www.ildirittoamministrativo.it OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA AGGIORNATO A FEBBRAIO 2012 MARIANNA CAPIZZI Consiglio di Stato, sez. V , sentenza 7 febbraio 2012, n. 656. Sull’applicazione del principio dell’abuso del diritto nel processo amministrativo. L’abuso del diritto è un istituto di matrice giurisprudenziale, nato quale criterio di valutazione del giudice ordinario della rilevanza dell’inadempimento contrattuale ai fini della risoluzione del contratto. Esso costituisce, in particolare, estrinsecazione del più generale dovere di buona fede e correttezza sancito dall’articolo 1175 c.c. Quest’ultimo prevede che debitore e creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Si tratta di una clausola generale del sistema, ribadita da diverse previsioni normative che ne costituiscono diretta applicazione. In particolare, in materia contrattuale il dovere generale di buona fede e correttezza è richiamato nell’articolo 1337 c.c. (con riguardo all’obbligo di buona fede nelle trattative); nell’articolo 1366 c.c. (con riguardo all’interpretazione del contratto); nell’articolo 1375 c.c. (con riguardo all’esecuzione del contratto). La giurisprudenza ha poi evidenziato: che al principio di buona fede deve attribuirsi rilievo costituzionale in quanto applicazione del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione (“il principio di buona fede è un autonomo dovere giuridico espressione di un generale principio di solidarietà sociale – la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti, applicabile sia in ambito contrattuale sia in quello extracontrattuale” (Cass., sentenza 5 marzo 2009, n. 5348). E, ancora, “il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi 1 www.ildirittoamministrativo.it dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (Cass. 6.8.2008, n. 21250; Cass. 27.10.2006, n. 23273)” (Cassazione Civile, sez. I, 22 gennaio 2009, n. 1618). La correttezza e la buona fede, proprio per il rilievo costituzionale che rivestono, costituiscono fonte autonoma di obbligazioni tra le parti che, oltre a determinare l’insorgere in capo a ciascuna parte contrattuale di specifici obblighi di protezione finalizzati a prevenire i danni che l’altra parte o, eventualmente, altri soggetti coinvolti nel rapporto obbligatorio, possono subire dallo svolgimento dello stesso, legittima il giudice a “controllare anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi” (Cass., Sez. Un. 15 novembre 2007, n. 23276). Posto quanto sopra, si configura un abuso del diritto tutte le volte in cui il medesimo, pur essendo stato esercitato nel rispetto delle regole che ne disciplinano le condizioni di esercizio, si sostanzia, di fatto, in una violazione del principio di buona fede e correttezza perchè fatto valere per una finalità non consentita dall’ordinamento o con modalità tali da cagionare un sacrificio sproporzionato e ingiustificato alla controparte: “Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall'esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell'individuo o dell'imprenditore, giacché ciò che è 2 www.ildirittoamministrativo.it censurato in tal caso non è l'atto di autonomia negoziale, ma l'abuso di esso” (Cass. Civile, sez. III, Sentenza 18 settembre 2009, n. 20106). Orbene, mutuando le coordinate interpretative elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quinta sezione del Consiglio di Stato ha affermato, nella pronuncia in esame, che integra un’ipotesi di abuso del diritto la condotta della parte che, dopo aver incardinato la controversia innanzi al giudice amministrativo con l’atto introduttivo di primo grado, ne contesti la relativa giurisdizione nel ricorso in appello. Si tratta, infatti, ha precisato il Collegio, di una censura che, oltre ad essere inammissibile, in quanto oggetto di una eccezione tecnica che, ex articolo 9 c.p.a., deve essere dedotta con specifico motivo dalla parte chiamata in giudizio, è contraria al divieto dell’abuso del diritto che, in quanto espressione del principio generale di cui all’articolo 2 della Costituzione, permea tanto i comportamenti sostanziali quanto quelli processuali. Richiamando gli apporti dottrinali e giurisprudenziali in materia, il Collegio ha ricordato che l’abuso del diritto si configura in presenza dei seguenti elementi costitutivi: “…1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte”. Orbene, ha continuato il Collegio, il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione del canone costituzionale di solidarietà, si applica anche in ambito processuale. In tale ambito esso comporta che “ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo. Si giunge, così, all'elaborazione della figura dell'abuso del 3 www.ildirittoamministrativo.it processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa”. Si tratta, ha continuato il Collegio, di un principio già applicato sia dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 3 del 2011, sia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 15 novembre 2007, n. 23726. In particolare, l’Adunanza Plenaria ha applicato detto principio laddove, in sede di interpretazione dell’articolo 34, comma 3 c.p.a., ha ritenuto di poter escludere, ex articolo 1227, 2° comma c.c., il risarcimento dei danni che il ricorrente avrebbe potuto evitare con la tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o con il pronto utilizzo degli altri strumenti di tutela. Le Sezioni Unite hanno, invece, affermato che il creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, non può frazionare il credito in plurime domande giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo. Detto contegno, che il creditore tiene per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede (oltre che ai canoni costituzionali che garantiscono la giustizia e la ragionevole durata del processo) e al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione e si risolve in abuso del processo (ostativo all'esame della domanda). Si tratta, per tale ragione, di una iniziativa processuale paralizzabile tramite l’exceptio doli generalis seu presentis che, secondo l’insegnamento di Cassazione Civile, sez. I, 7 marzo 2007, n. 5273 (e a differenza dell’"exceptio doli specialis seu praeteriti" che serve a sanzionare il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio, allorché siano stati posti in essere raggiri diretti a indurre un soggetto a concludere un negozio che non avrebbe concluso o che avrebbe concluso a condizioni diverse), serve proprio a paralizzare le domande proposte in contrasto con i principi di correttezza e buona fede perché volte ad un esercizio fraudolento o sleale dei diritti di volta in volta attribuiti dall'ordinamento. In definitiva, dunque, ha concluso il Collegio, è “inammissibile il motivo di appello con cui la parte ricorrente in primo grado ha sollevato il difetto di giurisdizione del giudice adito. Deve, quindi, essere accolta l’eccezione 4 www.ildirittoamministrativo.it spiegata dalla parte appellata, inquadrabile nella menzionata figura dell’exceptio doli generalis”. Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 16 febbraio 2012, n. 833. Sui presupposti per l’esercizio del potere di revoca in autotutela degli atti di gara. Una delle principali novità introdotte dal Codice dei Contratti pubblici è stata l’espressa previsione dell’articolazione della fase dell’aggiudicazione in provvisoria e definitiva. L’aggiudicazione provvisoria, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, è atto della Commissione di gara con cui essa individua l’offerta migliore secondo il criterio di selezione adottato e chiude la procedura di valutazione delle offerte. L’aggiudicazione definitiva, invece, è l’atto adottato dal competente organo della stazione appaltante, previo controllo e approvazione degli atti del seggio di gara. Si tratta di un atto non meramente confermativo o esecutivo dell’aggiudicazione provvisoria, in quanto, anche qualora ne condivide e ne recepisce interamente i risultati, presuppone una nuova e autonoma valutazione da parte dell’organo competente alla sua adozione. La disciplina che connota l’aggiudicazione provvisoria e quella definitiva è stata più volte e sotto più profili oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza amministrativa che, per quanto in questa sede interessa, ha affermato la possibilità per la P.A. di procedere all’annullamento dell’aggiudicazione anche dopo la stipula del contatto d’appalto, fondandosi detta potestà di annullamento in autotutela sul principio costituzionale di buon andamento che impegna la pubblica Amministrazione ad adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire. Occorre, tuttavia, anche in questo caso, che ricorrano i presupposti del ricorso all’autotutela consistenti nell’illegittimità dell’atto annullato e nella sussistenza di un interesse pubblico da compararsi con quello del privato che abbia riposto un legittimo 5 www.ildirittoamministrativo.it affidamento sulla stabilità dei suoi effetti (v. Ta.r. Lombardia-Milano n. 6171/2008 e Consiglio di Stato, V, 4 gennaio 2011, n. 11). Conferma l’orientamento in parola la sentenza in esame: “ … in materia di contratti della P.A., il potere di non procedere alla aggiudicazione (definitiva o provvisoria) di una gara ben può trovare fondamento, in via generale, in specifiche ragioni di pubblico interesse (Consiglio di Stato, Sezione III, n. 6039 del 15 novembre 2011, Sezione VI, n. 1554 del 17 marzo 2010). 5.4.- E nella fattispecie sono state chiaramente indicate (e non risultano manifestamente irragionevoli) le ragioni di pubblico interesse (attuale e concreto) che hanno determinato l’adozione dell’atto di autotutela e tali ragioni sono state correttamente ritenute prevalenti rispetto agli altri interessi militanti in favore della conservazione degli atti oggetto della revoca”. Del pari consolidato il principio di diritto secondo cui in materia di indennità di revoca ex articolo 21 quinquies, nel caso in cui l’atto di revoca non preveda espressamente l’indennizzo, la revoca non va considerata, per ciò stesso, illegittima. La mancata previsione dell’indennizzo, dunque, non determina l’illegittimità dell’atto di revoca, ma consente al privato di agire in giudizio per ottenere l’indennizzo (da ultimo, Consiglio di Stato 10 gennaio 2012, n.39): “…Non ha poi rilievo”, ha aggiunto il Collegio, “la circostanza che l’amministrazione nell’atto di annullamento (rectius revoca) non ha indicato anche l’ammontare dell’indennizzo da liquidare alla parte, così come previsto dai commi 1, 1 bis e 1 ter dell’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990. Per giurisprudenza costante, infatti, l’eventuale mancata previsione dell’indennizzo non ha efficacia viziante o invalidante dell’atto di revoca ma legittima solo il privato ad azionare la relativa pretesa patrimoniale, anche davanti al giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1554 del 17 marzo 2010)”. 6 www.ildirittoamministrativo.it Consiglio di Stato, Sez.. IV, sentenza 23 febbraio 2012, , n.969. Sulla possibilità o meno di utilizzare l’istituto comunitario dell’avvalimento ex art. 49 del codice dei contratti pubblici facendo riferimento ai requisiti posseduti da una impresa extracomunitaria; nella specie si trattava di una impresa tunisina. L’avvalimento è l’istituto in virtù del quale un concorrente che partecipa ad una gara pubblica può dimostrare il possesso dei requisiti necessari per la partecipazione facendo riferimento alle risorse e alla capacità di un altro operatore economico. In altri termini, mediante l’avvalimento, i requisiti tecnico-organizzativi, economici, finanziari, di certificazione, posseduti da un operatore possono essere utilizzati da un altro soggetto per la partecipazione ad una specifica gara di appalto pubblico. L’articolo 49 fornisce una disciplina dettagliata della documentazione occorrente per provare l’avvalimento ed aggiunge che l’avvalimento comporta: a) la responsabilità in solido, nei confronti della stazione appaltante, in relazione alle prestazioni oggetto del contratto; b) l’applicazione degli obblighi previsti dalla normativa antimafia a carico del concorrente anche nei confronti del soggetto ausiliario, in ragione dell’importo dell’appalto posto a base di gara; c) la sottoposizione ad una serie di limiti quali: per i lavori, la possibilità di avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria, salva diversa previsione del bando il quale può ammettere l’avvalimento di più imprese ausiliarie in ragione dell’importo dell’appalto o della peculiarità delle prestazioni, fermo restando il divieto di utilizzo frazionato dei requisiti che hanno consentito il rilascio dell’attestazione SOA (per i servizi e le forniture, è ammesso che il concorrente possa avvalersi di più imprese ausiliarie per il medesimo requisito); il divieto, a pena di esclusione, per l’impresa ausiliaria, di partecipare in proprio alla stessa gara dell’impresa ausiliata; il divieto, a pena di esclusione, che della stessa impresa ausiliaria si avvalga più di un concorrente in relazione a ciascuna gara, salvo il caso che, per requisiti tecnici connessi con il possesso di particolari attrezzature possedute da un ristrettissimo ambito di imprese operanti sul mercato, il bando preveda che si possa prestare l’avvalimento nei confronti di più di un concorrente, sino ad un massimo indicato nel bando stesso, 7 www.ildirittoamministrativo.it impegnandosi a fornire la particolare attrezzatura tecnica, alle medesime condizioni, all’aggiudicatario. In ordine all’ambito oggettivo di applicazione dell’istituto dell’avvalimento, si noti che esso può riguardare solo i requisiti tecnici e quelli economici non anche quelli generali di cui all’articolo 38 del Codice dei Contratti pubblici. Questi, attenendo alla situazione personale del soggetto, alla sua affidabilità morale e professionale, non sono suscettibili di alcuna forma di sostituzione, né per essi è possibile ricorrere all’avvalimento. L’articolo 49 del Codice, infatti, prescrive che sia l’impresa ausiliaria sia quella ausiliata ne siano provviste direttamente, di conseguenza i requisiti morali di cui all’articolo 38 del Codice non possono essere oggetto di avvalimento. I requisiti speciali, invece, fanno riferimento alle caratteristiche dell’operatore economico considerato non nella sua persona, ma sotto il profilo dell’attività espletata e della sua organizzazione. A quest’ultima categoria appartengono i requisiti di capacità economico-finanziaria ed i requisiti di capacità tecnicoorganizzativa che, di regola, possono essere oggetto di avvalimento da parte dell’impresa che ne è sprovvista, questo perché, sempre nell’ottica comunitaria, si tratta di acquisire risorse e mezzi e non situazioni meramente soggettive. Orbene, nella pronuncia in esame il Collegio si sofferma in ordine alla possibilità o meno per le imprese partecipanti alla gara di avvalersi, ai sensi dell’art. 49 del D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163 e successive modifiche, di un’impresa extracomunitaria non appartenente ad alcuno dei Paesi di cui all’art. 47, comma 1, del medesimo D.L.vo 163 del 2006 come modificato modificata dall’art. 1, comma 1, lettera l), 5numero 1, del D.L.vo 11 settembre 2008 n. 152. L’articolo 47, in particolare, dispone: “Agli operatori economici stabiliti negli altri Stati aderenti all'Unione europea, nonche' a quelle stabilite nei Paesi firmatari dell'accordo sugli appalti pubblici che figura nell'allegato 4 dell'accordo che istituisce l'Organizzazione mondiale del commercio, o in Paesi che, in base ad altre norme di diritto internazionale, o in base ad accordi bilaterali siglati con l'Unione europea o con l'Italia che consentano la partecipazione ad appalti pubblici a condizioni di reciprocita', la 8 www.ildirittoamministrativo.it qualificazione e' consentita alle medesime condizioni richieste alle imprese italiane”. Orbene il divieto previsto dall’articolo 47 su riportato, precisa il Collegio, deve ritenersi esteso non soltanto alle ipotesi di partecipazione diretta dell’impresa extracomunitaria ma anche alle ipotesi di partecipazione indiretta che possono, per l’appunto, realizzarsi proprio con il ricorso all’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 49 del D.L.vo 163 del 2006 e successive modifiche. Ciò per due ragioni, precisa il Collegio: anzitutto, perché la ratio del divieto previsto dall’articolo 47 è quella di assicurare la parità sostanziale di trattamento tra i concorrenti nei procedimenti ad evidenza pubblica, in modo da evitare l’ingresso nei procedimenti medesimi di imprese i cui costi di gestione ambientale, operativi e tecnici sono o possono essere imparagonabili a quelli delle imprese comunitarie. Inoltre, ha continuato il Collegio, anche l’impresa ausiliaria deve provare il possesso dei requisiti previsti dall’articolo 38 del Codice dei Contratti pubblici in quanto la stessa, dovendo garantire alla stazione appaltante di mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse di cui questa è carente, assume nei confronti della stazione appaltante un’obbligazione accessoria dipendente. Sicchè, il suo intervento si risolve, ion definitiva, in una partecipazione effettiva alla gara che, in mancanza delle condizioni previste dall’articolo 47 del Codice dei Contratti pubblici, va ritenuta illegittima. Spiega, infatti, il Collegio: “…nel contesto dell’istituto dell’avvalimento l’impresa ausiliaria non è semplicemente un soggetto terzo rispetto al contratto d’appalto, ma deve essa stessa impegnarsi non soltanto verso l’impresa ausiliata che concorre per l’aggiudicazione, ma anche verso l’amministrazione aggiudicatrice, a mettere a disposizione dell’ausiliata medesima le risorse di cui questa sia carente. L’ausiliaria, infatti, è tenuta a riprodurre il contenuto del contratto di avvalimento in una dichiarazione resa nei confronti della stazione appaltante. Ciò comporta che l’impresa ausiliaria diviene con ciò titolare passivo di un’obbligazione accessoria dipendente rispetto a quella principale assunta dall’impresa partecipante alla gara e che si perfeziona mediante l’aggiudicazione e la stipula a favore dell’impresa ausiliata, di cui segue le sorti, con la conseguenza che l’impresa ausiliaria 9 www.ildirittoamministrativo.it medesima risponderà a titolo di responsabilità contrattuale dell’inadempimento delle promesse fatte all’amministrazione. Non a caso, quindi, l’art. 49, comma 1, lett. b) del D.L.vo 163 del 2006 impone all’impresa ausiliaria di allegare una dichiarazione sottoscritta attestante il proprio possesso dei “requisiti generali di cui all’art.38” dello stesso D.L.vo.”. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 20 febbraio 2012, n. 904 Sui presupposti per l’adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti e sul soggetto legittimato passivo a resistere all’azione annullatoria e a proporre appello in caso di soccombenza in primo grado. Nell’ambito del diritto amministrativo la situazione di necessità legittima l’uso di particolari poteri da parte della Pubblica Amministrazione, che si estrinsecano nell’emanazione di due categorie di atti amministrativi: gli atti necessitati e le ordinanze di necessità e urgenza. In entrambi tali tipi di atti, lo stato di necessità costituisce il presupposto, espressamente previsto dalla legge, per emanare provvedimenti o tenere comportamenti “extra ordinem”, cioè ammessi dall’ordinamento giuridico solo a causa della presenza della situazione dichiarata eccezionale. Per tali motivi, la natura giuridica dello stato di necessità e le ragioni della sua efficacia legittimante sono molto dibattute in dottrina e in giurisprudenza. Le posizioni interpretative possono sostanzialmente ricondursi a tre orientamenti. Secondo una prima impostazione, la necessità costituisce una fonte del diritto, in quanto dotata dell’intrinseca forza di modificare l’ordinamento giuridico. In particolare, lo stato di necessità costituisce, come la consuetudine, una fonte fatto, cioè un accadimento oggettivo in grado di produrre norme giuridiche. A ciò si obietta che l’accostamento fra consuetudine e necessità è causa di confusione fra fonti di produzione e fonti sulla produzione: le prime determinano la nascita della norma giuridica; le seconde, invece, disciplinano il modo in cui le altre fonti (quelle di produzione) creano il diritto. Pertanto, mentre la consuetudine costituisce una fonte di produzione perché la reiterazione sistematica e il convincimento consolidato generano la norma da 10 www.ildirittoamministrativo.it rispettare, la necessità costituisce, invece, una fonte sulla produzione. Lo stato di necessità, infatti, non individua il comportamento dovuto dai consociati, ma piuttosto legittima l’autorità amministrativa ad attivarsi senza il vincolo della norme codificate. La giurisprudenza prevalente considera, dunque, lo stato di necessità una causa di legittimazione del comportamento della Pubblica Amministrazione, in grado di giustificare qualsiasi comportamento per farvi fronte, anche contrario alla legge. Questa tesi costituisce un retaggio della teoria dello “stato di polizia”, secondo cui il sovrano può esercitare tutti i poteri di cui dispone, per garantire il suo primario obiettivo: il benessere della collettività. A ciò si obietta che l’attuale Stato democratico non è uno Stato di polizia, bensì un ordinamento fondato sull’opposto principio di legalità, per cui gli organi costituzionali non hanno tutti i poteri che servono per garantire il benessere della collettività, ma solo quelli che la legge prevede come necessari per la tutela degli obiettivi da perseguire. Secondo una terza tesi, infine, la P.A. in ipotesi di emergenza assume poteri nuovi, che determinano la rottura dell’ordine legale o di quello costituzionale: la P.A., sul presupposto della necessità, emana provvedimenti che normalmente sarebbero illegittimi (si pensi al caso in cui la P.A. emette provvedimenti che non rientrano nella sua competenza o in assenza dei presupposti richiesti dalla legge). Pur avendo come presupposto comune la situazione di urgenza, gli atti necessitati e le ordinanze di necessità ed urgenza si distinguono per i seguenti aspetti. Gli atti necessitati sono provvedimenti tipici e nominati che, pur trovando occasione nello stato di necessità, non si distinguono dagli ordinari provvedimenti amministrativi. La legge, per essi, predetermina: i presupposti dell’emanazione (la situazione di urgenza); l’autorità emanante (sindaco o prefetto) e il contenuto che l’atto può assumere. Le ordinanze di necessità e urgenza, invece, sono atti contenutisticamente atipici che l’autorità amministrativa può assumere in particolari circostanze per soddisfare peculiari esigenze. La legge, quindi, affida alla discrezionalità della 11 www.ildirittoamministrativo.it P.A. la valutazione delle misure più opportune per fronteggiare la situazione concreta. Il legislatore, in tal caso, si limita a predeterminare: i presupposti dell’emanazione (la situazione di emergenza) e l’autorità emanante. L’articolo 54, 4° comma del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 dispone: “Il Sindaco, quale Ufficiale di Governo, adotta con atto motivato, provvedimenti anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica o la sicurezza urbana”. Detta norma è stata oggetto di particolare attenzione da parte della giurisprudenza amministrativa sotto il profilo dell’effettivo ambito di applicazione della stessa e dell’ampiezza dei poteri spettanti al Sindaco, nonché dell’individuazione del soggetto legittimato passivamente a resistere nelle controversie di annullamento. Sotto il primo profilo, la norma attribuisce al sindaco il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti al ricorrere di tre condizioni: occorre che l’ordinanza stessa sia necesaria per fronteggiare una situazione eccezionale e imprevista che crea un pericolo attuale per l’incolumità pubblica e che non è possibile fronteggiare con i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico. Proprio al fine di circoscrivere entro precisi e chiari limiti il potere normativo sindacale, la Corte Costituzionale è intervenuta, nella sentenza 4 luglio 2011, n. 115 a dichiarare la norma sopra calendata costituzionalmente illegittima nella parte in cui comprende la locuzione "anche" prima delle parole "contingibili e urgenti". L’uso dell’avverbio “anche”, ha precisato la Corte, attribuiva ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, si presentavano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico. Detto potere discrezionale illimitato violava, da un lato, la riserva di legge relativa di cui all'art. 23 Cost., in quanto non prevedeva una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello dell'imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati; dall'altro, violava l'ulteriore riserva di legge relativa di cui all'art. 97 Cost., 12 www.ildirittoamministrativo.it poiché la pubblica amministrazione può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge; e violava, infine, anche l'art. 3, primo comma, Cost., giacché, in assenza di una valida base legislativa, gli stessi comportamenti avrebbero potuto ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. In ordine alla seconda questione, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che le ordinanze sindacali sono imputabili al soggetto che le adotta quale Ufficiale di Governo, sicchè il ricorso proposto contro un’ordinanza sindacale va notificato al Sindaco presso la sede comunale e non presso l’Avvocatura dello Stato. Infatti, l’art. 1 del r.d. 1611/1933 attribuisce all’Avvocatura dello Stato la rappresentanza in giudizio delle “Amministrazioni dello Stato” e si riferisce alle amministrazioni statali in senso proprio, ovvero agli Uffici e agli organi facenti parte della struttura organica delle Amministrazioni statali; quando il Sindaco agisce quale Ufficiale di Governo, gli effetti degli atti da lui emanati costituiscono espressione della volontà statale, ma il Sindaco non diventa un organo dell’Amministrazione dello Stato; la notifica del ricorso presso la sede comunale si configura, altresì, come logica conseguenza delle caratteristiche del procedimento che conduce all’emanazione dell’ordinanza: questa è istruita, redatta e emessa dagli uffici comunali e ad essi compete anche valutare il comportamento da tenere nell’ipotesi di impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale. Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato ribadisce che: “le ordinanze contingibili e urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono, di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario. Infatti, le ordinanze in questione presuppongono una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge e ciò giustifica la deviazione dal principio di tipicità 13 www.ildirittoamministrativo.it degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di motivazione congrua e peculiare, la configurazione anche residuale, quasi di chiusura, delle ordinanze contingibili e urgenti”. Anche rispetto al secondo aspetto, il Consiglio di Stato, confermando l’orientamento consolidato, ha statuito che: “…quando il giudizio concerna la legittimità del provvedimento debba essere il Sindaco a resistere all’azione annullatoria e conseguentemente a proporre appello in caso di soccombenza in primo grado…”. Consiglio di Stato, SEZ. IV, sentenza 14 febbraio 2012, n. 734; Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 15 febbraio 2012, n. 766. Sul limite del divieto di accesso agli atti attinenti all’esercizio della funzione giurisdizionale e sul limite del divieto di accesso agli atti emessi nel corso di un procedimento tributario. Come noto, i limiti al diritto di accesso possono essere distinti in tassativi ed eventuali. Tra i limiti tassativi l’articolo 24 della l.n. 241/1990 ricomprende gli atti inerenti a procedimenti tributari. Per tale ipotesi occorre sottolineare che mentre originariamente l’Agenzia delle Entrate, ritenendo che si trattasse di un’ipotesi ricompresa dalla norma tra quelle di esclusione assoluta, negava l’accesso non solo nell’ipotesi in cui il procedimento di accertamento diretto all’emanazione della sanzione disciplinare era ancora in corso, ma anche in caso di procedimento definito, il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5144/2008 ha chiarito che sebbene l’articolo 24 l. 241/1990 ha collocato questa ipotesi tra i divieti che operano in modo assoluto, ciò non esclude che si debba dare una lettura costituzionalmente orientata della norma in questione, una lettura cioè che in forza dell’articolo 24 della Costituzione (che tutela il diritto di ogni cittadino ad agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni) consideri l’esclusione in essa prevista come valida soltanto per i procedimenti in corso: una volta che il procedimento (finalizzato all’adozione della sanzione o alla liquidazione dell’esatto importo del tributo ritenuto dovuto) si sia concluso, il 14 www.ildirittoamministrativo.it diritto di accedere agli atti di accertamento, riscossione e versamento riacquista la sua originaria espansione. Conferma l’orientamento in questione la seconda sentenza sopra calendata nella quale il Collegio osserva: “la sentenza è meritevole di conferma per la parte in cui ha affermato che il contribuente vanta un interesse concreto ed attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (in tal senso, l’art. 22, comma 1, lett. b) l. n. 241 del 1990). La giurisprudenza ha chiarito che il divieto di accesso agli atti del procedimento tributario, sancito dall'art. 24 l. 7 agosto 1990 n. 241, va inteso secondo una lettura costituzionalmente orientata, alla stregua della quale l'inaccessibilità agli atti in questione è temporalmente limitata alla sola fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento di adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo”. Altro notorio limite al diritto di accesso deriva dalla nozione stessa di “documento amministrativo”, dalla quale la giurisprudenza tende ad escludere le sentenze (peraltro pubbliche) e, più in generale, qualunque atto detenuto da un ufficio giudiziario. Sono di ostacolo sia la formulazione letterale dell’art. 22, che si riferisce ad “atti, anche interni, formati, dalla pubblica amministrazione” (non anche da un Tribunale nell’esercizio della sua attività giurisdizionale), che siano espressione di una “attività amministrativa”, sia la finalità della previsione che vuole garantire la imparzialità e la trasparenza della pubblica amministrazione. Altro ostacolo di ordine positivo è dato rinvenire nella dizione dell’art. 23 della legge n. 241/1990, che specifica i soggetti passivi dell’accesso, tra i quali non sono previsti gli organi giurisdizionali, che emettono atti con un regime definito (anche di pubblicità), che è completamente diverso da quello proprio degli atti amministrativi (da ultimo, T.a.r. Milano, 6 aprile 2011, n. 905). 15 www.ildirittoamministrativo.it La prima sentenza sopra indicata pone, tuttavia, pone un limite al divieto in questione: gli attienenti all’esercizio della funzione giurisdizionale sono accessibili se costituiscono atti che la P.A. ha valutato ai fini dell’emanazione di un successivo atto amministrativo. Nella specie, il Collegio ha consentito al ricorrente, recente proprietario di un bene espropriato, di accedere ai verbali e alle consulenze tecniche relativi al processo instauratosi tra il Comune ed i precedenti proprietari dell’immobile, atti utilizzati dal Comune al fine di fondare la pretesa di un conguaglio del prezzo di cessione dei medesimi. Ha, così, stabilito il Collegio: “ Costituisce principio consolidato quello per cui in capo ad una "parte processuale civile" non sussiste il diritto ad accedere ad una consulenza tecnica di ufficio espletata nel corso del medesimo giudizio innanzi al giudice civile, in quanto gli atti di un processo civile non rientrano, al pari di tutti gli atti giudiziari o processuali, tra quelli ostensibili (Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2004 n. 4471; 31 marzo 2008, n. 1363). Sono stati, di conseguenza, individuati i limiti della nozione di attività amministrativa nei cui confronti è esperibile il diritto di accesso a documenti che vi si ricolleghino, negando la proponibilità dell'actio ad exhibendum in relazione ad atti attinenti all'esercizio della funzione giurisdizionale o di altro potere dello Stato diverso da quello amministrativo. Tale principio va ponderato nel caso in cui, come nella specie, il contenuto degli atti in questione venga assunto a presupposto, in via esecutiva, di un successivo atto amministrativo (così, Consiglio Stato, sez. IV, 19 gennaio 2011 , n. 388) e ne chieda l’accesso un soggetto estraneo, destinatario del successivo atto, sul quale quindi esplichino effetti amministrativi i contenuti di quegli atti presupposti. Nella specie, essendo il punto controverso quello relativo all’accesso riguardante gli “atti, verbali e consulenze” (che hanno ridondato effetti sul calcolo di quanto pagato per l’acquisto) relativi a controversie svoltesi tra gli originari proprietari e l’Amministrazione espropriante, si tratta sì di attività giurisdizionale, ma oramai conclusa e dall’altro lato, si tratta di attività che, anche se a rigore fuoriesce 16 www.ildirittoamministrativo.it dall’ambito dell’attività amministrativa, è stata comunque assunta a presupposto di successiva attività amministrativa”. 17