Raggiungere. Qualcosa sul musicale di Nicola Rosti Occorre qui interrogare la possibilità concreta di affiancare ai comuni quanto necessari percorsi di formazione musicale uno sviluppo che chiami in causa l’interezza della soggettività del musicista; tutt’altro passibile, esso, di essere considerata già in sé sufficientemente matura da non necessitare di un percorso evolutivo; interezza fisica, anima e spirituale. Si sarà pronti a dire che questo riguarda una scelta individuale che non può mescolarsi direttamente alla “questione musicale”;almeno non direttamente, non se ne vede come. Oppure si dirà che tale spunto sia già stato dato dai così detti coach, e formatori di varia natura. Il più di queste proposte non mirano ad una ricerca interiore, ad un approfondimento dell’intimità dell’uomo nella sua relazione cosciente con lo spirituale, ma per lo più ad un potenziamento del già esistente; spesso questo coincide con uno sviluppo dell’Ego. Quello che qui invece si cerca di abbozzare è qualcosa che si reca nella direzione opposta, vale a dire quella di un formazione-educazionein grado di espandere i confini della sua percezione cosciente alle regioni inconsce dell’anima e a quelle dello spirituale, in quanto solo così, si ritiene, si può parlare oggi di formazione artistica, che è formazione dell’uomo prima che delle sua abilità materiali.Non di scuola occulta si sta parlando. Diremo dunque: dell’ordine di due scenari complementari e differenti: la scena inconscia e la scena spirituale, poiché essi convivono.C’è una musica “dal basso” e una musica dell’”alto”; una che preme dall’istintualità dell’anima senziente come ciò che emerge dal corpo pulsionale e ciò che discente come dono dalle regioni del soprasensibile. Esse devono trovare un accordo.Lo si tenga presente.Il pulsionale non è lo spirituale, finché questi non faccia corpo. Essi si accordano nella misura in cui il desiderio e l’anelito trovano la congruenza dei solo destini e si immettono nella corrente dell’esistenza terrena. Si rimanda così la parolaai grandi maestri dell’Occidente – perché è la via occidentale che qui vogliamo portare – come Freud, Jung, Hilmann, Lacan, Assagioli, Frankl, Gurdjeff, Matte Blanco, Bion, Lowen, e più di tuttiRudolf Steiner. Ora, cos’hanno da insegnarci questi maestri proprio in rapporto alla musica e al nostro sviluppo individuale come musicisti? E più ancora: in che modo possiamo integrare e far nostre tali vicende culturali se non all’interno di una cornice espressamente terapeutica? E’ di terapia qui ciò di cui si tratta? Siamo forse malati noi musicisti, e per partito preso? Di certo lo siamo, ma non diversamente dagli altri. Innanzi tutto, e senza pretese sistematiche, possiamo accennare a qualche risposta. Essa però è solo un segnavia, in quanto a nessun costo sarà possibile dettare un percorso preordinato, poiché è nello svolgersi di un percorso che esso si rischiara man mano, e mai prima.Ciò nonostante i pilastri ed in particolare le finalità di un percorso debbono essere prefigurati in modo chiaro, pena la dispersione. Da questi maestri, in particolare dai maestri della psicoanalisi, possiamo imparare ad ascoltareed intendere una parola che viene da un’altra scena. Essa chiama il soggetto che attende nella risposta del suo ascolto. Siamo parlati dalla parola dell’Altro, strutturata nel modo di un linguaggio che attende e si articola entro e con una parola che vuol dirsi piena e in quanto tale farsi riconoscere. Siamo mossi entro strati addensati di significanti, alcuni operanti nel nostro fantasma, agiti nei nostri atti, che fanno corpo con la parola. Non possiamo sganciarcene in quanto abbiamo aderito al “pensiero positivo”. Altrimenti, diversamente parlando, siamo auto-riferiti, sganciati dalla dialettica della parola. Siamo autistici e folli, finché crediamo di essere noi, nel nostro io-Ego gli autori della parola. Lacan parla di questa parola svuotata, attratta da un rapporto speculare di tipo immaginario, fatto di duplicità d’immagine, con altri, rispetto ai quali, odiando, tentiamo un superamento e un’identificazione. Quanto questo ha a che fare con la musica! Quanto quest’aspirazione immaginaria persiste, insistendo, nel suo costituire il soggetto nel suo contorno unitario! Sembra reggere gli urti più possenti senza mai affacciarsi per interrogare. Niente dell’Altra scenadunque. Nulla che si oda dietro.Questo ascolto è possibile, anzi forse lo è maggiormente proprio lì dove la parola è ancora suono-strutturata. Le sue articolazioni sono poste entro le cinque dimensioni di melodia, armonia, ritmo, silenzio, suono-timbro.I suoi codici quelli del linguaggio e le sue produzioni e le sue categorie di giudizio quelle dell’estetica, Rosmini su tutti.Esse si articolano, e noi qui diremo, poiché qualcun altro risponde nei registri in cui essa è agita e poiché la sua relazione di parola-suono è quella del discorso analitico. Poiché le idee musicali– frasi, cellule, progressioni, idee ritmiche… – giungono a noi giàstrutturate, sorgono come atto di parola piena dall’inconscio e si rivolgono all’altro, poiché esso ne faccia senso nell’atto ermeneutico della sua ricezione.Ma in quale posizione soggettiva è questo altro del dialogo musicale? Asse simbolico e parola piena come modi dell’ascolto dunque. Ascolto che ha dell’analitico senz’altro poiché ascolta dietro, ascolta Oltre, cerca l’enunciato e scavalca ilparl-essere. Mai come nella musica la parola vuota reca un urto interno al quale non è possibile dare risposta. Vuota nella misura in cui non si erge, almeno, dall’inconscio, lì dove il soggetto per apprendere tale visione necessita di un guardare alla scena aperta dell’Essere. Esso si apre, accetta, si dirada. E’ nello squarcio abitante che si apre innanzi che il soggetto scorge il luogo e il modo del suo dire musicale, già detto in sé, poiché il luogo del sorgere di questa parola non è lì ma nello spirituale. Esso si incarna nella soggettività e da essa riemerge. In tale riemergere la parola spirituale si è incarnata e si è articolata con la soggettività. Occorre fronteggiare il fatto che entro tale soggettività si è impresso il nucleo spirituale che reca la necessità interna del discorso musicale, e che in quanto necessità permane entro tutti i livelli di enunciato successivi.Questo tener fermo il nucleo essenziale, la composizione molecolare del musicale, è lo sforzo che impegna la struttura conoscitiva del soggetto, il quale, mentre crea, in pari conosce. Il suo creare è conoscere, poiché dice ciò che fenomenologicamente e logicamente attinge e struttura, e conosce creando poiché nel suo movimento di artista si immerge nello stupore del vedere interno e attinge ermeneuticamente nuovi significati e nuove vie. Da esse ritraccia la via a quella necessità interna che è il vero del discorso, il suo nucleo, l’articolazione primaria. Possiamo dunque metterci all’ascolto della necessità con la quale la musica sorge entro il musicista se sappiamo raggiungere il sorgere dell’atto dal quale ed entro il quale, dalla comunione di discorsi in essere e inconsci in relazione parlante, qualcosa si da all’avvento del suono, nella forma del musicale.Non in un atto di mistica possessione divina, ma in un atto conoscitivo, che vedremo, sale oltre la Soglia.Possiamo per esempio porci in relazione a una melodia o a uno sfondo armonico, e raggiungere a quel modo di ascolto che permette di udire il costituirsi di melodie e fraseggi, che non hanno alcuna intenzione di essere mutati in altro. Noi dobbiamo esprimerli, in qualità di esecutori. Creare è attendere l’atto del sorgere, atto nostro, ma non fino in fondo, poiché evade dal confine della nostra singola soggettività. Esso si da come presentimento dell’avvento di un “qualcosa” rispetto a cui noi cerchiamo. Ci consegniamo all’intellettualismo, saturante, ossessivo, altrimenti. Che non lascia faglie abitanti. Noi non abitiamo più. L’Altro non abita. Dunque un primo passo. Ancora. Jung e l’archetipico. Qui è la consapevolezza del creare tout court a essere violata dal suo ruolo attivo, ancora una volta. Si leggano i seminari sullo Zarathustra e si faccia attenzione (attenzione dico!) alla questione del Vecchio. L’identificazione diretta al manas creatore dissolve l’Io. Essere-artista dunque quale pericolo massimo, esposizione massima a un’inflazione archetipica dell’ordine del Creatore, che conduce alla dissolvenza progressiva dell’esserci.“Io sono il creatore delle mie opere”, quale hybris faustiana!Qualcosa-che-crea-in noi porta invece un’altra traccia, un altro respiro. Vivibile. Storicizzabile nel soggetto. Il pericolo dell’inflazione in colui che fa opera (Opera?) è sempre in agguato. Lucifero qui domina la scena del creare e sommerge l’Io. La sua etica non tiene al peso della creazione-autogenerante. Egli èmanas,entheos, transumano. Ma deve saper ritornare all’usuale.Facile riconoscerlo il creatore, inflazionato fino all’osso da una struttura che lo deborda. E poi Anima. Ancora Jung e Hilmann. Forse insieme. Lo strato della parola inconscia è un’emergenza ancora subordinata, secondaria, allo sfondo originario, lo sfondoborderline, dell’umano. Lì, egli è un argonauta, lacerato e diviso, in cerca.Si cambia qui il registro inconscio in cui le cose accadono. Non più il linguaggio fa scena, ma la potenza numinosa, emotiva, dell’Anima e le sue molteplici figurazioni.Anima, nelle sue tante forme descritte da Neumann, si presenta in Immagine. Essa ha la travolgenza emotiva che solo dopo si struttura in fonemi musicali. Occorre fermezza per non esserne travolti, per ospitare il Femminile che consegna l’Eros e vuole che sia fatta Opera rispetto a un contenuto numinoso, intoccabile in sé.Non essa è la musica, ciò che abbiamo udito in suoni. Essa è la forza emotiva che dilaga entro la struttura simbolica. Qui il rischio non è la parola vuota ma la psicosi. Siamo divisi qui fra conscio e inconscio e per di più fra registri differenti d’inconscio. Già Hegel ci ha insegnato la violenza destrutturante del raggiungere ilSé, dell’annullamento nel negativo. Perché si possa abitare, stabilizzare forse, occorre realizzare un processo. Fare Anima è il compito che viene da Hillman. Le forze planetarie, metalli, divenute archetipi. L’isteria maschile, Puer, sempre nello slancio divino, affetto dal troppo sentire, deve saper contenere la parola e il numinoso, senza rompere il vaso; perciò deve fare Anima. Utero appunto. La cicatrice e la ferita ci ricorda Hilmann, occorrono entrambe, poiché il vecchio si ricordi dei suo slanci e il giovane si ricordi del limite.Ulisse, chi ti ha riconosciuto per primo? Nel tuo essere di ritorno, come pastore, non come Re. Contenere per poteroperare all’interno, per coagulare e solvere all’opportuno. Solo dopo, possiamo osservare come l’operato, ciò che non è divenuto vitreo, emerge e si struttura come parola musicale per fare opera. Poiché un’artista, come un filosofo, ha in mente una sola opera e sempre quella cerca di realizzare.Solo essa insiste per esserci. Acab, la sua ossessione, malinconica, insiste, come un’idea fissa che vuole raggiungere, o essere raggiunta. Lì appunto, nel contenitore, come detto, possiamo udire, emergendo dallo sfondo psicotico della nostra umanità.Inabitabile, lo ricordino gli amanti dell’arrischiarela-follia. Il sopra, emerge da sotto. Il divino s’incista nell’anima individuale. E la materia, il materiale dell’Opera è la Cosa. Essa pulsa. Se non c’è Cosa-musicale non c’è musicista! Al massimo esecutore. Lo capiscano i buffoni dell’Arte. Ma non è tutto. Perché la cifra del senso di ciò che creiamo, la sua moralità e per di più la realtà ideale di cui abbiamo parlato, necessita di un recupero autentico della dimensione dell’Idea. Contemplazione delsoprasoglia, della coscienza angelicata che permette la visione dell’insieme del nostro discorso e della sua direzione etica e ogni volta inserire e far ridiscendere l’Io (non l’ego) in questa duplice visione. Etica? La musica vuol essere etica? Etica in quanto essa permane entro sé quale sua idea fondativa, vuole sé, il suo divenire interno e non si finalizza ad altro. Rinuncia alla potenza del suo accrescersi illimitato. Non cede alla Hybris dell’abbaglio onnipotente. Non Prometeo ma Dioniso-Apollo. Riduce e crea il limite in cui la sua idea è tutto ciò che essa vuole. Non fa denaro! Essa non capitalizza, e dunque non si altera nei suoi modi di darsi all’esserci. Diventa destino in sé. Non vuole altro che bellezza. Questa è la sua etica. Sappiamo osservare fin qui? Occorre Steiner per insegnarci la via che apre al pensare vivente, e prima Hegel con Platone. Una via nuova per l’era moderna.Quasi inascoltata.La si sfregia con l’”Occulto”. Come se il reale dovesse darsi all’inizio. Con l’antroposofia possiamo vedere l’insieme. Possiamo tracciare una via moderna allo spirituale, secondo i tempi dell’anima cosciente. Non più rivelazione, misticismo, annebbiamento dell’io, ma la penetrazione e la comprensione scientifica delle varie regioni dello spirituale. Poiché è il registro dello spirituale il riferimento oggettivo di ciò di cui sempre si tratta, anche nel caso dell’Arte. Sono esseri spirituali, che si muovono, hanno sostanza e relazioni, sono forme Archetipiche ciò con cui operiamo realmente e che si sacrificano per mostrarsi a seconda del registro materiale o psichico in cui noi li andiamo ad incontrare.Il suono, il fonema non è ciò che udiamo con i sensi.E se prima si era disposti ad ascoltare ora lo si è molto meno. Si teme l’occulto, la magia, quando la magia e l’occulto non rientrano per nulla in questo, quando essisono in realtà il modo mistificante di negazione dello spirituale. Si nega perché non si è fatto abbastanza per conosce. L’Arte non è il capriccio di un nevrotico, l’invenzione di un “creativo”, ma il ripetersi e il risuonare in noi di vicende Cosmiche che possono essere rinvenute con un atto di progressiva veggenza cosciente, a cominciare da Goethe.Occorre poi che esse si compongano con i contenuti della nostra soggettività, per altre vie. Vie appunto. La Quarta. Ennegramma e stili di manifestazione egoica. Anche questi un male se lasciati all’ipostasi della maschera. Entriamo nell’ego per difesa, perdiamo parti di essenza, per transitare nello stabile, nel formato.Facchinelli, ancora sulla spiaggia. Uscire non è uno sradicamento ma un circuito di esperienza dell’Ego che alla fine, saturo cede e si fa essenza, la vede ed essa permane come nuovo Io. Ha fatto l’esperienza dell’Altro, dell’irruzione di altre strutture difensive, altri sguardi, altri movimenti energetici.Accetta di transitare nella derelizzazione. Dunque uno strumento prezioso, per partire dall’emergente.Per osservare la struttura cristallizzata della personalità e del corpo.Caratteri e pieghe si alternano e così il soggetto si sperimenta in modi di essere differenti, si lacera la tenuta rigida, entra la malinconia della perdita. Con lei il divino della nostalgia.Del Sé? Un’ulteriore esperienza dunque che testimonia della possibilità di immedesimarsi nell’altro modo di essere nella musica. Di un altro appunto. Sì, perché l’atto finale è caratterizzato. Noi lo asserviamo da fuori e possiamo destrutturarlo, in ogni particolare. Una musica schizoide, isteroide, paranoide potremmo dire…come modo di darsi non di essere prima, di entrare nelle categorie morte, ma sempre valide purché si sappia che si è nel descrittivo. Mettiamo in scena ciò che siamo, questo è il punto. E possiamo cambiare lentamente, assumere almeno altri sguardi. Il teatro ci riguarda qui o qualcosa di simile. Possiamo imitare l’altro, in un monodramma in cui assumiamo a partire dall’Io le strutture, i modi, i suoni dell’altro. Gli attaccamenti, le perdite subite, tutto lì nel discorso musicale, ben in vista. Per capirlo, per capire che siamo anche l’altro.Un’altra struttura, ascoltando cosa di diverso emerge in questa nuova auto-struttura, nuovi modelli, appresi postumi, imitati per lasciar filtrare in un filtro diverso. Prima di tutto il corpo. Qui invece Lowen e prima Reich ci guidano verso l’energetico che come corpo vissuto forma la struttura. Essa ci avvolge quale espressione di un’interiorità che in essa si veicola. Non possiamo negarlo.L’inconscio è anche il corpo, in quanto è volontà. Esso è inscritto nel corpo, leggibile dal corpo. Corpo vitale, corpodepresso, devastato, resistente, abbandonato, espressivo, censurato, tagliato, cedevole. Non modi del corpo ma del nostro esserci, prima di tutto. E allora partire dal corpo per un’educazione musicale complessiva. Che voglia indicare una via quantomeno, fra le possibili. Accettare la limitazione di ogni modello e prendere fin dove esso conduce e poi domandare ancora. Il modo dell’espressione della parola è il corpo. Il significante è nella sua carne, lacerata. Non possiamo prescinderne, per un’estetica del silenzio. Vogliamo parlarne. Educare il corpo alla sua struttura energetica, regolarla dove si può, ampliare il suo registro, sbloccare, mettere in grounding, fare urlare. Poi riprendere la parola musicale e osservare quanto spazio si è creato a partire dal corpo. Spazio in cui entra sostanza.Diverso da prima. E’ la trasmissione isomorfa di un’idea, del numinoso, pieno, ciò che cerchiamo. La formazione musicale senza questo è epilessia del corpo. Siamo stati tutti epilettici, almeno una volta. Epilessia in quanto a guidare la parola è il corpo-solo. Sganciato dall’idea che lo abita, dalle sue strutture; non più malattia sacradunque. Mettiamo così insieme parti di esperienza interiore. Tracce. Ma non siamo soli, siamo con gli altri. Otteniamo qui l’esperienza magistrale della musica. Il suo “esser-con”. La sua origine, solitaria benché universale, entra in relazione con altri, il gruppo. Polis musicale. Allora Bioncon i suoi assunti e il gruppo di lavoro, l’unico che conservi l’etica del discorso condiviso. Matte Blanco a farci salire nella destrutturazione del senso attraverso il dissolversi della categorie. Come ricordo del Logos che solo dopo è stato detto, almeno prima di Aristotele.Occorre qui riprendere il lato Culto dell’atto sociale della musica. Non ritornare a Orfeo, poiché da esso muoviamo. Si sarà inteso oramai. Allacciare le singole individualità, realizzate fino all’acme della loro umanità, sovra-individuale, spirituale, in un accordo che in quanto spirituale non è mai sconnesso, non crea disarmonia finché è abitato dall’Io. L’ascolto di cui sopra è ora riservato all’insieme degli attori. Nella mia ispirazione essi improvvisano. Non il darsi immediato, ma lettura, ascoltata come abbiamo visto, dell’idea che prima o poi sorge e che ha del numinoso, e che è passibile di struttura, di carico ermeneutico, sopra la quale cominciano i discorsi. In quanto prima è stato fatto un lungo, lunghissimo lavoro. Non gettiti improvvisi, espulsionibeta, identificazioni proiettive che intossicano. Stati alfa condivisi. Allora il gruppo si fa elemento unico, non in assunto di base accoppiamento, ma nella piena realizzazione di un discorso sociale, a più mani. Necessario in ogni momento, sempre presente agli autori, mai in trance, ma nel manas e nella coscienza ispirativa, se possono. Dialogano, e il loro ascolto è teso e presente a realizzarel’Oltre, a ciò che viene, immediatamente strutturato nel musicale.E questo viene al corpo e al suono. Questo Oltre è lì in quanto è l’abitare dello spirituale in un atto di piena libertà. Egli parla con noi come una preghiera che domanda mentre noi domandiamo. ©Nicola Rosti. 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