I Il mio regalo di Natale Sono tre anni che vivo qui

I
Il mio regalo di Natale
Sono tre anni che vivo qui, in questo paese di mare
sulla costa adriatica, e soffrirei a tornare a Torino con
quei cieli grigi che velano l’inverno.
Eppure, in alcuni momenti, mi manca la Torino del
Natale. Gli alberi spogli con i rami nudi inghirlandati di
brina, l’alone di luce perlacea intorno ai lampioni,
quando c’è la nebbia che ovatta i suoni e rallenta i
movimenti. Il silenzio del Parco del Valentino, le luci
della città che si specchiano nel fiume. Il freddo tagliente, a volte la neve, subito sporca, ammonticchiata ai lati
degli ampi viali rettilinei, nelle grandi piazze. La
Rinascente in Via Lagrange con le scale mobili che ti
portano da un piano all’altro, ognuno ridondante di
lusso, colma di gente che straborda fuori dalle porte a
vetri sul marciapiede ricoperto di un ampio tappeto
rosso. Gli zampognari che suonano la ‘piva’. Il tram che
passa scampanellando con i passeggeri appesi, pressati
uno sull’altro, senza sfiorarsi con lo sguardo. Gente
sempre di corsa, carica di sacchetti e regali.
Quando qui è Natale sembra di essere in California.
Il cielo è sempre azzurro, spazzato dal vento, i filari di
palme sul lungo mare, imperturbabili, sono verdi, come
d’estate. A volte, anche se fa freddo, ti aspetteresti di
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vedere un Babbo Natale in costume da bagno e, non so
perché, il panettone e i pochi alberi addobbati di lucine
colorate sembrano stonare con il mare che sullo sfondo
la fa da padrone con i suoi giorni di burrasca e i colori
invernali.
Ma Natale è sempre Natale ed è comunque dura far
finta che sia un giorno qualsiasi.
Sono tre anni che sono separata e, anche quest’anno,
mio figlio avrebbe trascorso dieci giorni a Torino con il
padre. Non sopportavo di dover affrontare ancora la
malinconia di guardare la gente in TV festeggiare allegramente. Da sola, sul divano del salotto. Quel divano,
quel salotto, da troppo tempo sono diventati i confini
ristretti e immutabili del mio mondo.
Così, dieci giorni prima di Natale, sono andata al bar
dove lavora Flavio.
Ci ero entrata per la prima volta l’anno scorso, per
caso. Dovevo comprare le sigarette e avevo preso anche
un caffè. Era buono e la tazzina aveva la forma e lo
spessore giusto. Mentre finivo il caffè mi ero guardata
attorno e avevo sentito riaffiorare ricordi di atmosfere
dimenticate. Mio nonno, seduto a un tavolino, con una
camicia dalle maniche arrotolate, il cappello spinto
all’indietro sulla testa, e io bambina, seduta in silenzio
sulle sue ginocchia, a guardarlo giocare a carte. Il bar
era proprio quello, o almeno così mi era sembrato, nella
zona vecchia del paese, defilato alle zone turistiche.
Sono passati tanti anni da quando venivo al mare dai
nonni, ma quello stanzone incassato nel caseggiato mi
aveva rammentato lontani pomeriggi d’estate e un loca-
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le fresco, quasi buio in contrasto alla strada all’esterno,
infuocata dal sole.
Da allora, quando mi trovavo a passare da quelle
parti, ci sono tornata altre volte. Un caffè e una sigaretta, magari una scorsa al giornale, il tutto consumato con
lentezza dopo aver accompagnato mio figlio agli allenamenti di calcio, in un inverno freddo, in quell’ora di
libertà, in una delle poche ore di libertà, prima di andarlo a riprendere.
Mentre aspettavo che mi preparasse il caffè, scambiavo due parole con Flavio, del quale avevo appreso
quasi da subito il nome.
Insomma, l’inverno è lungo e una parola tira l’altra...
Avevo iniziato a guardarlo in un altro modo, a osservare come si muoveva, a notare la sua sicurezza, la
voglia di scherzare, l’interesse per me, svelato dai complimenti occasionali, dalle battute che, immancabili,
accompagnavano il caffè.
Ricordo che un giorno mi aveva mostrato, tutto soddisfatto, la mia immagine, salvata sul telefonino, esclamando: “Questa è la foto della donna più bella dei dintorni!”
Non mi sembrava di essere un granché, ma il complimento mi aveva fatto piacere.
“Sai, non è difficile conquistare le donne come me...
Basta ricordare che la strada per il cuore di una mamma
passa attraverso quello di suo figlio!”
“Dov’è il bimbo? Io sono disponibile! Anzi, guarda,
gli sistemo un banchetto qui dietro e gli faccio fare io i
compiti!”
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Poi era arrivata la primavera e avevo tutte le altre
mamme che mi aspettavano, sedute sugli spalti del
campo di calcio a godersi due chiacchiere nell’aria leggera di fine pomeriggio, i figli impegnati con gli allenamenti. D’estate, poi, tutti i pomeriggi erano stati
dedicati al mare. Ma, con questo autunno, il caffè, pian
piano, è diventata una scusa per rivederlo anche pochi
minuti.
Insomma, dieci giorni prima di Natale sono entrata
nel bar e sono partita in quarta.
Non avevo un piano preciso, sarei stata costretta a
improvvisare, ma di due cose ero sicura: c’era una reciproca simpatia, per dirla in modo riduttivo, e non c’era
molto tempo, il Natale incombeva con la sua cappa di
insostenibile malinconia.
“Un caffè e un sorriso!” ho chiesto appena arrivata
al bancone del bar.
Flavio era di spalle, mi ha salutato con un sorriso e,
prima di farmi il caffè, ha finito di sistemare la fila di
lucine colorate che stava fissando sotto alla mensola dei
liquori.
Cogliendo l’occasione ho ripreso: “Sai, odio il
Natale. È una festa che amplifica i problemi e la solitudine. Ad esempio, io sarò sola e mi rattrista,” ho concluso, con l’invito più esplicito che sono riuscita a formulare.
“Che problema c’è?” ha esclamato girandosi verso
di me. “La sera di Natale vieni a cena a casa mia!”
Mi ha fatto ammutolire. Non mi aspettavo di ottenere subito una risposta del genere.
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Mentre bevevo il caffè ho cercato di recuperare, per
adeguarmi al suo esempio, e, quando mi sono rivolta a
lui, sono andata subito al sodo: “Stato civile? Sei sposato, fidanzato o che so altro?”
“Libero come l’aria. Io le donne dopo un po’...”
“Bene! Allora se ne può parlare...” ho detto, con la
massima indifferenza di cui sono stata capace.
In realtà mi sentivo come se avessi corso i cento
metri in dieci secondi. Avevo bisogno di uscire dal bar
e rimettere insieme i pensieri e le sensazioni. Così l’ho
salutato e me ne sono andata senza dire altro.
“Ciao,” ha ricambiato lui, aggiungendo poi: “ma,
...fatti sentire!”
Dopo un paio di giorni sono ritornata, ho preso un
sacchetto di patatine e un tè freddo per mio figlio, ho
pagato e sono uscita senza che spiccicasse parola.
Oh oh.! Dopo un’ora avevo la tensione nervosa alle
stelle. Così, prima di andare a riprendere mio figlio agli
allenamenti, sono rientrata nel bar, questa volta tremando dalla testa ai piedi. Se mi avessero collegata a un
amplificatore, il mio cuore avrebbe potuto suonare per
un concerto di piazza.
“Mi fai un caffè, per favore. Oggi mi manca un po’
di caffeina!”
Bugiarda... considerati i livelli di adrenalina di quel
momento, aggiungerci la caffeina era da delinquenti.
Ho appoggiato sul bancone la mano sinistra in un
atteggiamento che supponevo essere disinvolto. Ero talmente innaturale che il tempo si è dilatato e ho impiegato circa un secolo ad appoggiare anche la mano destra.
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Flavio ha coperto la mia mano con la sua e, sorridendo, ha stretto per un istante.
Ho sentito un esercito di salamandre che mi scorreva giù per la schiena. In quel preciso attimo ho capito
che lo desideravo con un’intensità che mi ha meravigliato, mai provata. Da quel momento ho saputo che
non avrei smesso di immaginare come sarebbe stato
trovarmi tra le sue braccia.
“Umh... Senti, ti lascio il numero del cellulare, non
si sa mai... se tu mi volessi chiamare... cioè...” ho offerto con voce tremolante.
Ha scritto il numero che gli ho dettato su un taccuino, poi ha aperto un cassetto estraendone un pezzo di
carta, strappato probabilmente dallo stesso block notes,
tutto ripiegato a francobollo.
“Questo è il mio numero,” ha detto.
Ho pensato trionfante che l’avesse preparato già da
prima, probabilmente anche lui aspettava il momento
giusto per darmelo.
Da quel momento il cellulare ha iniziato a bollire.
Raffiche di sms: complimenti, dolci frasi della buonanotte e sesso virtuale a dismisura. Tensione costante che
le prime notti non mi ha fatto quasi dormire.
Ci siamo visti per la prima volta ‘in privato’ un paio
d’ore la mattina di Natale.
Mio figlio era già partito per Torino, l’appuntamento era alle dieci, nel bar, chiuso per la festività.
Ho avuto tutto il tempo di prepararmi. Allo otto ero
già in piedi, una doccia e poi ho esaminato il contenuto, da tempo sempre uguale, dell’armadio. Ho pro-
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vato un vestito, cambiandomi di nuovo, esaminando
una gonna, forse una camicia, meglio un cardigan
con i bottoni. Senza rendermene conto, ero all’affannosa ricerca di qualcosa di molto difficile da realizzare. Desideravo che lo specchio mi restituisse
un’immagine diversa da quella di abituale praticità.
Desideravo essere attraente, ma non provocante, sensuale, ma non sguaiata, curata, ma non elegante, disinvolta, ma non ordinaria. Cercavo qualcosa che
proiettasse l’immagine di una donna che non andava
in quel bar dando per scontato un seguito ‘in intimità’ della mattinata, ma che neanche lo escludesse a
priori. Cercavo qualcosa che nascondesse qualche
chilo di troppo, depositato sul giro vita grazie alle
lunghe serate di relax sul divano e al potere consolatorio del cibo, soprattutto della cioccolata...
Insomma, praticamente impossibile!
Alla fine mi sono data per vinta e ho optato per il
solito, pratico, paio di jeans, che mi fa sentire sempre a
mio agio e, unica concessione, un aderente maglioncino di un rosso brillante, per ringraziare Babbo Natale
che quest’anno si era finalmente ricordato di me...
Alle dieci in punto ero al bar. Il tempo non era molto
ed è volato via in fretta. Un cappuccino, le chiacchiere
intermittenti che si fanno di solito la prima volta per
rompere il ghiaccio, discorsi che poi neanche si ricordano, a metà tra il serio e lo scherzoso, come distratti
ghirigori di cioccolata su un gelato di baci.
Poi il Capodanno.
Una notte strana.
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A casa mia, le stanze tutte per noi. Seduti al tavolo
di cucina, come tutte le altre sere in cui mi ci sono seduta da sola, con la finestra aperta, lo stereo a basso volume e solo una piccola luce accesa. Con la sua voce
pacata e i movimenti senza fretta, ha riempito tutta la
stanza. C’era una stella luminosa che si vedeva dalla
finestra. Me l’ha indicata, non l’avevo mai notata. Forse
l’avevano accesa per noi.
Non era ancora mezzanotte, ma ci era venuta fretta.
Ha stappato la bottiglia che aveva portato, ancora fresca
di frigo, e, brindando, mi ha bagnato dietro le orecchie.
Ero già ubriaca di lui.
Il giorno dopo ho telefonato a Stella. È la mia
migliore amica, con lei c’è un legame profondo anche
se, purtroppo, ci divide la distanza. Quando me ne
sono andata da Torino mi sono lasciata alle spalle
trentasette anni di vita, cercando di ricominciare
senza rimpianti, ma lei è una delle cose che mi mancano.
“Ciao Rea, come stai?” mi ha chiesto con la sua solita allegria.
“Bene Stella, cioè, insomma... ho passato il
Capodanno con Flavio, ma... non so se può continuare
perché... è già impegnato...”
“No! Che bastardo! E dire che glielo avevi anche
chiesto!”
“Ma no, dai, non dire così. Mi dispiace sentirti parlare di lui in questo modo.”
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A Capodanno avevo sentito Flavio veramente a disagio, consapevole di aver detto una bugia quando,
prima di Natale, aveva affermato di essere libero.
“E poi lo ha confessato quasi subito, si vede che non
riusciva a mentire con me,” ho aggiunto, continuando a
difenderlo.
“Senti, adesso mi fai un favore. Gli dici che non lo
vuoi vedere più!”
Stella si è proprio incazzata. Avvenimento maggiormente significativo dato che non capita quasi mai. Anzi,
non ricordo di averla mai vista in collera. D’altronde,
mi aveva promesso da tempo che quello sarebbe stato il
trattamento, se solo mi fosse venuto in mente di iniziare ancora una storia con un uomo impegnato.
“Non ti preoccupare. Prima che se ne andasse gli ho
detto che sarebbe stata l’ultima volta,” ho dichiarato, convinta questa volta di soddisfare le sue idee sull’argomento.
“Ok, ma non ti capisco comunque. Perché non l’hai
mandato via appena te l’ha confessato, interrompendo
subito la serata?”
“Tesoro,” mi sono difesa in tono di scusa, “a me non
è neanche venuto in mente...”
Nel breve silenzio che è seguito, per un attimo ho
valutato con stupore questa possibilità, rigirandola nella
mente con il piacere di una nuova prospettiva che spalanca la via a territori sconosciuti. Poi l’attimo è finito
e ho ripreso il filo dei miei precedenti pensieri.
“Comunque,” ho esclamato convinta, “preferisco
che abbia una fidanzata perché così non mi sento impegnata.”
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