LA SPEDIZIONE DEGLI ITALIANI IN POLONIA NEL 1863 RICORDO STORICO DEL D.R. FEDERICO ALBORGHETTI BERGAMO DALLA TIPOGRAFIA PAGNONCELLI 1863 L’onore di giungere non che in Russia al di là del Serio e del Brembo, e che i giudici dei compagni di Nullo ignorassero quanto ormai da tutti i giornali era stato rivelato. Ora debbo adempiere ad una promessa. Queste poche pagine altro scopo non hanno che di tenere vivo nel popolo quel sentimento di ammirazione e di affetto, che è nobile ma spesso unico guiderdone a quei generosi che si fanno martiri della causa della libertà. Ai prodi che suggellano le proprie convinzioni col sacrificio di sé stessi, il despotismo prepara le catene ed il sepolcro: gli uomini liberi debbono farne argomento d’onore e di emulazione a confortare la virtù dei presenti, a preparare quella dei posteri. – DR. FEDERICO ALBORGHETTI I Polacchi secondo l’usanza delle altre nazioni di origine Slava hanno dato al proprio paese il nome di Polska, vocabolo, che nella loro lingua significa pianura, e che senza dubbio fu ad essi suggerito dalla configurazione del suolo, su cui fissarono stabile dimora. Infatti quasi tutta la regione che costituiva un tempo la vera Polonia, prima ch’ella venisse sbranata in diversi stati dalla violenza dei prepotenti, altro non era che una pianura immensa, la quale si stendeva dalle spiagge del Mar Baltico fino alle rive del Dnieper nella Volinia, ed alle vette dei monti Carpazii nella Gallizia. Nazione numerosa e guerriera la Polonia avea saputo col tempo arricchirsi di conquiste, ed allargare il suo dominio sopra vaste contrade al di là dei proprii confini naturali. Col re Boleslao avea stesa la mano sulla Russia rossa, e sulla Moravia, cogli Iagelloni s’era impadronita della Lituania, della Volinia, e della Kiovia, e vi fu un tempo che le schiere polacche che passeggiavano temute sotto le mura di Mosca e di Smolensko, nella Moldavia, e nella Livonia, e fin nel cuore della superba Russia! Ma il paese, che va considerato esclusivamente la patria dei Polacchi, perché da loro soli fino agli antichissimi tempi occupato ed abitato, è l’ampio bacino innaffiato dalla Vistola, e dagli altri fiumi minori, che ad essa recano il tributo delle loro acque. Questo paese spartito dalla politica senz’altra ragione, che quella della forza, senz’altro criterio, che quello della convenienza dei vincitori, si trova attualmente segnato sulle carte geografiche coi nomi di Gallizia e Cracovia (Polonia Austriaca) di Granducato di Posen (Polonia Prussiana) di Regno di Polonia (Polonia Russa). Veramente i Polacchi non hanno cessato mai di considerare siccome appartenenti alla propria nazione le vaste provincie, che sono denominate la Lituania, la Curlandia, la Ukraina, la Volinia, la Podlakia, ed altre parecchie, che conquistate dalle armi dei Granduchi di Lituania, o incorporate nei dominii della Polonia, mutarono poscia e nome e padroni e rimasero assorbite nel gigantesco impero della Russia. Ma quei territori ora congiunti ora staccati in continua vicenda di guerre sanguinose dalla signoria della Polonia, conservano bensì nel loro grembo degli elementi, che a questa nazione sono legati di simpatia e di interessi a preferenza che colla Russia, ma, fatta eccezione della casta dei nobili e dei meno antichi proprietari delle terre, che sono d’origine Polacca, la massa delle popolazioni è di lingua, di religione, di costumi più affine, e più quindi affezionata ai Russi. Dopo la metà del secolo trascorso la Polonia dominava ancora sopra una superficie di 40 mila leghe quadrate di terreno, e vantava una popolazione di oltre quattordici milioni di abitanti. Eppure aveva già perduto allora molte e floride provincie! Di tanti possedimenti, di tanta grandezza non rimane che la memoria nelle istorie, e nell’animo dei Polacchi: la Polonia disparve, e quasi a ludibrio ne fu conservato il nome ad una piccola zona di terra, la quale non si estende che di 6400 leghe quadrate, e non numera quattro milioni di abitanti. Come si è detto, il suolo della Polonia è generalmente piano, ed uniforme, e interrotto soltanto ad intervalli da piccoli monticelli, e da modesti rialzi, i quali invece di romperlo ne rendono più triste e melanconico il monotono aspetto. La Lituania, la Curlandia, il centro della Polonia al pari delle vicine provincie della Russia e della Prussia altro non presentano che interminabili pianure coperte di una sabbia bianchiccia e profonda, e disseminate irregolarmente di striscie di terreno più elevato, e di natura argillosa. E dove predomina l’argilla sono innumerevoli i laghi, le paludi, gli stagni, e le torbaje, mentre il resto delle campagne coperto dalle sabbie frammiste a terriccio vegetale è solcato dai fiumi a letto largo e poco profondo i quali facilmente straripano , permette la coltivazione di molti cereali e piante fruttifere, e nutre poi una serie infinita di magnifiche foreste di betulle, di larici, di pini, di quercie, che hanno sfidato i secoli. Soltanto nel voivodato di Cracovia, e nell’ora Regno di Gallizia si levano colline e gruppi di monti, che sono rami della grande catene dei Carpazii. Questa catena di montagne, di cui molte pendici sono coperte da nevi perpetue, è molto estesa e complicata, e forma un naturale baluardo, che al Sud ed all’Oriente difende la Polonia, e la divide dall’Ungheria. La parte meridionale del territorio di Cracovia, e del Regno di Gallizia assume un aspetto pittoresco per la forma delle montagne tagliate bizzarramente a creste e bastioni, mentre da Cracovia a Lemberg corre una larga striscia di terra sabbionoso vestita di selve di pini, e da Lemberg fino alle sponde del Niemen verso levante si protende un altipiano ripieno di laghi e di paludi. Un paese tutto piano, ricco a dismisura di acque stagnanti, di torbaje impregnate dagli scoli delle frequenti pioggie, e di umide e tetre foreste, aperto ai venti nebbiosi, che spirano da occidente e da tramontana dal Mar Baltico, ed a quelli gelati, che soffiano dall’interno della Russia attraversando i gioghi nevosi dei monti Urali, chiuso alle aure calde del mezzo-giorno che si rompono nella catena dei Carpazii, debbe avere, come ha fatto, un clima freddo, ed umido e malsano soprattutto per gli stranieri. A Cracovia, a Lemberg, ed a Varsavia non è raro, che nel lungo inverno il termometro di Reaumur discenda a venti gradi al di sotto del gelo, e nei paesi polacchi in complesso la rigida stagione è quale si trova nel centro della Svezia e sulle spiaggie australi della penisola Scandinava, regioni che sono quasi a cinquecento miglia più alte verso il polo boreale. Del resto il clima della Polonia è variabilissimo, perché la sua atmosfera è liberamente dominata dai venti: talvolta tutti i suoi fiumi si mantengono gelati dalla fine di Ottobre fino a quella del Marzo successivo, tal altra invece si ha nei mesi di Gennajo e Febbrajo una specie di primavera, che fa sbocciare parecchi fiori, ed erompere a sciami le api dai loro alveari. Nell’anno 1654 nelle campagne circostanti a Cracovia un gelo improvviso distrusse in una notte tutti i grani già vicini a maturanza. Era il giorno di Pentecoste. Le impure esalazioni, che si innalzano dalle paludi, dalle torbaje, e dalle dense boscaglie, le frequenti ed abbondanti pioggie, che apporta il vento d’Occidente, la qualità istessa delle acque dei laghi e dei fiumi, che qualche volta si tingono per cause ignote di colore rossiccio, o verdastro-scuro, sono causa di inevitabili malattie non tanto ai Polacchi, che vi sono abituati, quanto ai forestieri. Parecchie sorgenti, che scaturiscono al piede dei monti Carpazii generano la deformità del gozzo. La feracità del suolo è di gran lunga maggiore nei pingui terreni della Ukraina e della Lituania, che nelle provincie della Polonia propriamente dette. Tuttavia nelle campagne principalmente di Cracovia, di Sandomir, della Gallizia bassa, e del Posen orientale crescono rigogliosi ogni sorta di grani del frumento fino al miglio, e se la distribuzione della proprietà fosse meglio sistemata, molti distretti polacchi, che per mancanza di coltivatori sono lasciati a selva, vedrebbero prosperare copiose le messi e le piantagioni fruttifere. Ma i ricchi proprietarii possessori di immense estensioni di terre sono costretti a lasciarne gran parte incolta, perché i contadini liberi preferiscono di stabilirsi nei possedimenti della corona. D’onde avviene che in quasi tutte le provincie grandi spazii sono occupati dalle foreste, o dai maresi, e la fertilità dei campi rimane inutile per la scarsità delle braccia. Maestosi ammassi di larici e di betulle adornano i boschi dei monti della Gallizua, altri di pini vestono a grandi tratti le campagne sabbionose; lungo le sponde del Niemen, della Narew, della Pilica, e d’altri fiumi affluenti della Vistola si ammirano tigli giganteschi: boschi di quercie secolari, di olmi e di frassini ammantano a larghe zone le pianure della Mazovia, di Sandomir, di Rawa. Nei recessi ospitali di tante selve sono divenuti rari i cervi ed i daini per la voracità dei lupi e dei ghiottoni voracissimi, che vi abbondano a torme; ma trovano modo di moltiplicarsi le volpi, le linci, i cinghiali. I conigli ed i castori, i quali fabbricano le loro dighe stupende lungo le solitarie correnti della Lituania meridionale. Altri abitatori delle foreste e delle campagne polacche sono tra i volatili l’aquila, il falcone, la gru, la pernice la quaglia, lo stornello, ed un piccolo augellino, che viene denominato la gallina della neve, perché non si lascia vedere che nel fitto inverno; tra i quadrupedi che vanno errando liberi tra le solitudini, va distinto l’orso, ed una specie di vacca selvatica, che molti vollero confondere col bisonte armato di corna e di crineira. Il popolo schiettamente polacco è di origine Slava, e la storia de’suoi padri si confonde nei tempi antichissimi con quella di tribù innumerevoli di razza Scita o Sarmata, le quali eternamente in guerra tra loro, o coi proprii vicini, si disputarono per dei secoli le deserte lande del Settentrione dell’Europa. Come accadde a molte altre nazioni, anche i Polacchi di trovarono qualche volta soverchiati dalla prepotenza di popoli conquistatori, i quali rimasero sullo stesso suolo con loro, si confusero insieme, e diedero origine alla disuguaglianza delle caste. I nobili, i contadini liberi, i servi della gleba rappresentano ancora nella Polonia, come in altri paesi del Nord, la miscela di popolazioni tutte nate sulla medesima terra, e rivelano il segreto di quelle continue e sanguinose convulsioni, che non cessarono di agitarli per serie di anni lunghissima. Il colorito meno bruno, i lineamenti più regolari, il suono istesso dei nomi della massima parte dei nobili Polacchi fanno dubitare, ch’essi discendano da colonie di guerrieri innestatisi per violenza in seno alla schiatta indigena. Generalmente i Polacchi hanno un tipo caratteristico di statura alta, di complessione robusta, di colorito vivacce e traente al bruno. Se il loro aspetto è marziale, la fisonomia è però benevola ed aperta. Rari sono tra loro gli occhi cerulei e le capigliature bionde o castane; hanno l’apice del naso alquanto rilevato al’insù e saliente l’osso zigomatico. E a differenza d’ogni altra nazione d’Europa hanno il collo corto e grosso. Gli uomini d’ogni condizione portano i mustacchi. Celebre poi nel settentrione è la bellezza delle loro donne, che hanno leggiadria di forme e freschezza di colorito assai più che non le Russe o le Tedesche, e di queste sanno rendersi rivali invidiate per la gentilezza squisita delle maniere e per la vivacità amabilissima de conversare. Ma il naturale vigore fisico dei Polacchi, che sarebbe molto favorito anche dalla educazione e dalle costumanze nazionali, è sgraziatamente ficcato dalla ricorrenza di parecchie malattie, che a loro sono famigliari in confronto dei popoli vicini. Sia effetto dell’aria corrotta dai numerosi e vasti pantani o delle acque potabili poco salubri, o delle sudicie abitudini della gente minuta, che vive stipata in miserabili tugurii insieme cogli animali ed in mezzo al letame, egli è certo che in Polonia dominano morbi contagiosi e maligni, che si conoscono appena nei paesi limitrofi e situati nelle medesime od in peggiori condizioni di suolo e di clima. Molte malattie comuni ai Russi ed ai Polacchi sono per questi assai più contagiose e micidiali che non per quelli. I guasti maggiori nella popolazione polacca sono prodotti dal vajuolo e dalla sifilide. I contadini, che di regola non si lavano mai la pelle del corpo, e stanno rinchiusi per lunghi mesi, e mangiano e dormono entro capanne riscaldate dall’alito dei loro bestiami, non si danno il minimo pensiero di preservarsi dal contagio del vajuolo, ed affrontano quella terribile malattia colla medesima trascuratezza, che sogliono i Turchi contro la peste. Allo scoppiare della epidemia non precauzioni, non medici, non medicine: misti alla rinfusa malati e sani nelle stesse stalle lasciano che il flagello si porti via sei o sette sopra dieci delle persone colpite, e abbandoni le altre sfigurate in modo orribile. Con eguale indifferenza permettono alla sifilide di serpeggiare in seno alle famiglie. Per conseguenza in niun altro paese d’Europa o incontrano tante persone cieche per vajuolo e senza naso per la sifilide, quanto in Polonia. Ma un’affezione morbosa tutta speciale o del paese o della schiatta dei Polacchi, il vero flagello indigeno e quasi esclusivo della loro famiglia è la così detta Plica, per la quale un umore acre, vischioso e puzzolento trasuda dalla testa, gonfia i capelli, li raggruppa, li spacca e li impasta insieme, li fa nido di miriadi di schifosi insetti, poi in capo ad un periodo più o meno lungo, più o meno doloroso, e talvolta pericolosissimo alla vita, libera l’ammalato lasciandolo calvo per parecchie settimana. Talvolta essa attacca anche le unghie delle mani e dei piedi. Codesta pericolosa e ributtante malattia non risparmia né età né sesso, e sebbene si attenga specialmente alle classi più miserabili dei contadini e dei braccianti, osa di frequente aprirsi il passo fin entro le famiglie delle persone agiate, e dei superbi signori della contrada. Essa è contagiosa, si comunica con somma facilità dall’uno all’altro individuo anche per semplice contatto della pelle o delle vestimenta; qualche volta i bambini la portano seco nascendo. Gli stranieri che si trattengono in Polonia, non sono certi di andarne immuni, e non di rado avviene che gli stessi animali coperti di pelo ne siano attaccati. I nobili Polacchi non escono quasi mai dai loro palazzi se non in cocchio od a cavallo, e pur troppo non hanno fin ad ora saputo spogliarsi di quel contegno fiero e disdegnoso, con cui furono avvezzi a riguardare le altre classi della popolazione, e che fu probabilmente la causa principale della loro servitù comune sotto gli stranieri. I contadini non potevano nudrire né simpatia né affetto verso padroni altieri, cui quasi non conoscevano che di nome, e che lontani dalle loro terre se ne stavano del continuo ad impinguare accidiosi, o sfoggiare del lusso nelle città. Se parecchie migliaia di nobili e di ricchi possidenti conservarono un odio tanto implacabile contro il Russo oppressore, quanto era profondo l’amore della propria libertà ed all’indipendenza nazionale, i milioni condannati a sudare sulla gleba cercavano indarno una differenza molto sensibile tra un padrone compaesano ed un padrone forastiero. Se a tenerli divisi dai Russi non fossero rimasti argini insuperabili la religione e la lingua, i contadini Polacchi avrebbero ripetuto più spesso lo stolido errore di prestare il proprio braccio alla infame politica dell’Austria e della Russia. Lo squallore, la miseria, la ignoranza, il sudiciume delle infime classi della popolazione polacca fanno un triste riscontro alla opulenza, alla civiltà, ed ai nobili sentimenti della classe aristocratica. Tali disuguaglianze, giova sperarlo, si vanno cancellando nei punti più risentiti colle lotte sanguinose, che in nome della patria adunano sotto la stessa bandiera il nobile ed il plebeo: la necessità impone ai signori polacchi di accostarsi e stendere la mano ai contadini: speriamo che il loro sangue versato insieme per la causa della libertà sia fecondo di più cordiale fratellanza tra i figli dello stesso paese, e gli eroici difensori dello stesso principio. I Polacchi sono di religione cattolica, e nel culto e nelle pratiche di tale credenza si abbandonano ad un fervore, e a delle superstizioni che li rendono distinti dalle altre popolazioni Nordiche. Sobrii, pazienti, frugali, indurati agli stenti ed alle fatiche essi posseggono al pari delle altre schiatte slave quel coraggio passivo, che sa piuttosto attendere con intrepidezza il pericolo, che affrontato con audacia; nelle prove più ardue, nelle convinzioni più dilicate spingono la fermezza fino alla ostinazione ed alla immobilità. Al pari di tutte le altre genti del Settentrione il loro vizio capitale è la ubriachezza, e per loro sciagura fra tutte le bevande spiritose prediligono l’acquavite. Questa, come l’oppio pei Chinesi, è il veleno del popolo polacco, poiché abitualmente ne tracanna una quantità enorme. La lingua Polacca tutta suoni fischianti è sorella della russa, della boema e delle wenda, e noi avvezzi agli idiomi dolci e sonori germogliati dal greco e dal latino ci sentiamo rabbrividire all’aspetto di quelle parole irte di consonanti accumulate intorno ad una solitaria vocale. Tuttavia in bocca dei Polacchi educati e delle signore soprattutto, quella lingua di raddolcisce e diviene graziosa, perché ad ogni tratto tra le consonanti s’interpongono delle mute, che elidono le asprezza e modificano l’armonia del discorso. Egli è con tale artificio che divengono pronunciabili moltissime parole polacche, le quali vedute scritte minacciano le convulsioni ai muscoli della bocca. La Russia, la Prussia e l’Austria, che in forza degli iniqui trattati del 1813 hanno potuto spartirsi da buone amiche i brani della Polonia, esaurirono le risorse della politica per snaturare quelle carpite provincie, e per assimilarle ai loro Stati. Tutti gli espedienti, tutte le arti, tutte le perfidie si spuntarono contro la tenacità di quello spirito nazionale, cui la natura sa conservare palese o latente nelle fibre di un popolo, quando essa lo ha creato per vivere distinto e libero nel consorzio delle nazioni. Lo smembramento della Polonia fu un delitto: coloro che osarono di farsene colpevoli e l’Europa che lo ha lasciato compiere, non tardarono a sentirne le amare conseguenze. La Polonia è lo spettro di Banco, che minaccia da quarant’anni la pace del nostro Continente. I L’Italia e la Polonia, nobili e sventurate nazioni eredi entrambe di una splendida rinomanza nella storia del passato, e vittime entrambe di prepotenza di oppressori, come posseggono incontestabile il diritto alla propria indipendenza, così hanno perduta mai una occasione di far comprendere all’Europa, che non si rassegnavano a morire. Ma per loro sciagura quando levavano la voce a domandare giustiza, o quando disperate tentavano di rivendicare colle rivoluzioni la propria libertà, non potevano opporre che la storia e la geografia a nemici, che possedevano baionette e cannoni. E però risultato della lotta ineguale era sempre una nuova stretta di ceppi alle vittime cadute, e la diplomazia ne’ suoi pensamenti d’ordine superiore ravvisava un male assai più grave nel disturbo, che l’Italia e la Polonia recavano colle loro pretese alla pace del Continente, che on nella violenza iniqua, colla quale codeste pretese venivano soffocate; e posta quindi tra la forza ed il diritto la sentenza savissima, che dei due mali conveniva scegliere il minore, traeva dal grembo dei Congressi la legge leonina dei trattati, che sancivano allo spogliatore il godimento della preda. Allora che l’Austria faceva scannare a fiorini contanti i nobili Galliziani in Lamberga e Tarnow, e la Russia massacrava le disperse reliquie della insurrezione di Varsavia popolando di patiboli le misere provincie a lei gettate fra gli artigli dai trattati del 1815, l’Italia rispondeva ai gemiti della Polonia scuotendo per un istante la catena sul viso ai proprii tiranni, od inviando qualche esule a pugnare da prode accanto ai prodi nipoti di Kosciutsko. E quando in Italia il governo dell’Austria, e gli altri minori, che a lei facevano da satelliti, non sapevano sostenersi con argomenti migliori, che non fossero quelli del boia e del Santo Offizio, e i popoli per disperazione davan di piglio qua e colà alle armi, i generosi figli della Polonia raminghi per l’Europa accorrevano a combattere sotto il vessillo della libertà. Ma gli sforzi magnanimi poco intesi e peggio assecondati dalle inconscie moltitudini, maledetti dai ministri dell’altare, che avrebbero dovuto benedirli, avversati dalla diplomazia, che ostentava tutte le sue tenerezze pei trattati e per la pace dell’Europa, sorpresi e sopraffatti dalla forza prepotente erano spenti nel sangue prima che nati. Sulle rive della Vistola, come su quelle più ridenti del Po e del Garigliano, a Varsavia e Cracovia, come a Milano, a Torino, ed a Napoli la stessa mano di ferro iugulava il diritto, e lo straniero con beffardo sorriso di compassione salutava l’Italia e la Polonia siccome terre di morti. Fatua frase di ipocrita poesia, che bruciava incenso ad una politica egoista, nel mentre questa era pur costretta a guardare con una selva di baionette i temuti cimiteri, e tremava ad ogni sospiro di vento, che agitasse le ossa di coloro, ch’essa per ischerno chiamava scheletri di popoli illustri. L’Italia più fortunata si trovò nel 1859 pronta ed unanime all’appello di guerra, che partiva dal Piemonte e dalla Francia. Un Principe soldato, una mente eccezionale, eserciti agguerriti, duci maturati alla scuola delle battaglie, popolazioni entusiaste, connubio fatale di valore, di senno, di eventi favorevoli poterono compiere il grande miracolo della indipendenza italica. L’Europa attonita spettatrice di una tempesta, che non aveva preveduta, vide come splendide fantasmagorie duegentomila Francesi con centomila Italiani numerare colle battaglie le vittorie contro l’Austria, la sapienza politica di un uomo trionfare di ostacoli creduti insuperabili, il genio eroico di un altro atterrare con un pugno di volontari in quattro mesi un Regno, ventidue milioni d’Italiani stringersi con impeto irresistibile intorno ad un Principe solo, e questo Principe assidersi benedetto e temuto sulle reliquie di cinque troni atterrati dal popolo. I fatti si erano compiuti colla rapidità del pensiero; l’Europa legale si trovò sbalordita innanzi al dilemma di rassegnarsi a subirli, o di combatterli. Discordie negli intendimenti, impacciata nella sorpresa, spaventata dal dubbio di una guerra senza fine, essa trovò questa volta, che il male minore era quello di lasciar compiere all’Italia il suo destino; o meglio forse, dissimulò i livori, e riconobbe il Regno d’Italia. Però le riserve e le restrizioni tradivano il dispetto. E per vero i tristi frutti dell’invidia degli stranieri, della rabbia del dispotismo, e della corruzione seminata a larga mano dai tirannelli nostrani non tardavano a maturare, Roma, chiusa ai voti dell’Italia dalle baionette francesi, divenne officina d’intrighi e nido di sfacciata reazione contro il nuovo regno; Malta, Trieste, Venezia, Marsiglia, focolari impuniti di cospirazioni, che non rifuggono di prezzolare assassini razzolati in ogni trivio d’Europa; le provincie napoletane, campo designato alle imprese nefande di masnade d’avventurieri, che colla croce in una mano e col pugnale nell’altra rubano ed ammazzano invocando i Borboni e la Santa Sede. In mezzo a tanti mali, che non tormentano l’adolescenza, quale compito rimane al Regno d’Italia per raggiungere la pienezza della vita? Ecco l’arduo problema, intorno al quale si affatica e viene a scindersi in due diverse correnti d’opinioni la gran massa della nazione. A noi non fa d’uopo, dicono gli uni, che d’una prudenza pertinace a conservare quanto abbiamo conquistato, e d’uno sforzo incessante per apparecchiarci a conseguire la completa indipendenza. Unico quindi debb’essere e perseverante lo studio del governo nazionale ad appianare la via, sbarazzarne gli ostacoli, a cementare la coesione delle diverse parti del Regno, e ciò non potrà ottenersi che adoperando l’autorità della legge e gli argomenti della forza là soltanto, dove falliscano tutte le probabilità della conciliazione. Conteniamoci col potente e permaloso alleato in quel riserbo dignitoso che sia egualmente lontano dalla umiliazione, e dalla arroganza: adagiamoci senza rumore e senza iattanza nel consorzio delle potenze: non urtiamo di fronte le ardue questioni, che agitano l’Europa, ma seguiamole con pacata attenzione, onde cogliere il destro di porvi la mano, e trarne profitto: abbandoniamo in una parola, le sembianze ed il contegno della rivoluzione serbandone intemerati i frutti e la fede. Questi i principii, che informano la politica, queste le idee, colle quali si regge il governo; idee e principii, innanzi ai quali molte prove fallirono, molte intelligenze vennero meno, molte riputazioni fecero naufragio. Poiché dall’un lato vi sono le moltitudini che avvezze ai miracoli dell’audacia e della forza, non sanno acconciarsi alla prudenza; dall’altro abbonda l’elemento giovane inebriato dalla fortuna, a cui sembra egualmente possibile che conveniente il troncare tutte le difficoltà con un colpo di sciabola. A questo elemento altri argomenti non mancano per confutare la politica del governo nazionale. E a lui sorto dalla rivoluzione vanno gridando, che triste ed umiliante confessione d’impotenza è il rinnegare la propria origine, ed i porprii principii, che invocando oggi la legalità vale quanto il rinunciare al possesso di Roma e di Venezia, vale quanto sconfessare il diritto che si aveva di strappare la Toscana al Granduca, l’’Emilia ai Duchi ed al Papa, Napoli e Sicilia ai Borboni; che una volta ferma la massima di tenere quello che si ha, non si sarebbe mai fatta l’Italia com’è al presente, e non la si compierà mai quale debb’essere; che come sono solidali tra di loro i despoti, così solidali debbono essere tra loro i popoli; che infine l’Italia non potrà né consolidarsi né progredire alla sua meta se non coi mezzi audaci che la rivoluzione insegna, e che valsero l’annessione delle Marche e dell’Umbria come quella di Napoli e Sicilia. Così colla mente fissa all’unico scopo di raggiungere la piena indipendenza della patria, si dissente e si discute sui modi, e sulla via da tenersi. Di là i trabalzi, che a non lunghi intervalli minacciarono di far crollare la giovane monarchia di Vittorio Emanuele; di là il non sempre sincero, ma sempre vivo agitarsi dei partiti, che in nome della patria intendono gli uni a spingersi troppo innanzi, gli altri a moderare più forse che non convenga. Solite vicende della società umana, perché il coraggio e la prudenza sono due virtù, che stanno agli estremi di una lunga catena, della quale un capo tocca la viltà, l’altro la follia. Ma quando il grido della Polonia, che s’impegnava in un duello all’ultimo sangue contro il colosso Moscovita, risuonò in tutta Europa siccome l’appello della vittima alle prese col carnefice, in Italia si risvegliò colla simpatia un sentimento di dovere, perché qui v’era tutto un esercito di gioventù coraggiosa a cui pesava sull’anima siccome un delitto un giorno di tregue, e non obliava che sussistevano debiti di sangue da pagare all’eroica Polonia. In fatto nel lungo e procelloso periodo di trasformazione politica della nostra patria noi abbiamo trovato costantemente al fianco dei nostri soldati i figli generosi della Polonia, e li abbiamo veduti combattere per la nostra indipendenza con quella lealtà e con quel valore, che sono tradizionali in un popolo altrettanto prode quanto infelice. Non era in questo paese che si potevano mettere in oblio i servigi che avevano reso, e le ingiustizie che avevano patite i Polacchi fratelli d’armi coi nostri soldati. A.S. Fermo, a Varese, a Marsala, a Palermo, a S. Maria, al Volturno, e più tardi nelle sanguinose fazioni contro i briganti degli Abruzzi e della Basilicata non avevano diviso pericoli e glorie coi nostri combattenti, e non ci avevano pagata a prezzo di sangue la ospitalità loro accordata? Eppure l’Italia officiale, in un momento di colpevole egoismo scordando quanto doveva agli ospiti innocenti, li aveva rimunerati cacciandoli dalla scuola di Cuneo, e li aveva sacrificati ad un equivoco sorriso implorato dalla Francia alla Russia per puntellare il Ministro Rattazzi. Era dunque naturale che nel mentre la diplomazia d’Europa s’occupava con inusitata solennità della questione polacca, ed in Francis, in Inghilterra, in Isvezia, in Italia, in Ispagna colla stampa e colle adunanze popolari si propugnava la causa della Polonia, sorgesse nell’animo alla gioventù più intrepida il desiderio di portare sulla Vistola un soccorso più efficace, che non quello delle note diplomatiche, e dei voti di simpatia. II Francesco Nullo uno de’ più valenti ed arrischiati fra quei volontarii Italiani, che nel 1848 in poi nonn mancarono mai ad una impresa, che si facesse in nome della libertà e della indipendenza nazionale, era allora in Bergamo sdegnoso ed insofferente quanti altri mai degli indugi, ai quali si trova incatenata la politica del nostro paese. Non educato alle discipline militari, ma pieno dell’istinto della guerra, non potente d’ingegno, ma infiammato da sentimenti generosi, ed intrepido come un cavaliere del Medio Evo, Nullo non possedeva che quelle poche e maschie idee politiche, che non vacillano innanzi ai sacrificii, e queste idee avea nell’animo salde come il suo cuore nei cimenti, come il suo braccio nella pugna. Splendido tipo di quelle individualità eccezionali. Che a guisa del fulmine non appajono se non quando l’atmosfera è profondamente commossa dalla tempesta, egli non sapeva contenersi alle tranquille abitudini della vita casalinga, dalle quali la rivoluzione lo aveva evocato. Impeto generoso di amor patrio lo aveva balzato ancora giovinetto nelle commozioni politiche, e l’indole sua ardita e sprezzatrice dei pericoli s’era ingagliardita in continue prove quasi sempre assecondate dalla fortuna. Poiché semplice soldato nei primi moti del 1848, poi ufficiale dei volontarii nelle ultime fazioni di quell’epoca disastrosa, quindi capitano sotto fli ordini di Garibaldi nel 1859, s’era acquistato il grado di maggiore, poi di tenete colonnello nell’esercito meridionale, nelle cui file aveva combattuto da Marsala a Capua. La sua valentia personale lo aveva fatto distinguere fra quegli audacissimi. Più tardi il suo nome fu ripetuto nell’infausti episodio di Sarnico, e nella sciagurata tragedia di Aspromonte. Non è dunque a fare le meraviglie se un uomo della tempera di Nullo commosso dalla notizia degli avvenimenti, che succedevano nella Polonia, e convinto che pugnando per la causa d’una nazione oppressa si pugnava per la causa d’Italia, siasi indotto a dare a suo modo a quell’eroica nazione una testimonianza d’affetto e di gratitudine. Mentre altri le prodigava più facili e più abbondanti colle poesie, colle concioni, coi voti di di simpatia, colla borsa, egli pensò a raccogliersi intorno un drappello di amici animosi al par di lui, e di portare ai Polacchi l’ajuto più efficace della spada. Entrato in questo divisamento e fattane confidenza coll’amico Luigi Caroli si accinsero insieme a maturarne prontamente la esecuzione. I primi chiamati a parte del segreto furono il D.r legale Emanuele Maironi, ed il D.r fisico B……. P….., questi già Medico di Reggimento nell’esercito meridionale, quegli Capitano nell’esercito istesso. In seguito s’aggiunsero Mazzoleni Paolo, Marchetti Elia, Sacchi Ajace, Venanzio Alessandro, Cristofori Giacomo, Arcangeli Febo, Testa Luigi, Giupponi Ambrogio, Pattelli Settimio, Dillani, Isnenghi, Bellotti, Maggi e Calderini tutti di Bergamo, e tutti già sperimentati per animo risoluto, e per valore non equivoco nei rischi della guerra. Correva il mese d’Aprile. Ma alla difficilissima impresa di guadagnare a sì enorme distanza i confini della Polonia, e di annodare qualche filo di corrispondenza con taluno dei capi di quella insurrezione, perché fosse designato il posto alla schiera degli Italiani, molti e gravi ostacoli si affacciavano. La via più breve, ma la più repugnante a tutti per giungere al territorio polacco era quella di attraversare Venezia, e la lunga linea delle provincie austriache da mezzodì a settentrione per Trieste, Vienna, e Cracovia. Ma come tenere celato il disegno fino a che, non si fosse d’un gran tratto inoltrati al di là della frontiera del Mincio vigilata dagli occhi d’Argo del governo Austriaco? Come trovar modo di scivolare inosservati in mezzo alla rete della gelosissima polizia austriaca trattandosi di individui noti i più, e Nullo segnatamente, siccome arditissimo fra quei volontarii Italiani, che dal 1848 in poi s’erano levati contro l’Austria e l’avevano combattuta senza posa fino al 1859? Un altro incidente sopravveniva a far vacillare l’ardimentoso progetto. Un compagno d’armi di Nullo, ed amicissimo suo, il Maggiore Francesco Cucchi, recatosi poco tempo innanzi a Caprera presso il Generale Garibaldi aveva con esso fatto cenno di ciò che a Bergamo si aveva in animo di tentare per la causa polacca. Ma con sorpresa avea udito che l’illustre veterano della libertà non vedrebbe di buon occhio una simile impresa, poiché gli pareva che scarso e forse non gradito ajuto avrebbe recato alla nazione dei Polacchi, ed era suo desiderio che giovani intrepidi, come Nullo ed i suoi compagni, serbassero per l’Italia le ultime prove del loro valore. Più tardi, e quando il drappello dei fidi amici s’era già molto infervorato nel proposito di avventurarsi nella impresa, Nullo, che al generale Garibaldi si teneva legati di una devozione tutta speciale, non sapeva determinarsi a partire senza un consiglio, od almeno una parola di conforto del suo maestro sui campi di battaglia, e quindi a lui scriveva da Bergamo espressamente aprendogli l’animo suo. Ma la lettera pervenuta, e trattenuta in altre mani, non si ebbe risposta. Laonde Nullo o stizzito di un contegno, che credeva di trovar ben diverso, e che gli riusciva molto strano, o più probabilmente venuto in sospetto, che non senza motivo il generale Garibaldi affettasse il silenzio, vinse ogni esitazione, e decise di partire. Tutto dunque apparve, e si credette appianato innanzi ad animi infiammati da un’idea generosa e fermamente deliberati. Di danari non fu più oltre questione dappoiché Nullo, e pochi altri ne aveano del proprio, e per chi non ne aveva provvide largamente la pingue borsa di un amico. Poco prima della partenza venne a congiungersi coi Bergamaschi un Cattaneo del Cantone Ticino. Era questi un abile bersagliere vago di liberali imprese, e di questa più d’ogni altra: pochi mesi addietro avea lasciata l’America, dove teneva il grado di uffiziale sotto gli ordini del generale Frèmont. Fu stabilito: si cercherebbe di guadagnare la frontiera di Polonia per la via dell’Austria; la Città di Cracovia punto di convegno per tutti e pel primo di Maggio; si partirebbe da Bergamo sulla fine di Aprile con regolari passaporti sotto pretesto di traffici, o di diporto; divisa la compagnia in piccoli drappelli fino a Cracovia; ogni drappello formato di non oltre ai quattro individui; Nullo preverrebbe la comitiva a Cracovia. Dovevano essere in numero di 20; ma due vennero trattenuti da circostanze di famiglia. Primi a staccarsi da Bergamo furono, dopo Nullo, Pattelli, Marchetti, Venanzio, e Giupponi. Ultimi Caroli, Maironi, Sacchi, e Cattaneo. Pervenuti a Peschiera, dove l’Austria fa villanamente spiare e frugacchiare sulla persona d’ogni viaggiatore nel dubbio, che questi sia lì per introdurre ne’ felicissimi dominii la rivoluzione involta in un portafogli, o cucita nella suola delle scarpe, subirono il solito interrogatorio del guarda-confine, ma furono senz’altro lasciati passar oltre. Soltanto per Luigi Caroli, e per Nullo la cosa non passò liscia, come per gli altri. Caroli parve al caporale austriaco una figura malintenzionata; aveva due occhi irrequieti che mettevano dei fondati sospetti sul conto suo; dovette quindi lasciarsi tirare entro uno stanzino, spogliarsi di tutti gli abiti fino alla camicia, e farsi palpare anche le carni per convincere quello zelante funzionario, che sotto la pelle non nascondeva nulla, che minacciasse la salute dell’impero austriaco. Nullo co’ suoi baffi enormi, col suo piglio soldatesco, e forse più che altro segnalato dal proprio nome le tante volte ripetuto nei casi di Sarnico e di Aspromonte, mise in suspicione gli i.r. cagnotti della polizia di Venezia. Non si rifniva di guardare lui ed il passaporto, e quegli oculati signori sentivano per istinto che colui doveva essere un pesce grosso; ma il passaporto diceva assai chiaro che si trattava di un negoziante di tele, e udito poi dalla sua bocca com’egli non fosse che un lontano parente di quel tale Nullo garibaldino il cui nome loro irritava i nervi, non cercarono più altro, e lo lasciarono andare. A Vienna non fu loro difficile perdersi inosservati in quell’ammasso di abitazioni e di abitanti: qualcuno invitato a presentarsi all’ufficio di Polizia fece il sordo e non vi andò per nulla. Tutti in breve partirono per Cracovia, dove si raccolsero sani e salvi negli ultimi giorni di Aprile. Durante il tragitto avevano potuto accorgersi dalla fisionomia dei paesani, e dal brulichio continuo di soldati d’ogni colore, che entravano in un paese inquieto: tutta la zona di provincie dalla Vistola alle pendici dei Carpazii sentiva il contraccolpo della rivoluzione della Polonia. A Cracovia furono colpiti dall’aspetto straordinariamente animato della sacra città slava, che parea rinata alla antica vitalità Repubblicana, se i ceffi numerosi dei soldati dell’Austria non fossero stati là a ricordare, che la Repubblica innocente era stata strozzata dall’aquila bicipite. E cosa strana! Cracovia era gremita di giovani Polacchi venuti dalla Gallizia e dal Posen, di volontari francesi, alemanni, inglesi, italiani, di agenti e spie delle polizie austriaca, e russa, le quali probabilmente facevano affari insieme, eppure pochissimi allora fra tanti stranieri venivano ricercati dell’esser loro. A niuno certo cadrà in mente di affermare, che quelle vecchie volpi sguinzagliate da due governi, potessero illudersi sul vero scopo, che conduceva in Cracovia si folta moltitudine di negozianti e di viaggiatori. Per verità visite, perquisizioni, arresti accadevano del continuo il dì e la notte dentro gli alberghi, e nelle case dei privati, e queste pratiche costituzionali dell’Austria ringiovanita si eseguivano coi modi soliti dell’Austria vecchia, cioè con burbanza sbirresca, e con imponente apparato di gendarmi e soldati con bajonetta in canna, ma era evidente nelle autorità imperiali la ostentazione di cogliere dei forestieri l’uno su cento così a casaccio e con solennità studiata. La stessa ipocrisia era legge per le truppe, che in grosse schiere guardavano la frontiera della Polonia. Un numeroso stuolo di volontarii, che violasse il confine austriaco verso il teatro della insurrezione non trovava quasi mai ostacolo, perché gli i.r. soldati non si davano per intesi di nulla; ma questi agguantavano inesorabilmente, e rinviavano a Cracovia incatenato chiunque tentasse da solo la frontiera. Quando infatti i volontarii adunati sotto il comando del colonnello Nullo entrarono nel territorio polacco sommavano a 300 uomini all’incirca, e tutti assai bene vi riuscirono spartiti in frotte di 30 a 50 individui ciascheduna; un Bergamasco per nome Dilani, che staccatosi per le sue occorrenze dalla propria brigata s’accingeva a passar oltre pochi minuti dopo de’ suoi compagni, venne trattenuto e fatto prigioniero. Da ciò si vede, che l’Austria volea mettere in serbo delle buone ragioni, che potessero valerle al caso per farsi un merito colla Polonia, e per guadagnarne altrettanto colla Russia. Allora che vi giunse il colonnello Nullo si trovavano già in Cracovia il noto generale polacco Mierolawsky ed il signor Rochebrune francese, che si faceva chiamare Colonnello, ed era stato un tempo uffiziale in un reggimento di Zuavi. Ambedue quei signori s’intrattenevano in Cracovia collo scopo di raccogliere volontarii, e di porsi alla testa di una spedizione; ma pare che fra loro non regnasse né armonia di intendimenti, né confidenza alcuna, poiché facevano a gara nel rubarsi i solfati da comandare. Quanto poi a questi soldati, che la massima parte erano giovanetti polacchi frammisti a dei volontarj venuti di Francia, e che volevano ordinarsi in battaglione di Zuavi, non inclinavano che in picciol numero ad obbedire al Mierolawsky, uomo che sembra trascinato dal destino a fare il guastamestieri in tutte le faccende, nelle quali s’immischia, e pur troppo s’immischia, in molte. L’arrivo inaspettato del Nullo cogli Italiani fe’ scomparire le gare fra i due ufficiali: tutti i volontari polacchi e francesi vollero mettersi sotto la direzione del prode garibaldino, e dei due generali rimasti ipso facto senza soldati, il Mierolawsky si tenne in disparte, ed il Rochebrune non si lasciò più vedere. Fu allora che si pose ai fianchi di Nullo, e seppe cattivarsene la confidenza un altro uffiziale Polacco per nome Miniewsky, il quale con abnegazione, che fece strabiliare i suoi amici si dichiarò pronto ad ubbidirgli in qualità di Capo dello Stato Maggiore. Connubio era questo di lieti auspicii, poiché alla rinomanza, all’impeto cavalleresco, ed alla intrepidezza di Nullo venivano ad accoppiarsi le maggiori cognizioni strategiche, e topografiche, e l’influenza locale dell’uffiziale Polacco. Dalla sua condotta si volle argomentare in seguito che Miniewsky avesse abbandonato in modestia, perché tali fossero gli ordini che aveva ricevuto dal Comitato nazionale. Tutti quei giovani condensati nella Città di Cracovia deludevano la vigilanza pur sempre sospettosa ed iraconda del governo austriaco, ed allestivano i loro apparecchi guerreschi quasi sotto gli occhi del nemico sia per l’aperta connivenza dei cittadini, sia mescolandosi e tramutandosi di continuo dall’uno all’altro quartiere della città popolosa, i due Capi Nullo e Miniewsky, sui quali s’aveva a ritenere rivolta di preferenza l’attenzione degli spioni imperiali, alloggiavano in case private e non passavano mai dodici ore di seguito nella stessa abitazione. Tutti gli altri loro compagni d’armi disseminati a brigatelle in diverse località, si tenevano anch’essi in moto continuo per non offrire campo di indicazioni esatte sul conto loro, ed attendevano con impazienza l’ordine di spingersi al di là della frontiera. Il Comitato occulto, figlio del Comitato nazionale di Varsavia, assisteva colle provvidenze necessarie tutte queste genti. Esso per mezzo di Miniewsky aveva proposto al colonnello Nullo il comando di una legione di 500 combattenti, dei quali 400 Polacchi, 70 Francesi, 25 Italiani, con 40 cavalli, e tre cannoni da campagna. Udite le condizioni, stabiliti gli accordi, Nullo accettò. Designata alla partenza fu la notte del 1 al 2 Maggio. Parecchie Casse con entro coperte di lana, sciabole, armi corte da taglio e da fuoco, cappotti, camicie rosse per gli Italiani, erano state inviate da Cracovia oltre i confini. Si sapeva che in un punto stabilito al di là della frontiera si erano apparecchiati i fucili e le munizioni per tutta la legione, non ché i cavalli e i tre piccoli cannoni da campagna. Molti cittadini polacchi che dai modi e dall’aspetto signorile appartenevano senza dubbio ad una casta elevata, e che usavano di molta circospezione perché sudditi austriaci o prussiani, apparivano del continuo frammezzo ai giovani volontarj prodigando loro ogni dimostrazione d’affetto e di cortesia. Diciamo i giovani volontarii, perché fra i polacchi principalmente erano moltissimi gli adolescenti, che non toccavano i quindici anni, e v’avea di quelli che erano tuttavia fanciulli dagli undici ai dodici, o faceano sforzo a reggere il fucile. Il 29 Aprile, nell’Hotel Dresda procedeva la polizia austriaca ad una minuta perquisizione, la quale finì coll’arresto immediato di Calderini, Isnenghi, Belotti e Maggi. In quel dì stesso la mattina per empissimo un altro cagnotto della pubblica sicurezza si presentava all’Hotel Saxi, dove erano alloggiati Maironi, Marchetti, Caroli, Sacchi, Cattaneo, il conte Laderchi, ed il suo compagno Parazza di Faenza. Portava ordine che tutti quei signori si recassero all’indomani all’Ufficio della Polizia per la consegna e l’esame dei loro passaporti. L’impiegato faceva notare con una urbanità alquanto affettata, che era già la seconda volta che gli italiani ricevevano un simile invito, poiché al primo si erano dimenticati di obbedire. Veramente la tentazione di commettere una seconda disubbidienza sussisteva tutta intiera anche di fronte al novello invito. Ma pure temendo di peggio, ed affidatisi che presentandosi con franca disinvoltura alle ingiunzioni di chi comandava, non sarebbero incappati in altro disturbo, che in quello di improvvisare qualche fanfaluca per uso della polizia austriaca, Maironi, Laderchi, Parazza, Sacchi, Cattaneo, s’introdussero a cadere spontaneamente nel laccio. Poiché varcate le soglie del palazzo di Polizia, e subito un inutile interrogatorio, mentre s’avviavano per uscire si trovarono ai fianchi parecchi galantuomini vestiti in abito borghese, i quali gentilmente disser loro, che dovevano sotto la propria responsabilità accompagnarli a Vienna. Una tale responsabilità nel gergo di quei satelliti significava senz’altro, che chi avesse in animo di fuggire sarebbe stato immediatamente provveduto di manichini ai polsi e trattato da malfattore. Fu adunque per lo meglio il fare di necessità virtù, ed incamminarsi alla stazione della ferrovia con quegli angeli custodi al fianco, che arrivati a Vienna si scambiarono con altri, e così a Trieste, e Venezia e quindi a Peschiera, dove i prigionieri toccarono la libera atmosfera del Regno Italico. E qui dobbiamo asserire ad onor del vero, che ci consta non esser punto né poco esatto quanto venne detto e ripetuto da molti giornali in proposito al Conte Laderchi. Il Conte Laderchi e l’amico suo Parazza si mossero alla volta della Polonia non per sentimento religioso, ma per sincero affetto alla causa della libertà, per la quale essi non temevano di combattere e morire, come si combatte e si muore in Polonia e in Italia. Questi due giovani distinti per natali e per nobiltà d’animo venivano accettati in qualità di ufficiali di Stato Maggiore dal Generale Nullo. Il Conte Laderchi ci saprà grado, non ne abbiamo tampoco il dubbio, se affermiamo esplicitamente ch’egli non andava in Polonia a fare il missionario, ma il soldato. Dicemmo che il francese Rochebrune s’era trovato in Cracovia col Nullo. Ora giova soggiungere che fra loro corsero delle trattative per operare insieme, e pare anzi che l’uffiziale degli Zuavi si fosse lusingato di avere sotto i suoi ordini il prode italiano co’suoi connazionale. Ma Il Nullo o perché amasse meglio di rimanere indipendente o perché fosse già in diversi accordi col Comitato segreto di Cracovia, non accolse le proposizioni del Rochebrune. Di qua probabilmente ebbe origine il fatto spiacevole, che i volontarii francesi si ricusarono a partire in compagnia degli italiani e dei polacchi comandati da Nullo, mentre a questi il Comitato aveva promesso, che si sarebbero mossi insieme. Corse poi voce tra i volontarii, che non si fosse dimenticato di portar seco una grossa somma di danaro. Se ciò fosse vero, e se il Rochebrune si tenesse con fucile coscienza della pecunia non sua noi non sappiamo. Vogliam concedere piuttosto che in Cracovia non sarà mancata della buona gente, che pagata dai Russi a seminare zizzania fra i volontarii, non avrà esitato a soffiare calunnie contro i più eminenti ed i più ragguardevoli. Il distacco dei Francesi, e la perdita dei dieci italiani Maironi, Cattaneo, Sacchi, Calderini, Maggi, Bellotti, Isnenghi, Dilani, Laderchi, Parazza, arrestati dalla polizia di Cracovia, parve a Nullo di cattivo augurio, e non seppe dissimulare a’ suoi più fidi il suo dispiacere, ma d’animo deliberato, com’egli era, non volle per questo frapporre indugio alle mosse, e così com’era prestabilito, la notte del 1° Maggio egli con tutta la sua gente uscì dalla città, e pigliò la direzione di tramontana. Maestro attraverso alle tristi pianure, che vanno rilevandosi con facile pendio dal bacino della Vistola dirimpetto al palatinato di Saudomir. Camminarono tutta notte, e verso le tre del mattino raggiunsero un’ampia foresta di pini, dove avevano a prendere riposo, ed armarsi. Era giorno di Domenica. Il Comitato segreto di Cracovia faceva onore alle sue promesse: poiché in quella foresta stavano pronti fucili, pistole, armi bianche, e quanto occorreva al bisogno di tutta la legione abbondantemente. Solo mancavano i cavalli per trascinare i tre cannoni, imperocché i due, che s’avevano bardati espressamente per essere attaccati ai carri non potevano bastare, e per la deficienza dell’attelaggio non si potevano far correre all’uopo quelli dello scarso squadrone di cavalleria. Il piccolo campo avea subitaneamente pigliato l’allegra e balda fisionomia del teatro di guerra dove la razza umana spensierata dell’incerto domani si compiace tanto di mescere tutti gli orrori della tragedia, colle gioje della commedia, e le follie dei baccanali. Nullo da quel vagheggiato spettacolo battagliero sentiva ingigantirsi l’anima nel petto: quelle solitudini mute da tanti anni risuonavano ad un tratto degli inni nazionali della Polonia e dell’Italia. Turbavano però quelle gioje parecchi disordini, e primo fra tutti era la mancanza d’ufficiali. Trecento Polacchi non avevano che un alfiere, giovane valoroso e pratico del mestiere delle armi, ed il colonnello Sasky, prode e colto uffiziale, ma solo, i cui comandi fossero intesi da’ suoi connazionali. Nel piccolo drappello degli Italiani abbondavano coloro, che avrebbero saputo sostenere egregiamente la parte di uffiziali, ma di loro niuno sapeva una sillaba di lingua polacca, pochissimi conoscevano la francese, e Nullo istesso era il più delle volte costretto a far comprendere i suoi ordini per via di cenni e gesti. Non tardò a manifestarsi un disordine più grave. Il Sig. Miniewsky respirando l’aura dei boschi sentì crescersi in petto tutta quella confidenza di sé medesimo, e quella voglia di fare il generale in capo, che parea dovesse aver lasciato a Cracovia, quando accettava di porsi sotto gli ordini di Nullo. Il suo contegno si fece altiero, e pesante al segno, che molti dei Polacchi, e tutti gli Italiani incominciavano a trovarlo isoffribile: il suo merito, che poteva esser molto e distinto, non sembrava da accettarsi incontestabilmente, giacché lo stesso Comitato segreto non l’avea riconosciuto superiore a quello di Nullo: si cominciava dunque a mormorare, e Miniewsky, che di ciò s’era accorto, per farsi valere di più faceva peggio. Ma Nullo ebbe la prudenza di non fomentare uno screpio, che poteva mettere in pericolo la salute di tutti, riserbò a miglior tempo di far trionfare il suo diritto, persuase i suoi compagni della necessità di non dar luogo a dissensioni in sugli esordii dell’impresa, e per parte sua si accontentò di essere il colonnello della legione straniera forte in tutto di 26 uomini, dei quali diciassette Italiani, sei Francesi, e tre Ungheresi. Consumata la Domenica nell’armarsi, nel comporre gli ordini delle diverse schiere, nel riposare i corpi della lunga marcia, al cader del sole si rimisero in viaggio. Le guide, paesani del luogo forniti dal Comitato di Cracovia, additarono un lungo giro ed assai vizioso sempre nei piani al di qua della Vistola, e ciò era necessario per passare la frontiera senza incontrarsi da una parte coi soldati dell’Austria, dall’altra colle colonne mobili dell’esercito Russo. Circa le ore due del mattino guadagnarono il territorio polacco: varcarono, come abbiamo detto, la linea dei confini, a piccole schiere: gli Austriaci non diedero disturbo di sorta: solo il milite Dilani, ch’era rimasto indietro dalla sua comitiva, venne arrestato e rinviato a Cracovia. Una selva era il prestabilito luogo di convegno per tutti, ed in breve vi pervennero stanchi, ed intirizziti dalla fredda ed umida aria della notte carica di masse di nebbia. Albeggiava. Si erano collocate le scolte: le diverse compagnie si distribuivano ai loro posti, poiché Miniewsky voleva facesse in quella selva una fermata di parecchie ore, e ciò contro l’opinione di Nullo, al quale pareva che si dovesse pigliare il largo, più ch’era possibile, nell’interno del palatinato di Sandomir, poiché le truppe Russe erano condensate in grosso numero verso i confini di Cracovia e della Gallizia. Questa volta però sembra che meglio si consigliasse Miniewsky, il quale aveva capito, che il procedere più innanzi a marcie forzate con volontarj rotti dal sonno, dalla fatica e dal digiuno, era un voler pretender troppo. Ma nel mentre i volontarj si coricavano incominciò un lontano rumore di colpi, poi distinta si fece udire la fucilata a tramontana del bosco. Sono i Russi. Si grida l’allarme. Un miserabile contadino, che alzava altissime strida, viene a rifugiarsi nella selva, ed è tradotto innanzi agli ufficiali. Esso aveva un braccio fracassato da un colpo di calcio di fucile, e la faccia orribilmente spaccata dalle sciabolate dei Moscoviti, poiché lo avevano sospettato un esploratore al servizio degli insorti. Udito che parecchie compagnie di fanti Russi venivano in ricognizione alla volta della foresta, Miniewsky comandò si partisse immediatamente. Si marciava di buon passo per sortire all’aperta campagna, dove gli alberi non impedirebbero di scorgere da qual parte, ed in qual numero si avanzassero i nemici; ma i volontarii, ed i giovanetti specialmente non reggevano a camminare, tanto erano abbattuti dalla stanchezza. A ciò s’aggiungeva la fame, poiché dalla prima sosta in poi non si avea potuto a saputo trovar cibo, e troppo in fretta si erano smaltite le magre provvigioni, che ciascheduno si portava seco da Cracovia. Ma le boscaglie non si diradavano, e si estendevano nel paese per una tratta immensa, laonde dopo due ore di cammino si fece un nuovo alto per concedere alquanto di riposo, e per mandar fuori in diverse direzioni degli stracorridori. Ed ecco ad un tratto si risveglia non lungi lo spesseggiare delle archibusate, e si veggono spuntare a tiro di palla gli anti guardi delle schiere Russe, le quali procedevano lentamente, ma guadagnando terreno ad ogni momento. Miniewsky e Nullo non sapendo se avessero a che fare con un grosso corpo, o con una squadra volante di nemici, fecero un movimento obliquo verso destra per evitare un subito scontro: quindi staccarono in ricognizione una compagnia di cento Polacchi comandata da un Capitano e da un Luogotenente. Non c’incresce d’ignorare i nomi di questi due vigliacchi, i quali colsero il destro di allontanarsi per sempre, e passarono con tutta la compagnia nella Gallizia. Frattanto Miniewsky si raccoglieva sopra una specie di collina poco alta, ed ignuda affatto di ogni vegetazione, ed impartiva le disposizioni per aspettare su quella eminenza l’assalto delle truppe Russe. Gli Italiani ebbero l’onore di vedere a loro affidata la bandiera della Legione. Tutto all’intorno a quel simulacro di banco di sabbia sporgente correva una vasta landa isterilita senza vestigia di strade, di coltura, o di abitazioni umane. Qua e colà, e lungo le rive di qualche umile torrente si vedevano larghe macchie di alberi resinosi, e quell’insieme di natura triste e desolata, di pini e di cipressi dava agli Italiani l’immagine di un immenso cimitero. Nullo giudicava la posizione scelta da Miniewky assai pericolosa, ed impossibile a difendersi, perché troppo esposta da tutti i lati ai colpi del nemico, e ad essere chiusa in mezzo da’ suoi numerosi battaglioni. Forse egli preferiva secondo la sua audace natura di avventarsi nel piano, ed urtare uno dei fianchi ai Russi per romperne le file, e passar oltre. Infatti i Russi non tentarono l’assalto; pure continuarono un fuoco di moschetteria assai vivo per quasi tre ore, ed avrebbero recati gravissimi danni, se la cacciata dei loro fucili avesse spinto i proiettili fino alla sommità della collina. Il solo dubbio però, che potessero colpire avea bastato perché molti dei volontarii Polacchi novizii affatto ai pericoli delle battaglie si sbandassero. Laonde Nullo, che si rodeva di starsene inerte col suo drappello a numerare i colpi del nemico, insisteva presso Miniewsky, perché si levasse da quella sciagurata posizione, dove si sprecava tempo senza far nulla, e col rischio di rimanere avviluppati. – Abbiamo, diceva co’ suoi, dieci feriti; il colonnello Sasky è quasi senza soldati, da un momento all’altro può sbucare da questi boschi un battaglione, che abbia avuto tutto il tempo di contarci ad uno ad uno in questo maledetto pulpito; io non so che modo sia questo di far la guerra! – Nullo aveva il torto di credere che nel corpo di Miniewsky vi fosse l’anima di Garibaldi, o di Bixio, o di Medici, o d’altri di quella stoffa. Il suo presentimento non l’avea ingannato. Assai vicino al colle s’innalza da un bosco uno strepito d’armi, di grida soldatesche, poi una fitta fucilata. I pochi lancieri a cavallo, sedici fra tutti, retrocedono a briglia sciolta: i pochi fanti polacchi, ad onta del coraggio del loro colonnello Sasky, e de’ suoi sforzi per trattenerli fuggono dalla parte opposta: non rimangono che i Francesi, gli Italiani, i quali con Nullo alla testa si spingono animosamente contro il nemico. Ma il nemico protetto dagli spessi tronchi degli alberi scomparve rapidamente, né si pochi potevano avere la temerarietà di correrne in traccia negli inesplorati labirinti di una foresta. Reduci presso Miniewky, il quale s’affaticava a riannodare le smarrite file, e consultarsi insieme sul partito a cui appigliarsi; si delibera di sloggiare da que’ luoghi, e di cercare una strada per trovare villaggi, in cui provvedersi di viveri. Quasi tutti da trent’ore non avevano mangiato. Le strade, se quelle poteano meritare un tal nome, erano orribili. Bisognava camminare sopra uno strato di sabbia minutissima e pulverulenta, in cui la gamba fondava sino al garretto. Ad intervalli il terreno era tagliato da filoni d’una terra rossiccia, inzuppata di acqua, e tenacissima la quale impaniava i piedi. Si camminava, si camminva ora in una landa, che si perdeva coll’orizzonte nebbioso, ora in mezzo a foreste di pini, e l’occhio non era confortato mai dall’aspetto di campi o di case, che dessero segno di creatura umana. I cavalieri polacchi formavano l’antiguardo. Il centro della colonna, colla quale si tenevano Miniewsky e Sasky, era tutto di polacchi. Nullo, pregatone da Miniewsky, stava co’ suoi alla retroguardia, onde tenere in rispetto coloro, e pur troppo erano molti, che manifestavano intenzione di disertare. Il solo carro che si possedeva, tirato da due cavalli era carico di fucili e di falci, e sopra queste armi sdrajati, ora nel fango, e mosso da due povere bestie affrante dalla stanchezza e dalla fame, procedevano a stento: altri cavalli non si potevano assellare, perché all’uopo mancavano cinghie e funi. Fu peggio quando si giunse là dove il terreno bruscamente rialzandosi a pendio era mestieri trascinare a forza di braccia e carri e cavalli. Importava guadagnare tempo ad ogni costo, e bisognava consumarlo in fatiche improbe ed incessanti. Frattanto gran numero di que’ giovanetti polacchi vinti dal disagio si lasciavano cadere lungo la strada preferendo a tanti patimenti l’incertezza di cadere in mano ai Russi: altri si disperdevano tra le selve. Tutte queste cose scuotevano la fiducia anche negli animi più saldi. Richiesto Miniewsky del dove si anderebbe a far capo, rispondeva di non saperlo egli stesso. Le mormorazioni, sintomo foriero d’indisciplina e di disordine, si facevano ad alta voce: era facile a prevedersi, che in breve la legione si sarebbe disciolta. In que’ frangenti fu mirabile la costanza di Nullo e de’ suoi compagni italiani e francesi, ed anche al colonnello polacco Sasky si deve giusta lode di coraggio e di imperturabilità. Caroli, Marchetti, Mazzoleni, Borgia, Clerici italiani, un alfiere polacco del quale assai ci duole di non aver potuto rilevare il nome, Didier francese, furono sopra tutti instancabili a coadiuvare Nullo e Sasky per rinfrancare gli animi dei volontarii, e mantenere l’ordine nelle pur troppo diradate file. Miniewsky avrebbe fatto assai meglio a rimanersi in Cracovia. Superata la collina entrarono verso le cinque ore in una cupa boscaglia, e poiché per momento il più urgente bisogno era di riposarsi e dormire, si fece alto. Ma un destino inesorabile pesava su quella falange sciagurata. Sonnecchiavano appena i volontari abbracciati coi loro fucili, quando a breve distanza incominciarono le archiubugiate: pareva che i soldati della Russia nascessero dalla terra dietro i passi degli insorti. Si corre a spiare sul limite della foresta, e si veggono le bajonette dei Russi luccicare sopra lunga linea tra le macchie, ed i cespugli di altro bosco non lontano. Più a tramontana indistinto rullare di tamburi è segnale che altri nemici vengono a quella volta. I patimenti, la rabbia, la disperazione reagirono sugli animi affranti. In un baleno con tutti levati per combattere. Nullo sentì ribollirsi nell’anima le rimembranze di Palermo e di Milazzo, e scorrendo a cavallo tra le file gridava: salviamo l’onore, combattiamo fino alla morte! E diceva queste fiere parole a Miniewsky principalmente quasi per rammentargli, che non avrebbe ubbidito ad un nuovo comando di aspettare il nemico colle armi al braccio. Il campo degli insorti era così deposto, che avea alle spalle e sulla destra la fitta ed ampia foresta, di fronte ed a sinistra un largo fosso o letto di torrente asciutto, di cui la riva opposta si levava a guisa di argine, e copriva fino all’altezza delle anche i soldati. Al di là dell’argine correva una tratta di terreno piano ed arenoso della larghezza di circa duegento metri; più oltre spuntavano le macchie nane di un’estesa boscaglia senz’alberi, in mezzo alla quale col solito passo lento e sempre sparando si avanzavano i fanti Russi. Rilevata con un’ardita ricognizione la condizione topografica del terreno, e la posizione del nemico, il colonnello Nullo si confermò nel suo giudizio, che unico spediente era quello di sgomentare i Russi coll’audacia, e di aggredirli con una carica impetuosa alla bajonetta. Egli lo sapeva per esperienza, come tutti i capi di guerriglia sanno per istinto, che le masse compatte e pesanti degli eserciti regolari non si vincerebbero meglio, che scompaginandole con urti audaci ed eccentrici alla bajonette. È ben raro che alla furia di un’aggressione ardita di corpo a corpo resista la geometrica disposizione dei quadrati, e dei battaglioni. Miniewsky, che gustava con tanta voluttà il titolo di generale, s’avrebbe a giudicare in questa occasione un pover uomo di corto insediamento, e di coraggio assai limitato, il quale forse non avea avuto agio mai di riflettere seriamente, che quando si assume la terribile responsabilità di fare il generale, non basta provvedersi di buone intenzioni. Fortunatamente la reputazione del suo paese riposa su ben altre prove d’intelligenza o di valore! D’altronde per sentimento di giustizia noi dobbiamo dire schiettamente, che pronunciamo a malincuore un giudizio si sopra fatti e cose, che forse non conosciamo in tutta la loro luce istorica. Abbiamo udito le accuse contro un uomo, ma non le sue difese, e desiderando di gran cuore ch’egli ne abbia di inespugnabili, continuiamo a narrare. Rintanato col grosso delle milizie entro la selva, tutto il moto che si dava a Miniewsky, era di contemplare col cannocchiale le evoluzioni dei Russi, avvertendo, ben inteso, che un grosso albero gli facesse scudo alla persona contro le palle, che fischiavano tra le fronde. Nullo, che cola sua squadra non s’era mosso dagli avamposti, inviò il suo ajutante Caroli a significargli la sua intenzione di tentare l’assalto alla bajonetta; lo pregava inoltre che quando lo avesse veduto montare a cavallo al di là dell’argine, desse il comando a’suoi Polacchi di spingersi bravamente innanzi, e di secondare l’offensiva. Miniewsky non si mosse dal suo albero, ma rispose che farebbe. L’eletta schiera degli stranieri, che obbedivano direttamente al colonnello Nullo, si dispose lungo l’argine al di là del torrente: sulla sinistra si apprestò con una compagnia di Polacchi il colonnello Sasky, il quale abile ed intrepido veterano si crucciava al pari di Nullo, che i soldati male ubbidissero all’ordine ripetuto di non sprecare inutilmente i colpi rispondendo al fuoco dei Russi, e di serbare una scarica improvvisa a bruciapelo quando fossero a breve distanza dal nemico. Si fu allora che Nullo parve dominato per un istante da un triste presagio; era sopra pensiero, e voltosi a’ suoi amici disse crollando la testa – con soldati che non ubbidiscono, e col generale che ha paura, non si può fare nulla di bene. – Ma poi l’innato ardire gli ritempra lo spirito, sale a cavallo, salta l’argine, e gridando con voce tonante la carica si slancia contro i Russi. Noi scriviamo sulla fede di chi vide ed ha narrato i fatti. Meno gli italiani ed i francesi, i tre magiari, il colonnello Sasky e quattro Polacchi che furono in un baleno ai fianchi di Nullo, niun altro comparve al di là dell’argine. Era Miniewsky, che non avea dato il comando, o mancarono di coraggio i suoi soldati? Lo ignoriamo. Fosse la sorpresa sulla quale avea fatto assegnamento il Nullo, fosse il disegno di concentrare gli ordini sparsi per resistere all’urto inaspettato, i Moscoviti cessarono subitamente il fuoco, e suonarono a raccolta, e quel pugno di prodi rimase per un momento isolato in mezzo al campo simboli viventi dell’eroismo di quattro popoli, che dovrebbero pugnare insieme sempre per la causa della libertà. Nullo scorgendo a pochi passi caduto il giovane Elia Marchetti ferito mortalmente, e Febo Arcangeli colto da una palla al ginocchio, e veduto si scarso il numero intorno a lui, sentì avvamparsi d’ira e di dolore, e diede il segnale della ritirata. E quando vide i suoi compagni oltre l’argine al coperto dalle palle nemiche, volle dare una lezione di coraggio, a chi ne avea di bisogno, ed accendere coll’esempi una scintilla di valore, in chi titubava. E là sull’argine, alto e ritto in arcione al cospetto del nemico, percorreva al lento passo del suo cavallo .a fronte del piccolo campo, e strappava in tutti i volontarii un grido di ammirazione e di entusiasmo, che face rimbombare la selva. Forse nel momento in cui tanti applausi lo salutavano, egli accompagnava più coll’anima che coll’occhio Caroli ed altri pietosi, che portavano il Marchetti agonizzante entro la foresta. La critica enuca e l’invidia indispettita oseranno domandar della logica e dell’aritmetica a tanta intrepidezza, e colle abiette lenti dell’egoismo sapranno scorgevi dentro della imprudenza e della vanità. Ma quando l’Italia e la Polonia ricorderanno Francesco Nullo brillerà agli occhi de’ posteri la splendida figura del cavaliero colla spada ignuda e solo di fronte ai battaglioni della Russia. Agli evviva dei volontarii rispose con tremendo fragore il fuoco dei nemici: il cavallo di Nullo colpito da due palle stramazza a terra. Caroli, Mazzoleni, Clerici e l’alfiere Polacco accorrono in mezzo a quella tempesta di proiettili a scongiurare Nullo di ritirarsi, e gli prestano aiuto a disimpacciarsi dal pesante cadavere. Il prode già riavuto dalla scossa balza in piedi, ed abbracciato ancora dall’alfiere Polacco si volge sorridendo a salutare colla mano i Russi, quando in un subito i suoi fidi lo vedono impallidire, vacillare un istante e cadere a terra. Una palla, forata la mano dell’alfiere che lo avea rialzato, lo ebbe colpito al fianco alla regione del cuore – Mio Dio! Gli dice Caroli, che hai Francesco? – Son morto, risponde freddamente il Nullo, e lascia cadere la testa sul braccio dell’amico, che lo baciava in fronte. Era spirato. Al poco ardire, al disordine che regnavano già prima nella affievolita legione, succede la costernazione sul drappello degli italiani, e lo scompiglio in tutti. Miniewsky che nella breve campagna non avea saputo far nulla di bene, perdette del tutto la bussola, e si trovò il più impacciato fra quei poveri impacciati. I Russi s’avvicinavano rapidamente; niuno dava ordini, come niuno pensava ad eseguirli; da tutti si gridava che era necessario internarsi immediatamente nella selva, e cercare rifugio al di là del confine austriaco della Gallizia. Le palle russe sfracellavano i rami dagli alberi al di sopra delle teste dei volontarii, e non lungi s’udivano i nitriti delle cavalle dei Cosacchi. Miniewsky ben deliberato in un solo pensiero, cioè a non cadere nelle mani dei Russi, diede ordine che già si eseguiva sotto i suoi occhi, quello della ritirata, e si volse ad offrire a Caroli il comando dei legionarii stranieri; a che il giovane con molto senno rispondeva, che bisognava pensare a salvarsi non a creare dei comandanti. Quindi pigliata quella direzione che la corrente dei fuggitivi parea indicasse come la più sicura per accostarsi alla frontiera austriaca, si allontanarono tutti alla rinfusa, e si volsero verso il villaggio di Crzikawka seco traendo come meglio potevano, il semivivo Marchetti ed il ferito Arcangeli. Ma le difficoltà del cammino accresciute dalla confusione presente e dagli stenti già tollerati, si faceano gravissime. Usciti dalle selve s’erano inoltrati in una landa deserta, e tutta impregnata di acque stagnanti, che a tratti si apriva in gore paludose, in cui si correva pericolo di sprofondare. In una di queste gore scivolò col cavallo sul quale veniva trasportato l’Arcangeli, e vi sarebbe affogato, se Caroli pensando più a salvare il compagno che al proprio scampo, non si fosse trattenuto a cavarlo da quella palude, e rimetterlo sulla via. La schiera sempre più immiserita dalle continue diserzioni dei giovan Polacchi, i quali conoscendo i luoghi e la lingua del paese, si disperdevano fra i boschi e le paludi, era ormai ridotta ai pochi italiani e francesi coi tre magiari e qualche decina di nazionali. Miniewsky stesso e Sasky scomparvero. I rimasti vagavano alla ventura per quelle solitudini, e non reggevano a proseguire il viaggio che nella fiducia di sfuggire al nemico e do toccare la Gallizia. Errarono tutta la notte senza sapere ove si fossero, né a qual meta riuscirebbero: cogli abiti laceri ed intonacati di fango, affrante le membra pel digiuno e le fatiche, sconfortati, perduti in deserte regioni a mille miglia dalla patria sì caro pagavano que’ generosi figli d’Italia e di Francia il loro affetto alla causa della libertà. Apparve finalmente una collina, che dava segno di soggiorno d’uomini, poiché gli alberi si vedevano disposti a file simmetriche; ed una colonna di fumo sottile e continua che si elevava al di sopra delle piante, offriva indizio di capanne o casolari di contadini che bruciassero legne. Subitamente drizzarono cammino a quella volta, e per accorciarlo valicarono un esile fiumicello, uno dei tanti che dall’alto piano su cui s’innalzano le cime dei Carpazii, portano il loro povero tributo alla superba Vistola. E poiché temevano ad ogni momento di essere sorpresi dai fanti o dai Cosacchi Russi, di cui si sapeva gremita tutta la zona di Polonia vicina alla Gallizia, s’affrettavano con ultimo sforzo a guadagnare la collina, d’onde s’avrebbe abbracciato coll’occhio un vasto cerchio di paese. Erano serbati a nuovi dolori. I boschi alle radici della collina erano un accampamento di soldati Russi, i quali segnalato appena il piccolo gruppo di armati che sopravvenivano, incominciarono a sparare, e quei primi colpi destarono una tempesta di fucilate, che s’incrociavano da ogni lato. Ogni varco si presentava chiuso, troppi i tormenti ed i nemici; del resto né l’animo né le forze avrebbero bastato a più debole contrasto. Quelle misere reliquie di una spedizione infelice avevano pagato ad usura il loro debito alla causa della Polonia, e quando comparve a cavallo un ufficiale Russo, Caroli agitando una pezzuola bianca fa’cenno ch’egli ed i suoi compagni si arrendevano prigionieri. L’uffiziale tuonò con voce stentoria un comando, che fece cessare il fuoco. Era il generale Sakoskoi, e certamente un prode, perché si dimostrò cortese ed umano coi vinti. Egli impose a’ suoi soldati di rispettare la sventura, e die’ ordine che i prigionieri fossero scortati immediatamente ad Olkusz. Poi rivolto a loro diceva con nobile compiacenza – ringraziate la fortuna, ch’io sia sopravvenuto in tempo a salvarvi; non uno di voi sarebbe scampato al furore delle truppe. – che quelle parole non fossero una vanteria soldatesca stava a pochi passi di là un terribile argomento, ed era un povero Polacco che moriva massacrato a colpi di baionetta. L’Italia che ricorderà con orgoglio questa impresa tanto generosa quanto sfortunata, deve un sentimento di gratitudine al generale Sakoskoi, che le ha salvato un drappello di prodi e volle che onori militari fossero resi alla salma di Francesco Nullo. – Olkusz è piccola, ed immiserita città al Nord-Ovest di Cracovia. I prigionieri vigilati vi giunsero esausti di forze dopo una lunghissima marcia di 20 ore. Arcangeli venne ricoverato nello spedale civile: il povero Marchetti moriva tra le braccia di un ufficiale austriaco: gli altri secondo gli ordini del generale Sakoskoi, furono liberi sotto parola d’onore entro il recinto della città, che pareva assai lieta di confortarli con infinite dimostrazioni di benevolenza e di gratitudine. Ma il generoso contegno del generale Russo, e le testimonianze d’affetto dei cittadini di Olkusz furono breve illusione per gli infelici, che ancora ignoravano la sorte, che li aspettava. Trascorsi quattordici giorni un uffiziale russo venne da Varsavia, e per comando del supremo tribunale militare fe’ loro conoscere, che sarebbero immediatamente tradotti in quella città. Del resto durante il nuovo viaggio verso la capitale della Polonia, i modi di quell’uffiziale, e quelli dei soldati che li accompagnavano, non tradirono punto i biechi intendimenti di coloro, che s’apprestavano a giudicarli. Chiusi nelle carrozze, non legati, non vestiti del lurido sacco dei prigionieri, non insultati dalla soldatesca che pure li vigilava con occhio torvo e sinistro, giunsero a Varsavia, e furono condotti nella cittadella. Se pure non bastava l’idea terribile d’un giudizio militare, quale triste presentimento non avrebbe risvegliato l’aspetto di quel covile del dispotismo irto di torri, di bajonette, e di cannoni! I giorni trascorrevano lunghissimi nell’ansia della incertezza, ma la baldanza giovanile, e l’animo intrepido non smarrivano per le infauste novelle dei supplizii, che in Varsavia ogni dì si consumavano sugli sgraziati Polacchi prigionieri, né pei truci ceffi degli aguzzini Moscoviti, che s’aggiravano nel recinto del castello. Caroli ed i suoi compagni di sventura italiani e francesi sapevano, che i Ministri di Francia e d’Italia, ed altri personaggi autorevolissimi non aveano frapposto indugio ad interporre i loro caldi ufficii presso il Granduca Costantino, ed il generale Berg, perché le voci della clemenza e del perdono non fossero intieramente soffocate dal rigore delle leggi militari. Si: bisognava parlare di clemenza e di perdono innanzi ad uomini irritati e potenti, pei quali i nomi di libertà e di patria non hanno altro significato che di ribellione e di tradimento, e non sanno e non possono rispondere al diritto dei popoli, che colle palle di piombo e col capestro. Finalmente il giudizio ebbe luogo, la sentenza fu pronunciata. Era di morte. Ma il Granduca Costantino si piegava a commutare in altra pena quel decreto di sangue: il fratello dello Czar usando il diritto di grazia concede ai compagni di Nullo dodici anni di deportazione nella Siberia. Con mille altri compagni di sventura sono partiti a quella volta Caroli Luigi, Andreoli Emilio, Venanzio Alessandro, Richard Luigi, Giupponi Ambrogio, Menli Lucio e Giacomo fratelli, e Clerici Giuseppe. III Nel mentre i poveri prigionieri scortati dai Cosacchi attraversano il vasto territorio che da Pietroburgo si estende fino alle montagne, le quali segnano il confine tra l’Europa e l’Asia, il nostro pensiero li procede nelle desolate regioni della Siberia, e si studia di abbracciare con uno sguardo complessivo quell’immenso paese, dove il dispotismo della Russia manda da due secoli a confondere insieme i loro dolori i rifiuti degli ergastoli e le vittime della libertà. Alla distanza di quasi 1300 miglia da Pietroburgo verso Oriente le grandi pianure della Russia Europea sono chiuse e separate dall’Asia da un naturale baluardo di montagne, le quali sotto il nome di catena dell’Ural corrono in direzione di tramontana a mezzodì per la lunghezza di circa mille miglia. Esse stanno colla base adagiata sopra un altipiano della media larghezza di 60 e 100 miglia, che sorgendo poco lontano dall’avvallamento del Mar Caspio si protende quasi in linea retta fino ai lidi sconosciuti dell’Oceano glaciale artico. Le montagne, che si levano non interrotte su questo dorso gigantesco dei due continenti, sono più o meno alte, e talune coperte di nevi eterne, hanno i fianchi dirupati assai più verso l’Asia che non dal lato dell’Europa, e nascondono nel loro seno miniere ricchissime di ferro, di rame, di piombo, d’argento e d’oro. Agli ingrati lavori, che debbono compiersi in quel clima orribile, e che impugnano la Russia di circa venti milioni di rubli ogni anno, sono condannati gli infelici prigionieri, i quali vigilati dalle guarnigioni Russe vi finiscono ben presto di stenti, e di fame una misera esistenza. La superbia dei Russi non ammette la frontiera segnata dalla natura tra l’Asia e l’Europa: agli occhi loro la catena dell’Ural non è che la spina dorsale del vasto impero Moscovita, il quale dalle acque del Baltico abbraccia tutto il Settentrione dell’Europa, dell’Asia, e dell’America fino al grande Oceano. È una vanità, che si può perdonare ad una nazione, che domina sulla vigesima ottava porzione del globo, e costituisce la quindicesima parte del genere umano. Al di là dei monti Urali è la Siberia, ossia la Russia Asiatica, regione più ampia che non tutti insieme il continente d’Europa. Infatti la Siberia misura una tratta media di 3700 miglia da ponente a levane, e di 1500 da mezzodì a tramontana: in tutto una superficie di circa quattro milioni di miglia quadrate, la quale aperta verso il Nord va a morire con insensibile pendio nelle inesplorate solitudini dei Mari Polari. Contano ampia estensione di terre è segregata all’Ovest dall’Europa per la catena dell’Ural; al Nord è chiusa dai ghiacci eterni dell’Oceano Polare, all’Est dallo stretto di Behring, e dall’Oceano orientale, che fascia il globo tra l’Asia e l’America; al Sud dalle molteplici ed inaccessibili montagne Altaiche, Sajaniche, e Dauriche, le quali ricingono le steppe dei Tartari indipendenti, e l’impero della China. Innumerevoli e maestose correnti di acqua dolce irrigano inutilmente quei paesi dominati da una rigida e nebbiosa atmosfera, ed abbandonati allo squallore di una lunghissimo inverno. I fiumi scendendo dalle montagne altissime dell’Ovest e del Sud, errano in vallate solitarie, e deserte pianure, alimentano una moltitudine di laghi, di paludi, e di stagni senza numero e senza nome, ed infine si raccolgono quasi tutti nei bacini principali dell’Obi, del Ienissei, dell’Irtich, dell’Angara, del Lena, che finiscono a scaricarsi nell’Oceano glaciale. Quelle larghe e profonde fiumane vanno a cercare i mari lontano migliaja di miglia, e travolgono masse di acque di molto superiori a quelle del Wolga e del Danubio, che sono i più grossi fiumi dell’Europa. Le loro sponde non mai animate dall’aspetto di abitazioni umane o sono nascoste in mezzo a foreste interminabili, o stanno confuse in grembo a paludi sconfinate e piene di giunchi e di canne, fra cui vivono a stormi i castori, le oche e le anitre selvatiche, i cigni, ed altre specie infinite d’augelli acquatici. Stagni di acqua dolce o salmastra, laghi di ogni dimensione e forma, ora disseminati in mezzo alle lande, ora attorniati da colline di sabbia e da rupi nerastre; di quando in quando serie capricciose di valli e di monti attristati da una vegetazione malinconica come il cielo torbido, che vi sta al di sopra; qua e colà ad enormi distanze tra loro le città edificate dai Russi, e popolate poscia dagli esiliati, e dai mercandanti venuti dall’Europa; al piè delle montagne e lungo i fiumi le rare e sordide capanne delle tribù indigene, che vivono di caccia e di pesca; poi praterie, e steppe non mai abbellite da una pianta d’alto fusto, non mai visitate che dalle renne, dagli orsi, e dai lupi; poi deserti ribelli ad ogni coltura, ed incrostati da eterno gelo, che si perdono nell’orizzonte: ecco il quadro, che all’occhio del viaggiatore presenta in generale il suolo della Siberia, quale diversa fisionomia potrebbero offrire regioni che per nove e talvolta dieci mesi l’anno sono involte nelle nebbie, e sepolte nel ghiaccio e nella neve? L’inverno incomincia nella Siberia col mese di Settembre e non di rado il gelo non è ancora disciolto alla fine di Maggio. Nei pochissimi luoghi, dove si fa qualche tentativo di agricoltura, se il seminato non è maturo per la seconda metà dell’Agosto si ritiene perduto; bene spesso accade che sulle messi vicine alla mietitura sopravvenga una nevata, che involge fino all’estate susseguente. Durante la stagione invernale non è strano che il freddo sia tanto intenso da congelare il mercurio e lo spirito di vino nelle palle dei termometri, lo che avviene a non meno di 40 gradi al di sotto dello zero. Quasi dappertutto la terra si trova gelata fino a quattro metri di profondità, ed anche quando il sole nella breve estate scioglie la crosta impietrita alla superficie, scavando poco più di una spanna al di sotto si rinviene ancora il suolo agghiacciato. Del resto nella zona più settentrionale e sulle spiagge del mare Artico l’inverno è perpetuo; su quella plaga squallida e desolata i raggi del sole sono impotenti a produrre calore: i ghiacci e le nevi non si fondono giammai. A sì crudi e lungo inverno succede sul finire di Maggio, od in principio di Giugno l’estate, la quale per un contrasto inesplicabile arreca un calore improvviso e bruciante, per cui in poche settimane la terra si copre di erbe e di fiori, le piante si vestono di foglie, i grani si sviluppano, si maturano, e si raccolgono. Allora nei paesi più meridionali, e meno esposti al soffio gelato dei venti polari si veggono vicino alle città delle piccole oasi di verdura, dove crescono rapidamente l’orzo, l’avena, il lino, la canape, i pomi di terra, i cavoli, ed altri vegetabili, che sfidano per l’industria dell’uomo una natura ingrata. Il moto, e la vita appajono collo scomparire del ghiaccio e delle nebbie: animali e vegetabili pare s’affrettino al pari degli uomini a godere di quelle delizie fugaci che il calore del sole arreca per pochi mesi. Diciamo fugaci, perché col cadere dell’Agosto l’inverno riede inesorabile, e qualche volta nel cuore del Luglio un vento improvviso di tramontana fa agghiacciare, e morire un una notte la neonata vegetazione. Il rigore quasi costante per tutto il corso dell’anno di un’atmosfera freddissima, le impure esalazioni dei maresi vastissimi, l’umidità delle nebbie folte e frequenti, il rapido salto dell’inverno all’estate senza le stagioni intermedie della primavera e dell’autunno rendono il clima della Siberia insalubre per coloro massimamente, che vi sono stranieri, o che hanno scarsi mezzi per combatterlo, come i poveri nelle città ed i nomadi indigeni nelle campagne. Lo scorbuto, la scrofola, la rachitide, le febbri miasmatiche sono frequenti in quello sciagurato paese. Nelle steppe le mandre degli armenti, ed i cavalli in ispecie vanno soggetti ad una malattia pestilenziale, che ne fa strage, e non risparmia talvolta gli uomini. Altro flagello non insolito per le tribù semiselvagge è la fame, e questa consiglia non di rado i poveri Tartari a mangiare col latte di cavalla o di renna una specie di terra argillosa assai molle, che si chiama midollo di roccia, oppure ad impastare colla farina di segale del gesso in polvere. Quanto la natura fu avara coi Siberiani di ricchezze vegetabili, altrettanto fu generosa con loro di tesori inesausti nel regno minerale ed animale. Metalli nobili ed ignobili, e pietre preziose abbondano a profusione nelle montagne Uraliche, ed Altaiche, e potrebbero divenire sorgenti di lucro immenso, se meno scarso fosse il numero delle braccia a coltivarne la produzione, o meno geloso il governo Russo a mantenerne a suo profitto il monopolio assoluto. Più di ventimila persone o pagate, o forzate dalla Russia lavorano costantemente nelle miniere della Siberia: lo stimolo adoperato più di frequente, e con più larga misura per eccitare l’attività dei minatori è il bastone; ma s’inganna a partito il despota di Pietroburgo credendo un tale mezzo il più economico: le vergate costano assai poco a chi fa distribuire anche senza parsimonia, ma non inspirano certamente in chi le riceve né zelo, né prontezza al lavoro, né moralità. Fra gli animali domestici più diffusi e più utili alla Siberia va segnalata la renna, di cui si veggono mandre numerose per tutta l’immensa zona, che si prolunga dai monti della Mongolia Chinese fino ai lidi dell’Oceano glaciale. Le tribù vagabonde dei Samojedi, dei Tongusi, dei Coriachi, dei Tsciuti, al pari dei Lapponi d’Europa, appoggiano la loro esistenza alle renne. Da esse infatti si fanno tirare le slitte, si cava il late per bere, le carni per mangiare, la pelle per vestirsi, le budella per fare il filo, le vesciche per uso di bottiglie, le ossa per abbruciare, il pelo e le corna per vendere in cambio di altre merci. Compagno della renna è il cane di Siberia, che ha l’aspetto, la fierezza del lupo, ma sa tuttavia rassegnarsi a vivere ubbidiente all’uomo, ed a servirlo sia per tirare anch’esso la slitta, sia per difendere le renne dagli altri animali feroci. Parecchie orde Siberiane allevano numerose greggie, e posseggono superbe razze di cavalli, de’ quali la massima parte hanno il pelo bianco, e molti sono segnati a fascie come le tigri, od a macchie, come i leopardi. Madre innumerevole di cavalli ed asini selvatici, di alci, di antilopi, di cervi, di capriuoli scorrono nella sconfinata steppa di Barabin, ed in altre della Siberia meridionale. Zibellini, ermellini, scoiattoli, marmotte, volpi nere, bianche, ed azzurre, lepri, ed altri quadrupedi perseguiti accanitamente dagli avidi cacciatori, che ne vendono le preziose pelli, sono ormai divenuti rari anche nelle recondite provincie più vicine ai mari polari. Così i castori, di cui erano un tempo popolate le sponde dei grossi fiumi della Siberia, sono quasi scomparsi dai luoghi accessibili alla ingordigia dell’uomo. Le umide praterie, e le paludi sono l’ambito soggiorno di torme di innumerevoli di oche, di anitre, di beccaccie, e d’altra selvaggina di carne dilicata, e di piume finissime, le quali sono merce assai appetita dai negozianti della Russia e della China, e scambiata dai Siberiani con altri prodotti dei due limitrofi imperi. I fiumi riboccano di pesci, e specialmente di lucci, di rombi, e di storioni. Nei laghi si pescano trote enormi. Durante l’estate l’aria è inondata da turbini di moscherini, e di zanzare molestissime, e da un’altra specie di insetti quasi microscopici, i quali furono denominati da Linneo furie infernali. Cotali insetti se non si mostrano degli interamente del titolo spaventoso, con cui li ha designati il celebre naturalista Svedese, non cessano però di tormentare l’uomo e gli animali al paro, e più forse delle cimici, e delle vespe che anch’esse infettano la massima parte delle pianure della Siberia. Ma lo Czar delle belve feroci, e fra tutti gli animali senza conforto il più formidabile e vorace è l’Orso bianco, il quale si aggira o solitario, o congregato a tornare numerose tra i ghiacci delle coste settentrionali, e non pare creato che a distruggere spietatamente quanti viventi terrestri od anfibii incontra nelle sue escursioni. Il suo istinto sanguinario non si calma, quando è satollo di cibo, ma pare che l’abbondanza della preda lo stimoli ad uccidere e sbranare per la sola voluttà di vedersi attorniato di cadaveri. Nemico dell’uomo, di cui non ha timore, è però tanto stolido o temerario da lasciarlo avvicinare , e lo attende colla gola spalancata e seduto sulle gambe posteriori in atto di sfida, fino a che cade rovesciato dal colpo di lancia, che gli trafora il torace. Chi oserebbe supporre che paesi, i quali pajono condannati a perpetua dimora dell’inverno e della nebbia, abbiano nutrito un tempo mandre numerose di elefanti, di rinoceronti, e d’altri giganteschi animali erbivori della zona torrida? Eppure in molte contrade della Siberia lungo le rive dei grandi fiumi, o dentro gli strati terrosi dei piani circostanti alle larghe riviere, i viaggiatori attoniti trovano dei vasti ammassi di ossa ammonticchiate, e non di rado degli scheletri intieri di tali quadrupedi di misti colle vertebre e coi cranii di cetacei, colle scatole di conchiglie marine, e colle reliquie distinte di bufali, di cammelli, di leoni, ed altre belve dei climi ardenti dell’Asia e dell’Africa. Le isole Lieikoff non sono altro che un impasto di ghiaja, di ghiacci, e di avanzi ossei d’elefanti, di rinoceronti, di bufali, di balene, e di foche. Quei frequenti depositi di ossa, e di carcami, e di cadaveri, che occupano talvolta anche nell’interno delle terre parecchie miglia quadrate di superficie, e fino a venti metri di profondità, sono la disperazione dei dotti, i quali s’accorderebbero a supporli colà trascinati e sepolti dalla violenza di un diluvio, se molte altre osservazioni non facessero dubitare seriamente che gli animali, a cui appartenevano, vissero e morirono nei luoghi, ove trovarono la tomba. Pare che la Siberia abbia ricevuti il suo nome da Sibir, città dei Tartari, e residenza del loro Khan o Capo supremo, quando essi dominavano in tempi anteriori alla conquista Russa sui paesi situati nella parte occidentale e meridionale, e bagnati dai fiumi Sibirika, Tobol, Irtyk, Obi, e Inissei. Del resto quei paesi inospitali non hanno storia, che risalga all’indietro di tre secoli. I geografi antichi si limitarono a sospettare, che al di là dei monti Urali non vi fosse che mare interminabile di ghiaccio: nel medio evo il celebre Marco Polo aveva udito i Tartari del mezzodì discorrere vagamente di un gran paese a tramontana, dove abbondavano preziose pelliccie, e regnavano nebbie perpetue. Nell’anno 1580 un avventuriero Cosacco di nome Iermak-Timofeyew si spinse con un orda di suoi connazionali al di là dell’Urla, soggiogò le Tribù Tartare dela Siberia occidentale, prese possesso delle loro terre, e spalancò all’ambizione della Russia le sconfinate regioni dell’Asia e dell’America Settentrionale. La scarsa popolazione oggidì disseminata sul suolo della Siberia giunge appena a tre milioni di abitanti: quella immensa estensione di terre, che è di due settimi più vasta dell’Europa contiene meno abitatori, che non la Lombardia. Ma lungi dal formare una nazione, que’ popoli offrirono uno strano miscuglio di razze diverse, le quali in epoche differenti, e per opposte vie penetrarono, e presero stanza nel paese, e separate tra loro da spazii enormi di terre, di acque, e di monti non si avvicinarono mai per collegarsi in amicizie, né per farsi la guerra. Questo va detto a riguardo delle tribù, che si trovarono nella Siberia prima della irruzione dei Cosacchi, e della successiva conquista dei Russi; poiché da quel tempo la razza Europea favorita dalla potenza espansiva e rapace del colosso Moscovita ha incominciato a farsi strada, e prevalere in tutti i modi sugli indigeni, e finirà in tempo non lontano a distruggerne colla indipendenza anche il nome. Le orde Tartare allevatrici di armenti e di mandre numerose di cavalli, le famiglie erranti di stirpe Mongolica, che vivono di caccia e di pesca, le nomadi Tribù Tonguse calate dai monti della China, che posseggono migliaja e migliaja di renne, e si esercitano in continua guerra contro gli animali feroci o proficui, i poveri Samojedi, che abitano le spiaggie dei mari agghiacciati, i miserabili Kamsciatkadali, che lottano contro gli orrori degli inverni del polo Artico, formano in tutto un mezzo milione di sudditi, ai quali è soggiorno la solitudine delle steppe, o le spelonche scavate nella neve e barricate di ghiaccio. Rozzi e barbari, ma docili ed innocenti essi pagano il tributo al primo caporale Russo, che si presenta in nome dello Czar ad esigerlo da loro, ed amano la squallida terra, su cui sono nati con quell’affetto, che portiamo noi al nostro paese rallegrato dal perpetuo sorriso della natura. Russi, Cosacchi, ed altri coloni emigranti dall’Europa costituiscono il maggior numero degli abitanti della Siberia. Questi sono i figli dei conquistatori, o degli infelici esiliati, che da due secoli caccia la Russia a languire in quei deserti: contadini avventurieri, negozianti, disertori dall’Europa che cercavano scampo, o risorsa su quelle spiaggie remote, s’aggiunsero a quei primi, e dalla miscela nacque un nuovo popolo, che forse coi secoli acquisterà forme e sostanza di nazione. Gli esiliati, che hanno la fortuna di non essere condannati ai lavori delle miniere, gli uffiziali e gli impiegati del governo Russo, ed i numerosi commercianti, i quali creano industri coi prodotti del paese, o li scambiano con quelli dell’Europa e della China hanno dato a molti luoghi della selvaggia Siberia una fisionomia di civiltà avanzata, che forma l’ammirazione degli stranieri. In mezzo a lande sterminate di pantano gelato, tra le nebbie perpetue di steppe senza nome, sulle sponde solitarie di laghi e di fiumi, che per otto o dieci mesi dell’anno sono coperti di ghiaccio, a distanze di centinaja di miglia fra loro sorgono città e borgate fiorenti di traffici e di industrie, a cui non mancano né templi, né scuole, né teatri, né botteghe da caffé, né alberghi, né quant’altro la necessità od il lusso ha saputo creare nelle città dell’Europa. Casini eleganti, e cocchi, e cavalli, e fiere, e mercati, e superbi abbigliamenti di case e di persone, e tutto il moto e lo splendore della civiltà moderna s’ammirano su quella porzione del globo, che l’uomo ha rubato ad una natura matrigna. Essa indispettita si vendica invano negando il calor del sole, e sprigionando su quei piani i gelidi aquiloni del Polo Artico. Togolsk, Tomsk, Irkusk, Ekaterinemburg, Nischnei, Tiumen, Atetuin, Kolywan, Barnaul, Ienisseisk, ed altri minori sono i centri di popolazione, che hanno nome, ma non sempre aspetto di città. L’arte e l’industria degli abitanti sfida e vince spesso condizioni di terra e di cielo, che pajono create soltanto per i lupi e gli orsi: giardini d’inverno alla foggia Russa, folte pelliccie, stufe eccellenti, cibi succosi, e bevande stimolanti, esercizii ginnastici sul ghiaccio coi pattini, e sopra la neve colle slitte si oppongono ai rigori del clima: lunghe carovane di commerciati, di soldati, di esiliati comunicano il movimento dell’una all’altra città: l’arrivo dei cacciatori, o di campagnoli carichi di selvaggiume e di pelli d’animali serba vivi i rapporti fra le città, e le campagne. I prigionieri italiani sono relegati a Toblosk. Dessa è considerata capitale della Siberia, e sorge là dove il fiume Tobol si congiunge coll’Irtych alla distanza di quasi due mila miglia da Pietroburgo. È popolata da circa 20 mila abitanti, è sede di un governatore e di un arcivescovo, ed un attivissimo commercio vi alimenta le industrie, e l’agiatezza. Fatta eccezione dell’imperatore delle Russie, niun Sovrano in Europa comanda sopra si vasta estensione di territorio, quanto il governatore di Tobolsk: la sola sua provincia divisa in dieci compartimenti occupa tanto spazio, quanto la Francia e la Spagna prese insieme.