Protagora - tommaso ciccarone

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PROTAGORA e il RELATIVISMO
Uno dei suoi massimi esponenti, PROTAGORA di CLAZOMENE,
vissuto nel V sec., sottolineava – come si evince dai frammento di un
suo scritto Sulla Verità, che la verità non sta “fuori” dell’uomo, nella
natura oggettiva o in qualche ARCHE’ materiale, bensì nell’uomo
stesso:
“L’Uomo è la misura di tutte le cose che sono in quanto sono e delle cose
che non sono in quanto non sono”.
Questa affermazione esprime bene la caratteristica del pensiero
sofistico: la verità si fonda sulle opinioni soggettive (l’opinione, in
greco, si dice “doxa”), ed è quindi relativa. Il metro o criterio di
conoscenza è l’opinione umana soggettiva.
Non si deve parlare di una Verità assoluta (l’ALETHEIA dei primi
filosofi, che significa appunto verità “disvelata” o “rivelata”, in un
senso quindi “Sacro” e “superiore”, “Dogmatico”, “Assoluto”,
indipendente dai singoli individui e dalle singole opinioni), ma di
tante verità quanti sono gli uomini e le opinioni su determinati
argomenti.
Alla luce di ciò il concetto di Verità non è più compatibile con
caratteristiche concettuali quali Monismo, Assolutismo, Episteme,
bensì è compatibile col termine “Relativismo”.
PROTAGORA riportava l’esempio calzante della conoscenza
sensibile. Un cibo può essere dolce per Tizio, ma può risultare amaro
per Caio: in questo senso, per esempio, la verità è relativa e non è
unica. Continuando, Protagora diceva anche che di un argomento
esistono come minimo due opinioni uguali e contrarie (cioè di ogni
cosa si può dire tutto e il contrario di tutto): risulterà “vera” quella
che sarà esposta in maniera più “convincente” ed “efficace” e a
prevalere sarà il punto di vista “meno debole”, nel senso che la verità
“forte” di una conoscenza assoluta e oggettiva non esiste.
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Questo significa che l’insegnamento della Sofistica poggia su un
altro paio di concetto di fondo: l’Utilità e la Convenienza della
conoscenza per l’uomo, nella vita in mezzo agli altri uomini.
La conoscenza non rispecchia una verità ferma, immutabile,
necessaria e universale come sarà per Platone, ma rispecchia, nella
concezione sofistica, la mutevolezza delle opinioni contingenti
Il termine “contingente” in filosofia significa “particolare”, “aleatorio” o
“possibile” – può essere ma può anche non essere -, cioè contrario a “necessario”
o a ciò che non può non essere.
Ovvero: la conoscenza deve essere intesa come una abilità tecnica o
arte di ottenere ragione; arte di essere convincenti; l’arte della
persuasione, insomma. Bisogna infatti dire che nell’ambito della
Sofistica si distingue in particolare l’Eristica, che è un sapere che
poggia sulla convinzione che possono essere vere anche le
affermazioni assurde o contrarie all’evidenza purché convincenti
dal punto di vista dell’argomentazione.
Questo nuovo tipo di sapere, che i sofisti insegnavano dietro forme
di compenso, era la RETORICA attraverso cui l’uomo può essere in
grado di ottenere consenso dagli altri uomini.
Naturalmente la sofistica rispecchia una esigenza dei tempi: il V
secolo è il secolo della trasformazione politica; è il secolo del
fermento e dei dibattiti intorno all’argomento politico che soppianta
l’argomento naturalistico. La cultura politica di Atene si è spogliata
per la prima volta dei vincoli della cultura tradizionale, improntata
alla tirannia e al dogmatismo mitico-religioso (ricordatevi del
significato etimologico di “Mythos” che deriva dal verbo “meyein”
che significa “tenere la bocca chiusa e le orecchie aperte”, in una
dimensione di ascolto e passività): in questo scenario di trapasso e
trasformazione, è evidente che l’interesse decisivo e primario della
filosofia sofistica sia la collocazione e il destino storico dell’uomo
stesso nel mondo e nella società greca; una società che si affermava
come protagonista del Mediterraneo.
La verità, insomma, è procedurale: essa è una procedura umana e
calata negli interessi, utilità, convenienze e convenzioni degli
uomini
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L’uomo greco usciva dai confini ristretti dell’Olimpo e della vecchia
visione teocratica e agricolo-pastorale, per aprirsi in un universo
antropocentrico e dinamico, per cui il sapere e la verità sono dei
valori non divini (o mitici), non astratti e assoluti (la Physis e le
Archè naturali dei primi filosofi), ma sono umane e in continua
trasformazione.
E’ evidente, d’altro canto, che la Cultura filosofica non si fondava
più sul disinteresse tipico delle prime scuole, ma invece si fondava
sull’urgenza e sull’interesse di formare le nuove generazioni ai
valori della Politica, attraverso l’insegnamento della retorica,
dell’arte del “ben parlare” e del manipolare/soggiogare l’attenzione
e il consenso degli altri uomini in riferimento a determinate opinioni
che si imponevano come verità da accettare attraverso il consenso e
il convincimento della retorica.
Come si vedrà successivamente, SOCRATE si distingue da questa
concezione di cultura o sapere “mercificato” che si prostituisce per
soldi e vende un sapere non autenticamente filosofico (amore per la
Verità), ma “sofistico”, nell’accezione dispregiativa del termine
(cioè: vuoto, fumoso, fondato sulle belle parole e sui discorsi “ad
effetto”, incantesimi verbali che attirano il consenso solo per le
apparenze ma non per i contenuti e la sostanza dei discorsi stessi).
I SOFISTI sono i primi esponenti tipici di questa cultura di
trasformazione, preoccupati di alimentare e trasmettere (attraverso
l’insegnamento pagato) una conoscenza che non fosse
semplicemente contemplativa, ma fosse aderente alla vita e agli
interessi propri dell’uomo.
La cultura, cioè, si apriva ad esigenze “professionali”, dunque
esprimeva un sapere “tecnico”.
Ed è propriamente questo che comincia ad essere il senso del
termine greco (fondamentale in SOCRATE e PLATONE) di
“Paideia”.
“Paideia” alla lettera significa Educazione – “formazione” all’insegna di nuovi
valori; formazione della predisposizione universale dell’uomo ovvero l’uso
della ragione ai fini dell’emancipazione individuale e collettiva:
“predisposizione” è una parola che traduce grossomodo il termine greco
“Aretè” = “virtù” = eccellenza morale a sua volta associabile – come sarà chiaro
nel pensiero socratico e paltonico – al concetto di Kalocagatia = “Bellezza morale”
(da kalos, “bello”; Agaton, “bene, buono”).
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Sulla posizione “illuministica” di Protagora, Platone nel dialogo omonimo, pur
in una chiave negativa per l’intera sofistica, riporta il mito di Prometeo da cui
possiamo trarre diversi spunti per specificare il principio per cui la verità non
scade in un puro e “tecnicistica” relativismo, ma è una procedura intersoggettiva,
nell’orizzonte di costruzione politica di una virtù superiore: la coscienza del
bene collettivo.
Prometeo e Epimeteo sono gli inviati di Zeus e hanno il compito di destinare
alle specie animali le loro caratteristiche essenziali. Epimeteo, distratto e
approssimativo, dopo aver dato a ciascun animale la sua specifica caratteristica
istintuale (all’orso la pelliccia, al leone gli artigli, etc…) si dimentica di occuparsi
dell’uomo che, in tal modo, rimane con una natura sprovvista, nuda,
indeterminata.
Prometeo – il cui nome (Pro – meteus) significa “colui che vede oltre” – decide
di trasgredire l’ordine divino e ruba dall’Olimpo il fuoco, simbolo di tecnica,
civiltà, intelligenza con cui l’uomo può sopperire alla sua indeterminatezza e
costitutiva precarietà. Il fuoco, tuttavia, non è il solo regalo che Prometeo
“destina” all’uomo, ma egli decide di conferire la Giustizia senza la quale
l’uomo da solo perirebbe; gli dona insomma il senso della società e
dell’aggregazione comunitaria.
Al di là degli elementi metaforici e favolistici, bisogna intendere il Mito come la
grande metafora della natura umana e del suo potere. Il “fuoco” è la tecnica o
l’insieme delle tecniche al plurale che, sicuramente, consentono di surrogare il
deficit di partenza con cui gli uomini vengono al mondo gettati nel loro
ambiente e in mezzo ai pericoli e limiti di ogni specie. Ma le tecniche da sole
sono “neutre”, nel senso che potenzialmente esse possono sortire effetti positivi
come anche effetti nefasti se non mortali: le tecniche devono essere sostenute da
una visione intelligente degli scopi con cui le si utilizza; devono essere
illuminate, cioè, da una progettualità intelligente e “politica” in senso lato.
La Politica è proprio il senso di Giustizia (la Dike) che Prometeo ha “allegato in
omaggio” insieme al fuoco: ciò per dire che è la Politica, ovvero la coscienza del
bene superiore della collettività e per il mantenimento della collettività umana,
che si deve imporre come la Tecnica delle tecniche nella sua valenza universale
(intersoggettiva, in Protagora) e progettuale. A pensarci bene il Mito del
Prometeo esprime la natura progettuale dell’intelligenza tecnica dell’uomo che
nasce dalla sua costitutiva indeterminatezza e apertura alla mortalità “tragica”
(Pro-meteus, colui che vede oltre, è colui che “prov-vede”; pro-getta appunto). La
natura umana è “tragica” perché è prometeica, ossia progettuale entro i limiti,
e nella coscienza dei limiti, della sua mortalità: è questo il senso, per esempio,
alla seconda parte finale del Mito, quando si trova Prometeo punito, per il suo
gesto di rivolta contro gli Dei, e incatenato sulle montagne del Caucaso,
destinato a vedersi divorare perennemente da un aquila il proprio fegato, come
monito del suo destino mortale e perdita dei suoi privilegi divini come
l’immortalità, la perfezione e l’immunità da ogni male e dolore.
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Questo ci porta a considerare il nesso con l’importanza cruciale che il teatro
tragico investe nella cultura attica ateniese del V sec. Non solo. Ci porta a
comprendere l’affermazione di Protagora dell’uomo-misura per lo meno in un
duplice aspetto: l’uno immediato e semplicemente intuitivo; l’altro mediato e
più vicino al senso filosofico della fondazione della verità.
In un primo senso, infatti, che l’uomo sia misura di tutte le cose, di quelle che sono
in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono, significa che l’uomo è il
singolo individuo biologico che si rapporta alla realtà (le cose) esclusivamente
con i sensi e le percezioni, in un circuito di pura soggettività e relativismo
assoluto: ciò che vedo, essendone io il criterio percettivo, esiste per me che sono
il baricentro cognitivo, esperienziale di tutto.
In un secondo senso, più mediato e elevato, l’uomo è l’uomo in generale,
l’umanità, che si rapporta alla realtà intesa come realtà sociale in mezzo ad altri
uomini: in tal senso la misura deve essere costruita comunitariamente o messa
in relazione intersoggettivamente perché l’umanità possa esistere e permanere
nel tempo.
Quindi, in questo senso più “stretto”, il criterio della verità non è tanto l’uomo
nella sua astratta e isolata individualità, ma è proprio la Verità intesa come
criterio procedurale (convenzionale) intersoggettivo.
Insomma: alla semplice considerazione naturalistica, alla physis, si affianca e si
impone l’esigenza di costruire una verità e un senso comunitario attraverso il
nomos, la legge, le convenzioni, il linguaggio, in una parola: la razionalità tecnica
senza la quale l’uomo sarebbe un fascio di impressioni soggettive e inchiodate
alla contingenza del momento presente (come l’istinto per gli altri animali). Il
senso di tutto questo è che la filosofia diventa formazione e proiezione in avanti,
nel futuro.
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