Dialoghi Rivista di studi sulla formazione e sullo sviluppo organizzativo Anno VII, numero 1, Marzo 2016 Descrizione immagine di copertina Rembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio su tela, 169,5x216,5, Mauritshuis, L'Aia. Particolare. Anche chi s'interessa poco alla storia dell'arte avrà forse individuato chi sono i cinque seriosi signori con barba, baffi e gorgiera riprodotti in copertina, talmente famoso è il dipinto da cui proviene il dettaglio. Si tratta della Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp che, ad Amsterdam, valse al ventiseienne Rembrandt fama immediata di grande ritrattista. Si trattava infatti di una delle committenze più prestigiose che si potessero avere, da parte dalla potente gilda dei medici chirurghi che già nel 1628 aveva insignito il dottor Tulp della carica "Praelector anatomiae". Oltre ad essere medico famoso, egli era anche una delle persone più influenti della ricchissima città olandese, più volte nominato borgomastro. I cinque volti che vediamo nel dettaglio del quadro raffigurano altrettanti chirurghi membri della gilda: la luce li colpisce frontalmente mettendone in risalto ogni minimo dettaglio fisiognomico. La verità dei volti è sottolineata anche dal potente chiaroscuro che lascia in ombra i vestiti e mette in risalto le candide gorgiere. Se si esclude il personaggio che sta più in alto, che ha un'aria più distaccata, gli altri visi mostrano una straordinaria intensità nello sguardo, un'attenzione quasi ipnoticamente catturata dalla scena alla quale stanno assistendo e l'ansia di apprendere. L'osservazione dell'intero quadro ci consente di capire come il medico che nel dettaglio sta sulla sinistra fissi, nell'avambraccio del cadavere che è stato dissezionato, il forcipe con il quale il dottor Tulp, con la mano sinistra, sta separando muscoli e tendini; altri due medici guardano invece la sua mano destra che illustra quali sono i movimenti delle dita comandati dai muscoli evidenziati; il quarto - quello con la gorgiera più suntuosa - volge lo sguardo verso la scena, dopo averlo distolto da un disegno che stava esaminando (tratto forse dal De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio), mostrandosi desideroso per così dire di mettere a confronto sapere codificato e sapere esperienziale. Rembrandt van Rijn, Lezione di Anatomia del dottor Nicolaes Tulp, 1632, olio su tela, 169,5x216,5, Mauritshuis, L'Aia La lezione di anatomia che il dottor Tulp sta tenendo a beneficio degli altri membri della gilda non rappresenta un fatto eccezionale: tutti gli anni il Praelector anatomiae, era invitato a tenere una pubblica dissezione di un cadavere, appartenente a un criminale che era stato giustiziato. È in questo modo che - in una sorta di involontario rovesciamento della damnatio memoriae - conserviamo il ricordo di tal Aris Kint, finito impiccato dopo una lunga carriera di ladro, essendo stato il suo corpo esangue immortalato da Rembrandt al centro della scena. Quali suggestioni si possono ricavare dalla tela? Chi si occupa di storia vi può leggere - come un po' in tutta la pittura olandese del '600 l'orgoglio della ricca borghesia protestante vissuta nel "Secolo d'Oro" per il benessere raggiunto, ma anche il senso etico del lavoro come valore, che porta a considerare il benessere come segno della grazia divina, non disgiunto da un attaccamento alle istituzioni pubbliche e dalla responsabilità sociale della propria professione. Chi è interessato alla storia della medicina vi scorge senza dubbio la suggestione dei grandi progressi compiuti nel '600 dall'anatomia (che ebbe due "centri di eccellenza" nelle cattedre di Padova e di Bologna); riconosce inoltre l'accuratezza della dissezione dell'avambraccio ove - dicono gli esperti - è posta in primo piano la funzione del "flessore superficiale delle dita". Troverà anche nella tela uno stimolo ad approfondire il ruolo, non di secondo piano, che il dottor Tulp - chiamato il "Vesalio di Amsterdam" - ebbe nello sviluppo della anatomia e della farmacopea. E il formatore? Sicuramente proverà ammirazione (e forse invidia) per un docente che riesce con naturalezza a gestire un'audience attenta e competente. Esistono, nel barocco olandese, altri quadri commissionati dalle gilde dei medici-chirurghi, che raffigurano anch'essi l'evento della dissezione di un cadavere: nessuno raggiunge, neppure lontanamente, il livello artistico di questo dipinto. Michiel van Miereveld, Lezione di anatomia del Dr. Willem van der Meer, 1617, oilio su tela, Museum Het Prinsenhof, Delft Spesso si vedono i membri della gilda che guardano verso lo spettatore, dove fare presenza all'evento o coltivare relazioni sembra più importante che valersi di un'occasione di apprendimento. Ciò che viene celebrato in quei teatri di anatomia - similmente a quanto oggi avviene non di rado nelle aule - non è altro che un rituale; un rituale anche fastoso, che segue un copione ben definito, lasciando poco o nessun spazio ad aspettative cognitive. Lo scarto tra tali raffigurazioni e la tela di Rembrandt riesce a dirci, per così dire, cosa significa "cultura della formazione". 2 D aloghi i Rivista di studi sulla formazione e sullo sviluppo organizzativo Comitato di Redazione: Giuseppe Andriolo, Lauro Mattalucci, Giovanni Gaetano Reale, Elena Sarati, Tiziana Teruzzi, Antonio Zanardo Referente Scientifico Lauro Mattalucci Direttore Responsabile Elena Sarati La sezione dedicata all'apprendimento dagli errori nelle organizzazioni è curata da Giovanni Reale Hanno contribuito a questo numero: Rossana Di Renzo, Virginia Lucchesi, Daria Marinangeli, Lauro Mattalucci, Lorenzo Mugnai, Cristiana Pauletti, Rosaeugenia Pesci, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale, Marta Vagaggini. Si ringrazia per la testimonianza: Francesca Pasinelli, Direttore Generale di Telethon. Il dipinto di Rembrandt in copertina è introdotto da Lauro Mattalucci Sito della rivista: www.dialoghi.org INDICE EDITORIALE ................................................................................................................... 3 ESPERIENZE E RIFLESSIONI ................................................................................... 6 APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEI PROGETTI DI KNOWLEDGE MANAGEMENT di Lauro Mattalucci ..................................................... 7 SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLE ORGANIZZAZIONI a cura di Giovanni Reale .............................................................. 31 L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSO PER LE ORGANIZZAZIONI di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ............................... 32 LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONE INFERMIERISTICA: PREVENZIONE E APPRENDIMENTO DALL'ERRORE NELLA PRATICA ASSISTENZIALE di Rosaeugenia Pesci...................................................................... 52 PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLE PROFESSIONI SANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E OPPORTUNITÀ CULTURALE .......................... di Rossana Di Renzo ....................................................................................................... 66 INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI, DIRETTORE GENERALE DI TELETHON a cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale .................. 91 RECENSIONI ................................................................................................................ 97 RECENSIONE DI COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIO INDIVIDUALE E DI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNES a cura di Cristiana Pauletti.............................................................................................. 98 ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO ................................ 104 PROGETTO 50/50 di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini ........ 105 NOTIZIE SUGLI AUTORI ......................................................................................... 114 2 EDITORIALE Inauguriamo il settimo anno di attività di Dialoghi con questo numero di Marzo, l'undicesimo, cui vanno aggiunti i tre monografici. Si apre con un contributo di Lauro Mattalucci ("Appunti sulla evoluzione delle riflessioni e dei progetti di knowledge management") che ritorna dopo più di dodici anni sul tema del Knowledge Management1, avendo in mente di comprendere se, anche per questa tematica manageriale, si stia esaurendo l'"effetto moda" dopo la grande popolarità registrata già negli anni Novanta del secolo scorso. A giudicare dalla mole che la letteratura sul tema ha assunto sembra vero il contrario. Tuttavia la rassegna di tale letteratura, quando si cerchi di distinguere le disinvolte proposte consulenziali dalle oneste riflessioni sui progetti di KM intrapresi dalle aziende, porta a registrare il venir meno di facili entusiasmi relativi alle sempre più sofisticate piattaforme di K.M., o relativi a fascinose meditazioni sul tacit knowledge o alla invocazione salvifica dell'arte di nutrire le Comunità di Pratica. Diventa invece centrale il tema dei fattori critici di successo a cominciare dalla capacità del management di chiarire, senza retorica, quale modello di Knowledge Governance si intende adottare, declinandolo in priorità di intervento ed in responsabilità da attribuire ai manager di linea ed a knowledge worker. In tale più realistica prospettiva assume particolare rilievo la capacità di attivare iniziative di Knowledge Audit viste come primo passo necessario per imbastire un realistico progetto di K.M. A tale riguardo, l'articolo si chiude con la proposta di una metodologia di K-Audit messa a punto dall'autore e testata al termine di una attività formativa nel settore R&D di una azienda di rilievo internazionale. Si prosegue con una parte interamente dedicata all'apprendimento dagli errori, curata da Giovanni Reale, che presenta diversi contributi. Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale ("L’apprendimento dall’errore, un fattore di successo per le organizzazioni") propongono una riflessione su come le organizzazioni possano favorire il miglioramento verso l’interno e verso l’esterno, sia facendo prevenzione sui potenziali errori, sia intervenendo successivamente quando avvengono quelli che gli autori definiscono fattori indesiderati. L’attuale scenario richiede alle aziende di essere non solo efficaci, efficienti, sostenibili economicamente ma anche capaci di apprendere da ciò che si verifica nel loro perimetro d’azione (clienti, fornitori, struttura interna, mercato, territorio, ecc.), per evolvere in modo continuo: gli “accadimenti”, che gli autori definiscono, più precisamente, effetti indesiderati, appunto, sono, per le organizzazioni, l’occasione di favorire l’apprendimento a tutti i livelli (dall’individuale al inter1 Mattalucci L. (2003) "La pratica del Knowledge management: confronto tra approcci possibili",Studi organizzativi, Vol.1, Novembre, pp.75-100. 3 organizzativo). La blame culture che in molte organizzazioni condiziona l’analisi degli errori, etichetta le persone come colpevoli, limita l’apprendimento di cui le aziende necessitano e mina la fiducia interna, aspetti, questi ultimi due, che sono invece fondamentali, in questi anni, per il successo delle organizzazioni e la loro capacità di innovare. L’approccio, denominato PSC, che viene presentato, si ritiene possa aiutare le organizzazioni, di qualunque tipo, a lavorare per cambiare le condizioni all’interno delle quali le persone agiscono, evitando che le persone stesse diventino fattori attivi di errori che sono prevalentemente organizzativi. Sempre in questa sessione Rosaeugenia Pesci ("La cultura della sicurezza nella formazione infermieristica: prevenzione e apprendimento dall’errore nella pratica assistenziale") si sofferma sulla cultura della sicurezza nel contesto specifico dei servizi di cura; contesto che coinvolge direttamente l’assistenza infermieristica e determina la necessità di creare una coscienza professionale nei futuri professionisti infermieri. Questo tema porta l'autrice anche a riflettere sull’errore, sulla sua prevenzione e gestione e, non da ultimo, sullo sviluppo di un atteggiamento di apprendimento dagli eventi avversi ,importante nella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario. La formazione dello studente propedeutica al tirocinio, ma soprattutto la funzione tutoriale da parte di infermieri che accolgono gli studenti in tirocinio, rappresentano il sistema che trasmette la cultura professionale e riduce la possibilità di errore. Gli studenti, si sottolinea nell'articolo, sentono molto la preoccupazione di apprendere in sicurezza, di avere l'opportunità di essere affiancati da infermieri esperti. Dal canto suo l’Azienda sede di tirocinio organizza, in collaborazione con il Corso, una formazione specifica per sviluppare le competenze tutoriali. A seguire, Rossana Di Renzo ("Pensare e agire in sicurezza nel tirocinio delle professioni sanitarie: obbligo legislativo e opportunità culturale") sottolinea come in ambito sanitario la prevenzione dell’errore sia un tema sentito e dibattuto. Una grande conquista culturale, afferma l'autrice, è di accettare che in medicina, come in tutte le attività umane, si può sbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunque giusto impegnarsi per raggiungerla. L’Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per le diverse figure professionali sanitarie, tecniche, sociali ed educative. In questi anni è stato affrontato il tema dell’applicazione del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell’ambito del tirocinio. Formare il tirocinante - così come ogni operatore della sanità - sulla tutela della salute e della sicurezza nella pratica professionale è dovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Ma è anche e soprattutto un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì che divenga un valore costante per il futuro professionista che lavorerà in un’organizzazione e si prenderà cura dei cittadini. Nell’articolo sono illustrati alcuni dati riguardanti un’indagine conoscitiva che ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, i coordinatori didattici delle sedi formative dei Corsi di Laurea e i tutor di tirocinio sul tema della percezione di rischio ed errore in tirocinio. Conclude la parte una intervista al Direttore Generale di Telethon, Dottoressa Francesca Pasinelli incentrata sul tema della gestione degli effetti indesiderati (termine con il quale sono designati errori, eventi negativi, opportunità perse o risultati ritenuti insoddisfacenti per le organizzazioni). Sempre in questo numero viene proposta una riflessione - a partire da una recensione del testo di Graziella Nugnes, "Counseling organizzativo - un approccio individuale e di gruppo", a cura di Cristiana Pauletti che ne fa un'ampia introduzione e contestualizzazione. 4 In conclusione, in collegamento anche con il precedente monografico, dedicato interamente alle donne nel mondo del lavoro, una ricerca, "Progetto 50/50") di un gruppo di studenti del seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale - Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini - laureati in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università degli Studi di Firenze, ora in tirocinio post lauream. Nel loro contributo raccontano la genesi e nascita del gruppo 50/50 (interessato agli aspetti che riguardano la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con i gruppi e la formazione), le difficoltà incontrate, i primi esiti. Il contributo si concentra ancora una volta sulle donne in elevata posizione di responsabilità, indagando quali siano le capacità personali che hanno favorito alcune donne; la visione della donna su se stessa nel contesto lavorativo e la visione dell'azienda da parte della donna (e come pensa di essere percepita da parte dell'azienda). Dopo una introduzione sui presupposti teorici che hanno guidato l'indagine, vengono proposte evidenze dalle interviste e indicati limiti e opportunità del lavoro. Auguriamo ancora una volta buona lettura. Milano, Marzo 2015 5 ESPERIENZE E RIFLESSIONI 6 APPUNTI SULLA EVOLUZIONE DELLE RIFLESSIONI E DEI PROGETTI DI KNOWLEDGE MANAGEMENT di Lauro Mattalucci 1. Premessa Associato spesso a una pluralità di termini quali Società della Conoscenza, Economia della Conoscenza, Capitalismo Cognitivo, Capitalismo Informazionale e simili, nati già (Drucker 1969) alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso in un contesto di grande euforia per i cambiamenti economico-sociali prodotti dall'evoluzione dell'ICT (euforia che si è poi andata quanto meno attenuando di fronte alle crisi economiche ed ai tanti problemi sociali emersi con la esplosione delle "bolle finanziarie" e le derive negative della globalizzazione dei mercati), il concetto di Knowledge Management (KM) sembra aver attualmente perso gran parte del suo appeal iniziale. Oggi sono in molti a chiedersi se, anche per il KM, si debba parlare dell'esaurirsi di quell'effetto moda che segna l'evoluzione di molte teorie manageriali1. Eppure se, evitando espressioni più altisonanti, definiamo il KM semplicemente come «l'insieme delle prassi aziendali, dei progetti, e degli "strumenti" (regole organizzative, tecnologie, incentivi, ecc.) finalizzati a sviluppare e diffondere le competenze che servono a coloro che, nei loro diversi ruoli, operano in una data organizzazione per affrontare e risolvere i problemi incontrati» (Mattalucci 2003, p.75), occorre dire che una qualche forma di KM, per quanto poco resa esplicita, sistematica ed all'altezza delle aspettative, esiste in tutte le aziende. Possiamo parlare anche, per il KM, di una situazione "as is", ciò che una data azienda effettivamente fa per garantire un valore d'uso alla conoscenza che in essa circola, a paragone di una ideale situazione "to be" più o meno chiaramente definita o anche solo vagheggiata. Ciò che interessa qui analizzare è quali iniziative si assumono nelle aziende per passare da una situazione "as is" ad una situazione "to be" nella quale vi sia una più esplicita, governata e produttiva modalità di gestione di almeno alcuni dei processi interrelati di creazione, codificazione, organizzazione, diffusione e utilizzo della conoscenza, e capire quali obiettivi ci si pone di raggiungere al riguardo. 1 Il tema è trattato in Grant (2011). Va precisato che l'articolo, pur muovendo dai rilievi critici di chi spiega il successo del KM alla luce della Management Fashion Theory, cerca in verità di dimostrare attraverso bibliometric evidence - come non si tratti di una moda. Nell'ambito di questa tematica si dovrebbe anche far riferimento al venir meno delle attenzioni e del coro di elogi riservati negli anni Ottanta alle lezioni manageriali provenienti dal Giappone per effetto della crisi che attraversa oggi tale sistema paese, mentre ancora nel 1995 il testo di Nonaka e Takeuchi intitolato The knowledgecreating company: How Japanese companies create the dynamics of innovatio, aveva conosciuto un vero e proprio boom editoriale, diventando una sorta di "bibbia del KM". 7 La domanda dalla quale conviene verosimilmente partire è la seguente: "Possiamo parlare di una evoluzione delle prassi aziendali di KM e, se sì, quali sono le riflessioni sviluppate che risultano capaci di guidare tali prassi?" Non è affatto semplice rispondere a tale domanda: le proposte consulenziali intorno al KM si sono moltiplicate in maniera impressionante - verosimilmente assai più delle oneste riflessioni sui progetti intrapresi - con il risultato che è difficile finanche dare un resoconto sintetico delle diverse finalità e delle modalità di approccio al KM. I quadri concettuali che stanno alla base della letteratura sul KM sono moltissimi. Possono riguardare: a) le tecnologie viste come fattori abilitanti di una più efficace gestione della conoscenza; b) i modi diversi di vedere l'organizzazione e il suo capitale di conoscenza, assieme alla gestione delle risorse umane e ai processi di change management necessari per intervenire sulla cultura ed i comportamenti; c) i modelli con i quali si concettualizzano i vari processi di generazione, condivisione e utilizzo della conoscenza e si individuano priorità di intervento. Non mancano neppure diverse sottolineature del significato stesso della conoscenza che chiamano in causa differenti elaborazioni "filosofiche". Fig. 1: Aspetti concettuali che attengono al discorso intorno al KM. La figura 1 è tratta da una poderosa enciclopedia sul KM2: essa evidenzia la straordinari quantità di riferimenti concettuali, metodologici e tecnologici che sono stati chiamati in causa. Offrire una sintesi ragionata della letteratura sull'argomento è impresa assai ardua. Tenterò comunque nel presente articolo di delineare quelle che - nel lavoro di preparazione 2 Schwartz (2006), p. xxvii 8 di un seminario da me tenuto nel giugno 2015 - mi sono sembrate le riflessioni sul KM sviluppate negli ultimi 15 anni maggiormente meritevoli di essere prese in considerazione. Pur avendo consultato, nell'ambito della letteratura sul KM, un discreto numero di libri e articoli, devo dire - per dichiarare subito i limiti del presente scritto - che esso ricopre solo un parte molto limitata dell'enorme letteratura esistente (della quale è anche arduo definire i confini). Vi è sicuramente stata, inoltre, da parte mia una qualche arbitrarietà nella selezione dei testi e dei temi presi in esame, essendo tale selezione condizionata sicuramente dalle mie precedenti esperienze e riflessioni sul KM ed ancor più dalle finalità del citato seminario3. Non vi è dunque in questo scritto nessuna pretesa di giustificazione statistica delle considerazioni svolte. Presenterò per punti alcune riflessioni sul tema del KM aventi essenzialmente natura impressionistica, senza preoccuparmi di specificare ogni volta compiutamente tutti i testi di riferimento. Una classificazione dei documenti presi in esame è riportata nella biografia al termine del presente scritto. 2. L'esigenza di un approccio socio-tecnico Ancora nei primi anni del 2000, in parallelo alla distinzione pervasivamente ripetuta tra conoscenza esplicita e conoscenza tacita, si mettevano in contrapposizione tra loro due approcci al KM, uno incentrato sulla tecnologia e sull'information sharing, l'altro sullo sviluppo delle competenze e sul knowledge sharing4. Si tratta in effetti di una comoda distinzione per delineare il diverso focus di due tipologie di progetti di KM, sintetizzabile attraverso la seguente tabella. Information sharing: focus su… Knowledge sharing: focus su… 5 ICT come fattore abilitante Cultura gestionale come fattore abilitante Implementazione e sviluppo di piattaforme di KM Sviluppo dei processi di apprendimento negli individui e nei gruppi di lavoro. Rilievo delle Comunità di Pratica (CdP) Come sintetizzare e distribuire la conoscenza (conoscenza esplicita) Come condividere le expertise e le lezioni apprese (conoscenza tacita) Tabella 1 Il primo approccio, di tipo ingegneristico, si fonda sostanzialmente sulla idea del Business Process Reengineering (BPR ) applicata ai processi di gestione dati, informazioni e conoscenze comunque codificate (o codificabli), promettendo una ben definita metodologia di strutturazione dei progetti da intraprendere e risultati certi; esso si tiene alla larga da considerazioni (ritenute fumose o poco dominabili) attinenti al funzionamento delle 3 Il seminario intendeva offrire un quadro concettuale e metodologico per la strutturazione di un progetto di KM nel settore R&D di una azienda di rilievo internazionale. È sembrato utile, in sede di progettazione del seminario, prendere in considerazione un certo numero di manuali /enciclopedie sul KM prodotti nel mondo anglosassone, e successivamente testi di approfondimento di concetti e approcci metodologici che mi sono sembrati idonei a sviluppare una riflessione sulla natura e sulle finalità del progetto aziendale che si intendeva impostare. 4 Mattalucci (2003). Nell'articolo si mette in discussione una troppo manichea tra le due tipologie di progetti. 5 Il termine cultura gestionale, per come viene qui utilizzato, si riferisce alle modalità con cui è gestito il personale (specie i knowledge worker) e con cui si responsabilizzano i manager nella gestione del capitale di conoscenza. 9 organizzazioni come sistemi sociali, segnati abitualmente da dinamiche complesse (e talvolta conflittuali) relative alla creazione, diffusione e utilizzo della conoscenza. Il secondo approccio (senza sottovalutare il ruolo dell'ICT) vede il KM come sviluppo dei processi di apprendimento di individui e gruppi di lavoro da realizzare mediante una più efficace people strategy e una migliore condivisione della conoscenza; esso muove all'approccio ingegneristico, che confida essenzialmente sulla tecnologia, l'accusa di adottare un palese riduttivismo concettuale che finisce per essere penalizzante. Nella letteratura relativamente più recente sembra attenuarsi tale contrapposizione. Pare esservi un sostanziale accordo sull'esigenza di adottare per i progetti di KM un "approccio socio-tecnico" e, più specificamente, di mettere in valore il capitale di potenzialità e di competenze presenti nelle persone facendo leva anche sulle possibilità che le tecnologie offrono nel rendere più efficienti ed efficaci i processi di generazione, codificazione, trasferimento, applicazione della conoscenza6. La tecnologia, pur accentuando il suo ruolo di enabler dei sistemi di KM, cessa di essere considerata come il motore principale. L'approccio-socio tecnico invita a considerare enabler del KM non solo la tecnologia, ma anche la cultura organizzativa e i modelli di leadership che si fondano (e trovano legittimazione) su tale cultura. In una visione dinamica dei processi di gestione della conoscenza, prevale l'idea di una coevoluzione tra la componente sociale e quella tecnologica. I progetti di KM debbono confluire in una politica aziendale di KM, consapevole, ben supportata e che duri nel tempo. Si registra una crescente rilevanza - in epoca di Web 2.0 - delle piattaforme di KM con funzioni di knowledge repository, di accesso a data base e specialmente di comunicazione e lavoro cooperativo, come viene sottolineato dalla figura seguente7: Fig. 2: Funzionalità di una piattaforma di KM. 6 Questa - della esigenza di un approccio socio-tecnico - sembra essere la "filosofia" editoriale adottata dalla rivista Knowledge and Process Management (presente dal 1993): I temi chiave su cui si incentra la rivista sono: knowledge management; organizational learning; core competences; process management. Tra gli articoli pubblicati dalla rivista e presi qui in esame citiamo solamente Hlupic et al. (2002). Altre riviste che vanno citate nella prospettiva dell'approccio socio-tecnico sono: - Interdisciplinary Journal of Information, Knowledge, and Management (presente dal 2006) - Information Technology & People (precedentemente pubblicata dal 1990 con il titolo Office Technology and People) 7 La figura è tratta da Dulany et al. (2008). 10 La disponibilità di piattaforme open source incoraggia l'idea di poter promuovere una coevoluzione tra sistema tecnico e sistema sociale. Molte riflessioni sono state dedicate in particolare al tema del networking e dello sviluppo delle comunicazioni interattive8. 3. Comunità di Pratica e ruolo dei Knowledge Worker Un punto focale di una qualsiasi politica di KM è di prestare grande attenzione ai luoghi in cui si produce conoscenza. Com'è noto il termine "apprendimento situato" (in inglese situated learning) è stato proposto da J. Lave ed E. Wenger come modello di apprendimento che ha luogo in una Comunità di Pratica (CdP) (Lave, Wenger, 1991). Detto nel modo più semplice possibile, si tratta di un apprendimento che avviene nel contesto stesso in cui è applicato quanto appreso. Lave e Wenger sostengono (cosa per altro sottolineata anche in precedenza da altri autori) che l'apprendimento non deve essere considerato semplicemente come la trasmissione di conoscenza astratta e decontestualizzata da un individuo all'altro, ma come un processo sociale in cui la conoscenza è co-costruita, suggerendo che tale apprendimento debba essere visto come situato in un contesto organizzativo specifico, e sviluppato nell'ambito di Comunità di Pratica (CdP), comunità che agiscono spesso fuori dagli schemi organizzativi definiti dai vertici aziendali. Ad opera dello stesso E. Wenger - in una prospettiva più attenta alla consulenza manageriale - il concetto di CdP è progressivamente diventato uno dei pilastri della proposta di una politica di KM basata sull'idea di nutrire le CdP, favorendo lo sviluppo di gruppi semiinformali che operano scavalcando produttivamente i tradizionali schemi formali di funzionamento organizzativo. Si tratta di un approccio che, già verso la fine degli anni Novanta, aveva sollevato molti entusiasmi9. Il concetto di CdP mantiene un suo valore come categoria per studiare la creazione di competenze viste come "sapere in azione", ma la sua rilevanza strategica per le politiche aziendali di KM appare in qualche misura ridimensionata, riassorbita in una prospettiva che possiamo definire "multifattoriale"; anche se una siffatta prospettiva talvolta, per voler essere esaustiva, rischia di apparire poco traducibile in progetti finalizzati al miglioramento dei processi di creazione, organizzazione, condivisione, diffusione e utilizzo delle conoscenze ritenute vitali per l'azienda. Una prospettiva multifattoriale è quella che possiamo leggere ad es. in Russ , Fineman, Jones (2010, p.18): «These performances [related to the productive use of the knowledge] are created by: KM Processes, KM/IS Systems, and KM Levers. The Project Teams, Informal Networks, etc. There is no predefined list and each organization will dictate the processes that it deems appropriate10» 8 Si può vedere al riguardo la raccolta di contributi contenuta in Camison et al (2009). Si tratta di una idea che - devo dichiararlo - era parsa a suo tempo anche a me molto promettente. Questo senza però banalizzare - come in talune proposte consulenziali - lo sforzo richiesto nel promuove lo sviluppo delle CdP, non sottovalutando in particolare gli ostacoli derivanti da una cultura manageriale piuttosto diffusa, più attenta al controllo degli equilibri di potere che allo sviluppo dei processi di apprendimento (cfr. Mattalucci, 2003). Sulla evoluzione del concetto di CdP in E. Wenger vedasi Cox (2005). 10 Mio corsivo. 9 11 Le "KM Levers" che compaiono nel passo citato fanno riferimento a: «HR hiring practices, Reward Systems, Cross Functional Collaboration, Core Competencies, Top Management Support, External Relationships, Culture, and Risk Tolerance» (ibidem). Ciò che sembra comunque emergere in questa "prospettiva multifattoriale" è una specifica attenzione alla people strategy adottata: di qui il "recupero", nella letteratura sul KM, dell'ampio filone di studio riguardante i knowledge worker11. Esso risale ai contributi pionieristici di Drucker (1969), prende in esame il processo di produzione di conoscenza da parte dei diversi tipi di knowledge worker e s'interroga su quali siano le politiche gestionali da adottare nei loro confronti. In merito alla natura della conoscenza prodotta dai knowledge worker si osserva che: «[ essa] è una miscela fluida di esperienze situate, valori, informazioni contestualizzate, e intuizioni esperte che forniscono un quadro di riferimento per valutare e incorporare nuove esperienze e informazioni. Proviene e viene applicata nella mente dei soggetti che conoscono (knower). Nelle organizzazioni essa si trova spesso incorporata (embedded) non solo in documenti o repository ma anche nelle routine organizzative, nei processi, nelle pratiche e nelle norme»12. Si stabilisce in tal modo un collegamento stretto (anche se non esplicitato) con le considerazioni sviluppate da D. A. Schön (1983) intorno al così detto "apprendimento riflessivo", vale a dire l'apprendimento che avviene affrontando situazioni lavorative caratterizzate da unicità (ogni situazione ha caratteristiche sue proprie); ambiguità (ogni situazione si presta a diverse ed anche alternative interpretazioni); imprevedibilità; conflitto di valori ed interrogandosi sempre sulle lesson learned 13. Si tratta di una modalità di analizzare la conoscenza che nasce dalla prassi che fa compiere un notevole passo avanti rispetto al concetto piuttosto sfuocato di "sapere tacito"14. Il riferimento ai knowledge worker implica anche una specifica attenzione anche ai network professionali (interni ed esterni all'organizzazione aziendale) come luogo di produzione di conoscenza15. La riflessione può essere estesa tout court alla rete vista come contesto di apprendimento sempre più vasto e partecipato. Se il riferimento ai knowledge worker vale ad arricchire le riflessioni sul processo di creazione di conoscenza, la letteratura di matrice manageriale che parla della loro gestione non sembra offrire prospettive particolarmente innovative. Partendo dalla ovvia premessa che (Cohen, Birkinshaw, 2013): «You cannot manage your knowledge workers in the traditional and intrusive way you might have done with manual workers», si arriva a raccomandazioni finalizzate a migliorare la produttività e la disposizione alla collaborazione facendo appello a considerazioni sulla motivazione e sugli stili di leadership che paiono tratte dai tradizionali manuali di management. Sembrano - almeno da un'analisi affrettata dei contributi sul tema - poco presenti case study che partono da analisi etnografiche effettuate 11 Tra i testi più citati a questo riguardo troviamo Davenport, Prusak (1998). Il testo è stato ristampato nel 2013. 12 Davenport, Prusak (1998), p.4. 13 Nella cornice dell'apprendimento riflessivo si colloca ovviamente anche la tematica dell'apprendimento dall'errore alla quale sono dedicati alcuni articoli in questo numero di Dialoghi. 14 Il concetto di "tacit knowledge" è diventato popolarissimo in seguito alla pubblicazione di Nonaka, Takeuchi (1995). In verità nel testo in questione il termine tacit knowledge compare in almeno due diverse accezioni, come sapere non codificabile ("tacit aspects of knowledge are those that cannot be codified") e come sapere non ancora codificato ("transforming tacit knowledge into explicit knowledge is known as codification"). 15 Sui Knowledge Worker mi sia consentito di rinviare a Mattalucci (2014). 12 sui specifiche tipologie di knowledge workers16 con l'obiettivo di meglio comprendere come dati valori di riferimento emergano tra essi, a livello individuale e di gruppo, e come tali valori vengano utilizzati dai soggetti per dar senso sia alle prassi lavorative svolte sia ai meccanismi gestionali adottati dall'azienda17 condizionando i comportamenti e le performance. 4. Le reticulation come sollecitazione ulteriore per il KM In molte pubblicazioni sul KM si parte da un'affermazione del seguente tipo (Akhavan et al. 2005): «It is clear that the most important property of every organization is organizational knowledge and correct management of it will cause core competencies for the organization». L'esigenza di politiche di KM e di provvista di core competence trova ulteriori motivazioni nello sviluppo avutosi di strutture organizzative a rete e di business network, anche temporanei, che coinvolgono una pluralità di aziende. In tal modo, come già accennato, assume rilievo il tema del trasferimento e della messa in comune di conoscenze tra i nodi del reticolo, e quello dell'attivazione di comunità virtuali in rete come nuovo contesto lavorativo. Anche i confini tra creazione interna ed esterna di conoscenza tendono a farsi più sfumati con il web 2.0. Possiamo citare al riguardo il tema della Technology Intelligence (TI). La TI è un'attività che permette alle aziende di identificare le opportunità e le minacce tecnologiche che potrebbero influenzare la futura crescita o la loro stessa sopravvivenza. Ha lo scopo di acquisire e diffondere le informazioni e le conoscenze tecnologiche necessarie per realizzare la pianificazione strategica ed effettuare i conseguenti processi decisionali. Dal momento che i cicli di vita della tecnologia si accorciano e le imprese diventano sempre più globalizzate, possedere efficaci capacità di TI è diventato un fattore sempre più importante per acquisire un vantaggio competitivo (come molte società di consulenza sottolineano ormai da decenni18). La realizzazione di attività di TI richiede abitualmente la costruzione di un network di esperti per realizzare un processo di Technology Scouting. In linea di continuità concettuale con tali iniziative, e su un versante connesso anche a esigenze operative di problem solving, si pone la prassi del crowdsourcing. Con tale termine si indica, com'è noto, un processo attraverso il quale un'azienda o un'istituzione, a fronte di uno specifico problema, affida la ideazione ed eventualmente la realizzazione di una soluzione ad un insieme indefinito di persone non organizzate in una comunità preesistente. 16 Il termine Knowledge Worker costituisce una categoria ombrello che raggruppa tipologie lavorative molto differenti tra loro (ad es. non tutti i lavoratori della conoscenza sono descrivibili attraverso il modello del reflective practitioner esposto da D. A. Schön); deriva anche di qui la difficoltà a sviluppare effettive proposte gestionali. Per cercare di circoscrivere l'ampiezza della categoria in questione, qualcuno ha proposto di parlare di "learning worker", ponendo l'accento sulla capacità di "imparare a imparare". 17 Tra i meccanismi gestionali si includono: i sistemi di valutazione, gli incentivi, le proposte formative, ecc. 18 La esigenza di TI ha dato luogo a proposte metodologiche da parte di società di consulenza. Per una proposta avanzata da Arthur D. Little vedasi Rudolph, et al. (1991). 13 5. Case history: successi e fallimenti Nella letteratura sul KM si assiste verso la metà degli anni 2000 ad un crescente interesse per l'analisi di case history dettata - a fronte dei molteplici quadri teorici prospettati dal desiderio di avere riferimenti pratici in merito all'impostazione e gestione dei possibili progetti di KM e dal desiderio di avere best practice di riferimento. Si vuole poter fare un bilancio dei progetti avviati dalle aziende per uscire dal sospetto che si tratti dell'ennesima moda manageriale, per capire meglio quali sono gli obiettivi realistici che possono essere perseguiti e quali i fattori critici di successo. Attraverso l'esame delle storie di caso si prende, per prima cosa, atto della varietà degli scopi che le aziende si prefiggono di raggiungere quando decidono di attivare un progetto di KM. Nella prefazione di Jennex (2005) è indicata la seguente tipologia di finalità: - Identify Critical Knowledge; - Acquire Critical Knowledge in a Knowledge Base or Organizational Memory; - Share the stored Knowledge; - Apply the Knowledge to appropriate situations; - Determine the effectiveness of using the applied knowledge; - Adjust Knowledge use to improve effectiveness. Esistono molte differenti proposte di classificazione dei progetti di KM in rapporto alle finalità che essi perseguono. Ad esse corrispondono differenti criteri di valutazione delle knowledge performance19. I casi presi in esame nei vari testi hanno ovviamente ricevuto, per la pubblicazione, il consenso delle aziende protagoniste e offrono un resoconto positivo di come sono andate le cose (particolarmente in fase di implementazione): non è pertanto agevole - situazione che spesso si riscontra nell'utilizzo a scopo didattico della case history - individuare quali siano le possibilità di generalizzare ed assumere come riferimento quanto emerge dal racconto delle esperienze. Un portato di maggior apprendimento deriva forse dagli articoli - ormai anch'essi numerosi - che trattano del fallimento di progetti di KM. Essi testimoniano come sia elevato il numero di casi nei quali non si riesce a gestire la fase di implementazione dei progetti, 19 Possiamo ad es. citare quanto previsto dal MAKE Award. Inaugurato nel 1998, il MAKE Award è stato condotto ogni anno da Teleos (una società di ricerca britannica indipendente specializzata nella gestione delle conoscenze e delle aree relative al capitale intellettuale) in associazione con la rete KNOW. Esso mira a riconoscere le organizzazioni che mostrano, rispetto a quelle omologhe, performance superiori nella creazione di valore per l'azienda, trasformando la conoscenza tacita ed esplicita dell' impresa e il capitale intellettuale in prodotti / servizi / soluzioni di qualità superiore. I vincitori del Global MAKE Award sono selezionati da un gruppo di esperti composto da dirigenti aziendali provenienti dalle 500 aziende di Fortune, che sono tra i principali practitioners nel campo del KM, nonché esperti di della materia. Le finalità ed i relativi risultati in termini di knowledge performance che il MAKE award considera sono: - creare e sostenere una cultura d’impresa guidata dalla conoscenza; - sviluppare i knowledge worker attraverso la leadership del senior management; - creare e distribuire prodotti /servizi/ soluzioni basati sulla conoscenza (knowledge-based); - massimizzare il capitale intellettuale d’impresa; - creare e sostenere un contesto per il collaborative knowledge sharing; - creare e sostenere una learning organization; - creare valore sulla base delle conoscenze degli stakeholder; - trasformare la conoscenza d’impresa in valore per gli azionisti e gli stakeholder, Informazioni sul MAKE Award si possono ricavare dal sito all'indirizzo http://www.knowledgebusiness.com/knowledgebusiness/Templates/Home.aspx?siteId=1&menuItemId =25; consultato il 04-02-2016. 14 perché non si sanno superare i diversi (spesso concomitanti) fattori ostativi (barricading factors). Tali fattori secondo Ajmal (2009) possono essere legati a: - la tecnologia (insufficienza o inadeguatezza delle soluzioni IT); - la cultura organizzativa (fattori ostativi legate i comportamenti); - i contenuti di conoscenza che si vorrebbero gestire più efficacemente.20 Il resoconto dei casi di fallimento si connette - non sorprendentemente - ad altrettante situazioni di incapacità di Project Management e di Change Management. Su un piano più specifico alla tematica del KM si può far riferimento alle criticità emerse da una ricerca condotta da IBM già nel 200221; essa ha evidenziato: - il mancato collegamento degli sforzi nel campo del KM con gli obiettivi strategici dell'azienda; - la creazione di repository in termini tecnologici senza affrontare la necessità di gestire i contenuti; - l'incapacità di comprendere e di connettere il KM con le attività lavorative quotidiane delle persone; - un'enfasi eccessiva sugli sforzi di apprendimento formale come meccanismo per la condivisione della conoscenza (eccessiva enfasi al collegamento con l'e-learning); - il fatto di concentrare gli sforzi del KM solo entro i confini dell'organizzazione. Un'ulteriore analisi delle ragioni di fallimento mette in evidenza come (Malhotra 2004): - i sistemi di KM siano spesso definiti in termini di input quali dati, informazioni, procedure, best practices, ecc. che in se stessi possono essere inadeguati a dar conto delle business performance: tra gli input e le performance intervengono variabili intermedie trascurate quali attenzione, motivazione, committment, creatività e innovazione; 20 L'articolo citato, entrando in maggior dettaglio, menziona i seguenti barricading factors: Technology Connectivity: The technical infrastructure cannot support the required number of concurrent access due to bandwidth limitation; Usability: The KM tool has a poor level of usability. KM users find the tool too cumbersome or complicated for use; Overreliance: An over-reliance of KM tools lead to the neglect of the tacit aspects of knowledge; Maintenance cost: The cost of maintaining the KM tool is prohibitively high. The management intervenes and terminates the KM project. Culture Politics: KM initiative project is used as an object for political maneuvering such as gaining control and authority within the organization; Knowledge sharing: Staff does not share knowledge within the organization due to reasons such as the lack of trust and knowledge-hoarding mentality; Perceived image: Staff perceives accessing other’s knowledge as a sign of inadequacy; Management commitment: The management appears keen to commence the KM project. However, when problems emerged, commitment to the KM project is quickly withdrawn Knowledge content Coverage: The content is developed fragmentarily from different groups of KM users. Hence, crossfunctional content can not be captured; Structure: The content is not structured in a format that is meaningful to the task at hand; Relevance & currency: The content is either not contextualized or current to meet the needs of the KM users. It can not help KM users achieve business results; Knowledge distillation: There is a lack of effective mechanism to distil knowledge from debriefs and discussions. Hence, valuable knowledge remains obscured. 21 La ricerca è citata in Akhavan et al. (2005). 15 - i sistemi di KM sono spesso disegnati guardando il presente o il passato (corporation memory) piuttosto che essere attenti agli scenari di cambiamento provenienti dal contesto esterno. L'analisi delle ragioni di fallimento (analisi che può contare ormai su un numero ampio di contributi provenienti dal mondo accademico) vale a mettere in guardia da facili entusiasmi e da disinvolte selling proposition da parte di venditori di soluzioni ICT e di società di consulenza. Nasce di qui l'invito a una notevole cautela nell'attivazione di nuovi progetti. Due concetti sembrano, più di altri, voler contribuire sul piano metodologico a orientare le scelte in materia di KM, Si tratta dei concetti di: - Knowledge Governace - Knowledge Audit. Ad essi sono dedicati gli ultimi due paragrafi di questo scritto, cercando di interpretare liberamente le suggestioni che vengono dalla letteratura in merito. 6. Definire un modello di Knowledge Governance Il termine di knowledge governance (KG) ha assunto rilievo per denotare le modalità con cui di fatto vengono governati dati, informazioni, conoscenze e competenze, anche a prescindere da una esplicita politica e da progetti aziendali di KM. Il termine serve anche a evocare il ruolo del management aziendale nel dare impulso e sostenere (steering) le politiche ed i progetti di KM. La KG può essere definita come la scelta delle strutture, dei supporti e dei meccanismi gestionali che consentono di gestire o quanto meno di influenzare produttivamente la gestione dei processi di KM, vale a dire dei processi di: - generazione, - codificazione, - trasferimento/applicazione della conoscenza22. Si è detto all'inizio come in una qualsiasi organizzazione esista sempre, di fatto, una politica di KM: chiamiamola politica "as is". Ragionare di KG significa comprendere i punti 22 In una versione all'allargata la Knowledge Governance si riferisce anche ai processi di pianificazione e controllo dei processi suddetti (vedasi schema seguente): Figura tratta da Prat (2006, p. 213) 16 deboli di tale politica, definire quale potrebbe essere la situazione "to be", e tratteggiare il percorso per passare da "as is" a "to be". La attenzione a meglio strutturare la KG comporta l'esigenza di: - articolare le priorità, ossia la scelta delle risorse di conoscenza sulle quali investire in coerenza con strategie /piani e programmi; si tratta, in sintesi, di definire le coordinate della politica di KM23; - assicurare coerenza alle azioni riguardanti le diverse variabili strategiche che intervengono nella gestione del capitale di conoscenza; in particolare coerenza con le politiche di gestione delle HR (valorizzazione e sviluppo del proprio "capitale intellettuale"); - dare direzione e impulso alla politica di KM attraverso i progetti e le iniziative che si decide di intraprendere ai fini di una migliore generazione, codificazione, trasferimento, applicazione delle conoscenze ritenute vitali per l'azienda; - definire, nell'ambito delle varie strutture aziendali (funzioni tecniche, funzioni di programmazione, funzioni di gestione, ecc.) le responsabilità inerenti ai processi di generazione, codificazione, trasferimento, applicazione delle conoscenze; - formalizzare eventuali figure professionali ad hoc dedicate alla politica di KM (il Chief Knowledge Officer, un Project Manager per ogni progetto di KM intrapreso, i Knowledge Champion, ecc.). Vediamo brevemente quali questioni si pongono in rapporto ai diversi knowledge process: A) Generazione della conoscenza La finalità di questo processo è quello di riconoscere quali sono le realtà nelle quali si acquisisce/produce conoscenza idonea ad affrontare determinate classi di attività e di problemi; si tratta poi di consolidare /sostenere/ rafforzare tali modalità. Le fonti di conoscenza di possono essere legate a specifici ruoli lavorativi, comunità interne alla nostra organizzazione (unità organizzative, CdP, team, gruppi di knowledge worker, ecc.) ovvero network che collegano la nostra organizzazione all'esterno. Parliamo di acquisizione/produzione per sottolineare il rapporto complesso tra conoscenze acquisite all'esterno e conoscenze prodotte all'interno dell'azienda. Assistiamo oggi, come già detto riguardo al fenomeno della reticulation, a una crescente rilevanza del 23 Con il termine "politica di KM" si denota ciò che l'azienda intende fare per una migliore gestione del proprio "capitale di conoscenza"; si traduce in un insieme di progetti finalizzati a rendere più efficienti ed efficaci i processi di generazione, codificazione, trasferimento, applicazione della conoscenza. Tutti gli autori che si sono occupati del tema sottolineano come essa debba essere sostenuta da un forte commitment dei vertici aziendali. Si parla anche di Knowledge Management Strategy, sottolineando così il collegamento con la Vision e la strategia aziendale. Le variabili strategiche che intervengono nella gestione del capitale di conoscenza sono: - strategia aziendale (Vision, Mission, piani e programmi, allocazione delle risorse, ecc.); - organizzazione (strutture, processi, ecc.); - cultura organizzativa e comportamenti; - leadership; - gestione delle Risorse Umane (assunzioni, formazione, promozioni, sistema delle ricompense); - information Tecnology (Data Base, Workflow e Groupware, Document Management System, Piattaforme di KM e di e-learning, Web portal, Intelligenza Artificiale, ecc.); - modalità di esplorazione e adattamento all' environment (punti forti e punti deboli del proprio capitale di conoscenza). 17 network con l'esterno (business network). Si pensi, per fare solo un esempio, alla costituzione di joint venture che richiedono la messa in comune di specifiche competenze. B) Codificazione della conoscenza Con il termine "codificazione" si intende il passaggio da un'espressione orale della conoscenza, tra persone che si conoscono e che condividono pratiche e linguaggi "situati", a una espressione scritta (o comunque registrata24) tra persone che non si conoscono e non hanno vissuto le stesse esperienze. È il processo attraverso il quale la conoscenza prodotta diviene fluida e fruibile da altri soggetti. Si pongono a questo riguardo i noti problemi di codificazione del "sapere pratico" su cui si era concentrato anche lo studio delle CdP. Parlare di codificazione significa anche parlare di condivisione e di barriere che possono emergere a questo riguardo (barriere cognitive e barriere sociali). Emerge in questa prospettiva lo spinoso tema di come creare quella "cultura della condivisione"25 alla cui mancanza vanno imputati spesso i principali barricading factor rispetto allo sviluppo di una politica di KM. Al fine del superamento delle barriere sociali si può far affidamento su una piattaforma di KM e su regole (procedure) imposte dall'alto. Inoltre la "propensione alla condivisione" può essere inserita tra i fattori presi in considerazione nel sistema di valutazione del personale. Aspetti di questa natura adottati nel modello aziendale di KG, sono utili ma non bastano quasi mai a creare una vera cultura della condivisione26. Occorre, in un percorso di Change Management, puntare sulla autoregolazione e sullo sviluppo di comportamenti lavorativi basati su fiducia, affidabilità e reciprocità. Ciò che deve passare nei vari gruppi di lavoro è l'orientamento verso logiche win win, in cui la conoscenza sia riguardata come "bene comune"27. I modelli di leadership hanno, a questo riguardo, un ruolo di grande rilievo. C) Trasferimento / applicazione della conoscenza La sola codificazione (ed eventuale messa in rete o incorporazione in meccanismi operativi) della conoscenza non determina un effettivo trasferimento, specie se la conoscenza va interpretata alla luce della specificità delle situazioni organizzative, professionali e culturali della stazione di arrivo rispetto alla stazione di partenza. Il trasferimento non può essere disgiunto dalla codificazione, ma richiede anche il superamento di possibili disturbi semantici che possono intervenire nella interpretazione e contestualizzazione delle conoscenze che si trasferiscono. Esistono poi - al solito 24 Ad es. attraverso relazioni, manuali tecnici, learning object, resoconto di casi, programmi di simulazione, sistemi esperti, ecc. 25 È nota la riluttanza che le persone possono avere nello scambiare apertamente informazioni o nel condividere le loro conoscenze, quando temano una diminuzione del proprio potere o del proprio status all'interno dell'azienda. 26 D'altra parte il concetto di governance si differenzia da quello di government proprio perché vale a denotare la capacità di governare senza troppe regole emanate dall'alto. Può essere ricordata a questo riguardo la presenza tra i dieci principi - che secondo Davenport (1998) stanno alla base di una efficace strategia di KM - l'affermazione che: «Il KM trae maggior beneficio da "mappe" che da "modelli", da logiche di scambio più che da logiche gerarchiche». Questo significa che, anziché impegnarsi per costruire complessi modelli gerarchici di strutturazione e registrazione delle conoscenze, vale la pena fornire mappe per comprendere dove si trovano le conoscenze stesse (knowledge mapping) e favorire gli scambi che ogni unità organizzativa può attivare con le altre, anche con il contesto esterno (solitamente si impara molto anche da clienti, fornitori e business partner). 27 Considerare la conoscenza presente in un'organizzazione come bene comune porta a costruire un ponte tra il KM e le riflessioni sui beni comuni che hanno preso il via dai lavori di Elinor Ostrom. Vedasi specialmente Hess, Ostrom (2009). 18 barricading factor di natura sociale legati a conflitti valoriali, e barriere identitarie (come ad es. la nota sindrome del "not invented here"). Si possono individuare casi di differente complessità nel processo di trasferimento di conoscenze che possono essere così esemplificati: - trasferimento di lavorazioni all'estero; - trasferimento di buone pratiche all'interno di una organizzazione; - trasferimento di conoscenze all'interno dei business network (ove emergono delicati problemi di messa in comune, ma anche di protezione delle proprie core competence). Si può studiare quale ruolo possa assumere la formazione nel processo di trasferimento di conoscenze. Ci si limita qui a osservare - riprendendo un tema più volte trattato in Dialoghi - che, se la conoscenza trasferita deve diventare "sapere in azione", è necessario far uso di una impostazione metodologica che produca un qualche grado di condivisione delle pratiche28. La usabilità della conoscenza codificata e trasferita comporta il riferimento a una serie di strumenti IT e chiama in causa - come già detto - l'impiego di una piattaforma di KM (o Knowledge Portal) con funzionalità che possono essere schematizzate attraverso una nuova figura (Fig. 3 ) Fig. 3: Schema di una piattaforma di KM Possiamo riferirci al Knowledge Repository (nonché alle Banche Dati ed ai sistemi di Document Management a cui è possibile accedere attraverso la piattaforma) come alla "base di conoscenza" (Knowledge Base) del sistema. Essa va articolata a partire da tassonomie ed operazioni di tagging che consentano possibilità di knowledge mapping; il tutto senza separare i documenti dagli autori e dai contesti di loro produzione. Una piattaforma di KM deve facilitare tutti i processi di creazione, organizzazione, diffusione, utilizzo di conoscenza utile. A tal fine deve quanto meno consentire di: - dare agli utenti la possibilità di collegarsi e di collaborare con i colleghi; - stimolare il flusso della conoscenza attraverso l'organizzazione; 28 Vedasi ad es. Mattalucci L. (2010). 19 - strutturare e mappare la conoscenza in modo funzionale rispetto alle esigenze degli utenti; - distribuire la conoscenza rendendola disponibile, dove e quando serve attraverso dispositivi multipli di accesso (possono includere anche smartphone e tablet); - attivare ambienti di apprendimento collaborativo. Gli strumenti di communication (sincrona e asincrona) hanno un ruolo fondamentale nello strutturare comunità on line29. Il presidio della piattaforma, e dei progetti di KM che necessariamente ne fanno uso, nelle forme adeguate di KG, debbono far riferimento a ruoli e responsabilità ben definite. Possono ad es. essere definite figure di Knowledge Champion (detti anche - con varie sfumature di significato - KM Champion, Knowledge Activist, Knowledge Steward, Knowledge Coordinator) ai quali si attribuiscono compiti di advocacy (essere un punto di riferimento per le questioni di KM), di supporto e facilitazione nell'impiego di strumenti o nell'attivazione di specifiche iniziative, compiti di knowledge brokering per l'attivazione di contatti con persone esperte e fonti di conoscenza (interne ed esterne all'azienda). Possono anche essere individuati e responsabilizzati in rapporto ad aree chiave di know how esperti con funzione di peer mentoring raggiungibili attraverso la piattaforma di KM30. Rientra tra le aree di analisi del grado di adeguatezza della KG la valutazione dei costi/benefici derivanti dallo sviluppo e mantenimento della piattaforma di KM e dei ruoli di supporto ai quali si è testé fatto cenno. 7. Attivare operazioni di Knowledge Audit Il tema della strutturazione di un modello di Knowledge governance si collega strettamente all'attivazione di operazioni di Knowledge Audit (K-Audit). Il termine K-Audit si riferisce, secondo López-Nicolás, Meroño-Cerdán (2010, p. 117) all'insieme di «[pratiche finalizzate] ad identificare quale conoscenza si renda necessaria per sostenere gli obiettivi complessivi di una organizzazione e l'attività dei team o delle singole persone; [Attraverso l'attività di K-Audit si deve raggiungere] un'apprezzabile chiarezza del modo in cui viene efficacemente gestita la conoscenza e dove sono necessari miglioramenti; [tutto questo] fornisce un resoconto della conoscenza che esiste nella nostra organizzazione, di come essa circola e viene utilizzata […]»31. Dunque le attività di K-Audit fanno riferimento a una qualche forma di indagine sistemica finalizzata a comprendere e valutare l'attuale situazione di gestione della conoscenza, ma soprattutto a individuare modalità per migliorare i processi in questione in modo da garantire per l'azienda la possibilità di disporre delle necessarie "competenze chiave". Si argomenta che (Hylton, 2002, p.2): «Il K-Audit è indiscutibilmente il primo passo in un'iniziativa di KM32. Eppure esso non è stato sufficientemente riconosciuto come di fondamentale importanza in un qualsiasi progetto di gestione della conoscenza […] Il K-Audit serve per aiutare chi lo effettua a stabilire se egli davvero "sa quello che sa" e se "sa quello che non sa" circa lo stato della 29 Ampi contributi alla tematica Connectivity and Knowledge Management sono contenuti in Camison et al. (2009). 30 Per motivare il peer mentoring si è anche sperimentato l'impiego di forme di gamification. 31 Mia traduzione. 32 Mio corsivo. 20 conoscenza esistente. Serve anche per portare alla luce ciò che si dovrebbe sapere per meglio far leva sulla conoscenza per migliorare il business e il vantaggio competitivo. Quanto emerge servirà a fissare l'agenda delle l'iniziative di KM, dei programmi e delle iniziative di implementazione»33. La letteratura che riguarda il K-Audit propone numerose metodologie per condurre operazioni di tale natura. Si tratta di proposte che, per voler essere ampie e approfondite, rischiano di diventare di difficile applicazione. Viene presentata in allegato una proposta metodologica elaborata da chi scrive e (parzialmente) testata in un lavoro sul campo condotto al termine del seminario citato in premessa. 33 Mia traduzione. 21 Allegato: Proposta di una metodologia di K-Audit In questo allegato viene proposta una metodologia per una attività (fatta anche solo a titolo esplorativo) di audit del "capitale di conoscenze" o meglio dei know how più rilevanti di cui si avvale e di cui ha bisogno una organizzazione o anche solo uno specifico sottosistema organizzativo (dipartimento, divisione, ecc). Si tratta di una metodologia finalizzata a ottenere una mappa più chiara del know how che serve per gestire efficacemente i processi organizzativi e avere indicazioni su quale potrebbe essere un effettivo progetto di K.M. Essa si articola in tre passi: 1) individuazione, dentro l'organizzazione sulla quale si opera, dell'"albero dei processi lavorativi", dei Key Performance Indicator (KPI) e dei Know how (Kh) chiave necessari per raggiungere e migliorare i KPI; 2) analisi delle modalità di generazione, formalizzazione e diffusione dei Kh chiave individuati al passo 1; 3) individuazione di iniziative che potrebbero migliorare, relativamente ai Kh chiave, i processi di creazione e gestione della conoscenza. 1) Primo passo Il primo passo della metodologia in questione consiste nell'individuazione - nell'ambito del perimetro organizzativo preso in considerazione dal nostro progetto - dei processi/sottoprocessi che interessano l'organizzazione considerata. Partendo dalla mission della struttura organizzativa considerata, si procede con il riconoscimento dell'insieme complessivo delle attività svolte classificate secondo una "struttura ad albero" a partire dai processi di più alto livello (Fig. A1). Solitamente è sufficiente arrivare a una classificazione su due o al massimo tre livelli (processi/sottoprocessi/attività più analitiche) Figura A1: Albero dei Processi In coerenza con la terminologia del modello European Foundation for Quality Management (EFQM) i processi considerati possono essere: - processi di servizio finalizzati alla erogazione di prodotti e servizi34; - processi di supporto per fornire al sistema organizzativo le risorse necessarie; 34 I processi di servizio che interessano l'organizzazione considerata possono essere parte (segmenti) di processi più ampi che attraversano più strutture organizzative. 22 - processi di gestione per governare ed innovare l'organizzazione Al fine di rendere snello l'approccio proposto si può puntare l'attenzione sui soli processi (o sottoprocessi) "chiave" vale a dire i processi maggiormente rilevanti rispetto al buon funzionamento dell'organizzazione. Essi possono - all'interno di un team di lavoro nel quale siano rappresentati diversi punti di vista - essere selezionati in base alla: - rilevanza economica o quantità di "risorse assorbite"; - rilevanza in termini di efficacia o qualità percepita (ponendosi nell'ottica dei diversi stakeholder); - rilevanza in rapporto agli obiettivi strategici che si vogliono conseguire. La scomposizione di un processo in sottoprocessi vale a rendere più puntuale l'analisi delle competenze richieste per il suo svolgimento. Parliamo da qui in avanti, per semplicità, solo di processi sottintendendo che, se del caso, vengono presi in esame anche gli opportuni sottoprocessi È utile - come avviene in molte metodologie di analisi delle organizzazioni - "incrociare" i processi con le funzioni (unità organizzative o ruoli lavorativi) che intervengono nella realizzazione dei processi. Nelle caselle si inseriscono le attività svolte (ivi compresa la produzione di relazioni e documenti che può essere utile vengano inserite nel Knowledge Repository presente nella piattaforma di KM). Processi / Funzioni Funzione A Funzione B Funzione N Processo 1 Processo 2 Processo N Tabella A1: Incrocio tra processi e funzioni organizzative Per mappare i Kh richiesti per lo svolgimento di ciascun processo possono essere utilizzati grafi come quello in figura (che a titolo meramente esemplificativo considera il processo di "stesura di una tesi di laurea"). Il processo da analizzare viene posto al centro del grafo e si individuano le conoscenze, capacità, padronanze, ecc. necessarie per lo svolgimento del processo stesso (indipendentemente dai soggetti che possono essere coinvolti). 23 Figura A2: Esemplificazione di una mappatura delle conoscenze necessarie per lo svolgimento di un processo (l'esempio riguarda la stesura di una tesi di laurea). A fronte di ogni processo considerato è opportuno sforzarsi di definire innanzi tutto quali sono i "criteri di giudizio" che (mettendosi nell'ottica dei diversi stakeholder) possono essere utilizzati per valutare lo svolgimento e i risultati ottenuti. A partire dai criteri di giudizio si possono definire i Key Performance Indicators (KPI), vale a dire gli indicatori che valgono a stabilire i livelli di efficacia ed efficienza che si raggiungono (o si vogliono raggiungere). Possono essere: - indicatori di costo ( costo di svolgimento del processo, costo di recupero di errori, ecc); - indicatori di qualità (tempo di risposta, frequenza reclami, qualità del servizio percepita dall'utente, ecc.)35. Ragionare sui KPI - indipendentemente dal fatto che si disponga attualmente del loro valore numerico - aiuta a considerare qual è il "capitale di conoscenza" richiesto per ciascun processo. Si arriva in tal modo a costruire la matrice evidenziata nella tabella A2. 35 Continuando con l'esempio della stesura di una tesi di laurea i criteri di giudizio solitamente impiegati sono: Organizzazione e scrittura/Rilevanza dei risultati/Correttezza/Adeguatezza degli strumenti/Bibliografia /Sperimentazione /Autonomia del candidato. Per quanto non sia immediato, si possono indicare modalità per tradurre operativamente i criteri ad es. in standard minimi, che possiamo considerare essere i KPI. Ciò che appare evidente è che ragionare sui criteri di giudizio (o meglio ancora sui KPI) porta a individuare con precisione i Kh necessari. 24 Processo /sottoprocesso chiave Criteri di giudizio/ KPI Know how (Kh) richiesto Specificazioni sulla natura del Kh richiesto Processo A KPIA1 KPIA2 Conoscenza di … Padronanza del … Capacità di… [Note riguardanti il Kh richiesto] Processo B KPIB1 KPIB2 KPIB3 Conoscenza di … Padronanza del … Capacità di… [Note riguardanti il Kh richiesto] ……………… Tabella A2: Identificazione del Kh complessivamente richiesto per uno svolgimento efficiente ed efficace dei processi lavorativi La voce "Conoscenza di…" si riferisce ai domini tematici che sono alla base del Kh; "Padronanza di…" (o anche "Abilità di… ) si riferisce all'utilizzo di strumenti, applicazioni software, metodologie, ecc. Il termine "Capacità di …" può essere riservato a competenze che consentono di affrontare attività di diagnostica, di indagine, di problem setting/ problem solving, ecc. Si tratta di capacità che presuppongono, con una certa frequenza, il sapere quali fonti di informazione possono essere consultate, a chi chiedere pareri, e altro ancora. La tabella A1 fotografa la situazione organizzativa attuale (quella che nel linguaggio del BPR chiamiamo situazione as is). Possono tuttavia essere già allo studio - magari come istanze provenienti dai Sistemi di Qualità o da iniziative di Benchmarking - progetti di miglioramento organizzativo e ridisegno dei processi. In tal caso conviene pensare a una tabella A2 bis con la stessa struttura di quella precedente, riferita però alla configurazione organizzativa che si vuole raggiungere (situazione "to be"). Si arriva in ogni caso a stabilire una lista dei "Kh chiave" (vale a dire quelli che hanno un maggior valore strategico o, comunque, un maggior rilievo nella gestione - efficiente ed efficace - dei processi lavorativi), ognuno con un suo codice identificativo. 2) Secondo passo Il secondo passo della metodologia di K-Audit consiste nel sottoporre ad analisi ciascun Kh identificato attraverso la tabella A2 avendo magari cura - per non appesantire troppo l'analisi - di porre l'attenzione solo sui Kh aventi maggior rilievo ai fini delle performance organizzative36. Occorre chiedersi, per ciascuno dei Kh considerati: - da dove proviene e/o dove si genera; - dove trova eventuale formalizzazione; - come si diffonde (o meglio come la si rende disponibile per chi ne ha necessità) 36 La scelta dei Kh aventi maggiore rilievo può essere effettuata come panel discussion tra le persone che partecipano al K-Audit 25 Codice del Kh chiave considerato e sua denominazione …. Da dove proviene e/o dove si genera Esperti /consulenti interni /esterni Team (interni o interorganizzativi) supportati o meno da groupware/workflow Comunità di pratica Forum di discussione (anche con il coinvolgimento degli utenti o dei fornitori) Dove trova eventuale formalizzazione Data Base Management Systems (DBMS); Repository documentali /Document Management System (DMS); Sistemi esperti; Kh embedded in applicazioni software; Videoconferenze periodiche Learning platform (es. Moodle); Attività di reporting svolte a valle di… Ecc. Attività di informazione /formazione Come si diffonde Possibilità di accesso on line a DBMS, DMS, Learning platform, ecc.; Team e Comunità di Pratica; Gestione consulenze esterne Mentoring / Mentoring on line; Attività di informazione/formazione; Mappatura e possibilità di consultazione di competence champion interni ed esterni Ecc. Iniziative di benchmarking / Case study Crowdsourcing Ecc. Tabella A3: Analisi dei processi di creazione e gestione della conoscenza. Si costruiscono tante tabelle quanti sono i Kh chiave considerati (scelti per la loro effettiva rilevanza). Dal punto di vista operativo l'individuazione delle tabelle sopra menzionate procede in maniera analoga a quanto previsto dalle metodiche di analisi delle competenze, tenendo presente - come afferma G. Leboterf - che «qualunque competenza è finalizzata e contestualizzata: essa non può dunque essere separata dalle proprie condizioni di messa in opera. […] La competenza è un saper agire (o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio altrui». L'analisi in questione non può dunque prescindere da metodi qualitativi di indagine, come interviste a knowledge worker, testimoni privilegiati e focus group. 2) Terzo passo Sulla base delle tabelle A3 si possono - come terza fase della metodologia - avviare dei ragionamenti sulle iniziative che potrebbero migliorare i processi di creazione e gestione della conoscenza. Si tratta di una fase particolarmente delicata perché richiede una attenta diagnostica di quali sono le attuali criticità. 26 In genere si tratta di criticità che possono derivare da uno o più elementi inclusi nella seguente check-list: - limiti presenti nelle attuali funzionalità e modalità d'uso delle applicazioni tecnologiche; - limiti presenti nelle possibilità di accesso alle informazioni utili o al più generale patrimonio di conoscenze; - carenze di Kh, nelle persone e nei team, che condizionano il raggiungimento delle perfomance desiderate (o il possibile miglioramento dei KPI); possiamo parlare a questo riguardo di "knowledge gap"; - insufficiente utilizzo e diffusione delle competenze che si generano nei processi (mancanza di apprendimento organizzativo); - scarsa capacità di utilizzo di potenziali fonti informative esterne (ad es. clienti, fornitori e business partner); - presenza di "colli di bottiglia" nella circolazione delle conoscenze (eccesso di dipendenza da specifici knowledge worker)"; - insufficiente "cultura della condivisione" di informazioni e conoscenze; - carenze nella definizione di responsabilità inerenti la gestione delle informazioni e conoscenze, mancanza di ruoli di knowledge manager (carenze di knowledge governance). 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(1983), The reflective practitioner: how professionals think in action, New York, Basic Book. 30 SEZIONE DEDICATA ALL'APPRENDIMENTO DAGLI ERRORI NELLE ORGANIZZAZIONI A cura di Giovanni Reale 31 L'APPRENDIMENTO DALL'ERRORE, UN FATTORE DI SUCCESSO PER LE ORGANIZZAZIONI di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni, Giovanni Gaetano Reale 1. Premessa Vi sono due versanti da cui è possibile guardare la situazione generale delle organizzazioni di oggi, quello delle sfide del mercato globale, della crisi economica e delle strategie imprenditoriali e quello della loro struttura interna, dell'evoluzione organizzativa, dei cambiamenti del modo di lavorare e produrre. Sono due versanti che si intrecciano tra loro, che si influenzano a vicenda. La crisi economica sta modificando di fatto la struttura del sistema produttivo italiano e gli sviluppi della trasformazione digitale, qualunque sia il "peso" del suo impatto, lancia una sfida nuova alle imprese che rimangono sul mercato. Come già evidenziato dal CNEL (2010, pag. 9): «il variegato assetto del nostro sistema produttivo ha determinato capacità di reazione alla crisi molto differenziate … con imprese che hanno investito in innovazione e ricerca già in grado di cogliere, sia pure nella durezza della situazione internazionale, significativi risultati; imprese che pure hanno seguito sentieri virtuosi, che invece si trovano oggi punite da una situazione presente che non riescono a dominare; infine, una vasta area di imprese che invece, non avendo intrapreso alcuna azione di valenza strategica, percepiscono che per loro si prospetta un futuro di grandi rischi e difficoltà». Alla ripresa economica flebile che stiamo vivendo in questi anni, e che, si prevede, caratterizzerà anche gli anni a venire, le aziende italiane si sono presentate sostanzialmente come prima descritto: quelle che hanno avviato e, magari, già compiuto percorsi di innovazione e trasformazione per stare su un mercato più globale e interconnesso hanno più possibilità di navigare in un mare più ampio e sfidante; le altre o stanno salpando, avendo resistito alla crisi, oppure sono essenzialmente ancora ferme in porto. Il "rovescio della medaglia", che ci interessa particolarmente in questo testo, è che molto probabilmente le organizzazioni che si sono trasformate hanno sviluppato anche gli "anticorpi" per il futuro. E qui veniamo al secondo versante, quello interno alle organizzazioni: sono definite ormai da tutti, studiosi e consulenti (basta citare la presentazione di Cuneo all'edizione italiana di Ripensare il futuro, a cura di Gibson 1998), come organismi complessi per attività e tecnologie, per l'interazione tra questi elementi e le persone che vi lavorano. Nelle organizzazioni di oggi si lavora in modo differente da quelle di soli 30 o 40 anni fa: vi è stato il passaggio epocale da aziende centrate sul prodotto, in cui tutto era legato ad esso, a 32 imprese centrate sul processo (ossia ci si è focalizzati su tutto il "percorso" di realizzazione del prodotto), passaggio favorito dall'automatizzazione del lavoro; transito che ha poi portato alle imprese flessibili odierne, caratterizzate da una forte automazione, da un sistema di lavoro che integra le diverse parti dell'organizzazione per migliorare i risultati, e da un mercato di riferimento sempre più ampio e però sempre più variabile. E le persone che operano nelle organizzazioni flessibili, devono saper gestire l'incertezza, il molteplice, la diversità di orientamenti. Quali sono questi "anticorpi" che si indicavano in precedenza? Partiamo dall'indagine ISFOL "Oltre la crisi" (2013) su un campione che possiamo definire "particolare", le piccole e medie imprese del sud Italia che hanno successo anche durante la crisi: a pagina 87 dell'indagine, dopo il racconto e l'analisi delle aziende selezionate, si indicano gli elementi distintivi che contraddistinguono queste imprese che «operano in territori economicamente decentrati rispetto ai sistemi produttivi più evoluti nazionali e internazionali. Una prima analisi trasversale ha consentito l'identificazione di tre aspetti che meritano uno specifico approfondimento e che sono connessi tra loro: - l'organizzazione del lavoro, che inerisce, in particolare, ma non esclusivamente, alle modalità di gestione delle risorse umane, del loro reclutamento e di processi di aggiornamento delle competenze; - un approccio "meta-culturale" all'idea imprenditoriale; - la presenza di un comportamento di tipo "resiliente" che riguarda diversi aspetti, dalla gestione interna dell'impresa ai rapporti con l'ambiente sociale, economico e istituzionale in cui si esplica il campo d'azione dell'impresa». Nella disamina dei tre aspetti indicati, partendo dal primo, a pagina 88 dell'indagine ISFOL, si dice che «da un altro punto di vista dell'organizzazione, l'indagine ha inteso analizzare le condizioni relative alle politiche delle risorse umane, che svolgono una funzione strategica nella determinazione del valore aggiunto della produzione industriale. Orientate alla qualità, le imprese esaminate considerano la competenza e il benessere/la soddisfazione dei dipendenti come variabili indipendenti dell'intero processo produttivo». Per quanto riguarda il secondo aspetto, pur nelle differenze tra gli stili imprenditoriali raccolti e vision differenti, a pagina 91 dell'indagine ISFOL si indica che: «i titolari e il management veicolano una forte impronta culturale e valoriale, talvolta con connotazioni etiche (ed emotive), nella ricerca di fondamenta su cui costruire identificazione, condivisione e focalizzazione rispetto agli obiettivi di performance aziendale. Senza scomodare categorie di analisi che appartengono al filone tradizionale manageriale, in alcune situazioni il titolare agisce come colui che è in grado di imprimere alcune delle cosiddette discipline (Senge, 1990) legate all'apprendimento in azienda, con particolare riguardo alla costruzione della visione condivisa, al team learning e alla padronanza personale…». Per quanto riguarda il terzo aspetto, quello della resilienza organizzativa, che viene definito come «la generale capacità di saper lavorare in penuria (di risorse, materiali, strutture, finanziamenti…), di vivere condizioni di disagio e di difficoltà, ma riuscire comunque a ottimizzare ciò di cui si dispone e alla fine apprendere ad affrontare in modo competente nuove situazioni di difficoltà. Questa capacità può aver dunque aumentato il grado di resilienza di queste imprese, ovvero la forza di superare le difficoltà e le crisi migliorando addirittura la propria posizione [...] La resilienza dunque non è la semplice capacità di 33 resistere agli avvenimenti traumatici come può esserlo una crisi, ma è soprattutto l'insieme di abilità connesse al fronteggiamento delle difficoltà, correlata alla capacità di utilizzare l'esperienza acquisita per costruire il futuro in modo rafforzato … La resilienza si traduce così, paradossalmente, nella capacità di riuscire ad essere produttivi nelle difficoltà, capitalizzando le esperienze, gli errori e le vittorie per costruire il futuro, mantenendo la fiducia in sé stessi e l'energia per raccogliere nuove sfide». (ISFOL, pp. 92- 93)" Questa ricerca, dunque, ci evidenzia alcuni elementi che paiono importanti per le aziende piccole e medie e che ritroviamo, con una terminologia differente, in uso nelle organizzazioni di grandi dimensioni: il miglioramento continuo e l'apprendimento organizzativo. E il riferimento che viene fatto a Senge dagli autori della ricerca ci richiama il concetto di pensiero sistemico, che l'autore indica come la quinta disciplina, nel libro omonimo (Senge 1990). Una capacità che permette alle aziende di comprendere, secondo l'autore, la complessità implicita nei sistemi organizzativi. Avere una visione sistemica delle organizzazioni e delle attività che si svolgono, siano esse quelle produttive aziendali siano esse quelle consulenziali che operano "per" le organizzazioni, permette di favorire l'apprendimento organizzativo. «Ma, per realizzare il suo potenziale, il pensiero sistemico necessita anche delle discipline utili a creare una visione condivisa, cioè dei modelli mentali, dell'apprendimento di gruppo e della padronanza personale. Costruire una visione stimola l'impegno a lungo termine. I modelli mentali si concentrano sull'apertura necessaria a scoprire scorciatoie nel nostro modo attuale di vedere il mondo. L'apprendimento di gruppo sviluppa le capacità dei nuclei di persone di guardare all'immagine più grande al di là delle prospettive dei singoli. E la padronanza personale promuove la motivazione personale a continuare ad apprendere come le nostre azioni influiscano sul nostro mondo». (Senge, trad. it, 1992, p. 14). Proviamo a guardare le aziende anche da un altro punto di vista, quello dei sistemi che vengono attuati per migliorare l'efficienza interna e l'efficacia produttiva di prodotti o servizi, senza, ovviamente, dimenticare l'economicità del sistema organizzativo: per raggiungere gli obiettivi imprenditoriali le aziende hanno introdotto, come ci fa notare Tartari (2014), «… molteplici metodi di gestione aziendale, di organizzazione della produzione e dei servizi connessi, e di miglioramento continuo; in particolare le tecniche Six Sigma, Lean Six Sigma e Quality by Design. Sono stati inoltre, sviluppati e introdotti diversi sistemi qualità e linee guida, ad esempio ISO 9001, ISO TS 16949, ISO 14971, ISO 13485, ICH Q8, ICH Q9, ICH Q10, solo per citarne alcune. Le norme e le linee guida citate hanno tutte un comun denominatore: l'identificazione di attività e prodotti non conformi, la loro gestione e l'identificazione delle cause». Da tutti gli aspetti citati, da consulenti che si muovono da anni in differenti realtà organizzative, dalle grandi multinazionali di nascita italiana o straniera, fino alle piccole aziende italiane, emergono due aspetti: la necessità per le imprese di innovare e fare ricerca, ma anche di migliorarsi continuamente, anche internamente, per stare sul mercato; per questo, quanto prima indicato in diverse parti di questa premessa risulta significativo, perché chi adotta certe strategie interne risulta avvantaggiato. Il secondo aspetto è che non basta adottare metodologie più efficienti per essere più efficaci, in un mercato variabile e in organizzazioni più flessibili, che magari lavorano just in time e che personalizzano i prodotti. 34 «Nonostante ciò [i metodi di gestione aziendale, ndr] abbiamo una serie di mancati obiettivi sia organizzativi che di qualità, i difetti e i disservizi raggiungono spesso il mercato e l'insoddisfazione dei clienti aumenta», dichiara Tartari (2014, p.11). Noi pensiamo che l'efficacia e l'efficienza possano essere ancora migliorate, (è difficile che un'organizzazione sia perfetta!), ma forse non è solo una questione di metodi, di strumenti (come ci pare di cogliere da autori come quello appena citato) ma, invece, principalmente una questione di cultura organizzativa, di una "piena", ossia pervasiva, cultura dell'apprendimento organizzativo, che includa non solo la visione sistemica di Senge, ma anche una cultura che incentivi il miglioramento e il superamento dell'errore, senza la colpevolizzazione. Parliamo di errore perché ci pare sia la "cartina di tornasole" ottimale con cui osservare in modo complessivo le organizzazioni in azione. E avremo modo di approfondire il concetto lungo tutto questo scritto. Spieghiamo però subito cosa intendiamo per errore: come ci indica uno dei maggiori studiosi dell'argomento, Reason (si veda 1990), esso può essere definito in molti modi, ma in questo ambito di analisi un errore è ritenuto un fallimento di una o più azioni pianificate per il raggiungimento di uno scopo. Questi errori che avvengono nelle organizzazioni e che non permettono di raggiungere gli obiettivi individuati, di mantenere gli standard definiti verso il cliente esterno o interno, di essere efficaci nello svolgere le proprie attività, noi li chiamiamo effetti indesiderati. Non ci riferiamo quindi al tema della salute e sicurezza sul lavoro e a temi inerenti lo stress lavoro correlato; allo stesso modo non ci connettiamo direttamente al tema della qualità nelle sue differenti "diramazioni" e metodiche. Intendiamo vedere il tema dell'errore nelle organizzazioni come un tema a più ampio raggio, secondo una lettura organizzativa sistemica ed è quello che facciamo nelle nostre attività consulenziali che sono in progress. 2. Gli errori nelle organizzazioni Il rischio per le aziende, che operano su mercati competitivi, di non raggiungere gli obiettivi di budget, di non guadagnare per remunerare il capitale investito, di non dare dividendi agli investitori (che possono poi andare verso altre fonti di investimento più redditizie), è caratterizzato da molti fattori esterni all'impresa (competitività, andamento economico, ecc…), ma anche da quelli interni, legati alla produzione di prodotti e servizi di qualità, all'efficacia ed efficienza organizzativa. Diventa prioritario dunque eliminare difetti e disservizi che possono ricadere, in primis, sui clienti e generare insoddisfazione e cattiva reputazione, così come verso i fornitori (che potrebbero trovarsi a voler scegliere di privilegiare altre organizzazioni) o verso i clienti interni, i lavoratori, generando malcontento e un clima di lavoro poco sereno. Come ci segnala Maurizio Catino (2009, pag. 110) «da quando le organizzazioni e le tecnologie sono diventate più complesse, sono diventate anche più opache nel loro funzionamento e più esposte a errori e possibili incidenti». Comunemente gli errori vengono identificati con gli sbagli commessi dalle persone nel corso dello svolgimento di una attività. Ma qual è, se vi è, la differenza tra errore e sbaglio? Tutti gli errori e/o sbagli sono uguali? Etimologicamente erróre deriva latino *error -oris, derivante da errare, ossia vagare e sbagliare e ha sia l'uso letterario dell'errare sia il significato di sviarsi, l'uscire dalla via retta, l'atto e l'effetto di allontanarsi, col pensiero o con l'azione o, altrimenti, dal bene, dal vero, dal conveniente, in particolare con il senso di fallo, 35 colpa e peccato (si veda vocabolario Treccani online, http://www.treccani.it/vocabolario/errore/). Nel vocabolario della stessa Istituzione, troviamo la definizione di sbaglio come errore di valutazione o di giudizio, affermazione inesatta, modo di agire, di comportarsi, contrario all'opportunità e alla convenienza, decisione poco felice, scelta non soddisfacente, un fare, commettere uno sbaglio; ed anche equivoco, scambio involontario; oppure errore commesso nello svolgimento di un'attività o nell'esecuzione di un lavoro: In "senso morale, come colpa o mancanza più o meno grave (con senso attenuato rispetto a errore)". (si veda vocabolario Treccani online, http://www.treccani.it/vocabolario/sbaglio/). Interessante notare come sbagliare abbia la stessa radice etimologica di abbagliare, con altro prefisso, (s)bagliare e (ab)bagliare, derivando dal latino volgare *balium, cioè bagliore, che a sua volta deriverebbe dal greco baliós, ossia cangiante. Se i vocabolari ci indicano che errore è un errare, un vagare e invece sbaglio è un prendere un abbaglio, possiamo traslare il ragionamento a quanto ci indica Baldini nel suo libro Virtù dell'errore (2012), nella differenza tra i due termini: sbagliare ha una base soggettiva legata alla "difettosità" di alcune funzioni (attenzione, memoria, pensiero) che presiedono allo svolgimento delle attività, l'errore ha una base oggettiva, legata alla non conoscenza di fatti essenziali per il procedere. Questa distinzione (che dal punto di vista linguistico in questo scritto andremo a perdere, per esigenze di chiarezza espositiva, infatti utilizzeremo, come si fa comunemente, i due termini come sinonimi) ci indica che sono due gli aspetti che compongono la categoria errore rispetto al soggetto che sbaglia1: il fattore individuale, che agisce attraverso i processi cognitivi, e il fattore "sociale" legato alla conoscenza, quale fattore esterno al soggetto e che, nelle organizzazioni, diventa un elemento di scambio e condivisione con gli altri, grazie al ruolo interpretato e alla elaborazione di conoscenza. Secondo Rasmussen (citato in Catino, 2006, pp.16-18) le forme di prestazioni organizzative e quindi di comportamento che attuiamo sono di tre tipi, secondo i compiti lavorativi che si eseguono: quelle basate sulle abilità (skill-based behaviour), legate a compiti di routine, quelle basate sulle regole (rule-based behaviour), relative a compiti conosciuti e quelle basate sulle conoscenze (knowledge-based behaviour), che si attivano in situazioni nuove ed impreviste, come si può vedere dalla tabella seguente: Tipologie di comportamenti Tipo di compito Livello di impegno cognitivo Cosa implica skill-based behaviour di routine basso Abilità apprese, procedure interiorizzate, risposte quasi automatiche rule-based behaviour nuovi basati su regole medio Riconoscimento della situazione e applicazione della procedura corretta knowledge-based behaviour situazioni nuove e impreviste alto Approccio creativo e autonomo, basato su conoscenze e info disponibili Tabella 1: comportamenti organizzativi 1 Tralasciamo in questo testo il tema dell’errore determinato da cause legate al “fallimento” della tecnologia, inteso come fallacia diretta della macchina che determina uno sbaglio, un danno, un incidente; indirettamente la causa è sempre comunque l’azione del progettista, come ben indicato da Norman (nuova edizione, trad.it. 2015). 36 Partendo da questa classificazione possiamo individuare2 gli errori rispetto al loro collegamento ai nostri comportamenti e ai diversi livelli di esecuzione dei compiti, ricordandoci la definizione di Reason, ossia che ci riferiamo ad azioni in una sequenza pianificata di attività fisiche o mentali che non raggiungono i risultati voluti, senza che l'insuccesso possa essere attribuito al caso. Avremo dunque errori di esecuzione durante una singola azione o una sequenza di azioni pianificate oppure errori di pianificazione quando si sbaglierà a pianificare l'azione per raggiungere l'obiettivo definito. Utilizziamo ora una delle più diffuse tipologie di errori, quella appunto di Reason (1990, trad. it. 1994), in cui troviamo la distinzione in: - slip, ossia errore di esecuzione, per sbaglio involontario, ad esempio, di digitazione sulla tastiera; - lapse, anch'esso errore di esecuzione relativo all'immagazzinamento e recupero dell'informazione, ad esempio il saltare un passaggio di una procedura o una sequenza di azioni; - mistake, errore di pianificazione, quando si sceglie una via sbagliata per risolvere un problema. Per comprendere meglio le differenze tra queste tre tipologie di errori, presentiamo tre situazioni di vita che rappresentano altrettanti tipi di errore. La prima situazione può essere quella in cui facciamo un regalo, ma appena chi lo riceve lo apre, capiamo che non è affatto gradito, anche se la persona cerca di non darlo a vedere. La seconda situazione, invece, può essere quella in cui compriamo due regali per due persone diverse, ma, quando vengono aperti, ci accorgiamo di avere scambiato i pacchetti, cosicché ognuna delle due persone riceve il regalo che era stato scelto per l'altra. La terza situazione può essere, infine, quella in cui ci accorgiamo solo all'ultimo minuto di avere dimenticato un regalo che avremmo voluto comperare per un compleanno o un'occasione importante e ci presentiamo a mani vuote. Come attribuiamo le differenti categorie di errore proposte da Reason a questi episodi? Esaminandoli possiamo dire che nel primo caso abbiamo eseguito correttamente tutte le azioni previste nel nostro piano, che, però, era sbagliato in quanto era stato scelto il regalo errato. Abbiamo perciò commesso un mistake. Nel secondo, il piano di azione era corretto, ma una delle azioni condotte era sbagliata, avendo erroneamente scambiato i due regali. Questo è un tipico errore slip. Nella terza situazione, il piano era corretto ma abbiamo saltato una delle azioni previste nel piano, dimenticando di andare ad acquistare il regalo che avevamo in mente. L'errore commesso in questo caso è di tipo lapse. Una ulteriore categoria di errori sono quelle le violazioni, ossia quelle azioni deliberate delle persone che decidono di non seguire le normali prassi o le procedure definite (ad esempio, infrangere un protocollo, prendere una scorciatoia rispetto ad una procedura), generalmente per inesperienza o per eccesso di fiducia nelle proprie capacità, fino ai veri e propri sabotaggi. Se gli errori sono in-intenzionali e aumentano con i problemi informativi, le violazioni sono invece deliberate e sono formate prevalentemente dalle attitudini personali, dalle credenze, da una cultura o sottocultura organizzativa che condiziona i comportamenti delle persone, a scapito a volte della sicurezza (ad esempio, by-passare o manomettere i dispositivi di sicurezza delle macchine per lavorare più facilmente o più in fretta): in quest'ultimo caso, sono violazioni di buone norme o regole, che le persone eludono per differenti motivi, come l'illusione del controllo (sono in grado di gestire la macchina o la 2 Non si intende riferirsi a nessuna tassonomia degli errori o produrne una in questo testo, seppur si cercherà di definire le possibili diverse tipologie per presentare al meglio le argomentazioni di questo scritto, in quanto questione molto controversa (si veda Catino, 2006, p.19). 37 situazione), di invulnerabilità (a me non succede niente), o superiorità (sono molto competente), o conformismo (lo fanno tutti). Se mettiamo in relazione i modelli di Reason e quello di Rasmussen, possiamo allora differenziare gli errori secondo la tabella seguente: Tipologie di errori Sotto tipologie Azione Possibile causa Lapse Piano corretto ma azione mancante. Vuoto di memoria. Slip Piano corretto ma azione sbagliata Dimenticanza o sbaglio involontario. Mistake rule-based Applicazione di una regola inappropriata o scorretta applicazione della regola giusta. knowledgebased Azione corretta ma piano sbagliato. Conoscenza inadeguata o scorretta applicazione della conoscenza. Ricerca di una scorciatoia Inesperienza o da eccessiva fiducia nelle proprie capacità Violazioni Tabella 2: tipologie di errori Merito degli studi di Reason è stato quello di voler superare i modelli comunemente usati per analizzare gli errori, gli incidenti nelle organizzazioni: la spiegazione su quanto è avvenuto può essere visto infatti dal punto di vista "politico" (cause dovute a policy aziendali), oppure secondo il modello "tecnocentrico" (fallimento della tecnologia o della sua "conduzione" da parte di attori organizzativi, per colpa o negligenza), o secondo il "modello del fattore umano", che si concentra sulle persone e sulla specifica situazione di lavoro. L'autore inglese reinterpreta la concezione dell'errore in una nuova prospettiva e insiste sulla necessità di studiare i comportamenti umani in relazione ai contesti organizzativi, tecnologici e culturali, in cui si riscontrano effettivamente. Approccio che anche Catino (2009, p.110) sposa come «una prospettiva teorica e di ricerca empirica che supera le precedenti argomentazioni, sostenendo che gli incidenti sono sì prodotti, nella maggior parte dei casi, da errori inintenzionali e da violazioni, ma questi errori e queste violazioni sono socialmente organizzati, prodotti e riprodotti da strutture sociali nelle organizzazioni e tra le organizzazioni. Gli errori e gli incidenti sono costruiti organizzativamente e non soltanto da un errore umano o da un guasto tecnico. Questi eventi sono raramente determinati da una singola causa (umana o tecnologica), ma piuttosto derivano da molteplici eventi diversi che, entrando in relazione tra loro, causano un incidente. Si tratta di errori organizzativi». Questa linea interpretativa sposta il fuoco dell'analisi dal livello individuale a quello organizzativo e interorganizzativo. 38 Reason allarga il campo di indagine di ciò che avviene e, in questo modo, amplia gli elementi da tenere in considerazione in fase di progettazione di sistemi socio-organizzativi che minimizzino il rischio sugli effetti indesiderati. Inoltre fa una distinzione importante tra errori attivi e fattori che determinano un errore, i fattori latenti. Gli errori attivi sono atti insicuri (errori o violazioni delle procedure), commessi dagli operatori di prima linea, i cui effetti sono immediatamente percepiti e, dunque, facilmente individuabili. I fattori latenti sono invece condizioni più che cause, presenti in tutte le organizzazioni, come lacune e falle delle "difese", debolezze o mancanze create involontariamente da decisioni prese da manager, regolatori, progettisti ecc., del sistema: attività come quelle manageriali, normative e organizzative che possono essere associate all'errore pur essendo attività distanti (sia in termini di spazio sia di tempo) da esso. Possono avere conseguenze più durevoli e più devastanti degli sbagli, rimanendo silenti anche per lungo tempo, diventando evidenti solo quando si combinano con altri fattori in grado di rompere le difese del sistema stesso. Reason ha elaborato un modello che è detto "Swiss cheese model", che spiega anche graficamente che i fattori indesiderati nelle organizzazioni possono avere spiegazioni cause multiple: alcune fette di gruyére sono allineate in sequenza tra loro a indicare le barriere organizzative a difesa dagli errori (grandi e piccoli che siano); se i buchi di ogni fetta sono allineati tra loro, allora diviene più facile che si verifichi un fatto indesiderato, in quanto passerà indisturbato tra le fette. Le azioni allora da svolgere saranno quelle di considerare non una fetta sola, ma vedere il sistema nel suo complesso (tutte le fette assieme), intervenire per evitare il più possibile perché i sistemi di controllo e difesa siano collegati tra loro (per evitare che verifichino eventi che si "infilano" tra i buchi delle fette) e contestualmente ridurre i "buchi" di ogni fetta, ossia ridimensionare il rischio di occasioni di errori, guasti, ecc. La lettura degli errori nelle organizzazioni deve dunque essere una lettura ampia e sistemica, che comprenda diversi livelli di analisi (intra - organizzativo, organizzativo e inter – organizzativo), intesi come "centri" potenziali di generazione dell'effetto indesiderato, oltre a quello individuale. Un errore è commesso soltanto dall'operatore che lo agisce o, in alternativa, l'errore è un fattore organizzativo, determinato da problemi a livello di pratiche e processi complessi, di interfacce tecnologiche o da un clima interno non facilitante il lavoro? Secondo l'approccio qui presentato gli effetti indesiderati (che sono, ricordiamo, di vario tipo, dal danno economico a quello di reputazione, al danno fisico e ambientale) in un'organizzazione non sono dovuti soltanto ad un errore isolato di una persona, ma sono, spesso, determinati dall' accumularsi di difetti e lacune dei sistemi tecnologici e umani ed anche dalla scarsa attenzione al miglioramento da parte di chi gestisce l'organizzazione. Riguardo in particolare agli incidenti, Catino (2009, p. 113) afferma che «nelle organizzazioni tanto più è ampio il numero di criticità organizzative, di difetti di progettazione e di mancanze di controllo, tanto più è probabile che un'azione-decisione umana errata attivi un incidente». Considerare dunque gli effetti indesiderati come errori organizzativi ha delle implicazioni in termini di disegno organizzativo, in particolare per quanto riguarda il funzionamento dei processi di lavoro, nei sistemi di controllo e in quelli tecnologici. Ha anche conseguenze sul management e sullo "stile" di gestione aziendale, ad esempio nell'adottare una logica preventiva di individuazione dei possibili fallimenti potenziali. Vuol dire spostare l'attenzione dall'efficienza (senza negarla, ovviamente) all'affidabilità: analizzare gli errori a qualunque livello, senza minimizzarli, evitare interpretazioni che semplificano la situazione, ascoltare chi ha esperienza (per la loro parte), impegnarsi a sviluppare la resilienza organizzativa. E come ci indicano Weick e Sutcliffe (2007, trad .it 2010), avere come riferimento i principi delle organizzazioni ad alta affidabilità (HRO). 39 Tutto ciò ha come base un'adeguata cultura organizzativa che faciliti l'apprendimento organizzativo dagli errori, che non inneschi la caccia al colpevole, la blame culture, come viene chiamata, alla ricerca del capro espiatorio, come avviene sovente nelle aziende. Le organizzazioni ad alta affidabilità non sanzionano le persone quando sbagliano, ma studiano quello che è successo e, a volte, premiano chi esce allo scoperto per ammettere un errore, un mancato controllo o perché hanno considerato poco rilevante un piccolo segnale (minimizzandone la portata). Approfondiamo ora l'aspetto della cultura relativa agli errori, in particolare nell'ambito delle organizzazioni. 3. La cultura della "colpa degli errori" nelle organizzazioni Ma come vengono gestiti gli effetti indesiderati nelle organizzazioni ? Che ruolo gioca la cultura organizzativa nei comportamenti attivati a fronte di un errore? Sappiamo dagli studi di Reason (1990, trad.it 1994) che il tema è analizzato nelle organizzazioni secondo la "lente di ingrandimento" scelta da chi ha responsabilità: quella "politica", quella "tecnocentrica" oppure il "fattore umano". In particolare quest'ultimo è molto spesso utilizzato, come scopriamo attraverso i mezzi di informazione, ad esempio, nei casi eclatanti (incidenti, disgrazie, ecc…). «L'idea che gli errori e gli incidenti siano generati da un errore umano e/o da un guasto tecnico si basa su un dualismo newtoniano-cartesiano, inadeguato a render conto di eventi complessi che accadono all'interno delle organizzazioni. In base a questa inadeguata concezione dualistica il mondo mentale è separato dal mondo materiale (Cartesio) e per ogni evento vi deve essere una causa e una soltanto (Newton). Come la ricerca empirica ha ampiamente dimostrato nel corso di questi ultimi vent'anni, una concezione basata soltanto sull'errore umano non è all'altezza della complessità degli eventi che intende spiegare e, se l'analisi non è adeguata, ne consegue che non lo saranno le soluzioni di rimedio individuate» afferma Catino (2009, p.112) e le molte evidenze derivanti dalla ricerca, dallo studio degli eventi accaduti, dall'analisi delle contro-deduzioni sulle conclusioni delle commissioni di inchiesta, nei casi di incidenti gravi, hanno fatto dichiarare a molti studiosi a livello internazionale che gli errori sono generati da un sistema più ampio di cause e di fattori diretti ed indiretti che facilitano, eventualmente, l'attore "finale" a commettere uno sbaglio. Abbiamo già indicato nel paragrafo precedente questo aspetto, che riprenderemo comunque anche oltre. Il modello di esame degli errori adottato dalle persone nelle organizzazioni, in particolare da chi ha ruoli decisionali e/o tecnici relativi ai fatti, ne determina la lettura: chi usa un modello di causalità lineare, come nei casi delle spiegazioni politiche, tecno-centriche o del fattore umano, non considera l'organizzazione e non adotta una visione sistemica non lineare. In particolare, la visione tecno-centrica o trova il danno prodotto da un sistema/una macchina oppure scarica la colpa sulla negligenza di chi quelle tecnologie doveva usare, ossia le persone. Così come l'errore è sempre umano nel caso si legga il tutto come una disattenzione o la troppa confidenza dell'essere umano. Anche nel caso della "lettura" politica, che propone spiegazioni come il risparmio dei costi, la penuria di persone, ecc. ci si focalizza sugli errori e sulle mancanze degli individui, con la conseguenza che si ricerca a chi attribuire la colpa, spostando all'eventuale processo giudiziario il compito di "certificare" la colpevolezza di una o più persone. L'esito è sempre, nei diversi casi con differenti gradi di applicazione, che, se la persona è colpevole, va rimossa o sanzionata, in quanto "mela marcia". Un approccio che non cambia lo stato delle cose: il rischio di un errore ulteriore rimane sempre in agguato! Si isolano gli errori dal loro effettivo contesto e si 40 accendono i riflettori su una o più persone e si giudica (e spesso si condanna seduta stante!). Non migliora l'organizzazione, non si modificano le procedure e non apprendono le persone, in quanto non si eliminano le condizioni di rischio e non si esclude la possibilità che uno stesso evento possa ripetersi con altri attori. Inoltre, si genera un senso di paura per le sanzioni (materiali o immateriali) e le controversie legali, "appesantendo" il clima aziendale. «Chi ha sbagliato? Chi non ha rispettato la scadenza? Chi sta remando contro? Quando ci poniamo domande come queste, di fatto cerchiamo un capro espiatorio, qualcuno cui attribuire la colpa». Così scrive Miller (2004, trad. it 2005, pag. 49), in un agile e operativo libro sull'agire responsabile, proponendo che una delle principali attività delle persone nelle organizzazioni (americane, nei suoi riferimenti, ma crediamo sia un elemento esportabile) sia il blamestorming, ossia il lamentarsi continuamente. E, come osserva Iacci (2015, pag.1), «in un momento di difficoltà e precarietà come quello che stiamo vivendo, i casi di capro espiatorio nelle imprese si stanno moltiplicando. Non sto parlando di mobbing, né di soprusi da parte delle gerarchie, fenomeni che purtroppo esistono, ma sono altra cosa. Sto parlando di un fenomeno purtroppo normale, all'interno dei gruppi di lavoro, anche se talvolta violento e comunque sempre disdicevole». La cultura della colpa attribuita a qualcuno è la realtà che ci troviamo come consulenti a scoprire in molte organizzazioni, anche se non in tutte. Non svilupperemo il tema del capro espiatorio, che ha molti versanti interpretativi3, perché sarebbe necessario uno specifico spazio per l'approfondimento che non abbiamo: cercheremo solo di definire i confini del tema dal punto di vista culturale, per far cogliere il quadro complessivo in cui si inseriscono le persone e le organizzazioni. L'antropologa sociale Mary Douglas in Rischio e colpa (1992) evidenzia come il processo di attribuzione della colpa, in particolare per eventi disastrosi, getta luce sul patto sociale che regge una comunità e sulle strategie messe in atto per difenderla dai nemici interni ed esterni. L'autrice, che nelle sue opere ha posto in evidenza l'importanza delle istituzioni sociali nell'influenzare le elaborazioni mentali dei membri, mette in rilievo come qualunque società non può sussistere se i suoi membri non condividono pensieri e strutture di riferimento, comprese la percezione del rischio e le categorie di colpa. La sua analisi dei processi sociali di attribuzione di colpa (blaming) dopo eventi catastrofici (disastri ambientali, calamità naturali, gravi malattie, epidemie, ecc.), sia in società primitive, sia nella nostra società occidentale, mostra la relazione fra sistemi sociali, razionalità delle credenze rispetto ai nessi causali e rappresentazioni simboliche dell'ambiente naturale. Dunque ogni società elabora proprie soluzioni per la definizione dei pericoli e delle responsabilità attribuendo la colpa a: - i soggetti socialmente più "deboli", se sono società individualistiche, come le aziende4 che hanno come riferimento culturale il mercato e premiano le persone di successo per le loro qualità personali, in particolare per la leadership, e che ci si aspetta che somministrino punizioni anche morali ai soggetti che minacciano la loro autorità; 3 Per approfondire il tema si possono, ad esempio, consultare un classico sul tema, quello dell’antropologo e filosofo francese René Girard (1982), la lettura della psicologa analitica Sylvia Brinton Perera (1986) e, in ambito organizzativo, lo studio di Giuseppe Bonazzi (1983) e il saggio di Chiara Sebastiani (1995); si veda la bibliografia di questo testo. 4 Il modello di analisi presentato, tratto dagli studi della Douglas, correla, solo a scopo esemplificativo, tipologie di società con categorie di organizzazioni; sono due specie di organismi in cui avvengono fenomeni culturali, sociali ed organizzativi complessi, per cui non è possibile essere deterministici nelle correlazioni e non è detto comunque che ogni organizzazione sviluppi meccanismi di attribuzione della colpa. 41 - ai "devianti", se sono società gerarchiche, come le organizzazioni burocratiche, legate alle procedure, alla routine, alla fedeltà e al sostegno del gruppo rispetto al singolo, che hanno una cultura della punizione morale basata sulla tradizione (ossia regole basate su valori gerarchici), attraverso la minaccia di isolare la persona; - agli estranei, se sono società chiuse, come ad esempio le organizzazioni volontarie, basate sulla partecipazione dei membri, società che hanno come obiettivo psicologico latente quello della sopravvivenza del gruppo e che spostano la colpa sul "mondo esterno" o sulle eventuali fazioni interne, accusando di slealtà le persone. Parlando di organizzazioni che sono maggiormente rappresentabili dal primo modello di analisi, possiamo riprendere quanto raccontato da Dattner (2001, pag. 116): «Secondo la mia esperienza, quando un'azienda è pervasa dall'ossessione di scovare e redarguire i colpevoli, in genere questa tendenza si diffonde dall'alto, dal top management, oppure si consolida in un lungo periodo di tempo … In verità, l'ossessione della colpa può impedire di identificare le vere cause dei problemi, che possono essere strutturali, ad esempio un difetto dei sistemi informatici o una serie di fattori macroeconomici o di mercato che esulano dal controllo di chiunque». Soprattutto quando il periodo storico è simile a quello che stiamo vivendo negli ultimi anni, un periodo di forte crisi socio-economica, sarebbe necessario, come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti, che il clima interno alle aziende fosse imperniato sulla fiducia, la collaborazione, per affrontare al meglio il periodo e migliorare la situazione dell'azienda. Il processo "fiduciario" nelle organizzazioni deve essere visto come un processo dinamico ed evolutivo, anche determinato da come si trasformano i presupposti di base, passando dalla condivisione cognitiva a quella emotiva e affettiva. «La fiducia può evolvere rafforzandosi, passando cioè da una base cognitiva a una condivisione emotiva e affettiva con l'altro; tuttavia questo processo potrebbe anche far declinare la fiducia in senso negativo». (Farnese, Barbieri, (2010, p. 25) E, come richiamato dalle autrici, la fiducia nelle organizzazioni ha quindi tra le sue funzioni fondamentali quella del controllo delle regolazioni delle interazioni sociali, per cui gli «stili di leadership che tendono ad attribuire fiducia e responsabilità ai propri membri forniscono, a differenza di sistemi basati sull'attribuzione di punizioni e ricompense, diverse e più ampie modalità di accertamento, non limitate alla verifica dell'adempienza a quanto concordato». (ibid., pag.62) A conferma dell'importanza del ruolo della fiducia e del rapporto che ne ha chi sta al vertice, Davenport e Prusak (1998, trad.it. 2000) individuano la prima come uno dei fattori basilari per creare lo sviluppo del knowledge interno alle organizzazioni. Per favorire la fiducia bisogna, secondo gli autori, accrescerla in tre modi: il primo, renderla visibile, operativamente, favorendo e premiando lo scambio di conoscenza; il secondo, diffonderla, in modo che non sia asimmetrica; il terzo, appunto, il ruolo della credibilità dell'impegno del vertice: «nelle organizzazioni, la fiducia tende a essere trasferita verso il basso. L'esempio fornito dai livelli superiori di management definisce le norme e i valori dell'intera azienda. Se il vertice è credibile e affidabile, la fiducia si diffonde fino a conquistare tutta l'organizzazione … I valori del vertice vengono espressi attraverso segnali, segni e simboli». (p. 43) 42 Ci sembra ora necessario richiamare il concetto di cultura organizzativa, finora sempre accennato in questo testo, prendendo a riferimento quanto elaborato da Schein (si veda in particolare 1985, trad.it. 1990), per cui la si può intendere come l'insieme degli assunti di base (credenze, assunti impliciti), valori e artefatti che regolano i modelli di comportamenti delle persone, ossia indicano come percepire, pensare, sentire e intervenire sulla realtà, insieme che si è rivelato funzionale all'andamento dell'azienda. La funzione della leadership in questo quadro è per l'autore americano quella di gestione della cultura organizzativa, per altri autori (si veda Avallone, Farnese, 2005) di orientamento delle interpretazioni che si generano nell'azienda in termini simbolici. In ogni caso, appare chiaro come una modalità di gestione degli errori organizzativi che sfoci in una ricerca e attribuzione della colpa risulti non solo un segnale, ma anche un segno in quanto significante e soprattutto come significato e fattore simbolico che permea la cultura organizzativa. Solo chi ha la possibilità di orientare le interpretazioni può trasformare, a livello organizzativo, la percezione dell'errore come colpa attribuendogli invece la valenza di opportunità. 4. L'opportunità di apprendimento dagli errori Gestire l'errore come opportunità vuol dire avere una cultura organizzativa (e una leadership) che premia i comportamenti non orientati a nascondere gli errori o ad auto tutelarsi, magari accusando altri, ma che facilita la fiducia, la condivisione e la circolarità della conoscenza anche riguardo agli effetti indesiderati che si presentano in azienda: comportamenti evolutivi per le persone e quindi per l'organizzazione, quali presupposti per la generazione di valore in tutti i sensi. Nelle realtà lavorative la focalizzazione della tematica dell'errore richiede, come già indicato, una visione d'insieme ed un approccio sistemico. Identificando e analizzando le correlazioni e interazioni tra individuo e contesto è possibile non solo gestire l'errore ma anche utilizzarlo proficuamente come fattore di apprendimento e di miglioramento. La ricerca del colpevole dell'errore induce non solo nelle persone comportamenti di pura autotutela, ma anche, come conseguenza, dis-apprendimento e inerzia organizzativa. Molte ricerche e analisi di studiosi, come riportato nei paragrafi precedenti, hanno evidenziato come il meccanismo di ricerca sistematica dell'errore per individuare prontamente gli scostamenti, come proposto dalla cultura della sicurezza e del risk management, non è di per sé sufficiente a promuovere la consapevolezza organizzativa di tutti gli attori. Le ricerche condotte anche in Italia hanno infatti messo in evidenza la necessità di costruire modelli organizzativi e sistemi di gestione che pongano in primo piano le persone, per promuovere il superamento della blame culture ed arrivare ad una cultura dell'apprendimento, in cui si considerino gli errori come occasioni di crescita organizzativa. Un errore impatta, in genere, su due diversi ambiti, la sicurezza e i risultati: nel primo ambito, l'errore viene affrontato più tipicamente attraverso le esigenze di compliance alla normativa, primariamente al fine di garantire le condizioni di sicurezza dei lavoratori, secondariamente per non incorrere in esiti sanzionatori. Nel secondo ambito, l'errore può essere affrontato con un approccio orientato al mantenimento/miglioramento di efficacia ed efficienza. In entrambi i casi, si agisce operativamente e in termini di segnali, segni e simboli con messaggi che incrementano, consolidano o favoriscono comunque la blame culture e la ricerca del colpevole dell'errore. Si guarda spesso al passato, si isolano gli errori dal loro contesto, si scompongono i fattori diretti ed indiretti, non si crea un senso di quanto accaduto, e questo non favorisce i ritorni d'esperienza e quindi, non si favorisce l'apprendimento organizzativo e il miglioramento dell'organizzazione. Ogni effetto indesiderato che si verifica in un'organizzazione dovrebbe essere analizzato e discusso, incoraggiando momenti di 43 apprendimento, che le persone possano percepire come spazi d'azione e non di "amministrazione della giustizia". E i confini sono labili: è facile trasformare una pratica che aveva buone intenzioni in una che rappresenti simbolicamente il suo opposto (e nei corridoi si potrebbero sentire frasi del tipo sei andato a giudizio?): se non si lavora sulla cultura organizzativa con attenzione, con azioni visibili a tutti e che arrivano dai veri "opinion leader" aziendali, si confermano le percezioni di partenza, invece di modificarle. Ma quali sono i presupposti che fanno virare un'organizzazione verso una cultura che, come ci indica Catino (2009, pag.116), è stata, ad esempio, definita dall'ICAO (International Civil Aviation Organisation) come la Just Culture, «… ovvero una cultura in cui gli operatori di front-line non vengano puniti per le azioni, le omissioni o per le decisioni commisurate alla loro esperienza, ma esclusivamente per gli atti di negligenza, le violazioni e le azioni distruttive considerate non tollerabili». Oppure si può guardare alle HRO, le organizzazioni "ad alta affidabilità", di cui si è già accennato, che riescono ad operare in modo ottimale anche in condizioni di grande complessità, con un livello di errori molto basso - si pensi a centrali o portaerei nucleari, ma non solo -, e che riescono a "governare l'inatteso", come recita il titolo del libro di Weick e Sutcliffe (2007, trad.it 2010). A pagina 3 gli autori scrivono «se proponiamo di prendere tali organizzazioni come punto di riferimento, non è perché esse possiedano la soluzione, ma perché lottano continuamente per trovarla». E, a pagina 25, «in ogni organizzazione si fanno cose che ci si aspetta di continuare a fare in modo affidabile, e per le quali l'interruzione imprevista può diventare disastrosa se la gestione dell'inatteso è mediocre. Questa possibilità nelle HRO è al centro dell'attenzione più che nelle altre organizzazioni. Ma è una possibilità che incombe comunque su tutti i sistemi organizzativi. Ogni organizzazione, non solo le HRO, sviluppa convinzioni culturalmente accettate rispetto alla realtà e ai suoi pericoli, insieme ad una serie di norme precauzionali, precetti, linee guida, descrizioni di mansioni e materiali per la formazione, nonché voci informali di corridoio. E tutte le organizzazioni accumulano eventi che passano inosservati e sono in contrasto con le convinzioni diffuse… le HRO sviluppano credenze complesse riguardo alla realtà, ma le correggono più spesso di quanto facciano le altre organizzazioni. Ugualmente, le HRO sviluppano norme precauzionali come ogni altra organizzazione, ma a differenza delle altre utilizzano sia i piccoli eventi critici sia i punti deboli che sono la conseguenza del successo come elementi per sviluppare tali precauzioni. E, come ogni altra organizzazione, anche le HRO accumulano eventi inosservati che sono in contrasto con ciò che è atteso. Tuttavia tendono ad accorgersi prima di questo processo di accumulo, quando le proporzioni sono ancora modeste». L'approccio agli effetti indesiderati differenzia dunque le organizzazioni tra quelle che li usano per fare apprendimento organizzativo5 e quelle che non lo fanno, quelle che definiscono e affrontano errori intesi come problemi organizzativi e quelle che invece prendono in considerazione solo sbagli personali e, caso mai, tecnologici. Noi crediamo che si possa transitare verso organizzazioni che apprendono dagli errori: i diversi effetti indesiderati che avvengono nelle aziende sono opportunità di migliorare processi, sistemi e competenze delle persone. Prendiamo ad esempio il racconto di Dattner (2011, pag. XXV): 5 Usiamo il termine apprendimento organizzativo in senso generale, senza voler entrare nel dibattito sulla sua natura e caratterizzazione; si vedano, tra gli altri, Vino (2001) e Fabbri (2003). 44 «Una società immobiliare mi incaricò di condurre alcune sessioni per creare un clima collaborativo fra architetti, ingegneri e manager che stavano per avviare la costruzione di un innovativo edificio ecologicamente sostenibile. Il proprietario della società, che aveva maturato molti anni di esperienza seguendo progetti edilizi di ogni genere, aveva scoperto che rinsaldare i rapporti tra il gruppo dei dipendenti all'inizio di un progetto è un ottimo modo per prevenire il gioco della colpa, poiché è praticamente inevitabile che con l'andar del tempo si sia tentati di puntare il dito gli uni contro gli altri… Voleva creare un ambiente di fiducia in cui le persone risolvessero i problemi invece di colpevolizzarsi tra loro. Gettando le opportune fondamenta per la collaborazione avrebbe così reso assai più probabile il successo finale. In seguito, quando infatti sorsero alcune difficoltà, i diversi team di lavoro riconobbero i propri errori e si aiutarono reciprocamente a risolvere i problemi con uno spirito costruttivo». Un caso di "prevenzione" attuato lavorando sulle competenze delle persone. Ma si può anche lavorare sui processi, le procedure e le prassi, così come sui sistemi e gli strumenti che vengono utilizzati. Per esemplificare relativamente alle procedure, riportiamo quanto scrive Norman (nuova ed. 2013, trad. it. 2015, pag.188-9): «Una volta ho esaminato una serie di incidenti in cui operai superspecializzati di un'azienda elettrica erano rimasti fulminati dall'alta tensione durante lavori di manutenzione. Tutte le commissioni di inchiesta avevano incolpato degli incidenti gli operai, conclusione che neppure le vittime sopravvissute contestavano… Le commissioni d'inchiesta non si era spinte fino a trovare le cause profonde degli incidenti, né avevano mai considerato la possibilità di riprogettare i sistemi e le procedure, in modo da rendere impossibili o molto meno probabili gli infortuni … Non mi fu difficile suggerire all'azienda elettrica semplici cambiamenti delle procedure che avrebbero prevenuto la maggior parte degli incidenti». E, come scrive qualche riga più avanti, «Se il sistema ci lascia sbagliare, è mal progettato. Se poi ci induce a sbagliare, è progettato malissimo». Se parliamo di strumenti, prendendone in considerazione uno che conoscono tutti, il bancomat è progettato per evitare che si dimentichi la tessera, obbligandoci a prenderla prima di ritirare i soldi: si previene la possibilità di dimenticanze, progettando lo strumento pensando alla sua funzionalità complessiva non solo dal punto di vista tecnologico. E gli incidenti, gli errori di vario tipo sono segnali che ci permettono di migliorare l'organizzazione: vanno quindi analizzati come occasioni "incrementali", ossia come opportunità di rivedere processi, procedure, prassi, così come sistemi, strumenti e segnaletica, ma anche i comportamenti e competenze. 5. L'approccio PSC Gli effetti indesiderati nelle organizzazioni molto raramente sono determinati da una singola causa (tecnologica o umana) ma derivano da fattori diversi e dalle loro interrelazioni, provocati da atti prodotti e riprodotti nelle organizzazioni e tra le organizzazioni in collegamento tra loro (le aziende coinvolte nella catena fornitori/ clienti). Riprendendo quanto presentato nei paragrafi precedenti, si può dire che: - le situazioni predisponenti agli effetti indesiderati, indipendentemente dalle persone che commettono errori o violazioni, vanno considerati fattori latenti a livello organizzativo; 45 - maggiori sono le criticità a livello inter-organizzativo, organizzativo e intraorganizzativo, più è probabile che un errore individuale attivi un effetto indesiderato; - l'errore umano frequentemente rappresenta solo il fattore scatenante, e non la genesi, dell'effetto indesiderato; - i cambiamenti limitati al solo livello individuale non modificano le condizioni di rischio presenti negli altri livelli e quindi mantengono immutate le possibilità che l'effetto indesiderato si ripeta. Per questo gli autori agiscono come équipe che interviene nelle organizzazioni clienti secondo la logica che i provvedimenti di "rimedio" devono necessariamente coinvolgere i livelli intra - organizzativo, organizzativo e inter - organizzativo, intesi come ‘centri generatori' dell'effetto indesiderato, secondo un approccio che si è denominato PSC. L'acronimo indica le tre direzioni su cui si concentra il lavoro di analisi, diagnosi e consulenza: l'aspetto della struttura organizzativa (processi, procedure e prassi adottate), quello dei sistemi (sistemi informativi e strumenti utilizzati) e la parte "soft" (clima interno, competenze e comportamenti degli attori). Il perimetro di intervento è di volta in volta definito con la committenza, ma lo sguardo è quello di chi guarda con un'ottica sistemica all'organizzazione, non solo al suo interno ma anche alle interazioni con le altre aziende coinvolte nella filiera produttiva e di vendita. Riprendendo le riflessioni di studio e di applicazione a livello internazionale, che abbiamo cercato di riassumere nei paragrafi precedenti, l'approccio PSC li rielabora in un intervento operativo sui fattori "latenti" e i fattori "attivi": si analizzano le "potenzialità" dei fattori indesiderati e si interviene su di essi, partendo da una lettura sistemica dell'organizzazione e del suo ambiente di riferimento, utilizzando preliminarmente un questionario che permette agli attori aziendali coinvolti di esaminare la situazione della loro organizzazione. Si analizzano poi i fattori a vari livelli. - A livello inter-organizzativo: livello in cui si possono determinare situazioni che possono fare insorgere criticità tra le organizzazioni con cui un'azienda interagisce (fornitori, concorrenti, enti di controllo, ecc.), in relazione alle differenziazioni (specialistiche, strategiche, culturali) ed al grado di integrazione. Il focus è sulla rete organizzativa, sulle connessioni e sulle modalità di differenziazione e integrazione dei diversi attori coinvolti nel funzionamento del sistema. - A livello organizzativo: i processi organizzativi, i sistemi, le strategie, nonché la cultura presente costituiscono i fattori determinanti per la garanzia del funzionamento sicuro e coerente di tutte le attività. Dimensioni particolarmente critiche sono rappresentate dalle azioni e decisioni manageriali, il sistema di coordinamento e controllo, il sistema di gestione e sviluppo delle RU. - A livello intra-organizzativo: nei contesti specifici in cui agiscono le persone la focalizzazione è sulle interazioni uomo-macchina, uomo-strumento e uomo-sistema, sulla cooperazione, sulla comunicazione e sul coordinamento. Il controllo è un aspetto particolarmente importante: le situazioni più critiche sono le "interfacce" tra le attività, dove non sempre sono chiaramente definiti limiti e responsabilità d'intervento delle persone. A livello trasversale si analizzano i fattori attivi, le persone, individuando la tipologia di errore, potenziale o in essere, per poi intervenire con azioni mirate e/o preventive. Il focus è sulle relazioni tra le intenzioni delle persone, le loro aspettative e le situazioni con cui interagiscono, che sono, alcune volte, "ambigue": informazioni incomplete, sistemi non ben progettati, clima interno non favorevole, possono "ingannare" le capacità cognitive dell'attore organizzativo. 46 Nelle analisi svolte nelle organizzazioni clienti e in quelle in cui abbiamo avuto la possibilità di testare i nostri strumenti, abbiamo raccolto alcuni esempi emblematici di fattori attivi: - in un'azienda italiana facente parte un gruppo industriale straniero, ci è stato presentato il caso di un errore attenzionale (slip) relativo all'inserimento scorretto del valore di un'offerta in una gara, che ha causato un danno economico di una certa entità all'azienda. Errore umano, si, ma quanto reso possibile dal sistema informativo? Sicuramente un sistema progettato secondo una logica non antropocentrica, per dirla con Norman, ed anche un "sistema" di controllo, non solo "meccanico", ma organizzativo non adeguato; - in una delle sedi italiane di una multinazionale logistica per il trasporto merci su aereo e nave, è capitato che in magazzino venisse scambiata l'etichettatura di due spedizioni per lo stesso destinatario, verso due diverse città della stessa nazione in Oriente. Bisogna guardare oltre all'errore attenzionale (slip), che ne è solo il fattore attivo, per prevedere contromisure, come ha previsto l'azienda, che aumentino le informazioni dagli uffici al magazzino e il coordinamento tra le parti dell'organizzazioni; - nella sede italiana di una multinazionale della preparazione alimentare, ci hanno esposto un rule-based mistake, legato allo smantellamento della pannellatura dell'atrio fatto in orario di pausa pranzo, ossia nell'ora di maggior passaggio, con un maggior impatto sulla sicurezza delle persone; un fattore indesiderato che si attiva non solo nella fase di esecuzione ma anche di pianificazione dell'intervento, che supera regole e procedure interne, interrogando l'azienda sulle competenze attivate dagli operatori ma anche sui sistemi di coordinamento e controllo interno. Abbiamo escluso dagli esempi esposti i casi raccolti riguardanti le violazioni, ossia i "fattori volontari" che hanno fatto si che le persone intenzionalmente violassero le regole aziendali o le procedure certificate, per, ad esempio, ottimizzare il proprio lavoro. Analogamente sono diverse le situazioni raccolte, trasversalmente a diverse realtà organizzative, che hanno determinato effetti indesiderati, senza che vi siano stati fattori attivi (almeno come li abbiamo qui definiti), con la presenza invece di fattori che comunque determinano "inconvenienti" nelle aziende: - l'uso dei sistemi informativi talvolta rallenta e complica lo svolgimento dei processi lavorativi: non sono infrequenti le testimonianze che abbiamo raccolto nelle aziende sul loro "sottoutilizzo" e/o sul ricorso a prassi alternative (come, ad esempio, inserire dati fittizi per andare avanti nelle schermate proposte dal sistema), nel caso in cui i sistemi prevedono logiche e vincoli che rendono le persone poco confidenti con essi; - si producono scarti/difettosità/sprechi di materiali che potrebbero essere evitati: abbiamo potuto verificare che l'inadeguatezza dei controlli e i comportamenti abitudinari contribuiscono in modo significativo a mantenere relativamente elevata l'inefficienza; - le persone non conoscono precisamente il flusso delle attività in cui sono coinvolti: abbiamo riscontrato spesso nelle organizzazioni che le persone sono focalizzate sul proprio compito e hanno difficoltà ad "alzare la testa" per acquisire visibilità e consapevolezza del processo in cui si collocano i loro contributi; - gli strumenti che si utilizzano non sono calibrati per le attività da svolgere: abbiamo incontrano contesti lavorativi "tecnologicamente superdotati" a fronte di fabbisogni reali molto più contenuti, con conseguenti negatività nell'ammortamento degli investimenti fatti e minor supporto per l'operatività. 47 L'intervento presso una piccola impresa della produzione del settore carta/cartone, ancora in corso, permette di vedere, più facilmente, il funzionamento complessivo e quindi tutti i fattori attivi e latenti "in gioco". Questa consulenza ha messo in evidenza che gli effetti indesiderati presenti sono differenti e legati sì a fattori attivi, relativi ai comportamenti delle persone (ad esempio, imprecisione dell'assegnazione delle etichette dei colli da consegnare al corriere), ma soprattutto a fattori organizzativi che determinano la presenza costante di un "rischio" errore: l'organizzazione per processi e le responsabilità attribuite risultano non adeguate per poter evitare problemi quali, ad esempio, ritardi, consegne non precise e non controllo del saldo delle fatture. Un caso particolare di mancato controllo interno del materiale consegnato dal fornitore e poi lavorato, ha portato al rischio di perdere un cliente storico, avendogli causato un lungo intoppo alla linea di produzione. Un problema, quindi, che si è verificato in fase iniziale della filiera di approvvigionamento, produzione e consegna, prodotto dalla mancata "attivazione" del sistema di controllo interno, che non ha colto i "segnali deboli" legati alla qualità del materiale, determinando così un danno a un cliente, prolungato dal fatto che non è stato facile capire l'origine del problema e quindi rimediarvi a breve. L'approccio PSC si basa su un'ottica in cui si guarda all'organizzazione in modo ampio e il più possibile sistemico e opera secondo la logica dell'apprendimento organizzativo: lavora per cambiare le condizioni all'interno delle quali le persone agiscono. Le persone sono eredi delle imperfezioni del sistema complessivo, pertanto l'approccio PSC intende accrescere le condizioni di affidabilità delle aziende clienti. Gli interventi tendono a eliminare i possibili fattori latenti e le criticità all'origine dei fattori indesiderati (dalla perdita di business all'incidente), al fine di evitare che il futuro altri errori possano accadere. Come abbiamo visto i danni in azienda sono la conseguenza di "eventi" anche singoli oppure di una catena di "mancanze", per la carenza di sistemi di difesa di tipo tecnologico o di controlli umani, ma anche per flussi informativi di processo non adeguati, la scarsa "abitudine" a lavorare in modo interfunzionale (indotta magari da una strutturazione organizzativa che porta alla parcellizzazione del lavoro), fino ad una competenza inadeguata degli attori organizzativi, di qualunque livello, rispetto alla gestione dell'inatteso e/o della complessità intra ed interorganizzativa. La "piattaforma culturale" su cui si basano gli interventi è, come già indicato, quella della promozione dell'apprendimento organizzativo, per rendere l'azienda in grado di intervenire in futuro sull'adattamento alle nuove condizioni delle soluzioni organizzative in precedenza individuate. Avendo attenzione al piano simbolico e alla dimensione culturale, negli interventi attuati si è scelto di denominare gli errori come fattori indesiderati per l'organizzazione, proprio al fine di ovviare a quella "naturale" ed etimologica (si veda il paragrafo 2) etichettatura in senso negativo che la parola errore ci pone di fronte, nel suo versante di uscita dalla via retta con annesso senso di colpa. Non abbiamo la pretesa di poter cambiare le condizioni culturali rispetto al tema della colpa e al senso di colpa in cui come occidentali ci troviamo immersi - si veda Girard (1982) per questo - ma vogliamo dare un segno, soprattutto agli influenzatori aziendali, che si propone e progetta un intervento consulenziale con un approccio che prende le distanze da meccanismi quasi automatici di "caccia al colpevole" e da soluzioni rapide, ma semplicistiche e poco efficaci, che non generano alcun apprendimento dell'organizzazione. Le domande-stimolo a volte sfidanti che poniamo ai responsabili organizzativi sono legate alla loro capacità di organizzare la propria struttura non solo in funzione dell'efficienza, ma anche in funzione dell'affidabilità, alla capacità di trasformare un'organizzazione in un'azienda che apprende effettivamente anche dagli effetti indesiderati verificatisi. Supportare le aziende clienti affinché l'evoluzione organizzativa abbia anche come base l'apprendimento dagli effetti indesiderati è l'obiettivo dell'approccio consulenziale PSC, che vede l'"errore umano" come un punto di partenza per facilitare la crescita del sistema 48 organizzativo (anziché come la conclusione di una "indagine") e che individua i punti "deboli" del sistema azienda come possibili fattori di sviluppo. 6. Conclusioni Nell'attuale scenario produttivo e di mercato, profondamente modificato negli ultimi anni, si è verificato che le aziende più resilienti sono improntate a valori di apertura e fiducia interna e caratterizzate dalla disponibilità a rimodularsi progressivamente apprendendo dall'esperienza. In questa logica, analizzare quelli che abbiamo definito gli effetti indesiderati, termine che per noi connota in senso ampio tutti gli scostamenti dagli obiettivi auspicati, ci sembra più funzionale che individuare gli errori solo in occasione di conseguenze eclatanti, limitandosi a considerarne i fattori attivi, trascurando di riconoscere i fattori latenti che ne costituiscono il sostrato. L'attribuzione dell'etichetta "errore umano", che viene attribuita quale causa alla fine di molte analisi interne alle organizzazioni (così come in quelle "pubbliche"), dà una spiegazione che non risolve l'effetto indesiderato, che, dopo qualche tempo, generalmente si ripresenta. Se si analizza in senso più ampio l'accaduto (a diversi livelli, organizzativi e/o inter-organizzativi), per cogliere le diverse "sfaccettature" del fatto accaduto, si possono individuare dei correttivi grazie ai quali difficilmente esso si ripresenterà. E, come si può capire, non basta rispondere preventivamente con sistemi informativi più pervasivi o con sistemi di qualità sempre più ampi: si potrebbe parlare di "illusione normalizzatrice", ossia di speranza che le procedure in qualità e informatizzate riducano del tutto i rischi di errori o altri esiti negativi; la realtà organizzativa è dinamica e non può essere normalizzata, piuttosto orientata verso un apprendimento continuo dagli effetti indesiderati che si sono presentati. Inoltre l'etichetta "errore umano" porta con sé implicazioni colpevolizzanti, producendo meccanismi di ricerca del capro espiatorio, e reazioni difensive e di chiusura che bloccano l'apprendimento individuale e organizzativo. Di fatto viene alimentata una cultura aziendale basata su preconcetti negativi e interazioni intrappolate nel circolo vizioso della colpa, improntata al timore e all'accusa invece che alla fiducia e alla risoluzione dei problemi. Come ci racconta Bergami (2015), esistono realtà aziendali che riescono, partendo dal lavoro sugli errori, a trasformarli in innovazione, grazie alla logica dell'apprendimento organizzativo. Vi sono organizzazioni impegnate nel loro percorso di miglioramento continuo e aziende che invece sono imprigionate nella caccia alla colpa. Pensiamo che la fiducia nelle organizzazioni sia un patrimonio imprescindibile e l'apprendimento derivante degli effetti indesiderati un modo per tenerla viva o ri-attivarla, dando un senso aggiuntivo al lavoro che le persone svolgono, un senso migliorativo e non solo finalistico, grazie a leader che interpretano la cultura d'impresa e il clima interno quali chiavi per il successo aziendale. 7. Bibliografia Avallone F., Farnese M.L. (2005), Culture organizzative, Milano, Guerini studio. Baldini M. (2012), Virtù dell'errore , Brescia, Ed. La Scuola. Bergami M. (2015), L'errore, Dallara e l'innovazione, Il Sole 24 ore, domenica 15 novembre 2015, pag. 17. Bonazzi G. (1983), Colpa e potere, Bologna, Il Mulino. 49 Brinton Perera S. (1986), The scapegoat complex, Toronto, Inner City Books; trad. it.: Capro espiatorio, Como, Red, 1993. Butera F. (1984), L'orologio e l'organismo, Milano, Franco Angeli. Catino M. (2006), Da Chernobyl a Linate, Milano, Bruno Mondadori (prima edizione 2002, Carocci). Catino M. (2009), Oltre l'errore umano, Giornale italiano di nefrologia, anno 26, n. 1, pp.110117. CNEL (2010), "Le trasformazioni del sistema imprenditoriale in Italia". Osservazioni e Proposte, Assemblea del 24 marzo 2010. Cuneo G. (1998), Presentazione dell'edizione italiana, in Gibson R. (a cura di), Ripensare il futuro, Milano, Il Sole 24 ore. Dattner B. con Dahl D. (2011), The blame game, s.l., Free Press/Simon & Schuster; trad. it.: Scaricabarile S.p.A., Milano, Rizzoli Etas, 2011. Davenport T.H., Prusak L. (1998),Working knowledge,Boston, Harward Business School Press; trad.it: Milano, ETAS – RCS libri, 2000. Douglas M. 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(2001), Sapere pratico. Competenze per l'azione, apprendimento, progettazione organizzativa, Milano, Guerini e Associati. 51 LA CULTURA DELLA SICUREZZA NELLA FORMAZIONE INFERMIERISTICA: PREVENZIONE E APPRENDIMENTO DALL'ERRORE NELLA PRATICA ASSISTENZIALE di Rosaeugenia Pesci 1. Premessa La cultura della sicurezza, in specifico della sicurezza nelle cure, coinvolge direttamente l'assistenza infermieristica e determina la necessità di creare una coscienza professionale su questo tema nei futuri professionisti infermieri. Il tema della sicurezza ci porta anche a riflettere sull'errore, sulla sua prevenzione e gestione e, non per ultimo, sull'effettivo atteggiamento di apprendere dagli eventi avversi, come sono definiti nella terminologia del governo del rischio clinico. Per questo l'errore in sanità verrà trattato nelle pagine che seguono come un tema importante nella formazione dei futuri professionisti del sistema sanitario ed in particolare ci riferiremo alla professione infermieristica, che tra le professioni sanitarie con laurea triennale è la più consistente numericamente e che presenta elevati profili di rischio di errore per le funzioni che svolge. E il verificarsi di errori nelle cure può coinvolgere anche lo studente che compie le sue prime esperienze assistenziali. Il tirocinio in questo percorso di studi è presente dal primo al terzo anno di corso, richiede un numero molto consistente di ore, con obiettivi definiti nella normativa dell'Ordinamento didattico. Per gli studenti infermieri si tratta sempre di un tirocinio guidato con l'affiancamento e il sostegno dei tutor di tirocinio, che si impegnano nei loro riguardi a sostenerli nell'apprendimento clinico e di conseguenza si assumono responsabilità non solo didattiche e formative, ma anche sulle azioni che essi effettuano. In merito a questo, i Responsabili infermieristici della formazione universitaria, ruolo che ricopre chi scrive, si preoccupano di creare una cultura della sicurezza delle cure agli assistiti, rivolta alla tutela dello stesso professionista. Durante il Corso di Laurea ci si impegna affinché siano acquisite le conoscenze teoriche che a tutto tondo consentano un approccio al tirocinio consapevole e competente, non solo con la didattica frontale, ma anche attraverso momenti preparatori in piccoli gruppi. Nonostante tutto ciò, anche se le competenze da acquisire si sviluppano gradatamente, resta il rischio di compiere errori di vario genere per inesperienza; un altro aspetto di cui ci si preoccupa per favorire un apprendimento clinico efficace e sicuro sono le condizioni organizzative, le disponibilità dei tutor di tirocinio e la qualità dei servizi in cui si collocano gli studenti durante il triennio di studi. Quanto l'apprendimento dall'errore sia una vera pratica e un approccio condiviso dai diversi attori della formazione dei futuri professionisti andrebbe indagato, nel frattempo la 52 diffusione di questa concezione ci aiuta a tenere in considerazione in maniera più razionale l'ineludibile quanto temuto errore umano. 2. Funzione tutoriale e tirocinio nelle organizzazioni sanitarie L'organizzazione sanitaria nei confronti dei tirocinanti mette in campo funzioni tutoriali, che garantiscono l'apprendimento delle specifiche competenze sulla cura e nelle relazioni di cura. Questa specificità professionale influenza l'orientamento della tutorship anche nella realtà in cui si collocano le riflessioni qui riportate1, dove la funzione tutoriale è svolta da molti professionisti e da molti anni, con un elevata partecipazione, favorita anche da una formazione specifica che si svolge a carico della stessa azienda.2 L'organizzazione in cui si realizzano queste esperienze sceglie, anche se non sempre consapevolmente, di mettere in campo le concezioni di tutorship che appartengono alla sua cultura organizzativa e all'approccio di cura e di servizio che rivolge ai cittadini. Questa cultura professionale viene offerta alle Istituzioni formative quando, attraverso i loro studenti, accedono ai servizi dell' Azienda, attraverso le Convenzioni. Ciò avviene sia che siano Università o Scuole, sia che si occupino di formazione di base o post base. Tali Istituzioni formative partner delle Aziende sanitarie sono titolari dell'intero percorso di studi, ma i servizi sanitari avranno la possibilità di influenzare la formazione dei professionisti della salute attraverso l' esperienza sempre "forte" del tirocinio: un'occasione a fronte dell'impegno ed della disponibilità di chi accoglie. Per questo motivo, pur in presenza di un percorso che ha obiettivi di apprendimento e di tirocinio definiti a livello ministeriale e nel Regolamento della singola Università, gli studenti che fanno esperienze nelle Aziende e nei loro Servizi apprendono non solo i contenuti professionali, ma impostazioni e orientamenti specifici. La cultura professionale che si trasmette alle nuove generazioni risentirà in gran parte di queste esperienze anticipatorie del lavoro: siamo quindi in una condizione di corresponsabilità nella formazione, nel favorire il raggiungimento delle competenze/esito dei futuri professionisti. Nelle Lauree delle professioni sanitarie, un ruolo importante lo svolgono le Sedi formative universitarie, cui la normativa attribuisce una funzione di collegamento forte tra Università e Sistema sanitario, con responsabilità specifiche attribuite ai professionisti inseriti in questa struttura in riferimento alla progettazione, pianificazione, gestione e monitoraggio/verifica del tirocinio3. 1 Il contesto di tirocinio del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Bologna-Sezione Bologna 2- è la Asl di Bologna. 2 I Corsi di formazione ai dipendenti per lo sviluppo di competenze specifiche per le funzioni tutoriali si tengono dall’ anno 1997/98 a tutt'oggi e sono organizzati e gestiti dal Servizio Formazione della Asl. 3 In queste strutture sono presenti figure professionali, dipendenti dalle aziende sanitarie in convenzione selezionate con criteri specifici, dedicate a tempo pieno alle attività formative professionalizzanti dei Corsi e al coordinamento e integrazione con la componente didattica universitaria, nonché con le strutture aziendali che accolgono tirocinanti. Le Sedi o Sezioni formative hanno la responsabilità e la gestione di un elevato numero di crediti formativi: dalla didattica frontale per gli insegnamenti della disciplina infermieristica (SSD MED45), delle attività integrative, dei laboratori e alcuni Seminari, alla progettazione realizzazione e verifica dei tirocini. Gli organi ed i ruoli previsti nei Corsi di laurea delle professioni sanitarie sono delineate dalla normativa nazionale; il primo riferimento normativo è la Tabella XVII ter- (MIUR luglio 1996) di cui sono mantenuti i contenuti anche nei decreti successivi. Le Regioni recepiscono la norma nazionale e, attraverso appositi Protocolli di intesa tra le Università presenti in Regione e SSR, di seguito si pattuiscono le singole Convenzioni trai istituzioni universitarie e aziende sanitarie accreditate che 53 Questa struttura organizzativa e didattica non si ritrova nel panorama universitario di altre Scuole ( le precedenti Facoltà), e rappresenta una delle caratteristiche peculiari dei Corsi di Laurea delle professioni sanitarie del nostro Paese. Nelle Sezioni formative si coniugano la cultura di un corso universitario con la cultura specifica dell'Azienda in cui la Sezione si colloca , attivando uno scambio continuo. Nelle sedi di tirocinio troviamo quindi i tutor clinici, denominati nella Regione Emilia Romagna "tutor di tirocinio", che rappresentano l'interfaccia più diretta dei servizi sanitari con la Sezione, dal momento della negoziazione degli obiettivi raggiungibili per gli studenti, o quali interlocutori per dare elementi e permettere di compiere scelte allocative nei tirocini più formative o innovative onde integrare le esperienze con i saperi disciplinari. I tutor delle sedi di tirocinio nelle Aziende definiscono in proprio gli aspetti organizzativi per sostenere i tirocini e la funzione tutoriale; nel caso dell'Asl di Bologna la funzione tutoriale si basa su un modello organizzativo a rete che connette direttamente i tutor di tirocinio con la Sezione formativa del Corso di Laurea in Infermieristica. Nel caso del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università di Bologna, per la sezione Bologna 2, il modello a rete ed il sistema delle responsabilità mette in relazione i tutor didattici presenti nella Sezione e le sedi di tirocinio con i diversi livelli di responsabilità sugli studenti. Quello che si viene a delineare per il tirocinio è un'offerta formativa articolata, condivisa e negoziata per ogni studente che avrà un proprio progetto di tirocinio: da questa disponibilità del servizio si individua quindi un contratto di tirocinio personalizzato. Gli studenti accedono alle attività in periodi pianificati dalla Sezione formativa, le sedi selezionate per le esperienze cliniche hanno caratteristiche tali da concorrere all'apprendimento di competenze di base che costituiscono le "core competence" da conseguire con la laurea, i tirocini sono collocati nell'intero anno accademico e vengono presi accordi in base alle esigenze dei servizi stessi: questo favorisce un tirocinio efficace e di qualità, nonché sostenibile in termini di tempo e risorse investite dalla sede di tirocinio. Esiste un'altra funzione tutoriale, più didattica, che si sviluppa in aula, con un rapporto personalizzato e con una componente organizzativa e gestionale molto consistente, quella dei tutor didattici che svolgono attività didattica universitaria4 e sono dedicati agli studenti nella Sezione. Diversamente i tutor di tirocinio hanno come principale mandato l'assistenza e l'attività diretta all'utenza. In entrambi i casi i tutor appartengono allo stesso profilo professionale dei tirocinanti, come previsto dalla norma, ed affiancano con finalità diverse gli studenti. Tornando alle esperienze assistenziali in cui si mettono in atto atteggiamenti e comportamenti sicuri, la presenza di tutor costituisce il valore ed il vantaggio di una formazione guidata, dando garanzie ai cittadini che il neofita possa agire con supervisione ed affiancamento, senza creare danni. Nonostante queste modalità durante l'esperienza clinica potrebbero presentarsi diversi tipi di rischio e questi, potenzialmente, possono essere considerati fonte di apprendimenti nelle diverse forme in cui si potrebbero presentare. Gli studenti potrebbero essere coinvolti in situazioni organizzative inattese che improvvisamente presentino profili di rischio per le cure effettuate e per gli assistiti. Il tirocinio è infatti un’esperienza situata, molto efficace e molto partecipata, anche emotivamente, dagli studenti. Quella dell'errore e della prevenzione dello stesso è una tematica "calda" molto importante per l' attività sanitaria a tutti i livelli e per tutte le professioni, necessita di consentono l’effettiva realizzazione completa dei Corsi con convenzioni. Nelle convenzioni si dettagliano i requisiti minimi delle Sezioni formative e del tirocinio. 4 I tutor didattici sono all’interno della Sezione formativa, hanno anche funzione di conduzione di gruppi, attività integrative e in alcuni casi sono docenti a tutti gli effetti in convenzione con l’Università. 54 consapevolezza, spirito critico, approfondimenti e riflessioni sia teoriche che connesse alle esperienze. Nello specifico si riporteranno le riflessioni sulle esperienze della Sezione Formativa attiva da quasi venti anni nella formazione universitaria di base. 3. Apprendimenti e tutorship Il tirocinio, che costituisce la più consistente componente professionalizzante del Corso, ha precisi obiettivi di apprendimento definiti ed articolati in base alla complessità e specificità: tali obiettivi si raggiungeranno in un periodo o in più periodi di tirocinio collocati lungo tutto il percorso. Questo impianto generale del triennio accomuna il percorso di tutte le lauree triennali della Scuola di Medicina e Chirurgia, in cui i tirocini sono obbligatori, prevedendo la frequenza di tutte le ore previste per i crediti che sono di 30 ore per CFU5. Gli obiettivi dell'intero corso hanno una logica curricolare e integrano in un unicum contenuti teorici e di tirocinio (il core curriculum del corso) e consentiranno il raggiungimento delle principali competenze attese per il futuro professionista al momento della laurea (core competence).6 L'apprendimento clinico è strettamente collegato anche alle altre attività didattiche, in particolare alle cosiddette attività didattiche integrative, componente importante della formazione universitaria infermieristica; in gran parte vengono svolte prima dell'accesso a determinate esperienze cliniche, in altri casi costituiscono momenti di rielaborazione del tirocinio o di collegamento tra teoria e pratica. Cosa si impara quindi nei tirocini in sanità? Il tirocinio, come ribadiscono gli studenti7, è fondamentale per due motivi: il primo è legato all'applicazione nel reale contesto sanitario delle attività previste dal profilo professionale, tra cui in particolare la relazione con l' assistito ed il cittadino che non si può sperimentare diversamente. A ciò si aggiunge che l'esperienza di tirocinio permette di iniziare ad avere relazioni anche di tipo professionale dentro un contesto di lavoro. Quest'ultima importante condizione rappresenta una situazione di "socializzazione anticipatoria nel mondo del lavoro"8. Nell'esperienza clinica si creano le condizioni per riconoscere nei fatti, o conoscere dai fatti che si presentano, ciò che si è studiato, si comprendono i rapporti assistenziali o educativi con gli assistiti di cui si hanno riferimenti concettuali e scientifici. Si impara a tenere conto del contesto della persona e della sua famiglia o delle persone di riferimento e, se il contesto è multiprofessionale, si comprende come l'apporto di una professione sia strettamente collegato al lavoro degli altri. Svolgere il tirocinio significa avere l'opportunità di vedere e trovare concretamente ciò che è stato spiegato in aula, di applicare che significa sperimentare, atto costitutivo della 5 I Decreti attuativi del DM 270/04 (Decreto interministeriale del 19/2/2009) definiscono per questi percorsi l’ obbligo a 60 Crediti Formativi Universitari di tirocinio da 30 ore ognuno. In precedenza i crediti di tirocinio erano 45. 6 Le competenze esito definite per il laureato in Infermieristica, prevedono competenze avanzate e specialistiche che si possono acquisire con i Master di primo e secondo livello, con la Laurea Magistrale e successivamente con il Dottorato di ricerca 7 Si veda “Vivere il tirocinio”, Ausl di Bologna, Convegno 14 maggio 2010: in questa iniziativa sono stati presentati i dati di una ricerca qualitativa sulla percezione del tirocinio da parte degli studenti di differenti profili professionali che hanno svolto le esperienze del’anno accademico 2008/9-2010. La ricerca è stata svolta da diversi soggetti tra cui l’autrice di questo articolo ed in coordinamento di M. Lichtner. 8 Si veda Sarchielli, Castellucci (2000). 55 didattica dei professionisti nei settori sanitari e sociali, adattando correttamente le scelte e le azioni alla realtà quotidiana. Spesso ciò che si presenta praticando è diverso da come era stato prefigurato dallo studente: si incontrano i problemi per i quali le soluzioni non sono sempre già pronte, ma le conoscenze ed il metodo acquisiti in aula permettono di affrontarli. L'esperienza guidata dai tutor aiuta a scegliere quali conoscenze, quali indicazioni o linee guida sono più efficaci o pertinenti di fronte ad un assistito, a un gruppo o famiglia di cui farsi carico, quali e quante questioni concomitanti si presentino di volta in volta e quali siano le loro influenze reciproche. Si mettono in campo adattamenti che sono profondamente influenzati dalle soggettività di chi si assiste. Lo studente ha bisogno di individuare tutti gli elementi di una situazione, o che gli vengano messi in risalto mentre l'esperto li coglie e contemporaneamente li seleziona o utilizza il processo decisionale; il professionista in quanto esperto nota qualcosa di impercettibile o di apparentemente secondario. Le esperienze dello studente devono avvenire in condizioni di sicurezza. Gli studenti infermieri in tirocinio in questa Ausl nelle loro narrazioni scrivono: «...mi aspettavo magari che mi chiamassero quando c' era qualcosa da vedere..e poi ci sono tante piccole sfumature che non è facile cogliere…». Le logiche decisionali vengono affrontate durante gli studi secondo modalità razionali e formali, decontestualizzate, diventano lentamente abilità decisionali nella pratica di tirocinio dove sono collocate nella realtà, legate ai vincoli dell'ambiente e alle esigenze delle persone di cui ci facciamo carico. Sono decisioni che, partendo da caratteristiche e conoscenze standard o ideali divengono realistiche: questo induce ad apprendere come si possa modulare la risposta migliore tra quelle possibili. Si agiscono le proprie capacità per dare il meglio senza perfezionismi, con i quali spesso gli studenti devono fare i conti, soprattutto nelle prime esperienze di tirocinio. Si impara a esercitare la discrezionalità, fino a dove è corretto adottarla e domandandosi se sia eticamente giusto spingerla, si vedono valori messi in pratica o talvolta purtroppo l'applicazione di disvalori che attivano capacità critiche e riflessioni, rielaborazioni, anche se amare, di queste esperienze. L'approccio riflessivo ed il modello andragogico di apprendimento sono i riferimenti a cui ci rifacciamo nella Sezione, ed è anche l' orientamento che si vuole dare alla funzione tutoriale nei tirocini9. In tirocinio si fanno esperienze di collaborazione e soprattutto di approccio multidisciplinare ai problemi clinici e di gestione organizzativa, anche se tutte queste esperienze non sono mai abbastanza; per questo è importante definire le competenze esito della formazione di base a cui si aggiungeranno l'esperienza del singolo e altri momenti formativi, secondo la logica della long life learning. Per esercitare al meglio la funzione tutoriale a sostegno e stimolo di questi apprendimenti esperienziali è necessaria una formazione specifica per i tutor di tirocinio ed un rapporto stretto con le Sedi universitarie. In questi anni l'ottica con cui si realizzano i tirocini è che il tutor non abbia un ruolo strutturato vero e proprio, ma sia un professionista esperto e motivato che svolga le funzioni tutoriali, rendendo meno rigida questa attività e intendendola anche come una funzione diffusa tra molti professionisti. Questa funzione, per essere svolta con sicurezza, deve avere dei riferimenti precisi nell'ambito della Sezione e avere chiari i livelli di responsabilità. Per questo tra coloro che svolgono funzioni tutoriali vi sono dei tutor che hanno una formazione 9 Il Corso per tutor clinici delle professioni sanitarie che si tiene da anni nell’Asl di Bologna ha come riferimenti l’approccio riflessivo di D. Schon, Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni, Ed. Dedalo- Bari 1983. 56 specifica acquisita con un Corso aziendale per tutor di tirocinio e sono il riferimento degli altri tutor clinici e della Sezione. La presenza di studenti di molti percorsi formativi universitari nell'Ausl è consolidata da tempo; la presenza maggiormente rappresentata è quella degli studenti di Infermieristica che svolgono il tirocinio per lunghi periodi. La presenza della Sezione formativa del Corso di laurea ha permesso di aumentare la consapevolezza e la responsabilità diffusa nei riguardi degli studenti: questo rappresenta uno dei valori aggiunti per una azienda del SSR (Sistema sanitario Regionale), cioè lo sviluppo consapevole dei saperi e dell'esperienza, la necessità di ripensare e alzare qualitativamente il proprio lavoro, anche nell' ottica di offrire un buon esempio ai potenziali futuri colleghi. I tutor di tirocinio sono tra loro facilmente sostituibili quando i tirocinanti sono nelle fasi di applicazione delle diverse pratiche professionali, di supervisione delle funzioni assistenziali, ma il tutor clinico formato è il riferimento, orienta le possibilità che si presentano agli obiettivi ed è il responsabile del percorso di tirocinio e dell' apprendimento che si sviluppa nel servizio in cui lavora. Gli effetti dell'approccio riflessivo ed intenzionale messo in atto dai tutor didattici della Sezione10 contribuiscono all'acquisizione nello studente delle cosiddette competenze tacite, metacompetenze molto importanti nella formazione dei professionisti. Le esperienze e i vissuti di tirocinio sono oggetto di attività in piccolo gruppo nella sede formativa: un setting in cui è possibile ricondurre lo studente a riflettere sulle esperienze, in cui vengono espressi timori ed esperienze, che talvolta si collegano anche con l' aspetto "sicurezza". L'esperienza nelle realtà di cura riporta a una concezione sfaccettata, impregnata di relazione e di emozioni. Benner nel suo libro "L'eccellenza nella pratica clinica"11 riporta questa interessante definizione di esperienza: «Una conoscenza ottenuta non con le parole, ma con il tatto, la vista, l'udito, le vittorie, le sconfitte, l'insonnia, la devozione, l'amore, le esperienze e le emozioni umane di questa terra, le proprie e quelle degli altri uomini». (Adlai Stevenson)12 In riferimento a quanto detto nei contesti sanitari, gli esperti che lo studente incontra corrispondono ai suoi tutor di riferimento. I formatori e docenti nella formazione di base sono impegnati nel dare una impostazione al modello professionale, a partire dall' approccio metodologico, con contenuti di base e "generalisti", ma è fondamentale in questo periodo di formazione rendere espliciti molti aspetti dell' attività che viene svolta, richiamando agli studenti i contenuti e i principi di riferimento. Nel tirocinio delle figure sanitarie è presente anche una attività di addestramento, che costituisce un aspetto essenziale per dare manualità e sicurezza al tirocinante e garantire agli utenti prestazioni efficaci e sicure. Anche per questo motivo la presenza di studenti delle lauree triennali assorbe tempo, talvolta rallenta il ritmo di lavoro nei servizi, riducendo le disponibilità ad accoglierli e affiancarli. Nell'attività tutoriale dei percorsi di formazione più avanzati o post base prevale l'approfondimento, attraverso la capacità, da parte del tutor, di fare sviluppare un avanzato livello di giudizio, prevedendo per il tirocinante l'assunzione di maggiori responsabilità e livelli di decisione/discrezionalità: lo sviluppo dell'expertise richiede tempo ed applicazione. Gli studenti delle lauree sanitarie triennali nelle loro narrazioni scrivono: 10 I tutor della Sezione hanno come riferimento teorico e pedagogico l’approccio andragogico e riflessivo e la prospettiva dell’esperienza nella fenomenologia di E. Husserl. 11 Benner, 2003. 12 A.E. Stevenson, politico statunitense (1900-1965). 57 «Anche i colleghi hanno un po' paura perché hanno delle responsabilità anche grosse, nei nostri confronti… loro hanno tanta tecnica, tante cose da insegnarci, nel senso che molte cose loro non è che se le sono scordate, ma la routine ti porta a saltare dei passaggi….» «Quello che più mi ha colpito è il rapporto che si riesce ad instaurare con gli assistiti, ti porti a casa delle esperienze forti». «…bisogna proprio trovare un codice tra me e gli assistiti...» Altre narrazioni di studenti ci riportano l'occasione del tirocinio come l'opportunità per conoscere direttamente aspetti quali la responsabilità "agita" che hanno le figure sanitarie nei confronti delle persone di cui si occupano. Ci ricordano che in tirocinio si impara a "rischiare", fare e prendere decisioni, compatibilmente con le capacità, si impara e si insegna a "non sbagliare", si impara anche dall' errore se "guardato", non passato sotto silenzio e lasciato come fardello solo a colui che lo ha compiuto. L'errore, tanto temuto in sanità con giusta ragione, è ancora considerato un tabù nonostante la diffusione della cultura della prevenzione del rischio clinico. Questo evento negativo attiva molte emozioni e sentimenti e, solo se condiviso e oggetto di analisi, riflessioni, spunti di miglioramento, rappresenta una delle più marcate esperienze di apprendimento non solo per coloro che ne sono coinvolti, ma anche per il resto del gruppo di lavoro. 4. Un'occasione e qualche rischio nello svolgere la funzione di tutor in tirocinio. L'esperienza e il modello di tutorship adottato in questi anni, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, ha permesso di mettere a regime una rete di professionisti che si occupano di tirocinio, luogo dove si sviluppano gli apprendimenti professionali e nel contempo si sviluppa la maturità umana dei giovani studenti. Con le figure tutoriali, a cui sono state date conoscenze di base e strumenti, si mantiene un rapporto stretto e si realizzano interventi di formazione permanente per sviluppare ulteriormente le loro competenze educative, necessarie anche per l'inserimento di neoassunti. In questo modo è stato sensibilizzato e reso consapevole un grande numero di professionisti nei profili delle lauree sanitarie, che hanno indubbiamente messo in atto una cultura del monitoraggio dell'apprendimento e della valutazione, anche se restano aspetti ancora critici, in particolare su tema delicato della valutazione. Nonostante queste condizioni organizzative, la formazione specifica, i contatti costanti con le Sezioni dei Corsi di Laurea e l'interesse personale a svolgere le funzioni di tutor, il tirocinio presenta anche dei rischi e a più livelli. Sono rischi relativi al "cosa" si impara durante il tirocinio, ma soprattutto al "come" si impara: questi potenziali rischi in molti casi si possono prevedere e prevenire o evitare in modo che non abbiano conseguenze gravi su diversi soggetti. Proviamo a esplicitare qualcuno di questi rischi in base a cosa ci suggerisce l'esperienza. Esiste un primo tipo di rischio, che sentono particolarmente i formatori, i docenti e i responsabili dei percorsi che preparano queste professioni: si tratta del rischio di non raggiungere gli obiettivi e quindi di formare dei professionisti non abbastanza preparati, pur in presenza di valutazioni sufficienti, tali da permettere agli studenti di laurearsi. In parte 58 questa condizione attiene ai docenti degli insegnamenti, ma il filtro degli esami dovrebbe costituire la garanzia dei livelli minimi sulle conoscenze. Dato il peso che ha l'acquisizione delle competenze professionali, il rischio del mancato raggiungimento degli obiettivi si può realizzare in tirocinio: in questo caso sono riferibili o agli studenti o ai tutor di tirocinio, o a entrambi. Potrebbe essere il caso di uno scarso impegno, in riferimento alle responsabilità della preparazione dello studente stesso, oppure il caso di esperienze "mancate" nei servizi in cui non sono stati trasmessi messaggi, contenuti e saperi pratici, o di esperienze gestite con scarso investimento anche in termini relazionali da parte dei tutor; talvolta non si sono realizzate condizioni organizzative adeguate o condizioni/occasioni didattiche significative. Lo studente da un certo punto di vista può rappresentare un peso. In sintesi, "alla prova dei fatti", il tirocinio non ha dato la possibilità di imparare gli elementi basilari richiesti per una laurea di primo livello - e va ricordato che nelle lauree sanitarie triennali l'acquisizione del titolo è già abilitante la professione. Di questo rischio e di questa corresponsabilità non sono sempre consapevoli i professionisti delle sedi di tirocinio. Possono aver sottovalutato qualcosa in termini organizzativi, oppure non sono stati in condizioni di approfondire o verificare gli effettivi apprendimenti rispetto agli obiettivi di tirocinio o alle caratteristiche e possibilità dei singoli studenti. In questo caso c'è stato comunque uno sforzo degli operatori durante il tirocinio: spesso si tratta di uno sforzo diffuso ed essendoci la percezione dell'impegno e buona volontà può passare in secondo piano la consapevolezza delle effettive condizioni che non hanno permesso migliori risultati. Nella maggior parte dei casi il correttivo a questa situazione lo metterà lo studente stesso, in successive esperienze di tirocinio e in generale mettendo in campo strategie compensative e la sua motivazione. L'esperienza di tirocinio poco fruttuosa, in ultima analisi, può servire per fare comprendere allo stesso discente come non si deve organizzare e gestire un percorso di tirocinio. Analizzando i potenziali rischi includiamo quello di non riuscire a trasmettere un modello e una identità professionale orientati ai nuovi paradigmi o non ancorati alle radici eticodeontologiche e disciplinari. Questi aspetti sono molto importanti perché sostengono le professioni nella realtà sanitaria e nella percezione dei cittadini e della società, nella complessità della multidisciplinarietà. In particolare c'è il rischio che l'esperienza di tirocinio non abbia trasmesso adeguatamente e confermato i valori professionali, l'acquisizione di comportamenti deontologici e approccio etici che sono rappresentati nelle pratiche quotidiane o nei momenti particolarmente emblematici che l' esperienza diretta mette a fuoco. In questo caso si colloca il rischio che non siano stati sottolineati o attuati comportamenti, osservazioni e scelte che mettano al centro il principio di responsabilità in tutte le sue espressioni. C'è, in altre parole, il rischio che abbia avuto il sopravvento un sapere procedurale fine a se stesso, come unica garanzia del "bene" per le persone e talvolta anche solo della "tutela" dei professionisti e dell'organizzazione che, così, non si assumono responsabilità, delegate alla corretta applicazione delle procedure e linee guida. Un ripiegamento che qualcuno ritiene possa ridurre il rischio di reclami e di contenziosi. In questo potenziale rischio ritroviamo anche quello che i colleghi o il tutor non abbiano sempre chiara la responsabilità che è stata assunta nella preparazione del futuro collega. Più evidente e temuto è un altro rischio che assume il tutor, insieme allo studente affidatogli: è il rischio dell'errore o di fare correre pericoli e causare danni agli assistiti e allo studente stesso, e ciò chiamerà in causa anche il tutor clinico. Compare, in questo caso, il problema della sicurezza e della gestione del rischio nella pratica professionale, in presenza 59 di studenti che, nel percorso formativo di base, sono per definizione ancora inesperti o "novizi" come dice Benner (2003). 5. La responsabilità nel fare: legame tra tirocinanti e tutor Il "fare", "mettere in atto", contiene intrinsecamente la possibilità di sbagliare, come recita un detto popolare, frutto della saggezza della vita. L'Università fa riferimento a tutor appositamente formati e dello stesso profilo professionale che si occupano degli stage, cita il testo sul tirocinio guidato, sottintendendo che l'apprendimento avviene con professionisti messi a disposizione dalle Aziende che accolgono i tirocinanti a seguito di Convenzione tra le parti. I tutor di tirocinio nelle lauree sanitarie, se richiesto, esprimono una valutazione o un giudizio sul tirocinio: in ogni caso definiscono il livello raggiunto dallo studente e gli apprendimenti acquisiti nel periodo di permanenza nella sede operativa, assumendosi così la responsabilità di affermare che sono stati raggiunti i livelli minimi di apprendimento clinico. Sempre in termini di responsabilità nel Corso di Laurea delle professioni sanitarie esistono delle figure, previste da norme nazionali, quali i Responsabili dei tirocini delle Istituzioni formative, che corrispondono ai Responsabili delle Sezioni formative, i quali svolgono una funzione di cerniera tra le Istituzioni coinvolte.13 In molti Regolamenti dei Corsi gli esami di tirocinio annuali costituiscono uno "sbarramento" alla prosecuzione del percorso, sono propedeutici ad altri tirocini successivi e richiedono il superamento di insegnamenti propedeutici alle esperienze cliniche o agli stessi esami di tirocinio. È evidente che le istituzioni titolari del percorso di laurea triennale sono impegnate nel garantire le premesse di conoscenza degli studenti che accedono all' esperienza sul campo e individuano filtri che favoriscono una gradualità e una selezione. I Regolamenti dei diversi Corsi di laurea descrivono le modalità di accesso, le situazioni e i casi di sospensione o recupero dei tirocini e degli apprendimenti: in molti frangenti sono stati redatti veri e propri Regolamenti di tirocinio. Ciò evidenzia come l'università, su questi aspetti professionalizzanti e molto delicati, si sia espressa in documenti e con indicazioni, riconoscendone l'importanza e i potenziali rischi. Nei percorsi formativi post base tutto questo sistema di filtro scompare e le indicazioni sui tirocini sono più orientati all' acquisizione di competenze di secondo livello. I partner contraenti la Convenzione sono garanti verso la società che il professionista in uscita dal percorso abbia dimostrato una condizione accettabile di performance professionale applicata ai diversi contesti. Esiste quindi sul tirocinio un sistema articolato di livelli di responsabilità che inizia sul piano istituzionale, e successivamente si articola ed afferisce alla stessa linea professionale degli studenti dei singoli corsi. Le modalità di espletamento del tirocinio, presentate e condivise con i tutor direttamente interessati, consente anche di garantire sicurezza e buone condizioni didattiche per gli studenti. Le fasi più delicate del processo di tirocinio sono definite ed organizzate, si chiariscono le responsabilità dei singoli, le modalità operative e strumenti, il monitoraggio 13 Queste figure tra le funzioni attribuite hanno quella di farsi garanti dell’ apprendimento teoricopratico professionalizzati tra cui le esperienze di tirocinio e della qualità delle stesse. Sono titolari dei CFU di tirocinio presenti nel piano di studio che rappresentano un terzo dei crediti del Corso, inoltre presiedono la Commissione d’Esame annuale di tirocinio. 60 dell'apprendimento e dell'autoapprendimento e strumenti di valutazione formativa e, a fine tirocinio, la valutazione certificativa. Tutti i diversi percorsi di tirocinio nell'Asl di Bologna rispondono a criteri di qualità e sono certificati secondo la Certificazione ISO 9001/2008 14. Gli aspetti organizzativi del tirocinio, i requisiti minimi del contesto in cui si realizzerà, la garanzia della presenza di tutor appositamente formati, fanno sì che non si verifichino "salti pericolosi e cadute" nelle esperienze sul campo, evitando di imparare per tentativi ed errori, modalità inaccettabile nei contesti sanitari. Si realizzano in tal modo esperienze che sostanziano il difficile percorso verso l'adultità non solo professionale. Lo studente in questo percorso è al centro con una responsabilità diretta sul suo apprendimento, sui suoi comportamenti. Ci pare sempre più evidente che c'è un "come si apprende in sanità" che ha una forte valenza organizzativa, una rete di norme e regole, ma non di meno si rifà a valori e alla deontologia che i tutor di tirocinio devono rappresentare. Ciò non esime dal rischio del commettere errori: sono tanti i pericoli che si possono incontrare nell'apprendimento pratico e diretto occupandosi delle persone o dei problemi sociosanitari di un gruppo o di una comunità. Il tutor viene così ad assumere ulteriori rischi rispetto a quello legato al proprio operato: sono quelli in relazione alla possibilità che lo studente compia un errore o incontri una condizione di rischio o di vero e proprio pericolo, così che gli viene richiesto di impegnarsi a prevenire rischi anche rivolti agli studenti o ai danni verso pazienti assistiti dai tirocinanti, o di gestire una situazione avversa riducendone il danno. Così facendo il professionista, oltre al rischio dell'errore personale che porta in sé, si fa carico anche di un potenziale rischio di errore dello studente. L'errore potrebbe essere prevalentemente di sistema, potrebbe essere prevalentemente del singolo, e difficilmente è totalmente a carico di una di queste componenti. Gli autori che si sono occupati di questo tema in sanità, distinguono diverse afferenze causali, ma sostengono che anche nel secondo caso difficilmente non c'è una responsabilità anche del sistema/organizzazione, ad esempio non avendo messo in campo tutti i possibili strumenti di controllo. Lo studente deve essere consapevole dei rischi di eventi avversi che si possono verificare, in modo da agire correttamente o chiedere o dubitare o verificare con il tutor o attivare una supervisione. Un riferimento importante è il Codice Deontologico degli Infermieri che cita in due articoli (art.29 e art.13)15 espressamente la prevenzione e l' apprendimento dall' errore, l' obbligo anche etico alla supervisione e di richiederla quando ci siano dubbi da parte del professionista o la necessità di consulenza di un collega esperto. L'apprendimento è graduale e porta all'autonomia, attivando responsabilità personali dello studente, così come per il tutor, per il quale si ampliano le responsabilità professionali. Un atteggiamento cauto e di valutazione dei singoli casi, del contesto e delle capacità e caratteristiche dello studente è alla base della prevenzione del rischio. L'atteggiamento di fiducia verso lo studente è altrettanto il motore che lo muove, lo incoraggia a esperire, gli permette di esprimere più liberamente dubbi o incertezze, di dichiarare più serenamente quando non si senta ancora in grado di svolgere una attività, se pure collocata in quella fase del percorso o in quelle precise condizioni. L'equilibrio tra il rischio di errore e l' atteggiamento positivo e propositivo del dare fiducia sono due facce della stessa medaglia, hanno a che fare, soprattutto nel caso dello studente, con un proprio rigore, con un livello di maturità morale che consente di assumersi e rispondere delle proprie azioni od omissioni. L'onestà intellettuale, la consapevolezza che prima di tutto viene il bene del paziente, l'assunzione delle proprie responsabilità e delle conseguenze del proprio agire sono le premesse di un atteggiamento corretto al momento in 14 La certificazione ISO 9001-2008 rilasciata dal Cermet è riferita a tutti i percorsi di tirocinio che si attivino a seguito delle diverse Convenzioni e differenti percorsi formativi nell’Asl di Bologna. 15 Codice deontologico dell’Infermiere pubblicato dalla Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009) art.29 e art 13. 61 cui si verifichi l' errore e della possibilità di poter ridurre il danno che deriva dall'errore. L'atteggiamento morale ed etico e la responsabilità guidano anche il tutor di fronte ad un errore dello studente che in molti casi è avvenuto per disattenzione o errata valutazione del tutor. L'atteggiamento "no blame"16, definito nel linguaggio del "risk management" come l'atteggiamento a cui i professionisti si devono conformare nel caso di errore, consente di considerarlo, analizzarlo, mettere in atto una serie di interventi specifici di miglioramento e di prevenzione. Al contrario, l'evento errore, quando ormai occorso, sarebbe un'occasione perduta e determinerebbe solo un annichilimento per lo studente e per il tutor che lo affianca e potrebbe generare, come spesso accade, una situazione di ricerca del colpevole. Dalle narrazioni: «Ecco che una voce arriva dal corridoio…un errore, un errore di consegna! Potevo essere stata io a controllare con troppa superficialità…disagio, senso di inadeguatezza, calo di pressione…fino a capire che in effetti non era possibile che fossimo state noi». Apprendere ed insegnare sono sempre una sfida e sperimentare è rischiare: dosare i rischi permette di percepire un sentimento di sicurezza che favorisce l' apprendimento. 6. Gli studenti e l'errore nel difficile percorso di apprendimento sulla cura e il prendersi cura. La cultura della sicurezza, basate sulla conoscenza e competenza, l'atteggiamento etico e lo spirito critico, sono acquisizioni che lo studente apprende se intenzionalmente i docenti, i tutor ed i responsabili dei Corsi danno priorità a questi aspetti, trasmettendone l'importanza. La convinzione che la sicurezza dell'assistito sia una garanzia che renda reale e applicato il principio per cui la persona o cittadino sono al centro dell' assistenza e del sistema sanità e necessita di progettare una serie di momenti ed occasioni predefinite durante in corso di studi dai formatori che interagiscono con gli studenti ai diversi livelli La sensibilizzazione a questi temi, oggi molto diffusa, ha permesso di creare più fronti di attenzione sul tema dell'errore e del rischi di errore anche nel Corso di Infermieristica per la molteplicità di rischi presenti in tale attività. I contenuti relativi a queste tematiche sono presenti in tutti i tre anni di corso, sia negli insegnamenti d'aula, sia nei seminari, nelle attività di laboratorio e di simulazione. In particolare ogni studente deve frequentare uno specifico corso di 16 ore e superare la prova finale, ottemperando il dettato normativo (Decreto 81/2008) in materia di sicurezza per i professionisti della sanità che precede l' accesso al primo tirocinio del Corso. Il tema del diritto alla sicurezza delle cure nei confronti dei cittadini è presente ed esplicitato negli obiettivi di tirocinio, nelle procedure e nelle modalità di attivazione di percorsi di denuncia qualora si verifichino danni all'assistito o se si presentano potenziali rischi per la salute dello stesso studente. Durante il Corso di studi vengono presentati gli strumenti tipici della gestione degli eventi avversi, siano essi errori (miss) o quasi errori (near miss), le modalità e gli strumenti di miglioramento, in particolare gli Audit ai quali talvolta hanno direttamente partecipato anche gli studenti. 16 Con questo termine si intende l’atteggiamento che l’errore non abbia come effetto una colpevolizzazione fine a se stessa. 62 Con questo bagaglio di conoscenze e con questa consapevolezza, i tirocinanti si trovano nei servizi con i professionisti, partecipando all'assunzione di responsabilità verso gli assistiti e i loro famigliari. In loro è molto presente il timore di sbagliare e di danneggiare la persona che incontrano durante il tirocinio. Dalla mia esperienza in questi anni errori afferibili agli studenti durante il tirocinio e dichiarati sembrerebbero abbastanza rari, in parte per l'attenzione che gli studenti mettono durante l'esperienza clinica e per la supervisione ed affiancamento dei vari tutor e professionisti presenti. Parlando di errori che sono stati individuati e che coinvolgevano il tirocinante, talvolta si è potuto riscontrare quanto il loro ruolo fosse molto secondario nei fatti: resta la consapevolezza che la cultura del "biasimo" non ci permette di avere il polso vero della situazione e sicuramente di avere le stesse informazioni nel caso dei quasi errori. Questi ultimi, non essendosi di fatto realizzati, sono poco considerati. Gli eventi avversi o gli incidenti, durante il periodo della formazione sul campo, possono essere stati segnalati subito nella realtà in cui sono accaduti dagli studenti stessi, o dai tutor o da chi fosse stato presente per provvedere immediatamente a gestire e ridurne gli effetti. La cultura della colpevolizzazione, ancora presente nella maggior parte degli ambienti sanitari, in contrapposizione all'atteggiamento "no blame" che si sta cercando di fare prevalere nei servizi e sul quale si sviluppa la formazione, ci fa pensare che i quasi errori siano stati raramente evidenziati, forse perché l'errore di fatto non c'è stato e quindi non conviene sollevare problemi o discussioni. Questo non aiuta lo sviluppo della consapevolezza e della cultura dell' apprendimento dall'errore e della sua prevenzione, mentre sarebbe un terreno molto fertile in tal senso: infatti i casi di " quasi errore" consentono di guardare e analizzare l' accaduto, senza la preoccupazione e la tensione che scatena un evento avverso a seguito di un errore umano/organizzativo. Perché i near miss che coinvolgono lo studente non sono segnalati o non sono sottoposti ad analisi sistematiche e sistemiche per un miglioramento? Sicuramente ne risente il giudizio e la valutazione di tirocinio, per cui l'evento errato che non ha determinato un "fatto", sventato in tempo per diverse ragioni, relega lo studente comunque nella considerazione del colpevole. Non è di aiuto in questi ultimi anni il moltiplicarsi di casi e contenziosi tra cittadini e professionisti della salute, casi di malasanità che contribuiscono a ridurre la fiducia nelle istituzioni sanitarie e in chi ci lavora. La paura di denunce e contenziosi, molto presente nei medici, si allarga agli altri professionisti che si occupano di cura, ed è percepita come una delle priorità per le Aziende sanitarie. Prova ne sia anche l'elevato numero di professionisti non medici che provvedono a integrare con polizze personali l'assicurazione che il datore di lavoro è tenuto ad attivare per i dipendenti. Si è così sviluppata una medicina difensiva che teme azioni legali e si protegge immediatamente anche in casi in cui non c'è colpa e tantomeno dolo. Il percorso legale da affrontare, anche nel caso si risolva il contenzioso senza confermare la responsabilità degli operatori, non solo determina tensione e incertezze per gli interessati, ma si riflette nel clima dell'intero gruppo di lavoro, toglie fiducia ai cittadini e danneggia l'immagine dell'Istituzione. Nei casi in cui l'errore coinvolga direttamente lo studente, viene segnalato secondo procedure ben precise nel servizio, in cui sono indicati i professionisti presenti che avevano in carico lo studente e assumono, accettandone la presenza, la responsabilità "in vigilando". In caso di errore durante il tirocinio, oltre alla denuncia "aziendale", la comunicazione dei fatti viene inviata alla Sezione formativa del Corso che lo studente frequenta, in quanto di competenza di tutto ciò che attiene i tirocini i universitari e per l' afferenza dello studente non all'Azienda Sanitaria ma all'Università, anche in termini assicurativi. L'Università in questo caso corrisponde al datore di lavoro. Nei casi di errore a carico o con il coinvolgimento del tirocinante ciò determina valutazioni insufficienti da parte del tutor clinico. L'evento viene sempre analizzato con le 63 figure coinvolte, talvolta viene descritto diversamente dallo studente rispetto ai tutor o ai professionisti dei servizi, nonostante gli incontri per comprendere meglio cosa è successo e attivare esperienze di recupero. Il chiarimento, in alcuni casi, non convince entrambe le parti (studente ed altri operatori presenti) per le posizioni ed i punti di vista o le premesse di partenza: chiaramente la gravità del danno, per fortuna mai drammatico, influenza molto tutte le dinamiche che ne conseguono. Il problema in questi casi è la non conoscenza dell'intero percorso o di tutte le componenti di una attività o prestazione, oppure la mancanza di spiegazioni esaustive, tali per cui lo studente non ha agito tutto ciò che era necessario e non ha valutato le conseguenze, che non riesce sempre ad avere chiare o a collegare. Per Benner il novizio non ha il quadro di insieme e questo talvolta potrebbe determinare errori. Come, del resto, un rapporto poco chiaro o una relazione difficile tra tutor e tirocinante generano incomprensioni o soggezioni o una scarsa disponibilità ad accogliere dubbi, tutti fattori che possono aumentare i pericoli. Dopo l'evento dannoso segue spesso una situazione irrecuperabile, principalmente nei rapporti, venuta meno la fiducia da entrambe le parti. A volte lo studente chiede di poter dare ulteriori spiegazioni ai tutor o ai Responsabili della Sezione Formativa, fornendo una propria versione, più rivolta a giustificare che a spiegare l' accaduto. I tutor della Sezione analizzano con lo studente le cause, mettendo a fuoco insieme a lui gli aspetti specifici su cui migliorare per prevenire altri eventi di questa natura, per recuperare il rapporto con i tutor, mettendo in campo una sorta di mediazione. In ogni caso anche l'analisi e le riflessioni per acquisire apprendimenti dagli errori sono influenzate in entrambe le parti dal giudizio, e talvolta vale anche per i tutor della Sezione formativa. In queste esperienze anche la capacità di condurre questo percorso da parte dei tutor didattici del Corso è a rischio di pregiudizio, ugualmente da parte della componente del Corso che ha un mandato più pedagogico. Pertanto il giudizio negativo percepito dallo studente, anche se limitato a quella esperienza, condiziona alcune decisioni successive, tra cui quella di mettere in atto un'esperienza di recupero che, nei tempi stretti del percorso triennale, posticipa i tempi di laurea. Inoltre per lo studente l'evento può essere faticoso da superare, determinato in alcuni casi anche la decisione di sospendere per un periodo l'attività clinica: in alcuni casi gli studenti hanno abbandonato il corso di studio riferendo di non sentirsi più adeguati e a nulla sono valsi i tentativi di recuperare questa decisione, di analizzare la situazione distinguendo l'errore dalla colpa. È evidente come, nonostante l'atteggiamento, su cui si concorda, di non colpevolizzazione del singolo, dalla fase di analisi delle cause da parte degli altri attori e partecipanti all'evento, fino alla definizione delle azioni conseguenti e delle azioni di miglioramento che ne dovrebbero derivare, non c'è un adeguata preparazione a prevenire e gestire questi fatti nei confronti degli studenti. Lo studente non è un professionista, presenta delle fragilità e dei meccanismi di difesa propri, deve confermare la sua scelta professionale e personale, deve acquisire autostima e stima in merito alla sua preparazione e ai suoi livelli di apprendimento. Si utilizza quasi sempre il termine errore, nell'accezione quotidiana, sebbene sarebbe bene distinguere errore da sbaglio e soffermarci sulla colpa. Sulla colpa ruota l'idea che ci possa essere la possibilità di evitare un errore che non è stato deliberatamente evitato; e si potrebbe intendere che il colpevole ha quasi creato le condizioni per il verificarsi dell'errore: si sente in questo termine qualche cosa di deliberato. Nel termine sbaglio è come se risuonasse una minore gravità, ma il riferimento rimane sempre personale: lo sbaglio è a carico del singolo. Ma di quale genere di errori si tratta in questo contesto di formazione infermieristica di base? 64 In questi casi di solito si tratta di errori di terapia, oppure di errori nel valutare o monitorare le condizioni di un paziente, o di avere sottovalutato dei segni o dei dati da riferire. In realtà le possibilità di incorrere in errori sono molte, con potenziali conseguenze anche gravi tra cui quelle di "omettere" ovvero non effettuare una attività, ad esempio non somministrare un farmaco, oppure non garantire le migliori cure possibili: è il caso delle cosiddette "cure perse". Tra gli errori più frequenti e gravi in sanità e che coinvolgono gli infermieri, troviamo gli errori nel processo di gestione della terapia. Per questo motivi gli obiettivi di tirocinio devono descrivere il livello di autonomina, di supervisione, di affiancamento per le diverse attività da svolgere in tirocinio, siano esse prestazioni tecniche, modalità e strumenti di valutazione e monitoraggio, di raccolta dati, di relazione e livello di informazioni che lo studente può dare all'assistito o alla famiglia. La stessa applicazione di linee guida e protocolli possono necessitare talvolta di una discrezionalità che lo studente non ha o che non può attivare autonomamente. Esiste secondo P. Frerie «un rapporto tra l'allegria, necessaria all' attività educativa e la speranza» 17 Auspichiamo quindi che gli approcci educativi e formativi, le condizioni organizzative messe in campo e le cautele, visti i rischi di vario genere insiti nel tirocinio, non alterino il piacere di imparare ed il piacere di insegnare una professione. 7. Bibliografia Benner P. (2003), L'eccellenza nella pratica clinica dell' infermiere. L' apprendimento basato sull'esperienza, Milano, Mc Graw-Hill, I° Edizione italiana. Federazione Nazionale Collegi IPASVI (2009), Codice deontologico dell'Infermiere. Frerie P. (2004), Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, Torino, EGA. Knowles M. (1996), Quando l' adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, F. Angeli. Lichtner M. (2010), a cura di, Vivere il tirocinio, Ausl di Bologna, convegno del 14 maggio 2010 Sarchielli G., Castellucci A. (2000), Viaggi guidati, Milano, F.Angeli. Schon D.A. (1993), Il professionista riflessivo: per una nuova prospettiva della formazione e dell'apprendimento nelle professioni, Bari, Dedalo. 17 in ”Pedagogia dell’ autonomia” (2004), una delle opere tradotte in italiano del pedagogista brasiliano (1921-1977) 65 PENSARE E AGIRE IN SICUREZZA NEL TIROCINIO DELLE PROFESSIONI SANITARIE: OBBLIGO LEGISLATIVO E OPPORTUNITÀ CULTURALE di Rossana Di Renzo «Ogni giorno si corregge un errore, ogni giorno si impara a saper meglio quello che possiamo far di bene o quello che siamo condannati ancora a lasciar avvenire di male, ogni giorno erriamo meno della vigilia e impariamo a sperare di far di meglio dimane. Errare, sì. È una parola che fa paura al pubblico. L'uomo che non erra non c'è». Augusto Murri, tratte dal suo Quattro lezioni e una perizia (1906-1907) In ambito sanitario la prevenzione dell'errore è un tema sentito e dibattuto; una grande conquista culturale è di accettare che in medicina, come in tutte le attività umane, si può sbagliare, che non è possibile pretendere la perfezione, ma è comunque giusto impegnarsi per raggiungerla. L'Azienda USL di Bologna è sede di tirocinio per le diverse figure professionali sanitarie, tecniche, sociali ed educative. In questi anni è stato affrontato il tema dell'applicazione del D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 nell'ambito del tirocinio. Formare il tirocinante – così come ogni operatore della sanità - sulla tutela della salute e della sicurezza nella pratica professionale è dovere previsto da un preciso obbligo legislativo. Ma è anche e soprattutto, per la nostra azienda, un'opportunità di sviluppare la cultura della sicurezza e far sì che divenga un valore costante per il futuro professionista che lavorerà in un'organizzazione e si prenderà cura dei cittadini. Trattare il tema dell'educazione e prevenzione alla sicurezza e alla salute è ancora più importante quando ci si rivolge a una popolazione con età prevalente compresa tra i 19 e i 28 anni, in procinto di iniziare il percorso professionale. Durante il percorso formativo e nel tirocinio allo studente sono fornite informazioni per la sua sicurezza (per ridurre al minimo infortuni, malattie professionali) e per la sicurezza dei pazienti (rischi clinici, errori ed eventi avversi). La formazione deve tener conto di nozioni e di competenze tecniche (conoscenze specifiche per svolgere un'attività con le regole e adempimenti connessi), ma anche di come queste vengono percepite, assimilate e interpretate, di comportamenti ad esse correlati. Nelle esperienze formative di tirocinio il processo di apprendimento, non è lineare, spesso è accompagnato da tentativi ed errori, da sbagli, da insuccessi e riuscite. L'errore nel processo educativo riveste un ruolo importante, perché fa parte dell'esperienza e dell'attività dell'essere umano. Scrive Karl Popper nel saggio Congetture e confutazioni del 1963: 66 «Per noi, dunque, la scienza non ha niente a che fare con la ricerca della certezza, della probabilità o dell'attendibilità. Non siamo interessati allo stabilimento di teorie scientifiche in quanto sicure, certe o probabili. Consapevoli della nostra fallibilità, siamo soltanto interessati a criticarle e a controllarle con la speranza di scoprire dove sbagliamo, di apprendere dagli errori e, se abbiamo fortuna, di pervenire a teorie migliori». Per quanto paradossale l'errore è un aiuto per la verità. Parlarne, intervenire, correggere l'errore, permette allo studente di giungere a conoscenze adeguate ad affrontare la situazione. La correzione dell'errore favorisce il tirocinante nel giungere a conoscenze più prossime alla verità. Porre l'enfasi sulla conoscenza e non solo sulle regole mette lo studente in condizione di imparare dagli errori. L'errore, in questo caso, diventa un elemento potente nella ricerca di risposte e stimola il desiderio di conoscenza. Spesso l'errore è giudicato e punito, le conseguenze si manifestano in forma di disapprovazione dei colleghi e mancanza di fiducia del gruppo di lavoro. Il rischio di una cultura punitiva fa sì che l'errore sia nascosto e taciuto. Nell'articolo saranno illustrati alcuni dati riguardanti un'indagine conoscitiva che ha utilizzato gli strumenti della medicina narrativa1 e ha coinvolto i tirocinanti delle professioni sanitarie, i coordinatori didattici delle sedi formative e i tutor di tirocinio sul tema della percezione di rischio ed errore in tirocinio. I dati saranno utilizzati per migliorare la sicurezza del tirocinante e quella del paziente e per monitorare e individuare strumenti atti a creare una più consapevole e diffusa cultura della sicurezza nell'ambito dei tirocini. Dell'ampio lavoro condotto, saranno condivisi solo i dati riferiti ai tirocinanti del Corso di Laurea di Infermieristica dell'Università di Ferrara2. 1. Trafficare con l'incertezza L'idea di rischio è in relazione allo sviluppo della società moderna occidentale, ai suoi tentativi di controllare il futuro e ai meccanismi per farlo. Nello stesso tempo gli individui associano all'idea di rischio il bisogno crescente di sicurezza. Il termine rischio è stato acquisito dalla lingua inglese dal portoghese ed è stato utilizzato per descrivere i viaggi degli avventurieri europei nelle esplorazioni del secolo XVI. Da quel momento è stata diffusa "fisicamente" l'idea del rischio come momento in cui s'incontravano acque che non rientravano nelle mappature nautiche. L'area rischiosa era un'area non mappata del mare, quindi sconosciuta e pericolosa. Questo però non ha fermato l'uomo e il desiderio di scoprire e conoscere: si assume un rischio in conformità a un aumento di 1 Il lavoro di ricerca è stato elaborato come tesi nell’ambito del Master di Medicina Narrativa Applicata di Istud, si ringrazia la dott.ssa Paola Chesi per il supporto metodologico e il Direttore del Master dott.ssa Maria Giulia Marini. 2 Si ringrazia il Direttore del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara, dott.ssa Cristina Loss e il suo gruppo di lavoro. Si specifica che l’Università, a seguito di apposita convenzione con l’Azienda, affida la responsabilità a svolgere al suo interno la parte teorica disciplinare specifica e tecnico-pratica del curricolo formativo. L’Azienda in quanto Sede formativa del Corso di Laurea in Infermieristica, articola in docenze i contenuti e i comportamenti professionali di ruolo. Questi ultimi si sperimentano prima in appositi laboratori, poi nella realtà operativa dei servizi, in forma di tirocinio. Questa parte è affidata ai Tutor coordinatori didattici. La responsabilità della sede formativa è affidata al Direttore delle attività didattiche. Sia i Tutor, sia il Direttore sono professionisti dell’Azienda. Nella formazione universitaria, il tirocinio curriculare è previsto nell’ordinamento di un corso di Studi per il conseguimento di una laurea triennale o magistrale. A questo percorso viene riconosciuto uno specifico numero di crediti universitari e la sua regolamentazione è gestita autonomamente da ogni Ateneo, nel rispetto della normativa nazionale e regionale in materia, con la finalità di «integrare i percorsi didattici con esperienze di formazione professionalizzante, ricerca, elaborazione delle esperienze condotte nelle aree produttive, dei servizi, delle relazioni sociali e delle attività culturali». 67 possibilità future e di una qualità di vita migliore. Così, se in origine il rischio è stato considerato una nozione spaziale legata alla conoscenza di mondi nuovi, rapidamente è divenuto un termine riferito alla dimensione temporale e ai comportamenti dell'individuo. Più ci si confronta con una società aperta che volge il suo sguardo al futuro, più si è costretti a pensare in termini di rischio e insicurezza. Nella società moderna, Ulrich Beck afferma che, «i rischi suggeriscono solamente cosa non si dovrebbe fare, non cosa si dovrebbe fare» (2000) e per essere accertato il rischio ha bisogno degli strumenti, delle teorie, e degli esperimenti della scienza, che a sua volta è fonte di soluzione ma anche causa di rischio. Convivere con queste incertezze non è facile per l'uomo che deve confrontarsi con il futuro. Se la società in cui viviamo è governata dall'incertezza e dal rischio, come educare e formare i futuri professionisti delle professioni sanitarie? La dimensione formativa che si realizza nel tirocinio è un aspetto prezioso, ancor più oggi, in un mondo caratterizzato dalla continua mutevolezza e dalla complessità dei processi di lavoro, che sempre di più richiedono coinvolgimento e creatività personale da parte di chi lavora. I tirocinanti dei percorsi di laurea delle professioni sanitarie entrano in organizzazioni complesse con tecnologie sofisticate, con situazioni che richiedono risposte e decisioni a volte tempestive. L'ambiente lavorativo costituisce un giacimento di principi teorici, tecniche operative e azioni che rappresentano la struttura fondante, a volte manifeste e a volte nascoste, delle attività che lo compongono. Ne consegue che il lavoro è una pratica in sé istruttiva, formativa ed educativa. Una pratica che il tirocinante, se guidato, può osservare e analizzare per comprendere gli aspetti tecnici e i principi teorici, può sperimentare per sviluppare le abilità manuali che permettono di eseguirla e sulla quale può riflettere dopo averla attuata, per acquisire le competenze che gli consentono di svolgerla nel modo più utile e giusto. All'interno del tirocinio avviene la ricomposizione del "divorzio tra la mente e la mano". Sennet parla di «intimo nesso tra la mano e la testa», dialogo che «si concretizza nell'acquisizione di abitudini di sostegno, le quali creano un movimento ritmico tra soluzione e individuazione di problemi», invita a superare le storiche «linee di faglia che dividono la pratica dalla teoria, la tecnica dall'espressività, l'artigiano dall'artista, il produttore dal fruitore» (2008). Ricomposizione difficile se non è guidata da un professionista esperto e se il servizio che accoglie il tirocinante non ha le caratteristiche per favorire apprendimenti e competenze. Il tirocinante entra nei servizi con le sue conoscenze, esperienze di vita, con aspettative di conferme che la strada individuata sia quella giusta. Nel tirocinio lo studente mette in gioco le sue capacità, i suoi sogni, i suoi desideri, i suoi limiti, ciò che sa e sa fare. Essendo in formazione, il tirocinante non sempre riesce a padroneggiare le variabili presenti nell'organizzazione e nella gestione delle relazioni. Se da una parte il tirocinante è consapevole che il percorso di tirocinio favorirà apprendimenti, è altrettanto consapevole di essere esposto a possibilità di rischi ed errori. Il tirocinio permette di entrare in contatto con situazioni ad alto tasso di problematicità e il tirocinante può trovarsi in situazioni in cui non esiste sempre una risposta disponibile. La soluzione richiede esperienza professionale, capacità di problem solving. Un sapere teorico è quello che, rispetto a certe situazioni problematiche, indica e fornisce strategie da adottare. Il tirocinante nei servizi, si trova a gestire relazioni complesse con casi unici, differenti l'uno dall'altro, dove le risposte non possono essere standardizzate, applicando semplicemente la teoria. Racconta una tirocinante: «l'impatto iniziale mi spaventa. Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichino in sala simulazione. Lavorare sul manichino è diverso: non reagisce, non prova dolore, non ha una storia e se sbaglio non succede nulla. Con la persona che sta male è tutta un'altra cosa. Se sbagli non torni indietro» (Di Renzo R., Bellamio D., 2011). 68 Prendere delle decisioni ha delle implicazioni, come ben descrive la nostra tirocinante. Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non può essere annullata. L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzata non si è più padroni delle conseguenze. 2. Il disegno di ricerca e gli strumenti La sicurezza nel Servizio Sanitario è un obiettivo primario sia per i pazienti ma anche per i suoi professionisti. Questa tematica, affermatasi recentemente, investe il mondo sanitario e il mondo formativo: la strada da percorrere affinché siano garantite cure di qualità e sicure necessita dell'impegno coordinato tra i vari attori. La sinergia tra mondo accademico e mondo dei servizi può contribuire e sviluppare la cultura della sicurezza nei riguardi dei futuri professionisti. Nel tirocinio le conoscenze, le competenze, le abilità e i comportamenti appropriati entrano in gioco interagendo con il contesto in cui si apprende e si agisce. Il tutor è consapevole che l'"'elemento umano" influenza il "sistema sicurezza" (ambiente di lavoro, normative, procedure e tecnologie, ecc…) attraverso l'adozione o meno di comportamenti sicuri, ma anche attraverso la condivisione o meno di valori culturali, la comunicazione delle informazioni, il clima organizzativo, ecc. È sicuramente interessante e utile analizzare il rapporto che intercorre tra sicurezza, comportamento umano, errore e qualità delle attività professionalizzanti. I comportamenti sono il risultato di interazioni complesse che coinvolgono personalità, aspettative, motivazioni, professionalità, contesto lavorativo, rete sociale. Comportamento individuale e contesto sociale si influenzano reciprocamente, così come le carenze teoriche influenzano le attività professionali. Per conoscere ed esplorare il tema del rischio e dell'errore in tirocinio è stata avviata un'indagine. Il lavoro prende in considerazione i diversi stakeholder del sistema formativo: coordinatori didattici delle sedi formative, tutor dei servizi e studenti. Per indagare sono stati elaborati uno strumento qualitativo e uno strumento quantitativo3. I questionari sono stati elaborati tenendo presente il percorso del tirocinante nel tirocinio, dall'ingresso nel servizio, alle relazioni che instaura, alle aspettative che hanno i professionisti e i malati nei suoi confronti, alla sua preparazione teorica, per poi affrontare i temi delle responsabilità, delle autonomie, del rischio e dell'errore. L'intento era accompagnare il tirocinante a rispondere alle domande, ma soprattutto offrire uno spazio per riflettere sull'esperienza e in particolare per riflettere su come percepisce e affronta il tema del rischio e dell'errore e sull'influenza che ha nel suo percorso di apprendimento. I questionari contengono le stesse domande (22 quesiti): il questionario qualitativo ha 3 Gli strumenti elaborati sono stati due: un questionario qualitativo e un questionario quantitativo rivolto ai tutor didattici delle sedi formative universitarie, ai tutor dei servizi e ai tirocinanti. Sono stati coinvolti per la compilazione dello strumento tre corsi di laurea: Corso di Laurea in fisioterapia dell’Università degli studi di Bologna; il Corso di Laurea in Ostetrica/o dell’Università degli studi di Bologna; il Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università degli Studi di Ferrara. Alla compilazione hanno partecipato gli studenti del triennio. Sono stati coinvolti per compilare il questionario qualitativo 45 studenti, 9 coordinatori didattici della sede formativa universitaria e 45 tutor dei servizi. Per quanto riguarda lo strumento quantitativo sono stati coinvolti per la compilazione: 135 studenti, 9 coordinatori didattici della sede formativa universitaria e 90 tutor dei servizi. I questionari, seguendo un percorso immaginario di tirocinio, affrontano le tematiche legate all’organizzazione, alle relazioni, alla sfera psicologica e infine alla preparazione dello studente. L’indagine è stata condotta nel 2014/15. 69 domande aperte, mentre nel questionario quantitativo le risposte sono state codificate. La compilazione era anonima. I questionari sono stati consegnati alle sedi formative universitarie e per mail ai tutor dei servizi dell'AUSL di Bologna. Ogni questionario era introdotto da una nota che spiegava le finalità dell'indagine. Una prima considerazione che si può fare, leggendo i dati, è che i tirocinanti si sono resi disponibili non solo a partecipare all'attività ma anche a raccontare la loro esperienza di tirocinio vissuta. Tuttavia, in generale si evince un certo limite di apertura, forse causato dal fatto che gli studenti non si sono sentiti completamente liberi di esprimersi e in qualche caso si sono limitati a raccontarsi dal punto di vista delle proprie competenze, rimanendo su un piano che si potrebbe definire accademico. 3. Il linguaggio utilizzato dagli studenti per raccontare le esperienze di tirocinio Ci sembra utile prestare attenzione al linguaggio utilizzato dai tirocinanti del Corso di Laurea in infermieristica nelle loro narrazioni. Linguaggio che può influenzare le relazioni. Le esperienze sono state raccolte attraverso l'utilizzo di un questionario qualitativo (traccia semi-strutturata) che ha guidato le narrazioni su specifici temi d'interesse e, nello specifico, li ha portati a trattare il tema del rischio e dell'errore. Interessante è l'analisi del linguaggio utilizzato e la frequenza delle parole. Le prime 50 espressioni più frequenti nelle storie dei tirocinanti sono le seguenti: Per quanto si tratti di dati quantitativi che vanno contestualizzati e integrati alle analisi qualitative, è significativo che le espressioni che ricorrono con maggior frequenza siano le parole "paziente/pazienti", a sottolineare l'importanza che l'incontro con le persone in cura ha avuto nell'esperienza di tirocinio. Ulteriore conferma anche dalle frequenze delle parole "persona/persone" e "rapporto". L'aspetto relazionale è predominante nelle esperienze di tirocinio, prevale anche rispetto alle esperienze assistenziali. Sono frequenti le espressioni "molto", "tanto", "sempre", "tutto/i/e", termini quantitativi piuttosto totalitari che servono a enfatizzare i concetti espressi. La loro ricorrente presenza è indicativa dell'importanza che ha avuto il tirocinio per gli studenti. Il terzo gruppo di espressioni più frequenti è il verbo "fare", "fatto", "agire", indicativo dell'importanza che ha per i tirocinanti la possibilità di mettere in pratica le conoscenze teoriche: una delle loro principali aspettative. 70 Le frequenti parole "preparato/a, preparazione" e "competenze", sottolineano una certa tensione nel sentirsi adeguatamente preparati o nel voler dimostrare le proprie conoscenze. Essendo il linguaggio molto disease-centered, le parole "terapia", "prelievo/i", "somministrazione" rientrano tra le pratiche cliniche che maggiormente impegnano i tirocinanti nelle loro attività. Tra le altre parole più frequenti, "collaborare", "collaborazione" rilevano l'importanza delle relazioni di équipe; "difficoltà"; "aspettano", "aspettarsi" rimandano alle aspettative percepite; "imparare", "rispetto", come uno dei valori maggiormente ricorrenti nelle storie; "autonomia", obiettivo a cui tendono i ragazzi, e "dovere" come impegno e responsabilità. Il linguaggio utilizzato nelle storie degli studenti è tendenzialmente uniforme e si può definire in parte "disease" ed in parte "illness4. La componente di disease è molto presente nella descrizione puntuale che i ragazzi fanno delle loro attività e anche nello stile linguistico adottato, spesso molto asciutto e sintetico, che lascia poco spazio allo sviluppo di considerazioni più ampie: «Mi occupo di prelievi, inserimento di CVP e del CV, rifacimento del letto, igiene perineale, preparazione e somministrazione della terapia, ECG, igiene del cavo orale, somministrazione del clistere a grande volume, rilevamento dei PV, intramuscolo, somministrazione dell'insulina per via intradermica». «Nel Centro prelievi ho eseguito sia l'accettazione e la presa in carico della persona registrandola nel sistema informatico e la raccolta di campioni, sia l'esecuzione dei prelievi ematici. Nel CMG ho svolto la rilevazione di PA, FC e glicemia, l'esecuzione di IM, medicazioni e somministrazione di farmaci EV, rifornimento e sistemazione della farmacia e dei dispositivi e collaboravo con il chirurgo durante le operazioni chirurgiche di piccola intensità». «Mi occupo dell'assistenza infermieristica del paziente chirurgico. Gestisco sia il preoperatorio (accoglienza, presa in carico, preparazione pre-operatoria), la degenza o post-operatorio del paziente in reparto (assistenza infermieristica di base, medicazioni, terapia, lato relazionale) e la dimissione». «In questo servizio mi impegno a garantire le cure primarie alla persona, e svolgo tutte le attività infermieristiche che la persona necessita in questo servizio. Svolgo le mie attività in base al turno lavorativo. In collaborazione o supervisione del mio tutor clinico inizio a distribuire la terapia e a rilevare parametri vitali della persona, controllo il suo stato di salute in quel momento, effettuo prelievi o altre tecniche se prescritte. In collaborazione con un infermiere o dell' OSS faccio le cure igieniche della persona, per il rifacimento del letto. Effettuo insieme al mio tutor clinico il giro visita con il medico, riferisco se ci sono referti di esami di laboratorio o altri esami diagnostici del paziente, se necessario faccio controllare e aggiornare dal medico il foglio terapia». 4 Le definizioni sono mutuate dalla Medicina Narrativa: “disease”(= malattia al centro): forniscono una descrizione precisa, puntuale e generalmente asciutta della situazione attraverso un linguaggio tecnico (come su una cartella clinica), che non lascia spazio a considerazioni più personali circa il proprio stato d'animo. Rivelano un imbarazzo di fondo, una scarsa abitudine a raccontarsi. “illness” (= l'esperienza della malattia al centro): raccontano le proprie emozioni, il vissuto dell’esperienza, analizzando e reinterpretando i ricordi del percorso di tirocinio. Rivelano la voglia di raccontarsi e di essere ascoltati. 71 In generale comunque gli aspetti di illness sono meno preponderanti rispetto a quelli di disease. Quello che si può notare è che talvolta le narrazioni iniziano con un linguaggio più disease-centered e gradualmente si aprono a considerazioni e riflessioni più inerenti alla personalizzazione dell'esperienza, a dimostrare una scarsa consuetudine a raccontarsi ma, nel contempo, la volontà di farlo e, forse, l'utilità di tale occasione di riflessione. La componente della "illness" è invece più presente quando si parla delle relazioni con i pazienti e l'equipe del servizio, o relativamente al significato dell'esperienza di tirocinio vissuta: «Ho avuto quasi l'impressione di star lì da una vita, perché sono riuscita a inserirmi benissimo con tutti: ovviamente quando ci si deve rapportare con tanta gente è normale che per alcuni si possa avere più simpatia rispetto ad altri». «Inizialmente mi sono ritrovata molto spaesata poiché non vi è stata una vera e propria accoglienza da parte del personale sanitario, ma con il tempo sono riuscita ad ambientarmi anche grazie a un paio di infermieri molto amichevoli e cordiali nei miei confronti». Sono comunque molti gli aspetti che emergono da questo lavoro e che potrebbero essere di utilità per la formazione e organizzazione delle esperienze di tirocinio, che rappresentano indubbiamente un momento di grande importanza per gli studenti, come confermato dalle loro narrazioni. 4. Analisi dei dati raccolti Tutti gli studenti del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università degli Studi di Ferrara, coinvolti nell'indagine, hanno compilato e inviato in forma anonima il questionario. Molti hanno sottolineato che essendo il questionario composto di molte domande, il tempo da dedicare non sempre era adeguato. L'età media degli studenti che hanno partecipato alla ricerca è di 23 anni, e prevalentemente frequentano il secondo o terzo anno del Corso di Laurea di in Infermieristica: 6% 41% I anno II anno III anno 53% Le esperienze di tirocinio raccontate sono state svolte nei seguenti servizi: Casa protetta, RSA, Servizio Medicina, Servizio Chirurgia, Medicina Riabilitativa, Geriatria, ASP, Servizio post acuti, Servizio Chirurgia e Urologia, Hospice, Servizio Ematologia, Servizio Chirurgia Trapianti. La maggior parte dei servizi frequentati fanno parte dell'AUSL di Bologna. Trattasi di contesti notevolmente differenti sia per la tipologia di cure erogate, sia per l'impostazione 72 organizzativa. Infatti, ci sono strutture con 0 fino a 90 posti letto e, per quanto riguarda le équipe, vengono descritti gruppi di lavoro dagli 8 ai 50 operatori. Il contesto a cui si riferiscono le risposte, fornite dai tirocinanti, sono le esperienze di tirocinio nei servizi frequentati nel periodo dell'indagine. Domanda n°1: Cosa sto trovando 41% 7 6 5 4 3 2 1 0 35% 23,5% 17,6% 17,6% 11,7% 5,8% 5,8% 5,8% Sono tendenzialmente positivi gli elementi descritti delle realtà in cui gli studenti hanno svolto i loro tirocini. Nella maggior parte sono sottolineati gli aspetti di organizzazione dei reparti, di collaborazione di équipe, di relazione con i pazienti, di preparazione professionale. In qualche caso i tirocinanti sottolineano la novità del contesto in cui ci si trova, un ambiente sconosciuto nel quale mettersi alla prova. Solo in poche storie viene sottolineata la negatività del luogo, per la scarsa collaborazione trovata o per le difficoltà oggettive e organizzative del reparto. Domanda n° 2: Mi guardo intorno e vedo… 35% 6 5 4 3 2 1 0 23,5% 17,6% 11,7% 11,7% 11,7% 5,8% 5,8% Sono in maggior parte positivi gli elementi descritti quando è chiesto agli studenti di indicare con più spontaneità le sensazioni che provano stando nell'ambiente di lavoro in cui svolgono il tirocinio. Ciò che viene maggiormente indicato è, di nuovo, l'aspetto organizzativo, ma anche il clima percepito, l'attenzione alle persone in cura. In qualche caso traspaiono sensazioni più negative, come, di nuovo, le difficoltà organizzative e lavorative dei servizi: 73 «Nel servizio guardandomi intorno vedo sanitari che svolgono le proprie attività. Sono rari gli episodi di confusione del reparto» «Tante persone bisognose di aiuto pratico e di relazionarsi, sfogare le loro preoccupazioni, le loro paure» «Vedo un'équipe con delle conoscenze, grande esperienza lavorativa, e con competenze non solo tecniche ma soprattutto relazionali, quelle di cui hanno maggiormente bisogno questi pazienti; ho visto davvero infermieri molto preparati, con tanta pazienza e tanta capacità di relazionarsi con queste persone che hanno bisogno di aiuto, ho visto proprio una relazione d'aiuto, e non solo tra gli operatori e i pazienti ma anche tra gli operatori e i familiari». Domanda n°3: A cosa presto attenzione… 58,8% 58,8% 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 17,6% 5,8% L'aspetto cui si presta più attenzione è quello relazionale, soprattutto rivolto al paziente. È inoltre oggetto di prioritaria attenzione tutto ciò che riguarda le pratiche, le manovre infermieristiche e la somministrazione delle terapie. In qualche caso è accennato il tema della sicurezza, sia personale sia dei pazienti; meno sentito è il tema dell'autonomia rispetto alle attività: «Presto molta attenzione soprattutto alla preparazione e somministrazione della terapia e durante tutte le procedute diagnostiche, terapeutiche ed assistenziali, per evitare complicanze» «Nella mia pratica quotidiana presto attenzione ad acquisire competenze tecniche, ma soprattutto cerco di concentrarmi molto nel campo relazionale, cerco di creare un rapporto d‘aiuto con la persona, di capire qual è il suo bisogno, e la cosa che faccio spesso è cercare di mettermi "nei suoi panni", o di pensare che lì ci fosse un mio familiare, questo mi porta a darmi quasi completamente verso quella persona» «Non considero prioritario un aspetto della mia pratica quotidiana in reparto rispetto ad un altro. Importante è per me l'ordine con il quale svolgo le mie attività» 74 «Presto attenzione a tutto quello che per me è nuovo e a tutto quello sul quale ho ancora dei dubbi. Esempi che potrei fare sono: i drenaggi epatici, a me sconosciuti fino all'arrivo in reparto; o determinate terapie come gli immunosoppressivi accompagnati dai loro effetti collaterali e dalle complicanze che provocano» «Gli approfondimenti relativi alle competenze intellettuali sono stati affrontati con il tutor e in alcuni casi con i medici, per le competenze gestuali e/o relazionali ho avuto un valido supporto da parte del tutor clinico». Domanda n°4: I miei punti di riferimento 16 14 12 10 8 6 4 2 0 88% 35% 23,5% 11,7% 5,8% Il punto di riferimento principale è il tutor o il coordinatore infermieristico di reparto, che concordano un piano di lavoro e seguono i tirocinanti giorno per giorno supervisionando costantemente il lavoro dei tirocinanti e i loro apprendimenti: «Il mio punto di riferimento durante questo tirocinio è stato la mia tutor clinica, perché con lei ho trascorso gran parte del tempo, lei mi ha spiegato con molta pazienza tutto ciò che riguarda l‘organizzazione del reparto. Mi è stata sempre vicino. Non mi sono sentita mai sola, anzi, mi ha sempre chiarito ogni dubbio. Con lei si è anche creato un bellissimo rapporto che non è solo quello di tutor-tirocinante. Mi ha ascoltato, mi è venuta incontro tutte le volte in cui ho avuto bisogno». In qualche caso gli studenti sono affiancati da infermieri e Operatore Socio-Sanitario (OSS); in rari casi direttamente dall'intera équipe. In un solo caso si parla di sostegno tra tirocinanti. 75 Domanda n° 5: L'inserimento nell'équipe… 12 64,7% 10 8 29,4% 6 29,4% 23,5% 4 11,7% 2 5,8% 0 L'inserimento nel gruppo di lavoro è considerato positivo nella maggior parte delle esperienze; in qualche caso si rileva la disponibilità degli operatori e l'immediatezza dell'inserimento. I tirocinanti raccontano di inserimenti difficili, per mancanza di una vera e propria accoglienza, per la gradualità del consolidamento delle relazioni e dell'instaurare rapporti di fiducia. In un solo caso è riportata un'esperienza in cui la tirocinante non è stata integrata nel gruppo di lavoro. Domanda n° 6: Il rapporto con i pazienti… 41% 7 6 29,4% 5 23,5% 4 3 11,7% 2 1 0 Rispetto, disponibilità, dialogo, ascolto Bellissimo, fanstastico, ottimo cercavo di dare Ci risposte ringraziavano, confortante I tirocinanti descrivono solo esperienze positive relativamente alle relazioni instaurate con i pazienti, fondate per lo più su rispetto reciproco, disponibilità, dialogo e ascolto. Per qualche studente instaurare una buona relazione ha rappresentato uno degli elementi di maggior soddisfazione dell'esperienza di tirocinio. In qualche caso si rileva la difficoltà a fornire risposte al paziente, poiché non sempre si hanno gli elementi per rispondere alle loro richieste. Per alcuni tirocinanti, è fonte di disagio. 76 Domanda n° 7: Il rapporto con la sede formativa… 70,5% 12 10 8 35% 6 23,5% 4 11,7% 2 0 Disponibilità, aiuto, presenza Non ne ho avuto bisogno Splendido, ottimo rapporto Fiducia, sincerità 5,8% Riferimento per difficoltà Molto positive sono le relazioni con i coordinatori della sede formativa universitaria. I tirocinanti evidenziano la disponibilità e la loro costante presenza durante l'esperienza. In alcuni casi gli studenti pongono l'accento su come l'esperienza positiva di tirocinio abbia fatto sì che non fosse necessario l'intervento dei coordinatori didattici. In altri casi è stato necessario un supporto per affrontare alcune difficoltà incontrate dal tirocinante. Domanda n° 8: Cosa si aspetta da me l'équipe… 19% 43% volontà di imparare, impegno preparazione, autonomia 38% correttezza, collaborazione Le aspettative che gli studenti percepiscono su di loro da parte dell'équipe riguardano prevalentemente: dimostrare l'interesse ad apprendere, essere responsabili e attenti durante le attività e garantire impegno quotidiano a trasferire nella pratica quanto appreso. Si attendono disponibilità, rispetto e collaborazione con il gruppo di lavoro. In qualche caso vengono sottolineate l'importanza della preparazione, delle competenze acquisite e l'autonomia nel caso di studenti del terzo anno, autonomia con supervisione: «L'equipe si aspetta che sia preparata e pronta a gestire il mio lavoro al meglio. I pazienti si aspettano che sappia quello che faccio e che mi occupi di loro» «Che sia preparata, affidabile e responsabile» «Che sia attenta, partecipe e curiosa» «Che sia professionale e collaborativa» 77 Domanda n°9: Cosa si aspettano da me i pazienti… Cosa si aspettano da me i pazienti 43% rispetto, ascolto, umanità 57% assistenza completa e competente È interessante notare come il tirocinante "legga" le aspettative del paziente. I pazienti, secondo i tirocinanti, si aspettano molto semplicemente di essere rispettati, ascoltati e curati con umanità. Altrettanto importante è la competenza professionale e la loro sicurezza. Le attese dei pazienti vengono lette come un mix equilibrato tra una buona relazione associata alla qualità dell'assistenza. Domanda n° 10: Le responsabilità… 16 88% 14 12 10 8 6 11,7% 4 11,7% 2 0 Pratiche infermieristiche corrette, attente, autonome Supporto morale ai pazienti Puntualità e professionalità 5,8% Non creare danni 5,8% Aiutare il personale Le responsabilità che gli studenti sentono di avere durante il tirocinio sono in gran parte legate alla preparazione e alla competenza nello svolgimento delle pratiche cliniche/assistenziali, di somministrazione corretta e attenta della terapia: «Prestare attenzione a quello che faccio, prestare attenzione alle consegne, sia a quelle che ricevi che a quelle che riferisci ai colleghi, affinché l'informazione sia completa, svolgere attività in maniera corretta sulla base di conoscenze pregresse e di evidenze scientifiche» 78 «Le responsabilità che mi sono state affidate riguardano essenzialmente la gestione delle pompe di infusione, dei cvc, quindi medicazioni, prelievi, tecniche per le quali ho raggiunto un buon livello di autonomia. Per quanto riguarda la terapia, soprattutto per la sua preparazione sono autonoma, mentre per l'infusione di chemioterapici collaboro col tutor o con gli altri infermieri in turno». Domanda n° 11: Criteri di autonomia… 35% 35% 6 5 4 17,6% 3 11,7% 11,7% 2 1 0 Sono stato osservato/a sono stato supervisionato/a nelle prime manovre autonomia basata su conoscenze teoriche autonomia basata su disponibilità tirocinante autonomia basata su livello difficoltà Il livello di autonomia dei tirocinanti, così come descritto nelle loro narrazioni, è generalmente definito dopo un periodo di osservazione, di collaborazione, di gestione dell'attività con supervisione. In rari casi l'autonomia si basa sul livello di conoscenze teoriche raggiunte fino a quel momento. Ci sono situazioni in cui al tirocinante viene accordata la possibilità di gestire l'attività in autonomia con la supervisione del tutor. Domanda n° 12: Quando mi sento a mio agio… 23,5% Quando mi sento a mio agio 4 3,5 17,6% 3 2,5 11,7% 11,7% 2 1,5 5,8% 5,8% 1 0,5 0 quando ho le quando sono conoscenze/mi con tutor sento preparato/a quando sono quando ho già quando lavoro quando lavoro con i pazienti fatto una in autonomia in un ambiente manovra collaborativo infermieristica Molte sono le situazioni in cui il tirocinante si sente a proprio agio. Le più comuni riguardano il livello di preparazione percepito: in altre parole gli studenti si sentono a loro agio quando sono chiamati a fare operazioni che conoscono e hanno già svolto in precedenza. Si sentono sicuri e in grado di gestire le situazioni quando sono accompagnati e seguiti dal proprio tutor. 79 Domanda n° 13: Quando non mi sento a mio agio… 23,5 Quando non mi sento a mio agio 4 3,5 17,6% 17,6% 3 2,5 2 1,5 5,8% 5,8% 5,8% 5,8% 1 0,5 0 quando svolgo per la prima volta una nuova manovra/affronto una nuova situazione quando sento di non essere preparato/non avere le conoscenze quando lavoro in autonomia/non sono con tutor quando mi sento osservato quando lavoro in un ambiente non collaborativo quando sono in un quando mi viene nuovo ambiente imposto qualcosa e non concordo Ci si sente a disagio quando si è chiamati a svolgere un'attività per la prima volta e non si ha la percezione di essere sufficientemente preparati. Non ci si sente sicuri ma a disagio quando ci si sente un po' abbandonati e non si ha il supporto diretto del tutor. Domanda n° 14: Quando ho dei dubbi… Quando ho dei dubbi 10% 10% chiedo a tutor/infermieri/equipe mi documento 80% non agisco È molto lineare la reazione descritta dai tirocinanti in caso di dubbi, prima di agire, si chiede aiuto al tutor di riferimento o in qualche caso anche a infermieri e professionisti dell'equipe presenti nel servizio. 80 Domanda n° 15: Quando sbaglio… 8 6 4 2 41% 23,5% 11,7% 11,7% 5,8% 5,8% 5,8% 5,8% ch ie do Ri fe ris c o a tu to r/ e. .. do ve ho ce sb rc a. .. o di rim ed ia re l o vie a m ne m so et tto to lin ea to m l.. is . en to in co va lp do a ne m ia lp rr an ab ico bi o co n m e. .. 0 Quando si sbaglia, il comportamento più diffuso da parte dei tirocinanti è quello di comunicare immediatamente al tutor e al resto dell'équipe, in modo da rimediare il più velocemente possibile. Uno studente riferisce: «Stavo facendo una manovra e capivo di non farla bene, ho chiesto aiuto. Capivo di non sapere fare quell'attività assistenziale e temevo la reazione del paziente. Siamo ancora studenti e siamo in apprendimento». Dopo l'intervento dei professionisti, il tirocinante chiede dove ha sbagliato e ripercorre descrivendo minuziosamente ciò che ha fatto per capire l'errore e soprattutto come porre rimedio e non sbagliare più in futuro: «Il mio tutor sottolinea spesso di chiedere, nel caso ci sia un dubbio, e che non disturbo mai, anche se è impegnata. Importante è che io comunichi la mia difficoltà o disagio. A volte basta uno sguardo per capirsi che quella pratica non l'ho mai fatta». In questo caso si può evidenziare che un buon rapporto mette nella condizione lo studente di chiedere aiuto e che questo non pregiudica la relazione di fiducia e di valutazione degli apprendimenti. In altri casi il tirocinante comunica: «Presto molto attenzione quando somministro i farmaci. Una piccola disattenzione può causare esiti molto gravi» La studentessa ci vuole segnalare che l'errore accade quando l'esecuzione è effettuata in modo "automatico", cioè seguendo uno schema ben consolidato, fino a una distrazione o al calo dell'attenzione. Un tirocinante racconta: «Quella mattina tutto girava vorticosamente, bisognava fare tutto e velocemente. Mi reco dal paziente, dovevo somministrare dei farmaci per endovena. Saluto il paziente, lo informo di quello che dovevo fare e poi proseguo. Terminata l'attività esco dalla stanza. Non appena varcata la soglia mi sento chiamare, torno indietro e il paziente mi fa notare che non avevo tolto l'ago dalla vena. Sarei voluto sprofondare…». Quando il tirocinante sbaglia e può correggere immediatamente l'errore non informa il tutor o il professionista presente in servizio. Il non informare il tutor da cosa dipende? Il tirocinante non ha dato il giusto peso a quello che accaduto? Nella fretta di svolgere altre attività ha dimenticato l'episodio? Il peso della vergogna era tale da non poterlo condividere? Ha avuto paura di un severo giudizio da parte del tutor e di perdere la sua fiducia?. Il tirocinante è consapevole di partire svantaggiato nel suo essere "neofita", ci tiene ad apparire affidabile, responsabile e degno di fiducia: l'essere degni di fiducia costituisce un 81 capitale simbolico importante. Si può pensare che una delle principali cause di mancata segnalazione possa essere il timore di perdere credibilità e affidabilità e, quindi, possa esserci una possibile sottostima di quanto ufficialmente dichiarato. Nella maggior parte dei casi le conseguenze non sono riscontrabili perché ritenute irrilevanti e si risolvono con la ripetizione della manovra infermieristica in questione, e con il fatto che i provvedimenti maggiori sono quelli di risolvere, attraverso chiarimenti e discussioni, l'episodio. Domanda n° 16: Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore… Quanto mi sento preparato al tema del rischio dell'errore 23% 31% poco abbastanza preparato/a 46% In generale gli studenti si sentono "abbastanza preparati" al tema del rischio dell'errore, più per le conoscenze teoriche acquisite nei laboratori attivati dalla sede formativa universitaria. I tirocinanti ricevono un'approfondita formazione teorica e hanno la possibilità di trasferire gli apprendimenti all'interno di laboratori simulando situazioni che comportano rischi. Un tirocinante racconta: «Preliminarmente all'invio in tirocinio mi sono state fornite informazioni riguardanti la sicurezza (anche addestramento all'uso dei DPI) e ai comportamenti da adottare in caso di infortunio (messa a disposizione di documentazione di ateneo e aziendale). Viene svolto un incontro precedente all'inizio del tirocinio, in cui siamo presenti tutti ( tutor clinico, studente e tutor didattico) e mi vengono fornite informazioni sulla sede di tirocinio anche relative a comportamenti da adottare in caso di criticità» Un altro tirocinante ci dice che «…le indicazioni di allert sono sempre da prendere in considerazione con una presa di coscienza a 360°…». «...il mio tutor mi dice che in situazioni critiche devo evitare di essere d'intralcio durante l 'intervento degli operatori sanitari per evitare errori». Al termine del tirocinio molti temi riguardanti il rischio e l'errore sono ripresi e chiariti nell'ambito della sede formativa universitaria 82 Domanda n° 17: Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze… Quanto mi sento preparato a livello di conoscenze 19% 25% poco abbastanza preparato/a 56% Gli studenti percepiscono di avere un buon livello di preparazione. Gli apprendimenti teorici sono, tendenzialmente, considerati sufficienti per affrontare l'esperienza di tirocinio: «Credo di aver acquisito le conoscenze di base per sostenere attività e problemi presenti nei servizi. Sono in grado di affrontarli e di valutare gli esiti del mio intervento positivi o negativi che siano. Naturalmente le attività devono essere coerenti con gli obiettivi di tirocinio e quindi con la mia preparazione». «Mi sento abbastanza preparato perché ho ricevuto le basi necessarie per svolgere il lavoro richiesto». Domanda n° 18: L'ascolto del paziente… 6% 6% 6% molto 6% 45% poco nessuno né troppo né poco si potrebbe fare di più dipende 31% Lo spazio dato all'ascolto del paziente e dei suoi famigliari si distribuisce tra contesti in cui viene data molta importanza e altri contesti in cui viene considerato "poco" il tempo messo a disposizione per il dialogo e l'ascolto delle persone in cura: …«L'ascolto è fondamentale per questo tipo di pazienti. Infatti, si cerca sempre di fermarsi quanto più è possibile, per fargli capire che noi siamo lì per loro e per aiutarli anche magari solo facendo una chiacchierata di pochi minuti: per loro può essere molto» «In questo servizio dove io sto svolgendo tirocinio tantissimo, non ho mai visto degli infermieri "correre" perché altrimenti non si riesce a finire la somministrazione della terapia, si dà molta più importanza all'ascolto della persona, possiamo dire che è una priorità». «Poche persone dell'équipe hanno capito quanto sia importante ascoltare il paziente. Spesso si crede di risolvere i problemi del paziente somministrandogli la terapia. Spesso il paziente ha bisogno di una parola in più, di un chiarimento in più, piuttosto che delle gocce per dormire. Ha bisogno magari di un sorriso quando si entra in camera per sentirsi più tranquillo e ha bisogno di risposte più dettagliate per contenere la sua ansia». 83 Domanda n° 19: L'ascolto tra gli operatori… L'ascolto tra gli operatori 6% 6% 44% molto/sempre poco/non sempre il giusto dipende 44% L'ascolto tra operatori delle equipe, in alcuni contesti è definito adeguato e continuativo, in altri descritto come molto limitato e discontinuo. Domanda n° 20: Cosa sto imparando… 29,4% 5 4,5 4 3,5 3 2,5 2 1,5 1 0,5 0 23,5% 17,6% 17,6% 11,7% 11,7% 5,8% 5,8% 5,8% 5,8% Sono molte e frammentate le descrizioni di quanto s'impara dall'esperienza di tirocinio. Una prima considerazione è che l'esperienza di tirocinio ha permesso ai tirocinanti di crescere dal punto professionale e personale. L'aspetto relazionale domina, sia relativamente alle relazioni con i pazienti, sia alle relazioni con i professionisti presenti nel servizio. Fondamentale è l'apprendimento di competenze tecniche e cliniche e l'importanza di lavorare in sicurezza. Non mancano riflessioni legate alla professione scelta sia come scoperta di un lavoro appassionante, impegnativo e utile, ma anche faticoso psicologicamente e fisicamente: «Sto imparando a svolgere le tecniche e i meccanismi farmacologici che ci sono dietro ad ogni farmaco». «Sto imparando che la responsabilità è il principio cardine di questo lavoro come tanti altri ed è fondamentale per agire in totale sicurezza». «Da questa esperienza ho imparato che il ruolo dell'infermiere è faticoso, è impegnativo soprattutto perché il lavoro del reparto non lo puoi lasciare lì ma è inevitabile pensarci quando si rientra a casa. Nonostante ciò penso che sia il mestiere adatto a me perché 84 sento di poter dare il meglio di me alle persone malate. Riesco a far sorridere un malato». «Penso che questa sia una professione che oltre a dare alla persona dà tanto anche a te. A volte quando torno a casa da questo "reparto" penso che tutte le altre mie cose sono nullità rispetto a ciò che vedo quando sono in tirocinio, penso che i miei piccoli problemini non sono niente. Da questa esperienza ho imparato tante cose, non riuscirei a descriverle per quante sono. Ho potuto vedere da vicino la sofferenza, capire che sono lì i veri "problemi" della vita… quest'esperienza mi ha aiutato a dare molta più importanza alle cose, a non prendere nulla in maniera superficiale, mi ha fatto crescere tanto non solo professionalmente, ma anche personalmente. Oltre a essere un periodo di apprendimento è stato anche un periodo di grande riflessione. Immagino il mio futuro percorso come una continua crescita, e spero di essere sempre un'infermiera paziente, fine della mia carriera lavorativa». «Sto imparando tantissime nozioni che mi porterò nel bagaglio della mia vita, e non solo di conoscenze teoriche ma anche l'importanza di instaurare i rapporti e di avere tanto amore con gli ospiti». «Sto imparando a lavorare bene in équipe, è fondamentale riconoscere tutti i bisogni della persona e saperli risolvere. Mi immagino in futuro un'infermiera competente, quindi preparata in tutti gli ambiti dell'assistenza al paziente, sia a livello delle conoscenze, sia per quanto riguarda quello delle competenze gestuali e relazionali». «Sto imparando molto, vivere quest'esperienza ha confermato la mia voglia di fare questo mestiere». Domanda n° 21: Un episodio in cui mi sono sentito/a in difficoltà… 17,6% 17,6% 17,6% 3 2,5 2 1,5 1 0,5 0 11,7% 11,7% 5,8% 5,8% 5,8% Tra gli episodi raccontati, le difficoltà maggiori sono descritte in situazioni in cui non si sa cosa dire o cosa fare di fronte al paziente, in altre parole non ci si sente in grado di fornirgli la risposta che chiede. Ciò crea un forte disagio e sentimento di frustrazione nei tirocinanti: «Per la mia esperienza svolta mi sono sentita poco soddisfatta poco seguita e quindi in alcuni casi mi sono trovata in difficoltà: difficoltà con l'équipe, con i familiari e alcune volte con le consegne. Spero che la mia seconda esperienza di tirocinio sarà più formativa e soddisfacente di questa esperienza». 85 «Da questa esperienza di tirocinio, immagino un percorso difficile per me, che ho sempre fatto fatica a studiare materie scientifiche». I tirocinanti riferiscono difficoltà relative alla qualità dell'esperienza del tirocinio, alle relazioni instaurate e che le difficoltà incontrate possano rimettere in discussione la scelta formativa. In altri casi le difficoltà sono diverse: «Ho provato, riprovato tante volte le tecniche sul manichino in sala simulazione. I docenti spiegavano come fare e come comportarsi. Mi mette ansia sbagliare. Lavorare sul manichino è diverso: non reagisce, non prova dolore e se sbaglio non succede nulla. Con la persona che sta male è tutta un'altra cosa». Affrontare un problema pratico risulta spesso più complesso che affrontare una situazione di natura tecnica o scientifica. Prendere una decisione ha delle implicazioni, come ben dice il nostro tirocinante. Una decisione, una volta presa, segue il suo corso e se sbagli non può essere annullata. L'azione messa in campo è imprevedibile e illimitata, una volta realizzata non si è più padroni delle conseguenze. Non esiste un sapere capace di prevedere l'imprevedibile dell'agire umano5 (Mortari, 2003.). Il sapere di cui si nutre l'esperienza è un sapere che si costruisce con l'esperienza, cioè stando in un rapporto pensoso con quel che accade (Idem, 2003). Partecipare e agire nei contesti di cura non è sufficiente perché l'esperienza si trasformi in sapere. Costruire sapere partendo dall'esperienza richiede la capacità di riflettere su quello che si è fatto: solo così si elabora sapere. L'esperienza prende forma quando diventa riflessione e l'individuo se ne appropria consapevolmente per capirne il senso. Il soggetto "riflette in azione" e riflette sull'azione; non è più solo un esperto di contenuti ma diventa un "professionista riflessivo" come afferma Schön (1993) e condividendo con altri la sua esperienza rende visibile la sua maestria professionale. Il professionista, rispetto al tirocinante, è capace di costruire sapere dall'esperienza attraverso la capacità di riflettere sull'esperienza vissuta. La riflessione trasforma la routine in esperienza, riflessione, narrazione. Domanda n° 22: Quando torno a casa mi sento… 4% 4% 4% 4% 4% soddisfatto, appagato stanco/a 43% 11% felice, bene tranquillo motivato utile poco soddisfatto/a 26% arrabbiato/a La sensazione maggiormente descritta dagli studenti al termine delle loro giornate di tirocinio è di soddisfazione per quanto appreso e svolto. In generale prevale una sensazione di positività nei confronti dell'esperienza: «Mi sento bene (tranne situazioni eccezionali), perché so di essere stata bene in quelle 7 ore». 5 In pochi casi i tirocinanti riferiscono: «…Ho imparato che» 86 «So di aver creato buoni rapporti». «Ho aiutato e sono stata utile». «Mi piace pensare che il giorno dopo mi alzerò con la voglia di andare a vedere come sta quel paziente che è stato operato, o di andare a salutare quello che fortunatamente sarà dimesso». «Ho imparato tanto, ho rafforzato molte competenze». A volte si torna a casa con dubbi rispetto alla scelta professionale: «Devo prepararmi di più a livello di conoscenze, e ho ancora tanto da imparare in ambito relazionale ma anche tecnico. Avrò fatto la scelta giusta?...». In molti casi riferiscono stanchezza, per l'intensità emotiva e i ritmi di lavoro cui comprensibilmente gli studenti non sono ancora abituati; riferiscono di situazioni (ad es. nel lavoro con i bambini) che lasciano "strascichi emotivi importanti", situazioni sulle quali si continua a riflettere anche a casa. 5. Per non concludere. Il tutor e il gruppo di lavoro come risorsa per costruire la cultura del rischio e dell'errore Quello che emerge dalla ricerca è un quadro abbastanza rassicurante: gli studenti riferiscono di avere una formazione adeguata per affrontare le attività che dovranno svolgere nei servizi; sentono di essere preparati anche sui temi che riguardano la sicurezza del paziente. Nei racconti degli studenti emerge l'importanza del clima presente nei servizi e delle relazioni di fiducia che s'instaurano con i tutor e il gruppo di lavoro. Ciò permette ai tirocinanti di essere liberi di raccontare gli errori, di farsi correggere e di riflettere sull'accaduto. L'errore ha connaturata in sé una forza che, se interpretata ed impiegata nel modo corretto, si palesa come strumento di incredibile utilità nel processo conoscitivo e di crescita personale. L'impiego negativo dell'errore porta allo svilimento, impotenza e frustrazione nel tirocinante. È, perciò, importante che il tutor e il gruppo di lavoro sostengano lo studente nel suo percorso di indagine per individuare le cause dell'errore. Questo ci permette di dire che in tirocinio l'interazione e lo scambio che avvengono tra i vari attori sono fonte di arricchimento e crescita. Ciò che il tirocinante riceve dai tutor e/o dai colleghi, come risposta a una sua azione o atteggiamento, costituisce un feedback necessario e indispensabile per favorire il suo apprendimento. L'apprendimento6, come quello che avviene in tirocinio, è un processo di costruzione, non solo personale, ma frutto di un processo dinamico, scaturito dall'interazione con gli 6 Per Lave, Wenger, 2006, i principi di fondo dell’apprendimento situato sono: la conoscenza deve essere presentata in un ambiente realistico, dove tipicamente quel tipo di conoscenza è richiesto; l’apprendimento si verifica come funzione dell’attività, del contesto e della cultura in cui avviene; l’apprendimento richiede l’interazione sociale e collaborazione. L’apprendimento si sviluppa normalmente come risultato del coinvolgimento in attività; in precisi contesti; nel rapporto con le persone. 87 oggetti e con gli individui; l'apprendimento è quindi il risultato di una condivisione della conoscenza. Nel tirocinio, l'apprendimento non si configura come una pratica individuale e svincolata dalle dinamiche e dal contesto di appartenenza, ma avviene attraverso attività sociali e partecipative. La partecipazione del tirocinante alle attività dei servizi, così come viene descritta nell'indagine, è graduale per far sì che non siano coinvolti e pressati dalla responsabilità, dalla paura, dall'errore e dalla fatica. I compiti inizialmente sono semplici e il costo degli errori è basso. Il tirocinante nel frattempo si appropria del sapere sociale disponibile: ruotine tecniche, tradizioni lavorative, gerghi, rituali, trucchi del mestiere, conoscenze tacite che caratterizzano l'esperienza e la cultura del gruppo. Con il passare del tempo e delle competenze acquisite la partecipazione da periferica diventa legittima. Essendo il tirocinante in formazione sarà sempre supervisionato. Accade, però, che il tirocinante, anche se tutelato, affiancato, commetta errori. La paura di sbagliare può indurre nello studente uno stato d'ansia che non gli permette di affrontare in modo adeguato le situazioni che deve affrontare. Spesso non comunica il suo disagio per evitare di essere esposto al giudizio del tutor e del gruppo di lavoro. Il non condividere la scelta errata fa sì che il tirocinante viva una situazione di incertezza e di inquietudine e sarà destinato, in solitudine, a doverne sopportare il peso. Il tutor o il gruppo di lavoro che riusciranno ad intercettare il disagio, interverranno sostenendo il tirocinante nella rielaborazione e nella condivisione dell'errore. Il tirocinante, in questo caso, si sentirà sollevato dal peso degli eventi, riavviando il processo conoscitivo interrotto: «Ciò che ostacola maggiormente l'apprendimento esplorativo è la pressione a fingere che gli errori non esistano. Per parlare dei propri errori è necessario sentirsi al sicuro. Occorre avere la sensazione che la squadra consenta ai propri componenti di assumere rischi interpersonali. I membri del team si rispettano l'un l'altro e si tengono reciprocamente in considerazione? Nutrono la certezza di non essere rimproverati, emarginati o penalizzati se faranno sentire la propria voce, o sfideranno prassi comuni o opinioni predominanti?» Questo ci fa capire quanto sia importante l'atteggiamento che il tutor, il gruppo di lavoro hanno nel considerare e affrontare gli errori e se la cultura presente permetta, ai professionisti, di sentirsi a proprio agio quando ammettono e analizzano i propri errori. Se la cultura è quella della curiosità verso l'inatteso e dell'interrogarsi su ciò che è avvenuto per pervenire a nuove soluzioni, il tirocinante si sentirà sicuro e più incline a confrontarsi e discutere apertamente degli errori. Un suggerimento che si potrebbe dare alle organizzazioni che accolgono tirocinanti è di stimolare la ricerca e la catalogazione degli eventi e per analogia si potrebbe pensare a una estensione ai gruppi di audit di risk management anche nella formazione professionale di base. Altro aspetto da considerare è la persona che compie l'azione. Alcune persone hanno più probabilità di commettere errori per motivi costitutivi. Il tutor deve essere in grado di capire le caratteristiche del tirocinante (se è accurato, determinato, perfezionista, superficiale, ecc.) che dovrà seguire per impostare, supervisionare le attività e i livelli di autonomia. Il tirocinante, se vuole ottenere l'autonomia, deve aver presente che la responsabilità delle proprie scelte la si assume in modo concreto non solamente accettando le conseguenze degli esiti, ma impegnandosi con rigore e pazienza nel processo della loro realizzazione. Essa è favorita da un atteggiamento prudente e dalla capacità di riflettere su se stessi e sulle situazioni che si sono presentate. Scegliere di intervenire con prudenza vuol 88 dire non solamente farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni una volta compiute, ma esercitare su di esse un vaglio critico prima che avvengano, così da poter ridurre al minimo le conseguenze negative. Altri fattori che possono aumentare o ridurre la probabilità di errore sono: la disattenzione, la fretta, la distrazione, la stanchezza. Spesso, i tirocinanti hanno evidenziato che quando erano stanchi hanno avvertito che stavano sbagliando. Se poi nel gruppo di lavoro c'è tensione o si è sottoposti a stress o a un carico di lavoro percepito come impegnativo c'è più probabilità di commettere errori. Altri elementi fonte di errori sono le interruzioni, la perdita di concentrazione, la scarsa comunicazione. Educare a coltivare il dubbio Un tema importante e individuato dai tirocinanti è il tema della fiducia. Fiducia nelle proprie possibilità; fiducia che il gruppo di lavoro mantiene nei loro confronti nonostante la rilevazione di un errore commesso. Spesso il tirocinante avverte la sua fallibilità e l'accetta. Questo non deve portare all'umiliazione della persona, che finisce con il percepirsi inadeguata in ogni situazione, ma essere a sua disposizione per verificare, controllare e rielaborare le proprie idee per migliorarle. La validità delle idee è sempre soggetta al dubbio. Per tentare di raggiungere la conoscenza, dobbiamo imparare che l'unico strumento valido è il dubbio. Il dubbio è il catalizzatore della mente, il compagno di viaggio che ci permette di individuare scelte che possiamo condividere e riformulare in relazione alla crescente consapevolezza. Il dubbio frena, limita, modula le nostre azioni; nello stesso tempo, il fermarsi ci permette di riflettere su quello che stiamo facendo. Il dubbio alimenta la curiosità, la ricerca di percorsi alternativi e costringe l'uomo a produrre conoscenza. L'uomo ha bisogno di certezze e sicurezze necessarie per intervenire e operare scelte. Una risposta potrebbe essere quella di ricorrere al confronto con i colleghi. Altra risposta potrebbe essere quella di raccogliere elementi, sistematizzarli per determinare conclusioni. Conclusioni momentanee, perché è sempre necessario riattivare il processo per nuove scoperte. Naturalmente non si può vivere solo di dubbio: la vita sarebbe molto faticosa. Convivere con il dubbio è possibile se ne vediamo l'utilità e se è sostenuto da credenze, valori e comportamenti. Le credenze rispondono alla domanda di vero o falso, i valori sono credenze specifiche che agiscono come principi guida: coraggio, disciplina, rispetto per gli altri, integrità, lealtà. Il dubbio consente all'individuo e al gruppo di condividere credenze fondamentali che influenzano comportamenti e decisioni (si veda Aparo U.L. e Aparo A., 2001). Educhiamo i nostri studenti a conoscere e utilizzare i protocolli, linee guida presenti nelle organizzazioni: questo servirà a eliminare dubbi su comportamenti e scelte. Eliminare, però, il dubbio serve a far funzionare le persone, non a farle pensare. È importante coltivare il dubbio, il dubbio come metodo, il dubbio come necessità di fronte a situazioni che non padroneggiamo o di fronte a questioni etiche. E infine, non si deve temere l'errore e nemmeno amarlo, sicuramente bisogna gestirlo. Semplicemente non si deve averne paura, così da riuscire a contenere il disagio che, inevitabilmente, crea a ogni persona impegnata in un qualsiasi tipo di cammino di conoscenza. Solamente assunta questa prospettiva, potremo trarre da esso tutto il beneficio che può offrire. 89 6. Bibliografia Aparo U.L., Aparo A. (2001), Alla ricerca del dubbio perduto, 37 Congresso Nazionale ANMDO, Gestire il futuro in sanità. Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci. Binanti L. (2005), Sbagliando s'impara. Una rivalutazione dell'errore, Roma, Armando Editore. Di Renzo R., Bellamio D.(2011), "Mappe per un viaggio di formazione", in Di Renzo R., Scandella O., (a cura di) Pratiche in viaggio. La tutorship nella sanità in Italia e in Europa, edito da Azienda USL di Bologna Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, Bologna, Il Mulino. Lave J., Wenger E. (2006), L'apprendimento situato, Trento, Erickson. Luhmann N. (1996), Sociologia del rischio, Milano, Bruno Mondadori. Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma, Carocci. Murri A. (1972), Quattro lezioni e una perizia, Bologna, Zanichelli Editore. Schön D.A. (1993), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Bari, Dedalo. 90 INTERVISTA ALLA DOTTORESSA FRANCESCA PASINELLI DIRETTORE GENERALE DI TELETHON1 a cura di Daria Marinangeli, Roberto Pezzoni e Giovanni Gaetano Reale Premessa Abbiamo proposto alla Dr.ssa Pasinelli, Direttore Generale della Fondazione Telethon (Ente senza scopo di lucro riconosciuto dal Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica), un'intervista sul tema della gestione degli effetti indesiderati (termine con il quale noi curatori designiamo errori, eventi negativi, opportunità perse, risultati insoddisfacenti nelle organizzazioni). Ci è parso interessante conoscere e comprendere come vengono gestiti gli errori, come si apprende dagli eventi negativi, come si superano i risultati non soddisfacenti, se è presente la cultura della colpevolizzazione delle persone nel contesto di un'organizzazione come Telethon, che si distingue per l'eccellenza e l'internazionalizzazione della ricerca scientifica, e per il fatto di rappresentare un modello organizzativo evoluto nel mondo del non profit. Ci parli in generale di Telethon e della sua struttura «Indubbiamente la Fondazione Telethon può essere vista come un'azienda a tutti gli effetti, se non addirittura come una public company: oltre ad avere un consiglio di amministrazione, organi di controllo di consulenza, pur non avendone l'obbligo, aderiamo alla Legge 231 per la Disciplina delle persone giuridiche e pubblichiamo regolarmente il bilancio. Un bilancio che non concepiamo, come spesso accade nel mondo non profit, come la semplice dimostrazione su carta che "spendiamo tanto quanto raccogliamo". Piuttosto è il rendiconto del nostro operato nei confronti di pazienti e donatori, che rappresentano, di fatto, i nostri principali azionisti. Il nostro bilancio descrive come cerchiamo di massimizzare la quantità di denaro che investiamo in programmi di ricerca, ma anche come tendiamo a un profitto di tipo qualitativo. Non ci basta cioè finanziare dell'ottima ricerca: di per sé questa è un'operazione meritoria, ma non è ciò che promettiamo all'investitore nel momento in cui gli chiediamo del denaro, ovvero fare del nostro meglio per trovare una cura alle malattie genetiche. Non 1 Intervista effettuata a Milano, il 9 luglio 2015. 91 possiamo promettere la cura, perché quando si fa ricerca non si può in alcun modo garantire al 100% di raggiungere i risultati auspicati: quello che possiamo promettere è di mettere in campo le migliori competenze disponibili per perseguire l'obiettivo. Non solo: se la nostra missione è far avanzare la ricerca verso la cura delle malattie genetiche, la visione è di renderne fruibili i risultati ai pazienti di oggi e di domani, anche grazie al coinvolgimento di industrie farmaceutiche. In questo scenario, tutte le attività della Fondazione (risorse umane, raccolta fondi, amministrazione finanza e controllo) sono gestite proprio come in un'azienda multinazionale, per quanto il sistema di valori ispirante sia diverso. Dal mio punto di vista, uno dei grandi errori del non profit è di sentirsi legittimato dalle "buone intenzioni": chi l'ha detto che nel non profit non bisogna controllare le ore di lavoro, pretendere competenze specifiche e valutare in modo stringente le performance? Noi cerchiamo di farlo con lo stesso rigore con cui viene speso il denaro che ci viene affidato dai donatori». Qui emerge il rischio di un possibile errore… «Esatto uno degli errori più comuni fatti in passato è stato sottovalutare questo aspetto nel reclutamento del personale: non è vero che in un'organizzazione come la nostra si lavora meno, anzi. Può capitare di dover lavorare nel fine settimana, quando si organizza buona parte della raccolta fondi: ecco allora che può capitare di dover passare la domenica a una partita in una città di provincia dove la comunità è molto generosa e ricca ed è importante esserci per gratificarla. Più in generale, per quanto ormai il nostro sistema di reclutamento del personale si basi su procedure stringenti, che prevedono una valutazione di competenze sia tecniche sia manageriali e coinvolgono diversi livelli organizzativi nella scelta, non nascondo che abbiamo fatto anche degli errori, essenzialmente perché abbiamo sottovalutato aspetti importanti. Anche nel caso del finanziamento della ricerca scientifica accade talvolta di constatare di aver finanziato progetti che non lo meritavano. Tuttavia, nell'ambito del nostro processo di valutazione, mutuato peraltro dai modelli anglosassoni, la possibilità di errore è prevista fin dall'inizio: il sistema è quindi costruito prevedendo tutte le azioni e le correzioni in grado di minimizzare l'errore, ma sempre nella consapevolezza che non lo si può azzerare. Quello che invece caratterizza molti concorsi dell'accademia italiana, e che produce anche storture gravissime, è la pretesa di giudicare la bontà di una ricerca o di una carriera scientifica senza commettere errori e all'insegna dell'assoluta oggettività: praticamente impossibile se a valutare è un essere umano». Chi sono i ricercatori che valutano i progetti? «La nostra Commissione medico-scientifica è costituita da 30-35 persone, che perlopiù non lavorano in Italia, sempre per minimizzare il rischio di un conflitto di interesse. Questo non per esterofilia, ma semplicemente perché l'Italia è un paese piccolo ed è difficile pensare di finanziare i ricercatori più bravi e averne contemporaneamente di altrettanto validi in commissione. Per questo li scegliamo fuori, ma ne manteniamo un paio attivi in Italia perché possano far presente agli altri le specificità del contesto nostrano. Tuttavia, per quanto competenti, questo gruppo di ricercatori non può coprire tutto il panorama delle conoscenze: è per questo che, grazie al lavoro dei program manager, individuiamo ulteriori revisori esterni a cui chiediamo di mandare una relazione scritta sul progetto che si aggiunge così al giudizio dei membri della Commissione. A oggi abbiamo contattato circa 8500 revisori in giro per il mondo». Può spiegarci come, nel vostro sistema, vengono minimizzati gli errori? «Il primo elemento è un bando scritto in modo chiaro, che espliciti in modo inequivocabile che cosa ci si attende dai ricercatori, nonché le modalità e le regole con cui i progetti di 92 ricerca saranno valutati. Altro elemento importante è una squadra di persone esperte della materia che possano valutare i progetti, i cosiddetti peer: scienziati ancora attivi che lavorino prevalentemente all'estero, realmente esperti di quello specifico settore e privi di evidenti conflitti di interesse (in accordo, per esempio, con regole da noi stabilite sui rapporti professionali e personali tra valutatore e valutato). Riguardo invece all'assegnazione dei progetti ai valutatori, va affidata a un'agenzia di finanziamento che faccia da intermediario e non, come spesso accade nei programmi di valutazione italiani, chiedendo ai revisori di una lista stilata in precedenza quali progetti vogliono valutare. Questo mette seriamente a rischio il processo, perché la scelta di un revisore di un progetto può dipendere dal fatto che il valutato è un suo amico (o un suo nemico), oppure dall'interesse a voler acquisire informazioni sul suo lavoro. È per questo che in Telethon abbiamo una squadra di program manager che sono tutti exricercatori e lavorano con i nostri advisor esterni per scrivere il bando, curarne la parte amministrativa e, soprattutto, assegnare i progetti ai revisori adeguati. In questo modo si separa davvero il valutato dal valutatore e, ancora una volta, si riduce ulteriormente il margine di errore. Inoltre, ciascun progetto viene esaminato non da uno, ma da almeno tre valutatori diversi, che inizialmente esaminano il progetto a casa loro, ma poi sono chiamati a discuterlo insieme a tutti gli altri in una riunione plenaria che organizziamo presso la nostra sede: se ci limitassimo a fare la media dei voti non saremmo infatti in grado di "intercettare" eventuali storture dovute per esempio al fatto che un revisore non è del tutto preparato o ha un conflitto di interesse. La discussione, moderata da un chairman e registrata, prevede che ciascun progetto sia presentato a tutti dai revisori che lo hanno esaminato a casa, che possono anche essere in disaccordo sul giudizio: ciascuno è invitato a esporre agli altri le proprie argomentazioni nell'ottica di arrivare al consenso. Ricordiamoci che una discussione faccia a faccia tra pari scoraggia eventuali posizioni "disoneste", perché la reputazione in contesti come questi è molto preziosa. Una volta fatta la media dei voti dei tre revisori, tutti gli altri sono chiamati a esprimersi a loro volta: questo permette di annullare le possibili distorsioni nel caso in cui non si sia generato il consenso e i voti dei revisori rimangano distanti. Se anche tra gli altri rileviamo un voto molto distante da quello medio chiediamo a chi lo ha espresso di motivarlo davanti a tutti. Le posizioni molto divergenti sono legittime, ma devono essere motivate, sempre, per minimizzare il rischio di errore». Come comunicate ai ricercatori l'esito del processo di valutazione? «Ciascun ricercatore il cui progetto sia stato discusso nella plenaria riceve un documento che contiene una premessa uguale per tutti con le informazioni generali (totale delle richieste di finanziamento pervenute, numero delle proposte escluse per ragioni amministrative, totale dei revisori contattati, tasso di successo), più un focus specifico sul progetto (riassunto dell'eventuale discussione, commenti di ciascun revisore precedentemente resi anonimi, posizione ottenuta dal progetto nella classifica finale). Questo feedback così completo può certamente suscitare qualche critica da parte dei ricercatori, ma sempre in modo costruttivo e, soprattutto, li aiuta nel ripresentare il proprio progetto l'anno successivo in caso di mancato finanziamento. Questo accade abbastanza spesso, perché i suggerimenti ricevuti si rivelano utili per migliorare la proposta. Un'ulteriore conferma del valore di questo processo è la certificazione di qualità secondo la ISO 9001». 93 Torniamo ai progetti che, a posteriori, avreste fatto meglio a non finanziare: avete in qualche modo fatto tesoro di questa erronea valutazione e adottato delle correzioni? «In questo senso, una delle cose più importanti che abbiamo compreso analizzando i nostri investimenti sbagliati è stata la necessità, a un certo punto, di coinvolgere l'industria. Il processo che porta dalla malattia alla possibile cura implica inizialmente molta ricerca di base, che permette di indagare i meccanismi alla base della patologia ma che può apparire molto lontana dal paziente. Per questo abbiamo iniziato a chiedere ai ricercatori uno sforzo nell'identificare il possibile impatto futuro dei loro progetti, perché per quanto sacrosanta sia la libertà di ricerca non possiamo perdere di vista la nostra missione. Alla ricerca di base segue quella pre-clinica, che precede la prova sull'uomo e può essere definita traslazionale in quanto lascia intravedere un ambito applicativo: in questo ambito, oltre a generare conoscenza si studia una potenziale terapia su un opportuno modello animale. Quando poi una terapia dovesse dimostrarsi efficace e sicura nel modello animale di riferimento, si arriva alla ricerca clinica, che prevede la sperimentazione nell'uomo. Nel 2009 ci siamo ritrovati di fronte a un bivio: disponevamo di una terapia efficace per una rarissima malattia ma non sapevamo come renderla disponibile a tutti. Si trattava in particolare della terapia genica per una grave e rara immunodeficienza di origine genetica, che rende i bambini affetti estremamente vulnerabili anche nel caso di infezioni banali come l'influenza. La terapia genica messa a punto in uno dei nostri istituti si era dimostrata efficace e sicura già in dieci bambini. A quel punto, il progetto di ricerca si era concluso positivamente e Telethon, in teoria, aveva esaurito il proprio compito. Ma cosa dire agli altri pazienti giunti alla nostra attenzione? Trattarli sarebbe stato doveroso, ma dove trovare le risorse senza sottrarre fondi a tutto il resto, compresi altri progetti di ricerca clinica? Le tradizionali attività di raccolta fondi non sarebbero bastate, non solo per la sopraggiunta crisi economica. Così siamo andati a bussare alla porta di una grande industria farmaceutica, offrendo loro un'opportunità: una terapia bella e sviluppata con competenze dallo standard elevato, che avrebbe permesso di curare una tantum bambini privi di altre opportunità. Ma che soprattutto avrebbe permesso all'industria di disporre di una tecnologia innovativa e competitiva applicabile non solo ad altre malattie genetiche (erano già sei allora le altre malattie studiate nel nostro istituto), ma anche in futuro a patologie ben più diffuse come i tumori. Nel 2010 abbiamo così siglato un accordo che definirei storico: l'azienda ha preso in licenza la terapia e ha fatto l'investimento produttivo necessario per farla diventare un farmaco. Nel maggio del 2015 ha presentato all'Agenzia europea del farmaco il dossier di registrazione e contiamo che entro la prossima estate questa terapia possa diventare fruibile dai pazienti di tutto il mondo. Parallelamente, i fondi che l'azienda ci ha dato per l'esercizio della licenza di questa terapia sono stati investiti in altri programmi di ricerca clinica e, secondo l'accordo, l'azienda potrà ulteriormente esercitare l'opzione di licenza in caso di risultati positivi. Il contratto prevede comunque che, qualora per ragioni strategiche di vario tipo l'industria decidesse di ritirarsi e non sviluppare più quella terapia, Telethon ritornerebbe in possesso di quanto sviluppato fino a quel momento. In questo modo non verrebbe vanificato alcun investimento ma soprattutto siamo riusciti a rendere sostenibile anche per noi una ricerca costosa come quella clinica». Cos'è successo poi? «Da allora abbiamo fatto altri accordi di questo tipo, con grosse multinazionali americane. È chiaro che alleanze di questo genere espongono a un rischio reputazionale altissimo, soprattutto in un paese un po' ideologico come l'Italia. Abbiamo però deciso di assumerci questo rischio, spiegando in modo trasparente le ragioni del nostro operato: per mantenere fino in fondo la promessa della cura nei confronti dei pazienti dobbiamo assicurarci che le terapie eventualmente sviluppate grazie alla ricerca da noi finanziata siano concretamente 94 prodotte e distribuite continuativamente nel mondo. Questo, fino a prova contraria è il mestiere dell'industria farmaceutica, non di una charity come noi. Ad ogni modo, pur avendo previsto nei dettagli la gestione di questo potenziale rischio reputazionale, non abbiamo mai avuto problemi in questo senso, anche perché la comunità dei pazienti è dalla nostra parte. È innegabile che le malattie rare non siano particolarmente interessanti per l'industria farmaceutica. Però noi abbiamo dimostrato che prendendoci carico di un pezzo di percorso con standard di grado industriale si può attirare il loro interesse: non solo hanno un risultato che non devono replicare, ma possono farlo proprio con investimento contenuto e accedere così a tecnologie molto competitive, nonché rispondere a logiche di responsabilità sociale di impresa. Un altro aspetto da considerare è che questi sono soldi industriali stranieri che vengono investiti in ricerca accademica italiana: un esempio su tutti in questo senso è l'investimento di 17 milioni di euro fatto da un'azienda americana nel nostro Istituto di Pozzuoli, vero fiore all'occhiello della ricerca del Sud». Tornado invece ai dipendenti di Telethon, che rapporto hanno secondo lei con l'errore? «Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto sulla condivisione e il confronto, grazie al lavoro di gruppo, al ricorso a consulenze esterne, corsi di formazione e di coaching, oltre alla creazione di un comitato esecutivo formato da me con i miei primi riporti. È chiaro a tutti che l'errore è sempre possibile, ma bisogna lavorare insieme per controllarlo e correggerlo. Adesso questa visione è diffusa almeno fino alla mia seconda linea di riporto, ma non sempre fino a tutti i loro collaboratori. La fatica maggiore è stata nell'ottenere una linea di secondi riporti omogenea, che si assumesse la sua quota di responsabilità manageriale e non si limitasse a dire: "Il Telethon ci deve dire cosa dobbiamo fare". Adesso questa linea di pensiero è molto molto solida e si sta diffondendo in maniera capillare, però non è sempre e completamente condivisa. Per esempio stiamo cercando di derubricare la cultura del "non l'ho fatto apposta": questo tipo di errori sottendono spesso l'essere approssimativi e la mancanza di proattività. Questa secondo me resta la principale fonte di errore ed è l'aspetto su cui stiamo lavorando di più, perché tutti tendano al miglioramento continuo e, di conseguenza, alla minimizzazione dell'errore. La nostra reputazione è di fondamentale importanza, sia che interagiamo con i donatori che con i ricercatori che finanziamo. Non possiamo permetterci, per esempio, di scrivere una lettera di ringraziamento con refusi, oppure di dare un feedback incompleto o approssimativo a uno scienziato. Nessuno è un passacarte neutro, tutti hanno la responsabilità di garantire l'immagine dell'ente per cui lavorano. Qualunque errore va a danno dell'organizzazione e non del premio che un dipendente può percepire o meno. Cerchiamo di alzare sempre un pochino l'asticella». Capita in Telethon che le persone scarichino le responsabilità sugli altri? «Questo può sempre accadere, però esistono degli strumenti per promuovere l'assunzione di responsabilità da parte del singolo, come per esempio il sistema degli obiettivi individuali. Nel corso dell'anno facciamo colloqui individuali in cui le persone sono chiamate a rendere conto di quello che hanno fatto. Chiaramente è parte del lavoro del capo intercettare, anche in corso d'opera, eventuali mancanze in questo senso, quando il presidio dell'attività è venuto a mancare. Il capo deve essere un mentore continuo: questo me lo ha insegnato proprio il mondo della ricerca. Personalmente mi ritengo molto fortunata perché ho avuto dei grandi maestri, nel lavoro e nella vita. Spesso mi trovo a volte a fare tributi silenziosi a chi mi ha insegnato una cosa, nel momento in cui la faccio e mi soddisfa, perché ho sempre in mente quale è stato il momento e la persona che mi ha insegnato come farla. 95 Nell'ambito dei programmi di ricerca scientifica stiamo investendo molto sul mentoring, per esempio nei confronti di ricercatori che abbiano finito il post-dottorato e a cui affidiamo un laboratorio: a loro chiediamo di scegliere un mentore, a cui noi diamo indicazioni secondo un programma strutturato. Questo permette di minimizzare l'errore nel cambiamento di ruolo e di acquisire le necessarie capacità manageriali senza le quali non si può portare avanti fino in fondo l'attività di ricerca per quanto brillante nei contenuti». Qual è il suo rapporto con l'apprendimento dall'esperienza? «Il mio modo di ragionare e apprendere è sempre stato molto empirico: parto sempre dall'esperienza per elaborare una teoria. Quando sono arrivata a Telethon, però, credevo che il mio compito fosse finanziare ricerca scientifica, grazie a un modello di revisione efficiente. L'esperienza che per me è stata la vera lezione di vita è stata il contatto con i malati: sono loro ad avermi fatto capire che la missione non era quella, nonostante così sembrasse quando sono arrivata nell'organizzazione. La governance di fatto era passata in mano agli scienziati che, come tutte le comunità umane, tendevano a esprimere se stessi. Per questo credo che il più grosso lavoro che ho fatto non sia stato tanto mettere a punto un sistema di valutazione così stringente, ma reinquadrare il ruolo della charity rispetto ai pazienti: non c'è niente che equivalga a parlare con queste persone per capire quanto urgente sia la loro istanza. Lo sforzo consiste nel creare una triangolazione efficace tra i nostri principali stakeholder: i pazienti, i ricercatori e i donatori. Cosa non semplice, perché se è vero che la cura è il nostro obiettivo finale, al contempo non possiamo accorciare il percorso della ricerca, che ha regole rigorose e tempi lunghi, spesso troppo lunghi per i pazienti di oggi: l'accettazione di questo passa attraverso un percorso condiviso di empowerment. Ecco perché i pazienti sono stati la vera esperienza per me, quella che mi ha davvero insegnato il mio mestiere». 96 RECENSIONI 97 RECENSIONE DI COUNSELING ORGANIZZATIVO – UN APPROCCIO INDIVIDUALE E DI GRUPPO, DI GRAZIELLA NUGNES a cura di Cristiana Pauletti Nel suo libro Graziella Nugnes illustra il metodo somatorelazione come modalità di conduzione delle attività di counseling organizzativo, sia con i gruppi che con i singoli. L'autrice presenta un metodo di lavoro, del tutto originale, che per le sue caratteristiche si configura come un approccio molto innovativo nella conduzione delle attività di counseling organizzativo. Si tratta di una metodologia di lavoro consulenziale che integra conoscenze, approcci e tecniche diversi, giungendo a una sintesi efficace che consente un lavoro - con singoli e gruppi - che sollecita, insieme, abilità cognitive, consapevolezza emotiva e corporea. In questa presentazione cerchiamo di evidenziare gli elementi essenziali del metodo ma soprattutto di rilevare gli aspetti che appaiono come molto innovativi e aprono una prospettiva di attività nuove nelle organizzazioni. 1. Il metodo e i suoi fondamenti L'autrice dedica molta parte del suo testo alla descrizione del metodo illustrandone, nella prima parte, i fondamenti teorici derivanti dalle teorie psicologiche, dagli studi organizzativi e dalle ricerche sulla formazione degli adulti; alla giustificazione scientifica del metodo segue la sua descrizione - impianto metodologico, processi, tecniche e possibili applicazioni. Nugnes dedica anche un breve capitolo alla presentazione delle competenze del counselor somatorelazionale. La terza parte del testo è dedicata alla narrazione delle esperienze concrete, condotte direttamente dall'autrice in ambiti organizzativi diversi – organizzazioni sindacali, cooperative sociali e ambienti educativi. Questa parte, nella quale Nugnes racconta le sue esperienze, consente al lettore di entrare nel vivo delle pratiche, attraverso le parole dei protagonisti. L'autrice utilizza questo metodo stabilmente dal 2009, con applicazioni in particolare nel terzo settore. 98 Come già evidenziato, si tratta di un approccio consulenziale alle organizzazioni che integra innanzi tutto metodologie e tecniche attive di lavoro con i gruppi, derivanti dalla formazione degli adulti, ma anche elementi tratti dall'approccio psicologico, in particolare rogersiano. In coerenza con l'approccio operativo derivante dalle teorie psicologiche di Karl Rogers al cliente dell'intervento di consulenza, se opportunamente stimolato e sostenuto, sono riconosciuti il potere e la capacità di affrontare l'analisi e la risoluzione delle problematiche, in questo caso di natura organizzativa. Come afferma Nugnes, in linea con l'approccio centrato sulla persona, si tratta di un metodo di lavoro, con i gruppi e i singoli, di natura non prescrittiva ma piuttosto di facilitazione organizzativa. Inoltre un chiaro contributo psicologico è quello che deriva dall'approccio psicocorporeo e in particolare dalla bioenergetica che trova entro il counseling organizzativo somatorelazionale una collocazione non solo teorica ma anche operativa. Nel metodo utilizzato dalla counselor è riconoscibile infine un utilizzo marcato delle tecniche della comunicazione efficace e della comunicazione non violenta (Rosenberg, 2003). 2. La narrazione delle esperienze È soprattutto attraverso la narrazione delle esperienze che si può cogliere la potenzialità innovativa del counseling somatorelazionale. La grande sfida che questo metodo assume, infatti, è quella di consentire, nei luoghi di lavoro, la manifestazione delle emozioni, di "aiutare le persone ad accettarsi nella loro interezza" e, passando dal piano cognitivo a quello emotivo e tornando nuovamente al piano cognitivo, analizzare le problematiche del gruppo di lavoro e individuare soluzioni e strategie accettabili e condivise. Nelle esperienze narrate l'accettabilità di una soluzione organizzativa - e la sua tenuta probabilmente risiede nel fatto che, per individuarla, si è passati attraverso la manifestazione delle emozioni, che pertanto non rimangono nel cono d'ombra, inespresse, operando per mettere in crisi l'applicazione concreta della soluzione. Centrare le emozioni, individuarle anche nelle loro manifestazioni fisiche (tensioni muscolari), aiuta a partecipare alla discussione e al confronto, su tematiche organizzative talvolta difficili, con la concentrazione su di sé escludendo, il più possibile, giustificazioni e attribuzione di responsabilità su altri o a fattori esterni, di carattere macro – la legislazione sfavorevole, la dirigenza ecc. Chi opera nelle organizzazioni, con l'incarico di consulente o formatore, sa quanto sia frequente il ricorso a fattori esterni come la manifestazione di senso di sfiducia verso la possibilità di incidere nel processo di cambiamento. Richiamare, attraverso la focalizzazione sulle emozioni e la pratica bioenergetica, l'attenzione sui singoli diventa un modo per attribuire, a ciascuno, fiducia e responsabilità verso il cambiamento. Tutte le organizzazioni hanno una loro cultura emozionale, pertanto, in taluni ambienti di lavoro, l'espressione di alcune emozioni può non essere accettata. Le emozioni vanno tuttavia considerate come impulso all'agire: ciascuno, attraverso un movimento dall'interno verso l'esterno, attiva questo fondamentale impulso all'azione che si concretizza nei comportamenti individuali (Giannelli, 2006). Come afferma Goleman (2000) le capacità collegate all'intelligenza emotiva sono in sinergia con le capacità cognitive. L'intelligenza emotiva - e le competenze cha fanno riferimento a essa - "facilitano l'uso dell'expertise tecnica e delle capacità cognitive". Uno degli elementi costitutivi dell'intelligenza emotiva è l'empatia che trova ampio spazio nel testo 99 di Nugnes, sia come elemento costitutivo dell'approccio metodologico e relazionale del counselor, sia come dimensione da sollecitare nei partecipanti alle attività di counseling organizzativo somatorelazionale. Lowen (1983) afferma che l'empatia, in quanto capacità di sentire gli stati d'animo degli altri, è una forma di risonanza. Per percepire l'altro è necessario inoltre uscire da una prospettiva egocentrica, assumere un atteggiamento di sospensione del giudizio per cogliere la ricchezza e la diversità che abita l'altro (Giannelli, 2006). Un'autentica comprensione dell'altro necessita inoltre di una disponibilità empatica all'ascolto (Mortari, 2003). Nelle esperienze che Nugnes narra, l'empatia è esercitata dal counselor, sollecitata e facilitata attraverso uno stile di conduzione che sicuramente possiamo definire autorevole. L'evoluzione dall'utilizzo di un linguaggio tecnico e professionale - poco adatto a rappresentare i vissuti - verso modalità più personali, la limitazione della verbalizzazione a favore di altre forme espressive, l'utilizzo del corpo e del movimento, l'introduzione di regole precise per normare la relazione nei gruppi, sono tutte strategie che facilitano la consapevolezza di sé e l'ascolto attento ed empatico dell'altro. Viviamo nell'epoca della rivoluzione digitale e la scrittura sempre più spesso sostituisce la comunicazione verbale. Come afferma Luisa Carrada (2007) siamo una text generation, tutti utilizziamo in modo massiccio la scrittura e, nelle organizzazioni in particolare, email, ma anche sms e chat, hanno sostituito spesso la comunicazione face to face. Questo tipo di scrittura ha trovato un suo modo per introdurre nella comunicazione elementi emotivi; tutti, infatti, facciamo ricorso a simbolizzazioni degli stati d'animo, sottoforma di emoticon, per arricchire il nostro testo e personalizzarlo. Il lavoro di Nugnes è tanto prezioso quanto invita le persone e i gruppi a uno stile comunicativo al quale rischiamo di non essere più abituati; uno stile dove dall'immanenza del corpo non è possibile prescindere. Nell'esperienza condotta con la FIM (sindacato metalmeccanici) di Brescia, ad esempio, sul tema della gestione del tempo e dello stress è stato proposto un metodo di lavoro innovativo a figure professionali poco abituate a tecniche di consulenza e formazione attiva e a coinvolgimento diretto. Nel corso delle due giornate residenziali l'approccio al tema dello stress è stato non solo cognitivo, ma l'inserimento delle sessioni di pratica bioenergetica ha consentito la vicinanza con la propria soggettiva sensazione di stress, attraverso l'individuazione e la consapevolezza corporea delle tensioni muscolari. Ovviamente questo metodo inizialmente può generare delle resistenze; non è facile, infatti, per gruppi che hanno consolidato forme di comunicazione basate esclusivamente sul linguaggio tecnico e su un piano relazionale che spesso esclude la soggettività, per favorire una relazione esclusivamente basata su ruoli e funzioni, mettere in campo il corpo e condividere momenti di consapevolezza corporea ed emotiva. Tuttavia, a fine percorso, in merito alla capitalizzazione dei risultati i partecipanti dichiarano che, in modo particolare, l'esperienza ha aiutato a fare chiarezza, a comprendere atteggiamenti ed errori personali, ad acquisire una visione diversa della realtà organizzativa. Le attività di counseling che integrano una dimensione corporea sviluppano nei partecipanti un senso diverso, una visione diversa, integrata, della realtà. Questa visione diversa è spesso la condizione per attivare processi di miglioramento o soluzione dei problemi. Sono varie e di sicura rilevanza le tematiche che Nugnes affronta nella sua attività di counseling: la motivazione al lavoro, la leadership, la valutazione delle competenze, la costruzione di profili organizzativi e job description, processi di integrazione di professionalità diverse nei servizi socio-educativi. Il processo di counseling prevede un primo contatto con la committenza per la focalizzazione delle problematiche e la presentazione del metodo somatorelazionale; nel corso di questa fase di contatto con la committenza vengono chiarite le modalità di lavoro e i vincoli alla partecipazione dei singoli. 100 Quale che sia il tema da affrontare, il metodo somatorelazionale alterna momenti di confronto e analisi delle problematiche a momenti di concentrazione individuale attraverso la pratica bioenergetica; sempre presente la dimensione della socializzazione ovvero della condivisione dei pensieri, delle sensazioni e delle emozioni individuali. La cura di sé mediante l'attenzione prestata a se stessi (Mortari, 2003) e la socializzazione sono fasi importanti per attivare l'emersione e la decostruzione di idee e costrutti, disfunzionali alla soluzione delle problematiche. L'attività di socializzazione è una condizione necessaria per smontare i costrutti consolidati e avviare la pratica della riflessione (Shon, 1983), fondativa di un possibile cambiamento. Ad esempio, nella trattazione del tema della motivazione, la decostruzione delle idee disfunzionali avviene proprio in virtù del processo di socializzazione poiché si scopre che ciò che motiva alcuni può essere motivo di demotivazione per altri. La questione della motivazione assume, nelle esperienze narrate da Nugnes, un carattere particolare in quanto, proprio nello spirito del metodo, valorizzando il cliente, il counselor consolida in lui l'idea che egli possiede le risorse necessarie per governare la propria dinamica motivazionale. Attivare pratiche di riflessione individuale e socializzazione nelle organizzazioni richiede che il cliente del processo di counseling acquisisca una consapevolezza nuova rispetto al suo ruolo nel processo: sentirsi coinvolto nell'analisi del problema, percepire la possibilità di aver un ruolo attivo nel processo di counseling, condizionarlo con il proprio atteggiamento e collaborare con il counselor all'efficacia dell'esperienza (Shon, 1983). Nel percorso condotto da Nugnes, la dinamica motivazionale individuale intreccia inoltre una nuova consapevolezza - che possiamo associare al lavoro cooperativo - ovvero il raggiungimento di alcuni obiettivi è condizionato dal proprio impegno e anche da quello degli altri; nei gruppi si acquisisce consapevolezza che l'interdipendenza positiva tra i membri costituisce una condizione necessaria per il perseguimento delle finalità dell'organizzazione. Anche in questo caso la focalizzazione è sempre sulla necessità di tenere presenti obiettivi e processi di miglioramento che coinvolgono sempre la dimensione individuale e quella organizzativa. Il metodo somatorelazionale sostiene le risorse individuali e le competenze, le fa esprimere, supporta il processo di focalizzazione, al fine di renderle disponibili per il contesto professionale. Una delle esperienze condotte per la valutazione delle competenze ha adottato la forma integrata che ha previsto una fase di autovalutazione associata ad una fase di eterovalutazione. Dagli anni settanta del secolo scorso si è iniziato a parlare di competenze nelle organizzazioni. La necessità di fare focus sulle competenze, inizialmente considerate come caratteristica espressa individualmente (modelli individuali delle competenze), è sorta per la necessità di ottimizzare la collocazione delle risorse umane. Gli studi sulle competenze si sono sviluppati nella direzione di considerare il contesto come influente sulla prestazione individuale, pertanto la competenza come il risultato dell'interazione tra elementi individuali e stimoli proventi dall'organizzazione. Nugnes ha proposto in questo caso una modalità difficile che può presentare parecchie insidie; se non è facile infatti condurre una valutazione della propria prestazione professionale - focalizzare i propri punti di forza e punti di debolezza, riconoscere gap di competenza o capacità da implementare - è particolarmente difficile accettare che altri conducano questa analisi. L'eterovalutazione tra pari è una competenza organizzativa importante ma molto complessa da raggiungere. La narrazione, in termini professionali, che l'altro fa di me e delle mie caratteristiche sul lavoro arricchisce, mette in circolo energie nuove e motivazione al lavoro di squadra. In questa esperienza i partecipanti riconoscono che lo stile di conduzione ha sicuramente favorito il raggiungimento degli obiettivi ed evitato pericolose derive o addirittura il caos. 101 Nelle esperienze che abbiamo, in modo sommario, richiamato, la pratica bioenergetica viene inserita allo scopo di acquisire energia, percepire un più saldo radicamento e sperimentare maggiore apertura. Non è mai fine a se stessa o collocata a fine di giornata, come viatico o forma di rilassamento. È uno snodo rilevante prima di affrontare progetti di miglioramento o individuare strategie. Si tratta di un continuo movimento – interno /esterno – una danza che porta ad alternare la messa in comune e la socializzazione a un ripiegamento su di sé, per trarre energia, per ritornare, con nuova consapevolezza e disponibilità, al confronto con gli altri. Questa alternanza di interno e esterno risulta particolarmente significativa nelle esperienze condotte in contesti socio assistenziali ed educativi; contesti nei quali il recupero delle energie è vitale per prendersi cura degli utenti con efficacia. Il metodo somatorelazionale costituisce, in questo caso, uno spazio necessario di "ricomposizione dell'esperienza" e integrazione delle professionalità. In contesti dedicati al lavoro di cura (assistenziale e educativo) è necessario infatti che ruoli diversi si integrino efficacemente, si riconoscano e si rispettino. Nelle esperienze condotte da Nugnes in questi ambiti, il processo di counseling somatorelazionale ha favorito la decostruzione dei costrutti rigidi e delle percezioni intersoggettive disfunzionali per favorire un'efficace integrazione delle professionalità. 3. Conclusioni A conclusione di questa presentazione possiamo porre l'accento - come del resto fa Nugnes nel capitolo conclusivo del suo libro – su alcuni elementi ricorrenti nelle esperienze di applicazione del metodo che possono essere rilevati come elementi che favoriscono i processi di miglioramento organizzativo. Un primo elemento è sicuramente l'avanzamento individuale, in termini di apprendimento e di consapevolezza, e la sua ricaduta sui cambiamenti organizzativi. Non esiste un automatismo tra avanzamento individuale e apprendimento organizzativo ma sicuramente collaboratori più consapevoli di sé e del proprio comportamento professionale possono essere più aperti verso gli altri e più attrezzati nell'analizzare le problematiche del contesto professionale in cui operano. La partecipazione attiva individuale e la valorizzazione di ciascuno sostiene l'autostima attraverso processi che favoriscono nei singoli il senso di autoefficacia. Il lavoro individuale e i processi di socializzazione in cui il metodo si articola favoriscono inoltre l'emersione delle differenze all'interno dei gruppi di lavoro; l'emersione delle differenze è la condizione primaria perché queste possano essere messe a valore e capitalizzate. Un ulteriore elemento presente nelle esperienze che Nugnes ha condotto - e che abbiamo più volte sottolineato - è la riduzione dei modelli rigidi di interpretazione della realtà a favore di una visione delle problematiche non standardizzata, più reale e sistemica. Infine rimane sempre costante, nel lavoro di Nugnes, un doppio sguardo, che la counselor sa attuare molto bene nel suo lavoro di conduzione e facilitazione ma che suggerisce anche ai singoli nei gruppi con cui lavora: porre contemporaneamente attenzione alle prestazioni e alle relazioni. Le une non indipendenti dalle altre ma le due legate in un intreccio da cui è bene non prescindere per mantenere una visione complessa, sistemica e ricca del contesto umano e professionale in cui si lavora. 102 Graziella Nugnes ha maturato una significativa esperienza nell'ambito delle politiche del lavoro,dell'orientamento, della formazione e della consulenza in organizzazioni profit e non profit, in particolare sui temi della gestione del personale e del comportamento organizzativo. La sua formazione - Laurea in Sociologia, specializzazione ad indirizzo psicosociologico, diploma di Counselor presso l'Istituto di Psicologia Somatorelazione di Milano - e l'insieme delle esperienze professionali realizzate, hanno permesso a Graziella Nugnes di elaborare un approccio innovativo ed efficace di intervento nelle organizzazioni: il counseling organizzativo somatorelazionale. A queste esperienze affianca da anni colloqui di counseling, che realizza nel suo studio a Brescia, e classi di pratica bioenergetica. Per una descrizione più dettagliata delle esperienze ed attività di Graziella Nugnes si rimanda al sito www.sideris.it 4. Riferimenti bibliografici Nugnes G. (2015), Counseling organizzativo. Un approccio integrato di gruppo e individuale, Trento, Edizioni Centro Studi Erickson SpA Carrada L.(2007), Il mestiere di scrivere. Le parole al lavoro, tra carta e web, Milano, Apogeo. Giannelli M.T.(2006), Comunicare in modo etico, Milano, Raffaello Cortina Editore. Goleman D. (1998), Working with emotional intelligences, NY, Bantman; trad.it.: Lavorare con intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1998. Lowen A. (1983), Narcisismo. Denial of the True Self, MacmillianPublishing Company; trad.it.: Il narcisismo. L'identità rinnegata, Milano, Feltrineli, 1985. Mortari L. (2003), Apprendere dall'esperienza, Il pensare riflessivo nella formazione, Roma, Carocci Editore. Rosenberg M. (1998), Nonviolent Communication, Puddle Dancer Press; trad.it.: Le parole sono finestre (oppure muri) – Introduzione alla comunicazione non violenta, Reggio Emilia, Edizioni Esserci, 2003. Shon D.A. (1983), The Reflexive Practitioner, New York, Basic Book Inc.; trad. it.: Il professionista riflessivo, Bari, Edizioni Dedalo, 1993. 103 ANCORA SULLE DONNE NEL MONDO DEL LAVORO 104 PROGETTO 50/50 di Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini Il nostro progetto è nato all'interno di un seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale presso l'Università degli Studi di Firenze: si tratta quindi di un lavoro che sta iniziando a mettere le prime radici, con l'auspicio che siano abbastanza forti per poter creare qualcosa di solido in futuro. Questa esperienza ci ha dato l'opportunità di metterci in gioco, imparando a gestire e a condurre interviste entrando in contatto con il contesto aziendale e lavorativo. Ovviamente non sempre siamo stati d'accordo sul modo di procedere e anche per questo il nostro gruppo ha subito dei cambiamenti. Siamo partiti in nove, per poi arrivare ad oggi a essere in tre. Questo sta a dimostrare come sia difficoltoso riuscire a gestire un gruppo, anche per coloro che dovrebbero dirigerne i lavori. Fin tanto che l'obiettivo da raggiungere è rimasto prettamente "scolastico" ognuno dei componenti si è dimostrato impegnato e attivo. Le prime rotture si sono verificate quando è arrivato il momento di provare a utilizzare ciò che avevamo fatto fino a quel punto, per sganciarci dal contesto universitario. È stato un processo inevitabile visto anche il numero elevato dei componenti iniziali. Di seguito esporremo i passi che hanno portato alla nascita del nostro progetto e con cui intendiamo proseguire apportando costantemente modifiche, grazie anche alla progressiva conoscenza del ruolo della donna con alti livelli di responsabilità nel contesto lavorativo. Come già accennato in precedenza sono i nostri primi passi e speriamo che possano servirci da spunto per poter ampliare la nostra rete e per poter fare ricerca e formazione. 1. Introduzione Per secoli la donna ha dovuto lottare all'interno di una società fatta su misura per gli uomini. Ha cercato di conquistarsi passo dopo passo la sua libertà e indipendenza: purtroppo però il percorso da compiere è ancora lungo. Nonostante i piccoli passi avanti che l'Italia sta cercando di compiere verso la parità di genere, continuiamo ad occupare uno degli ultimi posti in classifica del World Economic Forum (WEF) tra i paesi industrializzati. Dal 2006 il WEF pubblica una ricerca che quantifica la disparità di genere presente in vari paesi del mondo: si tratta del Global Gender Gap Report, ovvero il rapporto che permette di effettuare confronti tra diversi paesi in base a quattro criteri: l'economia, considerando la differenza tra salari, leadership e partecipazione; la salute, come l'aspettativa di vita e il rapporto tra sessi alla nascita; l'accesso all'istruzione 105 elementare e superiore; ed infine la rappresentanza politica1. La presa visione di questi dati ha dato avvio al nostro progetto, portando l'attenzione sulle differenze di genere presenti nel mondo del lavoro. Inoltre, il nostro lavoro è stato ispirato dalla lettura di "Lean in: Women, Work, and the Will to Lead" nel quale Sheryl Sandberg, Direttore Operativo di Facebook, racconta di come le donne debbano lottare maggiormente per raggiungere livelli di carriera più alti, anche negli aspetti quotidiani, come ad esempio l'assenza di un parcheggio riservato vicino al luogo di lavoro per donne in attesa. Abbiamo anche voluto considerare il livello di empowerment presente nelle donne, il quale si presume le abbia facilitate nel raggiungere livelli più elevati di responsabilità. Con empowerment si intende appunto quel processo di crescita, sia nell'individuo che nel gruppo, in base al quale avviene un incremento della stima di sé, dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione. Questo permette all'individuo di far emergere le sue risorse latenti e di prendere consapevolezza del proprio potenziale. Tale processo fa sì che vi sia un rovesciamento nella percezione dei propri limiti, con l'obiettivo di raggiungere risultati superiori alle proprie aspettative. Prendendo in considerazione la classifica generale del World Gender Gap, si evidenzia come nessun paese abbia raggiunto completamente la parità tra generi. All'interno dei quattro criteri presi in considerazione, le differenze sono ancora molto forti in favore del genere maschile, in particolare per quanto riguarda il settore dell'economia, del mercato del lavoro e della distribuzione della ricchezza. I miglioramenti che si stanno verificando sono ancora piuttosto lenti: si calcola infatti che di questo passo ci vorranno approssimativamente più di 80 anni affinché vi sia una vera e propria parità tra generi all'interno del settore lavorativo. Le prime posizioni della classifica sono mantenute da paesi del nord Europa come Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia e Danimarca, i quali hanno ridotto la disparità per oltre l'80%. L'Italia nel 2014 si è classificata al 69° posto su 142 paesi presi in considerazione. Uno degli indici più bassi registrati, per quanto riguarda l'ambito economico, prende in considerazione la partecipazione delle donne nel mondo del lavoro e la retribuzione a parità di mansioni. Ci chiediamo quindi: le differenze di genere tra paesi potrebbero essere spiegate prendendo in considerazione la dimensione socio-culturale dei paesi stessi? Geert Hofstede, psicologo sociale e antropologo olandese, si è occupato dello studio delle interazioni tra culture. Uno dei suoi maggiori contributi è la teoria delle dimensioni culturali, la quale fornisce uno schema sistematico per stabilire le differenze tra le diverse nazioni e culture. In base a questa teoria si pensa che un valore debba essere inserito all'interno di un sistema a sei dimensioni. Le sei dimensioni a cui si riferisce sono: il potere, il collettivismo o l'individualismo del paese, il rifiuto di fronte all'incertezza, l'orientamento temporale, l'indulgenza in opposizione al controllo e la "mascolinità" o la "femminilità" della nazione. Per il nostro progetto ci siamo concentrati su quest'ultimo punto che consiste nella distribuzione di norme emotive tra i sessi: si riferisce, più in particolare, a quanto una determinata società dà importanza ai valori maschili stereotipati quali assertività, ambizione, potere e materialismo, o ai valori femminili stereotipati come la capacità maggiore di gestire le risorse umane. Geert Hofstede nel 4° capitolo del libro "Cultures and organizations: software of the mind" (2010) utilizza il termine "maschio" e "femmina" per riferirsi alle differenze biologiche presenti tra i sessi, mentre usa i termini "maschile" e "femminile" per 1 Per una disamina su come è costruito l'indica globale di disuguaglianza di genere, ved., su questa rivista, Mattalucci L. (2015), "Global Gender Gap Report e valutazione delle politiche di genere", in Donne e lavoro. Esperienze, punti di vista, testimonianze, Numero monografico. 106 riferirsi ai ruoli sociali culturalmente determinati. In base a questo punto di vista, quindi, se un uomo si comporta in modo "femminile" significa che si allontana da alcune convenzioni vigenti nella sua società. I comportamenti considerati maschili o femminili non sono presenti soltanto in quelle società considerate come tradizionali ma anche in quelle moderne2. Infatti nel suo testo Hofstede illustra alcune dimensioni della società con culture tipicamente mascoline e femminili. Al polo maschile sono attribuite le dimensioni dell'earnings, ovvero dell'opportunità di guadagni elevati; della recognition, cioè il riconoscimento meritato quando è stato fatto un buon lavoro; dell'advancement ovvero l'opportunità di avanzamento verso un livello lavorativo più elevato ed infine della challenge cioè avere un lavoro sfidante, che spinga a dare sempre di più e che permetta di sentirsi realizzati. Per quanto riguarda il polo della femminilità le dimensioni sono manager, cioè la capacità di avere una buona relazione di lavoro con i propri superiori; la cooperation, ovvero essere in grado di lavorare con altre persone che cooperano le une con le altre; la living area cioè vivere in un luogo desiderabile per sé e per la propria famiglia ed infine l'employment security cioè avere la possibilità di lavorare in una organizzazione per tutto il tempo che si vuole. In base a tutte queste informazioni si può affermare che la mascolinità si riferisce alle società in cui i ruoli di genere sono chiaramente definiti, mentre la femminilità si ritrova in quelle società nelle quali i ruoli di genere si sovrappongono. Partendo da questo presupposto Hofstede afferma che, tenendo conto dei valori di chi esercita una data professione, si può parlare di professioni più maschili e di professioni più femminili. In base a tale ragionamento, in genere, le occupazioni maschili sono svolte da coloro che hanno "valori maschili", mentre quelle femminili da coloro che hanno "valori femminili". L'Italia rimane uno dei paesi con le più alte differenze di genere a svantaggio della popolazione femminile e anche nel caso in cui le giovani donne riescano a trovare un'occupazione, spesso si trovano in posizioni meno qualificate e difficilmente riescono a raggiungere posizioni di vertice, con forti disparità anche nelle retribuzioni. In Italia le donne tendono a scegliere la famiglia a discapito del lavoro a causa spesso delle mancanze strutturali del nostro Paese. La maternità continua a essere infatti il fattore primario che determina l'abbandono del lavoro o ancora peggio il licenziamento. Tuttavia, anche quando le donne decidono e hanno la possibilità di mantenere la propria occupazione, devono spendere parte del loro tempo nella cura della famiglia e della casa rispetto al tempo che vi dedicano gli uomini. Occorre tenere presente tuttavia che l'inattività delle donne non è dovuta soltanto alla carenza di servizi che possono facilitare la conciliazione di lavoro e famiglia. Infatti si tratta di una scelta più o meno volontaria dovuta a fattori culturali uniti ai bassi livelli salariali, che non rendono conveniente delegare la cura dei bambini e della casa a strutture private, spesso molto care. 2 Pensando alla nostra cultura è più facile immaginarsi una donna maestra e un uomo ingegnere piuttosto che il contrario. Inoltre in molte società c’è una tendenza comune nella distribuzione dei ruoli sociali sessuali cioè i ruoli di genere. Secondo questi ruoli gli uomini sarebbero più assertivi, competitivi, duri e maggiormente interessati alle faccende extradomestiche; al contrario le donne sarebbero più "tenere" e maggiormente portate a prendersi cura della casa, dei figli e delle persone in generale. In questo modo i successi raggiunti dagli uomini rafforzerebbero l’assertività e la competitività, mentre le cure femminili l’attitudine alle relazioni e all’ambiente di vita. Possiamo dire che la società, la cultura e la famiglia esercitano un ruolo importante nelle attitudini e nei comportamenti delle ragazze sin dai primi anni di vita. Difficilmente vedremo regalare a un bambino una bambola, cosa che invece risulta molto più facile se a dover ricevere il regalo è una bambina. 107 2. Ipotesi di ricerca In base all'analisi della letteratura sopra messa in evidenza, abbiamo messo a punto le nostre ipotesi di ricerca. Ci siamo chiesti: 1- quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne a raggiungere elevati livelli di responsabilità all'interno dell'azienda; 2- quale fosse la visione della donna su se stessa nel contesto lavorativo; 3- quale fosse la visione dell'azienda da parte della donna; 4- come (l'intervistata) pensa di essere percepita da parte dell'azienda. In base al primo punto ci interessava andare a verificare se vi fossero delle caratteristiche comuni in coloro che sono riuscite a raggiungere un ruolo importante all'interno del contesto lavorativo, per aiutarci a capire se tali caratteristiche possano essere potenziate al fine di aiutare anche altre donne a portare avanti il proprio percorso di carriera. Per quanto riguarda il secondo punto, ciò che volevamo mettere in luce era capire se il fatto di possedere una visione di sé positiva e capace avesse favorito la possibilità della donna di farsi strada nel contesto lavorativo e quanto, riferendoci al terzo e quarto punto dell'ipotesi di ricerca, il contesto lavorativo più o meno "femminile", nei termini enunciati da Hofstede, abbia giocato un ruolo di catalizzatore per queste donne. Il nostro campione è composto da 21 dirigenti di aziende; 14 aziende private, 5 pubbliche, 2 cooperative sociali. Tra i partecipanti 13 sono donne e 8 uomini, questo per mettere a confronto le eventuali similitudini o differenze tra essere donna o uomo con un'alta responsabilità nel contesto lavorativo. 3. Strumento Visti i presupposti abbiamo creato uno strumento che ci ha permesso di indagare tutti i punti sopra elencati, in modo da essere usato sia con donne sia con uomini. Non abbiamo chiesto direttamente se fosse presente o meno nel contesto lavorativo la percezione di una differenza legata al genere per evitare di influenzare i partecipanti, in particolare le donne, riguardo a questo fattore. Abbiamo creato un'intervista semi-strutturata, che ci ha dato modo di seguire una traccia uguale per tutti i partecipanti e con la possibilità, se necessario, di approfondire con ulteriori domande. Di seguito presentiamo lo strumento. - In cosa consiste il suo lavoro? - Quali sono le sue responsabilità? - Quanto tempo impiega per recarsi al lavoro? - Con che mezzi si muove? - A casa ha qualcuno di cui si occupa? - Quanto tempo occupa il lavoro nella sua vita? - Lascia del tempo per fare altro? - Quando ha iniziato a lavorare nell'azienda/organizzazione? - Come si trova nell'azienda/organizzazione in cui lavora? - Si ricorda come si era trovata, al suo ingresso in azienda/organizzazione? - Lei ha raggiunto una posizione di responsabilità nell'azienda/organizzazione nella quale lavora. Come, secondo lei, viene percepita questa sua posizione dai colleghi e colleghe? E lei come si vede nella sua posizione di responsabilità? 108 - Pensando alle sue capacità personali, quali sono secondo lei quelle che l'hanno facilitata nel raggiungimento di questo livello di responsabilità lavorativa? - Quali sono oggi i suoi obiettivi? - Si ricorda quali potevano essere i suoi più ambiziosi obiettivi all'inizio della sua carriera lavorativa? - Nella sua vita lavorativa c'è stato qualcuno/a che l'ha ispirata? 4. Punti salienti emersi Andiamo adesso a vedere da vicino ciò che i partecipanti alla ricerca ci hanno aiutato a comprendere rispetto all'ipotesi da noi sviluppata. In base a ciò che volevamo indagare, vale a dire la percezione di differenze nel contesto lavorativo tra l'essere una donna o uomo leader, molte sono state le dichiarazioni in tal proposito. C'è chi ha ammesso che l'essere donna nel contesto lavorativo in cui si trova aiuta, perché «l'uomo deve dimostrare di raggiungere obiettivi e quindi 'strafà', smania e vuole sempre di più» e quindi c'è chi si considera "fortunata ad essere donna" in quanto ritiene di aver già ricevuto tanto. Come ben sappiamo molti sono stati i cambiamenti nel contesto lavorativo degli ultimi anni, quindi anche gli uomini «si sono abituati alla presenza delle donne», anche se, ancora oggi, «se certe cose vengono fatte da un uomo è normale, mentre per una donna è associato all'essere 'isterica'». Rispetto alle differenze di ruoli e di professioni all'interno dello stesso contesto lavorativo c'è chi dichiara di percepire un "razzismo professionale" perché una donna, nonostante dimostri di «essere brava rimane comunque etichettata nel suo ruolo» ed in più l'essere donna non favorisce un cambiamento di questa visione. Molte delle nostre partecipanti quindi hanno percepito differenze nell'essere donna nel contesto lavorativo perché spesso - affermano - «gli uomini ti vedono come un'insidia, come quella che ha goduto di facilitazioni. Devi dare il 150% in più rispetto agli uomini»; «Essere dirigente donna non è facile, una donna deve essere doppiamente brava. Dai collaboratori uomini certi aspetti non sono ben accettati, bisogna trovare una via di mezzo». Il confronto uomo/donna sul lavoro è "atavico". C'è chi non ha percepito una discriminazione nell'essere donna anche se «devi far notare la differenza di bravura tra te e gli altri». Rispetto al rapporto lavoro/famiglia, c'è chi ha affermato che «c'è bisogno di una rete familiare forte che ti sostiene nel lavoro», perché spesso i figli vedono il lavoro come un "competitor". Nonostante la maggior parte delle nostre partecipanti abbiano dichiarato di percepire differenze e difficoltà sul lavoro correlate al fatto, per esempio, di «cercare di calibrare il modo di vestirsi, perché gli uomini tendono a fare commenti», non vedono il loro essere una donna come un ostacolo ma spesso come una risorsa in quanto «si riesce a fare più cose insieme», «è una spinta a fare qualcosa di diverso e di nuovo in un'azienda maschile». Rispetto a cercare di capire se le donne avessero già prima di iniziare a lavorare la voglia di raggiungere posizioni di alto livello nel contesto lavorativo, le risposte variano tra coloro che affermano di aver avuto sin da subito la volontà e l'ambizione di far carriera e chi 109 invece non pensava di raggiungere la posizione attuale. C'è poi chi percepisce il proprio stile di leadership come non ben accetto dichiarando che «rispetto allo standard dei colleghi [sono] anomala e [ho] un modello di leadership esercitato con autorevolezza non con autorità» e i capi per questo la considerano una "chioccia". Entrando nello specifico, andando ad approfondire una delle nostre ipotesi di ricerca, cioè quali fossero state le capacità personali che hanno favorito alcune donne nel raggiungimento di elevati livelli di responsabilità, riportiamo di seguito frasi che esse stesse hanno affermato. C'è chi dichiara che «la curiosità, la determinazione, la tenacia e la consapevolezza che si può sempre fare qualcosa di più»; «la testardaggine, il fatto di essere una 'persona diretta'» sono sicuramente capacità che aiutano a raggiungere elevati livelli di responsabilità. Un'altra delle nostre partecipanti dichiara invece che è stato «l'orgoglio e la determinazione, il dover portare a termine quello che si inizia a costo di morire» ad aiutarla a raggiungere il suo ruolo nell'azienda. Sicuramente «la razionalità, il non perdere di vista gli obiettivi»; «l'essere caparbia» sono requisiti richiesti a qualsiasi leader, ma secondo alcune nostre partecipanti anche il «saper lavorare in squadra, mettersi in prima battuta nelle cose sapendo anche delegare ad altri», "l'umiltà", sono anch'esse capacità che non possono mancare. È necessaria inoltre «la testardaggine e la volontà di arrivare, senza prevaricare sugli altri» e «la giusta dose di ascolto e autorevolezza». Tuttavia il fatto di "essere esplicita", «non da tutti è apprezzato, non tutti amano la trasparenza». Molte donne leader da noi intervistate inoltre hanno dichiarato di «aver lavorato più delle ore richieste» e che una grande dose di «determinazione a raggiungere ciò che mi [ero] prefissata, chiedendo molto a me stessa» è stata fondamentale. Infine c'è chi ha affermato che un aspetto importante è stato anche il fatto di «approfondire i temi senza superficialità» oltre al «dare forte importanza alle relazioni con gli altri». Rispetto invece al nostro interesse ad approfondire quale fosse la visione della donna su se stessa nel contesto lavorativo c'è chi dichiara: «Nel mio ruolo mi sento a mio agio ma certe cose non mi piacciono molto. Ad esempio non delego molto». «Faccio il meglio ogni giorno e cerco di essere positiva e ottimista facendo trasparire questo ai miei dipendenti»; «mi vedo bene, perché si è responsabili ma senza opprimere». «Mi riconosco nella mia posizione che mi sono meritata» essendoci «un coinvolgimento emotivo con questa azienda». «Ho raggiunto la professione che mi ero prefissata e in cui mi sento più forte e competente». «Sono soddisfatta perché da donna ho raggiunto quello che volevo, scegliendo anche di costruirmi una famiglia». Relativamente alle altre due aree di interesse, vale a dire quale fosse la visione dell'azienda da parte della donna e come pensa di essere percepita da parte dell'azienda sia al loro ingresso che oggi, le nostre partecipanti hanno affermato quanto segue: «All'inizio del mio ingresso in azienda non mi sono sentita spaventata. Forse si sono sentiti più spaventati gli altri, perché non avevano mai lavorato con una donna». «I miei colleghi non hanno problemi ad accettarmi, ma riconosco che il fatto di essere donna per alcuni è un problema». «Se si è in un'azienda molto grande ci si fa fuorviare dal ruolo che una persona occupa, anche in quello che si pensa di lui come persona». 110 Anche prendendo in considerazione la differenza tra ruoli professionali all'interno della stessa azienda viene aggiunto: «Fatico ad essere considerata una loro pari. In più sono pure donna» ma c'è anche chi asserisce che «i colleghi [mi] la vedono in modo positivo, si possono fidare e mi contattano sempre». È vero che «per arrivare, una donna deve fare salti più lunghi e alti rispetto agli uomini» ma «la speranza è di essere apprezzata» all'interno di un'azienda in cui «il [mio] titolo e il [mio] ruolo viene visto come figura di riferimento. L'azienda ha creato un clima molto positivo. Si vive in un clima di scambio e sono molto disponibile. Se però ci sono degli obiettivi da raggiungere, non transigo». Molte sono sicure del fatto che «essere donna non è mai stato percepito come un peso o un limite. Ciò che fa la differenza è ciò che la persona prova dell'essere donna. Solo la professionalità fa la differenza». Ciò che è stato detto fin qui è solo una parte di quello che viene percepito dalle intervistate su cosa significa essere donna nel contesto lavorativo, con opinioni a volte antitetiche ma che fanno parte della percezione che ognuno ha di sé. Molti sono gli aspetti che ci hanno portato a riflettere su ciò che ancora può essere fatto per far sì che la discrepanza tra uomo/donna vada a cadere. È stato interessante notare come molte caratteristiche che i nostri partecipanti hanno usato per raccontarsi e descriversi nel loro ruolo lavorativo venivano usate da entrambi i sessi. Tra queste: determinazione, ambizione, ascolto, rispetto/correttezza, non perdere di vista gli obiettivi, motivazione ed empatia. Alcune di queste sono caratteristiche classificate come più "femminili" che "maschili" e questo ci ha fatto notare come gli aspetti che spesso vengono classificati come femminili, e quindi discrepanti nel contesto lavorativo, siano invece presenti e aiutino a diventare un buon leader anche agli occhi dei colleghi. In ultima analisi possiamo affermare che le donne, confrontate con gli uomini intervistati, sono state più disponibili a parlare. In alcuni casi con i testimoni maschi è stato difficile condurre l'intervista perché le risposte di alcuni di loro sono state concise e dirette lasciando poco spazio per approfondimenti. Questo non è stato riscontrato con le partecipanti donne, che invece, al termine dell'intervista, ci hanno ringraziato per averle portate a riflettere sul loro ruolo lavorativo. Una di loro per esempio percepisce che ancora c'è molto da fare per far sì che altre donne possano arrivare a raggiungere cariche elevate» e in tal senso sta «cercando di rompere gli schemi ed aprire uno spiraglio». 5. Limiti Tra gli scopi principali della nostra ricerca qualitativa c'è la necessità di creare qualcosa che vada al di là dell'analisi dei dati e che coinvolga i partecipanti della ricerca, per far sì che si abbandoni l'idea dicotomica soggetto-oggetto e arrivare a creare una dinamica superiore, in modo da approfondire le ipotesi che si sono formate durante il percorso di ricerca. Per fare questo abbiamo scelto di realizzare, in base alle nostre ipotesi iniziali, un'intervista semistrutturata in modo da creare un dialogo con i partecipanti, cercando di lasciarli liberi di approfondire la discussione in seguito agli spunti da noi dati. Questo fattore è stato di fondamentale importanza perché ha permesso alla ricerca di trovare la sua "qualità" e quindi di ottenere quel qualcosa in più arrivando alla ristrutturazione delle ipotesi. 111 Abbiamo notato durante gli incontri che il limite maggiore che ci ha posto l'intervista è stato il nostro conformarci al suo schema. Essendo di tipo semi-strutturato abbiamo cercato di attenerci a essa e ai contenuti che ci eravamo prefissati in precedenza. Questo ci ha fatto notare, sin dalle prime interviste, che, grazie alla natura delle nostre domande, prevalentemente aperte, alcuni argomenti emergevano senza che ci fosse una richiesta specifica. Pur essendoci un limite nella natura dell'intervista, abbiamo cercato di utilizzarlo a nostro vantaggio per la ristrutturazione delle ipotesi, per esempio includendovi gli argomenti della quantità di supporto esterno, delle opportunità offerte o colte e dell'equilibrio tra vita privata e lavoro. Attenendoci alla struttura della nostra intervista ci siamo resi conto che gli stili di leadership sono stati poco approfonditi. Quando abbiamo realizzato il questionario ci era sembrato poco opportuno chiedere direttamente questo aspetto, soprattutto perché entrava in contraddizione con l'idea principale, ovvero di fare domande in modo che l'intervistato fosse più libero possibile nelle risposte per renderlo già da queste prime battute parte integrante del processo di ricerca. L'aspetto della leadership è un contenuto specifico che potrà essere utile integrare nelle sfide future nelle quali sarà importante la partecipazione attiva degli intervistati. Un limite che possiamo definire "fisiologico" della nostra ricerca è stata la disparità nella distribuzione dei partecipanti tra settore pubblico, privato e sociale. Abbiamo contattato infatti quattordici membri di aziende private, cinque invece erano provenienti da aziende pubbliche e due da cooperative sociali. I contatti che abbiamo ottenuto sono stati il risultato di un grande sforzo personale: infatti la rete che abbiamo creato è un nostro grande punto di forza. È vero anche però che le politiche delle aziende private, pubbliche e sociali sono differenti tra loro e che queste esercitano un'influenza sui membri che ne fanno parte. Non essendo una ricerca quantitativa non ci siamo preoccupati inizialmente di avere dei gruppi di numero omogeneo tra di loro, ma di raccogliere le esperienze degli individui in modo da renderli partecipanti attivi per il proseguimento della ricerca. Potrebbe essere interessante ampliare il gruppo in futuro e inserire più esperienze di donne provenienti dal pubblico e dal sociale in modo da mettere a fuoco quali sono e se ci sono differenze o punti di incontro. Sempre derivato da quest'ultimo dato abbiamo individuato che, nonostante tutti i partecipanti avessero alti livelli di responsabilità, c'erano delle differenze tra di loro dovute alla posizione che occupavano in azienda. Questo è un punto che può influenzare la loro visione dell'azienda e il modo in cui percepiscono la loro posizione sia rispetto ai bisogni personali sia rispetto a come si sentono di essere visti dai colleghi. 6. Prospettive future Con il Progetto 50/50 ci siamo proposti di facilitare un processo di empowerment attraverso la ricerca intervento per approfondire il punto di vista di quelle donne che hanno alti livelli di responsabilità nella loro carriera e per capire come abbiano raggiunto questo traguardo nelle loro vite. Siamo ancora all'inizio di questo processo e pensiamo che nel futuro a breve termine sia necessario coinvolgere i partecipanti nel processo di ricerca, realizzando insieme una rete di donne leader. Da un punto di vista pratico, poiché i partecipanti abitano in zone differenti tra loro, abbiamo pensato di riunirci in un luogo fisico o più luoghi fisici a seconda della provenienza per poi chiamarci via internet grazie a Viber o Skype. Questo punto è il primo passo verso la crescita dei partecipanti che diventano parte attiva della ricerca in modo da portare, all'interno del bagaglio di conoscenze, le loro esperienze di vita e le loro risorse. 112 La rete che vogliamo far sì che si crei ha molteplici funzioni. In primo luogo i partecipanti accrescono il loro livello di consapevolezza delle abilità e conoscenze, favorendo così una crescita e una riappropriazione di potenzialità personale tipiche dell'empowerment. Fare esperienza di gruppo permette a chi vi partecipa di auto formarsi grazie alla condivisione dei modi di affrontare i problemi professionali e personali che si possono creare dentro e fuori l'ambiente lavorativo. Potrebbe essere interessante in questa fase analizzare insieme quali sono gli stili di leadership utilizzati, prendendo in considerazione le diversità dei contesti aziendali dai quali provengono le donne leader. Questo passaggio consentirebbe al gruppo di ricerca di creare una cultura differente, un modo di essere proprio che permetta di influenzare non solo i singoli elementi che fanno parte di questo progetto, ma anche il contesto aziendale. Questa rete infatti avrebbe la funzione di sostegno per le donne che desiderano migliorare la soddisfazione personale e lavorativa, di diventare un punto di riferimento, una cultura e quindi una risorsa essa stessa. Da qui una rete di aziende che potranno essere in contatto, conoscersi tra di loro e iniziare una diffusione di buone pratiche al loro interno. Il gruppo 50/50 dovrà essere in grado di creare un elenco di servizi utili per le aziende riguardo alla questione della leadership femminile e grazie a questo sarà possibile fare formazione affinché il processo di empowerment si estenda per portare a un cambiamento sempre più diffuso. 7. Conclusioni Essendo la nostra una ricerca qualitativa, ciò che ne risulta è uno spaccato di una situazione più ampia e complessa. Tuttavia, dalle interviste da noi condotte emergono testimonianze rilevanti del nostro contesto lavorativo e culturale in cui le differenze di genere sono ancora molto presenti. Questo ci ha fatto notare che donne e uomini non hanno necessariamente caratteristiche differenti che li hanno aiutati a raggiungere elevati livelli di responsabilità: ciò che li differenzia sembra essere ancora la visione stereotipata di come un leader dovrebbe essere, anche se, come abbiamo potuto osservare, alcune delle caratteristiche importanti da possedere sono prettamente femminili. Siamo ancora all'inizio del processo di ricerca e ci auspichiamo di creare presto una rete di donne leader empowered ed empowering. 8. Bibliografia essenziale Hofstede G. (2010), Cultures and organizations: software of the mind (Third edition), New York, McGraw-Hill. Sheryl S. (2013), Lean in: Women, Work, and the Will to Lead, Knopf. Eagly A. H., Johannesen-Schmidt M. (2001), The Leadership Styles of Women and Men, Journal of social issues. Gerzema J. (2013), "Feminine" Values Can Give Tomorrow's Leaders an Edge. 9. Sitografia www.Italialavoro.it 113 NOTIZIE SUGLI AUTORI Rossana Di Renzo Rossana Di Renzo, formatrice, si occupa di formazione sui temi dell'educazione degli adulti e della tutorship, utilizzando prevalentemente lo strumento della narrazione. È referente per i tirocini professionalizzandi della AUSL di Bologna. Email: [email protected] Daria Marinangeli Daria Marinangeli, psicologa del lavoro e delle organizzazioni, dopo alcune esperienze impiegatizie, ha iniziato più di vent'anni fa la sua esperienza come consulente free-lance nell'area delle risorse umane. Ha collaborato con aziende italiane e multinazionali, con società di consulenza, e organizzazioni non profit, svolgendo principalmente attività di selezione, formazione, assessment di valutazione e sviluppo. Un altro suo filone di esperienze comprende il counseling psicologico individuale e l'insegnamento dello yoga. Vive e lavora a Milano. Email: [email protected] Lauro Mattalucci Ha una esperienza professionale di oltre trenta anni nel campo della formazione e della consulenza organizzativa, maturata in una primaria azienda del settore dove ha ricoperto il ruolo di responsabile della direzione tecnica e scientifica. Ha coordinato molteplici progetti formativi in aziende industriali e P.A. e nel campo delle politiche di formazione professionale e dell'occupazione. Le sue attuali attività professionali riguardano: - consulenza e formazione nell'ambito di progetti di ricerca sui contesti economico-sociali, mercato del lavoro; - sviluppo dei sistemi scolastici e di formazione professionale; - ricerca e docenza sui temi dello sviluppo organizzativo (strutture, processi e risorse umane), formazione manageriale, sviluppo dei sistemi formativi; - consulenza per lo sviluppo organizzativo e progetti formativi condotti attraverso blended learning strategy. È autore di numerose pubblicazioni: ha curato i volumi Il lavoro d'ufficio, Franco Angeli (1990) e L'Information Technology nella P.A. Ostacoli organizzativi e culturali (con A. Vino), Franco Angeli, (1993); è inoltre autore di numerosi saggi con particolare riferimento ai temi del knowledge management ed alla formazione come leva per il cambiamento organizzativo. È Referente Scientifico di Dialoghi, Rivista di Studi sulla Formazione e sullo Sviluppo Organizzativo, per cui ha scritto diversi articoli. Email: [email protected]; [email protected] 114 Cristiana Pauletti Cristiana Pauletti è una formatrice esperta in processi formativi per adulti. Ha lavorato per molti anni in Istituti Universitari e di ricerca salesiani e attualmente svolge attività di formazione e consulenza come libera professionista. Le tematiche formative e organizzative di cui si è maggiormente occupata sono: la comunicazione interna e la comunicazione e gestione del cliente, team building e dinamiche motivazionali, assessment delle competenze, skills profile e processi di sviluppo del potenziale individuale. L'integrazione delle tecnologie nei processi formativi e lo sviluppo di ambienti virtuali di apprendimento è stato un ulteriore tema di approfondimento nel quale ha maturato esperienze significative. Inoltre, negli ultimi mesi, ha indirizzato il suo interesse allo studio delle dinamiche comunicative nei social network. Email: [email protected] Rosaeugenia Pesci Rosaugenia Pesci è docente a contratto delle discipline Infermieristiche, è Responsabile della sezione Formativa Universitaria Bo2 dell'Università di Bologna in convenzione con l'ASL di Bologna e responsabile delle attività didattiche professionalizzanti. Si interessa in particolare degli aspetti normativi, etico deontologici e della formazione di base e degli adulti, con particolare riferimento alla funzione tutoriale nell' area infermieristica. Email: [email protected] Roberto Pezzoni Roberto Pezzoni, laureato in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano, dagli anni settanta agli anni novanta ha svolto ruoli di responsabile di gestione di commesse e di aree di business in aziende impiantistiche tecnologiche, tra le quali aziende del gruppo Montedison e del gruppo Fiat. Tra il 1998 e il 2007 ha svolto incarichi di Project Manager in progetti industriali destinati a diversi contesti scientifici internazionali (CERN, INFN e altri). Contemporaneamente, dal 1997, è consulente libero professionista e si occupa di processi e organizzazione aziendale, formazione, executive coaching, business development, project e risk management, in contesti organizzativi diversificati. Email: [email protected] 115 Progetto 50/50 Il Progetto 50/50 nasce all'interno di un seminario di Psicologia dell'Empowerment Sociale i cui membri sono Virginia Lucchesi, Lorenzo Mugnai e Marta Vagaggini laureati in Psicologia Clinica e della Salute presso l'Università degli Studi di Firenze. Attualmente stanno tutti svolgendo il tirocinio post laurea per la successiva iscrizione all'albo degli psicologi. Il gruppo è interessato agli aspetti che riguardano: la parità di genere, l'empowerment, il lavoro con i gruppi e la formazione. Email: [email protected] Giovanni Gaetano Reale Giovanni Gaetano reale, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, career counselor, si occupa, da più di vent'anni, di formazione, consulenza per lo sviluppo organizzativo e per lo sviluppo professionale in aziende private, pubbliche e pubblica amministrazione. È stato docente di un Master Universitario di II° livello dell'Università Cattolica del S.C. di Milano, oltre che cultore di materia nello stesso ateneo. Tra il 1999 e il 2004, per due mandati, ha ricoperto il ruolo di membro del consiglio direttivo nazionale della SIPLO (Società italiana di psicologia del lavoro e delle organizzazioni). È autore di alcuni saggi in pubblicazioni e riviste universitarie e redattore della rivista Dialoghi. Email: [email protected] 116 117