Formazione esperienziale e processi riflessivi

Dialoghi
Rivista di studi sulla formazione
e sullo sviluppo organizzativo
Anno VII, numero 1,
Marzo 2016
Descrizione immagine di copertina
Rembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio su
tela, 169,5x216,5, Mauritshuis, L'Aia. Particolare.
Anche chi s'interessa poco alla storia dell'arte avrà forse individuato chi sono i cinque
seriosi signori con barba, baffi e gorgiera riprodotti in copertina, talmente famoso è il
dipinto da cui proviene il dettaglio. Si tratta della Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes
Tulp che, ad Amsterdam, valse al ventiseienne Rembrandt fama immediata di grande
ritrattista. Si trattava infatti di una delle committenze più prestigiose che si potessero
avere, da parte dalla potente gilda dei medici chirurghi che già nel 1628 aveva insignito il
dottor Tulp della carica "Praelector anatomiae". Oltre ad essere medico famoso, egli era
anche una delle persone più influenti della ricchissima città olandese, più volte nominato
borgomastro.
I cinque volti che vediamo nel dettaglio del quadro raffigurano altrettanti chirurghi membri
della gilda: la luce li colpisce frontalmente mettendone in risalto ogni minimo dettaglio
fisiognomico. La verità dei volti è sottolineata anche dal potente chiaroscuro che lascia in
ombra i vestiti e mette in risalto le candide gorgiere. Se si esclude il personaggio che sta
più in alto, che ha un'aria più distaccata, gli altri visi mostrano una straordinaria intensità
nello sguardo, un'attenzione quasi ipnoticamente catturata dalla scena alla quale stanno
assistendo e l'ansia di apprendere.
L'osservazione dell'intero quadro ci consente di capire come il medico che nel dettaglio
sta sulla sinistra fissi, nell'avambraccio del cadavere che è stato dissezionato, il forcipe
con il quale il dottor Tulp, con la mano sinistra, sta separando muscoli e tendini; altri due
medici guardano invece la sua mano destra che illustra quali sono i movimenti delle dita
comandati dai muscoli evidenziati; il quarto - quello con la gorgiera più suntuosa - volge lo
sguardo verso la scena, dopo averlo distolto da un disegno che stava esaminando (tratto
forse dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio), mostrandosi desideroso per così
dire di mettere a confronto sapere codificato e sapere esperienziale.
Rembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio su tela, 169,5x216,5,
Mauritshuis, L'Aia
La lezione di anatomia che il dottor Tulp sta tenendo a beneficio degli altri membri della
gilda non rappresenta un fatto eccezionale: tutti gli anni il Praelector anatomiae, era
invitato a tenere una pubblica dissezione di un cadavere, appartenente a un criminale che
era stato giustiziato. È in questo modo che - in una sorta di involontario rovesciamento
della damnatio memoriae - conserviamo il ricordo di tal Aris Kint, finito impiccato dopo una
lunga carriera di ladro, essendo stato il suo corpo esangue immortalato da Rembrandt al
centro della scena.
Quali suggestioni si possono ricavare dalla tela?
Chi si occupa di storia vi può leggere - come un po' in tutta la pittura olandese del '600 l'orgoglio della ricca borghesia protestante vissuta nel "Secolo d'Oro" per il benessere
raggiunto, ma anche il senso etico del lavoro come valore, che porta a considerare il
benessere come segno della grazia divina, non disgiunto da un attaccamento alle
istituzioni pubbliche e dalla responsabilità sociale della propria professione.
Chi è interessato alla storia della medicina vi scorge senza dubbio la suggestione dei
grandi progressi compiuti nel '600 dall'anatomia (che ebbe due "centri di eccellenza" nelle
cattedre di Padova e di Bologna); riconosce inoltre l'accuratezza della dissezione
dell'avambraccio ove - dicono gli esperti - è posta in primo piano la funzione del "flessore
superficiale delle dita". Troverà anche nella tela uno stimolo ad approfondire il ruolo, non
di secondo piano, che il dottor Tulp - chiamato il "Vesalio di Amsterdam" - ebbe nello
sviluppo della anatomia e della farmacopea.
E il formatore?
Sicuramente proverà ammirazione (e forse invidia) per un docente che riesce con
naturalezza a gestire un'audience attenta e competente. Esistono, nel barocco olandese,
altri quadri commissionati dalle gilde dei medici-chirurghi, che raffigurano anch'essi
l'evento della dissezione di un cadavere: nessuno raggiunge, neppure lontanamente, il
livello artistico di questo dipinto.
Michiel van Miereveld, Lezione di anatomia del Dr. Willem van der Meer, 1617, oilio su tela,
Museum Het Prinsenhof, Delft
Spesso si vedono i membri della gilda che guardano verso lo spettatore, dove fare
presenza all'evento o coltivare relazioni sembra più importante che valersi di un'occasione
di apprendimento. Ciò che viene celebrato in quei teatri di anatomia - similmente a quanto
oggi avviene non di rado nelle aule - non è altro che un rituale; un rituale anche fastoso,
che segue un copione ben definito, lasciando poco o nessun spazio ad aspettative
cognitive.
Lo scarto tra tali raffigurazioni e la tela di Rembrandt riesce a dirci, per così dire, cosa
significa "cultura della formazione".
2
D aloghi
i
Rivista di studi sulla formazione
e sullo sviluppo organizzativo
Comitato di Redazione: Giuseppe Andriolo, Lauro Mattalucci, Giovanni
Gaetano Reale, Elena Sarati, Tiziana Teruzzi, Antonio Zanardo
Referente Scientifico
Lauro Mattalucci
Direttore Responsabile
Elena Sarati
La sezione dedicata all'apprendimento dagli errori nelle organizzazioni è curata
da Giovanni Reale
Hanno contribuito a questo numero: Rossana Di Renzo, Virginia Lucchesi,
Daria Marinangeli, Lauro Mattalucci, Lorenzo Mugnai, Cristiana Pauletti,
Rosaeugenia Pesci, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale, Marta
Vagaggini.
Si ringrazia per la testimonianza: Francesca Pasinelli, Direttore Generale di
Telethon.
Il dipinto di Rembrandt in copertina è introdotto da Lauro Mattalucci
Sito della rivista:
www.dialoghi.org
INDICE
EDITORIALE ................................................................................................................... 3
ESPERIENZE E RIFLESSIONI ................................................................................... 6
APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEI PROGETTI DI
KNOWLEDGE MANAGEMENT di Lauro Mattalucci ..................................................... 7
SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLE
ORGANIZZAZIONI a cura di Giovanni Reale .............................................................. 31
L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSO PER LE
ORGANIZZAZIONI
di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ............................... 32
LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONE INFERMIERISTICA:
PREVENZIONE E APPRENDIMENTO DALL'ERRORE NELLA PRATICA
ASSISTENZIALE di Rosaeugenia Pesci...................................................................... 52
PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLE PROFESSIONI
SANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E OPPORTUNITÀ CULTURALE ..........................
di Rossana Di Renzo ....................................................................................................... 66
INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI, DIRETTORE
GENERALE DI TELETHON
a cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale .................. 91
RECENSIONI ................................................................................................................ 97
RECENSIONE DI COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIO
INDIVIDUALE E DI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNES
a cura di Cristiana Pauletti.............................................................................................. 98
ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO ................................ 104
PROGETTO 50/50
di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini ........ 105
NOTIZIE SUGLI AUTORI ......................................................................................... 114
2
EDITORIALE
Inauguriamo il settimo anno di attività di Dialoghi con questo numero di Marzo,
l'undicesimo, cui vanno aggiunti i tre monografici.
Si apre con un contributo di Lauro Mattalucci ("Appunti sulla evoluzione delle
riflessioni e dei progetti di knowledge management") che ritorna dopo più di dodici anni
sul tema del Knowledge Management1, avendo in mente di comprendere se, anche per
questa tematica manageriale, si stia esaurendo l'"effetto moda" dopo la grande popolarità
registrata già negli anni Novanta del secolo scorso. A giudicare dalla mole che la letteratura
sul tema ha assunto sembra vero il contrario. Tuttavia la rassegna di tale letteratura, quando
si cerchi di distinguere le disinvolte proposte consulenziali dalle oneste riflessioni sui progetti
di KM intrapresi dalle aziende, porta a registrare il venir meno di facili entusiasmi relativi alle
sempre più sofisticate piattaforme di K.M., o relativi a fascinose meditazioni sul tacit
knowledge o alla invocazione salvifica dell'arte di nutrire le Comunità di Pratica. Diventa
invece centrale il tema dei fattori critici di successo a cominciare dalla capacità del
management di chiarire, senza retorica, quale modello di Knowledge Governance si intende
adottare, declinandolo in priorità di intervento ed in responsabilità da attribuire ai manager di
linea ed a knowledge worker. In tale più realistica prospettiva assume particolare rilievo la
capacità di attivare iniziative di Knowledge Audit viste come primo passo necessario per
imbastire un realistico progetto di K.M.
A tale riguardo, l'articolo si chiude con la proposta di una metodologia di K-Audit messa
a punto dall'autore e testata al termine di una attività formativa nel settore R&D di una
azienda di rilievo internazionale.
Si prosegue con una parte interamente dedicata all'apprendimento dagli errori, curata da
Giovanni Reale, che presenta diversi contributi.
Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ("L’apprendimento
dall’errore, un fattore di successo per le organizzazioni") propongono una riflessione su
come le organizzazioni possano favorire il miglioramento verso l’interno e verso l’esterno, sia
facendo prevenzione sui potenziali errori, sia intervenendo successivamente quando
avvengono quelli che gli autori definiscono fattori indesiderati. L’attuale scenario richiede alle
aziende di essere non solo efficaci, efficienti, sostenibili economicamente ma anche capaci
di apprendere da ciò che si verifica nel loro perimetro d’azione (clienti, fornitori, struttura
interna, mercato, territorio, ecc.), per evolvere in modo continuo: gli “accadimenti”, che gli
autori definiscono, più precisamente, effetti indesiderati, appunto, sono, per le
organizzazioni, l’occasione di favorire l’apprendimento a tutti i livelli (dall’individuale al inter1
Mattalucci L. (2003) "La pratica del Knowledge management: confronto tra approcci possibili",Studi
organizzativi, Vol.1, Novembre, pp.75-100.
3
organizzativo). La blame culture che in molte organizzazioni condiziona l’analisi degli errori,
etichetta le persone come colpevoli, limita l’apprendimento di cui le aziende necessitano e
mina la fiducia interna, aspetti, questi ultimi due, che sono invece fondamentali, in questi
anni, per il successo delle organizzazioni e la loro capacità di innovare. L’approccio,
denominato PSC, che viene presentato, si ritiene possa aiutare le organizzazioni, di
qualunque tipo, a lavorare per cambiare le condizioni all’interno delle quali le persone
agiscono, evitando che le persone stesse diventino fattori attivi di errori che sono
prevalentemente organizzativi.
Sempre in questa sessione Rosaeugenia Pesci ("La cultura della sicurezza nella
formazione infermieristica: prevenzione e apprendimento dall’errore nella pratica
assistenziale") si sofferma sulla cultura della sicurezza nel contesto specifico dei servizi di
cura; contesto che coinvolge direttamente l’assistenza infermieristica e determina la
necessità di creare una coscienza professionale nei futuri professionisti infermieri. Questo
tema porta l'autrice anche a riflettere sull’errore, sulla sua prevenzione e gestione e, non da
ultimo, sullo sviluppo di un atteggiamento di apprendimento dagli eventi avversi ,importante
nella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario. La formazione dello studente
propedeutica al tirocinio, ma soprattutto la funzione tutoriale da parte di infermieri che
accolgono gli studenti in tirocinio, rappresentano il sistema che trasmette la cultura
professionale e riduce la possibilità di errore. Gli studenti, si sottolinea nell'articolo, sentono
molto la preoccupazione di apprendere in sicurezza, di avere l'opportunità di essere
affiancati da infermieri esperti. Dal canto suo l’Azienda sede di tirocinio organizza, in
collaborazione con il Corso, una formazione specifica per sviluppare le competenze tutoriali.
A seguire, Rossana Di Renzo ("Pensare e agire in sicurezza nel tirocinio delle
professioni sanitarie: obbligo legislativo e opportunità culturale") sottolinea come in
ambito sanitario la prevenzione dell’errore sia un tema sentito e dibattuto. Una grande
conquista culturale, afferma l'autrice, è di accettare che in medicina, come in tutte le attività
umane, si può sbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunque
giusto impegnarsi per raggiungerla. L’Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per le
diverse figure professionali sanitarie, tecniche, sociali ed educative. In questi anni è stato
affrontato il tema dell’applicazione del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell’ambito del tirocinio.
Formare il tirocinante - così come ogni operatore della sanità - sulla tutela della salute e della
sicurezza nella pratica professionale è dovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Ma
è anche e soprattutto un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì che
divenga un valore costante per il futuro professionista che lavorerà in un’organizzazione e si
prenderà cura dei cittadini. Nell’articolo sono illustrati alcuni dati riguardanti un’indagine
conoscitiva che ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, i coordinatori didattici
delle sedi formative dei Corsi di Laurea e i tutor di tirocinio sul tema della percezione di
rischio ed errore in tirocinio.
Conclude la parte una intervista al Direttore Generale di Telethon, Dottoressa
Francesca Pasinelli incentrata sul tema della gestione degli effetti indesiderati (termine con
il quale sono designati errori, eventi negativi, opportunità perse o risultati ritenuti
insoddisfacenti per le organizzazioni).
Sempre in questo numero viene proposta una riflessione - a partire da una recensione del testo di Graziella Nugnes, "Counseling organizzativo - un approccio individuale e di
gruppo", a cura di Cristiana Pauletti che ne fa un'ampia introduzione e
contestualizzazione.
4
In conclusione, in collegamento anche con il precedente monografico, dedicato
interamente alle donne nel mondo del lavoro, una ricerca, "Progetto 50/50") di un gruppo di
studenti del seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale - Virginia Lucchesi,
Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini - laureati in Psicologia Clinica e della Salute presso
l'Università degli Studi di Firenze, ora in tirocinio post lauream.
Nel loro contributo raccontano la genesi e nascita del gruppo 50/50 (interessato agli
aspetti che riguardano la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con i gruppi e la
formazione), le difficoltà incontrate, i primi esiti. Il contributo si concentra ancora una volta
sulle donne in elevata posizione di responsabilità, indagando quali siano le capacità
personali che hanno favorito alcune donne; la visione della donna su se stessa nel contesto
lavorativo e la visione dell'azienda da parte della donna (e come pensa di essere percepita
da parte dell'azienda). Dopo una introduzione sui presupposti teorici che hanno guidato
l'indagine, vengono proposte evidenze dalle interviste e indicati limiti e opportunità del lavoro.
Auguriamo ancora una volta buona lettura.
Milano, Marzo 2015
5
ESPERIENZE E RIFLESSIONI
6
APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEI
PROGETTI DI KNOWLEDGE MANAGEMENT
di Lauro Mattalucci
1. Premessa
Associato spesso a una pluralità di termini quali Società della Conoscenza, Economia
della Conoscenza, Capitalismo Cognitivo, Capitalismo Informazionale e simili, nati già
(Drucker 1969) alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso in un contesto di grande
euforia per i cambiamenti economico-sociali prodotti dall'evoluzione dell'ICT (euforia che si è
poi andata quanto meno attenuando di fronte alle crisi economiche ed ai tanti problemi
sociali emersi con la esplosione delle "bolle finanziarie" e le derive negative della
globalizzazione dei mercati), il concetto di Knowledge Management (KM) sembra aver
attualmente perso gran parte del suo appeal iniziale. Oggi sono in molti a chiedersi se,
anche per il KM, si debba parlare dell'esaurirsi di quell'effetto moda che segna l'evoluzione di
molte teorie manageriali1.
Eppure se, evitando espressioni più altisonanti, definiamo il KM semplicemente come
«l'insieme delle prassi aziendali, dei progetti, e degli "strumenti" (regole organizzative,
tecnologie, incentivi, ecc.) finalizzati a sviluppare e diffondere le competenze che servono a
coloro che, nei loro diversi ruoli, operano in una data organizzazione per affrontare e
risolvere i problemi incontrati» (Mattalucci 2003, p.75), occorre dire che una qualche forma di
KM, per quanto poco resa esplicita, sistematica ed all'altezza delle aspettative, esiste in tutte
le aziende.
Possiamo parlare anche, per il KM, di una situazione "as is", ciò che una data azienda
effettivamente fa per garantire un valore d'uso alla conoscenza che in essa circola, a
paragone di una ideale situazione "to be" più o meno chiaramente definita o anche solo
vagheggiata.
Ciò che interessa qui analizzare è quali iniziative si assumono nelle aziende per passare
da una situazione "as is" ad una situazione "to be" nella quale vi sia una più esplicita,
governata e produttiva modalità di gestione di almeno alcuni dei processi interrelati di
creazione, codificazione, organizzazione, diffusione e utilizzo della conoscenza, e capire
quali obiettivi ci si pone di raggiungere al riguardo.
1
Il tema è trattato in Grant (2011). Va precisato che l'articolo, pur muovendo dai rilievi critici di chi
spiega il successo del KM alla luce della Management Fashion Theory, cerca in verità di dimostrare attraverso bibliometric evidence - come non si tratti di una moda. Nell'ambito di questa tematica si
dovrebbe anche far riferimento al venir meno delle attenzioni e del coro di elogi riservati negli anni
Ottanta alle lezioni manageriali provenienti dal Giappone per effetto della crisi che attraversa oggi tale
sistema paese, mentre ancora nel 1995 il testo di Nonaka e Takeuchi intitolato The knowledgecreating company: How Japanese companies create the dynamics of innovatio, aveva conosciuto un
vero e proprio boom editoriale, diventando una sorta di "bibbia del KM".
7
La domanda dalla quale conviene verosimilmente partire è la seguente: "Possiamo
parlare di una evoluzione delle prassi aziendali di KM e, se sì, quali sono le riflessioni
sviluppate che risultano capaci di guidare tali prassi?"
Non è affatto semplice rispondere a tale domanda: le proposte consulenziali intorno al
KM si sono moltiplicate in maniera impressionante - verosimilmente assai più delle oneste
riflessioni sui progetti intrapresi - con il risultato che è difficile finanche dare un resoconto
sintetico delle diverse finalità e delle modalità di approccio al KM. I quadri concettuali che
stanno alla base della letteratura sul KM sono moltissimi. Possono riguardare: a) le
tecnologie viste come fattori abilitanti di una più efficace gestione della conoscenza; b) i modi
diversi di vedere l'organizzazione e il suo capitale di conoscenza, assieme alla gestione delle
risorse umane e ai processi di change management necessari per intervenire sulla cultura ed
i comportamenti; c) i modelli con i quali si concettualizzano i vari processi di generazione,
condivisione e utilizzo della conoscenza e si individuano priorità di intervento. Non mancano
neppure diverse sottolineature del significato stesso della conoscenza che chiamano in
causa differenti elaborazioni "filosofiche".
Fig. 1: Aspetti concettuali che attengono al discorso intorno al KM.
La figura 1 è tratta da una poderosa enciclopedia sul KM2: essa evidenzia la straordinari
quantità di riferimenti concettuali, metodologici e tecnologici che sono stati chiamati in causa.
Offrire una sintesi ragionata della letteratura sull'argomento è impresa assai ardua.
Tenterò comunque nel presente articolo di delineare quelle che - nel lavoro di preparazione
2
Schwartz (2006), p. xxvii
8
di un seminario da me tenuto nel giugno 2015 - mi sono sembrate le riflessioni sul KM
sviluppate negli ultimi 15 anni maggiormente meritevoli di essere prese in considerazione.
Pur avendo consultato, nell'ambito della letteratura sul KM, un discreto numero di libri e
articoli, devo dire - per dichiarare subito i limiti del presente scritto - che esso ricopre solo un
parte molto limitata dell'enorme letteratura esistente (della quale è anche arduo definire i
confini). Vi è sicuramente stata, inoltre, da parte mia una qualche arbitrarietà nella selezione
dei testi e dei temi presi in esame, essendo tale selezione condizionata sicuramente dalle
mie precedenti esperienze e riflessioni sul KM ed ancor più dalle finalità del citato seminario3.
Non vi è dunque in questo scritto nessuna pretesa di giustificazione statistica delle
considerazioni svolte. Presenterò per punti alcune riflessioni sul tema del KM aventi
essenzialmente natura impressionistica, senza preoccuparmi di specificare ogni volta
compiutamente tutti i testi di riferimento. Una classificazione dei documenti presi in esame è
riportata nella biografia al termine del presente scritto.
2. L'esigenza di un approccio socio-tecnico
Ancora nei primi anni del 2000, in parallelo alla distinzione pervasivamente ripetuta tra
conoscenza esplicita e conoscenza tacita, si mettevano in contrapposizione tra loro due
approcci al KM, uno incentrato sulla tecnologia e sull'information sharing, l'altro sullo sviluppo
delle competenze e sul knowledge sharing4. Si tratta in effetti di una comoda distinzione per
delineare il diverso focus di due tipologie di progetti di KM, sintetizzabile attraverso la
seguente tabella.
Information sharing: focus su…
Knowledge sharing: focus su…
5
ICT come fattore abilitante
Cultura gestionale come fattore abilitante
Implementazione e sviluppo di piattaforme di KM
Sviluppo dei processi di apprendimento negli
individui e nei gruppi di lavoro. Rilievo delle
Comunità di Pratica (CdP)
Come sintetizzare e distribuire la conoscenza
(conoscenza esplicita)
Come condividere le expertise e le lezioni
apprese (conoscenza tacita)
Tabella 1
Il primo approccio, di tipo ingegneristico, si fonda sostanzialmente sulla idea del
Business Process Reengineering (BPR ) applicata ai processi di gestione dati, informazioni e
conoscenze comunque codificate (o codificabli), promettendo una ben definita metodologia
di strutturazione dei progetti da intraprendere e risultati certi; esso si tiene alla larga da
considerazioni (ritenute fumose o poco dominabili) attinenti al funzionamento delle
3
Il seminario intendeva offrire un quadro concettuale e metodologico per la strutturazione di un
progetto di KM nel settore R&D di una azienda di rilievo internazionale. È sembrato utile, in sede di
progettazione del seminario, prendere in considerazione un certo numero di manuali /enciclopedie sul
KM prodotti nel mondo anglosassone, e successivamente testi di approfondimento di concetti e
approcci metodologici che mi sono sembrati idonei a sviluppare una riflessione sulla natura e sulle
finalità del progetto aziendale che si intendeva impostare.
4
Mattalucci (2003). Nell'articolo si mette in discussione una troppo manichea tra le due tipologie di
progetti.
5
Il termine cultura gestionale, per come viene qui utilizzato, si riferisce alle modalità con cui è gestito il
personale (specie i knowledge worker) e con cui si responsabilizzano i manager nella gestione del
capitale di conoscenza.
9
organizzazioni come sistemi sociali, segnati abitualmente da dinamiche complesse (e
talvolta conflittuali) relative alla creazione, diffusione e utilizzo della conoscenza.
Il secondo approccio (senza sottovalutare il ruolo dell'ICT) vede il KM come sviluppo dei
processi di apprendimento di individui e gruppi di lavoro da realizzare mediante una più
efficace people strategy e una migliore condivisione della conoscenza; esso muove
all'approccio ingegneristico, che confida essenzialmente sulla tecnologia, l'accusa di adottare
un palese riduttivismo concettuale che finisce per essere penalizzante.
Nella letteratura relativamente più recente sembra attenuarsi tale contrapposizione. Pare
esservi un sostanziale accordo sull'esigenza di adottare per i progetti di KM un "approccio
socio-tecnico" e, più specificamente, di mettere in valore il capitale di potenzialità e di
competenze presenti nelle persone facendo leva anche sulle possibilità che le tecnologie
offrono nel rendere più efficienti ed efficaci i processi di generazione, codificazione,
trasferimento, applicazione della conoscenza6.
La tecnologia, pur accentuando il suo ruolo di enabler dei sistemi di KM, cessa di essere
considerata come il motore principale. L'approccio-socio tecnico invita a considerare enabler
del KM non solo la tecnologia, ma anche la cultura organizzativa e i modelli di leadership che
si fondano (e trovano legittimazione) su tale cultura. In una visione dinamica dei processi di
gestione della conoscenza, prevale l'idea di una coevoluzione tra la componente sociale e
quella tecnologica. I progetti di KM debbono confluire in una politica aziendale di KM,
consapevole, ben supportata e che duri nel tempo.
Si registra una crescente rilevanza - in epoca di Web 2.0 - delle piattaforme di KM con
funzioni di knowledge repository, di accesso a data base e specialmente di comunicazione e
lavoro cooperativo, come viene sottolineato dalla figura seguente7:
Fig. 2: Funzionalità di una piattaforma di KM.
6
Questa - della esigenza di un approccio socio-tecnico - sembra essere la "filosofia" editoriale
adottata dalla rivista Knowledge and Process Management (presente dal 1993): I temi chiave su cui si
incentra la rivista sono: knowledge management; organizational learning; core competences; process
management. Tra gli articoli pubblicati dalla rivista e presi qui in esame citiamo solamente Hlupic et
al. (2002).
Altre riviste che vanno citate nella prospettiva dell'approccio socio-tecnico sono:
- Interdisciplinary Journal of Information, Knowledge, and Management (presente dal 2006)
- Information Technology & People (precedentemente pubblicata dal 1990 con il titolo Office
Technology and People)
7
La figura è tratta da Dulany et al. (2008).
10
La disponibilità di piattaforme open source incoraggia l'idea di poter promuovere una
coevoluzione tra sistema tecnico e sistema sociale. Molte riflessioni sono state dedicate in
particolare al tema del networking e dello sviluppo delle comunicazioni interattive8.
3. Comunità di Pratica e ruolo dei Knowledge Worker
Un punto focale di una qualsiasi politica di KM è di prestare grande attenzione ai luoghi
in cui si produce conoscenza.
Com'è noto il termine "apprendimento situato" (in inglese situated learning) è stato
proposto da J. Lave ed E. Wenger come modello di apprendimento che ha luogo in una
Comunità di Pratica (CdP) (Lave, Wenger, 1991). Detto nel modo più semplice possibile, si
tratta di un apprendimento che avviene nel contesto stesso in cui è applicato quanto
appreso. Lave e Wenger sostengono (cosa per altro sottolineata anche in precedenza da
altri autori) che l'apprendimento non deve essere considerato semplicemente come la
trasmissione di conoscenza astratta e decontestualizzata da un individuo all'altro, ma come
un processo sociale in cui la conoscenza è co-costruita, suggerendo che tale apprendimento
debba essere visto come situato in un contesto organizzativo specifico, e sviluppato
nell'ambito di Comunità di Pratica (CdP), comunità che agiscono spesso fuori dagli schemi
organizzativi definiti dai vertici aziendali.
Ad opera dello stesso E. Wenger - in una prospettiva più attenta alla consulenza
manageriale - il concetto di CdP è progressivamente diventato uno dei pilastri della proposta
di una politica di KM basata sull'idea di nutrire le CdP, favorendo lo sviluppo di gruppi semiinformali che operano scavalcando produttivamente i tradizionali schemi formali di
funzionamento organizzativo. Si tratta di un approccio che, già verso la fine degli anni
Novanta, aveva sollevato molti entusiasmi9.
Il concetto di CdP mantiene un suo valore come categoria per studiare la creazione di
competenze viste come "sapere in azione", ma la sua rilevanza strategica per le politiche
aziendali di KM appare in qualche misura ridimensionata, riassorbita in una prospettiva che
possiamo definire "multifattoriale"; anche se una siffatta prospettiva talvolta, per voler essere
esaustiva, rischia di apparire poco traducibile in progetti finalizzati al miglioramento dei
processi di creazione, organizzazione, condivisione, diffusione e utilizzo delle conoscenze
ritenute vitali per l'azienda.
Una prospettiva multifattoriale è quella che possiamo leggere ad es. in Russ , Fineman,
Jones (2010, p.18):
«These performances [related to the productive use of the knowledge] are created by:
KM Processes, KM/IS Systems, and KM Levers. The Project Teams, Informal Networks,
etc. There is no predefined list and each organization will dictate the processes that it
deems appropriate10»
8
Si può vedere al riguardo la raccolta di contributi contenuta in Camison et al (2009).
Si tratta di una idea che - devo dichiararlo - era parsa a suo tempo anche a me molto promettente.
Questo senza però banalizzare - come in talune proposte consulenziali - lo sforzo richiesto nel
promuove lo sviluppo delle CdP, non sottovalutando in particolare gli ostacoli derivanti da una cultura
manageriale piuttosto diffusa, più attenta al controllo degli equilibri di potere che allo sviluppo dei
processi di apprendimento (cfr. Mattalucci, 2003).
Sulla evoluzione del concetto di CdP in E. Wenger vedasi Cox (2005).
10
Mio corsivo.
9
11
Le "KM Levers" che compaiono nel passo citato fanno riferimento a:
«HR hiring practices, Reward Systems, Cross Functional Collaboration, Core
Competencies, Top Management Support, External Relationships, Culture, and Risk
Tolerance» (ibidem).
Ciò che sembra comunque emergere in questa "prospettiva multifattoriale" è una
specifica attenzione alla people strategy adottata: di qui il "recupero", nella letteratura sul
KM, dell'ampio filone di studio riguardante i knowledge worker11. Esso risale ai contributi
pionieristici di Drucker (1969), prende in esame il processo di produzione di conoscenza da
parte dei diversi tipi di knowledge worker e s'interroga su quali siano le politiche gestionali da
adottare nei loro confronti.
In merito alla natura della conoscenza prodotta dai knowledge worker si osserva che:
«[ essa] è una miscela fluida di esperienze situate, valori, informazioni contestualizzate, e
intuizioni esperte che forniscono un quadro di riferimento per valutare e incorporare nuove
esperienze e informazioni. Proviene e viene applicata nella mente dei soggetti che
conoscono (knower). Nelle organizzazioni essa si trova spesso incorporata (embedded)
non solo in documenti o repository ma anche nelle routine organizzative, nei processi,
nelle pratiche e nelle norme»12.
Si stabilisce in tal modo un collegamento stretto (anche se non esplicitato) con le
considerazioni sviluppate da D. A. Schön (1983) intorno al così detto "apprendimento
riflessivo", vale a dire l'apprendimento che avviene affrontando situazioni lavorative
caratterizzate da unicità (ogni situazione ha caratteristiche sue proprie); ambiguità (ogni
situazione si presta a diverse ed anche alternative interpretazioni); imprevedibilità; conflitto di
valori ed interrogandosi sempre sulle lesson learned 13. Si tratta di una modalità di analizzare
la conoscenza che nasce dalla prassi che fa compiere un notevole passo avanti rispetto al
concetto piuttosto sfuocato di "sapere tacito"14.
Il riferimento ai knowledge worker implica anche una specifica attenzione anche ai
network professionali (interni ed esterni all'organizzazione aziendale) come luogo di
produzione di conoscenza15. La riflessione può essere estesa tout court alla rete vista come
contesto di apprendimento sempre più vasto e partecipato.
Se il riferimento ai knowledge worker vale ad arricchire le riflessioni sul processo di
creazione di conoscenza, la letteratura di matrice manageriale che parla della loro gestione
non sembra offrire prospettive particolarmente innovative. Partendo dalla ovvia premessa
che (Cohen, Birkinshaw, 2013): «You cannot manage your knowledge workers in the
traditional and intrusive way you might have done with manual workers», si arriva a
raccomandazioni finalizzate a migliorare la produttività e la disposizione alla collaborazione
facendo appello a considerazioni sulla motivazione e sugli stili di leadership che paiono tratte
dai tradizionali manuali di management. Sembrano - almeno da un'analisi affrettata dei
contributi sul tema - poco presenti case study che partono da analisi etnografiche effettuate
11
Tra i testi più citati a questo riguardo troviamo Davenport, Prusak (1998). Il testo è stato ristampato
nel 2013.
12
Davenport, Prusak (1998), p.4.
13
Nella cornice dell'apprendimento riflessivo si colloca ovviamente anche la tematica
dell'apprendimento dall'errore alla quale sono dedicati alcuni articoli in questo numero di Dialoghi.
14
Il concetto di "tacit knowledge" è diventato popolarissimo in seguito alla pubblicazione di Nonaka,
Takeuchi (1995). In verità nel testo in questione il termine tacit knowledge compare in almeno due
diverse accezioni, come sapere non codificabile ("tacit aspects of knowledge are those that cannot be
codified") e come sapere non ancora codificato ("transforming tacit knowledge into explicit knowledge
is known as codification").
15
Sui Knowledge Worker mi sia consentito di rinviare a Mattalucci (2014).
12
sui specifiche tipologie di knowledge workers16 con l'obiettivo di meglio comprendere come
dati valori di riferimento emergano tra essi, a livello individuale e di gruppo, e come tali valori
vengano utilizzati dai soggetti per dar senso sia alle prassi lavorative svolte sia ai
meccanismi gestionali adottati dall'azienda17 condizionando i comportamenti e le
performance.
4. Le reticulation come sollecitazione ulteriore per il KM
In molte pubblicazioni sul KM si parte da un'affermazione del seguente tipo (Akhavan et
al. 2005):
«It is clear that the most important property of every organization is organizational
knowledge and correct management of it will cause core competencies for the
organization».
L'esigenza di politiche di KM e di provvista di core competence trova ulteriori motivazioni
nello sviluppo avutosi di strutture organizzative a rete e di business network, anche
temporanei, che coinvolgono una pluralità di aziende. In tal modo, come già accennato,
assume rilievo il tema del trasferimento e della messa in comune di conoscenze tra i nodi del
reticolo, e quello dell'attivazione di comunità virtuali in rete come nuovo contesto lavorativo.
Anche i confini tra creazione interna ed esterna di conoscenza tendono a farsi più
sfumati con il web 2.0. Possiamo citare al riguardo il tema della Technology Intelligence (TI).
La TI è un'attività che permette alle aziende di identificare le opportunità e le minacce
tecnologiche che potrebbero influenzare la futura crescita o la loro stessa sopravvivenza. Ha
lo scopo di acquisire e diffondere le informazioni e le conoscenze tecnologiche necessarie
per realizzare la pianificazione strategica ed effettuare i conseguenti processi decisionali. Dal
momento che i cicli di vita della tecnologia si accorciano e le imprese diventano sempre più
globalizzate, possedere efficaci capacità di TI è diventato un fattore sempre più importante
per acquisire un vantaggio competitivo (come molte società di consulenza sottolineano ormai
da decenni18). La realizzazione di attività di TI richiede abitualmente la costruzione di un
network di esperti per realizzare un processo di Technology Scouting.
In linea di continuità concettuale con tali iniziative, e su un versante connesso anche a
esigenze operative di problem solving, si pone la prassi del crowdsourcing. Con tale termine
si indica, com'è noto, un processo attraverso il quale un'azienda o un'istituzione, a fronte di
uno specifico problema, affida la ideazione ed eventualmente la realizzazione di una
soluzione ad un insieme indefinito di persone non organizzate in una comunità preesistente.
16
Il termine Knowledge Worker costituisce una categoria ombrello che raggruppa tipologie lavorative
molto differenti tra loro (ad es. non tutti i lavoratori della conoscenza sono descrivibili attraverso il
modello del reflective practitioner esposto da D. A. Schön); deriva anche di qui la difficoltà a
sviluppare effettive proposte gestionali. Per cercare di circoscrivere l'ampiezza della categoria in
questione, qualcuno ha proposto di parlare di "learning worker", ponendo l'accento sulla capacità di
"imparare a imparare".
17
Tra i meccanismi gestionali si includono: i sistemi di valutazione, gli incentivi, le proposte formative,
ecc.
18
La esigenza di TI ha dato luogo a proposte metodologiche da parte di società di consulenza. Per
una proposta avanzata da Arthur D. Little vedasi Rudolph, et al. (1991).
13
5. Case history: successi e fallimenti
Nella letteratura sul KM si assiste verso la metà degli anni 2000 ad un crescente
interesse per l'analisi di case history dettata - a fronte dei molteplici quadri teorici prospettati dal desiderio di avere riferimenti pratici in merito all'impostazione e gestione dei possibili
progetti di KM e dal desiderio di avere best practice di riferimento. Si vuole poter fare un
bilancio dei progetti avviati dalle aziende per uscire dal sospetto che si tratti dell'ennesima
moda manageriale, per capire meglio quali sono gli obiettivi realistici che possono essere
perseguiti e quali i fattori critici di successo.
Attraverso l'esame delle storie di caso si prende, per prima cosa, atto della varietà degli
scopi che le aziende si prefiggono di raggiungere quando decidono di attivare un progetto di
KM. Nella prefazione di Jennex (2005) è indicata la seguente tipologia di finalità:
- Identify Critical Knowledge;
- Acquire Critical Knowledge in a Knowledge Base or Organizational Memory;
- Share the stored Knowledge;
- Apply the Knowledge to appropriate situations;
- Determine the effectiveness of using the applied knowledge;
- Adjust Knowledge use to improve effectiveness.
Esistono molte differenti proposte di classificazione dei progetti di KM in rapporto alle
finalità che essi perseguono. Ad esse corrispondono differenti criteri di valutazione delle
knowledge performance19.
I casi presi in esame nei vari testi hanno ovviamente ricevuto, per la pubblicazione, il
consenso delle aziende protagoniste e offrono un resoconto positivo di come sono andate le
cose (particolarmente in fase di implementazione): non è pertanto agevole - situazione che
spesso si riscontra nell'utilizzo a scopo didattico della case history - individuare quali siano le
possibilità di generalizzare ed assumere come riferimento quanto emerge dal racconto delle
esperienze.
Un portato di maggior apprendimento deriva forse dagli articoli - ormai anch'essi
numerosi - che trattano del fallimento di progetti di KM. Essi testimoniano come sia elevato il
numero di casi nei quali non si riesce a gestire la fase di implementazione dei progetti,
19
Possiamo ad es. citare quanto previsto dal MAKE Award. Inaugurato nel 1998, il MAKE Award è
stato condotto ogni anno da Teleos (una società di ricerca britannica indipendente specializzata nella
gestione delle conoscenze e delle aree relative al capitale intellettuale) in associazione con la rete
KNOW. Esso mira a riconoscere le organizzazioni che mostrano, rispetto a quelle omologhe,
performance superiori nella creazione di valore per l'azienda, trasformando la conoscenza tacita ed
esplicita dell' impresa e il capitale intellettuale in prodotti / servizi / soluzioni di qualità superiore. I
vincitori del Global MAKE Award sono selezionati da un gruppo di esperti composto da dirigenti
aziendali provenienti dalle 500 aziende di Fortune, che sono tra i principali practitioners nel campo del
KM, nonché esperti di della materia.
Le finalità ed i relativi risultati in termini di knowledge performance che il MAKE award considera sono:
- creare e sostenere una cultura d’impresa guidata dalla conoscenza;
- sviluppare i knowledge worker attraverso la leadership del senior management;
- creare e distribuire prodotti /servizi/ soluzioni basati sulla conoscenza (knowledge-based);
- massimizzare il capitale intellettuale d’impresa;
- creare e sostenere un contesto per il collaborative knowledge sharing;
- creare e sostenere una learning organization;
- creare valore sulla base delle conoscenze degli stakeholder;
- trasformare la conoscenza d’impresa in valore per gli azionisti e gli stakeholder,
Informazioni
sul
MAKE
Award
si
possono
ricavare
dal
sito
all'indirizzo
http://www.knowledgebusiness.com/knowledgebusiness/Templates/Home.aspx?siteId=1&menuItemId
=25; consultato il 04-02-2016.
14
perché non si sanno superare i diversi (spesso concomitanti) fattori ostativi (barricading
factors). Tali fattori secondo Ajmal (2009) possono essere legati a:
- la tecnologia (insufficienza o inadeguatezza delle soluzioni IT);
- la cultura organizzativa (fattori ostativi legate i comportamenti);
- i contenuti di conoscenza che si vorrebbero gestire più efficacemente.20
Il resoconto dei casi di fallimento si connette - non sorprendentemente - ad altrettante
situazioni di incapacità di Project Management e di Change Management.
Su un piano più specifico alla tematica del KM si può far riferimento alle criticità emerse
da una ricerca condotta da IBM già nel 200221; essa ha evidenziato:
- il mancato collegamento degli sforzi nel campo del KM con gli obiettivi strategici
dell'azienda;
- la creazione di repository in termini tecnologici senza affrontare la necessità di gestire
i contenuti;
- l'incapacità di comprendere e di connettere il KM con le attività lavorative quotidiane
delle persone;
- un'enfasi eccessiva sugli sforzi di apprendimento formale come meccanismo per la
condivisione della conoscenza (eccessiva enfasi al collegamento con l'e-learning);
- il fatto di concentrare gli sforzi del KM solo entro i confini dell'organizzazione.
Un'ulteriore analisi delle ragioni di fallimento mette in evidenza come (Malhotra 2004):
- i sistemi di KM siano spesso definiti in termini di input quali dati, informazioni,
procedure, best practices, ecc. che in se stessi possono essere inadeguati a dar
conto delle business performance: tra gli input e le performance intervengono variabili
intermedie trascurate quali attenzione, motivazione, committment, creatività e
innovazione;
20
L'articolo citato, entrando in maggior dettaglio, menziona i seguenti barricading factors:
Technology
Connectivity: The technical infrastructure cannot support the required number of concurrent access
due to bandwidth limitation;
Usability: The KM tool has a poor level of usability. KM users find the tool too cumbersome or
complicated for use;
Overreliance: An over-reliance of KM tools lead to the neglect of the tacit aspects of knowledge;
Maintenance cost: The cost of maintaining the KM tool is prohibitively high. The management
intervenes and terminates the KM project.
Culture
Politics: KM initiative project is used as an object for political maneuvering such as gaining control and
authority within the organization;
Knowledge sharing: Staff does not share knowledge within the organization due to reasons such as
the lack of trust and knowledge-hoarding mentality;
Perceived image: Staff perceives accessing other’s knowledge as a sign of inadequacy;
Management commitment: The management appears keen to commence the KM project. However,
when problems emerged, commitment to the KM project is quickly withdrawn
Knowledge content
Coverage: The content is developed fragmentarily from different groups of KM users. Hence,
crossfunctional content can not be captured;
Structure: The content is not structured in a format that is meaningful to the task at hand;
Relevance & currency: The content is either not contextualized or current to meet the needs of the KM
users. It can not help KM users achieve business results;
Knowledge distillation: There is a lack of effective mechanism to distil knowledge from debriefs and
discussions. Hence, valuable knowledge remains obscured.
21
La ricerca è citata in Akhavan et al. (2005).
15
- i sistemi di KM sono spesso disegnati guardando il presente o il passato (corporation
memory) piuttosto che essere attenti agli scenari di cambiamento provenienti dal
contesto esterno.
L'analisi delle ragioni di fallimento (analisi che può contare ormai su un numero ampio di
contributi provenienti dal mondo accademico) vale a mettere in guardia da facili entusiasmi e
da disinvolte selling proposition da parte di venditori di soluzioni ICT e di società di
consulenza. Nasce di qui l'invito a una notevole cautela nell'attivazione di nuovi progetti. Due
concetti sembrano, più di altri, voler contribuire sul piano metodologico a orientare le scelte
in materia di KM, Si tratta dei concetti di:
- Knowledge Governace
- Knowledge Audit.
Ad essi sono dedicati gli ultimi due paragrafi di questo scritto, cercando di interpretare
liberamente le suggestioni che vengono dalla letteratura in merito.
6. Definire un modello di Knowledge Governance
Il termine di knowledge governance (KG) ha assunto rilievo per denotare le modalità con
cui di fatto vengono governati dati, informazioni, conoscenze e competenze, anche a
prescindere da una esplicita politica e da progetti aziendali di KM. Il termine serve anche a
evocare il ruolo del management aziendale nel dare impulso e sostenere (steering) le
politiche ed i progetti di KM.
La KG può essere definita come la scelta delle strutture, dei supporti e dei meccanismi
gestionali che consentono di gestire o quanto meno di influenzare produttivamente la
gestione dei processi di KM, vale a dire dei processi di:
- generazione,
- codificazione,
- trasferimento/applicazione della conoscenza22.
Si è detto all'inizio come in una qualsiasi organizzazione esista sempre, di fatto, una
politica di KM: chiamiamola politica "as is". Ragionare di KG significa comprendere i punti
22
In una versione all'allargata la Knowledge Governance si riferisce anche ai processi di
pianificazione e controllo dei processi suddetti (vedasi schema seguente):
Figura tratta da Prat (2006, p. 213)
16
deboli di tale politica, definire quale potrebbe essere la situazione "to be", e tratteggiare il
percorso per passare da "as is" a "to be".
La attenzione a meglio strutturare la KG comporta l'esigenza di:
- articolare le priorità, ossia la scelta delle risorse di conoscenza sulle quali investire in
coerenza con strategie /piani e programmi; si tratta, in sintesi, di definire le coordinate
della politica di KM23;
- assicurare coerenza alle azioni riguardanti le diverse variabili strategiche che
intervengono nella gestione del capitale di conoscenza; in particolare coerenza con le
politiche di gestione delle HR (valorizzazione e sviluppo del proprio "capitale
intellettuale");
- dare direzione e impulso alla politica di KM attraverso i progetti e le iniziative che si
decide di intraprendere ai fini di una migliore generazione, codificazione,
trasferimento, applicazione delle conoscenze ritenute vitali per l'azienda;
- definire, nell'ambito delle varie strutture aziendali (funzioni tecniche, funzioni di
programmazione, funzioni di gestione, ecc.) le responsabilità inerenti ai processi di
generazione, codificazione, trasferimento, applicazione delle conoscenze;
- formalizzare eventuali figure professionali ad hoc dedicate alla politica di KM (il Chief
Knowledge Officer, un Project Manager per ogni progetto di KM intrapreso, i
Knowledge Champion, ecc.).
Vediamo brevemente quali questioni si pongono in rapporto ai diversi knowledge
process:
A) Generazione della conoscenza
La finalità di questo processo è quello di riconoscere quali sono le realtà nelle quali si
acquisisce/produce conoscenza idonea ad affrontare determinate classi di attività e di
problemi; si tratta poi di consolidare /sostenere/ rafforzare tali modalità.
Le fonti di conoscenza di possono essere legate a specifici ruoli lavorativi, comunità
interne alla nostra organizzazione (unità organizzative, CdP, team, gruppi di knowledge
worker, ecc.) ovvero network che collegano la nostra organizzazione all'esterno.
Parliamo di acquisizione/produzione per sottolineare il rapporto complesso tra
conoscenze acquisite all'esterno e conoscenze prodotte all'interno dell'azienda. Assistiamo
oggi, come già detto riguardo al fenomeno della reticulation, a una crescente rilevanza del
23
Con il termine "politica di KM" si denota ciò che l'azienda intende fare per una migliore gestione del
proprio "capitale di conoscenza"; si traduce in un insieme di progetti finalizzati a rendere più efficienti
ed efficaci i processi di generazione, codificazione, trasferimento, applicazione della conoscenza. Tutti
gli autori che si sono occupati del tema sottolineano come essa debba essere sostenuta da un forte
commitment dei vertici aziendali.
Si parla anche di Knowledge Management Strategy, sottolineando così il collegamento con la Vision e
la strategia aziendale.
Le variabili strategiche che intervengono nella gestione del capitale di conoscenza sono:
- strategia aziendale (Vision, Mission, piani e programmi, allocazione delle risorse, ecc.);
- organizzazione (strutture, processi, ecc.);
- cultura organizzativa e comportamenti;
- leadership;
- gestione delle Risorse Umane (assunzioni, formazione, promozioni, sistema delle
ricompense);
- information Tecnology (Data Base, Workflow e Groupware, Document Management System,
Piattaforme di KM e di e-learning, Web portal, Intelligenza Artificiale, ecc.);
- modalità di esplorazione e adattamento all' environment (punti forti e punti deboli del proprio
capitale di conoscenza).
17
network con l'esterno (business network). Si pensi, per fare solo un esempio, alla
costituzione di joint venture che richiedono la messa in comune di specifiche competenze.
B) Codificazione della conoscenza
Con il termine "codificazione" si intende il passaggio da un'espressione orale della
conoscenza, tra persone che si conoscono e che condividono pratiche e linguaggi "situati", a
una espressione scritta (o comunque registrata24) tra persone che non si conoscono e non
hanno vissuto le stesse esperienze. È il processo attraverso il quale la conoscenza prodotta
diviene fluida e fruibile da altri soggetti. Si pongono a questo riguardo i noti problemi di
codificazione del "sapere pratico" su cui si era concentrato anche lo studio delle CdP.
Parlare di codificazione significa anche parlare di condivisione e di barriere che possono
emergere a questo riguardo (barriere cognitive e barriere sociali). Emerge in questa
prospettiva lo spinoso tema di come creare quella "cultura della condivisione"25 alla cui
mancanza vanno imputati spesso i principali barricading factor rispetto allo sviluppo di una
politica di KM.
Al fine del superamento delle barriere sociali si può far affidamento su una piattaforma di
KM e su regole (procedure) imposte dall'alto. Inoltre la "propensione alla condivisione" può
essere inserita tra i fattori presi in considerazione nel sistema di valutazione del personale.
Aspetti di questa natura adottati nel modello aziendale di KG, sono utili ma non bastano
quasi mai a creare una vera cultura della condivisione26. Occorre, in un percorso di Change
Management, puntare sulla autoregolazione e sullo sviluppo di comportamenti lavorativi
basati su fiducia, affidabilità e reciprocità. Ciò che deve passare nei vari gruppi di lavoro è
l'orientamento verso logiche win win, in cui la conoscenza sia riguardata come "bene
comune"27. I modelli di leadership hanno, a questo riguardo, un ruolo di grande rilievo.
C) Trasferimento / applicazione della conoscenza
La sola codificazione (ed eventuale messa in rete o incorporazione in meccanismi
operativi) della conoscenza non determina un effettivo trasferimento, specie se la
conoscenza va interpretata alla luce della specificità delle situazioni organizzative,
professionali e culturali della stazione di arrivo rispetto alla stazione di partenza. Il
trasferimento non può essere disgiunto dalla codificazione, ma richiede anche il
superamento di possibili disturbi semantici che possono intervenire nella interpretazione e
contestualizzazione delle conoscenze che si trasferiscono. Esistono poi - al solito 24
Ad es. attraverso relazioni, manuali tecnici, learning object, resoconto di casi, programmi di
simulazione, sistemi esperti, ecc.
25
È nota la riluttanza che le persone possono avere nello scambiare apertamente informazioni o nel
condividere le loro conoscenze, quando temano una diminuzione del proprio potere o del proprio
status all'interno dell'azienda.
26
D'altra parte il concetto di governance si differenzia da quello di government proprio perché vale a
denotare la capacità di governare senza troppe regole emanate dall'alto. Può essere ricordata a
questo riguardo la presenza tra i dieci principi - che secondo Davenport (1998) stanno alla base di una
efficace strategia di KM - l'affermazione che: «Il KM trae maggior beneficio da "mappe" che da
"modelli", da logiche di scambio più che da logiche gerarchiche». Questo significa che, anziché
impegnarsi per costruire complessi modelli gerarchici di strutturazione e registrazione delle
conoscenze, vale la pena fornire mappe per comprendere dove si trovano le conoscenze stesse
(knowledge mapping) e favorire gli scambi che ogni unità organizzativa può attivare con le altre,
anche con il contesto esterno (solitamente si impara molto anche da clienti, fornitori e business
partner).
27
Considerare la conoscenza presente in un'organizzazione come bene comune porta a costruire un
ponte tra il KM e le riflessioni sui beni comuni che hanno preso il via dai lavori di Elinor Ostrom.
Vedasi specialmente Hess, Ostrom (2009).
18
barricading factor di natura sociale legati a conflitti valoriali, e barriere identitarie (come ad
es. la nota sindrome del "not invented here").
Si possono individuare casi di differente complessità nel processo di trasferimento di
conoscenze che possono essere così esemplificati:
- trasferimento di lavorazioni all'estero;
- trasferimento di buone pratiche all'interno di una organizzazione;
- trasferimento di conoscenze all'interno dei business network (ove emergono delicati
problemi di messa in comune, ma anche di protezione delle proprie core
competence).
Si può studiare quale ruolo possa assumere la formazione nel processo di trasferimento
di conoscenze. Ci si limita qui a osservare - riprendendo un tema più volte trattato in Dialoghi
- che, se la conoscenza trasferita deve diventare "sapere in azione", è necessario far uso di
una impostazione metodologica che produca un qualche grado di condivisione delle
pratiche28.
La usabilità della conoscenza codificata e trasferita comporta il riferimento a una serie di
strumenti IT e chiama in causa - come già detto - l'impiego di una piattaforma di KM (o
Knowledge Portal) con funzionalità che possono essere schematizzate attraverso una nuova
figura (Fig. 3 )
Fig. 3: Schema di una piattaforma di KM
Possiamo riferirci al Knowledge Repository (nonché alle Banche Dati ed ai sistemi di
Document Management a cui è possibile accedere attraverso la piattaforma) come alla "base
di conoscenza" (Knowledge Base) del sistema. Essa va articolata a partire da tassonomie ed
operazioni di tagging che consentano possibilità di knowledge mapping; il tutto senza
separare i documenti dagli autori e dai contesti di loro produzione.
Una piattaforma di KM deve facilitare tutti i processi di creazione, organizzazione,
diffusione, utilizzo di conoscenza utile. A tal fine deve quanto meno consentire di:
- dare agli utenti la possibilità di collegarsi e di collaborare con i colleghi;
- stimolare il flusso della conoscenza attraverso l'organizzazione;
28
Vedasi ad es. Mattalucci L. (2010).
19
- strutturare e mappare la conoscenza in modo funzionale rispetto alle esigenze degli
utenti;
- distribuire la conoscenza rendendola disponibile, dove e quando serve attraverso
dispositivi multipli di accesso (possono includere anche smartphone e tablet);
- attivare ambienti di apprendimento collaborativo.
Gli strumenti di communication (sincrona e asincrona) hanno un ruolo fondamentale
nello strutturare comunità on line29. Il presidio della piattaforma, e dei progetti di KM che
necessariamente ne fanno uso, nelle forme adeguate di KG, debbono far riferimento a ruoli e
responsabilità ben definite. Possono ad es. essere definite figure di Knowledge Champion
(detti anche - con varie sfumature di significato - KM Champion, Knowledge Activist,
Knowledge Steward, Knowledge Coordinator) ai quali si attribuiscono compiti di advocacy
(essere un punto di riferimento per le questioni di KM), di supporto e facilitazione nell'impiego
di strumenti o nell'attivazione di specifiche iniziative, compiti di knowledge brokering per
l'attivazione di contatti con persone esperte e fonti di conoscenza (interne ed esterne
all'azienda). Possono anche essere individuati e responsabilizzati in rapporto ad aree chiave
di know how esperti con funzione di peer mentoring raggiungibili attraverso la piattaforma di
KM30.
Rientra tra le aree di analisi del grado di adeguatezza della KG la valutazione dei
costi/benefici derivanti dallo sviluppo e mantenimento della piattaforma di KM e dei ruoli di
supporto ai quali si è testé fatto cenno.
7. Attivare operazioni di Knowledge Audit
Il tema della strutturazione di un modello di Knowledge governance si collega
strettamente all'attivazione di operazioni di Knowledge Audit (K-Audit).
Il termine K-Audit si riferisce, secondo López-Nicolás, Meroño-Cerdán (2010, p. 117)
all'insieme di
«[pratiche finalizzate] ad identificare quale conoscenza si renda necessaria per
sostenere gli obiettivi complessivi di una organizzazione e l'attività dei team o delle
singole persone; [Attraverso l'attività di K-Audit si deve raggiungere] un'apprezzabile
chiarezza del modo in cui viene efficacemente gestita la conoscenza e dove sono
necessari miglioramenti; [tutto questo] fornisce un resoconto della conoscenza che
esiste nella nostra organizzazione, di come essa circola e viene utilizzata […]»31.
Dunque le attività di K-Audit fanno riferimento a una qualche forma di indagine sistemica
finalizzata a comprendere e valutare l'attuale situazione di gestione della conoscenza, ma
soprattutto a individuare modalità per migliorare i processi in questione in modo da garantire
per l'azienda la possibilità di disporre delle necessarie "competenze chiave".
Si argomenta che (Hylton, 2002, p.2):
«Il K-Audit è indiscutibilmente il primo passo in un'iniziativa di KM32. Eppure esso non è
stato sufficientemente riconosciuto come di fondamentale importanza in un qualsiasi
progetto di gestione della conoscenza […] Il K-Audit serve per aiutare chi lo effettua a
stabilire se egli davvero "sa quello che sa" e se "sa quello che non sa" circa lo stato della
29
Ampi contributi alla tematica Connectivity and Knowledge Management sono contenuti in Camison
et al. (2009).
30
Per motivare il peer mentoring si è anche sperimentato l'impiego di forme di gamification.
31
Mia traduzione.
32
Mio corsivo.
20
conoscenza esistente. Serve anche per portare alla luce ciò che si dovrebbe sapere per
meglio far leva sulla conoscenza per migliorare il business e il vantaggio competitivo.
Quanto emerge servirà a fissare l'agenda delle l'iniziative di KM, dei programmi e delle
iniziative di implementazione»33.
La letteratura che riguarda il K-Audit propone numerose metodologie per condurre
operazioni di tale natura. Si tratta di proposte che, per voler essere ampie e approfondite,
rischiano di diventare di difficile applicazione.
Viene presentata in allegato una proposta metodologica elaborata da chi scrive e
(parzialmente) testata in un lavoro sul campo condotto al termine del seminario citato in
premessa.
33
Mia traduzione.
21
Allegato: Proposta di una metodologia di K-Audit
In questo allegato viene proposta una metodologia per una attività (fatta anche solo a
titolo esplorativo) di audit del "capitale di conoscenze" o meglio dei know how più rilevanti di
cui si avvale e di cui ha bisogno una organizzazione o anche solo uno specifico sottosistema
organizzativo (dipartimento, divisione, ecc).
Si tratta di una metodologia finalizzata a ottenere una mappa più chiara del know how
che serve per gestire efficacemente i processi organizzativi e avere indicazioni su quale
potrebbe essere un effettivo progetto di K.M. Essa si articola in tre passi:
1) individuazione, dentro l'organizzazione sulla quale si opera, dell'"albero dei processi
lavorativi", dei Key Performance Indicator (KPI) e dei Know how (Kh) chiave
necessari per raggiungere e migliorare i KPI;
2) analisi delle modalità di generazione, formalizzazione e diffusione dei Kh chiave
individuati al passo 1;
3) individuazione di iniziative che potrebbero migliorare, relativamente ai Kh chiave, i
processi di creazione e gestione della conoscenza.
1) Primo passo
Il primo passo della metodologia in questione consiste nell'individuazione - nell'ambito
del perimetro organizzativo preso in considerazione dal nostro progetto - dei
processi/sottoprocessi che interessano l'organizzazione considerata.
Partendo dalla mission della struttura organizzativa considerata, si procede con il
riconoscimento dell'insieme complessivo delle attività svolte classificate secondo una
"struttura ad albero" a partire dai processi di più alto livello (Fig. A1). Solitamente è
sufficiente arrivare a una classificazione su due o al massimo tre livelli
(processi/sottoprocessi/attività più analitiche)
Figura A1: Albero dei Processi
In coerenza con la terminologia del modello European Foundation for Quality
Management (EFQM) i processi considerati possono essere:
- processi di servizio finalizzati alla erogazione di prodotti e servizi34;
- processi di supporto per fornire al sistema organizzativo le risorse necessarie;
34
I processi di servizio che interessano l'organizzazione considerata possono essere parte (segmenti)
di processi più ampi che attraversano più strutture organizzative.
22
- processi di gestione per governare ed innovare l'organizzazione
Al fine di rendere snello l'approccio proposto si può puntare l'attenzione sui soli processi
(o sottoprocessi) "chiave" vale a dire i processi maggiormente rilevanti rispetto al buon
funzionamento dell'organizzazione. Essi possono - all'interno di un team di lavoro nel quale
siano rappresentati diversi punti di vista - essere selezionati in base alla:
- rilevanza economica o quantità di "risorse assorbite";
- rilevanza in termini di efficacia o qualità percepita (ponendosi nell'ottica dei diversi
stakeholder);
- rilevanza in rapporto agli obiettivi strategici che si vogliono conseguire.
La scomposizione di un processo in sottoprocessi vale a rendere più puntuale l'analisi
delle competenze richieste per il suo svolgimento. Parliamo da qui in avanti, per semplicità,
solo di processi sottintendendo che, se del caso, vengono presi in esame anche gli opportuni
sottoprocessi
È utile - come avviene in molte metodologie di analisi delle organizzazioni - "incrociare" i
processi con le funzioni (unità organizzative o ruoli lavorativi) che intervengono nella
realizzazione dei processi. Nelle caselle si inseriscono le attività svolte (ivi compresa la
produzione di relazioni e documenti che può essere utile vengano inserite nel Knowledge
Repository presente nella piattaforma di KM).
Processi /
Funzioni
Funzione A
Funzione B
Funzione N
Processo 1
Processo 2
Processo N
Tabella A1: Incrocio tra processi e funzioni organizzative
Per mappare i Kh richiesti per lo svolgimento di ciascun processo possono essere
utilizzati grafi come quello in figura (che a titolo meramente esemplificativo considera il
processo di "stesura di una tesi di laurea"). Il processo da analizzare viene posto al centro
del grafo e si individuano le conoscenze, capacità, padronanze, ecc. necessarie per lo
svolgimento del processo stesso (indipendentemente dai soggetti che possono essere
coinvolti).
23
Figura A2: Esemplificazione di una mappatura delle conoscenze necessarie per lo svolgimento di
un processo (l'esempio riguarda la stesura di una tesi di laurea).
A fronte di ogni processo considerato è opportuno sforzarsi di definire innanzi tutto quali
sono i "criteri di giudizio" che (mettendosi nell'ottica dei diversi stakeholder) possono essere
utilizzati per valutare lo svolgimento e i risultati ottenuti. A partire dai criteri di giudizio si
possono definire i Key Performance Indicators (KPI), vale a dire gli indicatori che valgono a
stabilire i livelli di efficacia ed efficienza che si raggiungono (o si vogliono raggiungere).
Possono essere:
- indicatori di costo ( costo di svolgimento del processo, costo di recupero di errori,
ecc);
- indicatori di qualità (tempo di risposta, frequenza reclami, qualità del servizio
percepita dall'utente, ecc.)35.
Ragionare sui KPI - indipendentemente dal fatto che si disponga attualmente del loro
valore numerico - aiuta a considerare qual è il "capitale di conoscenza" richiesto per ciascun
processo. Si arriva in tal modo a costruire la matrice evidenziata nella tabella A2.
35
Continuando con l'esempio della stesura di una tesi di laurea i criteri di giudizio solitamente impiegati sono:
Organizzazione e scrittura/Rilevanza dei risultati/Correttezza/Adeguatezza degli strumenti/Bibliografia
/Sperimentazione /Autonomia del candidato. Per quanto non sia immediato, si possono indicare modalità per
tradurre operativamente i criteri ad es. in standard minimi, che possiamo considerare essere i KPI. Ciò che
appare evidente è che ragionare sui criteri di giudizio (o meglio ancora sui KPI) porta a individuare con
precisione i Kh necessari.
24
Processo
/sottoprocesso
chiave
Criteri di
giudizio/
KPI
Know how (Kh)
richiesto
Specificazioni sulla natura del
Kh richiesto
Processo A
KPIA1
KPIA2
Conoscenza di …
Padronanza del …
Capacità di…
[Note riguardanti il Kh richiesto]
Processo B
KPIB1
KPIB2
KPIB3
Conoscenza di …
Padronanza del …
Capacità di…
[Note riguardanti il Kh richiesto]
………………
Tabella A2: Identificazione del Kh complessivamente richiesto per uno svolgimento efficiente ed
efficace dei processi lavorativi
La voce "Conoscenza di…" si riferisce ai domini tematici che sono alla base del Kh;
"Padronanza di…" (o anche "Abilità di… ) si riferisce all'utilizzo di strumenti, applicazioni
software, metodologie, ecc. Il termine "Capacità di …" può essere riservato a competenze
che consentono di affrontare attività di diagnostica, di indagine, di problem setting/ problem
solving, ecc. Si tratta di capacità che presuppongono, con una certa frequenza, il sapere
quali fonti di informazione possono essere consultate, a chi chiedere pareri, e altro ancora.
La tabella A1 fotografa la situazione organizzativa attuale (quella che nel linguaggio del
BPR chiamiamo situazione as is). Possono tuttavia essere già allo studio - magari come
istanze provenienti dai Sistemi di Qualità o da iniziative di Benchmarking - progetti di
miglioramento organizzativo e ridisegno dei processi. In tal caso conviene pensare a una
tabella A2 bis con la stessa struttura di quella precedente, riferita però alla configurazione
organizzativa che si vuole raggiungere (situazione "to be").
Si arriva in ogni caso a stabilire una lista dei "Kh chiave" (vale a dire quelli che hanno un
maggior valore strategico o, comunque, un maggior rilievo nella gestione - efficiente ed
efficace - dei processi lavorativi), ognuno con un suo codice identificativo.
2) Secondo passo
Il secondo passo della metodologia di K-Audit consiste nel sottoporre ad analisi ciascun Kh
identificato attraverso la tabella A2 avendo magari cura - per non appesantire troppo l'analisi
- di porre l'attenzione solo sui Kh aventi maggior rilievo ai fini delle performance
organizzative36.
Occorre chiedersi, per ciascuno dei Kh considerati:
- da dove proviene e/o dove si genera;
- dove trova eventuale formalizzazione;
- come si diffonde (o meglio come la si rende disponibile per chi ne ha necessità)
36
La scelta dei Kh aventi maggiore rilievo può essere effettuata come panel discussion tra le persone
che partecipano al K-Audit
25
Codice del Kh chiave considerato e sua denominazione ….
Da dove proviene e/o dove
si genera
Esperti /consulenti interni /esterni
Team (interni o interorganizzativi)
supportati o meno da
groupware/workflow
Comunità di pratica
Forum di discussione (anche con
il coinvolgimento degli utenti o dei
fornitori)
Dove trova eventuale
formalizzazione
Data Base Management
Systems (DBMS);
Repository documentali
/Document Management
System (DMS);
Sistemi esperti;
Kh embedded in applicazioni
software;
Videoconferenze periodiche
Learning platform (es. Moodle);
Attività di reporting svolte a valle
di…
Ecc.
Attività di informazione
/formazione
Come si diffonde
Possibilità di accesso on line
a DBMS, DMS, Learning
platform, ecc.;
Team e Comunità di Pratica;
Gestione consulenze esterne
Mentoring / Mentoring on line;
Attività di
informazione/formazione;
Mappatura e possibilità di
consultazione di competence
champion interni ed esterni
Ecc.
Iniziative di benchmarking / Case
study
Crowdsourcing
Ecc.
Tabella A3: Analisi dei processi di creazione e gestione della conoscenza.
Si costruiscono tante tabelle quanti sono i Kh chiave considerati (scelti per la loro
effettiva rilevanza).
Dal punto di vista operativo l'individuazione delle tabelle sopra menzionate procede in
maniera analoga a quanto previsto dalle metodiche di analisi delle competenze, tenendo
presente - come afferma G. Leboterf - che
«qualunque competenza è finalizzata e contestualizzata: essa non può dunque essere
separata dalle proprie condizioni di messa in opera. […] La competenza è un saper agire
(o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio
altrui».
L'analisi in questione non può dunque prescindere da metodi qualitativi di indagine,
come interviste a knowledge worker, testimoni privilegiati e focus group.
2) Terzo passo
Sulla base delle tabelle A3 si possono - come terza fase della metodologia - avviare dei
ragionamenti sulle iniziative che potrebbero migliorare i processi di creazione e gestione
della conoscenza. Si tratta di una fase particolarmente delicata perché richiede una attenta
diagnostica di quali sono le attuali criticità.
26
In genere si tratta di criticità che possono derivare da uno o più elementi inclusi nella
seguente check-list:
- limiti presenti nelle attuali funzionalità e modalità d'uso delle applicazioni
tecnologiche;
- limiti presenti nelle possibilità di accesso alle informazioni utili o al più generale
patrimonio di conoscenze;
- carenze di Kh, nelle persone e nei team, che condizionano il raggiungimento delle
perfomance desiderate (o il possibile miglioramento dei KPI); possiamo parlare a
questo riguardo di "knowledge gap";
- insufficiente utilizzo e diffusione delle competenze che si generano nei processi
(mancanza di apprendimento organizzativo);
- scarsa capacità di utilizzo di potenziali fonti informative esterne (ad es. clienti, fornitori
e business partner);
- presenza di "colli di bottiglia" nella circolazione delle conoscenze (eccesso di
dipendenza da specifici knowledge worker)";
- insufficiente "cultura della condivisione" di informazioni e conoscenze;
- carenze nella definizione di responsabilità inerenti la gestione delle informazioni e
conoscenze, mancanza di ruoli di knowledge manager (carenze di knowledge
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30
SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLE
ORGANIZZAZIONI
A cura di Giovanni Reale
31
L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSO
PER LE ORGANIZZAZIONI
di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale
1. Premessa
Vi sono due versanti da cui è possibile guardare la situazione generale delle
organizzazioni di oggi, quello delle sfide del mercato globale, della crisi economica e delle
strategie imprenditoriali e quello della loro struttura interna, dell'evoluzione organizzativa, dei
cambiamenti del modo di lavorare e produrre. Sono due versanti che si intrecciano tra loro,
che si influenzano a vicenda. La crisi economica sta modificando di fatto la struttura del
sistema produttivo italiano e gli sviluppi della trasformazione digitale, qualunque sia il "peso"
del suo impatto, lancia una sfida nuova alle imprese che rimangono sul mercato. Come già
evidenziato dal CNEL (2010, pag. 9):
«il variegato assetto del nostro sistema produttivo ha determinato capacità di reazione
alla crisi molto differenziate … con imprese che hanno investito in innovazione e ricerca
già in grado di cogliere, sia pure nella durezza della situazione internazionale,
significativi risultati; imprese che pure hanno seguito sentieri virtuosi, che invece si
trovano oggi punite da una situazione presente che non riescono a dominare; infine, una
vasta area di imprese che invece, non avendo intrapreso alcuna azione di valenza
strategica, percepiscono che per loro si prospetta un futuro di grandi rischi e difficoltà».
Alla ripresa economica flebile che stiamo vivendo in questi anni, e che, si prevede,
caratterizzerà anche gli anni a venire, le aziende italiane si sono presentate sostanzialmente
come prima descritto: quelle che hanno avviato e, magari, già compiuto percorsi di
innovazione e trasformazione per stare su un mercato più globale e interconnesso hanno più
possibilità di navigare in un mare più ampio e sfidante; le altre o stanno salpando, avendo
resistito alla crisi, oppure sono essenzialmente ancora ferme in porto. Il "rovescio della
medaglia", che ci interessa particolarmente in questo testo, è che molto probabilmente le
organizzazioni che si sono trasformate hanno sviluppato anche gli "anticorpi" per il futuro.
E qui veniamo al secondo versante, quello interno alle organizzazioni: sono definite
ormai da tutti, studiosi e consulenti (basta citare la presentazione di Cuneo all'edizione
italiana di Ripensare il futuro, a cura di Gibson 1998), come organismi complessi per attività
e tecnologie, per l'interazione tra questi elementi e le persone che vi lavorano. Nelle
organizzazioni di oggi si lavora in modo differente da quelle di soli 30 o 40 anni fa: vi è stato
il passaggio epocale da aziende centrate sul prodotto, in cui tutto era legato ad esso, a
32
imprese centrate sul processo (ossia ci si è focalizzati su tutto il "percorso" di realizzazione
del prodotto), passaggio favorito dall'automatizzazione del lavoro; transito che ha poi portato
alle imprese flessibili odierne, caratterizzate da una forte automazione, da un sistema di
lavoro che integra le diverse parti dell'organizzazione per migliorare i risultati, e da un
mercato di riferimento sempre più ampio e però sempre più variabile. E le persone che
operano nelle organizzazioni flessibili, devono saper gestire l'incertezza, il molteplice, la
diversità di orientamenti.
Quali sono questi "anticorpi" che si indicavano in precedenza? Partiamo dall'indagine
ISFOL "Oltre la crisi" (2013) su un campione che possiamo definire "particolare", le piccole e
medie imprese del sud Italia che hanno successo anche durante la crisi: a pagina 87
dell'indagine, dopo il racconto e l'analisi delle aziende selezionate, si indicano gli elementi
distintivi che contraddistinguono queste imprese che «operano in territori economicamente
decentrati rispetto ai sistemi produttivi più evoluti nazionali e internazionali. Una prima analisi
trasversale ha consentito l'identificazione di tre aspetti che meritano uno specifico
approfondimento e che sono connessi tra loro:
- l'organizzazione del lavoro, che inerisce, in particolare, ma non esclusivamente, alle
modalità di gestione delle risorse umane, del loro reclutamento e di processi di
aggiornamento delle competenze;
- un approccio "meta-culturale" all'idea imprenditoriale;
- la presenza di un comportamento di tipo "resiliente" che riguarda diversi aspetti, dalla
gestione interna dell'impresa ai rapporti con l'ambiente sociale, economico e
istituzionale in cui si esplica il campo d'azione dell'impresa».
Nella disamina dei tre aspetti indicati, partendo dal primo, a pagina 88 dell'indagine
ISFOL, si dice che
«da un altro punto di vista dell'organizzazione, l'indagine ha inteso analizzare le
condizioni relative alle politiche delle risorse umane, che svolgono una funzione
strategica nella determinazione del valore aggiunto della produzione industriale.
Orientate alla qualità, le imprese esaminate considerano la competenza e il benessere/la
soddisfazione dei dipendenti come variabili indipendenti dell'intero processo produttivo».
Per quanto riguarda il secondo aspetto, pur nelle differenze tra gli stili imprenditoriali
raccolti e vision differenti, a pagina 91 dell'indagine ISFOL si indica che:
«i titolari e il management veicolano una forte impronta culturale e valoriale, talvolta con
connotazioni etiche (ed emotive), nella ricerca di fondamenta su cui costruire
identificazione, condivisione e focalizzazione rispetto agli obiettivi di performance
aziendale. Senza scomodare categorie di analisi che appartengono al filone tradizionale
manageriale, in alcune situazioni il titolare agisce come colui che è in grado di imprimere
alcune delle cosiddette discipline (Senge, 1990) legate all'apprendimento in azienda, con
particolare riguardo alla costruzione della visione condivisa, al team learning e alla
padronanza personale…».
Per quanto riguarda il terzo aspetto, quello della resilienza organizzativa, che viene
definito come
«la generale capacità di saper lavorare in penuria (di risorse, materiali, strutture,
finanziamenti…), di vivere condizioni di disagio e di difficoltà, ma riuscire comunque a
ottimizzare ciò di cui si dispone e alla fine apprendere ad affrontare in modo competente
nuove situazioni di difficoltà. Questa capacità può aver dunque aumentato il grado di
resilienza di queste imprese, ovvero la forza di superare le difficoltà e le crisi migliorando
addirittura la propria posizione [...] La resilienza dunque non è la semplice capacità di
33
resistere agli avvenimenti traumatici come può esserlo una crisi, ma è soprattutto
l'insieme di abilità connesse al fronteggiamento delle difficoltà, correlata alla capacità di
utilizzare l'esperienza acquisita per costruire il futuro in modo rafforzato … La resilienza
si traduce così, paradossalmente, nella capacità di riuscire ad essere produttivi nelle
difficoltà, capitalizzando le esperienze, gli errori e le vittorie per costruire il futuro,
mantenendo la fiducia in sé stessi e l'energia per raccogliere nuove sfide». (ISFOL, pp.
92- 93)"
Questa ricerca, dunque, ci evidenzia alcuni elementi che paiono importanti per le
aziende piccole e medie e che ritroviamo, con una terminologia differente, in uso nelle
organizzazioni di grandi dimensioni: il miglioramento continuo e l'apprendimento
organizzativo. E il riferimento che viene fatto a Senge dagli autori della ricerca ci richiama il
concetto di pensiero sistemico, che l'autore indica come la quinta disciplina, nel libro
omonimo (Senge 1990). Una capacità che permette alle aziende di comprendere, secondo
l'autore, la complessità implicita nei sistemi organizzativi. Avere una visione sistemica delle
organizzazioni e delle attività che si svolgono, siano esse quelle produttive aziendali siano
esse quelle consulenziali che operano "per" le organizzazioni, permette di favorire
l'apprendimento organizzativo.
«Ma, per realizzare il suo potenziale, il pensiero sistemico necessita anche delle
discipline utili a creare una visione condivisa, cioè dei modelli mentali,
dell'apprendimento di gruppo e della padronanza personale. Costruire una visione
stimola l'impegno a lungo termine. I modelli mentali si concentrano sull'apertura
necessaria a scoprire scorciatoie nel nostro modo attuale di vedere il mondo.
L'apprendimento di gruppo sviluppa le capacità dei nuclei di persone di guardare
all'immagine più grande al di là delle prospettive dei singoli. E la padronanza personale
promuove la motivazione personale a continuare ad apprendere come le nostre azioni
influiscano sul nostro mondo». (Senge, trad. it, 1992, p. 14).
Proviamo a guardare le aziende anche da un altro punto di vista, quello dei sistemi che
vengono attuati per migliorare l'efficienza interna e l'efficacia produttiva di prodotti o servizi,
senza, ovviamente, dimenticare l'economicità del sistema organizzativo: per raggiungere gli
obiettivi imprenditoriali le aziende hanno introdotto, come ci fa notare Tartari (2014),
«… molteplici metodi di gestione aziendale, di organizzazione della produzione e dei
servizi connessi, e di miglioramento continuo; in particolare le tecniche Six Sigma, Lean
Six Sigma e Quality by Design. Sono stati inoltre, sviluppati e introdotti diversi sistemi
qualità e linee guida, ad esempio ISO 9001, ISO TS 16949, ISO 14971, ISO 13485, ICH
Q8, ICH Q9, ICH Q10, solo per citarne alcune. Le norme e le linee guida citate hanno
tutte un comun denominatore: l'identificazione di attività e prodotti non conformi, la loro
gestione e l'identificazione delle cause».
Da tutti gli aspetti citati, da consulenti che si muovono da anni in differenti realtà
organizzative, dalle grandi multinazionali di nascita italiana o straniera, fino alle piccole
aziende italiane, emergono due aspetti: la necessità per le imprese di innovare e fare ricerca,
ma anche di migliorarsi continuamente, anche internamente, per stare sul mercato; per
questo, quanto prima indicato in diverse parti di questa premessa risulta significativo, perché
chi adotta certe strategie interne risulta avvantaggiato. Il secondo aspetto è che non basta
adottare metodologie più efficienti per essere più efficaci, in un mercato variabile e in
organizzazioni più flessibili, che magari lavorano just in time e che personalizzano i prodotti.
34
«Nonostante ciò [i metodi di gestione aziendale, ndr] abbiamo una serie di mancati
obiettivi sia organizzativi che di qualità, i difetti e i disservizi raggiungono spesso il
mercato e l'insoddisfazione dei clienti aumenta», dichiara Tartari (2014, p.11).
Noi pensiamo che l'efficacia e l'efficienza possano essere ancora migliorate, (è difficile
che un'organizzazione sia perfetta!), ma forse non è solo una questione di metodi, di
strumenti (come ci pare di cogliere da autori come quello appena citato) ma, invece,
principalmente una questione di cultura organizzativa, di una "piena", ossia pervasiva,
cultura dell'apprendimento organizzativo, che includa non solo la visione sistemica di Senge,
ma anche una cultura che incentivi il miglioramento e il superamento dell'errore, senza la
colpevolizzazione. Parliamo di errore perché ci pare sia la "cartina di tornasole" ottimale con
cui osservare in modo complessivo le organizzazioni in azione. E avremo modo di
approfondire il concetto lungo tutto questo scritto.
Spieghiamo però subito cosa intendiamo per errore: come ci indica uno dei maggiori
studiosi dell'argomento, Reason (si veda 1990), esso può essere definito in molti modi, ma in
questo ambito di analisi un errore è ritenuto un fallimento di una o più azioni pianificate per il
raggiungimento di uno scopo. Questi errori che avvengono nelle organizzazioni e che non
permettono di raggiungere gli obiettivi individuati, di mantenere gli standard definiti verso il
cliente esterno o interno, di essere efficaci nello svolgere le proprie attività, noi li chiamiamo
effetti indesiderati. Non ci riferiamo quindi al tema della salute e sicurezza sul lavoro e a temi
inerenti lo stress lavoro correlato; allo stesso modo non ci connettiamo direttamente al tema
della qualità nelle sue differenti "diramazioni" e metodiche. Intendiamo vedere il tema
dell'errore nelle organizzazioni come un tema a più ampio raggio, secondo una lettura
organizzativa sistemica ed è quello che facciamo nelle nostre attività consulenziali che sono
in progress.
2. Gli errori nelle organizzazioni
Il rischio per le aziende, che operano su mercati competitivi, di non raggiungere gli
obiettivi di budget, di non guadagnare per remunerare il capitale investito, di non dare
dividendi agli investitori (che possono poi andare verso altre fonti di investimento più
redditizie), è caratterizzato da molti fattori esterni all'impresa (competitività, andamento
economico, ecc…), ma anche da quelli interni, legati alla produzione di prodotti e servizi di
qualità, all'efficacia ed efficienza organizzativa. Diventa prioritario dunque eliminare difetti e
disservizi che possono ricadere, in primis, sui clienti e generare insoddisfazione e cattiva
reputazione, così come verso i fornitori (che potrebbero trovarsi a voler scegliere di
privilegiare altre organizzazioni) o verso i clienti interni, i lavoratori, generando malcontento e
un clima di lavoro poco sereno. Come ci segnala Maurizio Catino (2009, pag. 110)
«da quando le organizzazioni e le tecnologie sono diventate più complesse, sono
diventate anche più opache nel loro funzionamento e più esposte a errori e possibili
incidenti».
Comunemente gli errori vengono identificati con gli sbagli commessi dalle persone nel
corso dello svolgimento di una attività. Ma qual è, se vi è, la differenza tra errore e sbaglio?
Tutti gli errori e/o sbagli sono uguali? Etimologicamente erróre deriva latino *error -oris,
derivante da errare, ossia vagare e sbagliare e ha sia l'uso letterario dell'errare sia il
significato di sviarsi, l'uscire dalla via retta, l'atto e l'effetto di allontanarsi, col pensiero o con
l'azione o, altrimenti, dal bene, dal vero, dal conveniente, in particolare con il senso di fallo,
35
colpa
e
peccato
(si
veda
vocabolario
Treccani
online,
http://www.treccani.it/vocabolario/errore/).
Nel vocabolario della stessa Istituzione, troviamo la definizione di sbaglio come errore di
valutazione o di giudizio, affermazione inesatta, modo di agire, di comportarsi, contrario
all'opportunità e alla convenienza, decisione poco felice, scelta non soddisfacente, un fare,
commettere uno sbaglio; ed anche equivoco, scambio involontario; oppure errore commesso
nello svolgimento di un'attività o nell'esecuzione di un lavoro: In "senso morale, come colpa o
mancanza più o meno grave (con senso attenuato rispetto a errore)". (si veda vocabolario
Treccani online, http://www.treccani.it/vocabolario/sbaglio/).
Interessante notare come sbagliare abbia la stessa radice etimologica di abbagliare, con
altro prefisso, (s)bagliare e (ab)bagliare, derivando dal latino volgare *balium, cioè bagliore,
che a sua volta deriverebbe dal greco baliós, ossia cangiante. Se i vocabolari ci indicano che
errore è un errare, un vagare e invece sbaglio è un prendere un abbaglio, possiamo traslare
il ragionamento a quanto ci indica Baldini nel suo libro Virtù dell'errore (2012), nella
differenza tra i due termini: sbagliare ha una base soggettiva legata alla "difettosità" di alcune
funzioni (attenzione, memoria, pensiero) che presiedono allo svolgimento delle attività,
l'errore ha una base oggettiva, legata alla non conoscenza di fatti essenziali per il procedere.
Questa distinzione (che dal punto di vista linguistico in questo scritto andremo a perdere, per
esigenze di chiarezza espositiva, infatti utilizzeremo, come si fa comunemente, i due termini
come sinonimi) ci indica che sono due gli aspetti che compongono la categoria errore
rispetto al soggetto che sbaglia1: il fattore individuale, che agisce attraverso i processi
cognitivi, e il fattore "sociale" legato alla conoscenza, quale fattore esterno al soggetto e che,
nelle organizzazioni, diventa un elemento di scambio e condivisione con gli altri, grazie al
ruolo interpretato e alla elaborazione di conoscenza.
Secondo Rasmussen (citato in Catino, 2006, pp.16-18) le forme di prestazioni
organizzative e quindi di comportamento che attuiamo sono di tre tipi, secondo i compiti
lavorativi che si eseguono: quelle basate sulle abilità (skill-based behaviour), legate a compiti
di routine, quelle basate sulle regole (rule-based behaviour), relative a compiti conosciuti e
quelle basate sulle conoscenze (knowledge-based behaviour), che si attivano in situazioni
nuove ed impreviste, come si può vedere dalla tabella seguente:
Tipologie di
comportamenti
Tipo di
compito
Livello di impegno
cognitivo
Cosa implica
skill-based
behaviour
di routine
basso
Abilità apprese, procedure
interiorizzate, risposte quasi
automatiche
rule-based
behaviour
nuovi basati su
regole
medio
Riconoscimento della
situazione e applicazione della
procedura corretta
knowledge-based
behaviour
situazioni nuove
e impreviste
alto
Approccio creativo e
autonomo, basato su
conoscenze e info disponibili
Tabella 1: comportamenti organizzativi
1
Tralasciamo in questo testo il tema dell’errore determinato da cause legate al “fallimento” della
tecnologia, inteso come fallacia diretta della macchina che determina uno sbaglio, un danno, un
incidente; indirettamente la causa è sempre comunque l’azione del progettista, come ben indicato da
Norman (nuova edizione, trad.it. 2015).
36
Partendo da questa classificazione possiamo individuare2 gli errori rispetto al loro
collegamento ai nostri comportamenti e ai diversi livelli di esecuzione dei compiti,
ricordandoci la definizione di Reason, ossia che ci riferiamo ad azioni in una sequenza
pianificata di attività fisiche o mentali che non raggiungono i risultati voluti, senza che
l'insuccesso possa essere attribuito al caso. Avremo dunque errori di esecuzione durante
una singola azione o una sequenza di azioni pianificate oppure errori di pianificazione
quando si sbaglierà a pianificare l'azione per raggiungere l'obiettivo definito.
Utilizziamo ora una delle più diffuse tipologie di errori, quella appunto di Reason (1990,
trad. it. 1994), in cui troviamo la distinzione in:
- slip, ossia errore di esecuzione, per sbaglio involontario, ad esempio, di digitazione
sulla tastiera;
- lapse, anch'esso errore di esecuzione relativo all'immagazzinamento e recupero
dell'informazione, ad esempio il saltare un passaggio di una procedura o una
sequenza di azioni;
- mistake, errore di pianificazione, quando si sceglie una via sbagliata per risolvere un
problema.
Per comprendere meglio le differenze tra queste tre tipologie di errori, presentiamo tre
situazioni di vita che rappresentano altrettanti tipi di errore. La prima situazione può essere
quella in cui facciamo un regalo, ma appena chi lo riceve lo apre, capiamo che non è affatto
gradito, anche se la persona cerca di non darlo a vedere. La seconda situazione, invece,
può essere quella in cui compriamo due regali per due persone diverse, ma, quando
vengono aperti, ci accorgiamo di avere scambiato i pacchetti, cosicché ognuna delle due
persone riceve il regalo che era stato scelto per l'altra. La terza situazione può essere, infine,
quella in cui ci accorgiamo solo all'ultimo minuto di avere dimenticato un regalo che
avremmo voluto comperare per un compleanno o un'occasione importante e ci presentiamo
a mani vuote. Come attribuiamo le differenti categorie di errore proposte da Reason a questi
episodi? Esaminandoli possiamo dire che nel primo caso abbiamo eseguito correttamente
tutte le azioni previste nel nostro piano, che, però, era sbagliato in quanto era stato scelto il
regalo errato. Abbiamo perciò commesso un mistake. Nel secondo, il piano di azione era
corretto, ma una delle azioni condotte era sbagliata, avendo erroneamente scambiato i due
regali. Questo è un tipico errore slip. Nella terza situazione, il piano era corretto ma abbiamo
saltato una delle azioni previste nel piano, dimenticando di andare ad acquistare il regalo che
avevamo in mente. L'errore commesso in questo caso è di tipo lapse.
Una ulteriore categoria di errori sono quelle le violazioni, ossia quelle azioni deliberate
delle persone che decidono di non seguire le normali prassi o le procedure definite (ad
esempio, infrangere un protocollo, prendere una scorciatoia rispetto ad una procedura),
generalmente per inesperienza o per eccesso di fiducia nelle proprie capacità, fino ai veri e
propri sabotaggi.
Se gli errori sono in-intenzionali e aumentano con i problemi informativi, le violazioni
sono invece deliberate e sono formate prevalentemente dalle attitudini personali, dalle
credenze, da una cultura o sottocultura organizzativa che condiziona i comportamenti delle
persone, a scapito a volte della sicurezza (ad esempio, by-passare o manomettere i
dispositivi di sicurezza delle macchine per lavorare più facilmente o più in fretta): in
quest'ultimo caso, sono violazioni di buone norme o regole, che le persone eludono per
differenti motivi, come l'illusione del controllo (sono in grado di gestire la macchina o la
2
Non si intende riferirsi a nessuna tassonomia degli errori o produrne una in questo testo, seppur si
cercherà di definire le possibili diverse tipologie per presentare al meglio le argomentazioni di questo
scritto, in quanto questione molto controversa (si veda Catino, 2006, p.19).
37
situazione), di invulnerabilità (a me non succede niente), o superiorità (sono molto
competente), o conformismo (lo fanno tutti).
Se mettiamo in relazione i modelli di Reason e quello di Rasmussen, possiamo allora
differenziare gli errori secondo la tabella seguente:
Tipologie di
errori
Sotto
tipologie
Azione
Possibile causa
Lapse
Piano corretto ma azione
mancante.
Vuoto di memoria.
Slip
Piano corretto ma azione sbagliata
Dimenticanza o sbaglio
involontario.
Mistake
rule-based
Applicazione di una regola
inappropriata o scorretta
applicazione della regola giusta.
knowledgebased
Azione corretta ma piano
sbagliato.
Conoscenza inadeguata o
scorretta applicazione della
conoscenza.
Ricerca di una scorciatoia
Inesperienza o da eccessiva
fiducia nelle proprie capacità
Violazioni
Tabella 2: tipologie di errori
Merito degli studi di Reason è stato quello di voler superare i modelli comunemente usati
per analizzare gli errori, gli incidenti nelle organizzazioni: la spiegazione su quanto è
avvenuto può essere visto infatti dal punto di vista "politico" (cause dovute a policy
aziendali), oppure secondo il modello "tecnocentrico" (fallimento della tecnologia o della sua
"conduzione" da parte di attori organizzativi, per colpa o negligenza), o secondo il "modello
del fattore umano", che si concentra sulle persone e sulla specifica situazione di lavoro.
L'autore inglese reinterpreta la concezione dell'errore in una nuova prospettiva e insiste sulla
necessità di studiare i comportamenti umani in relazione ai contesti organizzativi, tecnologici
e culturali, in cui si riscontrano effettivamente. Approccio che anche Catino (2009, p.110)
sposa come
«una prospettiva teorica e di ricerca empirica che supera le precedenti argomentazioni,
sostenendo che gli incidenti sono sì prodotti, nella maggior parte dei casi, da errori
inintenzionali e da violazioni, ma questi errori e queste violazioni sono socialmente
organizzati, prodotti e riprodotti da strutture sociali nelle organizzazioni e tra le
organizzazioni. Gli errori e gli incidenti sono costruiti organizzativamente e non soltanto
da un errore umano o da un guasto tecnico. Questi eventi sono raramente determinati da
una singola causa (umana o tecnologica), ma piuttosto derivano da molteplici eventi
diversi che, entrando in relazione tra loro, causano un incidente. Si tratta di errori
organizzativi».
Questa linea interpretativa sposta il fuoco dell'analisi dal livello individuale a quello
organizzativo e interorganizzativo.
38
Reason allarga il campo di indagine di ciò che avviene e, in questo modo, amplia gli
elementi da tenere in considerazione in fase di progettazione di sistemi socio-organizzativi
che minimizzino il rischio sugli effetti indesiderati. Inoltre fa una distinzione importante tra
errori attivi e fattori che determinano un errore, i fattori latenti. Gli errori attivi sono atti insicuri
(errori o violazioni delle procedure), commessi dagli operatori di prima linea, i cui effetti sono
immediatamente percepiti e, dunque, facilmente individuabili. I fattori latenti sono invece
condizioni più che cause, presenti in tutte le organizzazioni, come lacune e falle delle
"difese", debolezze o mancanze create involontariamente da decisioni prese da manager,
regolatori, progettisti ecc., del sistema: attività come quelle manageriali, normative e
organizzative che possono essere associate all'errore pur essendo attività distanti (sia in
termini di spazio sia di tempo) da esso. Possono avere conseguenze più durevoli e più
devastanti degli sbagli, rimanendo silenti anche per lungo tempo, diventando evidenti solo
quando si combinano con altri fattori in grado di rompere le difese del sistema stesso.
Reason ha elaborato un modello che è detto "Swiss cheese model", che spiega anche
graficamente che i fattori indesiderati nelle organizzazioni possono avere spiegazioni cause
multiple: alcune fette di gruyére sono allineate in sequenza tra loro a indicare le barriere
organizzative a difesa dagli errori (grandi e piccoli che siano); se i buchi di ogni fetta sono
allineati tra loro, allora diviene più facile che si verifichi un fatto indesiderato, in quanto
passerà indisturbato tra le fette. Le azioni allora da svolgere saranno quelle di considerare
non una fetta sola, ma vedere il sistema nel suo complesso (tutte le fette assieme),
intervenire per evitare il più possibile perché i sistemi di controllo e difesa siano collegati tra
loro (per evitare che verifichino eventi che si "infilano" tra i buchi delle fette) e
contestualmente ridurre i "buchi" di ogni fetta, ossia ridimensionare il rischio di occasioni di
errori, guasti, ecc.
La lettura degli errori nelle organizzazioni deve dunque essere una lettura ampia e
sistemica, che comprenda diversi livelli di analisi (intra - organizzativo, organizzativo e inter –
organizzativo), intesi come "centri" potenziali di generazione dell'effetto indesiderato, oltre a
quello individuale. Un errore è commesso soltanto dall'operatore che lo agisce o, in
alternativa, l'errore è un fattore organizzativo, determinato da problemi a livello di pratiche e
processi complessi, di interfacce tecnologiche o da un clima interno non facilitante il lavoro?
Secondo l'approccio qui presentato gli effetti indesiderati (che sono, ricordiamo, di vario tipo,
dal danno economico a quello di reputazione, al danno fisico e ambientale) in
un'organizzazione non sono dovuti soltanto ad un errore isolato di una persona, ma sono,
spesso, determinati dall' accumularsi di difetti e lacune dei sistemi tecnologici e umani ed
anche dalla scarsa attenzione al miglioramento da parte di chi gestisce l'organizzazione.
Riguardo in particolare agli incidenti, Catino (2009, p. 113) afferma che
«nelle organizzazioni tanto più è ampio il numero di criticità organizzative, di difetti di
progettazione e di mancanze di controllo, tanto più è probabile che un'azione-decisione
umana errata attivi un incidente».
Considerare dunque gli effetti indesiderati come errori organizzativi ha delle implicazioni
in termini di disegno organizzativo, in particolare per quanto riguarda il funzionamento dei
processi di lavoro, nei sistemi di controllo e in quelli tecnologici. Ha anche conseguenze sul
management e sullo "stile" di gestione aziendale, ad esempio nell'adottare una logica
preventiva di individuazione dei possibili fallimenti potenziali. Vuol dire spostare l'attenzione
dall'efficienza (senza negarla, ovviamente) all'affidabilità: analizzare gli errori a qualunque
livello, senza minimizzarli, evitare interpretazioni che semplificano la situazione, ascoltare chi
ha esperienza (per la loro parte), impegnarsi a sviluppare la resilienza organizzativa. E come
ci indicano Weick e Sutcliffe (2007, trad .it 2010), avere come riferimento i principi delle
organizzazioni ad alta affidabilità (HRO).
39
Tutto ciò ha come base un'adeguata cultura organizzativa che faciliti l'apprendimento
organizzativo dagli errori, che non inneschi la caccia al colpevole, la blame culture, come
viene chiamata, alla ricerca del capro espiatorio, come avviene sovente nelle aziende. Le
organizzazioni ad alta affidabilità non sanzionano le persone quando sbagliano, ma studiano
quello che è successo e, a volte, premiano chi esce allo scoperto per ammettere un errore,
un mancato controllo o perché hanno considerato poco rilevante un piccolo segnale
(minimizzandone la portata). Approfondiamo ora l'aspetto della cultura relativa agli errori, in
particolare nell'ambito delle organizzazioni.
3. La cultura della "colpa degli errori" nelle organizzazioni
Ma come vengono gestiti gli effetti indesiderati nelle organizzazioni ? Che ruolo gioca la
cultura organizzativa nei comportamenti attivati a fronte di un errore? Sappiamo dagli studi di
Reason (1990, trad.it 1994) che il tema è analizzato nelle organizzazioni secondo la "lente di
ingrandimento" scelta da chi ha responsabilità: quella "politica", quella "tecnocentrica"
oppure il "fattore umano". In particolare quest'ultimo è molto spesso utilizzato, come
scopriamo attraverso i mezzi di informazione, ad esempio, nei casi eclatanti (incidenti,
disgrazie, ecc…).
«L'idea che gli errori e gli incidenti siano generati da un errore umano e/o da un guasto
tecnico si basa su un dualismo newtoniano-cartesiano, inadeguato a render conto di
eventi complessi che accadono all'interno delle organizzazioni. In base a questa
inadeguata concezione dualistica il mondo mentale è separato dal mondo materiale
(Cartesio) e per ogni evento vi deve essere una causa e una soltanto (Newton). Come la
ricerca empirica ha ampiamente dimostrato nel corso di questi ultimi vent'anni, una
concezione basata soltanto sull'errore umano non è all'altezza della complessità degli
eventi che intende spiegare e, se l'analisi non è adeguata, ne consegue che non lo
saranno le soluzioni di rimedio individuate»
afferma Catino (2009, p.112) e le molte evidenze derivanti dalla ricerca, dallo studio degli
eventi accaduti, dall'analisi delle contro-deduzioni sulle conclusioni delle commissioni di
inchiesta, nei casi di incidenti gravi, hanno fatto dichiarare a molti studiosi a livello
internazionale che gli errori sono generati da un sistema più ampio di cause e di fattori diretti
ed indiretti che facilitano, eventualmente, l'attore "finale" a commettere uno sbaglio.
Abbiamo già indicato nel paragrafo precedente questo aspetto, che riprenderemo
comunque anche oltre. Il modello di esame degli errori adottato dalle persone nelle
organizzazioni, in particolare da chi ha ruoli decisionali e/o tecnici relativi ai fatti, ne
determina la lettura: chi usa un modello di causalità lineare, come nei casi delle spiegazioni
politiche, tecno-centriche o del fattore umano, non considera l'organizzazione e non adotta
una visione sistemica non lineare. In particolare, la visione tecno-centrica o trova il danno
prodotto da un sistema/una macchina oppure scarica la colpa sulla negligenza di chi quelle
tecnologie doveva usare, ossia le persone. Così come l'errore è sempre umano nel caso si
legga il tutto come una disattenzione o la troppa confidenza dell'essere umano. Anche nel
caso della "lettura" politica, che propone spiegazioni come il risparmio dei costi, la penuria di
persone, ecc. ci si focalizza sugli errori e sulle mancanze degli individui, con la conseguenza
che si ricerca a chi attribuire la colpa, spostando all'eventuale processo giudiziario il compito
di "certificare" la colpevolezza di una o più persone. L'esito è sempre, nei diversi casi con
differenti gradi di applicazione, che, se la persona è colpevole, va rimossa o sanzionata, in
quanto "mela marcia". Un approccio che non cambia lo stato delle cose: il rischio di un errore
ulteriore rimane sempre in agguato! Si isolano gli errori dal loro effettivo contesto e si
40
accendono i riflettori su una o più persone e si giudica (e spesso si condanna seduta
stante!). Non migliora l'organizzazione, non si modificano le procedure e non apprendono le
persone, in quanto non si eliminano le condizioni di rischio e non si esclude la possibilità che
uno stesso evento possa ripetersi con altri attori. Inoltre, si genera un senso di paura per le
sanzioni (materiali o immateriali) e le controversie legali, "appesantendo" il clima aziendale.
«Chi ha sbagliato? Chi non ha rispettato la scadenza? Chi sta remando contro? Quando
ci poniamo domande come queste, di fatto cerchiamo un capro espiatorio, qualcuno cui
attribuire la colpa».
Così scrive Miller (2004, trad. it 2005, pag. 49), in un agile e operativo libro sull'agire
responsabile, proponendo che una delle principali attività delle persone nelle organizzazioni
(americane, nei suoi riferimenti, ma crediamo sia un elemento esportabile) sia il
blamestorming, ossia il lamentarsi continuamente. E, come osserva Iacci (2015, pag.1),
«in un momento di difficoltà e precarietà come quello che stiamo vivendo, i casi di capro
espiatorio nelle imprese si stanno moltiplicando. Non sto parlando di mobbing, né di
soprusi da parte delle gerarchie, fenomeni che purtroppo esistono, ma sono altra cosa.
Sto parlando di un fenomeno purtroppo normale, all'interno dei gruppi di lavoro, anche
se talvolta violento e comunque sempre disdicevole».
La cultura della colpa attribuita a qualcuno è la realtà che ci troviamo come consulenti a
scoprire in molte organizzazioni, anche se non in tutte. Non svilupperemo il tema del capro
espiatorio, che ha molti versanti interpretativi3, perché sarebbe necessario uno specifico
spazio per l'approfondimento che non abbiamo: cercheremo solo di definire i confini del tema
dal punto di vista culturale, per far cogliere il quadro complessivo in cui si inseriscono le
persone e le organizzazioni.
L'antropologa sociale Mary Douglas in Rischio e colpa (1992) evidenzia come il
processo di attribuzione della colpa, in particolare per eventi disastrosi, getta luce sul patto
sociale che regge una comunità e sulle strategie messe in atto per difenderla dai nemici
interni ed esterni. L'autrice, che nelle sue opere ha posto in evidenza l'importanza delle
istituzioni sociali nell'influenzare le elaborazioni mentali dei membri, mette in rilievo come
qualunque società non può sussistere se i suoi membri non condividono pensieri e strutture
di riferimento, comprese la percezione del rischio e le categorie di colpa. La sua analisi dei
processi sociali di attribuzione di colpa (blaming) dopo eventi catastrofici (disastri ambientali,
calamità naturali, gravi malattie, epidemie, ecc.), sia in società primitive, sia nella nostra
società occidentale, mostra la relazione fra sistemi sociali, razionalità delle credenze rispetto
ai nessi causali e rappresentazioni simboliche dell'ambiente naturale. Dunque ogni società
elabora proprie soluzioni per la definizione dei pericoli e delle responsabilità attribuendo la
colpa a:
- i soggetti socialmente più "deboli", se sono società individualistiche, come le aziende4
che hanno come riferimento culturale il mercato e premiano le persone di successo
per le loro qualità personali, in particolare per la leadership, e che ci si aspetta che
somministrino punizioni anche morali ai soggetti che minacciano la loro autorità;
3
Per approfondire il tema si possono, ad esempio, consultare un classico sul tema, quello
dell’antropologo e filosofo francese René Girard (1982), la lettura della psicologa analitica Sylvia
Brinton Perera (1986) e, in ambito organizzativo, lo studio di Giuseppe Bonazzi (1983) e il saggio di
Chiara Sebastiani (1995); si veda la bibliografia di questo testo.
4
Il modello di analisi presentato, tratto dagli studi della Douglas, correla, solo a scopo esemplificativo,
tipologie di società con categorie di organizzazioni; sono due specie di organismi in cui avvengono
fenomeni culturali, sociali ed organizzativi complessi, per cui non è possibile essere deterministici
nelle correlazioni e non è detto comunque che ogni organizzazione sviluppi meccanismi di attribuzione
della colpa.
41
- ai "devianti", se sono società gerarchiche, come le organizzazioni burocratiche,
legate alle procedure, alla routine, alla fedeltà e al sostegno del gruppo rispetto al
singolo, che hanno una cultura della punizione morale basata sulla tradizione (ossia
regole basate su valori gerarchici), attraverso la minaccia di isolare la persona;
- agli estranei, se sono società chiuse, come ad esempio le organizzazioni volontarie,
basate sulla partecipazione dei membri, società che hanno come obiettivo psicologico
latente quello della sopravvivenza del gruppo e che spostano la colpa sul "mondo
esterno" o sulle eventuali fazioni interne, accusando di slealtà le persone.
Parlando di organizzazioni che sono maggiormente rappresentabili dal primo modello di
analisi, possiamo riprendere quanto raccontato da Dattner (2001, pag. 116):
«Secondo la mia esperienza, quando un'azienda è pervasa dall'ossessione di scovare e
redarguire i colpevoli, in genere questa tendenza si diffonde dall'alto, dal top
management, oppure si consolida in un lungo periodo di tempo … In verità, l'ossessione
della colpa può impedire di identificare le vere cause dei problemi, che possono essere
strutturali, ad esempio un difetto dei sistemi informatici o una serie di fattori
macroeconomici o di mercato che esulano dal controllo di chiunque».
Soprattutto quando il periodo storico è simile a quello che stiamo vivendo negli ultimi
anni, un periodo di forte crisi socio-economica, sarebbe necessario, come abbiamo già visto
nei paragrafi precedenti, che il clima interno alle aziende fosse imperniato sulla fiducia, la
collaborazione, per affrontare al meglio il periodo e migliorare la situazione dell'azienda. Il
processo "fiduciario" nelle organizzazioni deve essere visto come un processo dinamico ed
evolutivo, anche determinato da come si trasformano i presupposti di base, passando dalla
condivisione cognitiva a quella emotiva e affettiva.
«La fiducia può evolvere rafforzandosi, passando cioè da una base cognitiva a una
condivisione emotiva e affettiva con l'altro; tuttavia questo processo potrebbe anche far
declinare la fiducia in senso negativo». (Farnese, Barbieri, (2010, p. 25)
E, come richiamato dalle autrici, la fiducia nelle organizzazioni ha quindi tra le sue
funzioni fondamentali quella del controllo delle regolazioni delle interazioni sociali, per cui gli
«stili di leadership che tendono ad attribuire fiducia e responsabilità ai propri membri
forniscono, a differenza di sistemi basati sull'attribuzione di punizioni e ricompense,
diverse e più ampie modalità di accertamento, non limitate alla verifica dell'adempienza a
quanto concordato». (ibid., pag.62)
A conferma dell'importanza del ruolo della fiducia e del rapporto che ne ha chi sta al
vertice, Davenport e Prusak (1998, trad.it. 2000) individuano la prima come uno dei fattori
basilari per creare lo sviluppo del knowledge interno alle organizzazioni. Per favorire la
fiducia bisogna, secondo gli autori, accrescerla in tre modi: il primo, renderla visibile,
operativamente, favorendo e premiando lo scambio di conoscenza; il secondo, diffonderla, in
modo che non sia asimmetrica; il terzo, appunto, il ruolo della credibilità dell'impegno del
vertice:
«nelle organizzazioni, la fiducia tende a essere trasferita verso il basso. L'esempio
fornito dai livelli superiori di management definisce le norme e i valori dell'intera azienda.
Se il vertice è credibile e affidabile, la fiducia si diffonde fino a conquistare tutta
l'organizzazione … I valori del vertice vengono espressi attraverso segnali, segni e
simboli». (p. 43)
42
Ci sembra ora necessario richiamare il concetto di cultura organizzativa, finora sempre
accennato in questo testo, prendendo a riferimento quanto elaborato da Schein (si veda in
particolare 1985, trad.it. 1990), per cui la si può intendere come l'insieme degli assunti di
base (credenze, assunti impliciti), valori e artefatti che regolano i modelli di comportamenti
delle persone, ossia indicano come percepire, pensare, sentire e intervenire sulla realtà,
insieme che si è rivelato funzionale all'andamento dell'azienda. La funzione della leadership
in questo quadro è per l'autore americano quella di gestione della cultura organizzativa, per
altri autori (si veda Avallone, Farnese, 2005) di orientamento delle interpretazioni che si
generano nell'azienda in termini simbolici. In ogni caso, appare chiaro come una modalità di
gestione degli errori organizzativi che sfoci in una ricerca e attribuzione della colpa risulti non
solo un segnale, ma anche un segno in quanto significante e soprattutto come significato e
fattore simbolico che permea la cultura organizzativa. Solo chi ha la possibilità di orientare le
interpretazioni può trasformare, a livello organizzativo, la percezione dell'errore come colpa
attribuendogli invece la valenza di opportunità.
4. L'opportunità di apprendimento dagli errori
Gestire l'errore come opportunità vuol dire avere una cultura organizzativa (e una
leadership) che premia i comportamenti non orientati a nascondere gli errori o ad auto
tutelarsi, magari accusando altri, ma che facilita la fiducia, la condivisione e la circolarità
della conoscenza anche riguardo agli effetti indesiderati che si presentano in azienda:
comportamenti evolutivi per le persone e quindi per l'organizzazione, quali presupposti per la
generazione di valore in tutti i sensi. Nelle realtà lavorative la focalizzazione della tematica
dell'errore richiede, come già indicato, una visione d'insieme ed un approccio sistemico.
Identificando e analizzando le correlazioni e interazioni tra individuo e contesto è possibile
non solo gestire l'errore ma anche utilizzarlo proficuamente come fattore di apprendimento e
di miglioramento. La ricerca del colpevole dell'errore induce non solo nelle persone
comportamenti di pura autotutela, ma anche, come conseguenza, dis-apprendimento e
inerzia organizzativa.
Molte ricerche e analisi di studiosi, come riportato nei paragrafi precedenti, hanno
evidenziato come il meccanismo di ricerca sistematica dell'errore per individuare
prontamente gli scostamenti, come proposto dalla cultura della sicurezza e del risk
management, non è di per sé sufficiente a promuovere la consapevolezza organizzativa di
tutti gli attori. Le ricerche condotte anche in Italia hanno infatti messo in evidenza la
necessità di costruire modelli organizzativi e sistemi di gestione che pongano in primo piano
le persone, per promuovere il superamento della blame culture ed arrivare ad una cultura
dell'apprendimento, in cui si considerino gli errori come occasioni di crescita organizzativa.
Un errore impatta, in genere, su due diversi ambiti, la sicurezza e i risultati: nel primo ambito,
l'errore viene affrontato più tipicamente attraverso le esigenze di compliance alla normativa,
primariamente al fine di garantire le condizioni di sicurezza dei lavoratori, secondariamente
per non incorrere in esiti sanzionatori. Nel secondo ambito, l'errore può essere affrontato con
un approccio orientato al mantenimento/miglioramento di efficacia ed efficienza. In entrambi i
casi, si agisce operativamente e in termini di segnali, segni e simboli con messaggi che
incrementano, consolidano o favoriscono comunque la blame culture e la ricerca del
colpevole dell'errore. Si guarda spesso al passato, si isolano gli errori dal loro contesto, si
scompongono i fattori diretti ed indiretti, non si crea un senso di quanto accaduto, e questo
non favorisce i ritorni d'esperienza e quindi, non si favorisce l'apprendimento organizzativo e
il miglioramento dell'organizzazione. Ogni effetto indesiderato che si verifica in
un'organizzazione dovrebbe essere analizzato e discusso, incoraggiando momenti di
43
apprendimento, che le persone possano percepire come spazi d'azione e non di
"amministrazione della giustizia". E i confini sono labili: è facile trasformare una pratica che
aveva buone intenzioni in una che rappresenti simbolicamente il suo opposto (e nei corridoi
si potrebbero sentire frasi del tipo sei andato a giudizio?): se non si lavora sulla cultura
organizzativa con attenzione, con azioni visibili a tutti e che arrivano dai veri "opinion leader"
aziendali, si confermano le percezioni di partenza, invece di modificarle.
Ma quali sono i presupposti che fanno virare un'organizzazione verso una cultura che,
come ci indica Catino (2009, pag.116), è stata, ad esempio, definita dall'ICAO (International
Civil Aviation Organisation) come la Just Culture,
«… ovvero una cultura in cui gli operatori di front-line non vengano puniti per le azioni, le
omissioni o per le decisioni commisurate alla loro esperienza, ma esclusivamente per gli
atti di negligenza, le violazioni e le azioni distruttive considerate non tollerabili».
Oppure si può guardare alle HRO, le organizzazioni "ad alta affidabilità", di cui si è già
accennato, che riescono ad operare in modo ottimale anche in condizioni di grande
complessità, con un livello di errori molto basso - si pensi a centrali o portaerei nucleari, ma
non solo -, e che riescono a "governare l'inatteso", come recita il titolo del libro di Weick e
Sutcliffe (2007, trad.it 2010). A pagina 3 gli autori scrivono
«se proponiamo di prendere tali organizzazioni come punto di riferimento, non è perché
esse possiedano la soluzione, ma perché lottano continuamente per trovarla».
E, a pagina 25,
«in ogni organizzazione si fanno cose che ci si aspetta di continuare a fare in modo
affidabile, e per le quali l'interruzione imprevista può diventare disastrosa se la gestione
dell'inatteso è mediocre. Questa possibilità nelle HRO è al centro dell'attenzione più che
nelle altre organizzazioni. Ma è una possibilità che incombe comunque su tutti i sistemi
organizzativi. Ogni organizzazione, non solo le HRO, sviluppa convinzioni culturalmente
accettate rispetto alla realtà e ai suoi pericoli, insieme ad una serie di norme
precauzionali, precetti, linee guida, descrizioni di mansioni e materiali per la formazione,
nonché voci informali di corridoio. E tutte le organizzazioni accumulano eventi che
passano inosservati e sono in contrasto con le convinzioni diffuse… le HRO sviluppano
credenze complesse riguardo alla realtà, ma le correggono più spesso di quanto
facciano le altre organizzazioni. Ugualmente, le HRO sviluppano norme precauzionali
come ogni altra organizzazione, ma a differenza delle altre utilizzano sia i piccoli eventi
critici sia i punti deboli che sono la conseguenza del successo come elementi per
sviluppare tali precauzioni. E, come ogni altra organizzazione, anche le HRO
accumulano eventi inosservati che sono in contrasto con ciò che è atteso. Tuttavia
tendono ad accorgersi prima di questo processo di accumulo, quando le proporzioni
sono ancora modeste».
L'approccio agli effetti indesiderati differenzia dunque le organizzazioni tra quelle che li
usano per fare apprendimento organizzativo5 e quelle che non lo fanno, quelle che
definiscono e affrontano errori intesi come problemi organizzativi e quelle che invece
prendono in considerazione solo sbagli personali e, caso mai, tecnologici. Noi crediamo che
si possa transitare verso organizzazioni che apprendono dagli errori: i diversi effetti
indesiderati che avvengono nelle aziende sono opportunità di migliorare processi, sistemi e
competenze delle persone. Prendiamo ad esempio il racconto di Dattner (2011, pag. XXV):
5
Usiamo il termine apprendimento organizzativo in senso generale, senza voler entrare nel dibattito
sulla sua natura e caratterizzazione; si vedano, tra gli altri, Vino (2001) e Fabbri (2003).
44
«Una società immobiliare mi incaricò di condurre alcune sessioni per creare un clima
collaborativo fra architetti, ingegneri e manager che stavano per avviare la costruzione di
un innovativo edificio ecologicamente sostenibile. Il proprietario della società, che aveva
maturato molti anni di esperienza seguendo progetti edilizi di ogni genere, aveva
scoperto che rinsaldare i rapporti tra il gruppo dei dipendenti all'inizio di un progetto è un
ottimo modo per prevenire il gioco della colpa, poiché è praticamente inevitabile che con
l'andar del tempo si sia tentati di puntare il dito gli uni contro gli altri… Voleva creare un
ambiente di fiducia in cui le persone risolvessero i problemi invece di colpevolizzarsi tra
loro. Gettando le opportune fondamenta per la collaborazione avrebbe così reso assai
più probabile il successo finale. In seguito, quando infatti sorsero alcune difficoltà, i
diversi team di lavoro riconobbero i propri errori e si aiutarono reciprocamente a risolvere
i problemi con uno spirito costruttivo».
Un caso di "prevenzione" attuato lavorando sulle competenze delle persone. Ma si può
anche lavorare sui processi, le procedure e le prassi, così come sui sistemi e gli strumenti
che vengono utilizzati. Per esemplificare relativamente alle procedure, riportiamo quanto
scrive Norman (nuova ed. 2013, trad. it. 2015, pag.188-9):
«Una volta ho esaminato una serie di incidenti in cui operai superspecializzati di
un'azienda elettrica erano rimasti fulminati dall'alta tensione durante lavori di
manutenzione. Tutte le commissioni di inchiesta avevano incolpato degli incidenti gli
operai, conclusione che neppure le vittime sopravvissute contestavano… Le
commissioni d'inchiesta non si era spinte fino a trovare le cause profonde degli incidenti,
né avevano mai considerato la possibilità di riprogettare i sistemi e le procedure, in modo
da rendere impossibili o molto meno probabili gli infortuni … Non mi fu difficile suggerire
all'azienda elettrica semplici cambiamenti delle procedure che avrebbero prevenuto la
maggior parte degli incidenti».
E, come scrive qualche riga più avanti, «Se il sistema ci lascia sbagliare, è mal
progettato. Se poi ci induce a sbagliare, è progettato malissimo».
Se parliamo di strumenti, prendendone in considerazione uno che conoscono tutti, il
bancomat è progettato per evitare che si dimentichi la tessera, obbligandoci a prenderla
prima di ritirare i soldi: si previene la possibilità di dimenticanze, progettando lo strumento
pensando alla sua funzionalità complessiva non solo dal punto di vista tecnologico. E gli
incidenti, gli errori di vario tipo sono segnali che ci permettono di migliorare l'organizzazione:
vanno quindi analizzati come occasioni "incrementali", ossia come opportunità di rivedere
processi, procedure, prassi, così come sistemi, strumenti e segnaletica, ma anche i
comportamenti e competenze.
5. L'approccio PSC
Gli effetti indesiderati nelle organizzazioni molto raramente sono determinati da una
singola causa (tecnologica o umana) ma derivano da fattori diversi e dalle loro interrelazioni,
provocati da atti prodotti e riprodotti nelle organizzazioni e tra le organizzazioni in
collegamento tra loro (le aziende coinvolte nella catena fornitori/ clienti). Riprendendo quanto
presentato nei paragrafi precedenti, si può dire che:
- le situazioni predisponenti agli effetti indesiderati, indipendentemente dalle persone
che commettono errori o violazioni, vanno considerati fattori latenti a livello
organizzativo;
45
- maggiori sono le criticità a livello inter-organizzativo, organizzativo e intraorganizzativo, più è probabile che un errore individuale attivi un effetto indesiderato;
- l'errore umano frequentemente rappresenta solo il fattore scatenante, e non la
genesi, dell'effetto indesiderato;
- i cambiamenti limitati al solo livello individuale non modificano le condizioni di rischio
presenti negli altri livelli e quindi mantengono immutate le possibilità che l'effetto
indesiderato si ripeta.
Per questo gli autori agiscono come équipe che interviene nelle organizzazioni clienti
secondo la logica che i provvedimenti di "rimedio" devono necessariamente coinvolgere i
livelli intra - organizzativo, organizzativo e inter - organizzativo, intesi come ‘centri generatori'
dell'effetto indesiderato, secondo un approccio che si è denominato PSC. L'acronimo indica
le tre direzioni su cui si concentra il lavoro di analisi, diagnosi e consulenza: l'aspetto della
struttura organizzativa (processi, procedure e prassi adottate), quello dei sistemi (sistemi
informativi e strumenti utilizzati) e la parte "soft" (clima interno, competenze e comportamenti
degli attori). Il perimetro di intervento è di volta in volta definito con la committenza, ma lo
sguardo è quello di chi guarda con un'ottica sistemica all'organizzazione, non solo al suo
interno ma anche alle interazioni con le altre aziende coinvolte nella filiera produttiva e di
vendita. Riprendendo le riflessioni di studio e di applicazione a livello internazionale, che
abbiamo cercato di riassumere nei paragrafi precedenti, l'approccio PSC li rielabora in un
intervento operativo sui fattori "latenti" e i fattori "attivi": si analizzano le "potenzialità" dei
fattori indesiderati e si interviene su di essi, partendo da una lettura sistemica
dell'organizzazione e del suo ambiente di riferimento, utilizzando preliminarmente un
questionario che permette agli attori aziendali coinvolti di esaminare la situazione della loro
organizzazione. Si analizzano poi i fattori a vari livelli.
- A livello inter-organizzativo: livello in cui si possono determinare situazioni che
possono fare insorgere criticità tra le organizzazioni con cui un'azienda interagisce
(fornitori, concorrenti, enti di controllo, ecc.), in relazione alle differenziazioni
(specialistiche, strategiche, culturali) ed al grado di integrazione. Il focus è sulla rete
organizzativa, sulle connessioni e sulle modalità di differenziazione e integrazione dei
diversi attori coinvolti nel funzionamento del sistema.
- A livello organizzativo: i processi organizzativi, i sistemi, le strategie, nonché la
cultura presente costituiscono i fattori determinanti per la garanzia del funzionamento
sicuro e coerente di tutte le attività. Dimensioni particolarmente critiche sono
rappresentate dalle azioni e decisioni manageriali, il sistema di coordinamento e
controllo, il sistema di gestione e sviluppo delle RU.
- A livello intra-organizzativo: nei contesti specifici in cui agiscono le persone la
focalizzazione è sulle interazioni uomo-macchina, uomo-strumento e uomo-sistema,
sulla cooperazione, sulla comunicazione e sul coordinamento. Il controllo è un
aspetto particolarmente importante: le situazioni più critiche sono le "interfacce" tra le
attività, dove non sempre sono chiaramente definiti limiti e responsabilità d'intervento
delle persone.
A livello trasversale si analizzano i fattori attivi, le persone, individuando la tipologia di
errore, potenziale o in essere, per poi intervenire con azioni mirate e/o preventive. Il focus è
sulle relazioni tra le intenzioni delle persone, le loro aspettative e le situazioni con cui
interagiscono, che sono, alcune volte, "ambigue": informazioni incomplete, sistemi non ben
progettati, clima interno non favorevole, possono "ingannare" le capacità cognitive dell'attore
organizzativo.
46
Nelle analisi svolte nelle organizzazioni clienti e in quelle in cui abbiamo avuto la
possibilità di testare i nostri strumenti, abbiamo raccolto alcuni esempi emblematici di fattori
attivi:
- in un'azienda italiana facente parte un gruppo industriale straniero, ci è stato
presentato il caso di un errore attenzionale (slip) relativo all'inserimento scorretto del
valore di un'offerta in una gara, che ha causato un danno economico di una certa
entità all'azienda. Errore umano, si, ma quanto reso possibile dal sistema
informativo? Sicuramente un sistema progettato secondo una logica non antropocentrica, per dirla con Norman, ed anche un "sistema" di controllo, non solo
"meccanico", ma organizzativo non adeguato;
- in una delle sedi italiane di una multinazionale logistica per il trasporto merci su aereo
e nave, è capitato che in magazzino venisse scambiata l'etichettatura di due
spedizioni per lo stesso destinatario, verso due diverse città della stessa nazione in
Oriente. Bisogna guardare oltre all'errore attenzionale (slip), che ne è solo il fattore
attivo, per prevedere contromisure, come ha previsto l'azienda, che aumentino le
informazioni dagli uffici al magazzino e il coordinamento tra le parti
dell'organizzazioni;
- nella sede italiana di una multinazionale della preparazione alimentare, ci hanno
esposto un rule-based mistake, legato allo smantellamento della pannellatura
dell'atrio fatto in orario di pausa pranzo, ossia nell'ora di maggior passaggio, con un
maggior impatto sulla sicurezza delle persone; un fattore indesiderato che si attiva
non solo nella fase di esecuzione ma anche di pianificazione dell'intervento, che
supera regole e procedure interne, interrogando l'azienda sulle competenze attivate
dagli operatori ma anche sui sistemi di coordinamento e controllo interno.
Abbiamo escluso dagli esempi esposti i casi raccolti riguardanti le violazioni, ossia i
"fattori volontari" che hanno fatto si che le persone intenzionalmente violassero le regole
aziendali o le procedure certificate, per, ad esempio, ottimizzare il proprio lavoro.
Analogamente sono diverse le situazioni raccolte, trasversalmente a diverse realtà
organizzative, che hanno determinato effetti indesiderati, senza che vi siano stati fattori attivi
(almeno come li abbiamo qui definiti), con la presenza invece di fattori che comunque
determinano "inconvenienti" nelle aziende:
- l'uso dei sistemi informativi talvolta rallenta e complica lo svolgimento dei processi
lavorativi: non sono infrequenti le testimonianze che abbiamo raccolto nelle aziende
sul loro "sottoutilizzo" e/o sul ricorso a prassi alternative (come, ad esempio, inserire
dati fittizi per andare avanti nelle schermate proposte dal sistema), nel caso in cui i
sistemi prevedono logiche e vincoli che rendono le persone poco confidenti con essi;
- si producono scarti/difettosità/sprechi di materiali che potrebbero essere evitati:
abbiamo potuto verificare che l'inadeguatezza dei controlli e i comportamenti
abitudinari contribuiscono in modo significativo a mantenere relativamente elevata
l'inefficienza;
- le persone non conoscono precisamente il flusso delle attività in cui sono coinvolti:
abbiamo riscontrato spesso nelle organizzazioni che le persone sono focalizzate sul
proprio compito e hanno difficoltà ad "alzare la testa" per acquisire visibilità e
consapevolezza del processo in cui si collocano i loro contributi;
- gli strumenti che si utilizzano non sono calibrati per le attività da svolgere: abbiamo
incontrano contesti lavorativi "tecnologicamente superdotati" a fronte di fabbisogni
reali molto più contenuti, con conseguenti negatività nell'ammortamento degli
investimenti fatti e minor supporto per l'operatività.
47
L'intervento presso una piccola impresa della produzione del settore carta/cartone,
ancora in corso, permette di vedere, più facilmente, il funzionamento complessivo e quindi
tutti i fattori attivi e latenti "in gioco". Questa consulenza ha messo in evidenza che gli effetti
indesiderati presenti sono differenti e legati sì a fattori attivi, relativi ai comportamenti delle
persone (ad esempio, imprecisione dell'assegnazione delle etichette dei colli da consegnare
al corriere), ma soprattutto a fattori organizzativi che determinano la presenza costante di un
"rischio" errore: l'organizzazione per processi e le responsabilità attribuite risultano non
adeguate per poter evitare problemi quali, ad esempio, ritardi, consegne non precise e non
controllo del saldo delle fatture. Un caso particolare di mancato controllo interno del
materiale consegnato dal fornitore e poi lavorato, ha portato al rischio di perdere un cliente
storico, avendogli causato un lungo intoppo alla linea di produzione. Un problema, quindi,
che si è verificato in fase iniziale della filiera di approvvigionamento, produzione e consegna,
prodotto dalla mancata "attivazione" del sistema di controllo interno, che non ha colto i
"segnali deboli" legati alla qualità del materiale, determinando così un danno a un cliente,
prolungato dal fatto che non è stato facile capire l'origine del problema e quindi rimediarvi a
breve.
L'approccio PSC si basa su un'ottica in cui si guarda all'organizzazione in modo ampio e
il più possibile sistemico e opera secondo la logica dell'apprendimento organizzativo: lavora
per cambiare le condizioni all'interno delle quali le persone agiscono. Le persone sono eredi
delle imperfezioni del sistema complessivo, pertanto l'approccio PSC intende accrescere le
condizioni di affidabilità delle aziende clienti. Gli interventi tendono a eliminare i possibili
fattori latenti e le criticità all'origine dei fattori indesiderati (dalla perdita di business
all'incidente), al fine di evitare che il futuro altri errori possano accadere. Come abbiamo visto
i danni in azienda sono la conseguenza di "eventi" anche singoli oppure di una catena di
"mancanze", per la carenza di sistemi di difesa di tipo tecnologico o di controlli umani, ma
anche per flussi informativi di processo non adeguati, la scarsa "abitudine" a lavorare in
modo interfunzionale (indotta magari da una strutturazione organizzativa che porta alla
parcellizzazione del lavoro), fino ad una competenza inadeguata degli attori organizzativi, di
qualunque livello, rispetto alla gestione dell'inatteso e/o della complessità intra ed interorganizzativa. La "piattaforma culturale" su cui si basano gli interventi è, come già indicato,
quella della promozione dell'apprendimento organizzativo, per rendere l'azienda in grado di
intervenire in futuro sull'adattamento alle nuove condizioni delle soluzioni organizzative in
precedenza individuate. Avendo attenzione al piano simbolico e alla dimensione culturale,
negli interventi attuati si è scelto di denominare gli errori come fattori indesiderati per
l'organizzazione, proprio al fine di ovviare a quella "naturale" ed etimologica (si veda il
paragrafo 2) etichettatura in senso negativo che la parola errore ci pone di fronte, nel suo
versante di uscita dalla via retta con annesso senso di colpa. Non abbiamo la pretesa di
poter cambiare le condizioni culturali rispetto al tema della colpa e al senso di colpa in cui
come occidentali ci troviamo immersi - si veda Girard (1982) per questo - ma vogliamo dare
un segno, soprattutto agli influenzatori aziendali, che si propone e progetta un intervento
consulenziale con un approccio che prende le distanze da meccanismi quasi automatici di
"caccia al colpevole" e da soluzioni rapide, ma semplicistiche e poco efficaci, che non
generano alcun apprendimento dell'organizzazione. Le domande-stimolo a volte sfidanti che
poniamo ai responsabili organizzativi sono legate alla loro capacità di organizzare la propria
struttura non solo in funzione dell'efficienza, ma anche in funzione dell'affidabilità, alla
capacità di trasformare un'organizzazione in un'azienda che apprende effettivamente anche
dagli effetti indesiderati verificatisi.
Supportare le aziende clienti affinché l'evoluzione organizzativa abbia anche come base
l'apprendimento dagli effetti indesiderati è l'obiettivo dell'approccio consulenziale PSC, che
vede l'"errore umano" come un punto di partenza per facilitare la crescita del sistema
48
organizzativo (anziché come la conclusione di una "indagine") e che individua i punti "deboli"
del sistema azienda come possibili fattori di sviluppo.
6. Conclusioni
Nell'attuale scenario produttivo e di mercato, profondamente modificato negli ultimi anni,
si è verificato che le aziende più resilienti sono improntate a valori di apertura e fiducia
interna e caratterizzate dalla disponibilità a rimodularsi progressivamente apprendendo
dall'esperienza.
In questa logica, analizzare quelli che abbiamo definito gli effetti indesiderati, termine che
per noi connota in senso ampio tutti gli scostamenti dagli obiettivi auspicati, ci sembra più
funzionale che individuare gli errori solo in occasione di conseguenze eclatanti, limitandosi a
considerarne i fattori attivi, trascurando di riconoscere i fattori latenti che ne costituiscono il
sostrato. L'attribuzione dell'etichetta "errore umano", che viene attribuita quale causa alla fine
di molte analisi interne alle organizzazioni (così come in quelle "pubbliche"), dà una
spiegazione che non risolve l'effetto indesiderato, che, dopo qualche tempo, generalmente si
ripresenta. Se si analizza in senso più ampio l'accaduto (a diversi livelli, organizzativi e/o
inter-organizzativi), per cogliere le diverse "sfaccettature" del fatto accaduto, si possono
individuare dei correttivi grazie ai quali difficilmente esso si ripresenterà. E, come si può
capire, non basta rispondere preventivamente con sistemi informativi più pervasivi o con
sistemi di qualità sempre più ampi: si potrebbe parlare di "illusione normalizzatrice", ossia di
speranza che le procedure in qualità e informatizzate riducano del tutto i rischi di errori o altri
esiti negativi; la realtà organizzativa è dinamica e non può essere normalizzata, piuttosto
orientata verso un apprendimento continuo dagli effetti indesiderati che si sono presentati.
Inoltre l'etichetta "errore umano" porta con sé implicazioni colpevolizzanti, producendo
meccanismi di ricerca del capro espiatorio, e reazioni difensive e di chiusura che bloccano
l'apprendimento individuale e organizzativo. Di fatto viene alimentata una cultura aziendale
basata su preconcetti negativi e interazioni intrappolate nel circolo vizioso della colpa,
improntata al timore e all'accusa invece che alla fiducia e alla risoluzione dei problemi.
Come ci racconta Bergami (2015), esistono realtà aziendali che riescono, partendo dal
lavoro sugli errori, a trasformarli in innovazione, grazie alla logica dell'apprendimento
organizzativo. Vi sono organizzazioni impegnate nel loro percorso di miglioramento continuo
e aziende che invece sono imprigionate nella caccia alla colpa. Pensiamo che la fiducia nelle
organizzazioni sia un patrimonio imprescindibile e l'apprendimento derivante degli effetti
indesiderati un modo per tenerla viva o ri-attivarla, dando un senso aggiuntivo al lavoro che
le persone svolgono, un senso migliorativo e non solo finalistico, grazie a leader che
interpretano la cultura d'impresa e il clima interno quali chiavi per il successo aziendale.
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51
LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONE
INFERMIERISTICA: PREVENZIONE E APPRENDIMENTO
DALL'ERRORE NELLA PRATICA ASSISTENZIALE
di Rosaeugenia Pesci
1. Premessa
La cultura della sicurezza, in specifico della sicurezza nelle cure, coinvolge direttamente
l'assistenza infermieristica e determina la necessità di creare una coscienza professionale su
questo tema nei futuri professionisti infermieri.
Il tema della sicurezza ci porta anche a riflettere sull'errore, sulla sua prevenzione e
gestione e, non per ultimo, sull'effettivo atteggiamento di apprendere dagli eventi avversi,
come sono definiti nella terminologia del governo del rischio clinico.
Per questo l'errore in sanità verrà trattato nelle pagine che seguono come un tema
importante nella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario ed in particolare ci
riferiremo alla professione infermieristica, che tra le professioni sanitarie con laurea triennale
è la più consistente numericamente e che presenta elevati profili di rischio di errore per le
funzioni che svolge. E il verificarsi di errori nelle cure può coinvolgere anche lo studente che
compie le sue prime esperienze assistenziali.
Il tirocinio in questo percorso di studi è presente dal primo al terzo anno di corso,
richiede un numero molto consistente di ore, con obiettivi definiti nella normativa
dell'Ordinamento didattico. Per gli studenti infermieri si tratta sempre di un tirocinio guidato
con l'affiancamento e il sostegno dei tutor di tirocinio, che si impegnano nei loro riguardi a
sostenerli nell'apprendimento clinico e di conseguenza si assumono responsabilità non solo
didattiche e formative, ma anche sulle azioni che essi effettuano.
In merito a questo, i Responsabili infermieristici della formazione universitaria, ruolo che
ricopre chi scrive, si preoccupano di creare una cultura della sicurezza delle cure agli
assistiti, rivolta alla tutela dello stesso professionista.
Durante il Corso di Laurea ci si impegna affinché siano acquisite le conoscenze teoriche
che a tutto tondo consentano un approccio al tirocinio consapevole e competente, non solo
con la didattica frontale, ma anche attraverso momenti preparatori in piccoli gruppi.
Nonostante tutto ciò, anche se le competenze da acquisire si sviluppano gradatamente,
resta il rischio di compiere errori di vario genere per inesperienza; un altro aspetto di cui ci si
preoccupa per favorire un apprendimento clinico efficace e sicuro sono le condizioni
organizzative, le disponibilità dei tutor di tirocinio e la qualità dei servizi in cui si collocano gli
studenti durante il triennio di studi.
Quanto l'apprendimento dall'errore sia una vera pratica e un approccio condiviso dai
diversi attori della formazione dei futuri professionisti andrebbe indagato, nel frattempo la
52
diffusione di questa concezione ci aiuta a tenere in considerazione in maniera più razionale
l'ineludibile quanto temuto errore umano.
2. Funzione tutoriale e tirocinio nelle organizzazioni sanitarie
L'organizzazione sanitaria nei confronti dei tirocinanti mette in campo funzioni tutoriali,
che garantiscono l'apprendimento delle specifiche competenze sulla cura e nelle relazioni di
cura. Questa specificità professionale influenza l'orientamento della tutorship anche nella
realtà in cui si collocano le riflessioni qui riportate1, dove la funzione tutoriale è svolta da molti
professionisti e da molti anni, con un elevata partecipazione, favorita anche da una
formazione specifica che si svolge a carico della stessa azienda.2
L'organizzazione in cui si realizzano queste esperienze sceglie, anche se non sempre
consapevolmente, di mettere in campo le concezioni di tutorship che appartengono alla sua
cultura organizzativa e all'approccio di cura e di servizio che rivolge ai cittadini. Questa
cultura professionale viene offerta alle Istituzioni formative quando, attraverso i loro studenti,
accedono ai servizi dell' Azienda, attraverso le Convenzioni.
Ciò avviene sia che siano Università o Scuole, sia che si occupino di formazione di
base o post base. Tali Istituzioni formative partner delle Aziende sanitarie sono titolari
dell'intero percorso di studi, ma i servizi sanitari avranno la possibilità di influenzare la
formazione dei professionisti della salute attraverso l' esperienza sempre "forte" del tirocinio:
un'occasione a fronte dell'impegno ed della disponibilità di chi accoglie.
Per questo motivo, pur in presenza di un percorso che ha obiettivi di apprendimento e di
tirocinio definiti a livello ministeriale e nel Regolamento della singola Università, gli studenti
che fanno esperienze nelle Aziende e nei loro Servizi apprendono non solo i contenuti
professionali, ma impostazioni e orientamenti specifici. La cultura professionale che si
trasmette alle nuove generazioni risentirà in gran parte di queste esperienze anticipatorie del
lavoro: siamo quindi in una condizione di corresponsabilità nella formazione, nel favorire il
raggiungimento delle competenze/esito dei futuri professionisti.
Nelle Lauree delle professioni sanitarie, un ruolo importante lo svolgono le Sedi
formative universitarie, cui la normativa attribuisce una funzione di collegamento forte tra
Università e Sistema sanitario, con responsabilità specifiche attribuite ai professionisti inseriti
in questa struttura in riferimento alla progettazione, pianificazione, gestione e
monitoraggio/verifica del tirocinio3.
1
Il contesto di tirocinio del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Bologna-Sezione
Bologna 2- è la Asl di Bologna.
2
I Corsi di formazione ai dipendenti per lo sviluppo di competenze specifiche per le funzioni tutoriali si
tengono dall’ anno 1997/98 a tutt'oggi e sono organizzati e gestiti dal Servizio Formazione della Asl.
3
In queste strutture sono presenti figure professionali, dipendenti dalle aziende sanitarie in
convenzione selezionate con criteri specifici, dedicate a tempo pieno alle attività formative
professionalizzanti dei Corsi e al coordinamento e integrazione con la componente didattica
universitaria, nonché con le strutture aziendali che accolgono tirocinanti.
Le Sedi o Sezioni formative hanno la responsabilità e la gestione di un elevato numero di crediti
formativi: dalla didattica frontale per gli insegnamenti della disciplina infermieristica (SSD MED45),
delle attività integrative, dei laboratori e alcuni Seminari, alla progettazione realizzazione e verifica dei
tirocini.
Gli organi ed i ruoli previsti nei Corsi di laurea delle professioni sanitarie sono delineate dalla
normativa nazionale; il primo riferimento normativo è la Tabella XVII ter- (MIUR luglio 1996) di cui
sono mantenuti i contenuti anche nei decreti successivi. Le Regioni recepiscono la norma nazionale e,
attraverso appositi Protocolli di intesa tra le Università presenti in Regione e SSR, di seguito si
pattuiscono le singole Convenzioni trai istituzioni universitarie e aziende sanitarie accreditate che
53
Questa struttura organizzativa e didattica non si ritrova nel panorama universitario di
altre Scuole ( le precedenti Facoltà), e rappresenta una delle caratteristiche peculiari dei
Corsi di Laurea delle professioni sanitarie del nostro Paese. Nelle Sezioni formative si
coniugano la cultura di un corso universitario con la cultura specifica dell'Azienda in cui la
Sezione si colloca , attivando uno scambio continuo.
Nelle sedi di tirocinio troviamo quindi i tutor clinici, denominati nella Regione Emilia
Romagna "tutor di tirocinio", che rappresentano l'interfaccia più diretta dei servizi sanitari con
la Sezione, dal momento della negoziazione degli obiettivi raggiungibili per gli studenti, o
quali interlocutori per dare elementi e permettere di compiere scelte allocative nei tirocini più
formative o innovative onde integrare le esperienze con i saperi disciplinari. I tutor delle sedi
di tirocinio nelle Aziende definiscono in proprio gli aspetti organizzativi per sostenere i tirocini
e la funzione tutoriale; nel caso dell'Asl di Bologna la funzione tutoriale si basa su un modello
organizzativo a rete che connette direttamente i tutor di tirocinio con la Sezione formativa del
Corso di Laurea in Infermieristica.
Nel caso del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università di Bologna, per la sezione
Bologna 2, il modello a rete ed il sistema delle responsabilità mette in relazione i tutor
didattici presenti nella Sezione e le sedi di tirocinio con i diversi livelli di responsabilità sugli
studenti.
Quello che si viene a delineare per il tirocinio è un'offerta formativa articolata, condivisa e
negoziata per ogni studente che avrà un proprio progetto di tirocinio: da questa disponibilità
del servizio si individua quindi un contratto di tirocinio personalizzato. Gli studenti accedono
alle attività in periodi pianificati dalla Sezione formativa, le sedi selezionate per le esperienze
cliniche hanno caratteristiche tali da concorrere all'apprendimento di competenze di base che
costituiscono le "core competence" da conseguire con la laurea, i tirocini sono collocati
nell'intero anno accademico e vengono presi accordi in base alle esigenze dei servizi stessi:
questo favorisce un tirocinio efficace e di qualità, nonché sostenibile in termini di tempo e
risorse investite dalla sede di tirocinio.
Esiste un'altra funzione tutoriale, più didattica, che si sviluppa in aula, con un rapporto
personalizzato e con una componente organizzativa e gestionale molto consistente, quella
dei tutor didattici che svolgono attività didattica universitaria4 e sono dedicati agli studenti
nella Sezione. Diversamente i tutor di tirocinio hanno come principale mandato l'assistenza e
l'attività diretta all'utenza. In entrambi i casi i tutor appartengono allo stesso profilo
professionale dei tirocinanti, come previsto dalla norma, ed affiancano con finalità diverse gli
studenti.
Tornando alle esperienze assistenziali in cui si mettono in atto atteggiamenti e
comportamenti sicuri, la presenza di tutor costituisce il valore ed il vantaggio di una
formazione guidata, dando garanzie ai cittadini che il neofita possa agire con supervisione ed
affiancamento, senza creare danni. Nonostante queste modalità durante l'esperienza clinica
potrebbero presentarsi diversi tipi di rischio e questi, potenzialmente, possono essere
considerati fonte di apprendimenti nelle diverse forme in cui si potrebbero presentare. Gli
studenti potrebbero essere coinvolti in situazioni organizzative inattese che improvvisamente
presentino profili di rischio per le cure effettuate e per gli assistiti. Il tirocinio è infatti
un’esperienza situata, molto efficace e molto partecipata, anche emotivamente, dagli
studenti.
Quella dell'errore e della prevenzione dello stesso è una tematica "calda" molto
importante per l' attività sanitaria a tutti i livelli e per tutte le professioni, necessita di
consentono l’effettiva realizzazione completa dei Corsi con convenzioni. Nelle convenzioni si
dettagliano i requisiti minimi delle Sezioni formative e del tirocinio.
4
I tutor didattici sono all’interno della Sezione formativa, hanno anche funzione di conduzione di
gruppi, attività integrative e in alcuni casi sono docenti a tutti gli effetti in convenzione con l’Università.
54
consapevolezza, spirito critico, approfondimenti e riflessioni sia teoriche che connesse alle
esperienze.
Nello specifico si riporteranno le riflessioni sulle esperienze della Sezione Formativa
attiva da quasi venti anni nella formazione universitaria di base.
3. Apprendimenti e tutorship
Il tirocinio, che costituisce la più consistente componente professionalizzante del Corso,
ha precisi obiettivi di apprendimento definiti ed articolati in base alla complessità e specificità:
tali obiettivi si raggiungeranno in un periodo o in più periodi di tirocinio collocati lungo tutto il
percorso. Questo impianto generale del triennio accomuna il percorso di tutte le lauree
triennali della Scuola di Medicina e Chirurgia, in cui i tirocini sono obbligatori, prevedendo la
frequenza di tutte le ore previste per i crediti che sono di 30 ore per CFU5.
Gli obiettivi dell'intero corso hanno una logica curricolare e integrano in un unicum
contenuti teorici e di tirocinio (il core curriculum del corso) e consentiranno il raggiungimento
delle principali competenze attese per il futuro professionista al momento della laurea (core
competence).6
L'apprendimento clinico è strettamente collegato anche alle altre attività didattiche, in
particolare alle cosiddette attività didattiche integrative, componente importante della
formazione universitaria infermieristica; in gran parte vengono svolte prima dell'accesso a
determinate esperienze cliniche, in altri casi costituiscono momenti di rielaborazione del
tirocinio o di collegamento tra teoria e pratica.
Cosa si impara quindi nei tirocini in sanità? Il tirocinio, come ribadiscono gli studenti7, è
fondamentale per due motivi: il primo è legato all'applicazione nel reale contesto sanitario
delle attività previste dal profilo professionale, tra cui in particolare la relazione con l' assistito
ed il cittadino che non si può sperimentare diversamente. A ciò si aggiunge che l'esperienza
di tirocinio permette di iniziare ad avere relazioni anche di tipo professionale dentro un
contesto di lavoro. Quest'ultima importante condizione rappresenta una situazione di
"socializzazione anticipatoria nel mondo del lavoro"8.
Nell'esperienza clinica si creano le condizioni per riconoscere nei fatti, o conoscere dai
fatti che si presentano, ciò che si è studiato, si comprendono i rapporti assistenziali o
educativi con gli assistiti di cui si hanno riferimenti concettuali e scientifici. Si impara a tenere
conto del contesto della persona e della sua famiglia o delle persone di riferimento e, se il
contesto è multiprofessionale, si comprende come l'apporto di una professione sia
strettamente collegato al lavoro degli altri.
Svolgere il tirocinio significa avere l'opportunità di vedere e trovare concretamente ciò
che è stato spiegato in aula, di applicare che significa sperimentare, atto costitutivo della
5
I Decreti attuativi del DM 270/04 (Decreto interministeriale del 19/2/2009) definiscono per questi
percorsi l’ obbligo a 60 Crediti Formativi Universitari di tirocinio da 30 ore ognuno. In precedenza i
crediti di tirocinio erano 45.
6
Le competenze esito definite per il laureato in Infermieristica, prevedono competenze avanzate e
specialistiche che si possono acquisire con i Master di primo e secondo livello, con la Laurea
Magistrale e successivamente con il Dottorato di ricerca
7
Si veda “Vivere il tirocinio”, Ausl di Bologna, Convegno 14 maggio 2010: in questa iniziativa sono
stati presentati i dati di una ricerca qualitativa sulla percezione del tirocinio da parte degli studenti di
differenti profili professionali che hanno svolto le esperienze del’anno accademico 2008/9-2010. La
ricerca è stata svolta da diversi soggetti tra cui l’autrice di questo articolo ed in coordinamento di M.
Lichtner.
8
Si veda Sarchielli, Castellucci (2000).
55
didattica dei professionisti nei settori sanitari e sociali, adattando correttamente le scelte e le
azioni alla realtà quotidiana.
Spesso ciò che si presenta praticando è diverso da come era stato prefigurato dallo
studente: si incontrano i problemi per i quali le soluzioni non sono sempre già pronte, ma le
conoscenze ed il metodo acquisiti in aula permettono di affrontarli. L'esperienza guidata dai
tutor aiuta a scegliere quali conoscenze, quali indicazioni o linee guida sono più efficaci o
pertinenti di fronte ad un assistito, a un gruppo o famiglia di cui farsi carico, quali e quante
questioni concomitanti si presentino di volta in volta e quali siano le loro influenze reciproche.
Si mettono in campo adattamenti che sono profondamente influenzati dalle soggettività di chi
si assiste.
Lo studente ha bisogno di individuare tutti gli elementi di una situazione, o che gli
vengano messi in risalto mentre l'esperto li coglie e contemporaneamente li seleziona o
utilizza il processo decisionale; il professionista in quanto esperto nota qualcosa di
impercettibile o di apparentemente secondario. Le esperienze dello studente devono
avvenire in condizioni di sicurezza.
Gli studenti infermieri in tirocinio in questa Ausl nelle loro narrazioni scrivono: «...mi
aspettavo magari che mi chiamassero quando c' era qualcosa da vedere..e poi ci sono tante
piccole sfumature che non è facile cogliere…».
Le logiche decisionali vengono affrontate durante gli studi secondo modalità razionali e
formali, decontestualizzate, diventano lentamente abilità decisionali nella pratica di tirocinio
dove sono collocate nella realtà, legate ai vincoli dell'ambiente e alle esigenze delle persone
di cui ci facciamo carico. Sono decisioni che, partendo da caratteristiche e conoscenze
standard o ideali divengono realistiche: questo induce ad apprendere come si possa
modulare la risposta migliore tra quelle possibili.
Si agiscono le proprie capacità per dare il meglio senza perfezionismi, con i quali spesso
gli studenti devono fare i conti, soprattutto nelle prime esperienze di tirocinio. Si impara a
esercitare la discrezionalità, fino a dove è corretto adottarla e domandandosi se sia
eticamente giusto spingerla, si vedono valori messi in pratica o talvolta purtroppo
l'applicazione di disvalori che attivano capacità critiche e riflessioni, rielaborazioni, anche se
amare, di queste esperienze.
L'approccio riflessivo ed il modello andragogico di apprendimento sono i riferimenti a cui
ci rifacciamo nella Sezione, ed è anche l' orientamento che si vuole dare alla funzione
tutoriale nei tirocini9. In tirocinio si fanno esperienze di collaborazione e soprattutto di
approccio multidisciplinare ai problemi clinici e di gestione organizzativa, anche se tutte
queste esperienze non sono mai abbastanza; per questo è importante definire le
competenze esito della formazione di base a cui si aggiungeranno l'esperienza del singolo e
altri momenti formativi, secondo la logica della long life learning.
Per esercitare al meglio la funzione tutoriale a sostegno e stimolo di questi
apprendimenti esperienziali è necessaria una formazione specifica per i tutor di tirocinio ed
un rapporto stretto con le Sedi universitarie.
In questi anni l'ottica con cui si realizzano i tirocini è che il tutor non abbia un ruolo
strutturato vero e proprio, ma sia un professionista esperto e motivato che svolga le funzioni
tutoriali, rendendo meno rigida questa attività e intendendola anche come una funzione
diffusa tra molti professionisti. Questa funzione, per essere svolta con sicurezza, deve avere
dei riferimenti precisi nell'ambito della Sezione e avere chiari i livelli di responsabilità. Per
questo tra coloro che svolgono funzioni tutoriali vi sono dei tutor che hanno una formazione
9
Il Corso per tutor clinici delle professioni sanitarie che si tiene da anni nell’Asl di Bologna ha come
riferimenti l’approccio riflessivo di D. Schon, Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della
formazione e dell’apprendimento nelle professioni, Ed. Dedalo- Bari 1983.
56
specifica acquisita con un Corso aziendale per tutor di tirocinio e sono il riferimento degli altri
tutor clinici e della Sezione.
La presenza di studenti di molti percorsi formativi universitari nell'Ausl è consolidata da
tempo; la presenza maggiormente rappresentata è quella degli studenti di Infermieristica che
svolgono il tirocinio per lunghi periodi. La presenza della Sezione formativa del Corso di
laurea ha permesso di aumentare la consapevolezza e la responsabilità diffusa nei riguardi
degli studenti: questo rappresenta uno dei valori aggiunti per una azienda del SSR (Sistema
sanitario Regionale), cioè lo sviluppo consapevole dei saperi e dell'esperienza, la necessità
di ripensare e alzare qualitativamente il proprio lavoro, anche nell' ottica di offrire un buon
esempio ai potenziali futuri colleghi.
I tutor di tirocinio sono tra loro facilmente sostituibili quando i tirocinanti sono nelle fasi di
applicazione delle diverse pratiche professionali, di supervisione delle funzioni assistenziali,
ma il tutor clinico formato è il riferimento, orienta le possibilità che si presentano agli obiettivi
ed è il responsabile del percorso di tirocinio e dell' apprendimento che si sviluppa nel servizio
in cui lavora.
Gli effetti dell'approccio riflessivo ed intenzionale messo in atto dai tutor didattici della
Sezione10 contribuiscono all'acquisizione nello studente delle cosiddette competenze tacite,
metacompetenze molto importanti nella formazione dei professionisti.
Le esperienze e i vissuti di tirocinio sono oggetto di attività in piccolo gruppo nella sede
formativa: un setting in cui è possibile ricondurre lo studente a riflettere sulle esperienze, in
cui vengono espressi timori ed esperienze, che talvolta si collegano anche con l' aspetto
"sicurezza".
L'esperienza nelle realtà di cura riporta a una concezione sfaccettata, impregnata di
relazione e di emozioni. Benner nel suo libro "L'eccellenza nella pratica clinica"11 riporta
questa interessante definizione di esperienza:
«Una conoscenza ottenuta non con le parole, ma con il tatto, la vista, l'udito, le vittorie,
le sconfitte, l'insonnia, la devozione, l'amore, le esperienze e le emozioni umane di
questa terra, le proprie e quelle degli altri uomini». (Adlai Stevenson)12
In riferimento a quanto detto nei contesti sanitari, gli esperti che lo studente incontra
corrispondono ai suoi tutor di riferimento.
I formatori e docenti nella formazione di base sono impegnati nel dare una impostazione
al modello professionale, a partire dall' approccio metodologico, con contenuti di base e
"generalisti", ma è fondamentale in questo periodo di formazione rendere espliciti molti
aspetti dell' attività che viene svolta, richiamando agli studenti i contenuti e i principi di
riferimento.
Nel tirocinio delle figure sanitarie è presente anche una attività di addestramento, che
costituisce un aspetto essenziale per dare manualità e sicurezza al tirocinante e garantire
agli utenti prestazioni efficaci e sicure. Anche per questo motivo la presenza di studenti delle
lauree triennali assorbe tempo, talvolta rallenta il ritmo di lavoro nei servizi, riducendo le
disponibilità ad accoglierli e affiancarli.
Nell'attività tutoriale dei percorsi di formazione più avanzati o post base prevale
l'approfondimento, attraverso la capacità, da parte del tutor, di fare sviluppare un avanzato
livello di giudizio, prevedendo per il tirocinante l'assunzione di maggiori responsabilità e livelli
di decisione/discrezionalità: lo sviluppo dell'expertise richiede tempo ed applicazione.
Gli studenti delle lauree sanitarie triennali nelle loro narrazioni scrivono:
10
I tutor della Sezione hanno come riferimento teorico e pedagogico l’approccio andragogico e
riflessivo e la prospettiva dell’esperienza nella fenomenologia di E. Husserl.
11
Benner, 2003.
12
A.E. Stevenson, politico statunitense (1900-1965).
57
«Anche i colleghi hanno un po' paura perché hanno delle responsabilità anche grosse,
nei nostri confronti… loro hanno tanta tecnica, tante cose da insegnarci, nel senso che
molte cose loro non è che se le sono scordate, ma la routine ti porta a saltare dei
passaggi….»
«Quello che più mi ha colpito è il rapporto che si riesce ad instaurare con gli assistiti, ti
porti a casa delle esperienze forti».
«…bisogna proprio trovare un codice tra me e gli assistiti...»
Altre narrazioni di studenti ci riportano l'occasione del tirocinio come l'opportunità per
conoscere direttamente aspetti quali la responsabilità "agita" che hanno le figure sanitarie nei
confronti delle persone di cui si occupano. Ci ricordano che in tirocinio si impara a "rischiare",
fare e prendere decisioni, compatibilmente con le capacità, si impara e si insegna a "non
sbagliare", si impara anche dall' errore se "guardato", non passato sotto silenzio e lasciato
come fardello solo a colui che lo ha compiuto.
L'errore, tanto temuto in sanità con giusta ragione, è ancora considerato un tabù
nonostante la diffusione della cultura della prevenzione del rischio clinico. Questo evento
negativo attiva molte emozioni e sentimenti e, solo se condiviso e oggetto di analisi,
riflessioni, spunti di miglioramento, rappresenta una delle più marcate esperienze di
apprendimento non solo per coloro che ne sono coinvolti, ma anche per il resto del gruppo di
lavoro.
4. Un'occasione e qualche rischio nello svolgere la funzione di tutor in
tirocinio.
L'esperienza e il modello di tutorship adottato in questi anni, come abbiamo visto nei
precedenti paragrafi, ha permesso di mettere a regime una rete di professionisti che si
occupano di tirocinio, luogo dove si sviluppano gli apprendimenti professionali e nel
contempo si sviluppa la maturità umana dei giovani studenti.
Con le figure tutoriali, a cui sono state date conoscenze di base e strumenti, si mantiene
un rapporto stretto e si realizzano interventi di formazione permanente per sviluppare
ulteriormente le loro competenze educative, necessarie anche per l'inserimento di
neoassunti.
In questo modo è stato sensibilizzato e reso consapevole un grande numero di
professionisti nei profili delle lauree sanitarie, che hanno indubbiamente messo in atto una
cultura del monitoraggio dell'apprendimento e della valutazione, anche se restano aspetti
ancora critici, in particolare su tema delicato della valutazione.
Nonostante queste condizioni organizzative, la formazione specifica, i contatti costanti
con le Sezioni dei Corsi di Laurea e l'interesse personale a svolgere le funzioni di tutor, il
tirocinio presenta anche dei rischi e a più livelli. Sono rischi relativi al "cosa" si impara
durante il tirocinio, ma soprattutto al "come" si impara: questi potenziali rischi in molti casi si
possono prevedere e prevenire o evitare in modo che non abbiano conseguenze gravi su
diversi soggetti. Proviamo a esplicitare qualcuno di questi rischi in base a cosa ci suggerisce
l'esperienza.
Esiste un primo tipo di rischio, che sentono particolarmente i formatori, i docenti e i
responsabili dei percorsi che preparano queste professioni: si tratta del rischio di non
raggiungere gli obiettivi e quindi di formare dei professionisti non abbastanza preparati, pur
in presenza di valutazioni sufficienti, tali da permettere agli studenti di laurearsi. In parte
58
questa condizione attiene ai docenti degli insegnamenti, ma il filtro degli esami dovrebbe
costituire la garanzia dei livelli minimi sulle conoscenze.
Dato il peso che ha l'acquisizione delle competenze professionali, il rischio del mancato
raggiungimento degli obiettivi si può realizzare in tirocinio: in questo caso sono riferibili o agli
studenti o ai tutor di tirocinio, o a entrambi. Potrebbe essere il caso di uno scarso impegno,
in riferimento alle responsabilità della preparazione dello studente stesso, oppure il caso di
esperienze "mancate" nei servizi in cui non sono stati trasmessi messaggi, contenuti e saperi
pratici, o di esperienze gestite con scarso investimento anche in termini relazionali da parte
dei tutor; talvolta non si sono realizzate condizioni organizzative adeguate o
condizioni/occasioni didattiche significative. Lo studente da un certo punto di vista può
rappresentare un peso.
In sintesi, "alla prova dei fatti", il tirocinio non ha dato la possibilità di imparare gli
elementi basilari richiesti per una laurea di primo livello - e va ricordato che nelle lauree
sanitarie triennali l'acquisizione del titolo è già abilitante la professione. Di questo rischio e di
questa corresponsabilità non sono sempre consapevoli i professionisti delle sedi di tirocinio.
Possono aver sottovalutato qualcosa in termini organizzativi, oppure non sono stati in
condizioni di approfondire o verificare gli effettivi apprendimenti rispetto agli obiettivi di
tirocinio o alle caratteristiche e possibilità dei singoli studenti. In questo caso c'è stato
comunque uno sforzo degli operatori durante il tirocinio: spesso si tratta di uno sforzo diffuso
ed essendoci la percezione dell'impegno e buona volontà può passare in secondo piano la
consapevolezza delle effettive condizioni che non hanno permesso migliori risultati. Nella
maggior parte dei casi il correttivo a questa situazione lo metterà lo studente stesso, in
successive esperienze di tirocinio e in generale mettendo in campo strategie compensative e
la sua motivazione.
L'esperienza di tirocinio poco fruttuosa, in ultima analisi, può servire per fare
comprendere allo stesso discente come non si deve organizzare e gestire un percorso di
tirocinio.
Analizzando i potenziali rischi includiamo quello di non riuscire a trasmettere un modello
e una identità professionale orientati ai nuovi paradigmi o non ancorati alle radici eticodeontologiche e disciplinari. Questi aspetti sono molto importanti perché sostengono le
professioni nella realtà sanitaria e nella percezione dei cittadini e della società, nella
complessità della multidisciplinarietà.
In particolare c'è il rischio che l'esperienza di tirocinio non abbia trasmesso
adeguatamente e confermato i valori professionali, l'acquisizione di comportamenti
deontologici e approccio etici che sono rappresentati nelle pratiche quotidiane o nei momenti
particolarmente emblematici che l' esperienza diretta mette a fuoco. In questo caso si colloca
il rischio che non siano stati sottolineati o attuati comportamenti, osservazioni e scelte che
mettano al centro il principio di responsabilità in tutte le sue espressioni. C'è, in altre parole, il
rischio che abbia avuto il sopravvento un sapere procedurale fine a se stesso, come unica
garanzia del "bene" per le persone e talvolta anche solo della "tutela" dei professionisti e
dell'organizzazione che, così, non si assumono responsabilità, delegate alla corretta
applicazione delle procedure e linee guida. Un ripiegamento che qualcuno ritiene possa
ridurre il rischio di reclami e di contenziosi. In questo potenziale rischio ritroviamo anche
quello che i colleghi o il tutor non abbiano sempre chiara la responsabilità che è stata
assunta nella preparazione del futuro collega.
Più evidente e temuto è un altro rischio che assume il tutor, insieme allo studente
affidatogli: è il rischio dell'errore o di fare correre pericoli e causare danni agli assistiti e allo
studente stesso, e ciò chiamerà in causa anche il tutor clinico. Compare, in questo caso, il
problema della sicurezza e della gestione del rischio nella pratica professionale, in presenza
59
di studenti che, nel percorso formativo di base, sono per definizione ancora inesperti o
"novizi" come dice Benner (2003).
5. La responsabilità nel fare: legame tra tirocinanti e tutor
Il "fare", "mettere in atto", contiene intrinsecamente la possibilità di sbagliare, come recita
un detto popolare, frutto della saggezza della vita.
L'Università fa riferimento a tutor appositamente formati e dello stesso profilo
professionale che si occupano degli stage, cita il testo sul tirocinio guidato, sottintendendo
che l'apprendimento avviene con professionisti messi a disposizione dalle Aziende che
accolgono i tirocinanti a seguito di Convenzione tra le parti. I tutor di tirocinio nelle lauree
sanitarie, se richiesto, esprimono una valutazione o un giudizio sul tirocinio: in ogni caso
definiscono il livello raggiunto dallo studente e gli apprendimenti acquisiti nel periodo di
permanenza nella sede operativa, assumendosi così la responsabilità di affermare che sono
stati raggiunti i livelli minimi di apprendimento clinico.
Sempre in termini di responsabilità nel Corso di Laurea delle professioni sanitarie
esistono delle figure, previste da norme nazionali, quali i Responsabili dei tirocini delle
Istituzioni formative, che corrispondono ai Responsabili delle Sezioni formative, i quali
svolgono una funzione di cerniera tra le Istituzioni coinvolte.13
In molti Regolamenti dei Corsi gli esami di tirocinio annuali costituiscono uno
"sbarramento" alla prosecuzione del percorso, sono propedeutici ad altri tirocini successivi e
richiedono il superamento di insegnamenti propedeutici alle esperienze cliniche o agli stessi
esami di tirocinio.
È evidente che le istituzioni titolari del percorso di laurea triennale sono impegnate nel
garantire le premesse di conoscenza degli studenti che accedono all' esperienza sul campo
e individuano filtri che favoriscono una gradualità e una selezione. I Regolamenti dei diversi
Corsi di laurea descrivono le modalità di accesso, le situazioni e i casi di sospensione o
recupero dei tirocini e degli apprendimenti: in molti frangenti sono stati redatti veri e propri
Regolamenti di tirocinio. Ciò evidenzia come l'università, su questi aspetti professionalizzanti
e molto delicati, si sia espressa in documenti e con indicazioni, riconoscendone l'importanza
e i potenziali rischi.
Nei percorsi formativi post base tutto questo sistema di filtro scompare e le indicazioni
sui tirocini sono più orientati all' acquisizione di competenze di secondo livello. I partner
contraenti la Convenzione sono garanti verso la società che il professionista in uscita dal
percorso abbia dimostrato una condizione accettabile di performance professionale applicata
ai diversi contesti.
Esiste quindi sul tirocinio un sistema articolato di livelli di responsabilità che inizia sul
piano istituzionale, e successivamente si articola ed afferisce alla stessa linea professionale
degli studenti dei singoli corsi. Le modalità di espletamento del tirocinio, presentate e
condivise con i tutor direttamente interessati, consente anche di garantire sicurezza e buone
condizioni didattiche per gli studenti.
Le fasi più delicate del processo di tirocinio sono definite ed organizzate, si chiariscono
le responsabilità dei singoli, le modalità operative e strumenti, il monitoraggio
13
Queste figure tra le funzioni attribuite hanno quella di farsi garanti dell’ apprendimento teoricopratico professionalizzati tra cui le esperienze di tirocinio e della qualità delle stesse. Sono titolari dei
CFU di tirocinio presenti nel piano di studio che rappresentano un terzo dei crediti del Corso, inoltre
presiedono la Commissione d’Esame annuale di tirocinio.
60
dell'apprendimento e dell'autoapprendimento e strumenti di valutazione formativa e, a fine
tirocinio, la valutazione certificativa.
Tutti i diversi percorsi di tirocinio nell'Asl di Bologna rispondono a criteri di qualità e sono
certificati secondo la Certificazione ISO 9001/2008 14. Gli aspetti organizzativi del tirocinio, i
requisiti minimi del contesto in cui si realizzerà, la garanzia della presenza di tutor
appositamente formati, fanno sì che non si verifichino "salti pericolosi e cadute" nelle
esperienze sul campo, evitando di imparare per tentativi ed errori, modalità inaccettabile nei
contesti sanitari. Si realizzano in tal modo esperienze che sostanziano il difficile percorso
verso l'adultità non solo professionale. Lo studente in questo percorso è al centro con una
responsabilità diretta sul suo apprendimento, sui suoi comportamenti.
Ci pare sempre più evidente che c'è un "come si apprende in sanità" che ha una forte
valenza organizzativa, una rete di norme e regole, ma non di meno si rifà a valori e alla
deontologia che i tutor di tirocinio devono rappresentare. Ciò non esime dal rischio del
commettere errori: sono tanti i pericoli che si possono incontrare nell'apprendimento pratico e
diretto occupandosi delle persone o dei problemi sociosanitari di un gruppo o di una
comunità. Il tutor viene così ad assumere ulteriori rischi rispetto a quello legato al proprio
operato: sono quelli in relazione alla possibilità che lo studente compia un errore o incontri
una condizione di rischio o di vero e proprio pericolo, così che gli viene richiesto di
impegnarsi a prevenire rischi anche rivolti agli studenti o ai danni verso pazienti assistiti dai
tirocinanti, o di gestire una situazione avversa riducendone il danno. Così facendo il
professionista, oltre al rischio dell'errore personale che porta in sé, si fa carico anche di un
potenziale rischio di errore dello studente. L'errore potrebbe essere prevalentemente di
sistema, potrebbe essere prevalentemente del singolo, e difficilmente è totalmente a carico
di una di queste componenti. Gli autori che si sono occupati di questo tema in sanità,
distinguono diverse afferenze causali, ma sostengono che anche nel secondo caso
difficilmente non c'è una responsabilità anche del sistema/organizzazione, ad esempio non
avendo messo in campo tutti i possibili strumenti di controllo. Lo studente deve essere
consapevole dei rischi di eventi avversi che si possono verificare, in modo da agire
correttamente o chiedere o dubitare o verificare con il tutor o attivare una supervisione.
Un riferimento importante è il Codice Deontologico degli Infermieri che cita in due articoli
(art.29 e art.13)15 espressamente la prevenzione e l' apprendimento dall' errore, l' obbligo
anche etico alla supervisione e di richiederla quando ci siano dubbi da parte del
professionista o la necessità di consulenza di un collega esperto. L'apprendimento è
graduale e porta all'autonomia, attivando responsabilità personali dello studente, così come
per il tutor, per il quale si ampliano le responsabilità professionali. Un atteggiamento cauto e
di valutazione dei singoli casi, del contesto e delle capacità e caratteristiche dello studente è
alla base della prevenzione del rischio. L'atteggiamento di fiducia verso lo studente è
altrettanto il motore che lo muove, lo incoraggia a esperire, gli permette di esprimere più
liberamente dubbi o incertezze, di dichiarare più serenamente quando non si senta ancora in
grado di svolgere una attività, se pure collocata in quella fase del percorso o in quelle precise
condizioni. L'equilibrio tra il rischio di errore e l' atteggiamento positivo e propositivo del dare
fiducia sono due facce della stessa medaglia, hanno a che fare, soprattutto nel caso dello
studente, con un proprio rigore, con un livello di maturità morale che consente di assumersi e
rispondere delle proprie azioni od omissioni. L'onestà intellettuale, la consapevolezza che
prima di tutto viene il bene del paziente, l'assunzione delle proprie responsabilità e delle
conseguenze del proprio agire sono le premesse di un atteggiamento corretto al momento in
14
La certificazione ISO 9001-2008 rilasciata dal Cermet è riferita a tutti i percorsi di tirocinio che si
attivino a seguito delle diverse Convenzioni e differenti percorsi formativi nell’Asl di Bologna.
15
Codice deontologico dell’Infermiere pubblicato dalla Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009)
art.29 e art 13.
61
cui si verifichi l' errore e della possibilità di poter ridurre il danno che deriva dall'errore.
L'atteggiamento morale ed etico e la responsabilità guidano anche il tutor di fronte ad un
errore dello studente che in molti casi è avvenuto per disattenzione o errata valutazione del
tutor.
L'atteggiamento "no blame"16, definito nel linguaggio del "risk management" come
l'atteggiamento a cui i professionisti si devono conformare nel caso di errore, consente di
considerarlo, analizzarlo, mettere in atto una serie di interventi specifici di miglioramento e di
prevenzione.
Al contrario, l'evento errore, quando ormai occorso, sarebbe un'occasione perduta e
determinerebbe solo un annichilimento per lo studente e per il tutor che lo affianca e
potrebbe generare, come spesso accade, una situazione di ricerca del colpevole.
Dalle narrazioni:
«Ecco che una voce arriva dal corridoio…un errore, un errore di consegna! Potevo
essere stata io a controllare con troppa superficialità…disagio, senso di inadeguatezza,
calo di pressione…fino a capire che in effetti non era possibile che fossimo state noi».
Apprendere ed insegnare sono sempre una sfida e sperimentare è rischiare: dosare i
rischi permette di percepire un sentimento di sicurezza che favorisce l' apprendimento.
6. Gli studenti e l'errore nel difficile percorso di apprendimento sulla cura
e il prendersi cura.
La cultura della sicurezza, basate sulla conoscenza e competenza, l'atteggiamento etico
e lo spirito critico, sono acquisizioni che lo studente apprende se intenzionalmente i docenti, i
tutor ed i responsabili dei Corsi danno priorità a questi aspetti, trasmettendone l'importanza.
La convinzione che la sicurezza dell'assistito sia una garanzia che renda reale e
applicato il principio per cui la persona o cittadino sono al centro dell' assistenza e del
sistema sanità e necessita di progettare una serie di momenti ed occasioni predefinite
durante in corso di studi dai formatori che interagiscono con gli studenti ai diversi livelli
La sensibilizzazione a questi temi, oggi molto diffusa, ha permesso di creare più fronti di
attenzione sul tema dell'errore e del rischi di errore anche nel Corso di Infermieristica per la
molteplicità di rischi presenti in tale attività. I contenuti relativi a queste tematiche sono
presenti in tutti i tre anni di corso, sia negli insegnamenti d'aula, sia nei seminari, nelle attività
di laboratorio e di simulazione. In particolare ogni studente deve frequentare uno specifico
corso di 16 ore e superare la prova finale, ottemperando il dettato normativo (Decreto
81/2008) in materia di sicurezza per i professionisti della sanità che precede l' accesso al
primo tirocinio del Corso. Il tema del diritto alla sicurezza delle cure nei confronti dei cittadini
è presente ed esplicitato negli obiettivi di tirocinio, nelle procedure e nelle modalità di
attivazione di percorsi di denuncia qualora si verifichino danni all'assistito o se si presentano
potenziali rischi per la salute dello stesso studente.
Durante il Corso di studi vengono presentati gli strumenti tipici della gestione degli eventi
avversi, siano essi errori (miss) o quasi errori (near miss), le modalità e gli strumenti di
miglioramento, in particolare gli Audit ai quali talvolta hanno direttamente partecipato anche
gli studenti.
16
Con questo termine si intende l’atteggiamento che l’errore non abbia come effetto una
colpevolizzazione fine a se stessa.
62
Con questo bagaglio di conoscenze e con questa consapevolezza, i tirocinanti si trovano
nei servizi con i professionisti, partecipando all'assunzione di responsabilità verso gli assistiti
e i loro famigliari. In loro è molto presente il timore di sbagliare e di danneggiare la persona
che incontrano durante il tirocinio.
Dalla mia esperienza in questi anni errori afferibili agli studenti durante il tirocinio e
dichiarati sembrerebbero abbastanza rari, in parte per l'attenzione che gli studenti mettono
durante l'esperienza clinica e per la supervisione ed affiancamento dei vari tutor e
professionisti presenti. Parlando di errori che sono stati individuati e che coinvolgevano il
tirocinante, talvolta si è potuto riscontrare quanto il loro ruolo fosse molto secondario nei fatti:
resta la consapevolezza che la cultura del "biasimo" non ci permette di avere il polso vero
della situazione e sicuramente di avere le stesse informazioni nel caso dei quasi errori.
Questi ultimi, non essendosi di fatto realizzati, sono poco considerati.
Gli eventi avversi o gli incidenti, durante il periodo della formazione sul campo, possono
essere stati segnalati subito nella realtà in cui sono accaduti dagli studenti stessi, o dai tutor
o da chi fosse stato presente per provvedere immediatamente a gestire e ridurne gli effetti.
La cultura della colpevolizzazione, ancora presente nella maggior parte degli ambienti
sanitari, in contrapposizione all'atteggiamento "no blame" che si sta cercando di fare
prevalere nei servizi e sul quale si sviluppa la formazione, ci fa pensare che i quasi errori
siano stati raramente evidenziati, forse perché l'errore di fatto non c'è stato e quindi non
conviene sollevare problemi o discussioni. Questo non aiuta lo sviluppo della
consapevolezza e della cultura dell' apprendimento dall'errore e della sua prevenzione,
mentre sarebbe un terreno molto fertile in tal senso: infatti i casi di " quasi errore"
consentono di guardare e analizzare l' accaduto, senza la preoccupazione e la tensione che
scatena un evento avverso a seguito di un errore umano/organizzativo. Perché i near miss
che coinvolgono lo studente non sono segnalati o non sono sottoposti ad analisi sistematiche
e sistemiche per un miglioramento? Sicuramente ne risente il giudizio e la valutazione di
tirocinio, per cui l'evento errato che non ha determinato un "fatto", sventato in tempo per
diverse ragioni, relega lo studente comunque nella considerazione del colpevole.
Non è di aiuto in questi ultimi anni il moltiplicarsi di casi e contenziosi tra cittadini e
professionisti della salute, casi di malasanità che contribuiscono a ridurre la fiducia nelle
istituzioni sanitarie e in chi ci lavora. La paura di denunce e contenziosi, molto presente nei
medici, si allarga agli altri professionisti che si occupano di cura, ed è percepita come una
delle priorità per le Aziende sanitarie. Prova ne sia anche l'elevato numero di professionisti
non medici che provvedono a integrare con polizze personali l'assicurazione che il datore di
lavoro è tenuto ad attivare per i dipendenti.
Si è così sviluppata una medicina difensiva che teme azioni legali e si protegge
immediatamente anche in casi in cui non c'è colpa e tantomeno dolo. Il percorso legale da
affrontare, anche nel caso si risolva il contenzioso senza confermare la responsabilità degli
operatori, non solo determina tensione e incertezze per gli interessati, ma si riflette nel clima
dell'intero gruppo di lavoro, toglie fiducia ai cittadini e danneggia l'immagine dell'Istituzione.
Nei casi in cui l'errore coinvolga direttamente lo studente, viene segnalato secondo
procedure ben precise nel servizio, in cui sono indicati i professionisti presenti che avevano
in carico lo studente e assumono, accettandone la presenza, la responsabilità "in vigilando".
In caso di errore durante il tirocinio, oltre alla denuncia "aziendale", la comunicazione dei
fatti viene inviata alla Sezione formativa del Corso che lo studente frequenta, in quanto di
competenza di tutto ciò che attiene i tirocini i universitari e per l' afferenza dello studente non
all'Azienda Sanitaria ma all'Università, anche in termini assicurativi. L'Università in questo
caso corrisponde al datore di lavoro.
Nei casi di errore a carico o con il coinvolgimento del tirocinante ciò determina
valutazioni insufficienti da parte del tutor clinico. L'evento viene sempre analizzato con le
63
figure coinvolte, talvolta viene descritto diversamente dallo studente rispetto ai tutor o ai
professionisti dei servizi, nonostante gli incontri per comprendere meglio cosa è successo e
attivare esperienze di recupero. Il chiarimento, in alcuni casi, non convince entrambe le parti
(studente ed altri operatori presenti) per le posizioni ed i punti di vista o le premesse di
partenza: chiaramente la gravità del danno, per fortuna mai drammatico, influenza molto
tutte le dinamiche che ne conseguono. Il problema in questi casi è la non conoscenza
dell'intero percorso o di tutte le componenti di una attività o prestazione, oppure la mancanza
di spiegazioni esaustive, tali per cui lo studente non ha agito tutto ciò che era necessario e
non ha valutato le conseguenze, che non riesce sempre ad avere chiare o a collegare.
Per Benner il novizio non ha il quadro di insieme e questo talvolta potrebbe determinare
errori. Come, del resto, un rapporto poco chiaro o una relazione difficile tra tutor e tirocinante
generano incomprensioni o soggezioni o una scarsa disponibilità ad accogliere dubbi, tutti
fattori che possono aumentare i pericoli.
Dopo l'evento dannoso segue spesso una situazione irrecuperabile, principalmente nei
rapporti, venuta meno la fiducia da entrambe le parti. A volte lo studente chiede di poter dare
ulteriori spiegazioni ai tutor o ai Responsabili della Sezione Formativa, fornendo una propria
versione, più rivolta a giustificare che a spiegare l' accaduto. I tutor della Sezione analizzano
con lo studente le cause, mettendo a fuoco insieme a lui gli aspetti specifici su cui migliorare
per prevenire altri eventi di questa natura, per recuperare il rapporto con i tutor, mettendo in
campo una sorta di mediazione.
In ogni caso anche l'analisi e le riflessioni per acquisire apprendimenti dagli errori sono
influenzate in entrambe le parti dal giudizio, e talvolta vale anche per i tutor della Sezione
formativa.
In queste esperienze anche la capacità di condurre questo percorso da parte dei tutor
didattici del Corso è a rischio di pregiudizio, ugualmente da parte della componente del
Corso che ha un mandato più pedagogico. Pertanto il giudizio negativo percepito dallo
studente, anche se limitato a quella esperienza, condiziona alcune decisioni successive, tra
cui quella di mettere in atto un'esperienza di recupero che, nei tempi stretti del percorso
triennale, posticipa i tempi di laurea.
Inoltre per lo studente l'evento può essere faticoso da superare, determinato in alcuni
casi anche la decisione di sospendere per un periodo l'attività clinica: in alcuni casi gli
studenti hanno abbandonato il corso di studio riferendo di non sentirsi più adeguati e a nulla
sono valsi i tentativi di recuperare questa decisione, di analizzare la situazione distinguendo
l'errore dalla colpa. È evidente come, nonostante l'atteggiamento, su cui si concorda, di non
colpevolizzazione del singolo, dalla fase di analisi delle cause da parte degli altri attori e
partecipanti all'evento, fino alla definizione delle azioni conseguenti e delle azioni di
miglioramento che ne dovrebbero derivare, non c'è un adeguata preparazione a prevenire e
gestire questi fatti nei confronti degli studenti.
Lo studente non è un professionista, presenta delle fragilità e dei meccanismi di difesa
propri, deve confermare la sua scelta professionale e personale, deve acquisire autostima e
stima in merito alla sua preparazione e ai suoi livelli di apprendimento. Si utilizza quasi
sempre il termine errore, nell'accezione quotidiana, sebbene sarebbe bene distinguere errore
da sbaglio e soffermarci sulla colpa.
Sulla colpa ruota l'idea che ci possa essere la possibilità di evitare un errore che non è
stato deliberatamente evitato; e si potrebbe intendere che il colpevole ha quasi creato le
condizioni per il verificarsi dell'errore: si sente in questo termine qualche cosa di deliberato.
Nel termine sbaglio è come se risuonasse una minore gravità, ma il riferimento rimane
sempre personale: lo sbaglio è a carico del singolo.
Ma di quale genere di errori si tratta in questo contesto di formazione infermieristica di
base?
64
In questi casi di solito si tratta di errori di terapia, oppure di errori nel valutare o
monitorare le condizioni di un paziente, o di avere sottovalutato dei segni o dei dati da
riferire. In realtà le possibilità di incorrere in errori sono molte, con potenziali conseguenze
anche gravi tra cui quelle di "omettere" ovvero non effettuare una attività, ad esempio non
somministrare un farmaco, oppure non garantire le migliori cure possibili: è il caso delle
cosiddette "cure perse". Tra gli errori più frequenti e gravi in sanità e che coinvolgono gli
infermieri, troviamo gli errori nel processo di gestione della terapia.
Per questo motivi gli obiettivi di tirocinio devono descrivere il livello di autonomina, di
supervisione, di affiancamento per le diverse attività da svolgere in tirocinio, siano esse
prestazioni tecniche, modalità e strumenti di valutazione e monitoraggio, di raccolta dati, di
relazione e livello di informazioni che lo studente può dare all'assistito o alla famiglia.
La stessa applicazione di linee guida e protocolli possono necessitare talvolta di una
discrezionalità che lo studente non ha o che non può attivare autonomamente.
Esiste secondo P. Frerie «un rapporto tra l'allegria, necessaria all' attività educativa e la
speranza» 17
Auspichiamo quindi che gli approcci educativi e formativi, le condizioni organizzative
messe in campo e le cautele, visti i rischi di vario genere insiti nel tirocinio, non alterino il
piacere di imparare ed il piacere di insegnare una professione.
7. Bibliografia
Benner P. (2003), L'eccellenza nella pratica clinica dell' infermiere. L' apprendimento basato
sull'esperienza, Milano, Mc Graw-Hill, I° Edizione italiana.
Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009), Codice deontologico dell'Infermiere.
Frerie P. (2004), Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa,
Torino, EGA.
Knowles M. (1996), Quando l' adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, F. Angeli.
Lichtner M. (2010), a cura di, Vivere il tirocinio, Ausl di Bologna, convegno del 14 maggio
2010
Sarchielli G., Castellucci A. (2000), Viaggi guidati, Milano, F.Angeli.
Schon D.A. (1993), Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della formazione e
dell'apprendimento nelle professioni, Bari, Dedalo.
17
in ”Pedagogia dell’ autonomia” (2004), una delle opere tradotte in italiano del pedagogista brasiliano
(1921-1977)
65
PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLE
PROFESSIONI SANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E
OPPORTUNITÀ CULTURALE
di Rossana Di Renzo
«Ogni giorno si corregge un errore,
ogni giorno si impara
a saper meglio quello che possiamo far di bene o
quello che siamo condannati ancora a lasciar avvenire
di male, ogni giorno erriamo meno
della vigilia e impariamo a sperare di far di meglio dimane. Errare, sì.
È una parola che fa paura al pubblico.
L'uomo che non erra non c'è».
Augusto Murri, tratte dal suo Quattro lezioni e una perizia (1906-1907)
In ambito sanitario la prevenzione dell'errore è un tema sentito e dibattuto; una grande
conquista culturale è di accettare che in medicina, come in tutte le attività umane, si può
sbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunque giusto impegnarsi
per raggiungerla.
L'Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per le diverse figure professionali sanitarie,
tecniche, sociali ed educative. In questi anni è stato affrontato il tema dell'applicazione del
D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell'ambito del tirocinio. Formare il tirocinante – così come ogni
operatore della sanità - sulla tutela della salute e della sicurezza nella pratica professionale è
dovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Ma è anche e soprattutto, per la nostra
azienda, un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì che divenga un valore
costante per il futuro professionista che lavorerà in un'organizzazione e si prenderà cura dei
cittadini.
Trattare il tema dell'educazione e prevenzione alla sicurezza e alla salute è ancora più
importante quando ci si rivolge a una popolazione con età prevalente compresa tra i 19 e i 28
anni, in procinto di iniziare il percorso professionale. Durante il percorso formativo e nel tirocinio
allo studente sono fornite informazioni per la sua sicurezza (per ridurre al minimo infortuni,
malattie professionali) e per la sicurezza dei pazienti (rischi clinici, errori ed eventi avversi). La
formazione deve tener conto di nozioni e di competenze tecniche (conoscenze specifiche per
svolgere un'attività con le regole e adempimenti connessi), ma anche di come queste vengono
percepite, assimilate e interpretate, di comportamenti ad esse correlati.
Nelle esperienze formative di tirocinio il processo di apprendimento, non è lineare, spesso è
accompagnato da tentativi ed errori, da sbagli, da insuccessi e riuscite. L'errore nel processo
educativo riveste un ruolo importante, perché fa parte dell'esperienza e dell'attività dell'essere
umano.
Scrive Karl Popper nel saggio Congetture e confutazioni del 1963:
66
«Per noi, dunque, la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza, della
probabilità o dell'attendibilità. Non siamo interessati allo stabilimento di teorie scientifiche in
quanto sicure, certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo soltanto
interessati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove sbagliamo, di
apprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie migliori».
Per quanto paradossale l'errore è un aiuto per la verità. Parlarne, intervenire, correggere
l'errore, permette allo studente di giungere a conoscenze adeguate ad affrontare la situazione.
La correzione dell'errore favorisce il tirocinante nel giungere a conoscenze più prossime alla
verità. Porre l'enfasi sulla conoscenza e non solo sulle regole mette lo studente in condizione di
imparare dagli errori. L'errore, in questo caso, diventa un elemento potente nella ricerca di
risposte e stimola il desiderio di conoscenza. Spesso l'errore è giudicato e punito, le
conseguenze si manifestano in forma di disapprovazione dei colleghi e mancanza di fiducia del
gruppo di lavoro. Il rischio di una cultura punitiva fa sì che l'errore sia nascosto e taciuto.
Nell'articolo saranno illustrati alcuni dati riguardanti un'indagine conoscitiva che ha utilizzato
gli strumenti della medicina narrativa1 e ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, i
coordinatori didattici delle sedi formative e i tutor di tirocinio sul tema della percezione di rischio
ed errore in tirocinio. I dati saranno utilizzati per migliorare la sicurezza del tirocinante e quella
del paziente e per monitorare e individuare strumenti atti a creare una più consapevole e diffusa
cultura della sicurezza nell'ambito dei tirocini. Dell'ampio lavoro condotto, saranno condivisi solo
i dati riferiti ai tirocinanti del Corso di Laurea di Infermieristica dell'Università di Ferrara2.
1. Trafficare con l'incertezza
L'idea di rischio è in relazione allo sviluppo della società moderna occidentale, ai suoi
tentativi di controllare il futuro e ai meccanismi per farlo. Nello stesso tempo gli individui
associano all'idea di rischio il bisogno crescente di sicurezza.
Il termine rischio è stato acquisito dalla lingua inglese dal portoghese ed è stato utilizzato
per descrivere i viaggi degli avventurieri europei nelle esplorazioni del secolo XVI. Da quel
momento è stata diffusa "fisicamente" l'idea del rischio come momento in cui s'incontravano
acque che non rientravano nelle mappature nautiche. L'area rischiosa era un'area non
mappata del mare, quindi sconosciuta e pericolosa. Questo però non ha fermato l'uomo e il
desiderio di scoprire e conoscere: si assume un rischio in conformità a un aumento di
1
Il lavoro di ricerca è stato elaborato come tesi nell’ambito del Master di Medicina Narrativa Applicata
di Istud, si ringrazia la dott.ssa Paola Chesi per il supporto metodologico e il Direttore del Master
dott.ssa Maria Giulia Marini.
2
Si ringrazia il Direttore del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara,
dott.ssa Cristina Loss e il suo gruppo di lavoro. Si specifica che l’Università, a seguito di apposita
convenzione con l’Azienda, affida la responsabilità a svolgere al suo interno la parte teorica
disciplinare specifica e tecnico-pratica del curricolo formativo. L’Azienda in quanto Sede formativa del
Corso di Laurea in Infermieristica, articola in docenze i contenuti e i comportamenti professionali di
ruolo. Questi ultimi si sperimentano prima in appositi laboratori, poi nella realtà operativa dei servizi, in
forma di tirocinio. Questa parte è affidata ai Tutor coordinatori didattici. La responsabilità della sede
formativa è affidata al Direttore delle attività didattiche. Sia i Tutor, sia il Direttore sono professionisti
dell’Azienda. Nella formazione universitaria, il tirocinio curriculare è previsto nell’ordinamento di un
corso di Studi per il conseguimento di una laurea triennale o magistrale. A questo percorso viene
riconosciuto uno specifico numero di crediti universitari e la sua regolamentazione è gestita
autonomamente da ogni Ateneo, nel rispetto della normativa nazionale e regionale in materia, con la
finalità di «integrare i percorsi didattici con esperienze di formazione professionalizzante, ricerca,
elaborazione delle esperienze condotte nelle aree produttive, dei servizi, delle relazioni sociali e delle
attività culturali».
67
possibilità future e di una qualità di vita migliore. Così, se in origine il rischio è stato
considerato una nozione spaziale legata alla conoscenza di mondi nuovi, rapidamente è
divenuto un termine riferito alla dimensione temporale e ai comportamenti dell'individuo. Più
ci si confronta con una società aperta che volge il suo sguardo al futuro, più si è costretti a
pensare in termini di rischio e insicurezza.
Nella società moderna, Ulrich Beck afferma che, «i rischi suggeriscono solamente cosa
non si dovrebbe fare, non cosa si dovrebbe fare» (2000) e per essere accertato il rischio ha
bisogno degli strumenti, delle teorie, e degli esperimenti della scienza, che a sua volta è
fonte di soluzione ma anche causa di rischio. Convivere con queste incertezze non è facile
per l'uomo che deve confrontarsi con il futuro.
Se la società in cui viviamo è governata dall'incertezza e dal rischio, come educare e
formare i futuri professionisti delle professioni sanitarie? La dimensione formativa che si
realizza nel tirocinio è un aspetto prezioso, ancor più oggi, in un mondo caratterizzato dalla
continua mutevolezza e dalla complessità dei processi di lavoro, che sempre di più
richiedono coinvolgimento e creatività personale da parte di chi lavora. I tirocinanti dei
percorsi di laurea delle professioni sanitarie entrano in organizzazioni complesse con
tecnologie sofisticate, con situazioni che richiedono risposte e decisioni a volte tempestive.
L'ambiente lavorativo costituisce un giacimento di principi teorici, tecniche operative e
azioni che rappresentano la struttura fondante, a volte manifeste e a volte nascoste, delle
attività che lo compongono. Ne consegue che il lavoro è una pratica in sé istruttiva, formativa
ed educativa. Una pratica che il tirocinante, se guidato, può osservare e analizzare per
comprendere gli aspetti tecnici e i principi teorici, può sperimentare per sviluppare le abilità
manuali che permettono di eseguirla e sulla quale può riflettere dopo averla attuata, per
acquisire le competenze che gli consentono di svolgerla nel modo più utile e giusto.
All'interno del tirocinio avviene la ricomposizione del "divorzio tra la mente e la mano".
Sennet parla di «intimo nesso tra la mano e la testa», dialogo che «si concretizza
nell'acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione
e individuazione di problemi», invita a superare le storiche «linee di faglia che dividono la
pratica dalla teoria, la tecnica dall'espressività, l'artigiano dall'artista, il produttore dal fruitore»
(2008). Ricomposizione difficile se non è guidata da un professionista esperto e se il servizio
che accoglie il tirocinante non ha le caratteristiche per favorire apprendimenti e competenze.
Il tirocinante entra nei servizi con le sue conoscenze, esperienze di vita, con aspettative di
conferme che la strada individuata sia quella giusta. Nel tirocinio lo studente mette in gioco le
sue capacità, i suoi sogni, i suoi desideri, i suoi limiti, ciò che sa e sa fare. Essendo in
formazione, il tirocinante non sempre riesce a padroneggiare le variabili presenti
nell'organizzazione e nella gestione delle relazioni. Se da una parte il tirocinante è
consapevole che il percorso di tirocinio favorirà apprendimenti, è altrettanto consapevole di
essere esposto a possibilità di rischi ed errori. Il tirocinio permette di entrare in contatto con
situazioni ad alto tasso di problematicità e il tirocinante può trovarsi in situazioni in cui non
esiste sempre una risposta disponibile. La soluzione richiede esperienza professionale,
capacità di problem solving. Un sapere teorico è quello che, rispetto a certe situazioni
problematiche, indica e fornisce strategie da adottare. Il tirocinante nei servizi, si trova a
gestire relazioni complesse con casi unici, differenti l'uno dall'altro, dove le risposte non
possono essere standardizzate, applicando semplicemente la teoria. Racconta una
tirocinante:
«l'impatto iniziale mi spaventa. Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichino
in sala simulazione. Lavorare sul manichino è diverso: non reagisce, non prova dolore,
non ha una storia e se sbaglio non succede nulla. Con la persona che sta male è tutta
un'altra cosa. Se sbagli non torni indietro» (Di Renzo R., Bellamio D., 2011).
68
Prendere delle decisioni ha delle implicazioni, come ben descrive la nostra tirocinante.
Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non può essere annullata.
L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzata non si è più padroni
delle conseguenze.
2. Il disegno di ricerca e gli strumenti
La sicurezza nel Servizio Sanitario è un obiettivo primario sia per i pazienti ma anche per i
suoi professionisti. Questa tematica, affermatasi recentemente, investe il mondo sanitario e il
mondo formativo: la strada da percorrere affinché siano garantite cure di qualità e sicure
necessita dell'impegno coordinato tra i vari attori. La sinergia tra mondo accademico e mondo
dei servizi può contribuire e sviluppare la cultura della sicurezza nei riguardi dei futuri
professionisti.
Nel tirocinio le conoscenze, le competenze, le abilità e i comportamenti appropriati entrano
in gioco interagendo con il contesto in cui si apprende e si agisce. Il tutor è consapevole che
l'"'elemento umano" influenza il "sistema sicurezza" (ambiente di lavoro, normative, procedure e
tecnologie, ecc…) attraverso l'adozione o meno di comportamenti sicuri, ma anche attraverso la
condivisione o meno di valori culturali, la comunicazione delle informazioni, il clima
organizzativo, ecc.
È sicuramente interessante e utile analizzare il rapporto che intercorre tra sicurezza,
comportamento umano, errore e qualità delle attività professionalizzanti. I comportamenti sono il
risultato di interazioni complesse che coinvolgono personalità, aspettative, motivazioni,
professionalità, contesto lavorativo, rete sociale. Comportamento individuale e contesto sociale
si influenzano reciprocamente, così come le carenze teoriche influenzano le attività
professionali.
Per conoscere ed esplorare il tema del rischio e dell'errore in tirocinio è stata avviata
un'indagine. Il lavoro prende in considerazione i diversi stakeholder del sistema formativo:
coordinatori didattici delle sedi formative, tutor dei servizi e studenti.
Per indagare sono stati elaborati uno strumento qualitativo e uno strumento quantitativo3.
I questionari sono stati elaborati tenendo presente il percorso del tirocinante nel tirocinio,
dall'ingresso nel servizio, alle relazioni che instaura, alle aspettative che hanno i
professionisti e i malati nei suoi confronti, alla sua preparazione teorica, per poi affrontare i
temi delle responsabilità, delle autonomie, del rischio e dell'errore. L'intento era
accompagnare il tirocinante a rispondere alle domande, ma soprattutto offrire uno spazio per
riflettere sull'esperienza e in particolare per riflettere su come percepisce e affronta il tema
del rischio e dell'errore e sull'influenza che ha nel suo percorso di apprendimento. I
questionari contengono le stesse domande (22 quesiti): il questionario qualitativo ha
3
Gli strumenti elaborati sono stati due: un questionario qualitativo e un questionario quantitativo rivolto ai
tutor didattici delle sedi formative universitarie, ai tutor dei servizi e ai tirocinanti. Sono stati coinvolti per
la compilazione dello strumento tre corsi di laurea: Corso di Laurea in fisioterapia dell’Università degli
studi di Bologna; il Corso di Laurea in Ostetrica/o dell’Università degli studi di Bologna; il Corso di Laurea
in Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara. Alla compilazione hanno partecipato gli studenti del
triennio. Sono stati coinvolti per compilare il questionario qualitativo 45 studenti, 9 coordinatori didattici
della sede formativa universitaria e 45 tutor dei servizi. Per quanto riguarda lo strumento quantitativo
sono stati coinvolti per la compilazione: 135 studenti, 9 coordinatori didattici della sede formativa
universitaria e 90 tutor dei servizi. I questionari, seguendo un percorso immaginario di tirocinio,
affrontano le tematiche legate all’organizzazione, alle relazioni, alla sfera psicologica e infine alla
preparazione dello studente. L’indagine è stata condotta nel 2014/15.
69
domande aperte, mentre nel questionario quantitativo le risposte sono state codificate. La
compilazione era anonima. I questionari sono stati consegnati alle sedi formative
universitarie e per mail ai tutor dei servizi dell'AUSL di Bologna. Ogni questionario era
introdotto da una nota che spiegava le finalità dell'indagine.
Una prima considerazione che si può fare, leggendo i dati, è che i tirocinanti si sono resi
disponibili non solo a partecipare all'attività ma anche a raccontare la loro esperienza di
tirocinio vissuta. Tuttavia, in generale si evince un certo limite di apertura, forse causato dal
fatto che gli studenti non si sono sentiti completamente liberi di esprimersi e in qualche caso
si sono limitati a raccontarsi dal punto di vista delle proprie competenze, rimanendo su un
piano che si potrebbe definire accademico.
3. Il linguaggio utilizzato dagli studenti per raccontare le esperienze di
tirocinio
Ci sembra utile prestare attenzione al linguaggio utilizzato dai tirocinanti del Corso di
Laurea in infermieristica nelle loro narrazioni. Linguaggio che può influenzare le relazioni. Le
esperienze sono state raccolte attraverso l'utilizzo di un questionario qualitativo (traccia
semi-strutturata) che ha guidato le narrazioni su specifici temi d'interesse e, nello specifico, li
ha portati a trattare il tema del rischio e dell'errore.
Interessante è l'analisi del linguaggio utilizzato e la frequenza delle parole. Le prime 50
espressioni più frequenti nelle storie dei tirocinanti sono le seguenti:
Per quanto si tratti di dati quantitativi che vanno contestualizzati e integrati alle analisi
qualitative, è significativo che le espressioni che ricorrono con maggior frequenza siano le
parole "paziente/pazienti", a sottolineare l'importanza che l'incontro con le persone in cura ha
avuto nell'esperienza di tirocinio. Ulteriore conferma anche dalle frequenze delle parole
"persona/persone" e "rapporto". L'aspetto relazionale è predominante nelle esperienze di
tirocinio, prevale anche rispetto alle esperienze assistenziali.
Sono frequenti le espressioni "molto", "tanto", "sempre", "tutto/i/e", termini quantitativi
piuttosto totalitari che servono a enfatizzare i concetti espressi. La loro ricorrente presenza è
indicativa dell'importanza che ha avuto il tirocinio per gli studenti.
Il terzo gruppo di espressioni più frequenti è il verbo "fare", "fatto", "agire", indicativo
dell'importanza che ha per i tirocinanti la possibilità di mettere in pratica le conoscenze
teoriche: una delle loro principali aspettative.
70
Le frequenti parole "preparato/a, preparazione" e "competenze", sottolineano una certa
tensione nel sentirsi adeguatamente preparati o nel voler dimostrare le proprie conoscenze.
Essendo il linguaggio molto disease-centered, le parole "terapia", "prelievo/i",
"somministrazione" rientrano tra le pratiche cliniche che maggiormente impegnano i
tirocinanti nelle loro attività.
Tra le altre parole più frequenti, "collaborare", "collaborazione" rilevano l'importanza delle
relazioni di équipe; "difficoltà"; "aspettano", "aspettarsi" rimandano alle aspettative percepite;
"imparare", "rispetto", come uno dei valori maggiormente ricorrenti nelle storie; "autonomia",
obiettivo a cui tendono i ragazzi, e "dovere" come impegno e responsabilità.
Il linguaggio utilizzato nelle storie degli studenti è tendenzialmente uniforme e si può
definire in parte "disease" ed in parte "illness4.
La componente di disease è molto presente nella descrizione puntuale che i ragazzi
fanno delle loro attività e anche nello stile linguistico adottato, spesso molto asciutto e
sintetico, che lascia poco spazio allo sviluppo di considerazioni più ampie:
«Mi occupo di prelievi, inserimento di CVP e del CV, rifacimento del letto, igiene
perineale, preparazione e somministrazione della terapia, ECG, igiene del cavo orale,
somministrazione del clistere a grande volume, rilevamento dei PV, intramuscolo,
somministrazione dell'insulina per via intradermica».
«Nel Centro prelievi ho eseguito sia l'accettazione e la presa in carico della persona
registrandola nel sistema informatico e la raccolta di campioni, sia l'esecuzione dei
prelievi ematici. Nel CMG ho svolto la rilevazione di PA, FC e glicemia, l'esecuzione di
IM, medicazioni e somministrazione di farmaci EV, rifornimento e sistemazione della
farmacia e dei dispositivi e collaboravo con il chirurgo durante le operazioni chirurgiche
di piccola intensità».
«Mi occupo dell'assistenza infermieristica del paziente chirurgico. Gestisco sia il preoperatorio (accoglienza, presa in carico, preparazione pre-operatoria), la degenza o
post-operatorio del paziente in reparto (assistenza infermieristica di base, medicazioni,
terapia, lato relazionale) e la dimissione».
«In questo servizio mi impegno a garantire le cure primarie alla persona, e svolgo tutte le
attività infermieristiche che la persona necessita in questo servizio. Svolgo le mie attività
in base al turno lavorativo. In collaborazione o supervisione del mio tutor clinico inizio a
distribuire la terapia e a rilevare parametri vitali della persona, controllo il suo stato di
salute in quel momento, effettuo prelievi o altre tecniche se prescritte. In collaborazione
con un infermiere o dell' OSS faccio le cure igieniche della persona, per il rifacimento del
letto. Effettuo insieme al mio tutor clinico il giro visita con il medico, riferisco se ci sono
referti di esami di laboratorio o altri esami diagnostici del paziente, se necessario faccio
controllare e aggiornare dal medico il foglio terapia».
4
Le definizioni sono mutuate dalla Medicina Narrativa: “disease”(= malattia al centro): forniscono una
descrizione precisa, puntuale e generalmente asciutta della situazione attraverso un linguaggio
tecnico (come su una cartella clinica), che non lascia spazio a considerazioni più personali circa il
proprio stato d'animo. Rivelano un imbarazzo di fondo, una scarsa abitudine a raccontarsi. “illness” (=
l'esperienza della malattia al centro): raccontano le proprie emozioni, il vissuto dell’esperienza,
analizzando e reinterpretando i ricordi del percorso di tirocinio. Rivelano la voglia di raccontarsi e di
essere ascoltati.
71
In generale comunque gli aspetti di illness sono meno preponderanti rispetto a quelli di
disease. Quello che si può notare è che talvolta le narrazioni iniziano con un linguaggio più
disease-centered e gradualmente si aprono a considerazioni e riflessioni più inerenti alla
personalizzazione dell'esperienza, a dimostrare una scarsa consuetudine a raccontarsi ma,
nel contempo, la volontà di farlo e, forse, l'utilità di tale occasione di riflessione.
La componente della "illness" è invece più presente quando si parla delle relazioni con i
pazienti e l'equipe del servizio, o relativamente al significato dell'esperienza di tirocinio
vissuta:
«Ho avuto quasi l'impressione di star lì da una vita, perché sono riuscita a inserirmi
benissimo con tutti: ovviamente quando ci si deve rapportare con tanta gente è normale
che per alcuni si possa avere più simpatia rispetto ad altri».
«Inizialmente mi sono ritrovata molto spaesata poiché non vi è stata una vera e propria
accoglienza da parte del personale sanitario, ma con il tempo sono riuscita ad
ambientarmi anche grazie a un paio di infermieri molto amichevoli e cordiali nei miei
confronti».
Sono comunque molti gli aspetti che emergono da questo lavoro e che potrebbero
essere di utilità per la formazione e organizzazione delle esperienze di tirocinio, che
rappresentano indubbiamente un momento di grande importanza per gli studenti, come
confermato dalle loro narrazioni.
4. Analisi dei dati raccolti
Tutti gli studenti del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università degli Studi di
Ferrara, coinvolti nell'indagine, hanno compilato e inviato in forma anonima il questionario.
Molti hanno sottolineato che essendo il questionario composto di molte domande, il tempo
da dedicare non sempre era adeguato.
L'età media degli studenti che hanno partecipato alla ricerca è di 23 anni, e
prevalentemente frequentano il secondo o terzo anno del Corso di Laurea di in
Infermieristica:
6%
41%
I anno
II anno
III anno
53%
Le esperienze di tirocinio raccontate sono state svolte nei seguenti servizi: Casa protetta,
RSA, Servizio Medicina, Servizio Chirurgia, Medicina Riabilitativa, Geriatria, ASP, Servizio
post acuti, Servizio Chirurgia e Urologia, Hospice, Servizio Ematologia, Servizio Chirurgia
Trapianti. La maggior parte dei servizi frequentati fanno parte dell'AUSL di Bologna. Trattasi
di contesti notevolmente differenti sia per la tipologia di cure erogate, sia per l'impostazione
72
organizzativa. Infatti, ci sono strutture con 0 fino a 90 posti letto e, per quanto riguarda le
équipe, vengono descritti gruppi di lavoro dagli 8 ai 50 operatori.
Il contesto a cui si riferiscono le risposte, fornite dai tirocinanti, sono le esperienze di
tirocinio nei servizi frequentati nel periodo dell'indagine.
Domanda n°1: Cosa sto trovando
41%
7
6
5
4
3
2
1
0
35%
23,5%
17,6% 17,6%
11,7%
5,8% 5,8% 5,8%
Sono tendenzialmente positivi gli elementi descritti delle realtà in cui gli studenti hanno
svolto i loro tirocini. Nella maggior parte sono sottolineati gli aspetti di organizzazione dei
reparti, di collaborazione di équipe, di relazione con i pazienti, di preparazione professionale.
In qualche caso i tirocinanti sottolineano la novità del contesto in cui ci si trova, un ambiente
sconosciuto nel quale mettersi alla prova. Solo in poche storie viene sottolineata la negatività
del luogo, per la scarsa collaborazione trovata o per le difficoltà oggettive e organizzative del
reparto.
Domanda n° 2: Mi guardo intorno e vedo…
35%
6
5
4
3
2
1
0
23,5%
17,6%
11,7%
11,7%
11,7%
5,8%
5,8%
Sono in maggior parte positivi gli elementi descritti quando è chiesto agli studenti di
indicare con più spontaneità le sensazioni che provano stando nell'ambiente di lavoro in cui
svolgono il tirocinio. Ciò che viene maggiormente indicato è, di nuovo, l'aspetto
organizzativo, ma anche il clima percepito, l'attenzione alle persone in cura. In qualche caso
traspaiono sensazioni più negative, come, di nuovo, le difficoltà organizzative e lavorative dei
servizi:
73
«Nel servizio guardandomi intorno vedo sanitari che svolgono le proprie attività. Sono
rari gli episodi di confusione del reparto»
«Tante persone bisognose di aiuto pratico e di relazionarsi, sfogare le loro
preoccupazioni, le loro paure»
«Vedo un'équipe con delle conoscenze, grande esperienza lavorativa, e con
competenze non solo tecniche ma soprattutto relazionali, quelle di cui hanno
maggiormente bisogno questi pazienti; ho visto davvero infermieri molto preparati, con
tanta pazienza e tanta capacità di relazionarsi con queste persone che hanno bisogno di
aiuto, ho visto proprio una relazione d'aiuto, e non solo tra gli operatori e i pazienti ma
anche tra gli operatori e i familiari».
Domanda n°3: A cosa presto attenzione…
58,8%
58,8%
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
0
17,6%
5,8%
L'aspetto cui si presta più attenzione è quello relazionale, soprattutto rivolto al paziente.
È inoltre oggetto di prioritaria attenzione tutto ciò che riguarda le pratiche, le manovre
infermieristiche e la somministrazione delle terapie. In qualche caso è accennato il tema
della sicurezza, sia personale sia dei pazienti; meno sentito è il tema dell'autonomia rispetto
alle attività:
«Presto molta attenzione soprattutto alla preparazione e somministrazione della terapia
e durante tutte le procedute diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali, per evitare
complicanze»
«Nella mia pratica quotidiana presto attenzione ad acquisire competenze tecniche, ma
soprattutto cerco di concentrarmi molto nel campo relazionale, cerco di creare un
rapporto d‘aiuto con la persona, di capire qual è il suo bisogno, e la cosa che faccio
spesso è cercare di mettermi "nei suoi panni", o di pensare che lì ci fosse un mio
familiare, questo mi porta a darmi quasi completamente verso quella persona»
«Non considero prioritario un aspetto della mia pratica quotidiana in reparto rispetto ad
un altro. Importante è per me l'ordine con il quale svolgo le mie attività»
74
«Presto attenzione a tutto quello che per me è nuovo e a tutto quello sul quale ho ancora
dei dubbi. Esempi che potrei fare sono: i drenaggi epatici, a me sconosciuti fino all'arrivo
in reparto; o determinate terapie come gli immunosoppressivi accompagnati dai loro
effetti collaterali e dalle complicanze che provocano»
«Gli approfondimenti relativi alle competenze intellettuali sono stati affrontati con il tutor e
in alcuni casi con i medici, per le competenze gestuali e/o relazionali ho avuto un valido
supporto da parte del tutor clinico».
Domanda n°4: I miei punti di riferimento
16
14
12
10
8
6
4
2
0
88%
35%
23,5%
11,7%
5,8%
Il punto di riferimento principale è il tutor o il coordinatore infermieristico di reparto, che
concordano un piano di lavoro e seguono i tirocinanti giorno per giorno supervisionando
costantemente il lavoro dei tirocinanti e i loro apprendimenti:
«Il mio punto di riferimento durante questo tirocinio è stato la mia tutor clinica, perché
con lei ho trascorso gran parte del tempo, lei mi ha spiegato con molta pazienza tutto ciò
che riguarda l‘organizzazione del reparto. Mi è stata sempre vicino. Non mi sono sentita
mai sola, anzi, mi ha sempre chiarito ogni dubbio. Con lei si è anche creato un bellissimo
rapporto che non è solo quello di tutor-tirocinante. Mi ha ascoltato, mi è venuta incontro
tutte le volte in cui ho avuto bisogno».
In qualche caso gli studenti sono affiancati da infermieri e Operatore Socio-Sanitario
(OSS); in rari casi direttamente dall'intera équipe. In un solo caso si parla di sostegno tra
tirocinanti.
75
Domanda n° 5: L'inserimento nell'équipe…
12
64,7%
10
8
29,4%
6
29,4%
23,5%
4
11,7%
2
5,8%
0
L'inserimento nel gruppo di lavoro è considerato positivo nella maggior parte delle
esperienze; in qualche caso si rileva la disponibilità degli operatori e l'immediatezza
dell'inserimento. I tirocinanti raccontano di inserimenti difficili, per mancanza di una vera e
propria accoglienza, per la gradualità del consolidamento delle relazioni e dell'instaurare
rapporti di fiducia. In un solo caso è riportata un'esperienza in cui la tirocinante non è stata
integrata nel gruppo di lavoro.
Domanda n° 6: Il rapporto con i pazienti…
41%
7
6
29,4%
5
23,5%
4
3
11,7%
2
1
0
Rispetto,
disponibilità,
dialogo,
ascolto
Bellissimo,
fanstastico,
ottimo
cercavo di dare
Ci
risposte
ringraziavano,
confortante
I tirocinanti descrivono solo esperienze positive relativamente alle relazioni instaurate
con i pazienti, fondate per lo più su rispetto reciproco, disponibilità, dialogo e ascolto. Per
qualche studente instaurare una buona relazione ha rappresentato uno degli elementi di
maggior soddisfazione dell'esperienza di tirocinio. In qualche caso si rileva la difficoltà a
fornire risposte al paziente, poiché non sempre si hanno gli elementi per rispondere alle loro
richieste. Per alcuni tirocinanti, è fonte di disagio.
76
Domanda n° 7: Il rapporto con la sede formativa…
70,5%
12
10
8
35%
6
23,5%
4
11,7%
2
0
Disponibilità,
aiuto,
presenza
Non ne ho
avuto bisogno
Splendido,
ottimo
rapporto
Fiducia,
sincerità
5,8%
Riferimento
per difficoltà
Molto positive sono le relazioni con i coordinatori della sede formativa universitaria. I
tirocinanti evidenziano la disponibilità e la loro costante presenza durante l'esperienza. In
alcuni casi gli studenti pongono l'accento su come l'esperienza positiva di tirocinio abbia fatto
sì che non fosse necessario l'intervento dei coordinatori didattici. In altri casi è stato
necessario un supporto per affrontare alcune difficoltà incontrate dal tirocinante.
Domanda n° 8: Cosa si aspetta da me l'équipe…
19%
43%
volontà di imparare,
impegno
preparazione, autonomia
38%
correttezza,
collaborazione
Le aspettative che gli studenti percepiscono su di loro da parte dell'équipe riguardano
prevalentemente: dimostrare l'interesse ad apprendere, essere responsabili e attenti durante
le attività e garantire impegno quotidiano a trasferire nella pratica quanto appreso. Si
attendono disponibilità, rispetto e collaborazione con il gruppo di lavoro. In qualche caso
vengono sottolineate l'importanza della preparazione, delle competenze acquisite e
l'autonomia nel caso di studenti del terzo anno, autonomia con supervisione:
«L'equipe si aspetta che sia preparata e pronta a gestire il mio lavoro al meglio. I pazienti
si aspettano che sappia quello che faccio e che mi occupi di loro»
«Che sia preparata, affidabile e responsabile»
«Che sia attenta, partecipe e curiosa»
«Che sia professionale e collaborativa»
77
Domanda n°9: Cosa si aspettano da me i pazienti…
Cosa si aspettano da me i pazienti
43%
rispetto, ascolto, umanità
57%
assistenza completa e
competente
È interessante notare come il tirocinante "legga" le aspettative del paziente. I pazienti,
secondo i tirocinanti, si aspettano molto semplicemente di essere rispettati, ascoltati e curati
con umanità. Altrettanto importante è la competenza professionale e la loro sicurezza. Le
attese dei pazienti vengono lette come un mix equilibrato tra una buona relazione associata
alla qualità dell'assistenza.
Domanda n° 10: Le responsabilità…
16
88%
14
12
10
8
6
11,7%
4
11,7%
2
0
Pratiche
infermieristiche
corrette,
attente,
autonome
Supporto
morale ai
pazienti
Puntualità e
professionalità
5,8%
Non creare
danni
5,8%
Aiutare il
personale
Le responsabilità che gli studenti sentono di avere durante il tirocinio sono in gran parte
legate alla preparazione e alla competenza nello svolgimento delle pratiche
cliniche/assistenziali, di somministrazione corretta e attenta della terapia:
«Prestare attenzione a quello che faccio, prestare attenzione alle consegne, sia a quelle
che ricevi che a quelle che riferisci ai colleghi, affinché l'informazione sia completa,
svolgere attività in maniera corretta sulla base di conoscenze pregresse e di evidenze
scientifiche»
78
«Le responsabilità che mi sono state affidate riguardano essenzialmente la gestione
delle pompe di infusione, dei cvc, quindi medicazioni, prelievi, tecniche per le quali ho
raggiunto un buon livello di autonomia. Per quanto riguarda la terapia, soprattutto per la
sua preparazione sono autonoma, mentre per l'infusione di chemioterapici collaboro col
tutor o con gli altri infermieri in turno».
Domanda n° 11: Criteri di autonomia…
35%
35%
6
5
4
17,6%
3
11,7%
11,7%
2
1
0
Sono stato
osservato/a
sono stato
supervisionato/a
nelle prime
manovre
autonomia
basata su
conoscenze
teoriche
autonomia
basata su
disponibilità
tirocinante
autonomia
basata su livello
difficoltà
Il livello di autonomia dei tirocinanti, così come descritto nelle loro narrazioni, è
generalmente definito dopo un periodo di osservazione, di collaborazione, di gestione
dell'attività con supervisione. In rari casi l'autonomia si basa sul livello di conoscenze
teoriche raggiunte fino a quel momento. Ci sono situazioni in cui al tirocinante viene
accordata la possibilità di gestire l'attività in autonomia con la supervisione del tutor.
Domanda n° 12: Quando mi sento a mio agio…
23,5%
Quando mi sento a mio agio
4
3,5
17,6%
3
2,5
11,7%
11,7%
2
1,5
5,8%
5,8%
1
0,5
0
quando ho le quando sono
conoscenze/mi
con tutor
sento
preparato/a
quando sono quando ho già quando lavoro quando lavoro
con i pazienti
fatto una
in autonomia in un ambiente
manovra
collaborativo
infermieristica
Molte sono le situazioni in cui il tirocinante si sente a proprio agio. Le più comuni
riguardano il livello di preparazione percepito: in altre parole gli studenti si sentono a loro
agio quando sono chiamati a fare operazioni che conoscono e hanno già svolto in
precedenza. Si sentono sicuri e in grado di gestire le situazioni quando sono accompagnati e
seguiti dal proprio tutor.
79
Domanda n° 13: Quando non mi sento a mio agio…
23,5
Quando non mi sento a mio agio
4
3,5
17,6%
17,6%
3
2,5
2
1,5
5,8%
5,8%
5,8%
5,8%
1
0,5
0
quando svolgo per
la prima volta una
nuova
manovra/affronto
una nuova
situazione
quando sento di
non essere
preparato/non
avere le
conoscenze
quando lavoro in
autonomia/non
sono con tutor
quando mi sento
osservato
quando lavoro in
un ambiente non
collaborativo
quando sono in un quando mi viene
nuovo ambiente imposto qualcosa
e non concordo
Ci si sente a disagio quando si è chiamati a svolgere un'attività per la prima volta e non
si ha la percezione di essere sufficientemente preparati. Non ci si sente sicuri ma a disagio
quando ci si sente un po' abbandonati e non si ha il supporto diretto del tutor.
Domanda n° 14: Quando ho dei dubbi…
Quando ho dei dubbi
10%
10%
chiedo a
tutor/infermieri/equipe
mi documento
80%
non agisco
È molto lineare la reazione descritta dai tirocinanti in caso di dubbi, prima di agire, si
chiede aiuto al tutor di riferimento o in qualche caso anche a infermieri e professionisti
dell'equipe presenti nel servizio.
80
Domanda n° 15: Quando sbaglio…
8
6
4
2
41%
23,5%
11,7% 11,7%
5,8% 5,8% 5,8% 5,8%
ch
ie
do
Ri
fe
ris
c
o
a
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r/
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..
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va
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m
ia
lp
rr
an
ab
ico
bi
o
co
n
m
e.
..
0
Quando si sbaglia, il comportamento più diffuso da parte dei tirocinanti è quello di
comunicare immediatamente al tutor e al resto dell'équipe, in modo da rimediare il più
velocemente possibile. Uno studente riferisce:
«Stavo facendo una manovra e capivo di non farla bene, ho chiesto aiuto. Capivo di non
sapere fare quell'attività assistenziale e temevo la reazione del paziente. Siamo ancora
studenti e siamo in apprendimento».
Dopo l'intervento dei professionisti, il tirocinante chiede dove ha sbagliato e ripercorre
descrivendo minuziosamente ciò che ha fatto per capire l'errore e soprattutto come porre
rimedio e non sbagliare più in futuro:
«Il mio tutor sottolinea spesso di chiedere, nel caso ci sia un dubbio, e che non disturbo
mai, anche se è impegnata. Importante è che io comunichi la mia difficoltà o disagio. A
volte basta uno sguardo per capirsi che quella pratica non l'ho mai fatta».
In questo caso si può evidenziare che un buon rapporto mette nella condizione lo
studente di chiedere aiuto e che questo non pregiudica la relazione di fiducia e di valutazione
degli apprendimenti. In altri casi il tirocinante comunica:
«Presto molto attenzione quando somministro i farmaci. Una piccola disattenzione può
causare esiti molto gravi»
La studentessa ci vuole segnalare che l'errore accade quando l'esecuzione è effettuata
in modo "automatico", cioè seguendo uno schema ben consolidato, fino a una distrazione o
al calo dell'attenzione. Un tirocinante racconta:
«Quella mattina tutto girava vorticosamente, bisognava fare tutto e velocemente. Mi reco
dal paziente, dovevo somministrare dei farmaci per endovena. Saluto il paziente, lo
informo di quello che dovevo fare e poi proseguo. Terminata l'attività esco dalla stanza.
Non appena varcata la soglia mi sento chiamare, torno indietro e il paziente mi fa notare
che non avevo tolto l'ago dalla vena. Sarei voluto sprofondare…».
Quando il tirocinante sbaglia e può correggere immediatamente l'errore non informa il
tutor o il professionista presente in servizio. Il non informare il tutor da cosa dipende? Il
tirocinante non ha dato il giusto peso a quello che accaduto? Nella fretta di svolgere altre
attività ha dimenticato l'episodio? Il peso della vergogna era tale da non poterlo condividere?
Ha avuto paura di un severo giudizio da parte del tutor e di perdere la sua fiducia?. Il
tirocinante è consapevole di partire svantaggiato nel suo essere "neofita", ci tiene ad
apparire affidabile, responsabile e degno di fiducia: l'essere degni di fiducia costituisce un
81
capitale simbolico importante. Si può pensare che una delle principali cause di mancata
segnalazione possa essere il timore di perdere credibilità e affidabilità e, quindi, possa
esserci una possibile sottostima di quanto ufficialmente dichiarato. Nella maggior parte dei
casi le conseguenze non sono riscontrabili perché ritenute irrilevanti e si risolvono con la
ripetizione della manovra infermieristica in questione, e con il fatto che i provvedimenti
maggiori sono quelli di risolvere, attraverso chiarimenti e discussioni, l'episodio.
Domanda n° 16: Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore…
Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore
23%
31%
poco
abbastanza
preparato/a
46%
In generale gli studenti si sentono "abbastanza preparati" al tema del rischio dell'errore,
più per le conoscenze teoriche acquisite nei laboratori attivati dalla sede formativa
universitaria. I tirocinanti ricevono un'approfondita formazione teorica e hanno la possibilità di
trasferire gli apprendimenti all'interno di laboratori simulando situazioni che comportano
rischi. Un tirocinante racconta:
«Preliminarmente all'invio in tirocinio mi sono state fornite informazioni riguardanti la
sicurezza (anche addestramento all'uso dei DPI) e ai comportamenti da adottare in caso
di infortunio (messa a disposizione di documentazione di ateneo e aziendale). Viene
svolto un incontro precedente all'inizio del tirocinio, in cui siamo presenti tutti ( tutor
clinico, studente e tutor didattico) e mi vengono fornite informazioni sulla sede di tirocinio
anche relative a comportamenti da adottare in caso di criticità»
Un altro tirocinante ci dice che
«…le indicazioni di allert sono sempre da prendere in considerazione con una presa di
coscienza a 360°…».
«...il mio tutor mi dice che in situazioni critiche devo evitare di essere d'intralcio durante l
'intervento degli operatori sanitari per evitare errori».
Al termine del tirocinio molti temi riguardanti il rischio e l'errore sono ripresi e chiariti
nell'ambito della sede formativa universitaria
82
Domanda n° 17: Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze…
Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze
19%
25%
poco
abbastanza
preparato/a
56%
Gli studenti percepiscono di avere un buon livello di preparazione. Gli apprendimenti
teorici sono, tendenzialmente, considerati sufficienti per affrontare l'esperienza di tirocinio:
«Credo di aver acquisito le conoscenze di base per sostenere attività e problemi presenti
nei servizi. Sono in grado di affrontarli e di valutare gli esiti del mio intervento positivi o
negativi che siano. Naturalmente le attività devono essere coerenti con gli obiettivi di
tirocinio e quindi con la mia preparazione».
«Mi sento abbastanza preparato perché ho ricevuto le basi necessarie per svolgere il
lavoro richiesto».
Domanda n° 18: L'ascolto del paziente…
6%
6%
6%
molto
6%
45%
poco
nessuno
né troppo né poco
si potrebbe fare di più
dipende
31%
Lo spazio dato all'ascolto del paziente e dei suoi famigliari si distribuisce tra contesti in
cui viene data molta importanza e altri contesti in cui viene considerato "poco" il tempo
messo a disposizione per il dialogo e l'ascolto delle persone in cura:
…«L'ascolto è fondamentale per questo tipo di pazienti. Infatti, si cerca sempre di
fermarsi quanto più è possibile, per fargli capire che noi siamo lì per loro e per aiutarli
anche magari solo facendo una chiacchierata di pochi minuti: per loro può essere molto»
«In questo servizio dove io sto svolgendo tirocinio tantissimo, non ho mai visto degli
infermieri "correre" perché altrimenti non si riesce a finire la somministrazione della
terapia, si dà molta più importanza all'ascolto della persona, possiamo dire che è una
priorità».
«Poche persone dell'équipe hanno capito quanto sia importante ascoltare il paziente.
Spesso si crede di risolvere i problemi del paziente somministrandogli la terapia. Spesso
il paziente ha bisogno di una parola in più, di un chiarimento in più, piuttosto che delle
gocce per dormire. Ha bisogno magari di un sorriso quando si entra in camera per
sentirsi più tranquillo e ha bisogno di risposte più dettagliate per contenere la sua ansia».
83
Domanda n° 19: L'ascolto tra gli operatori…
L'ascolto tra gli operatori
6%
6%
44%
molto/sempre
poco/non sempre
il giusto
dipende
44%
L'ascolto tra operatori delle equipe, in alcuni contesti è definito adeguato e continuativo,
in altri descritto come molto limitato e discontinuo.
Domanda n° 20: Cosa sto imparando…
29,4%
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
0
23,5%
17,6% 17,6%
11,7% 11,7%
5,8%
5,8%
5,8%
5,8%
Sono molte e frammentate le descrizioni di quanto s'impara dall'esperienza di tirocinio.
Una prima considerazione è che l'esperienza di tirocinio ha permesso ai tirocinanti di
crescere dal punto professionale e personale. L'aspetto relazionale domina, sia
relativamente alle relazioni con i pazienti, sia alle relazioni con i professionisti presenti nel
servizio. Fondamentale è l'apprendimento di competenze tecniche e cliniche e l'importanza
di lavorare in sicurezza. Non mancano riflessioni legate alla professione scelta sia come
scoperta di un lavoro appassionante, impegnativo e utile, ma anche faticoso
psicologicamente e fisicamente:
«Sto imparando a svolgere le tecniche e i meccanismi farmacologici che ci sono dietro
ad ogni farmaco».
«Sto imparando che la responsabilità è il principio cardine di questo lavoro come tanti
altri ed è fondamentale per agire in totale sicurezza».
«Da questa esperienza ho imparato che il ruolo dell'infermiere è faticoso, è impegnativo
soprattutto perché il lavoro del reparto non lo puoi lasciare lì ma è inevitabile pensarci
quando si rientra a casa. Nonostante ciò penso che sia il mestiere adatto a me perché
84
sento di poter dare il meglio di me alle persone malate. Riesco a far sorridere un
malato».
«Penso che questa sia una professione che oltre a dare alla persona dà tanto anche a
te. A volte quando torno a casa da questo "reparto" penso che tutte le altre mie cose
sono nullità rispetto a ciò che vedo quando sono in tirocinio, penso che i miei piccoli
problemini non sono niente. Da questa esperienza ho imparato tante cose, non riuscirei
a descriverle per quante sono. Ho potuto vedere da vicino la sofferenza, capire che sono
lì i veri "problemi" della vita… quest'esperienza mi ha aiutato a dare molta più importanza
alle cose, a non prendere nulla in maniera superficiale, mi ha fatto crescere tanto non
solo professionalmente, ma anche personalmente. Oltre a essere un periodo di
apprendimento è stato anche un periodo di grande riflessione. Immagino il mio futuro
percorso come una continua crescita, e spero di essere sempre un'infermiera paziente,
fine della mia carriera lavorativa».
«Sto imparando tantissime nozioni che mi porterò nel bagaglio della mia vita, e non solo
di conoscenze teoriche ma anche l'importanza di instaurare i rapporti e di avere tanto
amore con gli ospiti».
«Sto imparando a lavorare bene in équipe, è fondamentale riconoscere tutti i bisogni
della persona e saperli risolvere. Mi immagino in futuro un'infermiera competente, quindi
preparata in tutti gli ambiti dell'assistenza al paziente, sia a livello delle conoscenze, sia
per quanto riguarda quello delle competenze gestuali e relazionali».
«Sto imparando molto, vivere quest'esperienza ha confermato la mia voglia di fare
questo mestiere».
Domanda n° 21: Un episodio in cui mi sono sentito/a in difficoltà…
17,6% 17,6% 17,6%
3
2,5
2
1,5
1
0,5
0
11,7% 11,7%
5,8%
5,8%
5,8%
Tra gli episodi raccontati, le difficoltà maggiori sono descritte in situazioni in cui non si sa
cosa dire o cosa fare di fronte al paziente, in altre parole non ci si sente in grado di fornirgli la
risposta che chiede. Ciò crea un forte disagio e sentimento di frustrazione nei tirocinanti:
«Per la mia esperienza svolta mi sono sentita poco soddisfatta poco seguita e quindi in
alcuni casi mi sono trovata in difficoltà: difficoltà con l'équipe, con i familiari e alcune volte
con le consegne. Spero che la mia seconda esperienza di tirocinio sarà più formativa e
soddisfacente di questa esperienza».
85
«Da questa esperienza di tirocinio, immagino un percorso difficile per me, che ho sempre
fatto fatica a studiare materie scientifiche».
I tirocinanti riferiscono difficoltà relative alla qualità dell'esperienza del tirocinio, alle
relazioni instaurate e che le difficoltà incontrate possano rimettere in discussione la scelta
formativa. In altri casi le difficoltà sono diverse:
«Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichino in sala simulazione. I docenti
spiegavano come fare e come comportarsi. Mi mette ansia sbagliare. Lavorare sul
manichino è diverso: non reagisce, non prova dolore e se sbaglio non succede nulla. Con
la persona che sta male è tutta un'altra cosa».
Affrontare un problema pratico risulta spesso più complesso che affrontare una situazione
di natura tecnica o scientifica. Prendere una decisione ha delle implicazioni, come ben dice il
nostro tirocinante. Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non può
essere annullata. L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzata
non si è più padroni delle conseguenze. Non esiste un sapere capace di prevedere
l'imprevedibile dell'agire umano5 (Mortari, 2003.). Il sapere di cui si nutre l'esperienza è un
sapere che si costruisce con l'esperienza, cioè stando in un rapporto pensoso con quel che
accade (Idem, 2003).
Partecipare e agire nei contesti di cura non è sufficiente perché l'esperienza si trasformi in
sapere. Costruire sapere partendo dall'esperienza richiede la capacità di riflettere su quello
che si è fatto: solo così si elabora sapere. L'esperienza prende forma quando diventa
riflessione e l'individuo se ne appropria consapevolmente per capirne il senso. Il soggetto
"riflette in azione" e riflette sull'azione; non è più solo un esperto di contenuti ma diventa un
"professionista riflessivo" come afferma Schön (1993) e condividendo con altri la sua
esperienza rende visibile la sua maestria professionale. Il professionista, rispetto al
tirocinante, è capace di costruire sapere dall'esperienza attraverso la capacità di riflettere
sull'esperienza vissuta. La riflessione trasforma la routine in esperienza, riflessione,
narrazione.
Domanda n° 22: Quando torno a casa mi sento…
4%
4%
4%
4%
4%
soddisfatto, appagato
stanco/a
43%
11%
felice, bene
tranquillo
motivato
utile
poco soddisfatto/a
26%
arrabbiato/a
La sensazione maggiormente descritta dagli studenti al termine delle loro giornate di
tirocinio è di soddisfazione per quanto appreso e svolto. In generale prevale una sensazione
di positività nei confronti dell'esperienza:
«Mi sento bene (tranne situazioni eccezionali), perché so di essere stata bene in quelle 7
ore».
5
In pochi casi i tirocinanti riferiscono: «…Ho imparato che»
86
«So di aver creato buoni rapporti».
«Ho aiutato e sono stata utile».
«Mi piace pensare che il giorno dopo mi alzerò con la voglia di andare a vedere come
sta quel paziente che è stato operato, o di andare a salutare quello che fortunatamente
sarà dimesso».
«Ho imparato tanto, ho rafforzato molte competenze».
A volte si torna a casa con dubbi rispetto alla scelta professionale:
«Devo prepararmi di più a livello di conoscenze, e ho ancora tanto da imparare in ambito
relazionale ma anche tecnico. Avrò fatto la scelta giusta?...».
In molti casi riferiscono stanchezza, per l'intensità emotiva e i ritmi di lavoro cui
comprensibilmente gli studenti non sono ancora abituati; riferiscono di situazioni (ad es. nel
lavoro con i bambini) che lasciano "strascichi emotivi importanti", situazioni sulle quali si
continua a riflettere anche a casa.
5. Per non concludere.
Il tutor e il gruppo di lavoro come risorsa per costruire la cultura del rischio e
dell'errore
Quello che emerge dalla ricerca è un quadro abbastanza rassicurante: gli studenti
riferiscono di avere una formazione adeguata per affrontare le attività che dovranno svolgere
nei servizi; sentono di essere preparati anche sui temi che riguardano la sicurezza del
paziente.
Nei racconti degli studenti emerge l'importanza del clima presente nei servizi e delle
relazioni di fiducia che s'instaurano con i tutor e il gruppo di lavoro. Ciò permette ai tirocinanti
di essere liberi di raccontare gli errori, di farsi correggere e di riflettere sull'accaduto.
L'errore ha connaturata in sé una forza che, se interpretata ed impiegata nel modo
corretto, si palesa come strumento di incredibile utilità nel processo conoscitivo e di crescita
personale. L'impiego negativo dell'errore porta allo svilimento, impotenza e frustrazione nel
tirocinante. È, perciò, importante che il tutor e il gruppo di lavoro sostengano lo studente nel
suo percorso di indagine per individuare le cause dell'errore. Questo ci permette di dire che
in tirocinio l'interazione e lo scambio che avvengono tra i vari attori sono fonte di
arricchimento e crescita. Ciò che il tirocinante riceve dai tutor e/o dai colleghi, come risposta
a una sua azione o atteggiamento, costituisce un feedback necessario e indispensabile per
favorire il suo apprendimento.
L'apprendimento6, come quello che avviene in tirocinio, è un processo di costruzione,
non solo personale, ma frutto di un processo dinamico, scaturito dall'interazione con gli
6
Per Lave, Wenger, 2006, i principi di fondo dell’apprendimento situato sono: la conoscenza deve
essere presentata in un ambiente realistico, dove tipicamente quel tipo di conoscenza è richiesto;
l’apprendimento si verifica come funzione dell’attività, del contesto e della cultura in cui avviene;
l’apprendimento richiede l’interazione sociale e collaborazione. L’apprendimento si sviluppa
normalmente come risultato del coinvolgimento in attività; in precisi contesti; nel rapporto con le
persone.
87
oggetti e con gli individui; l'apprendimento è quindi il risultato di una condivisione della
conoscenza. Nel tirocinio, l'apprendimento non si configura come una pratica individuale e
svincolata dalle dinamiche e dal contesto di appartenenza, ma avviene attraverso attività
sociali e partecipative. La partecipazione del tirocinante alle attività dei servizi, così come
viene descritta nell'indagine, è graduale per far sì che non siano coinvolti e pressati dalla
responsabilità, dalla paura, dall'errore e dalla fatica. I compiti inizialmente sono semplici e il
costo degli errori è basso. Il tirocinante nel frattempo si appropria del sapere sociale
disponibile: ruotine tecniche, tradizioni lavorative, gerghi, rituali, trucchi del mestiere,
conoscenze tacite che caratterizzano l'esperienza e la cultura del gruppo. Con il passare del
tempo e delle competenze acquisite la partecipazione da periferica diventa legittima.
Essendo il tirocinante in formazione sarà sempre supervisionato.
Accade, però, che il tirocinante, anche se tutelato, affiancato, commetta errori. La paura
di sbagliare può indurre nello studente uno stato d'ansia che non gli permette di affrontare in
modo adeguato le situazioni che deve affrontare. Spesso non comunica il suo disagio per
evitare di essere esposto al giudizio del tutor e del gruppo di lavoro. Il non condividere la
scelta errata fa sì che il tirocinante viva una situazione di incertezza e di inquietudine e sarà
destinato, in solitudine, a doverne sopportare il peso.
Il tutor o il gruppo di lavoro che riusciranno ad intercettare il disagio, interverranno
sostenendo il tirocinante nella rielaborazione e nella condivisione dell'errore. Il tirocinante, in
questo caso, si sentirà sollevato dal peso degli eventi, riavviando il processo conoscitivo
interrotto:
«Ciò che ostacola maggiormente l'apprendimento esplorativo è la pressione a fingere
che gli errori non esistano. Per parlare dei propri errori è necessario sentirsi al sicuro.
Occorre avere la sensazione che la squadra consenta ai propri componenti di assumere
rischi interpersonali. I membri del team si rispettano l'un l'altro e si tengono
reciprocamente in considerazione? Nutrono la certezza di non essere rimproverati,
emarginati o penalizzati se faranno sentire la propria voce, o sfideranno prassi comuni o
opinioni predominanti?»
Questo ci fa capire quanto sia importante l'atteggiamento che il tutor, il gruppo di lavoro
hanno nel considerare e affrontare gli errori e se la cultura presente permetta, ai
professionisti, di sentirsi a proprio agio quando ammettono e analizzano i propri errori. Se la
cultura è quella della curiosità verso l'inatteso e dell'interrogarsi su ciò che è avvenuto per
pervenire a nuove soluzioni, il tirocinante si sentirà sicuro e più incline a confrontarsi e
discutere apertamente degli errori.
Un suggerimento che si potrebbe dare alle organizzazioni che accolgono tirocinanti è di
stimolare la ricerca e la catalogazione degli eventi e per analogia si potrebbe pensare a una
estensione ai gruppi di audit di risk management anche nella formazione professionale di
base.
Altro aspetto da considerare è la persona che compie l'azione. Alcune persone hanno
più probabilità di commettere errori per motivi costitutivi. Il tutor deve essere in grado di
capire le caratteristiche del tirocinante (se è accurato, determinato, perfezionista,
superficiale, ecc.) che dovrà seguire per impostare, supervisionare le attività e i livelli di
autonomia. Il tirocinante, se vuole ottenere l'autonomia, deve aver presente che la
responsabilità delle proprie scelte la si assume in modo concreto non solamente accettando
le conseguenze degli esiti, ma impegnandosi con rigore e pazienza nel processo della loro
realizzazione. Essa è favorita da un atteggiamento prudente e dalla capacità di riflettere su
se stessi e sulle situazioni che si sono presentate. Scegliere di intervenire con prudenza vuol
88
dire non solamente farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni una volta compiute,
ma esercitare su di esse un vaglio critico prima che avvengano, così da poter ridurre al
minimo le conseguenze negative.
Altri fattori che possono aumentare o ridurre la probabilità di errore sono: la
disattenzione, la fretta, la distrazione, la stanchezza. Spesso, i tirocinanti hanno evidenziato
che quando erano stanchi hanno avvertito che stavano sbagliando. Se poi nel gruppo di
lavoro c'è tensione o si è sottoposti a stress o a un carico di lavoro percepito come
impegnativo c'è più probabilità di commettere errori. Altri elementi fonte di errori sono le
interruzioni, la perdita di concentrazione, la scarsa comunicazione.
Educare a coltivare il dubbio
Un tema importante e individuato dai tirocinanti è il tema della fiducia. Fiducia nelle
proprie possibilità; fiducia che il gruppo di lavoro mantiene nei loro confronti nonostante la
rilevazione di un errore commesso. Spesso il tirocinante avverte la sua fallibilità e l'accetta.
Questo non deve portare all'umiliazione della persona, che finisce con il percepirsi
inadeguata in ogni situazione, ma essere a sua disposizione per verificare, controllare e
rielaborare le proprie idee per migliorarle.
La validità delle idee è sempre soggetta al dubbio. Per tentare di raggiungere la
conoscenza, dobbiamo imparare che l'unico strumento valido è il dubbio. Il dubbio è il
catalizzatore della mente, il compagno di viaggio che ci permette di individuare scelte che
possiamo condividere e riformulare in relazione alla crescente consapevolezza. Il dubbio
frena, limita, modula le nostre azioni; nello stesso tempo, il fermarsi ci permette di riflettere
su quello che stiamo facendo. Il dubbio alimenta la curiosità, la ricerca di percorsi alternativi
e costringe l'uomo a produrre conoscenza. L'uomo ha bisogno di certezze e sicurezze
necessarie per intervenire e operare scelte. Una risposta potrebbe essere quella di ricorrere
al confronto con i colleghi. Altra risposta potrebbe essere quella di raccogliere elementi,
sistematizzarli per determinare conclusioni. Conclusioni momentanee, perché è sempre
necessario riattivare il processo per nuove scoperte. Naturalmente non si può vivere solo di
dubbio: la vita sarebbe molto faticosa. Convivere con il dubbio è possibile se ne vediamo
l'utilità e se è sostenuto da credenze, valori e comportamenti. Le credenze rispondono alla
domanda di vero o falso, i valori sono credenze specifiche che agiscono come principi guida:
coraggio, disciplina, rispetto per gli altri, integrità, lealtà. Il dubbio consente all'individuo e al
gruppo di condividere credenze fondamentali che influenzano comportamenti e decisioni (si
veda Aparo U.L. e Aparo A., 2001). Educhiamo i nostri studenti a conoscere e utilizzare i
protocolli, linee guida presenti nelle organizzazioni: questo servirà a eliminare dubbi su
comportamenti e scelte. Eliminare, però, il dubbio serve a far funzionare le persone, non a
farle pensare. È importante coltivare il dubbio, il dubbio come metodo, il dubbio come
necessità di fronte a situazioni che non padroneggiamo o di fronte a questioni etiche.
E infine, non si deve temere l'errore e nemmeno amarlo, sicuramente bisogna gestirlo.
Semplicemente non si deve averne paura, così da riuscire a contenere il disagio che,
inevitabilmente, crea a ogni persona impegnata in un qualsiasi tipo di cammino di
conoscenza. Solamente assunta questa prospettiva, potremo trarre da esso tutto il beneficio
che può offrire.
89
6. Bibliografia
Aparo U.L., Aparo A. (2001), Alla ricerca del dubbio perduto, 37 Congresso Nazionale
ANMDO, Gestire il futuro in sanità.
Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci.
Binanti L. (2005), Sbagliando s'impara. Una rivalutazione dell'errore, Roma, Armando
Editore.
Di Renzo R., Bellamio D.(2011), "Mappe per un viaggio di formazione", in Di Renzo R.,
Scandella O., (a cura di) Pratiche in viaggio. La tutorship nella sanità in Italia e in Europa,
edito da Azienda USL di Bologna
Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino.
Lave J., Wenger E. (2006), L'apprendimento situato, Trento, Erickson.
Luhmann N. (1996), Sociologia del rischio, Milano, Bruno Mondadori.
Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma,
Carocci.
Murri A. (1972), Quattro lezioni e una perizia, Bologna, Zanichelli Editore.
Schön D.A. (1993), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica
professionale, Bari, Dedalo.
90
INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI
DIRETTORE GENERALE DI TELETHON1
a cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale
Premessa
Abbiamo proposto alla Dr.ssa Pasinelli, Direttore Generale della Fondazione Telethon
(Ente senza scopo di lucro riconosciuto dal Ministero dell'Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica), un'intervista sul tema della gestione degli effetti indesiderati
(termine con il quale noi curatori designiamo errori, eventi negativi, opportunità perse,
risultati insoddisfacenti nelle organizzazioni).
Ci è parso interessante conoscere e comprendere come vengono gestiti gli errori, come
si apprende dagli eventi negativi, come si superano i risultati non soddisfacenti, se è
presente la cultura della colpevolizzazione delle persone nel contesto di un'organizzazione
come Telethon, che si distingue per l'eccellenza e l'internazionalizzazione della ricerca
scientifica, e per il fatto di rappresentare un modello organizzativo evoluto nel mondo del non
profit.
Ci parli in generale di Telethon e della sua struttura
«Indubbiamente la Fondazione Telethon può essere vista come un'azienda a tutti gli effetti,
se non addirittura come una public company: oltre ad avere un consiglio di amministrazione,
organi di controllo di consulenza, pur non avendone l'obbligo, aderiamo alla Legge 231 per la
Disciplina delle persone giuridiche e pubblichiamo regolarmente il bilancio. Un bilancio che
non concepiamo, come spesso accade nel mondo non profit, come la semplice
dimostrazione su carta che "spendiamo tanto quanto raccogliamo". Piuttosto è il rendiconto
del nostro operato nei confronti di pazienti e donatori, che rappresentano, di fatto, i nostri
principali azionisti. Il nostro bilancio descrive come cerchiamo di massimizzare la quantità di
denaro che investiamo in programmi di ricerca, ma anche come tendiamo a un profitto di tipo
qualitativo. Non ci basta cioè finanziare dell'ottima ricerca: di per sé questa è un'operazione
meritoria, ma non è ciò che promettiamo all'investitore nel momento in cui gli chiediamo del
denaro, ovvero fare del nostro meglio per trovare una cura alle malattie genetiche. Non
1
Intervista effettuata a Milano, il 9 luglio 2015.
91
possiamo promettere la cura, perché quando si fa ricerca non si può in alcun modo garantire
al 100% di raggiungere i risultati auspicati: quello che possiamo promettere è di mettere in
campo le migliori competenze disponibili per perseguire l'obiettivo. Non solo: se la nostra
missione è far avanzare la ricerca verso la cura delle malattie genetiche, la visione è di
renderne fruibili i risultati ai pazienti di oggi e di domani, anche grazie al coinvolgimento di
industrie farmaceutiche. In questo scenario, tutte le attività della Fondazione (risorse umane,
raccolta fondi, amministrazione finanza e controllo) sono gestite proprio come in un'azienda
multinazionale, per quanto il sistema di valori ispirante sia diverso. Dal mio punto di vista,
uno dei grandi errori del non profit è di sentirsi legittimato dalle "buone intenzioni": chi l'ha
detto che nel non profit non bisogna controllare le ore di lavoro, pretendere competenze
specifiche e valutare in modo stringente le performance? Noi cerchiamo di farlo con lo stesso
rigore con cui viene speso il denaro che ci viene affidato dai donatori».
Qui emerge il rischio di un possibile errore…
«Esatto uno degli errori più comuni fatti in passato è stato sottovalutare questo aspetto nel
reclutamento del personale: non è vero che in un'organizzazione come la nostra si lavora
meno, anzi. Può capitare di dover lavorare nel fine settimana, quando si organizza buona
parte della raccolta fondi: ecco allora che può capitare di dover passare la domenica a una
partita in una città di provincia dove la comunità è molto generosa e ricca ed è importante
esserci per gratificarla.
Più in generale, per quanto ormai il nostro sistema di reclutamento del personale si basi su
procedure stringenti, che prevedono una valutazione di competenze sia tecniche sia
manageriali e coinvolgono diversi livelli organizzativi nella scelta, non nascondo che abbiamo
fatto anche degli errori, essenzialmente perché abbiamo sottovalutato aspetti importanti.
Anche nel caso del finanziamento della ricerca scientifica accade talvolta di constatare di
aver finanziato progetti che non lo meritavano. Tuttavia, nell'ambito del nostro processo di
valutazione, mutuato peraltro dai modelli anglosassoni, la possibilità di errore è prevista fin
dall'inizio: il sistema è quindi costruito prevedendo tutte le azioni e le correzioni in grado di
minimizzare l'errore, ma sempre nella consapevolezza che non lo si può azzerare. Quello
che invece caratterizza molti concorsi dell'accademia italiana, e che produce anche storture
gravissime, è la pretesa di giudicare la bontà di una ricerca o di una carriera scientifica senza
commettere errori e all'insegna dell'assoluta oggettività: praticamente impossibile se a
valutare è un essere umano».
Chi sono i ricercatori che valutano i progetti?
«La nostra Commissione medico-scientifica è costituita da 30-35 persone, che perlopiù non
lavorano in Italia, sempre per minimizzare il rischio di un conflitto di interesse. Questo non
per esterofilia, ma semplicemente perché l'Italia è un paese piccolo ed è difficile pensare di
finanziare i ricercatori più bravi e averne contemporaneamente di altrettanto validi in
commissione. Per questo li scegliamo fuori, ma ne manteniamo un paio attivi in Italia perché
possano far presente agli altri le specificità del contesto nostrano. Tuttavia, per quanto
competenti, questo gruppo di ricercatori non può coprire tutto il panorama delle conoscenze:
è per questo che, grazie al lavoro dei program manager, individuiamo ulteriori revisori esterni
a cui chiediamo di mandare una relazione scritta sul progetto che si aggiunge così al giudizio
dei membri della Commissione. A oggi abbiamo contattato circa 8500 revisori in giro per il
mondo».
Può spiegarci come, nel vostro sistema, vengono minimizzati gli errori?
«Il primo elemento è un bando scritto in modo chiaro, che espliciti in modo inequivocabile
che cosa ci si attende dai ricercatori, nonché le modalità e le regole con cui i progetti di
92
ricerca saranno valutati. Altro elemento importante è una squadra di persone esperte della
materia che possano valutare i progetti, i cosiddetti peer: scienziati ancora attivi che lavorino
prevalentemente all'estero, realmente esperti di quello specifico settore e privi di evidenti
conflitti di interesse (in accordo, per esempio, con regole da noi stabilite sui rapporti
professionali e personali tra valutatore e valutato). Riguardo invece all'assegnazione dei
progetti ai valutatori, va affidata a un'agenzia di finanziamento che faccia da intermediario e
non, come spesso accade nei programmi di valutazione italiani, chiedendo ai revisori di una
lista stilata in precedenza quali progetti vogliono valutare. Questo mette seriamente a rischio
il processo, perché la scelta di un revisore di un progetto può dipendere dal fatto che il
valutato è un suo amico (o un suo nemico), oppure dall'interesse a voler acquisire
informazioni sul suo lavoro.
È per questo che in Telethon abbiamo una squadra di program manager che sono tutti exricercatori e lavorano con i nostri advisor esterni per scrivere il bando, curarne la parte
amministrativa e, soprattutto, assegnare i progetti ai revisori adeguati. In questo modo si
separa davvero il valutato dal valutatore e, ancora una volta, si riduce ulteriormente il
margine di errore.
Inoltre, ciascun progetto viene esaminato non da uno, ma da almeno tre valutatori diversi,
che inizialmente esaminano il progetto a casa loro, ma poi sono chiamati a discuterlo
insieme a tutti gli altri in una riunione plenaria che organizziamo presso la nostra sede: se ci
limitassimo a fare la media dei voti non saremmo infatti in grado di "intercettare" eventuali
storture dovute per esempio al fatto che un revisore non è del tutto preparato o ha un
conflitto di interesse. La discussione, moderata da un chairman e registrata, prevede che
ciascun progetto sia presentato a tutti dai revisori che lo hanno esaminato a casa, che
possono anche essere in disaccordo sul giudizio: ciascuno è invitato a esporre agli altri le
proprie argomentazioni nell'ottica di arrivare al consenso. Ricordiamoci che una discussione
faccia a faccia tra pari scoraggia eventuali posizioni "disoneste", perché la reputazione in
contesti come questi è molto preziosa.
Una volta fatta la media dei voti dei tre revisori, tutti gli altri sono chiamati a esprimersi a loro
volta: questo permette di annullare le possibili distorsioni nel caso in cui non si sia generato il
consenso e i voti dei revisori rimangano distanti. Se anche tra gli altri rileviamo un voto molto
distante da quello medio chiediamo a chi lo ha espresso di motivarlo davanti a tutti. Le
posizioni molto divergenti sono legittime, ma devono essere motivate, sempre, per
minimizzare il rischio di errore».
Come comunicate ai ricercatori l'esito del processo di valutazione?
«Ciascun ricercatore il cui progetto sia stato discusso nella plenaria riceve un documento
che contiene una premessa uguale per tutti con le informazioni generali (totale delle richieste
di finanziamento pervenute, numero delle proposte escluse per ragioni amministrative, totale
dei revisori contattati, tasso di successo), più un focus specifico sul progetto (riassunto
dell'eventuale discussione, commenti di ciascun revisore precedentemente resi anonimi,
posizione ottenuta dal progetto nella classifica finale). Questo feedback così completo può
certamente suscitare qualche critica da parte dei ricercatori, ma sempre in modo costruttivo
e, soprattutto, li aiuta nel ripresentare il proprio progetto l'anno successivo in caso di
mancato finanziamento. Questo accade abbastanza spesso, perché i suggerimenti ricevuti si
rivelano utili per migliorare la proposta. Un'ulteriore conferma del valore di questo processo è
la certificazione di qualità secondo la ISO 9001».
93
Torniamo ai progetti che, a posteriori, avreste fatto meglio a non finanziare: avete in
qualche modo fatto tesoro di questa erronea valutazione e adottato delle correzioni?
«In questo senso, una delle cose più importanti che abbiamo compreso analizzando i nostri
investimenti sbagliati è stata la necessità, a un certo punto, di coinvolgere l'industria. Il
processo che porta dalla malattia alla possibile cura implica inizialmente molta ricerca di
base, che permette di indagare i meccanismi alla base della patologia ma che può apparire
molto lontana dal paziente. Per questo abbiamo iniziato a chiedere ai ricercatori uno sforzo
nell'identificare il possibile impatto futuro dei loro progetti, perché per quanto sacrosanta sia
la libertà di ricerca non possiamo perdere di vista la nostra missione. Alla ricerca di base
segue quella pre-clinica, che precede la prova sull'uomo e può essere definita traslazionale
in quanto lascia intravedere un ambito applicativo: in questo ambito, oltre a generare
conoscenza si studia una potenziale terapia su un opportuno modello animale. Quando poi
una terapia dovesse dimostrarsi efficace e sicura nel modello animale di riferimento, si arriva
alla ricerca clinica, che prevede la sperimentazione nell'uomo.
Nel 2009 ci siamo ritrovati di fronte a un bivio: disponevamo di una terapia efficace per una
rarissima malattia ma non sapevamo come renderla disponibile a tutti. Si trattava in
particolare della terapia genica per una grave e rara immunodeficienza di origine genetica,
che rende i bambini affetti estremamente vulnerabili anche nel caso di infezioni banali come
l'influenza. La terapia genica messa a punto in uno dei nostri istituti si era dimostrata efficace
e sicura già in dieci bambini. A quel punto, il progetto di ricerca si era concluso positivamente
e Telethon, in teoria, aveva esaurito il proprio compito. Ma cosa dire agli altri pazienti giunti
alla nostra attenzione? Trattarli sarebbe stato doveroso, ma dove trovare le risorse senza
sottrarre fondi a tutto il resto, compresi altri progetti di ricerca clinica? Le tradizionali attività di
raccolta fondi non sarebbero bastate, non solo per la sopraggiunta crisi economica. Così
siamo andati a bussare alla porta di una grande industria farmaceutica, offrendo loro
un'opportunità: una terapia bella e sviluppata con competenze dallo standard elevato, che
avrebbe permesso di curare una tantum bambini privi di altre opportunità. Ma che soprattutto
avrebbe permesso all'industria di disporre di una tecnologia innovativa e competitiva
applicabile non solo ad altre malattie genetiche (erano già sei allora le altre malattie studiate
nel nostro istituto), ma anche in futuro a patologie ben più diffuse come i tumori.
Nel 2010 abbiamo così siglato un accordo che definirei storico: l'azienda ha preso in licenza
la terapia e ha fatto l'investimento produttivo necessario per farla diventare un farmaco. Nel
maggio del 2015 ha presentato all'Agenzia europea del farmaco il dossier di registrazione e
contiamo che entro la prossima estate questa terapia possa diventare fruibile dai pazienti di
tutto il mondo. Parallelamente, i fondi che l'azienda ci ha dato per l'esercizio della licenza di
questa terapia sono stati investiti in altri programmi di ricerca clinica e, secondo l'accordo,
l'azienda potrà ulteriormente esercitare l'opzione di licenza in caso di risultati positivi. Il
contratto prevede comunque che, qualora per ragioni strategiche di vario tipo l'industria
decidesse di ritirarsi e non sviluppare più quella terapia, Telethon ritornerebbe in possesso di
quanto sviluppato fino a quel momento. In questo modo non verrebbe vanificato alcun
investimento ma soprattutto siamo riusciti a rendere sostenibile anche per noi una ricerca
costosa come quella clinica».
Cos'è successo poi?
«Da allora abbiamo fatto altri accordi di questo tipo, con grosse multinazionali americane. È
chiaro che alleanze di questo genere espongono a un rischio reputazionale altissimo,
soprattutto in un paese un po' ideologico come l'Italia. Abbiamo però deciso di assumerci
questo rischio, spiegando in modo trasparente le ragioni del nostro operato: per mantenere
fino in fondo la promessa della cura nei confronti dei pazienti dobbiamo assicurarci che le
terapie eventualmente sviluppate grazie alla ricerca da noi finanziata siano concretamente
94
prodotte e distribuite continuativamente nel mondo. Questo, fino a prova contraria è il
mestiere dell'industria farmaceutica, non di una charity come noi. Ad ogni modo, pur avendo
previsto nei dettagli la gestione di questo potenziale rischio reputazionale, non abbiamo mai
avuto problemi in questo senso, anche perché la comunità dei pazienti è dalla nostra parte.
È innegabile che le malattie rare non siano particolarmente interessanti per l'industria
farmaceutica. Però noi abbiamo dimostrato che prendendoci carico di un pezzo di percorso
con standard di grado industriale si può attirare il loro interesse: non solo hanno un risultato
che non devono replicare, ma possono farlo proprio con investimento contenuto e accedere
così a tecnologie molto competitive, nonché rispondere a logiche di responsabilità sociale di
impresa.
Un altro aspetto da considerare è che questi sono soldi industriali stranieri che vengono
investiti in ricerca accademica italiana: un esempio su tutti in questo senso è l'investimento di
17 milioni di euro fatto da un'azienda americana nel nostro Istituto di Pozzuoli, vero fiore
all'occhiello della ricerca del Sud».
Tornado invece ai dipendenti di Telethon, che rapporto hanno secondo lei con
l'errore?
«Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto sulla condivisione e il confronto, grazie al lavoro di
gruppo, al ricorso a consulenze esterne, corsi di formazione e di coaching, oltre alla
creazione di un comitato esecutivo formato da me con i miei primi riporti.
È chiaro a tutti che l'errore è sempre possibile, ma bisogna lavorare insieme per controllarlo
e correggerlo. Adesso questa visione è diffusa almeno fino alla mia seconda linea di riporto,
ma non sempre fino a tutti i loro collaboratori. La fatica maggiore è stata nell'ottenere una
linea di secondi riporti omogenea, che si assumesse la sua quota di responsabilità
manageriale e non si limitasse a dire: "Il Telethon ci deve dire cosa dobbiamo fare".
Adesso questa linea di pensiero è molto molto solida e si sta diffondendo in maniera
capillare, però non è sempre e completamente condivisa. Per esempio stiamo cercando di
derubricare la cultura del "non l'ho fatto apposta": questo tipo di errori sottendono spesso
l'essere approssimativi e la mancanza di proattività. Questa secondo me resta la principale
fonte di errore ed è l'aspetto su cui stiamo lavorando di più, perché tutti tendano al
miglioramento continuo e, di conseguenza, alla minimizzazione dell'errore. La nostra
reputazione è di fondamentale importanza, sia che interagiamo con i donatori che con i
ricercatori che finanziamo. Non possiamo permetterci, per esempio, di scrivere una lettera di
ringraziamento con refusi, oppure di dare un feedback incompleto o approssimativo a uno
scienziato. Nessuno è un passacarte neutro, tutti hanno la responsabilità di garantire
l'immagine dell'ente per cui lavorano. Qualunque errore va a danno dell'organizzazione e
non del premio che un dipendente può percepire o meno. Cerchiamo di alzare sempre un
pochino l'asticella».
Capita in Telethon che le persone scarichino le responsabilità sugli altri?
«Questo può sempre accadere, però esistono degli strumenti per promuovere l'assunzione di
responsabilità da parte del singolo, come per esempio il sistema degli obiettivi individuali. Nel
corso dell'anno facciamo colloqui individuali in cui le persone sono chiamate a rendere conto
di quello che hanno fatto. Chiaramente è parte del lavoro del capo intercettare, anche in
corso d'opera, eventuali mancanze in questo senso, quando il presidio dell'attività è venuto a
mancare. Il capo deve essere un mentore continuo: questo me lo ha insegnato proprio il
mondo della ricerca. Personalmente mi ritengo molto fortunata perché ho avuto dei grandi
maestri, nel lavoro e nella vita. Spesso mi trovo a volte a fare tributi silenziosi a chi mi ha
insegnato una cosa, nel momento in cui la faccio e mi soddisfa, perché ho sempre in mente
quale è stato il momento e la persona che mi ha insegnato come farla.
95
Nell'ambito dei programmi di ricerca scientifica stiamo investendo molto sul mentoring, per
esempio nei confronti di ricercatori che abbiano finito il post-dottorato e a cui affidiamo un
laboratorio: a loro chiediamo di scegliere un mentore, a cui noi diamo indicazioni secondo un
programma strutturato. Questo permette di minimizzare l'errore nel cambiamento di ruolo e
di acquisire le necessarie capacità manageriali senza le quali non si può portare avanti fino
in fondo l'attività di ricerca per quanto brillante nei contenuti».
Qual è il suo rapporto con l'apprendimento dall'esperienza?
«Il mio modo di ragionare e apprendere è sempre stato molto empirico: parto sempre
dall'esperienza per elaborare una teoria. Quando sono arrivata a Telethon, però, credevo
che il mio compito fosse finanziare ricerca scientifica, grazie a un modello di revisione
efficiente. L'esperienza che per me è stata la vera lezione di vita è stata il contatto con i
malati: sono loro ad avermi fatto capire che la missione non era quella, nonostante così
sembrasse quando sono arrivata nell'organizzazione.
La governance di fatto era passata in mano agli scienziati che, come tutte le comunità
umane, tendevano a esprimere se stessi. Per questo credo che il più grosso lavoro che ho
fatto non sia stato tanto mettere a punto un sistema di valutazione così stringente, ma
reinquadrare il ruolo della charity rispetto ai pazienti: non c'è niente che equivalga a parlare
con queste persone per capire quanto urgente sia la loro istanza. Lo sforzo consiste nel
creare una triangolazione efficace tra i nostri principali stakeholder: i pazienti, i ricercatori e i
donatori. Cosa non semplice, perché se è vero che la cura è il nostro obiettivo finale, al
contempo non possiamo accorciare il percorso della ricerca, che ha regole rigorose e tempi
lunghi, spesso troppo lunghi per i pazienti di oggi: l'accettazione di questo passa attraverso
un percorso condiviso di empowerment. Ecco perché i pazienti sono stati la vera esperienza
per me, quella che mi ha davvero insegnato il mio mestiere».
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RECENSIONI
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RECENSIONE DI
COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIO INDIVIDUALE E
DI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNES
a cura di Cristiana Pauletti
Nel suo libro Graziella Nugnes illustra il metodo somatorelazione come modalità di
conduzione delle attività di counseling organizzativo, sia con i gruppi che con i singoli.
L'autrice presenta un metodo di lavoro, del tutto originale, che per le sue caratteristiche
si configura come un approccio molto innovativo nella conduzione delle attività di counseling
organizzativo. Si tratta di una metodologia di lavoro consulenziale che integra conoscenze,
approcci e tecniche diversi, giungendo a una sintesi efficace che consente un lavoro - con
singoli e gruppi - che sollecita, insieme, abilità cognitive, consapevolezza emotiva e
corporea.
In questa presentazione cerchiamo di evidenziare gli elementi essenziali del metodo ma
soprattutto di rilevare gli aspetti che appaiono come molto innovativi e aprono una
prospettiva di attività nuove nelle organizzazioni.
1. Il metodo e i suoi fondamenti
L'autrice dedica molta parte del suo testo alla descrizione del metodo illustrandone, nella
prima parte, i fondamenti teorici derivanti dalle teorie psicologiche, dagli studi organizzativi e
dalle ricerche sulla formazione degli adulti; alla giustificazione scientifica del metodo segue la
sua descrizione - impianto metodologico, processi, tecniche e possibili applicazioni. Nugnes
dedica anche un breve capitolo alla presentazione delle competenze del counselor
somatorelazionale.
La terza parte del testo è dedicata alla narrazione delle esperienze concrete, condotte
direttamente dall'autrice in ambiti organizzativi diversi – organizzazioni sindacali, cooperative
sociali e ambienti educativi. Questa parte, nella quale Nugnes racconta le sue esperienze,
consente al lettore di entrare nel vivo delle pratiche, attraverso le parole dei protagonisti.
L'autrice utilizza questo metodo stabilmente dal 2009, con applicazioni in particolare nel
terzo settore.
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Come già evidenziato, si tratta di un approccio consulenziale alle organizzazioni che
integra innanzi tutto metodologie e tecniche attive di lavoro con i gruppi, derivanti dalla
formazione degli adulti, ma anche elementi tratti dall'approccio psicologico, in particolare
rogersiano. In coerenza con l'approccio operativo derivante dalle teorie psicologiche di Karl
Rogers al cliente dell'intervento di consulenza, se opportunamente stimolato e sostenuto,
sono riconosciuti il potere e la capacità di affrontare l'analisi e la risoluzione delle
problematiche, in questo caso di natura organizzativa.
Come afferma Nugnes, in linea con l'approccio centrato sulla persona, si tratta di un
metodo di lavoro, con i gruppi e i singoli, di natura non prescrittiva ma piuttosto di
facilitazione organizzativa.
Inoltre un chiaro contributo psicologico è quello che deriva dall'approccio psicocorporeo
e in particolare dalla bioenergetica che trova entro il counseling organizzativo
somatorelazionale una collocazione non solo teorica ma anche operativa.
Nel metodo utilizzato dalla counselor è riconoscibile infine un utilizzo marcato delle
tecniche della comunicazione efficace e della comunicazione non violenta (Rosenberg,
2003).
2. La narrazione delle esperienze
È soprattutto attraverso la narrazione delle esperienze che si può cogliere la potenzialità
innovativa del counseling somatorelazionale.
La grande sfida che questo metodo assume, infatti, è quella di consentire, nei luoghi di
lavoro, la manifestazione delle emozioni, di "aiutare le persone ad accettarsi nella loro
interezza" e, passando dal piano cognitivo a quello emotivo e tornando nuovamente al piano
cognitivo, analizzare le problematiche del gruppo di lavoro e individuare soluzioni e strategie
accettabili e condivise.
Nelle esperienze narrate l'accettabilità di una soluzione organizzativa - e la sua tenuta probabilmente risiede nel fatto che, per individuarla, si è passati attraverso la manifestazione
delle emozioni, che pertanto non rimangono nel cono d'ombra, inespresse, operando per
mettere in crisi l'applicazione concreta della soluzione.
Centrare le emozioni, individuarle anche nelle loro manifestazioni fisiche (tensioni
muscolari), aiuta a partecipare alla discussione e al confronto, su tematiche organizzative
talvolta difficili, con la concentrazione su di sé escludendo, il più possibile, giustificazioni e
attribuzione di responsabilità su altri o a fattori esterni, di carattere macro – la legislazione
sfavorevole, la dirigenza ecc.
Chi opera nelle organizzazioni, con l'incarico di consulente o formatore, sa quanto sia
frequente il ricorso a fattori esterni come la manifestazione di senso di sfiducia verso la
possibilità di incidere nel processo di cambiamento. Richiamare, attraverso la focalizzazione
sulle emozioni e la pratica bioenergetica, l'attenzione sui singoli diventa un modo per
attribuire, a ciascuno, fiducia e responsabilità verso il cambiamento.
Tutte le organizzazioni hanno una loro cultura emozionale, pertanto, in taluni ambienti di
lavoro, l'espressione di alcune emozioni può non essere accettata. Le emozioni vanno
tuttavia considerate come impulso all'agire: ciascuno, attraverso un movimento dall'interno
verso l'esterno, attiva questo fondamentale impulso all'azione che si concretizza nei
comportamenti individuali (Giannelli, 2006).
Come afferma Goleman (2000) le capacità collegate all'intelligenza emotiva sono in
sinergia con le capacità cognitive. L'intelligenza emotiva - e le competenze cha fanno
riferimento a essa - "facilitano l'uso dell'expertise tecnica e delle capacità cognitive". Uno
degli elementi costitutivi dell'intelligenza emotiva è l'empatia che trova ampio spazio nel testo
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di Nugnes, sia come elemento costitutivo dell'approccio metodologico e relazionale del
counselor, sia come dimensione da sollecitare nei partecipanti alle attività di counseling
organizzativo somatorelazionale.
Lowen (1983) afferma che l'empatia, in quanto capacità di sentire gli stati d'animo degli
altri, è una forma di risonanza. Per percepire l'altro è necessario inoltre uscire da una
prospettiva egocentrica, assumere un atteggiamento di sospensione del giudizio per cogliere
la ricchezza e la diversità che abita l'altro (Giannelli, 2006). Un'autentica comprensione
dell'altro necessita inoltre di una disponibilità empatica all'ascolto (Mortari, 2003).
Nelle esperienze che Nugnes narra, l'empatia è esercitata dal counselor, sollecitata e
facilitata attraverso uno stile di conduzione che sicuramente possiamo definire autorevole.
L'evoluzione dall'utilizzo di un linguaggio tecnico e professionale - poco adatto a
rappresentare i vissuti - verso modalità più personali, la limitazione della verbalizzazione a
favore di altre forme espressive, l'utilizzo del corpo e del movimento, l'introduzione di regole
precise per normare la relazione nei gruppi, sono tutte strategie che facilitano la
consapevolezza di sé e l'ascolto attento ed empatico dell'altro.
Viviamo nell'epoca della rivoluzione digitale e la scrittura sempre più spesso sostituisce
la comunicazione verbale. Come afferma Luisa Carrada (2007) siamo una text generation,
tutti utilizziamo in modo massiccio la scrittura e, nelle organizzazioni in particolare, email, ma
anche sms e chat, hanno sostituito spesso la comunicazione face to face. Questo tipo di
scrittura ha trovato un suo modo per introdurre nella comunicazione elementi emotivi; tutti,
infatti, facciamo ricorso a simbolizzazioni degli stati d'animo, sottoforma di emoticon, per
arricchire il nostro testo e personalizzarlo.
Il lavoro di Nugnes è tanto prezioso quanto invita le persone e i gruppi a uno stile
comunicativo al quale rischiamo di non essere più abituati; uno stile dove dall'immanenza del
corpo non è possibile prescindere. Nell'esperienza condotta con la FIM (sindacato
metalmeccanici) di Brescia, ad esempio, sul tema della gestione del tempo e dello stress è
stato proposto un metodo di lavoro innovativo a figure professionali poco abituate a tecniche
di consulenza e formazione attiva e a coinvolgimento diretto.
Nel corso delle due giornate residenziali l'approccio al tema dello stress è stato non solo
cognitivo, ma l'inserimento delle sessioni di pratica bioenergetica ha consentito la vicinanza
con la propria soggettiva sensazione di stress, attraverso l'individuazione e la
consapevolezza corporea delle tensioni muscolari. Ovviamente questo metodo inizialmente
può generare delle resistenze; non è facile, infatti, per gruppi che hanno consolidato forme di
comunicazione basate esclusivamente sul linguaggio tecnico e su un piano relazionale che
spesso esclude la soggettività, per favorire una relazione esclusivamente basata su ruoli e
funzioni, mettere in campo il corpo e condividere momenti di consapevolezza corporea ed
emotiva. Tuttavia, a fine percorso, in merito alla capitalizzazione dei risultati i partecipanti
dichiarano che, in modo particolare, l'esperienza ha aiutato a fare chiarezza, a comprendere
atteggiamenti ed errori personali, ad acquisire una visione diversa della realtà organizzativa.
Le attività di counseling che integrano una dimensione corporea sviluppano nei
partecipanti un senso diverso, una visione diversa, integrata, della realtà. Questa visione
diversa è spesso la condizione per attivare processi di miglioramento o soluzione dei
problemi. Sono varie e di sicura rilevanza le tematiche che Nugnes affronta nella sua attività
di counseling: la motivazione al lavoro, la leadership, la valutazione delle competenze, la
costruzione di profili organizzativi e job description, processi di integrazione di professionalità
diverse nei servizi socio-educativi.
Il processo di counseling prevede un primo contatto con la committenza per la
focalizzazione delle problematiche e la presentazione del metodo somatorelazionale; nel
corso di questa fase di contatto con la committenza vengono chiarite le modalità di lavoro e i
vincoli alla partecipazione dei singoli.
100
Quale che sia il tema da affrontare, il metodo somatorelazionale alterna momenti di
confronto e analisi delle problematiche a momenti di concentrazione individuale attraverso la
pratica bioenergetica; sempre presente la dimensione della socializzazione ovvero della
condivisione dei pensieri, delle sensazioni e delle emozioni individuali.
La cura di sé mediante l'attenzione prestata a se stessi (Mortari, 2003) e la
socializzazione sono fasi importanti per attivare l'emersione e la decostruzione di idee e
costrutti, disfunzionali alla soluzione delle problematiche. L'attività di socializzazione è una
condizione necessaria per smontare i costrutti consolidati e avviare la pratica della riflessione
(Shon, 1983), fondativa di un possibile cambiamento. Ad esempio, nella trattazione del tema
della motivazione, la decostruzione delle idee disfunzionali avviene proprio in virtù del
processo di socializzazione poiché si scopre che ciò che motiva alcuni può essere motivo di
demotivazione per altri. La questione della motivazione assume, nelle esperienze narrate da
Nugnes, un carattere particolare in quanto, proprio nello spirito del metodo, valorizzando il
cliente, il counselor consolida in lui l'idea che egli possiede le risorse necessarie per
governare la propria dinamica motivazionale.
Attivare pratiche di riflessione individuale e socializzazione nelle organizzazioni richiede
che il cliente del processo di counseling acquisisca una consapevolezza nuova rispetto al
suo ruolo nel processo: sentirsi coinvolto nell'analisi del problema, percepire la possibilità di
aver un ruolo attivo nel processo di counseling, condizionarlo con il proprio atteggiamento e
collaborare con il counselor all'efficacia dell'esperienza (Shon, 1983). Nel percorso condotto
da Nugnes, la dinamica motivazionale individuale intreccia inoltre una nuova
consapevolezza - che possiamo associare al lavoro cooperativo - ovvero il raggiungimento di
alcuni obiettivi è condizionato dal proprio impegno e anche da quello degli altri; nei gruppi si
acquisisce consapevolezza che l'interdipendenza positiva tra i membri costituisce una
condizione necessaria per il perseguimento delle finalità dell'organizzazione. Anche in
questo caso la focalizzazione è sempre sulla necessità di tenere presenti obiettivi e processi
di miglioramento che coinvolgono sempre la dimensione individuale e quella organizzativa.
Il metodo somatorelazionale sostiene le risorse individuali e le competenze, le fa
esprimere, supporta il processo di focalizzazione, al fine di renderle disponibili per il contesto
professionale.
Una delle esperienze condotte per la valutazione delle competenze ha adottato la forma
integrata che ha previsto una fase di autovalutazione associata ad una fase di
eterovalutazione. Dagli anni settanta del secolo scorso si è iniziato a parlare di competenze
nelle organizzazioni. La necessità di fare focus sulle competenze, inizialmente considerate
come caratteristica espressa individualmente (modelli individuali delle competenze), è sorta
per la necessità di ottimizzare la collocazione delle risorse umane. Gli studi sulle
competenze si sono sviluppati nella direzione di considerare il contesto come influente sulla
prestazione individuale, pertanto la competenza come il risultato dell'interazione tra elementi
individuali e stimoli proventi dall'organizzazione.
Nugnes ha proposto in questo caso una modalità difficile che può presentare parecchie
insidie; se non è facile infatti condurre una valutazione della propria prestazione
professionale - focalizzare i propri punti di forza e punti di debolezza, riconoscere gap di
competenza o capacità da implementare - è particolarmente difficile accettare che altri
conducano questa analisi. L'eterovalutazione tra pari è una competenza organizzativa
importante ma molto complessa da raggiungere.
La narrazione, in termini professionali, che l'altro fa di me e delle mie caratteristiche sul
lavoro arricchisce, mette in circolo energie nuove e motivazione al lavoro di squadra. In
questa esperienza i partecipanti riconoscono che lo stile di conduzione ha sicuramente
favorito il raggiungimento degli obiettivi ed evitato pericolose derive o addirittura il caos.
101
Nelle esperienze che abbiamo, in modo sommario, richiamato, la pratica bioenergetica
viene inserita allo scopo di acquisire energia, percepire un più saldo radicamento e
sperimentare maggiore apertura. Non è mai fine a se stessa o collocata a fine di giornata,
come viatico o forma di rilassamento. È uno snodo rilevante prima di affrontare progetti di
miglioramento o individuare strategie. Si tratta di un continuo movimento – interno /esterno –
una danza che porta ad alternare la messa in comune e la socializzazione a un ripiegamento
su di sé, per trarre energia, per ritornare, con nuova consapevolezza e disponibilità, al
confronto con gli altri.
Questa alternanza di interno e esterno risulta particolarmente significativa nelle
esperienze condotte in contesti socio assistenziali ed educativi; contesti nei quali il recupero
delle energie è vitale per prendersi cura degli utenti con efficacia. Il metodo
somatorelazionale costituisce, in questo caso, uno spazio necessario di "ricomposizione
dell'esperienza" e integrazione delle professionalità. In contesti dedicati al lavoro di cura
(assistenziale e educativo) è necessario infatti che ruoli diversi si integrino efficacemente, si
riconoscano e si rispettino.
Nelle esperienze condotte da Nugnes in questi ambiti, il processo di counseling
somatorelazionale ha favorito la decostruzione dei costrutti rigidi e delle percezioni
intersoggettive disfunzionali per favorire un'efficace integrazione delle professionalità.
3. Conclusioni
A conclusione di questa presentazione possiamo porre l'accento - come del resto fa
Nugnes nel capitolo conclusivo del suo libro – su alcuni elementi ricorrenti nelle esperienze
di applicazione del metodo che possono essere rilevati come elementi che favoriscono i
processi di miglioramento organizzativo.
Un primo elemento è sicuramente l'avanzamento individuale, in termini di apprendimento
e di consapevolezza, e la sua ricaduta sui cambiamenti organizzativi. Non esiste un
automatismo tra avanzamento individuale e apprendimento organizzativo ma sicuramente
collaboratori più consapevoli di sé e del proprio comportamento professionale possono
essere più aperti verso gli altri e più attrezzati nell'analizzare le problematiche del contesto
professionale in cui operano.
La partecipazione attiva individuale e la valorizzazione di ciascuno sostiene l'autostima
attraverso processi che favoriscono nei singoli il senso di autoefficacia. Il lavoro individuale e
i processi di socializzazione in cui il metodo si articola favoriscono inoltre l'emersione delle
differenze all'interno dei gruppi di lavoro; l'emersione delle differenze è la condizione primaria
perché queste possano essere messe a valore e capitalizzate.
Un ulteriore elemento presente nelle esperienze che Nugnes ha condotto - e che
abbiamo più volte sottolineato - è la riduzione dei modelli rigidi di interpretazione della realtà
a favore di una visione delle problematiche non standardizzata, più reale e sistemica.
Infine rimane sempre costante, nel lavoro di Nugnes, un doppio sguardo, che la
counselor sa attuare molto bene nel suo lavoro di conduzione e facilitazione ma che
suggerisce anche ai singoli nei gruppi con cui lavora: porre contemporaneamente attenzione
alle prestazioni e alle relazioni. Le une non indipendenti dalle altre ma le due legate in un
intreccio da cui è bene non prescindere per mantenere una visione complessa, sistemica e
ricca del contesto umano e professionale in cui si lavora.
102
Graziella Nugnes ha maturato una significativa esperienza nell'ambito delle politiche del
lavoro,dell'orientamento, della formazione e della consulenza in organizzazioni profit e
non profit, in particolare sui temi della gestione del personale e del comportamento
organizzativo.
La sua formazione - Laurea in Sociologia, specializzazione ad indirizzo psicosociologico,
diploma di Counselor presso l'Istituto di Psicologia Somatorelazione di Milano - e
l'insieme delle esperienze professionali realizzate, hanno permesso a Graziella Nugnes
di elaborare un approccio innovativo ed efficace di intervento nelle organizzazioni: il
counseling organizzativo somatorelazionale.
A queste esperienze affianca da anni colloqui di counseling, che realizza nel suo studio
a Brescia, e classi di pratica bioenergetica.
Per una descrizione più dettagliata delle esperienze ed attività di Graziella Nugnes si
rimanda al sito www.sideris.it
4. Riferimenti bibliografici
Nugnes G. (2015), Counseling organizzativo. Un approccio integrato di gruppo e individuale,
Trento, Edizioni Centro Studi Erickson SpA
Carrada L.(2007), Il mestiere di scrivere. Le parole al lavoro, tra carta e web, Milano,
Apogeo.
Giannelli M.T.(2006), Comunicare in modo etico, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Goleman D. (1998), Working with emotional intelligences, NY, Bantman; trad.it.: Lavorare
con intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1998.
Lowen A. (1983), Narcisismo. Denial of the True Self, MacmillianPublishing Company;
trad.it.: Il narcisismo. L'identità rinnegata, Milano, Feltrineli, 1985.
Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza, Il pensare riflessivo nella formazione, Roma,
Carocci Editore.
Rosenberg M. (1998), Nonviolent Communication, Puddle Dancer Press; trad.it.: Le parole
sono finestre (oppure muri) – Introduzione alla comunicazione non violenta, Reggio Emilia,
Edizioni Esserci, 2003.
Shon D.A. (1983), The Reflexive Practitioner, New York, Basic Book Inc.; trad. it.: Il
professionista riflessivo, Bari, Edizioni Dedalo, 1993.
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ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO
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PROGETTO 50/50
di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini
Il nostro progetto è nato all'interno di un seminario di Psicologia dell'Empowerment
Sociale presso l'Università degli Studi di Firenze: si tratta quindi di un lavoro che sta
iniziando a mettere le prime radici, con l'auspicio che siano abbastanza forti per poter creare
qualcosa di solido in futuro. Questa esperienza ci ha dato l'opportunità di metterci in gioco,
imparando a gestire e a condurre interviste entrando in contatto con il contesto aziendale e
lavorativo.
Ovviamente non sempre siamo stati d'accordo sul modo di procedere e anche per
questo il nostro gruppo ha subito dei cambiamenti. Siamo partiti in nove, per poi arrivare ad
oggi a essere in tre. Questo sta a dimostrare come sia difficoltoso riuscire a gestire un
gruppo, anche per coloro che dovrebbero dirigerne i lavori. Fin tanto che l'obiettivo da
raggiungere è rimasto prettamente "scolastico" ognuno dei componenti si è dimostrato
impegnato e attivo. Le prime rotture si sono verificate quando è arrivato il momento di
provare a utilizzare ciò che avevamo fatto fino a quel punto, per sganciarci dal contesto
universitario. È stato un processo inevitabile visto anche il numero elevato dei componenti
iniziali.
Di seguito esporremo i passi che hanno portato alla nascita del nostro progetto e con cui
intendiamo proseguire apportando costantemente modifiche, grazie anche alla progressiva
conoscenza del ruolo della donna con alti livelli di responsabilità nel contesto lavorativo.
Come già accennato in precedenza sono i nostri primi passi e speriamo che possano servirci
da spunto per poter ampliare la nostra rete e per poter fare ricerca e formazione.
1. Introduzione
Per secoli la donna ha dovuto lottare all'interno di una società fatta su misura per gli
uomini. Ha cercato di conquistarsi passo dopo passo la sua libertà e indipendenza:
purtroppo però il percorso da compiere è ancora lungo.
Nonostante i piccoli passi avanti che l'Italia sta cercando di compiere verso la parità di
genere, continuiamo ad occupare uno degli ultimi posti in classifica del World Economic
Forum (WEF) tra i paesi industrializzati. Dal 2006 il WEF pubblica una ricerca che quantifica
la disparità di genere presente in vari paesi del mondo: si tratta del Global Gender Gap
Report, ovvero il rapporto che permette di effettuare confronti tra diversi paesi in base a
quattro criteri: l'economia, considerando la differenza tra salari, leadership e partecipazione;
la salute, come l'aspettativa di vita e il rapporto tra sessi alla nascita; l'accesso all'istruzione
105
elementare e superiore; ed infine la rappresentanza politica1. La presa visione di questi dati
ha dato avvio al nostro progetto, portando l'attenzione sulle differenze di genere presenti nel
mondo del lavoro.
Inoltre, il nostro lavoro è stato ispirato dalla lettura di "Lean in: Women, Work, and the
Will to Lead" nel quale Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di Facebook, racconta di come
le donne debbano lottare maggiormente per raggiungere livelli di carriera più alti, anche negli
aspetti quotidiani, come ad esempio l'assenza di un parcheggio riservato vicino al luogo di
lavoro per donne in attesa. Abbiamo anche voluto considerare il livello di empowerment
presente nelle donne, il quale si presume le abbia facilitate nel raggiungere livelli più elevati
di responsabilità. Con empowerment si intende appunto quel processo di crescita, sia
nell'individuo che nel gruppo, in base al quale avviene un incremento della stima di sé,
dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione. Questo permette all'individuo di far emergere le
sue risorse latenti e di prendere consapevolezza del proprio potenziale. Tale processo fa sì
che vi sia un rovesciamento nella percezione dei propri limiti, con l'obiettivo di raggiungere
risultati superiori alle proprie aspettative.
Prendendo in considerazione la classifica generale del World Gender Gap, si evidenzia
come nessun paese abbia raggiunto completamente la parità tra generi. All'interno dei
quattro criteri presi in considerazione, le differenze sono ancora molto forti in favore del
genere maschile, in particolare per quanto riguarda il settore dell'economia, del mercato del
lavoro e della distribuzione della ricchezza. I miglioramenti che si stanno verificando sono
ancora piuttosto lenti: si calcola infatti che di questo passo ci vorranno approssimativamente
più di 80 anni affinché vi sia una vera e propria parità tra generi all'interno del settore
lavorativo. Le prime posizioni della classifica sono mantenute da paesi del nord Europa
come Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e Danimarca, i quali hanno ridotto la disparità per
oltre l'80%. L'Italia nel 2014 si è classificata al 69° posto su 142 paesi presi in
considerazione. Uno degli indici più bassi registrati, per quanto riguarda l'ambito economico,
prende in considerazione la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro e la
retribuzione a parità di mansioni. Ci chiediamo quindi: le differenze di genere tra paesi
potrebbero essere spiegate prendendo in considerazione la dimensione socio-culturale dei
paesi stessi?
Geert Hofstede, psicologo sociale e antropologo olandese, si è occupato dello studio
delle interazioni tra culture. Uno dei suoi maggiori contributi è la teoria delle dimensioni
culturali, la quale fornisce uno schema sistematico per stabilire le differenze tra le diverse
nazioni e culture. In base a questa teoria si pensa che un valore debba essere inserito
all'interno di un sistema a sei dimensioni. Le sei dimensioni a cui si riferisce sono: il potere, il
collettivismo o l'individualismo del paese, il rifiuto di fronte all'incertezza, l'orientamento
temporale, l'indulgenza in opposizione al controllo e la "mascolinità" o la "femminilità" della
nazione.
Per il nostro progetto ci siamo concentrati su quest'ultimo punto che consiste nella
distribuzione di norme emotive tra i sessi: si riferisce, più in particolare, a quanto una
determinata società dà importanza ai valori maschili stereotipati quali assertività, ambizione,
potere e materialismo, o ai valori femminili stereotipati come la capacità maggiore di gestire
le risorse umane. Geert Hofstede nel 4° capitolo del libro "Cultures and organizations:
software of the mind" (2010) utilizza il termine "maschio" e "femmina" per riferirsi alle
differenze biologiche presenti tra i sessi, mentre usa i termini "maschile" e "femminile" per
1
Per una disamina su come è costruito l'indica globale di disuguaglianza di genere, ved., su questa
rivista, Mattalucci L. (2015), "Global Gender Gap Report e valutazione delle politiche di genere", in
Donne e lavoro. Esperienze, punti di vista, testimonianze, Numero monografico.
106
riferirsi ai ruoli sociali culturalmente determinati. In base a questo punto di vista, quindi, se un
uomo si comporta in modo "femminile" significa che si allontana da alcune convenzioni
vigenti nella sua società. I comportamenti considerati maschili o femminili non sono presenti
soltanto in quelle società considerate come tradizionali ma anche in quelle moderne2.
Infatti nel suo testo Hofstede illustra alcune dimensioni della società con culture
tipicamente mascoline e femminili. Al polo maschile sono attribuite le dimensioni
dell'earnings, ovvero dell'opportunità di guadagni elevati; della recognition, cioè il
riconoscimento meritato quando è stato fatto un buon lavoro; dell'advancement ovvero
l'opportunità di avanzamento verso un livello lavorativo più elevato ed infine della challenge
cioè avere un lavoro sfidante, che spinga a dare sempre di più e che permetta di sentirsi
realizzati. Per quanto riguarda il polo della femminilità le dimensioni sono manager, cioè la
capacità di avere una buona relazione di lavoro con i propri superiori; la cooperation, ovvero
essere in grado di lavorare con altre persone che cooperano le une con le altre; la living area
cioè vivere in un luogo desiderabile per sé e per la propria famiglia ed infine l'employment
security cioè avere la possibilità di lavorare in una organizzazione per tutto il tempo che si
vuole.
In base a tutte queste informazioni si può affermare che la mascolinità si riferisce alle
società in cui i ruoli di genere sono chiaramente definiti, mentre la femminilità si ritrova in
quelle società nelle quali i ruoli di genere si sovrappongono. Partendo da questo
presupposto Hofstede afferma che, tenendo conto dei valori di chi esercita una data
professione, si può parlare di professioni più maschili e di professioni più femminili. In base a
tale ragionamento, in genere, le occupazioni maschili sono svolte da coloro che hanno "valori
maschili", mentre quelle femminili da coloro che hanno "valori femminili".
L'Italia rimane uno dei paesi con le più alte differenze di genere a svantaggio della
popolazione femminile e anche nel caso in cui le giovani donne riescano a trovare
un'occupazione, spesso si trovano in posizioni meno qualificate e difficilmente riescono a
raggiungere posizioni di vertice, con forti disparità anche nelle retribuzioni. In Italia le donne
tendono a scegliere la famiglia a discapito del lavoro a causa spesso delle mancanze
strutturali del nostro Paese. La maternità continua a essere infatti il fattore primario che
determina l'abbandono del lavoro o ancora peggio il licenziamento. Tuttavia, anche quando
le donne decidono e hanno la possibilità di mantenere la propria occupazione, devono
spendere parte del loro tempo nella cura della famiglia e della casa rispetto al tempo che vi
dedicano gli uomini. Occorre tenere presente tuttavia che l'inattività delle donne non è dovuta
soltanto alla carenza di servizi che possono facilitare la conciliazione di lavoro e famiglia.
Infatti si tratta di una scelta più o meno volontaria dovuta a fattori culturali uniti ai bassi livelli
salariali, che non rendono conveniente delegare la cura dei bambini e della casa a strutture
private, spesso molto care.
2
Pensando alla nostra cultura è più facile immaginarsi una donna maestra e un uomo ingegnere
piuttosto che il contrario. Inoltre in molte società c’è una tendenza comune nella distribuzione dei ruoli
sociali sessuali cioè i ruoli di genere. Secondo questi ruoli gli uomini sarebbero più assertivi,
competitivi, duri e maggiormente interessati alle faccende extradomestiche; al contrario le donne
sarebbero più "tenere" e maggiormente portate a prendersi cura della casa, dei figli e delle persone in
generale. In questo modo i successi raggiunti dagli uomini rafforzerebbero l’assertività e la
competitività, mentre le cure femminili l’attitudine alle relazioni e all’ambiente di vita. Possiamo dire
che la società, la cultura e la famiglia esercitano un ruolo importante nelle attitudini e nei
comportamenti delle ragazze sin dai primi anni di vita. Difficilmente vedremo regalare a un bambino
una bambola, cosa che invece risulta molto più facile se a dover ricevere il regalo è una bambina.
107
2. Ipotesi di ricerca
In base all'analisi della letteratura sopra messa in evidenza, abbiamo messo a punto le
nostre ipotesi di ricerca. Ci siamo chiesti:
1- quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne a
raggiungere elevati livelli di responsabilità all'interno dell'azienda;
2- quale fosse la visione della donna su se stessa nel contesto lavorativo;
3- quale fosse la visione dell'azienda da parte della donna;
4- come (l'intervistata) pensa di essere percepita da parte dell'azienda.
In base al primo punto ci interessava andare a verificare se vi fossero delle
caratteristiche comuni in coloro che sono riuscite a raggiungere un ruolo importante
all'interno del contesto lavorativo, per aiutarci a capire se tali caratteristiche possano essere
potenziate al fine di aiutare anche altre donne a portare avanti il proprio percorso di carriera.
Per quanto riguarda il secondo punto, ciò che volevamo mettere in luce era capire se il
fatto di possedere una visione di sé positiva e capace avesse favorito la possibilità della
donna di farsi strada nel contesto lavorativo e quanto, riferendoci al terzo e quarto punto
dell'ipotesi di ricerca, il contesto lavorativo più o meno "femminile", nei termini enunciati da
Hofstede, abbia giocato un ruolo di catalizzatore per queste donne.
Il nostro campione è composto da 21 dirigenti di aziende; 14 aziende private, 5
pubbliche, 2 cooperative sociali. Tra i partecipanti 13 sono donne e 8 uomini, questo per
mettere a confronto le eventuali similitudini o differenze tra essere donna o uomo con un'alta
responsabilità nel contesto lavorativo.
3. Strumento
Visti i presupposti abbiamo creato uno strumento che ci ha permesso di indagare tutti i
punti sopra elencati, in modo da essere usato sia con donne sia con uomini. Non abbiamo
chiesto direttamente se fosse presente o meno nel contesto lavorativo la percezione di una
differenza legata al genere per evitare di influenzare i partecipanti, in particolare le donne,
riguardo a questo fattore. Abbiamo creato un'intervista semi-strutturata, che ci ha dato modo
di seguire una traccia uguale per tutti i partecipanti e con la possibilità, se necessario, di
approfondire con ulteriori domande. Di seguito presentiamo lo strumento.
- In cosa consiste il suo lavoro?
- Quali sono le sue responsabilità?
- Quanto tempo impiega per recarsi al lavoro?
- Con che mezzi si muove?
- A casa ha qualcuno di cui si occupa?
- Quanto tempo occupa il lavoro nella sua vita?
- Lascia del tempo per fare altro?
- Quando ha iniziato a lavorare nell'azienda/organizzazione?
- Come si trova nell'azienda/organizzazione in cui lavora?
- Si ricorda come si era trovata, al suo ingresso in azienda/organizzazione?
- Lei ha raggiunto una posizione di responsabilità nell'azienda/organizzazione nella
quale lavora. Come, secondo lei, viene percepita questa sua posizione dai colleghi e
colleghe?
E lei come si vede nella sua posizione di responsabilità?
108
- Pensando alle sue capacità personali, quali sono secondo lei quelle che l'hanno
facilitata nel raggiungimento di questo livello di responsabilità lavorativa?
- Quali sono oggi i suoi obiettivi?
- Si ricorda quali potevano essere i suoi più ambiziosi obiettivi all'inizio della sua carriera
lavorativa?
- Nella sua vita lavorativa c'è stato qualcuno/a che l'ha ispirata?
4. Punti salienti emersi
Andiamo adesso a vedere da vicino ciò che i partecipanti alla ricerca ci hanno aiutato a
comprendere rispetto all'ipotesi da noi sviluppata.
In base a ciò che volevamo indagare, vale a dire la percezione di differenze nel contesto
lavorativo tra l'essere una donna o uomo leader, molte sono state le dichiarazioni in tal
proposito.
C'è chi ha ammesso che l'essere donna nel contesto lavorativo in cui si trova aiuta,
perché «l'uomo deve dimostrare di raggiungere obiettivi e quindi 'strafà', smania e vuole
sempre di più» e quindi c'è chi si considera "fortunata ad essere donna" in quanto ritiene di
aver già ricevuto tanto.
Come ben sappiamo molti sono stati i cambiamenti nel contesto lavorativo degli ultimi
anni, quindi anche gli uomini «si sono abituati alla presenza delle donne», anche se, ancora
oggi, «se certe cose vengono fatte da un uomo è normale, mentre per una donna è
associato all'essere 'isterica'».
Rispetto alle differenze di ruoli e di professioni all'interno dello stesso contesto lavorativo
c'è chi dichiara di percepire un "razzismo professionale" perché una donna, nonostante
dimostri di «essere brava rimane comunque etichettata nel suo ruolo» ed in più l'essere
donna non favorisce un cambiamento di questa visione.
Molte delle nostre partecipanti quindi hanno percepito differenze nell'essere donna nel
contesto lavorativo perché spesso - affermano - «gli uomini ti vedono come un'insidia, come
quella che ha goduto di facilitazioni. Devi dare il 150% in più rispetto agli uomini»; «Essere
dirigente donna non è facile, una donna deve essere doppiamente brava. Dai collaboratori
uomini certi aspetti non sono ben accettati, bisogna trovare una via di mezzo». Il confronto
uomo/donna sul lavoro è "atavico".
C'è chi non ha percepito una discriminazione nell'essere donna anche se «devi far
notare la differenza di bravura tra te e gli altri».
Rispetto al rapporto lavoro/famiglia, c'è chi ha affermato che «c'è bisogno di una rete
familiare forte che ti sostiene nel lavoro», perché spesso i figli vedono il lavoro come un
"competitor".
Nonostante la maggior parte delle nostre partecipanti abbiano dichiarato di percepire
differenze e difficoltà sul lavoro correlate al fatto, per esempio, di «cercare di calibrare il
modo di vestirsi, perché gli uomini tendono a fare commenti», non vedono il loro essere una
donna come un ostacolo ma spesso come una risorsa in quanto «si riesce a fare più cose
insieme», «è una spinta a fare qualcosa di diverso e di nuovo in un'azienda maschile».
Rispetto a cercare di capire se le donne avessero già prima di iniziare a lavorare la
voglia di raggiungere posizioni di alto livello nel contesto lavorativo, le risposte variano tra
coloro che affermano di aver avuto sin da subito la volontà e l'ambizione di far carriera e chi
109
invece non pensava di raggiungere la posizione attuale. C'è poi chi percepisce il proprio stile
di leadership come non ben accetto dichiarando che «rispetto allo standard dei colleghi
[sono] anomala e [ho] un modello di leadership esercitato con autorevolezza non con
autorità» e i capi per questo la considerano una "chioccia".
Entrando nello specifico, andando ad approfondire una delle nostre ipotesi di ricerca,
cioè quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne nel
raggiungimento di elevati livelli di responsabilità, riportiamo di seguito frasi che esse stesse
hanno affermato. C'è chi dichiara che «la curiosità, la determinazione, la tenacia e la
consapevolezza che si può sempre fare qualcosa di più»; «la testardaggine, il fatto di essere
una 'persona diretta'» sono sicuramente capacità che aiutano a raggiungere elevati livelli di
responsabilità.
Un'altra delle nostre partecipanti dichiara invece che è stato «l'orgoglio e la
determinazione, il dover portare a termine quello che si inizia a costo di morire» ad aiutarla a
raggiungere il suo ruolo nell'azienda. Sicuramente «la razionalità, il non perdere di vista gli
obiettivi»; «l'essere caparbia» sono requisiti richiesti a qualsiasi leader, ma secondo alcune
nostre partecipanti anche il «saper lavorare in squadra, mettersi in prima battuta nelle cose
sapendo anche delegare ad altri», "l'umiltà", sono anch'esse capacità che non possono
mancare. È necessaria inoltre «la testardaggine e la volontà di arrivare, senza prevaricare
sugli altri» e «la giusta dose di ascolto e autorevolezza».
Tuttavia il fatto di "essere esplicita", «non da tutti è apprezzato, non tutti amano la
trasparenza». Molte donne leader da noi intervistate inoltre hanno dichiarato di «aver
lavorato più delle ore richieste» e che una grande dose di «determinazione a raggiungere ciò
che mi [ero] prefissata, chiedendo molto a me stessa» è stata fondamentale. Infine c'è chi ha
affermato che un aspetto importante è stato anche il fatto di «approfondire i temi senza
superficialità» oltre al «dare forte importanza alle relazioni con gli altri».
Rispetto invece al nostro interesse ad approfondire quale fosse la visione della donna su
se stessa nel contesto lavorativo c'è chi dichiara:
«Nel mio ruolo mi sento a mio agio ma certe cose non mi piacciono molto. Ad esempio
non delego molto».
«Faccio il meglio ogni giorno e cerco di essere positiva e ottimista facendo trasparire
questo ai miei dipendenti»; «mi vedo bene, perché si è responsabili ma senza
opprimere».
«Mi riconosco nella mia posizione che mi sono meritata» essendoci «un coinvolgimento
emotivo con questa azienda».
«Ho raggiunto la professione che mi ero prefissata e in cui mi sento più forte e
competente».
«Sono soddisfatta perché da donna ho raggiunto quello che volevo, scegliendo anche di
costruirmi una famiglia».
Relativamente alle altre due aree di interesse, vale a dire quale fosse la visione
dell'azienda da parte della donna e come pensa di essere percepita da parte dell'azienda sia
al loro ingresso che oggi, le nostre partecipanti hanno affermato quanto segue:
«All'inizio del mio ingresso in azienda non mi sono sentita spaventata. Forse si sono
sentiti più spaventati gli altri, perché non avevano mai lavorato con una donna».
«I miei colleghi non hanno problemi ad accettarmi, ma riconosco che il fatto di essere
donna per alcuni è un problema».
«Se si è in un'azienda molto grande ci si fa fuorviare dal ruolo che una persona occupa,
anche in quello che si pensa di lui come persona».
110
Anche prendendo in considerazione la differenza tra ruoli professionali all'interno della
stessa azienda viene aggiunto: «Fatico ad essere considerata una loro pari. In più sono pure
donna» ma c'è anche chi asserisce che «i colleghi [mi] la vedono in modo positivo, si
possono fidare e mi contattano sempre».
È vero che «per arrivare, una donna deve fare salti più lunghi e alti rispetto agli uomini»
ma «la speranza è di essere apprezzata» all'interno di un'azienda in cui
«il [mio] titolo e il [mio] ruolo viene visto come figura di riferimento. L'azienda ha creato
un clima molto positivo. Si vive in un clima di scambio e sono molto disponibile. Se però
ci sono degli obiettivi da raggiungere, non transigo».
Molte sono sicure del fatto che «essere donna non è mai stato percepito come un peso o
un limite. Ciò che fa la differenza è ciò che la persona prova dell'essere donna. Solo la
professionalità fa la differenza».
Ciò che è stato detto fin qui è solo una parte di quello che viene percepito dalle
intervistate su cosa significa essere donna nel contesto lavorativo, con opinioni a volte
antitetiche ma che fanno parte della percezione che ognuno ha di sé. Molti sono gli aspetti
che ci hanno portato a riflettere su ciò che ancora può essere fatto per far sì che la
discrepanza tra uomo/donna vada a cadere. È stato interessante notare come molte
caratteristiche che i nostri partecipanti hanno usato per raccontarsi e descriversi nel loro
ruolo lavorativo venivano usate da entrambi i sessi. Tra queste: determinazione, ambizione,
ascolto, rispetto/correttezza, non perdere di vista gli obiettivi, motivazione ed empatia.
Alcune di queste sono caratteristiche classificate come più "femminili" che "maschili" e
questo ci ha fatto notare come gli aspetti che spesso vengono classificati come femminili, e
quindi discrepanti nel contesto lavorativo, siano invece presenti e aiutino a diventare un buon
leader anche agli occhi dei colleghi.
In ultima analisi possiamo affermare che le donne, confrontate con gli uomini intervistati,
sono state più disponibili a parlare. In alcuni casi con i testimoni maschi è stato difficile
condurre l'intervista perché le risposte di alcuni di loro sono state concise e dirette lasciando
poco spazio per approfondimenti. Questo non è stato riscontrato con le partecipanti donne,
che invece, al termine dell'intervista, ci hanno ringraziato per averle portate a riflettere sul
loro ruolo lavorativo. Una di loro per esempio percepisce che ancora c'è molto da fare per far
sì che altre donne possano arrivare a raggiungere cariche elevate» e in tal senso sta
«cercando di rompere gli schemi ed aprire uno spiraglio».
5. Limiti
Tra gli scopi principali della nostra ricerca qualitativa c'è la necessità di creare qualcosa
che vada al di là dell'analisi dei dati e che coinvolga i partecipanti della ricerca, per far sì che
si abbandoni l'idea dicotomica soggetto-oggetto e arrivare a creare una dinamica superiore,
in modo da approfondire le ipotesi che si sono formate durante il percorso di ricerca. Per fare
questo abbiamo scelto di realizzare, in base alle nostre ipotesi iniziali, un'intervista semistrutturata in modo da creare un dialogo con i partecipanti, cercando di lasciarli liberi di
approfondire la discussione in seguito agli spunti da noi dati. Questo fattore è stato di
fondamentale importanza perché ha permesso alla ricerca di trovare la sua "qualità" e quindi
di ottenere quel qualcosa in più arrivando alla ristrutturazione delle ipotesi.
111
Abbiamo notato durante gli incontri che il limite maggiore che ci ha posto l'intervista è
stato il nostro conformarci al suo schema. Essendo di tipo semi-strutturato abbiamo cercato
di attenerci a essa e ai contenuti che ci eravamo prefissati in precedenza. Questo ci ha fatto
notare, sin dalle prime interviste, che, grazie alla natura delle nostre domande,
prevalentemente aperte, alcuni argomenti emergevano senza che ci fosse una richiesta
specifica. Pur essendoci un limite nella natura dell'intervista, abbiamo cercato di utilizzarlo a
nostro vantaggio per la ristrutturazione delle ipotesi, per esempio includendovi gli argomenti
della quantità di supporto esterno, delle opportunità offerte o colte e dell'equilibrio tra vita
privata e lavoro.
Attenendoci alla struttura della nostra intervista ci siamo resi conto che gli stili di
leadership sono stati poco approfonditi. Quando abbiamo realizzato il questionario ci era
sembrato poco opportuno chiedere direttamente questo aspetto, soprattutto perché entrava
in contraddizione con l'idea principale, ovvero di fare domande in modo che l'intervistato
fosse più libero possibile nelle risposte per renderlo già da queste prime battute parte
integrante del processo di ricerca. L'aspetto della leadership è un contenuto specifico che
potrà essere utile integrare nelle sfide future nelle quali sarà importante la partecipazione
attiva degli intervistati.
Un limite che possiamo definire "fisiologico" della nostra ricerca è stata la disparità nella
distribuzione dei partecipanti tra settore pubblico, privato e sociale. Abbiamo contattato infatti
quattordici membri di aziende private, cinque invece erano provenienti da aziende pubbliche
e due da cooperative sociali. I contatti che abbiamo ottenuto sono stati il risultato di un
grande sforzo personale: infatti la rete che abbiamo creato è un nostro grande punto di forza.
È vero anche però che le politiche delle aziende private, pubbliche e sociali sono differenti
tra loro e che queste esercitano un'influenza sui membri che ne fanno parte. Non essendo
una ricerca quantitativa non ci siamo preoccupati inizialmente di avere dei gruppi di numero
omogeneo tra di loro, ma di raccogliere le esperienze degli individui in modo da renderli
partecipanti attivi per il proseguimento della ricerca. Potrebbe essere interessante ampliare il
gruppo in futuro e inserire più esperienze di donne provenienti dal pubblico e dal sociale in
modo da mettere a fuoco quali sono e se ci sono differenze o punti di incontro.
Sempre derivato da quest'ultimo dato abbiamo individuato che, nonostante tutti i
partecipanti avessero alti livelli di responsabilità, c'erano delle differenze tra di loro dovute
alla posizione che occupavano in azienda. Questo è un punto che può influenzare la loro
visione dell'azienda e il modo in cui percepiscono la loro posizione sia rispetto ai bisogni
personali sia rispetto a come si sentono di essere visti dai colleghi.
6. Prospettive future
Con il Progetto 50/50 ci siamo proposti di facilitare un processo di empowerment
attraverso la ricerca intervento per approfondire il punto di vista di quelle donne che hanno
alti livelli di responsabilità nella loro carriera e per capire come abbiano raggiunto questo
traguardo nelle loro vite. Siamo ancora all'inizio di questo processo e pensiamo che nel
futuro a breve termine sia necessario coinvolgere i partecipanti nel processo di ricerca,
realizzando insieme una rete di donne leader. Da un punto di vista pratico, poiché i
partecipanti abitano in zone differenti tra loro, abbiamo pensato di riunirci in un luogo fisico o
più luoghi fisici a seconda della provenienza per poi chiamarci via internet grazie a Viber o
Skype. Questo punto è il primo passo verso la crescita dei partecipanti che diventano parte
attiva della ricerca in modo da portare, all'interno del bagaglio di conoscenze, le loro
esperienze di vita e le loro risorse.
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La rete che vogliamo far sì che si crei ha molteplici funzioni. In primo luogo i partecipanti
accrescono il loro livello di consapevolezza delle abilità e conoscenze, favorendo così una
crescita e una riappropriazione di potenzialità personale tipiche dell'empowerment. Fare
esperienza di gruppo permette a chi vi partecipa di auto formarsi grazie alla condivisione dei
modi di affrontare i problemi professionali e personali che si possono creare dentro e fuori
l'ambiente lavorativo.
Potrebbe essere interessante in questa fase analizzare insieme quali sono gli stili di
leadership utilizzati, prendendo in considerazione le diversità dei contesti aziendali dai quali
provengono le donne leader. Questo passaggio consentirebbe al gruppo di ricerca di creare
una cultura differente, un modo di essere proprio che permetta di influenzare non solo i
singoli elementi che fanno parte di questo progetto, ma anche il contesto aziendale. Questa
rete infatti avrebbe la funzione di sostegno per le donne che desiderano migliorare la
soddisfazione personale e lavorativa, di diventare un punto di riferimento, una cultura e
quindi una risorsa essa stessa. Da qui una rete di aziende che potranno essere in contatto,
conoscersi tra di loro e iniziare una diffusione di buone pratiche al loro interno.
Il gruppo 50/50 dovrà essere in grado di creare un elenco di servizi utili per le aziende
riguardo alla questione della leadership femminile e grazie a questo sarà possibile fare
formazione affinché il processo di empowerment si estenda per portare a un cambiamento
sempre più diffuso.
7. Conclusioni
Essendo la nostra una ricerca qualitativa, ciò che ne risulta è uno spaccato di una
situazione più ampia e complessa. Tuttavia, dalle interviste da noi condotte emergono
testimonianze rilevanti del nostro contesto lavorativo e culturale in cui le differenze di genere
sono ancora molto presenti. Questo ci ha fatto notare che donne e uomini non hanno
necessariamente caratteristiche differenti che li hanno aiutati a raggiungere elevati livelli di
responsabilità: ciò che li differenzia sembra essere ancora la visione stereotipata di come un
leader dovrebbe essere, anche se, come abbiamo potuto osservare, alcune delle
caratteristiche importanti da possedere sono prettamente femminili. Siamo ancora all'inizio
del processo di ricerca e ci auspichiamo di creare presto una rete di donne leader
empowered ed empowering.
8. Bibliografia essenziale
Hofstede G. (2010), Cultures and organizations: software of the mind (Third edition), New
York, McGraw-Hill.
Sheryl S. (2013), Lean in: Women, Work, and the Will to Lead, Knopf.
Eagly A. H., Johannesen-Schmidt M. (2001), The Leadership Styles of Women and Men,
Journal of social issues.
Gerzema J. (2013), "Feminine" Values Can Give Tomorrow's Leaders an Edge.
9. Sitografia
www.Italialavoro.it
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NOTIZIE SUGLI AUTORI
Rossana Di Renzo
Rossana Di Renzo, formatrice, si occupa di formazione sui temi dell'educazione degli adulti e
della tutorship, utilizzando prevalentemente lo strumento della narrazione. È referente per i
tirocini professionalizzandi della AUSL di Bologna.
Email: [email protected]
Daria Marinangeli
Daria Marinangeli, psicologa del lavoro e delle organizzazioni, dopo alcune esperienze
impiegatizie, ha iniziato più di vent'anni fa la sua esperienza come consulente free-lance
nell'area delle risorse umane. Ha collaborato con aziende italiane e multinazionali, con
società di consulenza, e organizzazioni non profit, svolgendo principalmente attività di
selezione, formazione, assessment di valutazione e sviluppo. Un altro suo filone di
esperienze comprende il counseling psicologico individuale e l'insegnamento dello yoga.
Vive e lavora a Milano.
Email: [email protected]
Lauro Mattalucci
Ha una esperienza professionale di oltre trenta anni nel campo della formazione e della
consulenza organizzativa, maturata in una primaria azienda del settore dove ha ricoperto il
ruolo di responsabile della direzione tecnica e scientifica.
Ha coordinato molteplici progetti formativi in aziende industriali e P.A. e nel campo delle
politiche di formazione professionale e dell'occupazione. Le sue attuali attività professionali
riguardano:
- consulenza e formazione nell'ambito di progetti di ricerca sui contesti economico-sociali,
mercato del lavoro;
- sviluppo dei sistemi scolastici e di formazione professionale;
- ricerca e docenza sui temi dello sviluppo organizzativo (strutture, processi e risorse
umane), formazione manageriale, sviluppo dei sistemi formativi;
- consulenza per lo sviluppo organizzativo e progetti formativi condotti attraverso blended
learning strategy.
È autore di numerose pubblicazioni: ha curato i volumi Il lavoro d'ufficio, Franco Angeli
(1990) e L'Information Technology nella P.A. Ostacoli organizzativi e culturali (con A. Vino),
Franco Angeli, (1993); è inoltre autore di numerosi saggi con particolare riferimento ai temi
del knowledge management ed alla formazione come leva per il cambiamento organizzativo.
È Referente Scientifico di Dialoghi, Rivista di Studi sulla Formazione e sullo Sviluppo
Organizzativo, per cui ha scritto diversi articoli.
Email: [email protected]; [email protected]
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Cristiana Pauletti
Cristiana Pauletti è una formatrice esperta in processi formativi per adulti. Ha lavorato per
molti anni in Istituti Universitari e di ricerca salesiani e attualmente svolge attività di
formazione e consulenza come libera professionista.
Le tematiche formative e organizzative di cui si è maggiormente occupata sono: la
comunicazione interna e la comunicazione e gestione del cliente, team building e dinamiche
motivazionali, assessment delle competenze, skills profile e processi di sviluppo del
potenziale individuale.
L'integrazione delle tecnologie nei processi formativi e lo sviluppo di ambienti virtuali di
apprendimento è stato un ulteriore tema di approfondimento nel quale ha maturato
esperienze significative. Inoltre, negli ultimi mesi, ha indirizzato il suo interesse allo studio
delle dinamiche comunicative nei social network.
Email: [email protected]
Rosaeugenia Pesci
Rosaugenia Pesci è docente a contratto delle discipline Infermieristiche, è Responsabile
della sezione Formativa Universitaria Bo2 dell'Università di Bologna in convenzione con
l'ASL di Bologna e responsabile delle attività didattiche professionalizzanti. Si interessa in
particolare degli aspetti normativi, etico deontologici e della formazione di base e degli adulti,
con particolare riferimento alla funzione tutoriale nell' area infermieristica.
Email: [email protected]
Roberto Pezzoni
Roberto Pezzoni, laureato in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano, dagli anni settanta
agli anni novanta ha svolto ruoli di responsabile di gestione di commesse e di aree di
business in aziende impiantistiche tecnologiche, tra le quali aziende del gruppo Montedison
e del gruppo Fiat.
Tra il 1998 e il 2007 ha svolto incarichi di Project Manager in progetti industriali destinati a
diversi contesti scientifici internazionali (CERN, INFN e altri). Contemporaneamente, dal
1997, è consulente libero professionista e si occupa di processi e organizzazione aziendale,
formazione, executive coaching, business development, project e risk management, in
contesti organizzativi diversificati.
Email: [email protected]
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Progetto 50/50
Il Progetto 50/50 nasce all'interno di un seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale i
cui membri sono Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini laureati in Psicologia
Clinica e della Salute presso l'Università degli Studi di Firenze. Attualmente stanno tutti
svolgendo il tirocinio post laurea per la successiva iscrizione all'albo degli psicologi. Il gruppo
è interessato agli aspetti che riguardano: la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con i
gruppi e la formazione.
Email: [email protected]
Giovanni Gaetano Reale
Giovanni Gaetano reale, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, career counselor, si
occupa, da più di vent'anni, di formazione, consulenza per lo sviluppo organizzativo e per lo
sviluppo professionale in aziende private, pubbliche e pubblica amministrazione. È stato
docente di un Master Universitario di II° livello dell'Università Cattolica del S.C. di Milano,
oltre che cultore di materia nello stesso ateneo. Tra il 1999 e il 2004, per due mandati, ha
ricoperto il ruolo di membro del consiglio direttivo nazionale della SIPLO (Società italiana di
psicologia del lavoro e delle organizzazioni). È autore di alcuni saggi in pubblicazioni e riviste
universitarie e redattore della rivista Dialoghi.
Email: [email protected]
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