Se mille anni vi sembran pochi… Tentativo di sintesi di filosofia medievale 1. Il periodo Il termine “Medioevo” significa età di mezzo: fu creato dagli umanisti del XIV secolo, tra cui Petrarca, che interpretarono il periodo compreso tra il V e il XV sec. d.C. come un’età di ripiegamento e decadenza, un periodo buio collocato tra due epoche luminose, l’antichità greco-romana e il rinascimento europeo, caratterizzato dal ritorno dei classici. La storiografia attuale rifiuta questa interpretazione, perché ritiene assurdo pensare che un periodo così lungo (un millennio) possa essere letto unicamente come declino e regresso. Anche dal punto di vista filosofico, come vedremo, il Medioevo fu creativo e innovativo. Chi sottovaluta il pensiero medievale di solito ne sottolinea la scarsa originalità e l’assenza di una riflessione razionale indipendente dalla fede cristiana. In realtà, come osservò uno dei più grandi storici della filosofia medievale, il francese Etienne Gilson (1884-1978), i pensatori medievali furono grandi proprio perché, nonostante l’esiguità delle fonti classiche di cui disponevano (fino al sec. XIII, poco Platone – soltanto Menone, Fedone e Timeo – e pochissimo Aristotele), dimostrarono una capacità di scavo e di sottile analisi che ci stupisce ancor oggi. Per quanto riguarda il rapporto con la fede cristiana, la lettura diretta dei testi smentisce la convinzione che non si possa filosofare all’interno di un orizzonte religioso, perché la Verità (cioè Dio) sarebbe già data, e non da cercare. Nella cornice delineata dalla fede cristiana trovano posto analisi e discussioni genuinamente filosofiche di logica, teoria della conoscenza, metafisica, etica e politica. Di questo aspetto, comunque, tratteremo più diffusamente in seguito. 2. La periodizzazione Secondo la periodizzazione tradizionale, il Medioevo inizia nel V secolo d.C., più precisamente nel 476, per concludersi nel 1492 (anno della “scoperta” o “conquista” dell’America, dell’espulsione di ebrei e musulmani dalla Spagna, della morte di Lorenzo il Magnifico). Anche se la data finale appare più plausibile, entrambe possono essere messe in discussione. Che cosa accadde nel 476? un fatto che nella percezione dei contemporanei non sembrò così “epocale”: da tempo l’Europa occidentale era teatro di scorrerie di popoli germanici, e in quell’anno il capo barbaro di turno, lo sciro Odoacre, depose l’ultimo imperatore d’Occidente, il ragazzo Romolo, detto “Augustolo”, cioè piccolo imperatore, senza però sostituirsi a lui. Odoacre chiese soltanto terre e qualche privilegio fiscale per i suoi, e restituì all’imperatore d’Oriente (ricordiamo che dal 395 c’erano due Cesari, uno nella capitale occidentale, Roma, poi Milano e Ravenna, e un altro a Costantinopoli, la città imperiale fondata nel 323 da Costantino) le insegne imperiali. Da quel momento, quindi, l’unico imperatore romano fu quello d’Oriente. Questo evento politico tuttavia non decretò la fine della civiltà romana: l’Urbe continuò ad essere una città “capitale”, per il suo passato glorioso e il suo presente di sede del vescovo di Roma, il latino era la lingua parlata da tutti, il cristianesimo la religione ufficiale, le istituzioni politiche e giuridiche romane mantennero ancora a lungo la loro importanza, le città erano ancora popolate. Il declino però era iniziato sul piano economico, della produzione, della circolazione monetaria aurea, dei commerci, dei trasporti. Un primo attacco alla periodizzazione tradizionale fu sferrato nel 1937 dallo storico belga Henri Pirenne (1862-1935) nell’opera – pubblicata postuma – Maometto e Carlomagno, in cui Pirenne sostiene che l’evento che diede inizio al Medioevo non fu la presunta “caduta” dell’impero d’Occidente nel 476, ma fu la rottura dell’unità religiosa e culturale del Mediterraneo, determinata dall’espansione islamica nel VII secolo d.C. Più recentemente, Jacques le Goff (1924-2014), ha proposto la sua affascinante e discussa teoria del “lungo Medioevo”: se si esce dalla storia intesa come sequenza di re, papi e imperatori, o come succedersi di guerre, conquiste e trattati di pace, ma si bada alla storia quasi immobile delle strutture economiche e sociali, e alla vita quotidiana delle persone, si deve ammettere che il Medioevo non è affatto finito nel 1492, ma è durato fino alla Rivoluzione industriale, come spiega Le Goff nel brano seguente, tratto da un’intervista: “Il concetto di Medioevo è nato nel Trecento dal distacco degli Umanisti dall'arte del loro tempo, non a caso qualificata come "gotica", cioè barbarica. Petrarca parla addirittura di "tenebre", dalle quali si poteva uscire solo tornando ai canoni dell'arte e del latino della classicità. Per noi oggi il medioevo non è né può essere un'unica epoca storica, delimitata da date precise: innanzitutto perché la storia degli uomini non è più solo vista come sequenza di re, papi, imperatori, guerre. Oggi ci interessano certo i grandi protagonisti - tanto che ha ripreso importanza il genere delle biografie - ma anche e forse più ci interessano gli uomini e le donne di tutti i giorni, come vivevano, cosa pensavano, quali eredità ci hanno lasciato: tutti aspetti che hanno una storia scandita però in grandi periodi, non certo in giorno, mese e anno preciso, come si può fare per una battaglia o un trattato di pace. I secoli passati, dalla crisi e fine dell'Impero romano in Occidente (IV-V secolo), alla Rivoluzione industriale (XVIII-XIX secolo) sono attraversati da alcuni aspetti di lunghissima durata, come la presenza determinante del cristianesimo, la continuità del latino come lingua dei dotti, l'importanza centrale dell'agricoltura per le strutture economiche, sicché si potrebbe parlare di un "lungo Medioevo", definitivamente superato solo dai rivolgimenti che hanno dato origine alle società del nostro tempo, cosiddette sviluppate” 3. L’ultimo canto dell’antichità classica: Plotino Plotino è sicuramente l’ultimo grande filosofo pagano, nella cui figura troviamo quelle caratteristiche che secondo il grande storico della filosofia antica Pierre Hadot (1922-2010) contraddistinguono i pensatori dell’antichità: non solo scrittori di opere teoretiche e professori di una materia, la filosofia appunto, ma autentici maestri di vita, saggi a cui ci si rivolgeva non solo per apprendere una disciplina ma per imparare a vivere bene. Come vedremo in seguito, i filosofi cristiani furono figure di tipo diverso: apologeti (cioè difensori della loro fede), chierici (consacrati), professori universitari, in ogni caso dediti più all’impegno intellettuale e all’insegnamento che alle applicazioni pratiche della loro ricerca. Notizie biografiche: Plotino nacque in Egitto intorno al 205 d.C.; studiò ad Alessandria d’Egitto avendo come maestro l’iniziatore del cosiddetto “neoplatonismo” Ammonio Sacca, un filosofo che non lasciò nulla di scritto, in obbedienza a una tradizione dei pitagorici. Dopo avere partecipato nel 242 a una spedizione in Persia al seguito dell’imperatore Gordiano, approdò a Roma all’età di 40 anni. Nell’Urbe divenne famoso come filosofo, educatore e maestro di vita, e godette della protezione dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina. Morì nel 270. Scrisse 54 trattati filosofici, che furono raccolti e ordinati dal suo discepolo Porfirio in 6 volumi di 9 trattati ciascuno, da cui il titolo complessivo Enneadi. Porfirio fu anche il biografo del suo maestro: a lui dobbiamo tutte le notizie sulla vita di Plotino che sono in nostro possesso. Il pensiero di Plotino: la filosofia di Plotino è comunemente definita “neoplatonismo”, ovvero platonismo nuovo, platonismo rivisitato. In realtà Plotino si considerava un platonico autentico, fedele, se non alla lettera, al significato più profondo del pensiero di Platone. Il suo platonismo giunse al punto di che egli si fece promotore di un progetto politico/filosofico in Campania, consistente nella fondazione di Platonopoli, la città dei filosofi seguaci di Platone. Purtroppo il progetto, appoggiato dall’imperatore Gallieno e da Salonina, non si realizzò. Plotino è un filosofo della totalità. Egli cerca di definire il principio supremo della realtà, ciò da cui tutto ha origine, la sostanza prima, e lo trova nell’Uno. Questa convinzione si spiega con il fatto che l’essere di ogni cosa del mondo ha a che fare con l’unità; nel mondo non esistono realtà semplici, tutto è composto di vari elementi (una casa, un albero, il corpo umano, un animale ecc.), però nel momento in cui definiamo una cosa, le diamo un nome, è perché l’abbiamo colta, percepita, pensata come “una” cosa. Nel gran mare della molteplicità in cui siamo immersi l’unità è pertanto il principio che ci guida, che ci orienta. Ciò significa che all’origine di tutto vi è l’Uno con la U maiuscola, ovvero il principio supremo. L’Uno di Plotino è Bene, è Divino (non Dio creatore e signore però, concetto estraneo alla cultura ellenica!), è energia traboccante, è Tutto, ma è talmente al di sopra del nostro livello di realtà che è “ineffabile”, ossia può essere definito solo per via negativa, dicendo che cosa non è, oppure per via analogica, dicendo a cosa somiglia, o per via iperbolica, dicendo che è al di sopra di qualunque realtà: “super-pensiero”, “superessere”, “super-bene” e così via. L’Uno è la prima “ipostasi” ovvero sostanza. L’Uno non è staticamente appagato di se stesso, perché è una totalità dinamica. Ha una duplice attività: attività di (che lo fa essere e rimanere Uno) e attività da (che è la processione dall’Uno, la derivazione di altre entità dall’uno stesso). La sua infinita energia trabocca, e dall’uno “procedono” (attenzione a questo termine, che fu poi integrato nella teologia cristiana per spiegare la derivazione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio “che procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”, come recita il Credo niceno) la seconda e la terza ipostasi, Nous e Anima. Il Nous (intelletto o, come preferisce Giovanni Reale, Spirito, ossia attività) è pensiero che pensa e che è pensato (sdoppiamento, inizio della molteplicità), matrice delle Idee platoniche, o Forme. L’anima è (come in Aristotele) principio di movimento, ciò che dà vita ed energia ai corpi. Nel punto più lontano dall’Uno, che è Luce, vi è la materia, che è privazione di essere, tenebre, indistinzione. Il principio spirituale che è in noi, l’Anima, avverte il bisogno di ritornare all’Uno che è la sua casa, la fonte del suo essere; questo desiderio dell’anima, che dà inizio all’ascesa, percorso a ritroso verso l’Uno, può essere descritto come una forma di nostalgia (dal greco nostos: ritorno, e alghia: dolore; la nostalgia è il dolore del ritorno, l’aspirazione a sentirsi ovunque come a casa propria). L’Anima pertanto inizia un percorso in direzione contraria a quella della processione dall’Uno ai molti: l’Anima è nella molteplicità e vuole andare verso l’Unità. Le tappe di questo cammino, di questa ascesa sono 3: la prima consiste nella pratica della virtù (morale); la seconda è la contemplazione del bello (arte); la terza è la conoscenza teoretica (filosofia). Al culmine di questo processo ascendente non c’è però un’esperienza conoscitiva, ma di tipo mistico: l’estasi (ek-stasis, uscire fuori di sé), in cui l’anima, ormai staccata dalla corporeità, avverte il contatto con il divino, si congiunge con il divino. Fortuna di Plotino: La fortuna del neoplatonismo nei secoli successivi fu immensa, paragonabile a quella di Platone; rispetto al pensiero platonico, la filosofia di Plotino intercettò bisogni spirituali, di salvezza individuale e di contatto con la divinità, che nel platonismo originario non erano presenti. Sparisce completamente la riflessione politica e si accentua il tema dell’Uno, che fonde elementi platonici e pitagorici. La filosofia di Plotino presentava temi (la trascendenza dell’Uno, la sua divinità, l’ascesi, l’immortalità e immaterialità dell’anima) che poterono essere integrati nel cristianesimo, e che fecero del platonismo (in gran parte conosciuto attraverso Plotino) il riferimento filosofico privilegiato dei pensatori cristiani. 4. L’incontro tra la religione cristiana e la filosofia greca L’evento che caratterizza tutta la storia della filosofia medievale è l’incontro tra la religione cristiana e la filosofia greca del V e IV secolo (Platone, Aristotele, stoicismo). La filosofia medievale è una filosofia cristiana: i pensatori medievali sono credenti e assumono come punto di partenza non la ragione ma la rivelazione: essi non dubitano dell’esistenza di Dio perché Egli stesso si è rivelato attraverso i Profeti (soprattutto Mosè, a cui Dio ha comunicato direttamente la sua esistenza con l’espressione “Ego sum qui sum”) e attraverso l’incarnazione in Cristo. Nonostante queste premesse, a partire dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo si è progressivamente “ellenizzato”, adottando lessico, tecniche argomentative e stili di pensiero della filosofia greca. La storia dell’incontro tra il cristianesimo e il pensiero greco è una vicenda lunga, complessa e niente affatto lineare, nella quale si possono individuare alcuni momenti significativi: L’opposizione tra filosofia e cristianesimo: Paolo e Tertulliano Nelle lettere di san Paolo è spesso presente il tema dell’inutilità della sapienza ai fini della salvezza. Nella prima lettera ai Corinti (1, 22-23) leggiamo queste parole: “mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”: non è dunque la sapienza che salva, ma la fede; lo stolto che ha fede vale più dell’intellettuale che si fida solo della ragione. Anche nello scrittore latino Tertulliano (155-220) troviamo una decisa contrapposizione tra “Atene”, ovvero la filosofia, e “Gerusalemme” (il mondo ebraico-cristiano). La fede non ha bisogno di giustificazioni razionali: ciò che per la ragione è follia o assurdità, per la fede è perfettamente plausibile. A Tertulliano è attribuita una celebre frase (ma non è sicuro che l’abbia scritta o pronunciata davvero): “Credo quia absurdum”, che significa: “in nome della fede accetto anche ciò che alla ragione sembra assurdo”. L’apertura verso la filosofia: Giustino e Clemente Alessandrino Giustino è uno dei primi apologisti, intellettuali cristiani che scrivono “apologie”, ovvero difese della fede cristiana dagli attacchi dei pagani, indirizzate anche a personaggi famosi. Vissuto nella prima metà del II secolo (forse tra il 100 e il 165), Giustino scrisse due apologie, rivolte agli imperatori Marco Aurelio, Antonino Pio e Lucio Vero. Nelle sue opere Giustino sottolinea la razionalità del cristianesimo e identifica Cristo con il Logos (ragione del mondo). Giustino apprezza la filosofia greca, affermando che i pensatori greci hanno cercato la verità e si sono avvicinati a essa; ne possiedono però solo un seme, un accenno, perché solo il cristianesimo è fonte di verità. Sulla stessa linea è Clemente Alessandrino (150-215), che individua una continuità tra filosofia greca e cristianesimo ma stabilisce un rapporto di subordinazione della prima al secondo. L’assimilazione della filosofia: la Patristica greca e latina Con i Padri della Chiesa, autori che pongono le basi della dottrina cristiana, si compie l’assimilazione della filosofia greca, soprattutto della tradizione platonica, al cristianesimo. Origene, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo sono i principali Padri greci (così definiti perché scrivono in greco), mentre il più importante Padre della Chiesa latino è Sant’Agostino, un gigante del pensiero e della fede, uno degli autori più letti e studiati di ogni tempo. BOX: IL CRISTIANESIMO Il cristianesimo è la religione dei seguaci di Gesù di Nazareth, vissuto in Palestina tra il 4 a.C. (secondo altre periodizzazioni nacque un po’ prima, verso il 7 a.C.) e il 30 d.C. , quando fu processato e ucciso a Gerusalemme con il più crudele dei supplizi conosciuti dai romani, la crocifissione. All’inizio il cristianesimo si presentò come una setta ebraica, i cui aderenti (poco numerosi)credevano fermamente in una prossima fine del mondo e nell’avvento del Regno di Dio, ma già verso la fine del I secolo aveva acquisito una dimensione più ampia, diffondendosi all’interno dell’impero romano, soprattutto nei centri urbani. In questo passaggio fu determinante la predicazione di Paolo di Tarso, l’«apostolo delle genti», che convertì e battezzò molti “gentili” (con questo nome gli ebrei designavano i non ebrei), dimostrando in tal modo che per diventare cristiani non era necessario essere ebrei e che quindi il cristianesimo era una fede universale, aperta a tutti gli uomini e le donne. L e lettere di san Paolo, indirizzate alle comunità cristiane sparse nelle città dell’Impero romano (Corinto, Tessalonica, Efeso, la stessa Roma) sono i più antichi documenti cristiani, più antichi dei 4 vangeli, sono scritte in greco (la “koiné”, ovvero lingua comune del Mediterraneo antico)e contengono elementi dottrinari importanti: l’universalità del messaggio di Cristo, l’importanza della carità, la grazia di Dio che salva. L’unità linguistica presente nell’impero romano, la cui lingua veicolare (koiné) era il greco, unitamente all’efficiente sistema di comunicazioni e trasporti e alla spiccata urbanizzazione (presenza di moltissime città), favorirono la diffusione del cristianesimo, che fino alla metà del III secolo non fu apertamente osteggiato e perseguitato dal potere imperiale. Ci furono isolati episodi di persecuzione anche grave (si pensi a Nerone), ma in genere prevalse la linea di realismo politico che i Romani avevano sempre adottato nei confronti delle altre religioni: se non si oppongono al potere dello Stato, se non commettono atti criminosi e se rispettano le istituzioni romane, siano tollerate. Nella seconda metà del III secolo, in concomitanza con l’acuirsi della crisi dell’impero, costretto a difendersi ai confini esterni, in preda all’anarchia interna, con imperatori di fatto deboli e nelle mani degli eserciti, ma che tendevano a presentarsi come sovrani assoluti e come personaggi degni di venerazione (secondo un modello orientale), i cristiani furono visti come un pericolo per lo Stato romano, in cui religione e politica erano strettamente intrecciate. Assimilati a una setta superstiziosa, accusati di magia e sacrifici umani, sospettati di ateismo perché non sacrificavano agli dei cittadini, i cristiani erano malvisti per la loro fede in una divinità astratta ed estranea alle cose del mondo e anche per le ricchezze che avevano accumulato. Gli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano furono i più grandi persecutori dei cristiani; nel 313 Costantino promulgò un editto che garantiva libertà di culto ai cristiani, nel 325 convocò un concilio (assemblea di vescovi) a Nicea, nel quale furono stabilite le linee fondamentali della religione cristiana (credo niceno). Con i successori di Costantino il cristianesimo si diffuse e consolidò, con l’importante eccezione di Giuliano (361363), che tentò, senza ottenere successo, di restaurare il culto degli dei. Alla fine del IV secolo Teodosio stabilì che il cristianesimo era “religione di stato”. AGOSTINO Agostino, uno delle più grandi figure del cristianesimo, santificato dalla Chiesa e principale esponente della Patristica latina, nacque a Tagaste (oggi Algeria) nel 354. Era figlio di Patrizio, funzionario imperiale pagano, e di Monica, cristiana, a cui Agostino fu sempre legato e che ebbe su di lui grande influenza. Agostino ha raccontato la sua vita nelle Confessioni, uno dei libri più famosi e letti della letteratura mondiale, nonché capolavoro del genere autobiografico e introspettivo. Le sue opere sono numerosissime e ancora oggetto di studi e interpretazioni differenti. Come egli stesso racconta nelle Confessioni, Agostino ebbe una giovinezza irrequieta, sia dal punto di vista sentimentale (non si sposò ma ebbe una lunga relazione da cui nacque un figlio, Adeodato) che sotto il profilo intellettuale: era tormentato dal problema della ricerca della verità, e per un certo periodo di tempo fu attratto dal manicheismo, una visione del mondo dualista che opponeva due assoluti, il Bene e il Male, impegnati in una lotta cosmica dall’esito incerto. Effettivamente il manicheismo dà una risposta convincente al problema del male che tormentò a lungo Agostino (“Si est Deus, unde malum?”, ossia se c’è Dio, bontà infinita, da dove viene il male?), attribuendogli una realtà metafisica, considerandolo un principio eterno e non creato da Dio, ma nemmeno questa teoria placò la ricerca di Agostino, che trovò un approdo definitivo solo nel cristianesimo. Agostino fu battezzato nel 387 a Milano dal vescovo Ambrogio e trascorse l’ultima parte della sua vita a Ippona, in Africa, da pastore venerato e rispettato. Come vescovo di Ippona si impegnò contro tutte le eresie, che in Africa prosperavano, e per la definizione dell’ortodossia cattolica (dal greco: retta opinione). Morì nel 430, e poco dopo l’Africa fu invasa dai Vandali. Per tratteggiare un profilo essenziale del pensiero di Agostino possiamo concentrarci sui punti seguenti: l’impostazione psicologica del problema della verità il problema del tempo il problema del male la Città di Dio: filosofia della storia e filosofia politica La Verità abita in noi In diversi luoghi della sua opera Agostino presenta la filosofia come un colloquio interiore, oppure afferma che per fare filosofia ha bisogno solo di Dio e dell’anima, e di null’altro. Nelle Confessioni leggiamo che “gli uomini vanno ad ammirare le vette delle montagne, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, la distesa dell’oceano, i giri degli astri; e abbandonano se stessi”; questo ripiegamento interiore non è visto da Agostino come una rinuncia a capire la vastità dell’essere, ma come la strada maestra per arrivare alla verità, staccandosi da tutto ciò che è mutevole, transitorio, destinato a perire. In un passo del testo La vera religione Agostino scrive: “non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell’uomo interiore e, se troverai che la sua natura è mutevole, trascendi anche te stesso”. Bisogna precisare che per Agostino il termine verità ha un senso più forte di quello logico-linguistico per cui verità è semplicemente una proprietà del discorso: tutto ciò che affermiamo, nel discorso apofantico o dichiarativo, può essere vero (ad esempio la frase “Barack Obama è il presidente degli Stati Uniti”) o falso ( ad esempio “tutti gli asini volano”). Verità per Agostino è sinonimo di certezza indubitabile, di ciò la cui esistenza non può essere negata. Ma come si arriva alla verità, a ciò che non può essere negato? attraverso una discesa all’interno di noi stessi perché la prima e indubitabile certezza è la certezza di esistere: colui che pensa, anche quando sbaglia e si inganna, è qualcuno che sbaglia e si inganna, perciò esiste (si fallor, sum). Si tratta di un argomento destinato a grande fortuna perché lo riprenderà nel XVII secolo Cartesio. La verità che abita “in interiore homine” non deriva però dall’uomo, essere finito, corporeo, mutevole: è una luce che si accende dentro di noi, è una scintilla che, non essendo prodotta da noi stessi, deriva dal creatore di tutte le cose, Dio. La creazione e il tempo. Il testo della Genesi introduce un concetto del tutto estraneo al pensiero greco: la creazione dal nulla. Nelle filosofie della Grecia classica il materiale di cui è fatto il mondo è eterno e increato: nell’unica teoria che si avvicina al testo biblico, quella di Platone, non vi è una divinità creatrice ma un Demiurgo, ossia un “plasmatore” della materia preesistente. Quindi saremmo portati a dire che “prima della creazione c’era solo Dio”, ma questa è una domanda priva di senso. Infatti, se il tempo, come ogni altro aspetto del mondo, è stato creato da Dio, non è possibile pensare a un “prima” della creazione. Dio è eterno, ma la sua eternità sfugge alla dimensione umana del tempo. L’eternità potrebbe essere paragonata a un attimo presente che si prolunga all’infinito, anche se propriamente nell’eternità le dimensioni temporali che noi conosciamo (prima, dopo; passato, presente, futuro) non esistono. Per Agostino, l’unico tempo reale è il presente, l’attimo che stiamo vivendo; il passato e il futuro per Agostino hanno una realtà soltanto psicologica, come ricordo (il passato) e aspettativa (il futuro). Nell’undicesimo libro delle Confessioni, il più teoretico di tutta l’opera, Agostino si chiede che cos’è il tempo e svolge una serrata analisi filosofica di questo concetto. Egli afferma che vi sono 3 declinazioni del presente: un presente di cose passate, un presente di cose presenti e un presente di cose future: “Il presente delle cose passate è la memoria, il presente delle cose presenti è la vista, il presente delle cose future è l’attesa”. Nella sua Storia della filosofia occidentale, Bertrand Russell così sintetizza: “Il punto essenziale della soluzione che [Agostino] suggerisce è che il tempo sia soggettivo: il tempo risiede nella mente umana che attende, considera e ricorda. Ne consegue che non ci può essere tempo senza un essere creato, e che parlare del tempo prima della creazione è insensato”. Pertanto, la concezione agostiniana del tempo può essere definita psicologica, soggettivistica, oppure relativistica o intellettuale. Il problema del male Attirato in gioventù dal manicheismo, Agostino giunse alla definitiva soluzione del problema del male (sintetizzato nelle domande: Qual è la natura del male? e soprattutto, da dove viene il male, se Dio è immensa bontà?) dopo la conversione, attingendo dalle Scritture, da Platone e dal neoplatonismo. Scrive Agostino nelle Confessioni. “tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene”. Ciò significa che Agostino identifica il bene con l’essere: tutto ciò che esiste, che è stato creato da Dio, è buono. Se la creazione è tutta buona, in cosa consiste il male? consiste nel fatto che le cose del mondo, essendo mutevoli e destinate a perire (perché esistono nel tempo) hanno in sé un principio di corruzione che le allontana dalla perfezione del bene sommo. Il male quindi non è una cosa, una sostanza creata (perché sarebbe bene, come tutte le cose create), ma è non essere, privazione di essere, allontanamento dal bene, corruzione della condizione di perfezione con cui le cose create sono uscite dalla mano di Dio. Appurato che il male non è un sostanza creata da Dio, vi è poi un altro aspetto del male, ovvero il male come azione, il “fare” il male. In questo senso il male è il prodotto della volontà umana peccaminosa che si è allontanata dal sommo bene e gli ha preferito beni terreni, inferiori; esso quindi è peccato. Sintetizzando, due sono le facce del male: privazione di essere e peccato. La Città di Dio: filosofia della storia e filosofia politica Nel 410 i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma, un evento che fu vissuto con grande angoscia dai contemporanei: la città eterna non aveva resistito alle orde barbariche. Alcuni scrittori pagani incolparono il cristianesimo della decadenza di Roma: il sacco di Roma fu interpretato come la vendetta degli dei pagani offesi perché molti romani si erano convertiti alla fede in Cristo e avevano abbandonato l’antica religione che aveva fatto grande l’Urbe. Per difendere il cristianesimo da queste accuse e mostrare la sua superiorità anche in campo civile e politico Agostino scrisse una grandiosa opera di filosofia della storia, destinata a essere un punto fermo della riflessione cristiana sulla storia: De Civitate Dei. Agostino interpreta il corso della storia umana come lotta tra due modi di essere: la città terrena e la città di Dio. Scrive Stefano Petrucciani in Modelli di filosofia politica: “Le due città non si identificano con la Chiesa e con lo Stato, ma sono piuttosto da intendere come due società governate da principi contrapposti: la città terrena è un’unione che nasce per soddisfare il desiderio di gloria, l’ambizione, la cupidigia; è governata dall’amore di sé spinto fino all’indifferenza nei confronti di Dio. La città di Dio, ovvero la città celeste, è invece governata dalla legge dell’amore, dell’umiltà, del sacrificio di sé. Essa è la società dei giusti che vivono questo mondo da stranieri, come un transito verso la redenzione. Il dualismo tra le due città, intrecciate e destinate a convivere dal tempo di Caino e Abele (che ne sono le prime incarnazioni) per tutta la durata della storia dell’uomo, terminerà soltanto nella fine escatologica, quando si instaurerà la Città di Dio e con essa la perfetta concordia. È a partire da questo orizzonte che si profila anche il modo in cui, secondo Agostino, devono essere pensati i rapporti tra la Chiesa e lo stato cristiano, cioè quello stato che professa la vera fede. Ognuno dei due poteri ha la sua autonoma sfera di azione: lo stato si occupa dell’uomo nella sua dimensione materiale e brandisce la spada che punisce; la Chiesa cura invece gli interessi spirituali. Sebbene le due sfere siano distinte e indipendenti, quella spirituale è superiore, anche perché la sua giurisdizione non è limitata nello spazio e nel tempo: mentre gli stati sono soggetti al tempo la Chiesa è al di sopra del tempo, perché si situa nella prospettiva escatologica (cioè dei fini ultimi della storia) della città celeste. Essa peraltro non esita a servirsi dello stato come “braccio secolare” per reprimere l’eresia: la spada dell’impero deve accorrere in soccorso della fede col timore che ispira ai miscredenti.” (S. Petrucciani, Modelli di filosofia politica, Einaudi, Torino 2003, p. 65-66) LA SCOLASTICA Con il termine “Scolastica” si definisce la filosofia medievale di un lungo periodo, all’incirca tra il V e il XIV secolo; più precisamente, “la filosofia e la teologia che venivano insegnate nelle scuole medievali” (Sofia Vanni Rovighi) Nel Medioevo fiorirono le scuole, proprio nel senso in cui noi intendiamo questa parola, ovvero luoghi destinati all’apprendimento, in cui un insegnante spiega o commenta testi e gli allievi seguono attentamente. Le scuole del Medioevo in genere presero a modello le scuole romane, anche se poi si allontanarono da questo modello; nell’antica Grecia, come sappiamo, le scuole filosofiche erano qualcosa di diverso: erano comunità di vita in cui si insegnava a vivere in un certo modo (esempio: scuola pitagorica) o a essere felici (scuole ellenistiche). L’ultima scuola filosofica pagana fu chiusa nel 529 d.C. dall’imperatore Giustiniano: era la scuola di Atene. Possiamo dunque affermare che Giustiniano diede il colpo di grazia alla filosofia greca. Dopo questo “funerale” della cultura classica, nella parte occidentale dell’ex impero romano (ormai sostituito dai cosiddetti regni romano barbarici) l’istruzione si organizzò, lentamente e laboriosamente, in forme diverse. Protagonisti della riorganizzazione della cultura e dell’istruzione furono la Chiesa e le corti. Sorsero infatti diversi tipi di scuole, che si possono così classificare: scuole monacali o abbaziali: sono scuole annesse a un’abbazia e nel corso del Medioevo sono state i luoghi della conservazione del patrimonio culturale antico, grazie ai monaci amanuensi che negli scriptoria (laboratori di scrittura) copiavano i testi classici scuole episcopali: sono scuole annesse a una cattedrale, in cui si impartiva l’istruzione di base, oggi diremmo scuole elementari scuole palatine: sono scuole annesse alla corte del re, sul modello della scuola fondata nel 781 da Carlo Magno, che la affidò ad Alcuino di York (730-804) Alcuino organizzò il corso di studi secondo un modello teorizzato in precedenza che poi si diffonderà ovunque e diventerà il classico modello dell’istruzione medievale: dopo un livello elementare, in cui si impara a leggere e scrivere in latino e c’è un primo approccio alla Bibbia, si passava allo studio delle “7 arti liberali”, ovvero: arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e arti del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica) e alla conoscenza approfondita della Bibbia. Per studiare si utilizzavano dei manuali messi insieme utilizzando autori latini come Cicerone, Prisciano, Agostino, e brani di alcuni autori che possiamo considerare i grandi mediatori tra antichità classica e medioevo. Si tratta di alcune importanti figure che hanno trasmesso, attraverso i loro scritti, una parte della cultura classica soprattutto greca ai secoli del medioevo, salvandola così dal naufragio. Vediamoli un po’ più da vicino. I principali sono: Severino Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Beda detto “il Venerabile” Boezio (480-524): di antica e nobile famiglia romana, diventò stretto collaboratore del re Teodorico, ma fu accusato ingiustamente di congiura e tradimento, imprigionato e ucciso presso Pavia nel 524. Durante la prigionia scrisse la sua opera più celebre, “De consolatione Philosophiae”, in prosa e in versi, in cui immagina che una bellissima donna, appunto la Filosofia, lo visiti in carcere e intrattenga con lui una conversazione in cui sono trattati temi di etica desunti principalmente dallo stoicismo greco e romano. Tradusse e commentò l’Organon di Aristotele: grazie a Boezio il Medioevo latino (fino al secolo XIII, quando si diffusero le traduzioni dall’arabo) poté studiare la logica di Aristotele. Cassiodoro (nato tra il 480 e il 490, morì nel 570 nel monastero di Vivarium, in Calabria, da lui fondato): contemporaneo di Boezio, come lui impegnato in politica ma più fortunato perché non fu messo a morte. Scrisse un’opera di erudizione molto studiata nel Medioevo: Institutiones divinarum et saecularum litterarum, in cui tra le altre cose propone di organizzare gli studi in arti del trivio e del quadrivio (riprendendo questa classificazione da un’altra opera erudita, le Nozze di Mercurio e Filologia, scritta verso il 430 da Marziano Capella) Isidoro di Siviglia (570-636): scrisse un’opera enciclopedica in 20 libri, in cui c’era un po’ di tutto (letteratura, filosofia, scienze naturali, curiosità), nella quale erano presenti citazioni di autori classici che in tal modo furono trasmesse al Medioevo Beda (673-735): autore di opere storiche e grammaticale e del De rerum natura, una sorta di enciclopedia del sapere, sul modello di quella di Isidoro, che fu molto letta nel Medioevo LE UNIVERSITA’ Una delle grandi invenzioni del Medioevo (che fu generoso di invenzioni, dallo zero alla numerazione attuale, dalla bussola alla carta fatta con gli stracci, fino ai bottoni e alla forchetta) fu l’Università, una istituzione culturale ed educativa per la quale non c’erano modelli nel passato. Con il termine “universitas” si indicava non un edificio o un corso di studi, ma la corporazione (oggi diremmo “sindacato”) di studenti e maestri, che si associavano e poi ricevevano privilegi dal re o dal papa. Le prime e più celebri università furono quelle di Bologna (specializzata negli studi giuridici) e Parigi (teologia, cioè filosofia). Nelle università fu elaborata la grande filosofia scolastica, quella di Abelardo, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto. Il corso completo di studi, che durava circa 14 anni, era distinto in 2 gradi: arti liberali (del trivio e del quadrivio) e teologia. Nel primo corso si impartiva un’istruzione più laica, aperta anche alle scienze naturali, nel secondo una filosofia cristiana, volta a realizzare l’unione di fede e razionalità. Il metodo di studio comprendeva lettura dei testi (lectio) e discussioni (disputationes) su temi assegnati dal maestro (quaestiones disputatae). Centrale era il ruolo del testo, e dunque del libro (siamo molto lontani dall’oralità del sapere greco di Socrate e Platone) PERIODIZZAZIONE DELLA SCOLASTICA Si possono distinguere 4 periodi: I periodo della Scolastica: V-IX secolo: dopo la morte di Agostino inizia un periodo di decadenza culturale a cui si è dato il nome di “secoli bui”. Due grandi e isolate figure della filosofia sono Boezio e Scoto Eriugena (irlandese, nato verso l’847, vissuto alla corte di Carlo il Calvo; il suo capolavoro filosofico è il De divisione Naturae, in 5 libri, un’opera sistematica molto complessa in cui vi è una visione panteistica e si propende per la teologia “apofatica” o negativa: Dio è inesprimibile) II periodo: X-XII secolo: le figure più importanti sono Anselmo d’Aosta e Abelardo III periodo: XIII secolo: età d’oro della scolastica, con i più grandi filosofi, dottori della Chiesa come Bonaventura, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto IV periodo: è la dissoluzione della scolastica, con la crisi dell’unità di ragione e fede; figura simbolo di questa fase è Guglielmo di Ockham. Concluderemo questa (troppo) rapida rassegna di filosofia medievale con un accenno al problema degli universali e sintetici ritratti di 3 grandi figure: Anselmo d’Aosta, Abelardo, Tommaso d’Aquino. Di Ockham ci limiteremo a ricordare il suo principio metodologico: “Entia non sunt moltiplicanda sine necessitate”, che invita, nell’indagine scientifica ma non solo, a dare un bel colpo di rasoio a tutto ciò che è inutile, e che mi sembra molto attuale. qui sotto, una citazione da Duns Scoto (pluralitas non est ponenda sine necessitate) che anticipa il rasoio di Ockham GRANDI FIGURE DELLA SCOLASTICA: ABELARDO Il mio prof di filosofia del liceo ci spiegava che la filosofia del Medioevo vale moltissimo, non tanto per quello che dice ma per come lo dice. Ciò significa che i medievali più che delle grandi dottrine elaborarono una raffinata tecnica filosofica, logica e argomentativa; furono grandi proprio perché, avendo a disposizione pochi materiali ereditati dall’antichità (un paio di trattati dell’Organon di Aristotele: Categorie e Dell’interpretazione, alcuni commenti e citazioni tratte dalle opere enciclopediche di cui si è già detto) effettuarono un lavoro di scavo e analisi che ancor oggi stupisce. La base della loro preparazione filosofica, compendiata nelle cosiddette arti liberali del trivio, era la logica, in cui furono molto esperti e anche innovatori. Ogni secolo del Medioevo, dopo la rinascita dell’anno Mille, ebbe il suo grande filosofo: l’XI secolo Anselmo, il XII Abelardo. Pietro Abelardo (1079-1142) nacque in Bretagna, nelle vicinanze di Nantes. Studiò con i migliori maestri dell’epoca ma fin da giovane allievo dimostrò un carattere insofferente e uno spirito molto critico. A Parigi aprì una scuola sulla collina di Santa Genoveffa e poi insegnò alla Scuola di Nötre Dame (negli anni 1114-1118), che fu il primo nucleo dalla futura università di Parigi. In questo periodo si colloca la sua storia d’amore con Eloisa, che è l’episodio più celebre della vita di Abelardo. Eloisa era la giovane nipote del canonico Fulberto, che l’aveva affidata ad Abelardo per l’istruzione filosofica. I due si innamorarono e intrecciarono una relazione da cui nacque un figlio, chiamato Astrolabio (il nome significa “colui che abbraccia le stelle”, forse in omaggio alla conoscenza scientifica); quando Fulberto, che forse di Eloisa era padre, non zio, scoprì la tresca, andò su tutte le furie: Abelardo si dichiarò disponibile a qualunque tipo di risarcimento, e Fulberto impose le nozze riparatrici. Abelardo accettò a patto che il matrimonio rimanesse segreto, perché temeva che la sua carriera accademica, giunta ai vertici, potesse essere danneggiata dalla rinuncia al celibato (timore probabilmente infondato, perché la sua fama era immensa e nessuno ci avrebbe fatto caso). I due amanti si sposarono in segreto, ma evidentemente ciò non fu sufficiente a placare l’ira di Fulberto, che si vendicò atrocemente facendo evirare Abelardo da due suoi scagnozzi (un modo di “farsi giustizia da soli” che a quei tempi non era raro). Dopo questo tragico evento, Eloisa e Abelardo si ritirarono in due conventi diversi. Eloisa poi divenne badessa, ma non dimenticò mai l’amante e marito, perché pur non incontrandosi mai più i due si scrissero delle stupende lettere d’amore che sono tra i capolavori della letteratura. Abelardo morì nel 1142, Eloisa vent’anni dopo. Dopo la morte di Eloisa le loro salme furono traslate a Parigi, dove tuttora riposano, uno accanto all’altra, nel cimitero Père Lachaise, il più antico e famoso di Parigi. La maggior parte delle notizie biografiche che possediamo su Abelardo ed Eloisa sono tratte dalle loro lettere, e dal testo autobiografico di Abelardo “Storia delle mie disgrazie”. Nell’Ottocento la storia di Abelardo ed Eloisa divenne un mito: la maggior parte delle raffigurazioni pittoriche dei due amanti è di quel secolo, che nutrì una vera passione per il medioevo, attestata dalla diffusione dello stile architettonico “neogotico”. L’illustrazione riproduce un quadro del 1882, del pittore inglese Edmund Leighton, in cui i due amanti sono ritratti nel chiostro della cattedrale di Nötre Dame, che in realtà non esisteva ancora! LA FILOSOFIA DI ABELARDO IL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI: Prima di esporre alcuni aspetti della filosofia di Abelardo conviene fare un passo indietro e presentare sinteticamente il “Problema degli universali”, una delle questioni maggiormente discusse nell’ambito della Scolastica. Che cosa sono gli universali? Gli universali sono i termini di ordine generale, che nelle definizioni, come ad esempio “l’uomo è un animale razionale” stanno in posizione di predicato; nella frase precedente il termine “animale” è l’universale che indica il genere, mentre “razionale” è l’universale che indica una differenza specifica all’interno di un genere (tra tutti gli animali, l’uomo è quello che ragiona, e questo è sufficiente per definirlo) Nell’antichità gli Universali sono presenti sia in Platone che in Aristotele: per il primo, gli universali sono le idee, e sono entità più reali degli oggetti sensibili che ne sono le copie; per Aristotele hanno invece un’esistenza soltanto mentale. Nel Medioevo, coloro che credevano all’esistenza reale degli universali furono detti “realisti”; furono detti invece “nominalisti” coloro che ritenevano che gli universali fossero solo dei costrutti mentali: nomi creati dall’uomo per designare le cose. Si dice che il “campione” dei nominalisti, Roscellino (1050-1120, fu uno dei maestri di Abelardo) sostenesse che gli universali fossero solo “flatus vocis” ossia emissioni sonore, suoni vocali. Per Roscellino dunque il mondo è fatto di cose e individui singoli, come ad esempio “quest’uomo” o “questo gatto”, non di “esseri umani” o “felini” (che esistono solo come suoni della voce quando pronunciamo queste parole). Abelardo prese parte alla disputa proponendo una soluzione “concettualista”: dal suo punto di vista sia i nominalisti che i realisti commettono l’errore di considerare gli universali come delle “cose”: cose ideali in senso platonico per i realisti, suoni vocali per i nominalisti. Ma gli universali, secondo Abelardo, non sono cose, sono concetti, significati veicolati dai nomi (sermones = significati). Il sermo o significato lega la cosa, ad esempio la rosa che è sul balcone, al nome di ordine più generale “fiore”, che in effetti coglie una proprietà della rosa (“la rosa è un fiore”). Abelardo mostra così di conoscere la distinzione tra significante e significato, già nota peraltro a Boezio, che è alla base della linguistica contemporanea. Il significante è la parola, segno convenzionale che può essere detto o scritto e che varia da una lingua all’altra: essa veicola il significato, che si riferisce sempre a una cosa o esperienza esterna al linguaggio. Uomo, hombre, homme, man, sono significanti diversi che veicolano lo stesso significato: il significante non è universale, il significato sì. Abelardo scrisse poi un’opera di etica che contiene spunti di grande modernità, come il concetto di intenzionalità del peccato: il peccato, in cui consiste la malvagità, non risiede nell’azione in sé, ma nell’intenzione che l’accompagna; in altre parole, si fa il male solo se la coscienza è consapevole di farlo e orientata a farlo. Si può quindi considerare il primo filosofo che delinea un’etica dell’intenzione. GRANDI FIGURE DELLA SCOLASTICA: ANSELMO D’AOSTA “L’aria della città rende liberi” Verso la fine dell’XI secolo la civiltà europea iniziò una lenta ripresa economica e culturale, legata soprattutto allo sviluppo delle città: nei centri urbani emerse una nuova classe sociale, dinamica e intraprendente, costituita da uomini fuggiti dalle campagne che si dedicarono alla produzione artigianale e ai commerci: è la borghesia, dal termine “bourg”, città. Nelle città si svilupparono scuole, indipendenti da cattedrali e palazzi reali, che furono il germe delle future università, una delle invenzioni più geniali del Medioevo. Nel 1084 fu fondata l’Università di Bologna, specializzata negli studi giuridici, qualche anno dopo Parigi e Oxford. Anselmo d’Aosta è il pensatore più importante di questo periodo. Anselmo d’Aosta (Aosta 1033, Canterbury 1109), sant’Anselmo per la Chiesa cattolica che lo ha canonizzato e gli ha attribuito il titolo di Dottore della Chiesa (ossia autorità teologica), fu dapprima monaco benedettino in Normandia, poi priore a Canterbury e infine arcivescovo della città inglese. Lo storico della filosofia francese Etienne Gilson lo ammirò moltissimo per la profondità del suo pensiero, e per far capire la grandezza di questo filosofo ricordò che le sottili analisi filosofiche di Anselmo si esercitarono sulla base di una modestissima quantità di materiali dell’antichità classica. Nelle sue opere egli mostra una grande fiducia nella ragione, che tende a mettere sullo stesso piano della fede: entrambe hanno come obiettivo la verità, ma la verità rivelata della fede e la verità conquistata della ragione non si oppongono ma si armonizzano perché provengono entrambe da Dio. Scrive a questo proposito il filosofo Armando Massarenti nel suo testo “Penso, dunque sono”: “La fede viene prima della ragione nel senso che la fonda: ma la ragione può confermare le verità di fede, spiegandole razionalmente. Anselmo sostiene dunque la totale identità delle verità di fede e di ragione, e ritiene che sia possibile dimostrare tutte le verità di fede tramite l’utilizzo della ragione. Nella sua ottica, queste possono essere comprese razionalmente ed è solo la pigrizia intellettuale, e non i limiti della ragione, che impediscono quest’impresa” (A. Massarenti, E. Di Marco, Penso dunque sono, D’Anna, Messina-Firenze 2014, p.586) Anselmo elaborò due prove dell’esistenza di Dio, proprio per dimostrare che la ragione può chiarire le verità di fede, che non sono quindi misteriose o esoteriche. La più celebre di queste prove è la cosiddetta “prova ontologica”, contenuta nell’opera “Proslogion” (“Colloquio”) Leggiamo il passo di Anselmo, anche per capire come scriveva un filosofo medievale e per fare un po’ di sano esercizio di comprensione: “Ora noi crediamo che tu [si rivolge a Dio] sia qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché «l’insipiente ha detto in cuor suo: “Dio non esiste”» (Salmo 14)? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ode ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore», intende ciò che sento dire; e ciò che intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. Altro infatti è che una cosa esista nell’intelletto, e altro intendere che una cosa esista […] Dunque anche l’insipiente deve convincersi che almeno nell’intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quando lo sente dire, e tutto ciò che si intende esiste nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella realtà e questo allora sarebbe maggiore. Di conseguenza se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell’intelletto sia nella realtà.” (cit. in A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Filosofia medievale, trad. it. di L. Corti, Einaudi, Torino 2012) Questa dimostrazione dell’esistenza di Dio ha attraversato i secoli ed è stata discussa dai più grandi filosofi: tra coloro che l’hanno apprezzata e accettata troviamo Cartesio (1596-1650) e Hegel (1770-1831). Tra coloro che la respinsero, Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Kant (1724-1804), il quale le diede il nome di “prova ontologica” e la confutò attentamente nella sua opera Critica della ragion pura. A me, lo confesso, la prova ontologica di Anselmo fa sempre un certo effetto: pur schierandomi con Kant (di cui ricordo il brillante esempio: nel concetto di 100 talleri ci sono tutte le caratteristiche dei 100 talleri reali, ma con il concetto di 100 talleri non mi riempio le tasche, perché l’esistenza, che è una “posizione assoluta”, non è mai analiticamente contenuta nel concetto, neppure nel concetto di qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, ovvero Dio), ne avverto la forza argomentativa, la potenza di un pensiero estremo che si muove ai confini del pensabile. E con pochissimo retroterra, come ci ricorda Gilson. Grandi figure della Scolastica: Tommaso d’Aquino Il ritorno di Aristotele Il Duecento è il secolo in cui c’è la scoperta, o riscoperta, da parte della cultura europea, del pensiero di Aristotele. Ciò avviene grazie alle traduzioni dall’arabo, effettuate in diversi centri di cultura (Toledo, Napoli, Palermo), delle principali opere di Aristotele, che fino al XII secolo il Medioevo non aveva conosciuto. Prima delle traduzioni dall’arabo c’erano state delle versioni dal greco, ad esempio quella di Giacomo Veneto (1125), ma quelle dall’arabo ebbero una diffusione maggiore. Verso la metà del secolo XIII, ai tempi di Tommaso d’Aquino, erano disponibili in traduzione latina la Metafisica, la Fisica, la Politica, l’Etica Nicomachea, la Poetica e la Retorica. Come abbiamo già detto, Boezio agli inizi del VI secolo aveva tradotto l’intero Organon, però nei secoli successivi furono lette e studiate solo le Categoriae e il De Interpretatione. Le altre opere logiche di Aristotele, soprattutto gli Analitici, con la loro teoria del ragionamento sillogistico, furono perdute. Si comprende quindi quale interesse suscitarono le nuove traduzioni: era tutto un mondo nuovo, di razionalità, sistematicità, analisi logica e scientifica che si offriva agli studiosi europei. Subito Aristotele apparve come il filosofo per eccellenza o, come scrisse Dante, il “maestro di color che sanno”. L’assimilazione di Aristotele portò con sé diversi problemi, perché alcuni aspetti del pensiero del filosofo greco non erano compatibili con il cristianesimo, e infatti vi furono delle condanne: nel 1277 l’arcivescovo di Parigi, Etienne Tempier, condannò 219 tesi riconducibili all’aristotelismo, che venivano insegnate nella Facoltà delle Arti, in cui dal 1255 Aristotele era stato adottato come testo di studio principale. Tommaso d’Aquino Cronologia della vita: 1221 (o 1225): nasce a Roccasecca 1239: studente a Napoli: primo incontro con la filosofia di Aristotele 1244: entra nell’ordine domenicano 1245-50: a Parigi e Colonia, dove studia con il maestro Alberto Magno 1253: a Parigi come docente universitario (baccelliere) alla facoltà delle Arti; successivamente insegna e scrive a Roma, di nuovo Parigi, Napoli e in altri centri 1274: muore durante un viaggio Di questo immenso pensatore, che ancora oggi è un punto di riferimento della Chiesa cattolica, emblema dell’incontro tra fede e razionalità, prenderemo in esame solo due aspetti, dopo avere brevemente delineato un profilo della sua personalità intellettuale: la distinzione tra ente ed essenza e le 5 vie per dimostrare l’esistenza di Dio. Nelle due opere principali di Tommaso, la Summa contra Gentiles (1260 circa) e la Summa Theologica (rimasta incompiuta per la morte prematura dell’autore) si rivela nel modo migliore la tecnica filosofica di Tommaso. Nel Medioevo le Summae erano opere filosofiche in cui un tema veniva sviscerato riportando e discutendo tutti i pareri, favorevoli o contrari, su di esso, e traendo poi le conclusioni. Le Summae testimoniano la sistematicità del pensiero medievale e la sua attitudine all’analisi e alla discussione di tutti i problemi. Le due Summae di Tommaso sono strutturate come le dispute che avvenivano nelle università medievali: posizione della questione (ad esempio: Dio ha il libero arbitrio?); argomenti pro o contro; risposta di Tommaso opportunamente argomentata; soluzione delle difficoltà sollevate dagli argomenti iniziali. Sulla tecnica di analisi di Tommaso riportiamo un’osservazione dello studioso britannico Anthony Kenny: “Questo metodo, che inizialmente può confondere il lettore odierno, costituisce un potente strumento di disciplina intellettuale, volto a evitare l’assunzione acritica di pregiudizi da parte del filosofo. Nell’adottarlo, san Tommaso si impone di attenersi alla domanda: chi devo convincere di che cosa, e quali sono gli argomenti più forti di cui può servirsi la parte avversa?” (A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. Filosofia medievale, tr. it. di L. Corti, Einaudi, Torino 2012, p. 23-24) Nel testo De ente et essentia, scritto verso il 1252, Tommaso propone una distinzione tra essenza ed esistenza che non si trova in Aristotele ma che ha le sue premesse nel pensiero di Avicenna, medico e filosofo persiano di lingua araba (9801037). Ogni ente, ovvero ogni cosa del mondo, ha un’essenza, espressa dalla sua definizione: l’essenza dell’uomo, ad esempio, è la razionalità (uomo = animale razionale). Poiché vi sono degli enti di cui sappiamo che cosa sono perché conosciamo la loro definizione ma che non esistono, come l’unicorno o l’araba fenice, Tommaso conclude che l’essenza non implica l’esistenza: un ente ha un’essenza quando è pensabile e definibile, ma potrebbe non esistere realmente. Adoperando termini aristotelici, Tommaso dice che l’essenza è potenza , mente l’esistenza è atto. Soltanto in Dio, “atto puro di esistere”, essenza ed esistenza coincidono, perché Dio è l’unico essere la cui essenza è l’atto di esistere. Le “cinque vie”: le cinque vie sono cinque dimostrazioni dell’esistenza di Dio “a posteriori”, ovvero elaborate partendo dal mondo sensibile creato da Dio. La prima è la via che parte dal moto: come insegna Aristotele, tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa. Per non cadere in un regresso all’infinito, è necessario ammettere un primo motore non mosso da alcunché, cioè Dio. La seconda via si basa sul rapporto di causa ed effetto: se tutto ciò che esiste ha una causa, per non cadere in un regresso all’infinito deve esistere una causa prima incausata La terza via parte dall’esistenza del contingente [contingente nel linguaggio di Tommaso designa un ente che esiste ma che sarebbe potuto non esistere, che ha avuto un inizio e che avrà una fine: è il contrario di “necessario”]. Anche in questa terza via per non cadere in un regresso all’infinito occorre ammettere l’esistenza di un essere necessario che ha reso possibile l’esistenza dei contingenti La quarta via si fonda sui gradi della perfezione, di cui ogni cosa partecipa. Se ogni esistente è più o meno perfetto, deve esistere un essere totalmente e assolutamente perfetto La quinta via parte dalla constatazione che ogni cosa ha un suo fine: il fine ultimo del creato è Dio Come si può vedere, il mondo presupposto dalle 5 vie è un mondo ordinato e finito, come quello di Aristotele.