittadini americani, senza
autorizzazione del giudice. “Non è mai stato nelle intenzioni dei Padri fondatori dare al
Presidente un così illimitato potere di controllo – prosegue il documento – in particolare
quando le sue azioni sono palesemente in contraddizione con i fondamenti della Carta dei
Diritti”.
Con queste parole, il giudice Anna Diggs Taylor ha ordinato al Governo USA
di interrompere “immediatamente” le sue intercettazioni, definendole “un
gravissimo abuso di potere da parte del presidente George W. Bush”, il quale “nel non
rispettare le procedure legislative – si dice nel provvedimento di 44 pagine – ha
sicuramente violato il primo ed quarto emendamento della Costituzione”(sulla tutela della
privacy, ndr.), nonché “la dottrina della separazione dei poteri e le leggi sulle procedure
amministrative”.
Come si vede il dibattito sulla linea di demarcazione tra esigenze di sicurezza e
difesa sociale da un lato e diritti e garanzie dei cittadini dall’altro è attuale e
sempre aperto e proprio negli U.S.A. – ove più drammaticamente è stato
condotto l’attacco del terrorismo internazionale – si levano autorevoli voci
critiche nei confronti delle scelte politiche di quell’Amministrazione.
I dati utili per le indagini sono di varie natura e provenienza: non solo quelli
derivanti direttamente dalle intercettazioni telefoniche, ma, sempre più
frequentemente, anche quelli desumibili dal web dalle banche dati on line
(costituiscono “collezioni” di informazioni specializzate, generalmente
accessibili via Internet e tramite abbonamento) e dai tabulati telefonici.
I tabulati telefonici sono sostanzialmente documenti cartacei od informatici dai
quali è possibile desumere dati relativi a relazioni personali (desumibili dalla
individuazione di conversazioni telefoniche tra numero chiamante e numero
chiamato, dall’accertamento dei rispettivi intestatari o degli utilizzatori di tali
numeri), alla loro intensità (desumibili dalla durata e frequenza delle
conversazioni) e, in alcuni casi, per quanto ovviamente concerne la telefonia
mobile, al posizionamento di coloro che conversano ed agli orari di tali
posizionamenti (desumibili dal luogo ed orario in cui gli apparati “agganciano”
46
le celle di telefonia mobile all’atto dell’effettuazione delle conversazioni
telefoniche).
Come ben si comprende, trattasi di uno strumento investigativo che,
contrariamente alle intercettazioni, il presupposto delle quali è sempre
l’attualità della conversazione, consente di rivolgere uno sguardo investigativo
anche al passato, scontando come unico limite quello della conservazione
temporale dei dati presso le compagnie telefoniche.
I dati esterni alla comunicazione possono essere non solo raccolti quando ormai
la comunicazione è avvenuta da tempo, e quindi sotto forma di documento
(come avviene, appunto, con l’acquisizione dei tabulati), ma possono anche
essere colti in contemporanea alla comunicazione.
Questa operazione, che fornisce alle autorità inquirenti i dati esterni alla
comunicazione contemporaneamente alla fonia, viene definita “tracciamento”
e altro non è che l’evoluzione di quella che, con le vecchie centrali
elettromeccaniche, si chiamava “blocco” della chiamata: attraverso il “blocco”
– cioè l’arresto degli organi di commutazione su tutta la rete – si poteva
materialmente seguire il tracciato della comunicazione all’interno della rete
stessa e così individuare la linea del soggetto chiamante.
La tecnica del “blocco della chiamata” è stata utilizzata soprattutto negli anni
’70 nelle indagini concernenti i sequestri di persona a scopo di estorsione; anzi,
prima che tale tecnica di investigazione diventasse nota ai criminali, furono
numerosi i casi di “telefonisti” di bande di sequestratori arrestati mentre, in
lunghe conversazioni telefoniche, contrattavano con le famiglie del sequestrato
o con loro emissari il pagamento del riscatto e le sue modalità.
Un altro strumento efficace di contrasto al fenomeno del terrorismo è la
confisca delle risorse finanziarie e patrimoniali delle associazioni terroristiche.
Sul piano nazionale, infatti, l’art. 270 bis cp, ultimo comma, contiene, in
materia di confisca di beni che vennero utilizzati per commettere il reato o che
ne costituirono il prodotto o il profitto, una previsione analoga all’art. 416 bis
cp, penultimo capoverso: la confisca obbligatoria nei confronti del
condannato.
Essendo tale confisca subordinata alla condanna, è evidente che la citata
disposizione si riferisce alla ipotesi in cui si acquisiscano, nell’ambito di una
indagine penale, prove sufficienti alla condanna per appartenenza ad
associazione agente con finalità di terrorismo o eversione.
Ma l’azione di contrasto al finanziamento del terrorismo non si svolge certo
solo sul piano giudiziario, ma anche su quello politico-amministrativo, in
dipendenza di scelte che sono state e vengono adottate ed aggiornate a livello
internazionale, anche sul presupposto – in astratto non contestabile – che pure
istituzioni di beneficenza ed organizzazioni non lucrative (le cd. charities)
potrebbero essere utilizzate e sfruttate quali strumenti di copertura per il
finanziamento di azioni ed organizzazioni terroristiche.
47
In un caso e nell’altro, appare evidente l’importanza delle indagini in tema di
finanziamento del terrorismo. Al fine di individuare le più idonee modalità di
conduzione di questo tipo di indagini, è preliminarmente utile tracciare una
breve sintesi di quanto emerso in ordine ai canali di finanziamento del cd.
terrorismo islamico (posto che il finanziamento di quello interno non presenta
particolari incognite, essendo noto che esso avviene prevalentemente
attraverso rapine e, comunque, non certo attraverso canali sofisticati),
attraverso le indagini effettuate in questi ultimi anni in Italia.
E’ opportuno specificare che, quanto al contrasto del finanziamento del
terrorismo cd. islamico, devono ancora essere compiuti molti sforzi per
renderlo efficace sia perché le indagini condotte in questo settore, nonostante
la creazione delle Financial Intelligence Unit, risultano decisamente poco
coordinate tra le autorità dei vari paesi interessati, sia perché la sensazione che
si ricava dal quadro normativo vigente è quello di un complesso di norme e
strutture pensate per contrastare soprattutto il finanziamento del terrorismo
attraverso ipotetici e sofisticati canali finanziari e bancari. La realtà, così come
quella emergente dalla maggior parte delle indagini europee, invece, sembra
provare che finanziamenti provengono prevalentemente dal basso, cioè da
attività criminali comuni di non elevato livello (traffico di stupefacenti, di
documenti e banconote falsi) o dalle offerte di fedeli inconsapevoli, il che
ovviamente pone agli investigatori problemi diversi.
L’attività di prevenzione e contrasto al finanziamento delle organizzazioni
terroristiche focalizza l’attenzione essenzialmente sui canali di trasferimento
del denaro.
Nella lotta al finanziamento del terrorismo ciò che conta è tentare di ricostruire
le tracce dei movimenti di capitali per bloccare eventuali finanziamenti di
attività terroristiche. Ciò in considerazione del fatto che spesso, molti dei canali
di finanziamenti utilizzati dalle cellule terroristiche sono di natura lecita e
l’eventuale illecito potrebbe rimanere del tutto inosservato.
In tal senso le organizzazioni terroristiche sfruttano a pieno le potenzialità
offerte dai mercati finanziari globali per trasferire capitali da una parte all’altra
del mondo senza lasciare alcuna traccia dei movimenti effettuati.
Preso atto quindi della natura e delle modalità del finanziamento, l’efficacia
delle misure di contrasto dipende in gran parte dal livello di collaborazione
raggiunto dagli operatori finanziari nell’ambito di un generale sistema di
prevenzione soprattutto finalizzato all’identificazione e successiva segnalazione
di eventuali operazioni sospette.
Per comprendere le modalità ed i mezzi con cui le cellule terroristiche si
procurano capitali economici è indispensabile una attenta analisi investigativa
seguendo tracce e mettendo in collegamento informazioni apparentemente
non collegate tra loro e relative ad operazioni finanziarie di natura complessa.
Tale azione può portare anche all’individuazione di gerarchie funzionali
nell’ambito dell’organizzazione terroristica.
Inoltre, vanno monitorati con attenzione i trasferimenti di denaro tramite
canali cosiddetti alternativi a quelli regolari come ad esempio l’Hawala con il
quali gli appartenenti a cellule terroristiche riescono a trasferire sempre con
maggiore faciltà somme da una parte all’altra del mondo.
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L' Hawala è un sistema antico di secoli usato nel mondo musulmano per
trasferire fondi, sopratutto da persona a persona. L'arrivo di immigrati
musulmani in Europa ha fatto arrivare anche da noi questo sistema informale
di money transfer. Il sistema Hawala assomiglia a quello che ogni persona di
buon senso vorrebbe quando deve trasferire del denaro:
-diffusione in ogni parte del mondo, anche nel più remoto villaggio
-costi molto bassi per le operazioni
-capacità di operare in qualsiasi valuta
-riservatezza
-assenza di burocrazia
-operatori affidabili e conosciuti sia per chi paga che per chi incassa.
Quanti sono i clienti del sistema Hawala? a quanti ammontano i pagamenti
Hawala fatti in un hanno? Difficile da dire. Forse un miliardo di persone
spedisce o riceve in media un migliaio di euro all'anno. L'Hawala è basato sulla
fiducia. Se un hawaladar (un operatore del sistema Halawa) tradisce la fiducia
dei clienti, questi ultimi perdono il loro denaro.
Vediamo ora un esempio di come funziona il sistema bancario informale
Hawala tra i musulmani. Una tipica transazione hawala per esempio a Dubai,
nel Golfo Arabo, potrebbe funzionare così. Iqbal, un pachistano che lavora
nella zona franca di Jebel Ali, viene pagato in contanti, in Diram, moneta degli
Emirati Arabi Uniti. Iqbal vuole inviare i suoi soldi alla famiglia che sta a
Karachi, così si rivolge ad un Halawadar e gli consegna 5.000 Diram.
L'Halawadar manda una email o un fax a suo zio in Karachi (che è pure lui un
halawadar) assieme ad un codice stabilito per ritirare la somma. La moglie di
Iqbal ritira 80.000 rupie dall'hawaladar di Karachi.
La transazione è semplice ed efficiente in confronto alla maggior parte delle
alternative. Iqbal paga in un determinato giorno e sua moglie riceve i soldi il
giorno dopo. Iqbal non ha bisogno di un conto bancario, nessuno gli chiede di
riempire moduli complicati né di mostrare un codice fiscale. Iqbal non deve
nemmeno avere a che fare con un tasso di cambio artificiale deciso dalla banca,
in quanto l'hawaladar opera sul mercato ed ottiene un tasso di cambio stabilito
dal mercato.
La scelta di canali informali è adottata principalmente da molti musulmani
nella ricerca della riservatezza, rapidità e rispetto dei precetti religiosi laddove i
sistemi bancari nazionali dei Paesi ospiti non rispondono ai criteri cosiddetti
Sharia-compliant.
L’adozione del sistema Hawala ha mostrato la vulnerabilità in relazione ad
infiltrazioni illecite finalizzate al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo.
In alcuni casi si è preferito adottare l’agevole strada della repressione anche se
andrebbero ricercate, soluzioni, forse più complesse, ma finalizzate
all’integrazione di questa liquidità nel sistema economico e finanziario interno
garantendo in tal modo un attento e continuo monitoraggio del movimento dei
relativi capitali.
L'azione di contrasto alla minaccia del terrorismo si presenta dunque
complessa anche nella configurazione giuridica delle risposte operative che gli
attori dell'antiterrorismo nazionali ed internazionali possono avere a
disposizione. La normativa sulle misure di congelamento, beninteso, non è di
per sé esaustiva e va vista in una strategia globale di lotta al terrorismo che va
49
condotta principalmente sul piano politico e sociale, ma anche di una
cooperazione giudiziaria che consenta l'armonizzazione delle legislazioni
nazionali e la trasparenza dei mercati finanziari.
In tale ottica, l'intervento sui capitali e sulle risorse destinate al sostegno dei
terroristi costituisce un elemento decisivo che può essere condotto con i
diversi strumenti posti a disposizione dagli ordinamenti, con riferimento sia a
quelli propriamente nazionali consentiti nelle indagini penali o nell'applicazione
delle misure di prevenzione, sia a quelli derivati dalle misure disposte dalla
comunità internazionale per la tutela della pace e della sicurezza internazionale.
Il sistema normativo delle misure di congelamento, comunemente
riconducibile alla nozione delle c.d. black list, nei suoi tratti salienti configura
dunque risposte operative direttamente efficaci e in stretto coordinamento con
l'apparato normativo già apprestato dal nostro ordinamento specie in materia
di antiriciclaggio.
Il processo evolutivo del jihad è passato e sta passando attraverso alcune fasi
significative
quali:la
radicalizzazione,
la
frammentazione,
la
deterritorializzazione, il “franchising”.
La conseguenza di questo processo è una nuova forma di jihadismo più
flessibile ma meno coordinato; aperto a nuovi mercati di reclutamento ma
meno omogenei sul piano culturale; mediaticamente rilevamente ma per questo
più dipendente dalle tecnologie e competenze della comunicazione.
Infatti, nella comunicazione web si ritrovano tutti i segni della frammentazione
come incremento delle fonti legittimate a comunicare; della deterritorializzazione
nella sintesi della nuova umma virtuale; della promozione del brand presso nuovi
mercati. Il risultato di questa analisi evidenzia quelle rotte virtuali sulle quali si
muove il moderno jihadismo.
Proseguendo in questa direzione, una dovuta attenzione deve essere dedicata
alle cosiddette nuove armi virtuali.
In tal senso occorre rilevare che, gli sviluppi della tecnologia informatica e delle
comunicazioni hanno rivoluzionato il concetto di sicurezza e modalità di
investigazione. Le nuove cellule terroristiche sono sempre più caratterizzate
dalla presenza di soggetti ben addestrati sull’uso delle tecnologie avanzate che
vengono utilizzate per la pianificazione di attentati, per la propaganda, per
l’arruolamento e per attività logistiche.
Lo sviluppo tecnologico e l’uso dei principali strumenti da parte dei terroristi
ha evidenziato la necessità di un adeguamento da parte dell’intelligence
soprattutto in termini di analisi ed investigazione.
La figura dell’operatore di intelligence deve essere sempre più calata in un
contesto virtuale laddove, l’operatore deve possedere capacità di
individuazione di siti internet sospetti, chat e blog di interesse sede di
discussione tra appartenenti a cellule terroristiche. Il ruolo dell’operatore di
intelligence in un contesto di strategia di contrasto deve essere visto sia in
termini di analisi dei contenuti che di infiltrato nelle varie realtà virtuali.
Quella che sembra una nuova battaglia dell’intelligence su un terreno virtuale,
trova conferma già nel 2001 allorquando, dopo i noti eventi che colpirono gli
Stati Uniti, l’allora assistente del Direttore dell’FBI nonché Capo del Centro
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Nazionale di Protezione delle Infrastrutture tale Ronald Dick, dichiarò che gli
attentatori dell’11 settembre avevano fatto un proficuo uso di internet nella
pianificazione e preparazione dell’attacco.
Ecco che in un contesto di elaborazione di nuove strategie di contrasto
occorre comprendere al meglio le modalità con cui i terroristi utilizzano
internet e nel contempo adeguare e migliorare gli strumenti di monitoraggio ed
analisi. Per anni gli esperti hanno focalizzato l’attenzione sulla minaccia
costituita dal cosiddetto cyberterrorismo ovvero la possibilità per i terroristi di
attaccare le reti infrastrutturali informatiche di un Paese dedicando forse poca
attenzione al modo in cui i terroristi usano le reti informatiche.
L’intelligence “moderna” deve necessariamente concentrarsi su una battaglia
“globale” aperta a molteplici fonti, le recenti analisi informative confermano
una evoluzione organizzativa delle cellule terroristiche oggi sempre più
strutturate in piccole unità talvolta singole, sparse in giro per il mondo che
eliminano la necessità di un comando centrale grazie allo sfruttamento delle
reti informatiche che consentono di condividere e coordinare le loro attività a
distanza.
Nel caso dell’attentato a Madrid, si ricorderà che su un computer ritrovato
dopo l’attacco ci fossero numerosi file scaricati da siti islamici che evidenziano
una continua ricerca su web di informazioni ed istruzioni in particolare fu
ritrovato il noto documento “Jihadi Iraq: Hopes and Ranger” in cui si
suggeriva la Spagna tra i vari bersagli degni di essere colpiti.
A parere di chi scrive nascono di conseguenza due necessità, da un lato,
imparare a monitorare on line i terroristi così come li si pedina nel mondo reale
e dall’altro accrescere le capacità di analisi automatica delle comunicazioni
scambiate tra gli stessi nelle comunità virtuali.
In tale ottica non appare utile provvedere alla disattivazione o all’oscuramento
di siti o forum sensibili ma ha più senso lasciarli in vita con una attenta opera
di osservazione.
Le capacità offerte da internet consentono alle cellule terroristiche di estendere
il raggio di azioni oltre i confini geografici del territorio permettendo inoltre di
diffondere messaggi ad una platea molto ampia producendo una vera e propria
guerra di idee che si svolge all’interno di chat rooms che diventano sempre più
luoghi di propaganda e proselitismo sostituendo di fatto moschee e centri di
aggregazione religiosa e culturale.
Ed è proprio la chat che si afferma quale luogo privilegiato per la condivisione
e la diffusione in maniera esponenziale e più velocemente delle idee radicali.
In un contesto di veloce faccia a faccia diventa facile quindi creare gruppi che
vanno ad infoltire le fila dei movimenti terroristici creando un ambiente
virtuale dove i nuovi gruppi possono crescere e cementare le proprie idee e
convinzioni.
Quanto sopra descritto evidenzia la necessità di interventi mirati da parte
dell’intelligence governativa, laddove si ritiene che rimanga prioritario il lavoro
umano quale componente di un processo strategico di contrasto.
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Non deve essere trascurata la permeabilità psicologica dei terroristi e pertanto
l’infiltrazione di operatori di intelligence in una comunità estremista on line
con lo scopo di portare dubbi, sfiducia e confusione, può contribuire alla
disarticolazione della rete terroristica con risultati concreti.
Diventa fondamentale minare la fiducia che lega le cellule on line incuneandosi
tra fazioni, e sfruttando errori e debolezze al fine di determinare il collasso
dell’organizzazione.
Il terrorismo è anche “fenomeno comunicativo”, la differenza sostanziale che
esiste tra un criminale ed un terrorista è che quest’ultimo a differenza del
primo cerca il riconoscimento simbolico che l’azione fornisce ricercando la
platea offerta dal sistema mediatico sulla quale si propone quale attore
protagonista.
Un aspetto che va considerato nella strategia di contrasto è il fenomeno che và
sotto il nome di “imported suicider bombers” sempre più utilizzato dai
network terroristici, caratteristico di molti attentati in Israele. Il potenziale
pericolo consiste nella possibilità che si crei una vera e propria scuola globale
di suicide bombers costituita da soggetti non necessariamente connessi con
l’estremismo islamico ma psicologicamente plasmati alle dinamiche
dell’appartenenza ad un gruppo.
Ciò che è accaduto a Madrid e Londra deve indurci ad alcune riflessioni.
Madrid è stato il luogo del primo attentato eclatante in territorio europeo,
Paese di forte simbolismo cristiano che poteva inoltre offrire l’appoggio di
fazioni deviate dell’ETA. A Madrid i terroristi erano di importazione.
Londra conferma le ipotesi già sviluppate in occasione dell’evento spagnolo ed
evidenzia inoltre un nuovo aspetto legato al reclutamento tra le seconde
generazioni di immigrati delle nuove leve delle organizzazioni terroristiche.
In Inghilterra più che terroristi provenienti dai campo afgani o irakeni si è
trattato di immigrati di seconda generazione allevati nelle tolleranti moschee
londinesi dove la politicizzazione e la ricerca di una identità musulmana
costituiscono l’indirizzo di azione.
Come ha avuto modo di osservare Magdi Cristiano Allam, si tratta di giovani
“globalizzati”, che non condividono però il sistema dei valori della
globalizzazione e soffrono probabilmente di una male esistenziale diffuso tra i
giovani musulmani basato su crisi di identità e di ideali.
Particolare attenzione va dunque posta alla nuova generazione di attentatori
“globalizzati”, alle loro motivazioni ed al loro stato sociale e culturale nonché
ai loro moderni ispiratori.
La preparazione degli aspiranti attentatori consiste in una parte spirituale ed in
una militare. La prima avviene nelle moschee o via web attraverso la visione di
filmati dedicati. Gran parte dell’ispirazione è ovviamente ricavata dal Corano
laddove la fonte didattica, attraverso una interpretazione artata, è individuata
nel versetto che recita: “colui che mette in pratica questa aspirazione riceve in premio
settanta mogli vergini, un posto alla destra di Allah e un giorno, la ricongiunzione con i dieci
membri della famiglia”.
La parte militare si concretizza nel fornire all’allievo istruzioni e tecniche di
costruzione di ordigni, detonatori etc..
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Oggi sempre più che mai il Computer diventa moschea, palestra, poligono di
tiro dove i moderni attentatori, nascono crescono, si addestrano e come un
dormiente attendono la chiamata come una bomba a tempo.
Possiamo concludere che, allo stato attuale, la sopravvivenza di alcune
organizzazioni terroristiche si basa fondamentalmente sulla capacità di
reclutare nuove leve e soprattutto mantenere viva la loro motivazione
ideologica.
In questo processo diventa centrale il ruolo della comunicazione che consente
all’organizzazione il costante coinvolgimento dei simpatizzanti ed il loro
continuo indottrinamento.
Una siffatta rivoluzione nel mondo del terrore è destinata a perdurare e
soprattutto a migliorare in corrispondenza con lo sviluppo delle tecnologie di
comunicazione.
Se da un lato è vero che dopo l’11 settembre il terrorismo internazionale ha
perso molte delle sue basi operative è altrettanto vero che i santuari del terrore
sono stati velocemente sostituite con basi operative “virtuali” che hanno già
dimostrato la loro efficacia nel reclutare, mantenere coesione, organizzare ed
indirizzare.
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