Se mille anni vi sembran pochi… Tentativo di sintesi di filosofia

Se mille anni vi sembran pochi…
Tentativo di sintesi di filosofia medievale
1. Il periodo
Il termine “Medioevo” significa età di mezzo: fu creato dagli umanisti del XIV secolo,
tra cui Petrarca, che interpretarono il periodo compreso tra il V e il XV sec. d.C. come
un’età di ripiegamento e decadenza, un periodo buio collocato tra due epoche
luminose, l’antichità greco-romana e il rinascimento europeo, caratterizzato dal
ritorno dei classici. La storiografia attuale rifiuta questa interpretazione, perché
ritiene assurdo pensare che un periodo così lungo (un millennio) possa essere letto
unicamente come declino e regresso. Anche dal punto di vista filosofico, come
vedremo, il Medioevo fu creativo e innovativo. Chi sottovaluta il pensiero
medievale di solito ne sottolinea la scarsa originalità e l’assenza di una riflessione
razionale indipendente dalla fede cristiana. In realtà, come osservò uno dei più
grandi storici della filosofia medievale, il francese Etienne Gilson (1884-1978), i
pensatori medievali furono grandi proprio perché, nonostante l’esiguità delle fonti
classiche di cui disponevano (fino al sec. XIII, poco Platone – soltanto Menone,
Fedone e Timeo – e pochissimo Aristotele), dimostrarono una capacità di scavo e di
sottile analisi che ci stupisce ancor oggi. Per quanto riguarda il rapporto con la fede
cristiana, la lettura diretta dei testi smentisce la convinzione che non si possa
filosofare all’interno di un orizzonte religioso, perché la Verità (cioè Dio) sarebbe già
data, e non da cercare. Nella cornice delineata dalla fede cristiana trovano posto
analisi e discussioni genuinamente filosofiche di logica, teoria della conoscenza,
metafisica, etica e politica. Di questo aspetto, comunque, tratteremo più
diffusamente in seguito.
2. La periodizzazione
Secondo la periodizzazione tradizionale, il Medioevo inizia nel V secolo d.C., più
precisamente nel 476, per concludersi nel 1492 (anno della “scoperta” o “conquista”
dell’America, dell’espulsione di ebrei e musulmani dalla Spagna, della morte di
Lorenzo il Magnifico). Anche se la data finale appare più plausibile, entrambe
possono essere messe in discussione. Che cosa accadde nel 476? un fatto che nella
percezione dei contemporanei non sembrò così “epocale”: da tempo l’Europa
occidentale era teatro di scorrerie di popoli germanici, e in quell’anno il capo
barbaro di turno, lo sciro Odoacre, depose l’ultimo imperatore d’Occidente, il
ragazzo Romolo, detto “Augustolo”, cioè piccolo imperatore, senza però sostituirsi a
lui. Odoacre chiese soltanto terre e qualche privilegio fiscale per i suoi, e restituì
all’imperatore d’Oriente (ricordiamo che dal 395 c’erano due Cesari, uno nella
capitale occidentale, Roma, poi Milano e Ravenna, e un altro a Costantinopoli, la
città imperiale fondata nel 323 da Costantino) le insegne imperiali. Da quel
momento, quindi, l’unico imperatore romano fu quello d’Oriente. Questo evento
politico tuttavia non decretò la fine della civiltà romana: l’Urbe continuò ad essere
una città “capitale”, per il suo passato glorioso e il suo presente di sede del vescovo
di Roma, il latino era la lingua parlata da tutti, il cristianesimo la religione ufficiale, le
istituzioni politiche e giuridiche romane mantennero ancora a lungo la loro
importanza, le città erano ancora popolate. Il declino però era iniziato sul piano
economico, della produzione, della circolazione monetaria aurea, dei commerci, dei
trasporti. Un primo attacco alla periodizzazione tradizionale fu sferrato nel 1937
dallo storico belga Henri Pirenne (1862-1935) nell’opera – pubblicata postuma –
Maometto e Carlomagno, in cui Pirenne sostiene che l’evento che diede inizio al
Medioevo non fu la presunta “caduta” dell’impero d’Occidente nel 476, ma fu la
rottura dell’unità religiosa e culturale del Mediterraneo, determinata
dall’espansione islamica nel VII secolo d.C.
Più recentemente, Jacques le Goff (1924-2014), ha proposto la sua affascinante e
discussa teoria del “lungo Medioevo”: se si esce dalla storia intesa come sequenza di
re, papi e imperatori, o come succedersi di guerre, conquiste e trattati di pace, ma si
bada alla storia quasi immobile delle strutture economiche e sociali, e alla vita
quotidiana delle persone, si deve ammettere che il Medioevo non è affatto finito nel
1492, ma è durato fino alla Rivoluzione industriale, come spiega Le Goff nel brano
seguente, tratto da un’intervista:
“Il concetto di Medioevo è nato nel Trecento dal distacco degli Umanisti
dall'arte del loro tempo, non a caso qualificata come "gotica", cioè barbarica.
Petrarca parla addirittura di "tenebre", dalle quali si poteva uscire solo
tornando ai canoni dell'arte e del latino della classicità. Per noi oggi il
medioevo non è né può essere un'unica epoca storica, delimitata da date
precise: innanzitutto perché la storia degli uomini non è più solo vista come
sequenza di re, papi, imperatori, guerre. Oggi ci interessano certo i grandi
protagonisti - tanto che ha ripreso importanza il genere delle biografie - ma
anche e forse più ci interessano gli uomini e le donne di tutti i giorni, come
vivevano, cosa pensavano, quali eredità ci hanno lasciato: tutti aspetti che
hanno una storia scandita però in grandi periodi, non certo in giorno, mese e
anno preciso, come si può fare per una battaglia o un trattato di pace.
I secoli passati, dalla crisi e fine dell'Impero romano in Occidente (IV-V
secolo), alla Rivoluzione industriale (XVIII-XIX secolo) sono attraversati
da alcuni aspetti di lunghissima durata, come la presenza determinante
del cristianesimo, la continuità del latino come lingua dei dotti,
l'importanza centrale dell'agricoltura per le strutture economiche,
sicché si potrebbe parlare di un "lungo Medioevo", definitivamente
superato solo dai rivolgimenti che hanno dato origine alle società del nostro
tempo, cosiddette sviluppate”
3. L’ultimo canto dell’antichità classica: Plotino
Plotino è sicuramente l’ultimo grande filosofo pagano, nella cui figura troviamo
quelle caratteristiche che secondo il grande storico della filosofia antica Pierre Hadot
(1922-2010) contraddistinguono i pensatori dell’antichità: non solo scrittori di opere
teoretiche e professori di una materia, la filosofia appunto, ma autentici maestri di
vita, saggi a cui ci si rivolgeva non solo per apprendere una disciplina ma per
imparare a vivere bene. Come vedremo in seguito, i filosofi cristiani furono figure di
tipo diverso: apologeti (cioè difensori della loro fede), chierici (consacrati),
professori universitari, in ogni caso dediti più all’impegno intellettuale e
all’insegnamento che alle applicazioni pratiche della loro ricerca.
Notizie biografiche: Plotino nacque in Egitto intorno al 205 d.C.; studiò ad
Alessandria d’Egitto avendo come maestro l’iniziatore del cosiddetto
“neoplatonismo” Ammonio Sacca, un filosofo che non lasciò nulla di scritto, in
obbedienza a una tradizione dei pitagorici. Dopo avere partecipato nel 242 a una
spedizione in Persia al seguito dell’imperatore Gordiano, approdò a Roma all’età di
40 anni. Nell’Urbe divenne famoso come filosofo, educatore e maestro di vita, e
godette della protezione dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina. Morì nel
270. Scrisse 54 trattati filosofici, che furono raccolti e ordinati dal suo discepolo
Porfirio in 6 volumi di 9 trattati ciascuno, da cui il titolo complessivo Enneadi.
Porfirio fu anche il biografo del suo maestro: a lui dobbiamo tutte le notizie sulla vita
di Plotino che sono in nostro possesso.
Il pensiero di Plotino: la filosofia di Plotino è comunemente definita
“neoplatonismo”, ovvero platonismo nuovo, platonismo rivisitato. In realtà Plotino
si considerava un platonico autentico, fedele, se non alla lettera, al significato più
profondo del pensiero di Platone. Il suo platonismo giunse al punto di che egli si fece
promotore di un progetto politico/filosofico in Campania, consistente nella
fondazione di Platonopoli, la città dei filosofi seguaci di Platone. Purtroppo il
progetto, appoggiato dall’imperatore Gallieno e da Salonina, non si realizzò.
Plotino è un filosofo della totalità. Egli cerca di definire il principio supremo della
realtà, ciò da cui tutto ha origine, la sostanza prima, e lo trova nell’Uno. Questa
convinzione si spiega con il fatto che l’essere di ogni cosa del mondo ha a che fare
con l’unità; nel mondo non esistono realtà semplici, tutto è composto di vari
elementi (una casa, un albero, il corpo umano, un animale ecc.), però nel momento
in cui definiamo una cosa, le diamo un nome, è perché l’abbiamo colta, percepita,
pensata come “una” cosa. Nel gran mare della molteplicità in cui siamo immersi
l’unità è pertanto il principio che ci guida, che ci orienta. Ciò significa che all’origine
di tutto vi è l’Uno con la U maiuscola, ovvero il principio supremo. L’Uno di Plotino è
Bene, è Divino (non Dio creatore e signore però, concetto estraneo alla cultura
ellenica!), è energia traboccante, è Tutto, ma è talmente al di sopra del nostro livello
di realtà che è “ineffabile”, ossia può essere definito solo per via negativa, dicendo
che cosa non è, oppure per via analogica, dicendo a cosa somiglia, o per via
iperbolica, dicendo che è al di sopra di qualunque realtà: “super-pensiero”, “superessere”, “super-bene” e così via. L’Uno è la prima “ipostasi” ovvero sostanza. L’Uno
non è staticamente appagato di se stesso, perché è una totalità dinamica. Ha una
duplice attività: attività di (che lo fa essere e rimanere Uno) e attività da (che è la
processione dall’Uno, la derivazione di altre entità dall’uno stesso). La sua infinita
energia trabocca, e dall’uno “procedono” (attenzione a questo termine, che fu poi
integrato nella teologia cristiana per spiegare la derivazione dello Spirito Santo dal
Padre e dal Figlio “che procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio è
adorato e glorificato”, come recita il Credo niceno) la seconda e la terza ipostasi,
Nous e Anima. Il Nous (intelletto o, come preferisce Giovanni Reale, Spirito, ossia
attività) è pensiero che pensa e che è pensato (sdoppiamento, inizio della
molteplicità), matrice delle Idee platoniche, o Forme. L’anima è (come in Aristotele)
principio di movimento, ciò che dà vita ed energia ai corpi. Nel punto più lontano
dall’Uno, che è Luce, vi è la materia, che è privazione di essere, tenebre,
indistinzione.
Il principio spirituale che è in noi, l’Anima, avverte il bisogno di ritornare all’Uno che
è la sua casa, la fonte del suo essere; questo desiderio dell’anima, che dà inizio
all’ascesa, percorso a ritroso verso l’Uno, può essere descritto come una forma di
nostalgia (dal greco nostos: ritorno, e alghia: dolore; la nostalgia è il dolore del
ritorno, l’aspirazione a sentirsi ovunque come a casa propria). L’Anima pertanto
inizia un percorso in direzione contraria a quella della processione dall’Uno ai molti:
l’Anima è nella molteplicità e vuole andare verso l’Unità. Le tappe di questo
cammino, di questa ascesa sono 3: la prima consiste nella pratica della virtù
(morale); la seconda è la contemplazione del bello (arte); la terza è la conoscenza
teoretica (filosofia). Al culmine di questo processo ascendente non c’è però
un’esperienza conoscitiva, ma di tipo mistico: l’estasi (ek-stasis, uscire fuori di sé), in
cui l’anima, ormai staccata dalla corporeità, avverte il contatto con il divino, si
congiunge con il divino.
Fortuna di Plotino: La fortuna del neoplatonismo nei secoli successivi fu immensa,
paragonabile a quella di Platone; rispetto al pensiero platonico, la filosofia di Plotino
intercettò bisogni spirituali, di salvezza individuale e di contatto con la divinità, che
nel platonismo originario non erano presenti. Sparisce completamente la riflessione
politica e si accentua il tema dell’Uno, che fonde elementi platonici e pitagorici. La
filosofia di Plotino presentava temi (la trascendenza dell’Uno, la sua divinità, l’ascesi,
l’immortalità e immaterialità dell’anima) che poterono essere integrati nel
cristianesimo, e che fecero del platonismo (in gran parte conosciuto attraverso
Plotino) il riferimento filosofico privilegiato dei pensatori cristiani.
4. L’incontro tra la religione cristiana e la filosofia greca
L’evento che caratterizza tutta la storia della filosofia medievale è l’incontro tra la
religione cristiana e la filosofia greca del V e IV secolo (Platone, Aristotele,
stoicismo). La filosofia medievale è una filosofia cristiana: i pensatori medievali sono
credenti e assumono come punto di partenza non la ragione ma la rivelazione: essi
non dubitano dell’esistenza di Dio perché Egli stesso si è rivelato attraverso i Profeti
(soprattutto Mosè, a cui Dio ha comunicato direttamente la sua esistenza con
l’espressione “Ego sum qui sum”) e attraverso l’incarnazione in Cristo. Nonostante
queste premesse, a partire dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo si è
progressivamente “ellenizzato”, adottando lessico, tecniche argomentative e stili di
pensiero della filosofia greca. La storia dell’incontro tra il cristianesimo e il pensiero
greco è una vicenda lunga, complessa e niente affatto lineare, nella quale si possono
individuare alcuni momenti significativi:
L’opposizione tra filosofia e cristianesimo: Paolo e Tertulliano
Nelle lettere di san Paolo è spesso presente il tema dell’inutilità della sapienza ai fini
della salvezza. Nella prima lettera ai Corinti (1, 22-23) leggiamo queste parole:
“mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo
Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”: non è dunque la
sapienza che salva, ma la fede; lo stolto che ha fede vale più dell’intellettuale che si
fida solo della ragione. Anche nello scrittore latino Tertulliano (155-220) troviamo
una decisa contrapposizione tra “Atene”, ovvero la filosofia, e “Gerusalemme” (il
mondo ebraico-cristiano). La fede non ha bisogno di giustificazioni razionali: ciò che
per la ragione è follia o assurdità, per la fede è perfettamente plausibile. A
Tertulliano è attribuita una celebre frase (ma non è sicuro che l’abbia scritta o
pronunciata davvero): “Credo quia absurdum”, che significa: “in nome della fede
accetto anche ciò che alla ragione sembra assurdo”.
L’apertura verso la filosofia: Giustino e Clemente Alessandrino
Giustino è uno dei primi apologisti, intellettuali cristiani che scrivono “apologie”,
ovvero difese della fede cristiana dagli attacchi dei pagani, indirizzate anche a
personaggi famosi. Vissuto nella prima metà del II secolo (forse tra il 100 e il 165),
Giustino scrisse due apologie, rivolte agli imperatori Marco Aurelio, Antonino Pio e
Lucio Vero. Nelle sue opere Giustino sottolinea la razionalità del cristianesimo e
identifica Cristo con il Logos (ragione del mondo). Giustino apprezza la filosofia
greca, affermando che i pensatori greci hanno cercato la verità e si sono avvicinati a
essa; ne possiedono però solo un seme, un accenno, perché solo il cristianesimo è
fonte di verità. Sulla stessa linea è Clemente Alessandrino (150-215), che individua
una continuità tra filosofia greca e cristianesimo ma stabilisce un rapporto di
subordinazione della prima al secondo.
L’assimilazione della filosofia: la Patristica greca e latina
Con i Padri della Chiesa, autori che pongono le basi della dottrina cristiana, si compie
l’assimilazione della filosofia greca, soprattutto della tradizione platonica, al
cristianesimo. Origene, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo sono i principali
Padri greci (così definiti perché scrivono in greco), mentre il più importante Padre
della Chiesa latino è Sant’Agostino, un gigante del pensiero e della fede, uno degli
autori più letti e studiati di ogni tempo.
BOX: IL CRISTIANESIMO
Il cristianesimo è la religione dei seguaci di Gesù di Nazareth, vissuto in Palestina tra
il 4 a.C. (secondo altre periodizzazioni nacque un po’ prima, verso il 7 a.C.) e il 30
d.C. , quando fu processato e ucciso a Gerusalemme con il più crudele dei supplizi
conosciuti dai romani, la crocifissione. All’inizio il cristianesimo si presentò come
una setta ebraica, i cui aderenti (poco numerosi)credevano fermamente in una
prossima fine del mondo e nell’avvento del Regno di Dio, ma già verso la fine del I
secolo aveva acquisito una dimensione più ampia, diffondendosi all’interno
dell’impero romano, soprattutto nei centri urbani. In questo passaggio fu
determinante la predicazione di Paolo di Tarso, l’«apostolo delle genti», che convertì
e battezzò molti “gentili” (con questo nome gli ebrei designavano i non ebrei),
dimostrando in tal modo che per diventare cristiani non era necessario essere ebrei
e che quindi il cristianesimo era una fede universale, aperta a tutti gli uomini e le
donne. L e lettere di san Paolo, indirizzate alle comunità cristiane sparse nelle città
dell’Impero romano (Corinto, Tessalonica, Efeso, la stessa Roma) sono i più antichi
documenti cristiani, più antichi dei 4 vangeli, sono scritte in greco (la “koiné”, ovvero
lingua comune del Mediterraneo antico)e contengono elementi dottrinari
importanti: l’universalità del messaggio di Cristo, l’importanza della carità, la grazia
di Dio che salva.
L’unità linguistica presente nell’impero romano, la cui lingua veicolare (koiné) era il
greco, unitamente all’efficiente sistema di comunicazioni e trasporti e alla spiccata
urbanizzazione (presenza di moltissime città), favorirono la diffusione del
cristianesimo, che fino alla metà del III secolo non fu apertamente osteggiato e
perseguitato dal potere imperiale. Ci furono isolati episodi di persecuzione anche
grave (si pensi a Nerone), ma in genere prevalse la linea di realismo politico che i
Romani avevano sempre adottato nei confronti delle altre religioni: se non si
oppongono al potere dello Stato, se non commettono atti criminosi e se rispettano
le istituzioni romane, siano tollerate. Nella seconda metà del III secolo, in
concomitanza con l’acuirsi della crisi dell’impero, costretto a difendersi ai confini
esterni, in preda all’anarchia interna, con imperatori di fatto deboli e nelle mani
degli eserciti, ma che tendevano a presentarsi come sovrani assoluti e come
personaggi degni di venerazione (secondo un modello orientale), i cristiani furono
visti come un pericolo per lo Stato romano, in cui religione e politica erano
strettamente intrecciate. Assimilati a una setta superstiziosa, accusati di magia e
sacrifici umani, sospettati di ateismo perché non sacrificavano agli dei cittadini, i
cristiani erano malvisti per la loro fede in una divinità astratta ed estranea alle cose
del mondo e anche per le ricchezze che avevano accumulato. Gli imperatori Decio,
Valeriano e Diocleziano furono i più grandi persecutori dei cristiani; nel 313
Costantino promulgò un editto che garantiva libertà di culto ai cristiani, nel 325
convocò un concilio (assemblea di vescovi) a Nicea, nel quale furono stabilite le linee
fondamentali della religione cristiana (credo niceno). Con i successori di Costantino il
cristianesimo si diffuse e consolidò, con l’importante eccezione di Giuliano (361363), che tentò, senza ottenere successo, di restaurare il culto degli dei. Alla fine del
IV secolo Teodosio stabilì che il cristianesimo era “religione di stato”.
AGOSTINO
Agostino, uno delle più grandi figure del cristianesimo, santificato dalla Chiesa e
principale esponente della Patristica latina, nacque a Tagaste (oggi Algeria) nel 354.
Era figlio di Patrizio, funzionario imperiale pagano, e di Monica, cristiana, a cui
Agostino fu sempre legato e che ebbe su di lui grande influenza. Agostino ha
raccontato la sua vita nelle Confessioni, uno dei libri più famosi e letti della
letteratura mondiale, nonché capolavoro del genere autobiografico e introspettivo.
Le sue opere sono numerosissime e ancora oggetto di studi e interpretazioni
differenti. Come egli stesso racconta nelle Confessioni, Agostino ebbe una
giovinezza irrequieta, sia dal punto di vista sentimentale (non si sposò ma ebbe una
lunga relazione da cui nacque un figlio, Adeodato) che sotto il profilo intellettuale:
era tormentato dal problema della ricerca della verità, e per un certo periodo di
tempo fu attratto dal manicheismo, una visione del mondo dualista che opponeva
due assoluti, il Bene e il Male, impegnati in una lotta cosmica dall’esito incerto.
Effettivamente il manicheismo dà una risposta convincente al problema del male
che tormentò a lungo Agostino (“Si est Deus, unde malum?”, ossia se c’è Dio, bontà
infinita, da dove viene il male?), attribuendogli una realtà metafisica,
considerandolo un principio eterno e non creato da Dio, ma nemmeno questa teoria
placò la ricerca di Agostino, che trovò un approdo definitivo solo nel cristianesimo.
Agostino fu battezzato nel 387 a Milano dal vescovo Ambrogio e trascorse l’ultima
parte della sua vita a Ippona, in Africa, da pastore venerato e rispettato. Come
vescovo di Ippona si impegnò contro tutte le eresie, che in Africa prosperavano, e
per la definizione dell’ortodossia cattolica (dal greco: retta opinione). Morì nel 430,
e poco dopo l’Africa fu invasa dai Vandali.
Per tratteggiare un profilo essenziale del pensiero di Agostino possiamo concentrarci
sui punti seguenti:
 l’impostazione psicologica del problema della verità
 il problema del tempo
 il problema del male
 la Città di Dio: filosofia della storia e filosofia politica
La Verità abita in noi
In diversi luoghi della sua opera Agostino presenta la filosofia come un colloquio
interiore, oppure afferma che per fare filosofia ha bisogno solo di Dio e dell’anima, e
di null’altro. Nelle Confessioni leggiamo che “gli uomini vanno ad ammirare le vette
delle montagne, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, la distesa
dell’oceano, i giri degli astri; e abbandonano se stessi”; questo ripiegamento
interiore non è visto da Agostino come una rinuncia a capire la vastità dell’essere,
ma come la strada maestra per arrivare alla verità, staccandosi da tutto ciò che è
mutevole, transitorio, destinato a perire. In un passo del testo La vera religione
Agostino scrive: “non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo
interiore e, se troverai che la sua natura è mutevole, trascendi anche te stesso”.
Bisogna precisare che per Agostino il termine verità ha un senso più forte di quello
logico-linguistico per cui verità è semplicemente una proprietà del discorso: tutto ciò
che affermiamo, nel discorso apofantico o dichiarativo, può essere vero (ad esempio
la frase “Barack Obama è il presidente degli Stati Uniti”) o falso ( ad esempio “tutti
gli asini volano”). Verità per Agostino è sinonimo di certezza indubitabile, di ciò la cui
esistenza non può essere negata. Ma come si arriva alla verità, a ciò che non può
essere negato? attraverso una discesa all’interno di noi stessi perché la prima e
indubitabile certezza è la certezza di esistere: colui che pensa, anche quando sbaglia
e si inganna, è qualcuno che sbaglia e si inganna, perciò esiste (si fallor, sum). Si
tratta di un argomento destinato a grande fortuna perché lo riprenderà nel XVII
secolo Cartesio. La verità che abita “in interiore homine” non deriva però dall’uomo,
essere finito, corporeo, mutevole: è una luce che si accende dentro di noi, è una
scintilla che, non essendo prodotta da noi stessi, deriva dal creatore di tutte le cose,
Dio.
La creazione e il tempo.
Il testo della Genesi introduce un concetto del tutto estraneo al pensiero greco: la
creazione dal nulla. Nelle filosofie della Grecia classica il materiale di cui è fatto il
mondo è eterno e increato: nell’unica teoria che si avvicina al testo biblico, quella di
Platone, non vi è una divinità creatrice ma un Demiurgo, ossia un “plasmatore”
della materia preesistente. Quindi saremmo portati a dire che “prima della
creazione c’era solo Dio”, ma questa è una domanda priva di senso. Infatti, se il
tempo, come ogni altro aspetto del mondo, è stato creato da Dio, non è possibile
pensare a un “prima” della creazione. Dio è eterno, ma la sua eternità sfugge alla
dimensione umana del tempo. L’eternità potrebbe essere paragonata a un attimo
presente che si prolunga all’infinito, anche se propriamente nell’eternità le
dimensioni temporali che noi conosciamo (prima, dopo; passato, presente, futuro)
non esistono. Per Agostino, l’unico tempo reale è il presente, l’attimo che stiamo
vivendo; il passato e il futuro per Agostino hanno una realtà soltanto psicologica,
come ricordo (il passato) e aspettativa (il futuro). Nell’undicesimo libro delle
Confessioni, il più teoretico di tutta l’opera, Agostino si chiede che cos’è il tempo e
svolge una serrata analisi filosofica di questo concetto. Egli afferma che vi sono 3
declinazioni del presente: un presente di cose passate, un presente di cose presenti
e un presente di cose future: “Il presente delle cose passate è la memoria, il
presente delle cose presenti è la vista, il presente delle cose future è l’attesa”. Nella
sua Storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell così sintetizza: “Il punto
essenziale della soluzione che [Agostino] suggerisce è che il tempo sia soggettivo: il
tempo risiede nella mente umana che attende, considera e ricorda. Ne consegue
che non ci può essere tempo senza un essere creato, e che parlare del tempo prima
della creazione è insensato”. Pertanto, la concezione agostiniana del tempo può
essere definita psicologica, soggettivistica, oppure relativistica o intellettuale.
Il problema del male
Attirato in gioventù dal manicheismo, Agostino giunse alla definitiva soluzione del
problema del male (sintetizzato nelle domande: Qual è la natura del male? e
soprattutto, da dove viene il male, se Dio è immensa bontà?) dopo la conversione,
attingendo dalle Scritture, da Platone e dal neoplatonismo. Scrive Agostino nelle
Confessioni. “tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una
sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene”. Ciò significa che Agostino identifica il
bene con l’essere: tutto ciò che esiste, che è stato creato da Dio, è buono. Se la
creazione è tutta buona, in cosa consiste il male? consiste nel fatto che le cose del
mondo, essendo mutevoli e destinate a perire (perché esistono nel tempo) hanno in
sé un principio di corruzione che le allontana dalla perfezione del bene sommo. Il
male quindi non è una cosa, una sostanza creata (perché sarebbe bene, come tutte
le cose create), ma è non essere, privazione di essere, allontanamento dal bene,
corruzione della condizione di perfezione con cui le cose create sono uscite dalla
mano di Dio.
Appurato che il male non è un sostanza creata da Dio, vi è poi un altro aspetto del
male, ovvero il male come azione, il “fare” il male. In questo senso il male è il
prodotto della volontà umana peccaminosa che si è allontanata dal sommo bene e
gli ha preferito beni terreni, inferiori; esso quindi è peccato.
Sintetizzando, due sono le facce del male: privazione di essere e peccato.
La Città di Dio: filosofia della storia e filosofia politica
Nel 410 i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma, un evento che fu vissuto con
grande angoscia dai contemporanei: la città eterna non aveva resistito alle orde
barbariche. Alcuni scrittori pagani incolparono il cristianesimo della decadenza di
Roma: il sacco di Roma fu interpretato come la vendetta degli dei pagani offesi
perché molti romani si erano convertiti alla fede in Cristo e avevano abbandonato
l’antica religione che aveva fatto grande l’Urbe. Per difendere il cristianesimo da
queste accuse e mostrare la sua superiorità anche in campo civile e politico
Agostino scrisse una grandiosa opera di filosofia della storia, destinata a essere un
punto fermo della riflessione cristiana sulla storia: De Civitate Dei.
Agostino interpreta il corso della storia umana come lotta tra due modi di essere: la
città terrena e la città di Dio. Scrive Stefano Petrucciani in Modelli di filosofia
politica:
“Le due città non si identificano con la Chiesa e con lo Stato, ma sono piuttosto da
intendere come due società governate da principi contrapposti: la città terrena è
un’unione che nasce per soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione, la cupidigia; è
governata dall’amore di sé spinto fino all’indifferenza nei confronti di Dio. La città di
Dio, ovvero la città celeste, è invece governata dalla legge dell’amore, dell’umiltà,
del sacrificio di sé. Essa è la società dei giusti che vivono questo mondo da stranieri,
come un transito verso la redenzione.
Il dualismo tra le due città, intrecciate e destinate a convivere dal tempo di Caino e
Abele (che ne sono le prime incarnazioni) per tutta la durata della storia dell’uomo,
terminerà soltanto nella fine escatologica, quando si instaurerà la Città di Dio e con
essa la perfetta concordia. È a partire da questo orizzonte che si profila anche il
modo in cui, secondo Agostino, devono essere pensati i rapporti tra la Chiesa e lo
stato cristiano, cioè quello stato che professa la vera fede. Ognuno dei due poteri
ha la sua autonoma sfera di azione: lo stato si occupa dell’uomo nella sua
dimensione materiale e brandisce la spada che punisce; la Chiesa cura invece gli
interessi spirituali. Sebbene le due sfere siano distinte e indipendenti, quella
spirituale è superiore, anche perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e
nel tempo: mentre gli stati sono soggetti al tempo la Chiesa è al di sopra del tempo,
perché si situa nella prospettiva escatologica (cioè dei fini ultimi della storia) della
città celeste. Essa peraltro non esita a servirsi dello stato come “braccio secolare”
per reprimere l’eresia: la spada dell’impero deve accorrere in soccorso della fede col
timore che ispira ai miscredenti.”
(S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, p. 65-66)
LA SCOLASTICA
Con il termine “Scolastica” si definisce la filosofia medievale di un lungo periodo,
all’incirca tra il V e il XIV secolo; più precisamente, “la filosofia e la teologia che
venivano insegnate nelle scuole medievali” (Sofia Vanni Rovighi)
Nel Medioevo fiorirono le scuole, proprio nel senso in cui noi intendiamo questa
parola, ovvero luoghi destinati all’apprendimento, in cui un insegnante spiega o
commenta testi e gli allievi seguono attentamente. Le scuole del Medioevo in
genere presero a modello le scuole romane, anche se poi si allontanarono da
questo modello; nell’antica Grecia, come sappiamo, le scuole filosofiche erano
qualcosa di diverso: erano comunità di vita in cui si insegnava a vivere in un certo
modo (esempio: scuola pitagorica) o a essere felici (scuole ellenistiche). L’ultima
scuola filosofica pagana fu chiusa nel 529 d.C. dall’imperatore Giustiniano: era la
scuola di Atene. Possiamo dunque affermare che Giustiniano diede il colpo di grazia
alla filosofia greca. Dopo questo “funerale” della cultura classica, nella parte
occidentale dell’ex impero romano (ormai sostituito dai cosiddetti regni romano
barbarici) l’istruzione si organizzò, lentamente e laboriosamente, in forme diverse.
Protagonisti della riorganizzazione della cultura e dell’istruzione furono la Chiesa e le
corti. Sorsero infatti diversi tipi di scuole, che si possono così classificare:
 scuole monacali o abbaziali: sono scuole annesse a un’abbazia e nel corso
del Medioevo sono state i luoghi della conservazione del patrimonio
culturale antico, grazie ai monaci amanuensi che negli scriptoria (laboratori
di scrittura) copiavano i testi classici
 scuole episcopali: sono scuole annesse a una cattedrale, in cui si impartiva
l’istruzione di base, oggi diremmo scuole elementari
 scuole palatine: sono scuole annesse alla corte del re, sul modello della
scuola fondata nel 781 da Carlo Magno, che la affidò ad Alcuino di York
(730-804)
Alcuino organizzò il corso di studi secondo un modello teorizzato in precedenza che
poi si diffonderà ovunque e diventerà il classico modello dell’istruzione medievale:
dopo un livello elementare, in cui si impara a leggere e scrivere in latino e c’è un
primo approccio alla Bibbia, si passava allo studio delle “7 arti liberali”, ovvero: arti
del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e arti del quadrivio (aritmetica,
geometria, astronomia, musica) e alla conoscenza approfondita della Bibbia.
Per studiare si utilizzavano dei manuali messi insieme utilizzando autori latini come
Cicerone, Prisciano, Agostino, e brani di alcuni autori che possiamo considerare i
grandi mediatori tra antichità classica e medioevo. Si tratta di alcune importanti
figure che hanno trasmesso, attraverso i loro scritti, una parte della cultura classica
soprattutto greca ai secoli del medioevo, salvandola così dal naufragio.
Vediamoli un po’ più da vicino. I principali sono: Severino Boezio, Cassiodoro, Isidoro
di Siviglia, Beda detto “il Venerabile”
Boezio (480-524): di antica e nobile famiglia romana, diventò stretto collaboratore
del re Teodorico, ma fu accusato ingiustamente di congiura e tradimento,
imprigionato e ucciso presso Pavia nel 524. Durante la prigionia scrisse la sua opera
più celebre, “De consolatione Philosophiae”, in prosa e in versi, in cui immagina che
una bellissima donna, appunto la Filosofia, lo visiti in carcere e intrattenga con lui
una conversazione in cui sono trattati temi di etica desunti principalmente dallo
stoicismo greco e romano. Tradusse e commentò l’Organon di Aristotele: grazie a
Boezio il Medioevo latino (fino al secolo XIII, quando si diffusero le traduzioni
dall’arabo) poté studiare la logica di Aristotele.
Cassiodoro (nato tra il 480 e il 490, morì nel 570 nel monastero di Vivarium, in
Calabria, da lui fondato): contemporaneo di Boezio, come lui impegnato in politica
ma più fortunato perché non fu messo a morte. Scrisse un’opera di erudizione
molto studiata nel Medioevo: Institutiones divinarum et saecularum litterarum, in
cui tra le altre cose propone di organizzare gli studi in arti del trivio e del quadrivio
(riprendendo questa classificazione da un’altra opera erudita, le Nozze di Mercurio e
Filologia, scritta verso il 430 da Marziano Capella)
Isidoro di Siviglia (570-636): scrisse un’opera enciclopedica in 20 libri, in cui c’era un
po’ di tutto (letteratura, filosofia, scienze naturali, curiosità), nella quale erano
presenti citazioni di autori classici che in tal modo furono trasmesse al Medioevo
Beda (673-735): autore di opere storiche e grammaticale e del De rerum natura, una
sorta di enciclopedia del sapere, sul modello di quella di Isidoro, che fu molto letta
nel Medioevo
LE UNIVERSITA’
Una delle grandi invenzioni del Medioevo (che fu generoso di invenzioni, dallo zero
alla numerazione attuale, dalla bussola alla carta fatta con gli stracci, fino ai bottoni
e alla forchetta) fu l’Università, una istituzione culturale ed educativa per la quale
non c’erano modelli nel passato. Con il termine “universitas” si indicava non un
edificio o un corso di studi, ma la corporazione (oggi diremmo “sindacato”) di
studenti e maestri, che si associavano e poi ricevevano privilegi dal re o dal papa. Le
prime e più celebri università furono quelle di Bologna (specializzata negli studi
giuridici) e Parigi (teologia, cioè filosofia). Nelle università fu elaborata la grande
filosofia scolastica, quella di Abelardo, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto. Il corso
completo di studi, che durava circa 14 anni, era distinto in 2 gradi: arti liberali (del
trivio e del quadrivio) e teologia. Nel primo corso si impartiva un’istruzione più laica,
aperta anche alle scienze naturali, nel secondo una filosofia cristiana, volta a
realizzare l’unione di fede e razionalità.
Il metodo di studio comprendeva lettura dei testi (lectio) e discussioni
(disputationes) su temi assegnati dal maestro (quaestiones disputatae). Centrale era
il ruolo del testo, e dunque del libro (siamo molto lontani dall’oralità del sapere
greco di Socrate e Platone)
PERIODIZZAZIONE DELLA SCOLASTICA
Si possono distinguere 4 periodi:
I periodo della Scolastica: V-IX secolo: dopo la morte di Agostino inizia un periodo di
decadenza culturale a cui si è dato il nome di “secoli bui”. Due grandi e isolate
figure della filosofia sono Boezio e Scoto Eriugena (irlandese, nato verso l’847,
vissuto alla corte di Carlo il Calvo; il suo capolavoro filosofico è il De divisione
Naturae, in 5 libri, un’opera sistematica molto complessa in cui vi è una visione
panteistica e si propende per la teologia “apofatica” o negativa: Dio è inesprimibile)
II periodo: X-XII secolo: le figure più importanti sono Anselmo d’Aosta e Abelardo
III periodo: XIII secolo: età d’oro della scolastica, con i più grandi filosofi, dottori
della Chiesa come Bonaventura, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto
IV periodo: è la dissoluzione della scolastica, con la crisi dell’unità di ragione e fede;
figura simbolo di questa fase è Guglielmo di Ockham.
Concluderemo questa (troppo) rapida rassegna di filosofia medievale con un
accenno al problema degli universali e sintetici ritratti di 3 grandi figure: Anselmo
d’Aosta, Abelardo, Tommaso d’Aquino. Di Ockham ci limiteremo a ricordare il suo
principio metodologico: “Entia non sunt moltiplicanda sine necessitate”, che invita,
nell’indagine scientifica ma non solo, a dare un bel colpo di rasoio a tutto ciò che è
inutile, e che mi sembra molto attuale.
qui sotto, una citazione da Duns Scoto (pluralitas non est ponenda sine necessitate)
che anticipa il rasoio di Ockham
GRANDI FIGURE DELLA SCOLASTICA: ABELARDO
Il mio prof di filosofia del liceo ci spiegava che la filosofia del Medioevo vale
moltissimo, non tanto per quello che dice ma per come lo dice. Ciò significa che i
medievali più che delle grandi dottrine elaborarono una raffinata tecnica filosofica,
logica e argomentativa; furono grandi proprio perché, avendo a disposizione pochi
materiali ereditati dall’antichità (un paio di trattati dell’Organon di Aristotele:
Categorie e Dell’interpretazione, alcuni commenti e citazioni tratte dalle opere
enciclopediche di cui si è già detto) effettuarono un lavoro di scavo e analisi che
ancor oggi stupisce. La base della loro preparazione filosofica, compendiata nelle
cosiddette arti liberali del trivio, era la logica, in cui furono molto esperti e anche
innovatori. Ogni secolo del Medioevo, dopo la rinascita dell’anno Mille, ebbe il suo
grande filosofo: l’XI secolo Anselmo, il XII Abelardo.
Pietro Abelardo (1079-1142) nacque in Bretagna, nelle vicinanze di Nantes. Studiò
con i migliori maestri dell’epoca ma fin da giovane allievo dimostrò un carattere
insofferente e uno spirito molto critico. A Parigi aprì una scuola sulla collina di Santa
Genoveffa e poi insegnò alla Scuola di Nötre Dame (negli anni 1114-1118), che fu il
primo nucleo dalla futura università di Parigi. In questo periodo si colloca la sua
storia d’amore con Eloisa, che è l’episodio più celebre della vita di Abelardo. Eloisa
era la giovane nipote del canonico Fulberto, che l’aveva affidata ad Abelardo per
l’istruzione filosofica. I due si innamorarono e intrecciarono una relazione da cui
nacque un figlio, chiamato Astrolabio (il nome significa “colui che abbraccia le
stelle”, forse in omaggio alla conoscenza scientifica); quando Fulberto, che forse di
Eloisa era padre, non zio, scoprì la tresca, andò su tutte le furie: Abelardo si dichiarò
disponibile a qualunque tipo di risarcimento, e Fulberto impose le nozze riparatrici.
Abelardo accettò a patto che il matrimonio rimanesse segreto, perché temeva che la
sua carriera accademica, giunta ai vertici, potesse essere danneggiata dalla rinuncia
al celibato (timore probabilmente infondato, perché la sua fama era immensa e
nessuno ci avrebbe fatto caso).
I due amanti si sposarono in segreto, ma evidentemente ciò non fu sufficiente a
placare l’ira di Fulberto, che si vendicò atrocemente facendo evirare Abelardo da
due suoi scagnozzi (un modo di “farsi giustizia da soli” che a quei tempi non era
raro). Dopo questo tragico evento, Eloisa e Abelardo si ritirarono in due conventi
diversi. Eloisa poi divenne badessa, ma non dimenticò mai l’amante e marito,
perché pur non incontrandosi mai più i due si scrissero delle stupende lettere
d’amore che sono tra i capolavori della letteratura. Abelardo morì nel 1142, Eloisa
vent’anni dopo. Dopo la morte di Eloisa le loro salme furono traslate a Parigi, dove
tuttora riposano, uno accanto all’altra, nel cimitero Père Lachaise, il più antico e
famoso di Parigi. La maggior parte delle notizie biografiche che possediamo su
Abelardo ed Eloisa sono tratte dalle loro lettere, e dal testo autobiografico di
Abelardo “Storia delle mie disgrazie”.
Nell’Ottocento la storia di Abelardo ed Eloisa divenne un mito: la maggior parte delle
raffigurazioni pittoriche dei due amanti è di quel secolo, che nutrì una vera passione
per il medioevo, attestata dalla diffusione dello stile architettonico “neogotico”.
L’illustrazione riproduce un quadro del 1882, del pittore inglese Edmund Leighton, in
cui i due amanti sono ritratti nel chiostro della cattedrale di Nötre Dame, che in
realtà non esisteva ancora!
LA FILOSOFIA DI ABELARDO
IL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI: Prima di esporre alcuni aspetti della filosofia di
Abelardo conviene fare un passo indietro e presentare sinteticamente il “Problema
degli universali”, una delle questioni maggiormente discusse nell’ambito della
Scolastica. Che cosa sono gli universali? Gli universali sono i termini di ordine
generale, che nelle definizioni, come ad esempio “l’uomo è un animale razionale”
stanno in posizione di predicato; nella frase precedente il termine “animale” è
l’universale che indica il genere, mentre “razionale” è l’universale che indica una
differenza specifica all’interno di un genere (tra tutti gli animali, l’uomo è quello che
ragiona, e questo è sufficiente per definirlo)
Nell’antichità gli Universali sono presenti sia in Platone che in Aristotele: per il
primo, gli universali sono le idee, e sono entità più reali degli oggetti sensibili che ne
sono le copie; per Aristotele hanno invece un’esistenza soltanto mentale. Nel
Medioevo, coloro che credevano all’esistenza reale degli universali furono detti
“realisti”; furono detti invece “nominalisti” coloro che ritenevano che gli universali
fossero solo dei costrutti mentali: nomi creati dall’uomo per designare le cose. Si
dice che il “campione” dei nominalisti, Roscellino (1050-1120, fu uno dei maestri di
Abelardo) sostenesse che gli universali fossero solo “flatus vocis” ossia emissioni
sonore, suoni vocali. Per Roscellino dunque il mondo è fatto di cose e individui
singoli, come ad esempio “quest’uomo” o “questo gatto”, non di “esseri umani” o
“felini” (che esistono solo come suoni della voce quando pronunciamo queste
parole).
Abelardo prese parte alla disputa proponendo una soluzione “concettualista”: dal
suo punto di vista sia i nominalisti che i realisti commettono l’errore di considerare
gli universali come delle “cose”: cose ideali in senso platonico per i realisti, suoni
vocali per i nominalisti. Ma gli universali, secondo Abelardo, non sono cose, sono
concetti, significati veicolati dai nomi (sermones = significati). Il sermo o significato
lega la cosa, ad esempio la rosa che è sul balcone, al nome di ordine più generale
“fiore”, che in effetti coglie una proprietà della rosa (“la rosa è un fiore”). Abelardo
mostra così di conoscere la distinzione tra significante e significato, già nota peraltro
a Boezio, che è alla base della linguistica contemporanea. Il significante è la parola,
segno convenzionale che può essere detto o scritto e che varia da una lingua
all’altra: essa veicola il significato, che si riferisce sempre a una cosa o esperienza
esterna al linguaggio. Uomo, hombre, homme, man, sono significanti diversi che
veicolano lo stesso significato: il significante non è universale, il significato sì.
Abelardo scrisse poi un’opera di etica che contiene spunti di grande modernità,
come il concetto di intenzionalità del peccato: il peccato, in cui consiste la malvagità,
non risiede nell’azione in sé, ma nell’intenzione che l’accompagna; in altre parole, si
fa il male solo se la coscienza è consapevole di farlo e orientata a farlo. Si può quindi
considerare il primo filosofo che delinea un’etica dell’intenzione.
GRANDI FIGURE DELLA SCOLASTICA: ANSELMO D’AOSTA
“L’aria della città rende liberi”
Verso la fine dell’XI secolo la civiltà europea iniziò una lenta ripresa economica e
culturale, legata soprattutto allo sviluppo delle città: nei centri urbani emerse una
nuova classe sociale, dinamica e intraprendente, costituita da uomini fuggiti dalle
campagne che si dedicarono alla produzione artigianale e ai commerci: è la
borghesia, dal termine “bourg”,
città. Nelle città si svilupparono scuole,
indipendenti da cattedrali e palazzi reali, che furono il germe delle future università,
una delle invenzioni più geniali del Medioevo. Nel 1084 fu fondata l’Università di
Bologna, specializzata negli studi giuridici, qualche anno dopo Parigi e Oxford.
Anselmo d’Aosta è il pensatore più importante di questo periodo.
Anselmo d’Aosta (Aosta 1033, Canterbury 1109), sant’Anselmo per la Chiesa
cattolica che lo ha canonizzato e gli ha attribuito il titolo di Dottore della Chiesa
(ossia autorità teologica), fu dapprima monaco benedettino in Normandia, poi
priore a Canterbury e infine arcivescovo della città inglese. Lo storico della filosofia
francese Etienne Gilson lo ammirò moltissimo per la profondità del suo pensiero, e
per far capire la grandezza di questo filosofo ricordò che le sottili analisi filosofiche
di Anselmo si esercitarono sulla base di una modestissima quantità di materiali
dell’antichità classica.
Nelle sue opere egli mostra una grande fiducia nella ragione, che tende a mettere
sullo stesso piano della fede: entrambe hanno come obiettivo la verità, ma la verità
rivelata della fede e la verità conquistata della ragione non si oppongono ma si
armonizzano perché provengono entrambe da Dio. Scrive a questo proposito il
filosofo Armando Massarenti nel suo testo “Penso, dunque sono”:
“La fede viene prima della ragione nel senso che la fonda: ma la ragione può
confermare le verità di fede, spiegandole razionalmente. Anselmo sostiene dunque
la totale identità delle verità di fede e di ragione, e ritiene che sia possibile
dimostrare tutte le verità di fede tramite l’utilizzo della ragione. Nella sua ottica,
queste possono essere comprese razionalmente ed è solo la pigrizia intellettuale, e
non i limiti della ragione, che impediscono quest’impresa”
(A. Massarenti, E. Di Marco, Penso dunque sono, D’Anna, Messina-Firenze 2014,
p.586)
Anselmo elaborò due prove dell’esistenza di Dio, proprio per dimostrare che la
ragione può chiarire le verità di fede, che non sono quindi misteriose o esoteriche.
La più celebre di queste prove è la cosiddetta “prova ontologica”, contenuta
nell’opera “Proslogion” (“Colloquio”)
Leggiamo il passo di Anselmo, anche per capire come scriveva un filosofo medievale
e per fare un po’ di sano esercizio di comprensione:
“Ora noi crediamo che tu [si rivolge a Dio] sia qualcosa di cui non può pensarsi
nessuna cosa maggiore. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché
«l’insipiente ha detto in cuor suo: “Dio non esiste”» (Salmo 14)? Ma certamente
quel medesimo insipiente, quando ode ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non può
pensarsi nessuna cosa maggiore», intende ciò che sento dire; e ciò che intende è
nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. Altro infatti è che una
cosa esista nell’intelletto, e altro intendere che una cosa esista […]
Dunque anche l’insipiente deve convincersi che almeno nell’intelletto esiste
qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende,
quando lo sente dire, e tutto ciò che si intende esiste nell’intelletto. Ma certamente
ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo
intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella
realtà e questo allora sarebbe maggiore. Di conseguenza se ciò di cui non può
pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi
nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo
evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di cui non può
pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell’intelletto sia nella realtà.”
(cit. in A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Filosofia medievale, trad. it.
di L. Corti, Einaudi, Torino 2012)
Questa dimostrazione dell’esistenza di Dio ha attraversato i secoli ed è stata
discussa dai più grandi filosofi: tra coloro che l’hanno apprezzata e accettata
troviamo Cartesio (1596-1650) e Hegel (1770-1831). Tra coloro che la respinsero,
Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Kant (1724-1804), il quale le diede il nome di
“prova ontologica” e la confutò attentamente nella sua opera Critica della ragion
pura.
A me, lo confesso, la prova ontologica di Anselmo fa sempre un certo effetto: pur
schierandomi con Kant (di cui ricordo il brillante esempio: nel concetto di 100 talleri
ci sono tutte le caratteristiche dei 100 talleri reali, ma con il concetto di 100 talleri
non mi riempio le tasche, perché l’esistenza, che è una “posizione assoluta”, non è
mai analiticamente contenuta nel concetto, neppure nel concetto di qualcosa di cui
non può pensarsi nessuna cosa maggiore, ovvero Dio), ne avverto la forza
argomentativa, la potenza di un pensiero estremo che si muove ai confini del
pensabile. E con pochissimo retroterra, come ci ricorda Gilson.
Grandi figure della Scolastica: Tommaso d’Aquino
Il ritorno di Aristotele
Il Duecento è il secolo in cui c’è la scoperta, o riscoperta, da parte della cultura
europea, del pensiero di Aristotele. Ciò avviene grazie alle traduzioni dall’arabo,
effettuate in diversi centri di cultura (Toledo, Napoli, Palermo), delle principali opere
di Aristotele, che fino al XII secolo il Medioevo non aveva conosciuto. Prima delle
traduzioni dall’arabo c’erano state delle versioni dal greco, ad esempio quella di
Giacomo Veneto (1125), ma quelle dall’arabo ebbero una diffusione maggiore.
Verso la metà del secolo XIII, ai tempi di Tommaso d’Aquino, erano disponibili in
traduzione latina la Metafisica, la Fisica, la Politica, l’Etica Nicomachea, la Poetica e
la Retorica.
Come abbiamo già detto, Boezio agli inizi del VI secolo aveva tradotto l’intero
Organon, però nei secoli successivi furono lette e studiate solo le Categoriae e il De
Interpretatione. Le altre opere logiche di Aristotele, soprattutto gli Analitici, con la
loro teoria del ragionamento sillogistico, furono perdute. Si comprende quindi
quale interesse suscitarono le nuove traduzioni: era tutto un mondo nuovo, di
razionalità, sistematicità, analisi logica e scientifica che si offriva agli studiosi
europei. Subito Aristotele apparve come il filosofo per eccellenza o, come scrisse
Dante, il “maestro di color che sanno”. L’assimilazione di Aristotele portò con sé
diversi problemi, perché alcuni aspetti del pensiero del filosofo greco non erano
compatibili con il cristianesimo, e infatti vi furono delle condanne: nel 1277
l’arcivescovo di Parigi, Etienne Tempier,
condannò 219 tesi riconducibili
all’aristotelismo, che venivano insegnate nella Facoltà delle Arti, in cui dal 1255
Aristotele era stato adottato come testo di studio principale.
Tommaso d’Aquino
Cronologia della vita:
1221 (o 1225): nasce a Roccasecca
1239: studente a Napoli: primo incontro con la filosofia di Aristotele
1244: entra nell’ordine domenicano
1245-50: a Parigi e Colonia, dove studia con il maestro Alberto Magno
1253: a Parigi come docente universitario (baccelliere) alla facoltà delle Arti;
successivamente insegna e scrive a Roma, di nuovo Parigi, Napoli e in altri centri
1274: muore durante un viaggio
Di questo immenso pensatore, che ancora oggi è un punto di riferimento della
Chiesa cattolica, emblema dell’incontro tra fede e razionalità, prenderemo in esame
solo due aspetti, dopo avere brevemente delineato un profilo della sua personalità
intellettuale: la distinzione tra ente ed essenza e le 5 vie per dimostrare l’esistenza
di Dio.
Nelle due opere principali di Tommaso, la Summa contra Gentiles (1260 circa) e la
Summa Theologica (rimasta incompiuta per la morte prematura dell’autore) si rivela
nel modo migliore la tecnica filosofica di Tommaso. Nel Medioevo le Summae erano
opere filosofiche in cui un tema veniva sviscerato riportando e discutendo tutti i
pareri, favorevoli o contrari, su di esso, e traendo poi le conclusioni. Le Summae
testimoniano la sistematicità del pensiero medievale e la sua attitudine all’analisi e
alla discussione di tutti i problemi. Le due Summae di Tommaso sono strutturate
come le dispute che avvenivano nelle università medievali: posizione della questione
(ad esempio: Dio ha il libero arbitrio?); argomenti pro o contro; risposta di
Tommaso opportunamente argomentata; soluzione delle difficoltà sollevate dagli
argomenti iniziali. Sulla tecnica di analisi di Tommaso riportiamo un’osservazione
dello
studioso
britannico
Anthony
Kenny:
“Questo metodo, che inizialmente può confondere il lettore odierno, costituisce un
potente strumento di disciplina intellettuale, volto a evitare l’assunzione acritica di
pregiudizi da parte del filosofo. Nell’adottarlo, san Tommaso si impone di attenersi
alla domanda: chi devo convincere di che cosa, e quali sono gli argomenti più forti di
cui può servirsi la parte avversa?”
(A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Filosofia medievale, tr. it. di L.
Corti, Einaudi, Torino 2012, p. 23-24)
Nel testo De ente et essentia, scritto verso il 1252, Tommaso propone una
distinzione tra essenza ed esistenza che non si trova in Aristotele ma che ha le sue
premesse nel pensiero di Avicenna, medico e filosofo persiano di lingua araba (9801037). Ogni ente, ovvero ogni cosa del mondo, ha un’essenza, espressa dalla sua
definizione: l’essenza dell’uomo, ad esempio, è la razionalità (uomo = animale
razionale). Poiché vi sono degli enti di cui sappiamo che cosa sono perché
conosciamo la loro definizione ma che non esistono, come l’unicorno o l’araba
fenice, Tommaso conclude che l’essenza non implica l’esistenza: un ente ha
un’essenza quando è pensabile e definibile, ma potrebbe non esistere realmente.
Adoperando termini aristotelici, Tommaso dice che l’essenza è potenza , mente
l’esistenza è atto. Soltanto in Dio, “atto puro di esistere”, essenza ed esistenza
coincidono, perché Dio è l’unico essere la cui essenza è l’atto di esistere.
Le “cinque vie”: le cinque vie sono cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio “a
posteriori”, ovvero elaborate partendo dal mondo sensibile creato da Dio.
La prima è la via che parte dal moto: come insegna Aristotele, tutto ciò che si muove
è mosso da qualcosa. Per non cadere in un regresso all’infinito, è necessario
ammettere un primo motore non mosso da alcunché, cioè Dio.
La seconda via si basa sul rapporto di causa ed effetto: se tutto ciò che esiste ha una
causa, per non cadere in un regresso all’infinito deve esistere una causa prima
incausata
La terza via parte dall’esistenza del contingente [contingente nel linguaggio di
Tommaso designa un ente che esiste ma che sarebbe potuto non esistere, che ha
avuto un inizio e che avrà una fine: è il contrario di “necessario”]. Anche in questa
terza via per non cadere in un regresso all’infinito occorre ammettere l’esistenza di
un essere necessario che ha reso possibile l’esistenza dei contingenti
La quarta via si fonda sui gradi della perfezione, di cui ogni cosa partecipa. Se ogni
esistente è più o meno perfetto, deve esistere un essere totalmente e
assolutamente perfetto
La quinta via parte dalla constatazione che ogni cosa ha un suo fine: il fine ultimo del
creato è Dio
Come si può vedere, il mondo presupposto dalle 5 vie è un mondo ordinato e finito,
come quello di Aristotele.