Famiglia, Prevenzione e Consulenza Genetica Giovanni Lizzio La psicologia della famiglia si interessa delle relazioni dell’individuo con gli altri membri del nucleo familiare, inteso sia quello di origine come pure quello di procreazione; si interessa dell’intera gamma dei comportamenti individuali nella famiglia, da quelli disfunzionali a quelli funzionali e dedica molta attenzione alla prevenzione del disagio familiare. Appare quindi una visione della famiglia come contesto in cui gli individui fanno esperienza di appartenenza e di socialità e nella quale le risorse sono orientate alla crescita dei propri membri e alla promozione della loro salute attraverso un’azione e una prevenzione costante. La si può considerare uno dei luoghi privilegiati per iniziare un discorso preventivo e uno degli ambiti che la stessa prevenzione porta ad analizzare. Ma perché la famiglia sia in grado di produrre comportamenti individuali che acquisiscano valore preventivo, deve essere informata ed educata per raggiungere così un costante miglioramento della salute. Per lo Stato Italiano la sostanziale definizione e legittimazione della prevenzione è compresa nella legge n. 833 del 1978 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale. L’art. 2 recita che “la tutela della salute fisica e psichica è assicurata mediante la prevenzione delle malattie e degli infortuni in ogni ambito dell’attività sociale e di lavoro”. L’Abate (1983) propone alcune tesi a favore di un intervento preventivo: (a) i costi della prevenzione sono inferiori a quelli della cura; (b) la prevenzione è un settore innovativo, nel senso che è un nuovo modello di approccio alla malattia e al disagio; (c) La prevenzione può essere attuata con maggiore facilità, per il fatto di interagire con famiglie non ancora disfunzionali, con minori resistenze psicologiche e con modelli di relazione meno distorti e meno rigidi; (d) la prevenzione può essere attuata in un clima emotivo più favorevole; (e) la prevenzione è un intervento più limpido. I livelli della prevenzione In accordo con Korchin (1977) la prevenzione è oggi suddivisa in tre livelli sequenziali: - Prevenzione primaria: “prima che accada”. É tesa a ridurre le possibilità di malattia in una popolazione esposta a rischio, impedendo cioè che le persone vengano a trovarsi in condizioni disfunzionali e di disturbo. Uno spazio privilegiato è assegnato alla famiglia, come ambiente insostituibile di sviluppo dei processi psicosociali. Per questo motivo essa è oggetto di iniziative di educazione e di sostegno che consentono di massimizzare le potenzialità di cui è dotata. - Prevenzione secondaria: “prima che sia troppo tardi”. É volta a diminuire la durata dei disturbi, circoscrivendo la diffusione e la propagazione della malattia nelle popolazioni presso le quali tali fenomeni disfunzionali sono presenti ed operanti. É fondamentale, in tal senso, un intervento teso all’individuazione e al trattamento precoce dei fenomeni in questione. - Prevenzione terziaria: “prima che si ripeta”. Tende ad attenuare le conseguenze dei disturbi e delle malattie già manifestati favorendo l’eventuale recupero di condizioni meno disagiate e più funzionali. La prevenzione terziaria si esplicita come opera di riabilitazione per ripristinare le capacità sociali e professionali, nonché la stima e la sicurezza venute a mancare a seguito degli eventi problematici. Prevenzione e Consulenza Genetica L’ambito della Consulenza Genetica ci consente di trovare una precisa applicazione del concetto di prevenzione, in particolar modo della ripartizione triarchica precedentemente esposta. Nata con gli Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 21 studi del movimento eugenetico per la creazione della “razza pura” del progetto nazista, la consulenza genetica ha trovato poi miglior sorte e un florido campo di intervento nella prevenzione e nella cura delle malattie genetiche a trasmissione ereditaria. Una precisa definizione di consulenza genetica ci è offerta da Kessler: “La Consulenza Genetica è un processo di comunicazione correlato ai problemi umani all’insorgenza, o al rischio di insorgenza, di patologie genetiche in una famiglia. Questo processo implica lo sforzo di una o più persone opportunamente preparate ad aiutare l’individuo o la famiglia, capendo gli eventi medici, incluse le diagnosi, il probabile corso della malattia e la possibile gestione; valutare giustamente la via ereditaria concorrente alla malattia, capire le scelte che concorrono al rischio di ricomparsa, scegliere la serie di azioni più appropriata e fare il più possibile per curare al meglio la malattia o per prevenirla” (Kessler, 1992). La Consulenza Genetica rappresenta uno dei pochi momenti in cui la famiglia ha un incontro diretto col medico per ricevere informazioni sulla sua situazione genetica. Infatti, questo tipo di Consulenza è definito come un complesso servizio medico col quale i pazienti o i consanguinei di un paziente, a rischio per una malattia ereditaria, vengono informati sulle conseguenze di quella patologia, la probabilità di svilupparla e di trasmetterla e sulle possibilità di controllarla e trattarla (Dallapiccola e Mingarelli, 1993). Harper la definisce come “un atto per mezzo del quale i pazienti o i loro familiari che sono a rischio di avere una malattia ereditaria, sono informati sulle conseguenze della malattia medesima, sulla probabilità di ammalarsi e di trasmetterla, e sui modi con cui questa può essere prevenuta o migliorata” (Harper, 1990). Questo atto si articola in diverse fasi: (a) l’anamnesi genetica della famiglia (ottenuta generalmente disegnando l’albero genealogico); (b) la raccolta di dati clinici e/o chimicoclinici e strumentali disponibili per i diversi individui della famiglia; (c) l’individuazione delle persone a rischio di manifestare o di trasmettere la malattia; (d) l’eventuale esecuzione di prove adatte ad individuare i portatori sani; (e) il calcolo delle probabilità di rischio per il probando e per i suoi familiari; (f) la valutazione del rischio in rapporto alle caratteristiche della malattia e alle terapie disponibili (Danieli, 1986). Qual è lo scopo della consulenza genetica? I suoi obiettivi sono: la diagnosi, il calcolo del rischio di ricorrenza, la prevenzione ed eventuali interventi di supporto finalizzati a minimizzare e ad alleviare le conseguenze di una certa patologia (Dallapiccola e Mingarelli, 1993). La consulenza genetica presenta alcune caratteristiche che sono proprie anche della prevenzione primaria. Tra queste, per esempio, il fatto che questa consulenza è un servizio offerto e non imposto (Danieli, 1986) e che fornisce informazioni sulle misure preventive eventualmente disponibili dopo la valutazione del rischio (Harper, 1990). Il momento ideale per proporre la consulenza genetica è prima che la coppia tenti il concepimento, ma nella pratica si finisce molto spesso per consigliarla solo quando ci sono evidenti fattori di rischio (Danieli, 1986). Se si chiedesse ad un consulente genetico quali tipi di prevenzione si possono applicare alle malattie genetiche, questi risponderebbe che esistono due possibili fasi di intervento: (a) fase prospettiva, qualora nella famiglia non ci siano già stati casi di malattia; (b) fase retrospettiva, per le famiglie che hanno già avuto uno o più ammalati di malattia genetica (Danieli, 1986). Quali consigli potrebbe dare il consulente in base a queste due fasi, prendendo come esempio le malattie autosomiche dominanti e quelle recessive? Nel primo caso, a livello prospettivo, una informazione utile sarebbe quella di evitare concepimenti in età avanzata del padre, perché predispongono a nuove mutazioni ed espongono al pericolo di comparsa della malattia. A questo proposito, in un articolo pubblicato dall’American Journal of Medical Genetics già nel 1980, Friedman aveva quantificato il rischio di malattie autosomiche dominanti nella discendenza con padri di 40 o più anni, come consistente in una frequenza assoluta minima di 0.41%, cioè quaranta volte più alta della frequenza di padri con età intorno ai 30 anni (Friedman, 1980). A livello retrospettivo invece, si prenderebbero in considerazione fattori come la presenza di un coniuge normale accanto all’individuo affetto (in tal caso il rischio è del 50%) o il fatto che il genitore è omozigote (e quindi potrà avere solo figli affetti) o se entrambi i genitori sono affetti (per cui il rischio è del 75%) od ancora, la presenza di una penetranza incompleta (caso in cui individui portatori di un gene mutato non presentano alcuna manifestazione clinica) (Mollica, 1989). Per quanto riguarda le malattie autosomiche recessive, si sa che difficilmente i soggetti ammalati hanno fratelli e/o sorelle, sia perché il numero medio dei figli per famiglia è diminuito, sia perché una coppia con un figlio già affetto tende a limitare la procreazione. Il consulente genetico afferma che in Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 22 questo tipo di malattie la cosa più importante è ridurre la loro frequenza e che per far questo si può operare a tre possibili livelli cronologici: (a) prima della gravidanza, dando alle coppie a rischio informazioni sul rischio, sulle possibilità di contraccezione, sulla inseminazione artificiale; (b) durante la gravidanza, se effettivamente a rischio genetico, ricorrendo alla diagnosi prenatale nelle situazioni in cui questa è possibile; (c) dopo il parto, diagnosticando tempestivamente quelle malattie il cui decorso può essere arrestato o comunque favorevolmente influenzato da un intervento terapeutico precoce. Le malattie ereditarie In questi ultimi anni, la Genetica Medica e la Biologia Molecolare, hanno fatto importanti progressi. Attualmente, circa 500 malattie Mendeliane possono essere studiate con l’analisi del DNA; sono state rivoluzionate le strategie per l’identificazione dei portatori asintomatici di geni-malattia; ha avuto un consistente sviluppo la diagnosi presintomatica; si è notevolmente allargato il concetto di eterogeneità genetica, intesa come esistenza di fenotipi simili dovuti a mutazioni diverse; si sono ottenute importanti acquisizioni sulle basi biologiche e sulla eziopatogenesi di numerosi difetti congeniti (Dallapiccola e Mingarelli, 1993). Si vanno sempre più perfezionando inoltre, le tecniche che permettono di sapere già dopo poche settimane di gravidanza, se il bambino sarà sano o affetto da qualche malattia o malformazione. Malgrado sia noto che l’ambiente può influire sui tratti comportamentali individuali, non ne sono sempre evidenti le possibili complesse interazioni. I caratteri comportamen-tali di ogni individuo possono essere influenzati da fattori psicosociali e sociodinamici, dalla nutrizione, dal tipo di educazione, da malattie e da traumi. Molti di questi caratteri sono familiari nel senso che quando si trova un individuo affetto, è molto probabile che altri membri nella stessa famiglia siano affetti. Il fatto che un carattere sia familiare ci dice poco però della sua determinazione genetica. Infatti, poiché i membri di una famiglia oltre al patrimonio genetico condividono anche lo stesso ambiente psicosociale e socioeconomico, la familiarità può essere causata da fattori non genetici. Per dimostrare che un carattere è genetico, bisogna poter separare i fattori genetici da quelli ambientali. Nello studio della genetica di qualunque carattere, i dati su cui si lavora sono di due tipi, qualitativi e quantitativi: il trattamento dei dati qualitativi è diverso da quello dei dati quantitativi. Per i dati qualitativi il modello genetico fondamentale è quello mendeliano, cioè le varie classi fenotipiche in cui si possono distinguere gli individui di una popolazione, vengono determinate da un singolo locus genico, in modo che ogni classe corrisponda ad una o più classi genotipiche. Per i caratteri quantitativi, i modelli possono essere o del tipo poligenico, dove cioè molti fattori genetici contribuiscono insieme al valore misurato (oltre ai fattori ambientali), oppure del tipo in cui fra i locus genici che determinano un carattere, uno ha un effetto maggiore degli altri: questo locus viene detto “gene principale”. Nel primo caso ci si limita di solito a stimare, dai dati disponibili, quale percentuale della variazione osservata nella popolazione è dovuta a fattori genetici e quale proporzione si può attribuire all’ambiente. In modo molto generico si definisce “ereditabilità” la proporzione genetica della variazione. Nel secondo caso, invece, ci sono metodi per scoprire se esiste effettivamente un gene principale nella determinazione del carattere (Jayakar, 1984). Entrando nel merito delle malattie genetiche, si può affermare che esse colpiscono il genoma qualitativamente o quantitativamente, attraverso delle anomalie. Se queste anomalie sono considerate le cause principali, le malattie che ne conseguono sono unicamente genetiche. A quest’ultima, tuttavia, si affiancano quelle causate prevalentemente da fattori ambientali e quelle dovute al concorso di entrambi i fattori, genetici e ambientali, definite “multifattoriali” (sono dette anche “poligeniche” perché comportano l’intervento di più geni mutati): rientrano tra le malattie multifattoriali la maggior parte delle malformazioni congenite (Mollica, 1989). Le anomalie causanti le malattie genetiche, possono a loro volta interessare singoli geni (in tal caso sono definite “mendeliane”) oppure frammenti di cromosomi od ancora cromosomi interi (e vanno a formare le “malattie da Aberrazioni Cromosomiche”). In questi tipi di malattie il gene può trovarsi su uno dei 44 cromosomi somatici (autosomi), oppure su uno dei due cromosomi sessuali (gonosomi) (Mollica, 1989). Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 23 Le malattie mendeliane sono causate da “mutazioni”, cioè variazioni dell’informazione genetica di un singolo locus (Danieli, 1986). Se ci troviamo di fronte ad una malattia, significa che la mutazione ha compromesso una funzione biologica indispensabile al mantenimento dello stato di salute. Sappiamo che le malattie Mendeliane possono essere dominanti o recessive: le prime sono quelle che si manifestano nel fenotipo sia in condizione di omozigosi sia che il gene si trovi allo stato eterozigote; le malattie recessive si manifestano solo nei soggetti omozigoti per il gene mutato. Per fare qualche esempio di malattie autosomiche dominanti, possiamo citare la Corea di Huntington (malattia degenerativa a decorso progressivo che colpisce fra i 35-40 anni, caratterizzata da movimenti coreici e disturbi mentali che portano a forme demenziali), alcuni tipi di Distrofia e la Neurofibromatosi (caratterizzata dalla presenza di numerosi fibromi nella cute, nei nervi cerebrospinali e simpatici e della midollare surrenale). Non si sa molto sui fattori responsabili che causano le malattie autosomiche dominanti, anche se per alcune di esse un fattore predisponente potrebbe essere l’età paterna avanzata (Mollica, 1989). Per quanto riguarda le malattie recessive, le mutazioni che le causano sono generalmente già presenti da qualche generazione e non deve sorprendere una certa frequenza di legami consanguinei tra i genitori di soggetti ammalati. Un esempio noto e soprattutto diffuso in alcune zone d’Italia è la Talassemia (caratterizzata da alterazioni dei globuli rossi, dello scheletro e della fisionomia e causata da una alterazione della genesi dell’emoglobina di tipo fetale) (Mollica, 1989). Vale la pena ricordare anche l’esistenza di malattie ereditarie recessive legate al cromosoma sessuale X e che per questo motivo tendono a colpire con grande prevalenza i maschi: tra quelle più conosciute si possono citare la Distrofia Muscolare di Duchenne (malattia dovuta a deficiente sintesi di una proteina, la distrofina, componente normale del muscolo, nella quale lo sviluppo motorio all’inizio è normale, ma presenta una compromissione progressiva tanto da provocare il decesso generalmente attorno ai 12 anni di età) e l’Emofilia nelle forme A e B (malattia che si manifesta con frequenti e spesso inarrestabili emorragie dovute ad un deficit di fattori di coagulazione sanguigna) (Mollica, 1989). Per quanto riguarda le aberrazioni cromosomiche, esse vanno a colpire il cariotipo (complesso di caratteristiche di numero e di forma dei cromosomi) (Danieli, 1986), il quale, come è noto, è costituito da 46 cromosomi: 22 coppie di autosomi ed una coppia di cromosomi sessuali. Le alterazioni possono interessare il numero dei cromosomi, oppure la loro struttura. Nel primo caso, il corredo cromosomico può essere multiplo del corredo aploide, come succede per esempio nella Trisomia 21 o Sindrome di Down, oppure si possono avere uno o più cromosomi in eccesso o in difetto, come avviene nella Sindrome di Turner, caratterizzata dalla presenza di un solo cromosoma X (Mollica, 1989). Le alterazioni della struttura cromosomica evidenziano invece una modificazione della normale sequenza dei geni di uno o più cromosomi e possono insorgere in modo apparentemente spontaneo o essere indotte da mutageni di varia natura come sostanze chimiche, farmaci, radiazioni (Mollica, 1989). Quand’è che si può parlare di malattia genetica? Lo stabilire che una malattia è genetica, è essenzialmente legato ad una diagnosi fenotipica precisa, ad una indagine di laboratorio, oppure alle sue caratteristiche di segregazione in un albero genealogico, anche in assenza di una diagnosi clinica definita. L’inquadramento del problema permette di definire le sue modalità di trasmissione ed il rischio di ricorrenza. Quest’ultimo rappresenta i valori entro i quali può variare la probabilità di handicap per i figli di una qualsiasi coppia. Il rischio riproduttivo zero non esiste, in quanto la nostra specie è penalizzata alla nascita da un rischio di handicap grave empiricamente fissato al 3% (tale rischio corrisponde al numero di neonati che in ogni popolazione vengono riconosciuti affetti da gravi difetti congeniti e/o danno cerebrale). Se è vero che in certi casi, le informazioni desumibili dall’albero genealogico sono adeguate ad identificare i portatori sani o le persone a rischio, di solito non è possibile giungere a conclusioni precise su molte famiglie a rischio ed è di regola impossibile individuare a priori la mutazione o le mutazioni recessive che empiricamente ognuno di noi porta (Dallapiccola e Mingarelli, 1993). Consulenza genetica e Screening genetico Venendo ai programmi di Screening, secondo Marteau (1992), l’identificazione dei geni di alcuni fra i più comuni disturbi, ha reso lo Screening genetico basato sulla popolazione, una parte potenziale della cura della salute di routine. Lo screening comporta la selezione di casi in una popolazione o in una categoria di soggetti sulla base di parametri clinici, biochimici, immunologici, per condurre indagini a Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 24 scopo epidemiologico, preventivo e curativo. Quando correlato alla salute equivale ad una ricerca attiva delle condizioni di disturbo o pre-disturbo in persone che sono presunte sane, o che esse stesse presumono di esserlo (Holland e Stewart, 1990). Marteau (1992) sostiene che, fornendo alle persone informazioni sulla loro costituzione genetica, si può influenzare il loro modo di pensare, sentire, comportarsi, in relazione al loro stato di salute, alle immagini che hanno di se stessi e alla decisione di avere figli. Nello stesso articolo sono riportate due ricerche: nella prima in una serie di interviste con un campione generale della popolazione, si afferma che l'ereditarietà è la determinante maggiore della salute (Herzlicing, 1973); nella seconda, l’ereditarietà è considerata la terza maggiore causa di malattia dopo le infezioni e gli stili di vita (Pill e Stott, 1986). In un articolo del British Medical Journal, lo screening è considerato come il solo approccio possibile per ridurre la dis-abilità e si sostiene che dovrebbe essere visto come un modo di acquisire informazioni che aumenti la possibilità di scelta di chi vi par-tecipa. Si afferma inoltre, che il successo di un programma di screening non andrebbe valutato dai suoi effetti sulla prevalenza delle malattie alla nascita, ma dal suo effetto totale sul be-nessere delle donne e delle loro famiglie. Sco-pi dello screening per i disordini congeniti e genetici sarebbero infine, quello di facilitare una presa di decisione informata prima della gravidanza, di fornire la possibilità di non continuare una gravidanza anormale o mettere in grado la madre e la famiglia di prendersi cura di un figlio ammalato, permettere la gestione ottimale del parto e del trattamento post-natale quando è stata identificata una anormalità fetale. Come si può vedere lo screening non si limita ad intervenire prima del concepimento, ma arriva fino dopo il parto. Come esempio di screening con caratteristi-che proprie anche della prevenzione primaria, restando ancora una volta nel campo delle malattie autosomiche recessive, si può prende-re lo "Screening di massa della popolazione per la ricerca di portatori sani" (Mollica, 1989). Esso comporta che: (a) ci si deve rivolgere ad una malattia abbastanza frequente nella popola-zione stessa e abbastanza grave da costituire un significativo problema sociale; (b) la tecnica di identificazione dei portatori deve essere semplice ed economica per poter essere ap-pli-cata a tutta la popolazione in un tempo limita-to; (c) la tecnica deve dare il minor numero possibile di falsi negativi, cioè deve essere tanto sensibile da individuare tutti i portatori; (d) la stessa tecnica deve dare il minor numero possibile di falsi positivi, cioè deve essere tanto specifica da dare un risultato positivo solo nei portatori; (e) lo screening deve essere facoltativo e gratuito, trattandosi di un servizio sociale. Senza soffermarsi sugli aspetti positivi e negativi di un procedimento di questo tipo, sembra che al momento, la strategia più ef-ficace consiste nell'effettuare lo screening solo alle donne e dopo il matrimonio, consigliando eventualmente una diagnosi prenatale nel caso i due coniugi siano portatori. Ad ogni modo, lo screening in età scolare sembra valido e andrebbe offerto, non obbligatoriamente, nel contesto di una adeguata opera di informazione sanitaria per sensibilizzare gli studenti al problema delle malattie genetiche e della loro prevenzione (Mollica, 1989). Conclusioni In questo lavoro si propone quindi la famiglia come uno dei luoghi ideali per la prevenzione. Parlare di prevenzione acquista un senso perché il sottosistema coniugale se opportunamente realizzato offre una piattaforma di sostegno per interagire efficacemente con la realtà esterna ai confini familiari e per relazionarsi con i figli in modo costruttivo. Il figlio è fonte di soddisfazione personale perché fa sentire necessari ed importanti. Ma quale valore assume un figlio geneticamente affetto? Il rischio di avere un bambino non perfetto incute paura, ma la coppia si scontra col grande desiderio di avere un figlio, spesso ad ogni costo. Adottare una prospettiva educativa potrebbe rappresentare una valida soluzione. A questo scopo potrebbero servire i programmi di formazione prematrimoniale, opportunamente concentrati sulla formazione alla generatività, ma anche una serie iniziative volte a creare una sensibilizzazione presso le associazioni che operano nel settore così da creare un contatto sempre più continuativo tra medici, psicologi, famiglia e scuola che consenta di organizzare attività in cui anche gli studenti maturino una mentalità preventiva. Il fascino della prevenzione sta proprio nella possibilità di seguire molteplici direzioni, andando oltre gli studi di settore e favorendo dei processi di integrazione con la creazione di collegamenti tra Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 25 ambiti che altrimenti resterebbero tra loro paralleli. Riferimenti Bibliografici Dallapiccola, B., Mingarelli, R. (1993). Evoluzione della consulenza genetica negli anni ‘90. Aggiornamento Medico, 17, 64-71. Danieli, G. A. (1986). Appunti di genetica umana. Padova: Edizioni Libreria Progetto. Friedman, J. e Karp, L. E. (1980). Older fathers and genetics mutations, American Journal of Medical Genetics, 7, 405-406. Harper, P. S. (1988). Pratical genetic counseling. In A., Carbonara e C. Marchese (a cura di), Consulenza genetica pratica. Padova: Piccin Nuova Libraria. Herzlicing, C. (1973). Healt and illness. London: Academic Press. Holland, W. W. e Stewart, S. (1990). Screening in health care. London: The Nuffield Provincial Hospital Trust. Jayakar, S. D. (1984). Genetica di popolazione e genetica del comportamento. In A. Albanese, (a cura di), Verso un futuro per l’uomo. Milano: Unicopli. Kessler, S. (1992). Psychological aspects of genetic counseling. Journal of Genetic Counseling, 1. Korchin, S. J. (1977). Psicologia clinica moderna. Roma: Borla. L'Abate, L. (1983). Prevention as profession. In D. Mace (a cura di), Prevention in family services. Newbury Park, CA: Sage. Marteau, T. M. (1992). Psichological implications of genetic screening. Birth Defects, 28, 185-190. Mollica, F. (1989). Genetica medica. Bologna: Grasso. Pill, R., Stott, N. (1986). Concepts of illness causation and responsability: Some preliminary data from a sample of working class mothers. In C. Currer, M. Stacey (a cura di), Concepts of health, illness, and desease: A comparative approach. New York: Berg Publisher. Volume 0, Numero 0, 1995, pag. 26