CAPITOLO
IRES
1. GENERALITÀ
I sistemi tributari dei paesi sviluppati sono caratterizzati dall’esistenza di
un’imposta specifica che colpisce i redditi afferenti alle persone giuridiche e,
in particolare, quelli prodotti dalle società di capitale.
La letteratura ha ampiamente discusso i fondamenti equitativi e gli effetti
economici di questa imposta.
Sul piano equitativo sono state proposte due linee interpretative. È stato soste­
nuto, da un lato, che le società di capitale godono di una capacità contributiva
autonoma rispetto a quella degli azionisti percettori degli utili distribuiti,
giustificandosi pertanto una specifica modalità d’imposizione.
Questa impostazione si è sempre scontrata con la difficoltà di individuare una
capacità contributiva al di fuori della sfera strettamente individuale.
In alternativa, e proprio per superare la difficoltà prima indicata, all’imposta
sul reddito delle società di capitale è stato attribuito un ruolo integrativo
dell’imposta personale soprattutto con riferimento alla porzione di utili so­
cietari non distribuita. Come vedremo, le possibili forme d’integrazione fra
imposta personale e imposta societaria sono perlomeno due.
Gli effetti economici dell’imposta sulle società possono essere valutati in
termini di neutralità dell’imposta stessa. L’imposta sulle società è neutrale
se, pur producendo gettito, non modifica le scelte dell’impresa relative alla
distribuzione degli utili, ai livelli d’investimento o alle modalità di finanzia­
mento rispetto ai comportamenti che le imprese seguirebbero in assenza
d’imposte.
Nella prima parte di questo capitolo descriviamo gli elementi essenziali
dell’Imposta sul Reddito delle Società (IRES) vigente in Italia. Nella seconda
parte definiamo le condizioni di neutralità di un’imposta societaria, per
concludere con un’analisi della tassazione dei gruppi attualmente vigente
in Italia.
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Capitolo 3
2. PRESUPPOSTO DELL’IMPOSTA
Presupposto dell’IRES è il possesso di redditi in denaro o in natura da parte
dei seguenti soggetti passivi:
• le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità
limitata, le società cooperative residenti nel territorio dello Stato;
• gli enti pubblici e privati diversi dalle società, che hanno per oggetto esclu­
sivo o principale l’esercizio di attività commerciali;
• gli enti pubblici e privati che non hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di attività commerciali;
• le società e gli enti di ogni tipo non residenti nel territorio dello Stato limi­
tatamente alla parte di reddito prodotta nel territorio dello Stato.
Il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali è considerato
reddito d’impresa qualunque sia la fonte dalla quale proviene (e qualunque
sia la categoria di reddito che viene a formare il reddito complessivo).
Il reddito d’impresa, derivante dall’esercizio di imprese commerciali, è de­
terminato applicando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico
le variazioni conseguenti all’applicazione della normativa fiscale1.
Il reddito complessivo degli enti non commerciali, che non hanno per og­
getto principale o esclusivo l’esercizio di attività commerciali, è formato dai
redditi fondiari, di capitale, di impresa e diversi, a esclusione di quelli esenti
dall’imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o a
imposta sostitutiva.
3. BASE IMPONIBILE
La base imponibile dell’IRES è definibile partendo da una rappresentazione
semplificata delle voci che costituiscono il conto economico di un’impresa.
Alla base imponibile si applica l’aliquota d’imposta.
Indicando con T e con t rispettivamente il gettito e l’aliquota possiamo scrivere:
T = t[R - L - M + IA - aIP - A + 0,05D ! DS ! DW]
dove:
• t rappresenta l’aliquota d’imposta pari al 27,5%.
• R rappresenta i ricavi.
I ricavi sono essenzialmente costituiti dai corrispettivi della cessione di beni
e della prestazione di servizi alla cui produzione o al cui scambio è diretta
l’attività dell’impresa. Rientrano fra i ricavi anche i corrispettivi delle cessioni
di azioni e obbligazioni che non costituiscono immobilizzazioni finanziarie
(costituite da investimenti durevoli in titoli e partecipazioni).
La perdita di un periodo d’imposta può essere portata in diminuzione dell’imposta
dovuta nei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto.
1
IRES
• L rappresenta le spese per prestazioni di lavoro dipendente, comprensive
di tutti gli oneri contributivi.
• M rappresenta tutti i costi variabili (per materie prime, semilavorati e pre­
stazioni di servizi) divenuti di competenza dell’impresa nel corso dell’esercizio.
• IA e IP rappresentano, rispettivamente, gli interessi attivi e passivi a carico
dell’impresa. Gli interessi attivi concorrono a formare il reddito per l’intero
ammontare maturato nell’esercizio. Gli interessi passivi sono deducibili fino
a concorrenza di quelli attivi. L’eventuale eccedenza degli interessi passivi
rispetto a quelli attivi è deducibile entro il 30% del reddito operativo lordo
(ROL) dell’esercizio. La quota del reddito operativo lordo non utilizzata può
essere portata ad incremento del reddito operativo lordo degli esercizi suc­
cessivi. Un esempio chiarisce il meccanismo di imitata deducibilità introdotto
nel nostro sistema tributario a partire dal 2009.
 ESEMPIO 1.
Valore della produzione
Costi della produzione
di cui: Ammortamenti
Canoni leasing
Interessi passivi
Interessi attivi
12.000
9.000
900
100
2.000
500
Calcolo del ROL: valore della produzione - costi della produzione + ammorta­
menti + canoni leasing = 12.000 - 9.000 + 900 + 100 = 4.000
Calcolo dell’ammontare massimo di interessi passivi deducibili: 30% ROL +
interessi attivi = 0,30 * 4.000 + 500 = 1.700
Confronto fra interessi passivi e ammontare massimo deducibile: 2.000 2 1.700
Interessi passivi indeducibili: 300
Nel nostro ordinamento il parametro a può dunque essere uguale o minore
dell’unità. In particolare:
a = 1 se IP 1 IA
a = 1 se IP 1 IA + 0,30 ROL
a 1 1 se IP 2 IA + 0,30 ROL
• A rappresenta gli ammortamenti.
L’ammortamento è il procedimento con il quale il costo di un bene strumentale
per l’attività d’impresa di durata pluriennale è ripartito fra i diversi esercizi
di utilizzo.
Il termine di riferimento per la definizione delle quote di ammortamento
è rappresentato dal costo d’acquisto del bene (altrimenti costo storico): la
somma delle quote di ammortamento, comunque distribuite nel tempo, non
può quindi eccedere il valore del bene al momento dell’acquisto.
La letteratura distingue tre tipi di ammortamento: ordinario, accelerato e
anticipato.
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Capitolo 3
L’ammortamento ordinario, nel suo importo massimo, risulta dall’applica­
zione di coefficienti stabiliti dall’amministrazione finanziaria al costo dei beni,
ridotti alla metà per il primo esercizio di utilizzo del bene. Questi coefficienti,
differenziati per categorie di beni e per settori di attività, dovrebbero riflettere
il logorio dei beni in un contesto di normale utilizzazione.
L’ammortamento accelerato è riconducibile ad un’utilizzazione dei beni su­
periore a quella normale. In questa ipotesi le quote di ammortamento portate
in deduzione dall’imponibile riflettono appunto il più intenso logorio dei
beni capitali.
L’ammortamento anticipato si ha quando, in un contesto di normale utilizza­
zione dei beni, le quote di ammortamento ordinario sono aumentate in una
misura massima stabilita dalla legge.
Nella legislazione italiana fino al 2008 le quote di ammortamento potevano
essere elevate fino a due volte nell’esercizio in cui i beni sono entrati in funzione
e nei due successivi. A partire da quell’anno, gli ammortamenti anticipati e
quelli accelerati sono stati aboliti, anche se è stata annunciata una revisione
dei coefficienti ordinari di ammortamento.
L’ammortamento anticipato è significativo dal punto di vista economico: si
risolve infatti in una diminuzione del carico fiscale sui profitti rispetto a quello
che si avrebbe con gli ammortamenti ordinari. Conviene illustrare questo
punto con un esempio.
 ESEMPIO 2. Sia dato un bene capitale di valore C e si ipotizzi un coefficiente
di ammortamento ordinario pari al 50%. Confrontiamo i risparmi di imposta nel
caso di ammortamento ordinario e nel caso di ammortamento anticipato.
Ammortamento ordinario. Il risparmio di imposta in valore attuale (dove r rap­
presenta il tasso di interesse) è dato dalla seguente espressione:
- T =- t
C
4
-t
C
1 2
p
-t f
2 1+r
4 1+r
1
C
Ammortamento anticipato. Il valore attuale del risparmio di imposta è ora
pari a:
- Tl =- t
C
2
-t
C
1
2 1+r
È facile verificare che:
;-Tl; 2 ;-T;
Con ammortamenti anticipati le deduzioni d’imposta sono utilizzabili per un
numero di esercizi inferiore a quello normalmente previsto. Questo comporta
una riduzione del carico fiscale complessivo, e quindi un aumento dei profitti
espressi in valore attuale.
• D rappresenta i dividendi.
Gli utili derivanti dalle partecipazioni in società ed enti soggetti all’IRES anche
residenti all’estero (paradisi fiscali esclusi) concorrono a formare il reddito d’im­
presa per il 5% del loro ammontare.
IRES
• DS rappresenta la variazione delle scorte.
La variazione delle rimanenze finali rispetto alle consistenze iniziali concorre alla
formazione del reddito d’impresa (se positiva lo aumenta e viceversa se negativa).
Delicati problemi di valutazione delle scorte si pongono quando i prezzi variano
nel corso del periodo di imposta.
 ESEMPIO 3. Si consideri un’impresa che nel primo esercizio acquisti materie
prime per un valore di 200 (con un prezzo unitario pari a 10 e per un volume di
20), sostenga costi di lavoro per 100 e ottenga ricavi per 300. Alla fine dell’esercizio
le scorte ammontano a 10 unità; se le scorte sono valutate al prezzo di acquisto,
la variazione delle rimanenze alla fine del primo esercizio è positiva e pari a 100.
La base imponibile dell’imposta sul reddito societario (P) è dunque 100.
La nostra impresa mantiene nel tempo la stessa configurazione produttiva, com­
preso il volume delle scorte (pari a 10 in quantità): l’impresa utilizza nel corso
dell’esercizio le scorte acquistate nel periodo precedente e nello stesso tempo le
ricostituisce allo stesso livello. Nella valutazione del reddito d’impresa e, quindi,
nella definizione della base imponibile dell’IRES, nessun problema si pone quan­
do i prezzi delle materie prime non variano. La componente negativa di reddito
connessa all’utilizzo delle scorte iniziali è compensata dalla ricostituzione delle
rimanenze al livello iniziale allo stesso costo unitario.
Supponiamo che il prezzo delle materie prime salga a 15: l’impresa sostiene nel
corso dell’esercizio un onere per l’acquisto di materie prime pari a 150. In que­
sta circostanza possiamo seguire due metodi di valutazione delle materie prime
utilizzate nel corso dell’esercizio.
In una prima ipotesi si può ritenere che l’impresa abbia utilizzato le materie
prime prima entrate nel suo magazzino (il cosiddetto metodo FIFO: first in first
out). I costi e i ricavi rimangono per ipotesi invariati; aumenta invece il valore
delle rimanenze finali che salgono a 150. Il profitto di impresa rimane invariato
a 100. Il maggiore esborso per l’acquisto di materie prime è compensato dalla
rivalutazione delle scorte.
In una seconda ipotesi si può supporre che le materie prime utilizzate siano
quelle acquistate nel corso dell’esercizio (il cosiddetto metodo LIFO: last in
first out). Il valore delle scorte finali coincide dunque con quello iniziale, con
la conseguenza che il profitto si riduce a 50; si riduce anche l’onere tributario a
carico dell’impresa.
In periodi di instabilità dei prezzi, le imprese hanno l’incentivo ad adottare il
metodo che porta alla minore base imponibile e al minore onere tributario. In
particolare, adotteranno il metodo LIFO in periodi di aumento dei prezzi e il
metodo FIFO in periodi di deflazione.
t=0
t=1
(lifo)
t=1
(fifo)
R = 300
M = 200
L = 100
DS = 100
R = 300
M = 150
L = 100
DS = 0
R = 300
M = 150
L = 100
DS = 50
P = 100
P = 50
P = 100
Il legislatore italiano attribuisce ampia libertà alle imprese nella determina­
zione del valore delle rimanenze.
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Capitolo 3
• DW rappresenta le plusvalenze patrimoniali che possono derivare sia dalla
cessione di beni relativi all’impresa sia dalla cessione di partecipazioni socie­
tarie immobilizzate.
Le plusvalenze di beni relativi all’impresa concorrono a formare il reddito di
impresa se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso.
La plusvalenza è costituita dalla differenza fra il corrispettivo e il costo non
ammortizzato. Le plusvalenze, se relative a beni posseduti da più di 3 anni,
possono concorrere a formare il reddito in quote costanti nell’esercizio di
realizzazione e nei successivi, non oltre il quarto.
Per non gravare eccessivamente sulle plusvalenze realizzate dalle imprese
(molto spesso associate a fenomeni inflazionistici) è riconosciuta la possibilità
di rivalutare periodicamente alcune poste dell’attivo, assoggettandole ad un
regime fiscale agevolato.
In Italia una legge approvata nel 2000 (dieci anni dopo un analogo provvedi­
mento) ha consentito alle imprese di rivalutare beni materiali (quali immobili,
impianti e macchinari) e immateriali (quali brevetti e partecipazioni azionarie
qualificate come immobilizzazioni finanziarie); non possono invece essere
rivalutate le scorte, l’avviamento o il capitale circolante. Alla possibilità di
rivalutazione corrisponde il versamento di un’imposta sostitutiva (entro un
periodo massimo di 3 anni) del 19% per i beni oggetto di ammortamento
e del 15% per i beni non ammortizzabili, quali le partecipazioni azionarie.
Le plusvalenze generate dalla cessione di partecipazioni societarie rientrano
nella base imponibile se non sono iscritte a bilancio come immobilizzazioni
finanziarie.
Se le partecipazioni cedute sono qualificate come immobilizzazioni finanziarie
al fine di evitare la doppia tassazione degli utili le plusvalenze relative sono
tassate al 5% quando si verificano le seguenti condizioni:
a) le partecipazioni cedute siano iscritte a bilancio come immobilizzazioni
finanziarie e detenute per almeno un anno;
b) la società partecipata svolga effettivamente un’attività commerciale e non
risieda in territori a regime fiscale privilegiato (paradisi fiscali).
Simmetricamente le minusvalenze derivanti dalla cessione di immobilizzazioni
finanziarie non sono deducili dalla base imponibile.
L’imposizione delle plusvalenze può inoltre interferire con i processi di rior­
ganizzazione aziendale, scoraggiando operazioni straordinarie quali conferi­
menti, scambi di azioni, scissioni o fusioni: al fine di evitare che la normativa
fiscale scoraggi la razionalizzazione degli assetti produttivi secondo le modalità
appena indicate, non costituiscono materia imponibile le plusvalenze che si
manifestano quando non esiste coincidenza fra i valori contabili precedenti
alle operazioni straordinarie e il valore delle azioni che si ricevono in cam­
bio. La non imponibilità delle plusvalenze implica tuttavia che le quote di
ammortamento siano commisurate ai valori originari e non a quelli successivi
all’operazione straordinaria.
IRES
4. BASE IMPONIBILE DELL’IRES E VERO PROFITTO
L’interpretazione economica dell’IRES risponde essenzialmente a tre inter­
rogativi:
• la base imponibile dell’IRES coincide con il profitto in senso economico,
genericamente definibile come la variazione del valore del patrimonio di
un’impresa, prima dell’applicazione dell’imposta, nel corso di un esercizio?
• quali rapporti devono intercorrere fra imposta personale e imposta socie­
taria?
• è possibile costruire un’imposta sul reddito che sia neutrale nei confronti
delle scelte di investimento e di finanziamento delle imprese [Di Majo 1986;
Mintz 1996]?
Con riferimento al primo punto, nella legislazione fiscale molti aspetti allonta­
nano da una corretta valutazione degli input produttivi, in taluni casi nel senso
di una sopravvalutazione e in altri nel senso di una sottovalutazione, rendendo
quindi la base imponibile dell’imposta sul reddito d’impresa diversa dal «vero»
profitto. Questo allontanamento dipende essenzialmente da due cause:
1. per il trattamento dei redditi societari il legislatore tende a non abbandonare
il principio nominalistico (i valori utilizzati per l’applicazione delle imposte
non tengono conto in generale della variazione del potere d’acquisto della
moneta). Questo fatto implica, in periodi di inflazione, la possibilità di distor­
sioni o scorretta definizione dei profitti, connessa soprattutto al trattamento
degli interessi passivi e alla valutazione delle quote di ammortamento e delle
rimanenze al costo storico;
2. il legislatore (con ovvie oscillazioni nei diversi climi culturali) utilizza la
definizione di reddito imponibile come strumento di politica economica, al
fine di orientare l’attività dell’impresa; ne segue che anche per questo motivo
il profitto d’impresa definito a fini fiscali può essere diverso da quello econo­
micamente corretto.
4.1. Interessi passivi
Gli interessi passivi sono deducibili nel loro importo nominale (salvo i
limiti alla deducibilità prima indicati). Ci dobbiamo chiedere se in periodo
d’inflazione la piena deducibilità degli interessi passivi possa essere causa di
scorretta valutazione del reddito d’impresa.
Facciamo riferimento a un’ipotetica impresa che stipuli un contratto di mutuo
al tasso di interesse r, perfettamente indicizzato alla variazione dei prezzi.
La perfetta indicizzazione si realizza con l’adeguamento di due componenti
distinte al tasso di inflazione dato, pari a p$ . In primo luogo si richiede l’ade­
guamento del rendimento unitario o del tasso di interesse inizialmente fissato
al tasso di inflazione:
i1 = (1 + p$) r
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Capitolo 3
Si deve poi tenere conto del fatto che il capitale oggetto del mutuo perde di
valore in ragione di p$ per ogni unità prestata. Se il contratto stipulato non
prevede l’adeguamento del valore nominale del capitale (come usualmente
accade), il tasso di interesse dovrà compensare anche la perdita di valore reale
del capitale prestato:
i2 = p$
Ne segue che il tasso di interesse nominale in grado di garantire una remu­
nerazione reale pari a quella originariamente pattuita e la conservazione del
valore reale del capitale prestato deve essere uguale a:
i = i1 + i2 = (1 + p$) r + p$ = r + p$ + rp$
Si può ragionevolmente ritenere che, in periodi d’inflazione continua e in
buona misura anticipata, i tassi di interesse che si formano anno per anno
seguano il sentiero descritto dalla relazione, nota come equazione di Fischer,
appena derivata. Ad una certa remunerazione reale corrisponde una compo­
nente aggiuntiva che tutela la posizione patrimoniale e reddituale di chi dà
a prestito.
Il fatto che nella definizione della base imponibile non si tenga conto della
componente nominale (o di recupero dell’inflazione) degli interessi passivi
porta a una rappresentazione distorta della posizione reddituale dell’impresa.
L’imposta sul reddito delle imprese non ha, in altri termini, come base impo­
nibile il «vero» profitto di impresa. Anche questo punto può essere illustrato
con un esempio.
 ESEMPIO 4. Un’impresa contrae al tempo 0 un debito del valore di 100 al
tasso di interesse del 5% (perfettamente indicizzato); ottiene profitti pari a 5,
derivanti da ricavi pari a 100, costi variabili (manodopera e materie prime) e
interessi passivi rispettivamente pari a 90 e 5.
Nel secondo periodo, con un’inflazione del 10%, tutte le poste del conto econo­
mico aumentano nella stessa proporzione, con l’eccezione degli interessi passivi
che riflettono nel loro incremento anche la perdita di valore del debito contratto
(secondo la formula prima descritta). In questo secondo periodo il risultato eco­
nomico diventa negativo (- 4,5 contro + 5 del primo periodo).
Dal nostro esempio possiamo trarre la conclusione che, in una situazione di
perfetta indicizzazione, la piena deducibilità degli interessi passivi porta a una
sostanziale modifica del risultato economico: invece di utili (che indicizzati
all’inflazione dovrebbero salire a 5,5) abbiamo, come detto, una perdita di 4,5.
La differenza è dovuta interamente al fatto che, nella determinazione del profitto,
TAB. 3.1. Tempo 0
Tempo 1
Ricavi
Costi variabili
Interessi passivi
100
110
90
99
15,0
15,5
Base imponibile
1 5,0
- 4,5
IRES
non si tiene conto della sopravvenienza attiva costituita dalla diminuzione del
valore reale del debito (cui corrisponde nel conto economico un maggiore onere
per interessi passivi). Nel nostro esempio, la perdita di valore reale del debito è
pari a 10, esattamente equivalente al minore profitto contabile rispetto al valore
che si otterrebbe con una corretta valutazione della situazione patrimoniale
dell’impresa.
Ammettendo la deducibilità degli interessi nominali si sopravvaluta l’effettivo
costo del capitale a carico dell’impresa e quindi si sottovalutano i profitti.
Il vero costo del capitale è rappresentato, nel nostro esempio, dal tasso di
interesse reale, che è quanto si otterrebbe impiegando i propri capitali sul
mercato. Il tasso di interesse nominale, che nel tempo segue l’andamento
dell’inflazione, è invece costituito anche da una componente concettualmente
assimilabile a una restituzione parziale del prestito iniziale.
Come si legge nel rapporto Meade [Meade Committee 1978], per avere una
corretta individuazione dei profitti di impresa «alle imprese dovrebbe essere
consentito di dedurre dalla base imponibile tutti i pagamenti per gli interessi
nominali, ma la diminuzione del valore reale delle passività nominali dovrebbe
essere aggiunta ai redditi tassabili».
4.2. Ammortamenti
In periodi di inflazione problemi di sopravvalutazione dei profitti di impresa
derivano dalla commisurazione al costo storico delle quote di ammortamento
dei beni capitali di durata pluriennale. Infatti, il deprezzamento dei beni
capitali calcolato su base storica non consente accantonamenti sufficienti a
mantenere intatto nel tempo il valore del capitale dell’impresa: ne segue che
i profitti contabili sono sovradimensionati a causa appunto di una scorretta
valutazione del logorio dei beni capitali.
La soluzione a questo problema potrebbe essere trovata consentendo la
rivalutazione, in ragione dell’inflazione, del costo storico del bene. In questo
modo le quote di ammortamento sarebbero calcolate sul valore rivalutato
dei beni capitali.
In generale, non è prevista la rivalutazione del costo d’acquisto, ma nello stesso
tempo sono spesso ammessi (in Italia fino al 2007) ammortamenti anticipati.
La possibilità, in altri termini, di portare in ammortamento quote superiori
all’effettivo logorio dei beni capitali, sia pure calcolate sul costo storico, fini­
sce per compensare, in maniera certamente rozza, gli effetti dell’inflazione.
Il risultato finale derivante dall’effetto congiunto dell’adozione del principio
nominalistico e dell’ammortamento anticipato è che il profitto che costitui­
sce la base imponibile dell’imposta sul reddito d’impresa è di norma molto
lontano dal «vero profitto».
Si deve qui ricordare che è occasionalmente riconosciuta (com’è accaduto nel
1999 e nel 2000 in Italia) la possibilità di rivalutare i cespiti patrimoniali, al fine
85
86
Capitolo 3
di adeguare la base di riferimento su cui calcolare le quote di ammortamento.
Si tratta di una forma di indicizzazione dei valori patrimoniali, ma con una
cadenza saltuaria e sostanzialmente imprevedibile.
4.3. Scorte
Considerazioni analoghe valgono per la valutazione delle rimanenze. Quando
si adottano metodi che valutano i prezzi delle materie prime impiegate nel
processo produttivo a prezzi per quanto possibile vicino a quelli correnti
(LIFO) il profitto risultante è corretto; quando invece sono utilizzati i prezzi
storici per la valutazione delle materie prime impiegate (FIFO) il profitto
risultante ha una componente del tutto fittizia legata al fatto che non si è
tenuto conto degli effetti dell’inflazione.
Le considerazioni che abbiamo appena fatto su calcolo degli ammortamenti
e valutazione delle scorte riflettono un punto centrale di tutta la teoria eco­
nomica. La determinazione corretta del profitto richiede che tutti gli input
impiegati siano valutati al loro costo opportunità: in altri termini gli input
dal punto di vista economico hanno un valore che coincide con il prezzo
che si otterrebbe destinandoli a impieghi alternativi. Così le materie prime,
acquistate dall’impresa, potrebbero essere o impiegate all’interno o destinate
a terzi: nella valutazione dei costi corretti dell’impresa si deve fare riferimento
al prezzo di mercato, o a quanto si otterrebbe con un impiego alternativo. In
modo del tutto analogo il costo dell’impiego dei beni capitali per l’impresa è
misurato dal valore che si otterrebbe concedendone l’uso ad altri; il prezzo
che si applicherebbe in questo caso rifletterebbe il valore di mercato e non
il costo storico.
Possiamo a questo punto rispondere al primo interrogativo che ci siamo posti
all’inizio di questo paragrafo, riguardante la natura economica della base
imponibile dell’IRES.
La base imponibile dell’IRES può essere difficilmente ricondotta alla nozione
economica di profitto, inteso come l’incremento di valore del patrimonio
dell’impresa: il trattamento degli interessi passivi e la definizione delle quote
di ammortamento costituiscono le principali cause di deviazione da una de­
finizione economicamente appropriata della base imponibile.
Si deve comunque sottolineare che questa caratteristica non è specifica dell’I­
talia, ma è riconoscibile in tutti i paesi. La stessa riforma Reagan (nel 1986) si
proponeva di dare razionalità economica all’imposta sul reddito delle società
riportando le quote di ammortamento a valori vicini all’effettivo logorio eco­
nomico dei beni capitali e introducendo forme di superamento del principio
nominalistico. I risultati sono stati comunque modesti.
IRES
5. IMPOSTA PERSONALE E IMPOSTA SOCIETARIA
Come abbiamo già accennato, l’imposta societaria può svolgere un ruolo o
autonomo o d’integrazione dell’imposta personale. Nella prima ipotesi si
possono seguire sostanzialmente due vie. Da un lato, si può ritenere che la
capacità contributiva della persona giuridica sia non solo autonoma ma anche
addizionale rispetto a quella individuale: si giustifica quindi la tassazione de­
gli utili sia presso l’impresa sia per la parte distribuita in capo agli azionisti,
configurandosi quindi una doppia tassazione dei dividendi.
In alternativa, si può ritenere che la tassazione degli utili presso la società
esaurisca tutti i debiti tributari connessi a questa materia imponibile, esen­
tando quindi i dividendi dall’imposta personale: la capacità contributiva
delle società è anche in questo caso autonoma, ma sostitutiva integralmente
di quella individuale. Si noti che in questo modo si rinuncia alla tassazione
onnicomprensiva di tutti i redditi presso il percettore.
Nell’approccio alternativo, fondato sull’integrazione fra le due imposte, i
rapporti fra imposta personale e imposta societaria possono fondarsi o sul
metodo della partnership (che implica che tutti gli utili siano attribuiti agli
azionisti, distribuiti o meno) o su quello del credito d’imposta che trasforma
l’imposta pagata sugli utili distribuiti in un acconto dell’imposta personale.
Sistema classico. Nel sistema classico l’imposta societaria, con aliquota t,
colpisce tutto l’utile d’impresa (U ), mentre l’imposta personale, con aliquota
tp, si applica solo agli utili distribuiti (D).
Indichiamo con:
UN gli utili dopo l’applicazione dell’imposta (pari a U[1 - t]);
d la percentuale distribuita degli utili che residuano dopo l’applicazione
dell’imposta societaria (D/UN);
x il carico fiscale su una unità di utile.
L’onere fiscale complessivo è pari a:
T = tU + tpD = tU + tpdU(1 - t)
Dividendo per U otteniamo il carico fiscale per unità di utile (prima delle
imposte):
x = t + tp(1 - t)d
Con questo sistema di tassazione il carico fiscale aumenta all’aumentare della
quota di utili distribuiti. Nei due casi estremi di ritenzione totale e di distri­
buzione totale abbiamo infatti:
d=0&x=t
d = 1 & x = t + tp(1 - t)
Possiamo quindi affermare che il sistema classico di tassazione non è neutrale
nei confronti delle scelte distributive delle imprese.
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Capitolo 3
In questo contesto si deve ricordare che molti sistemi tributari prevedono che
siano tassati gli incrementi di valore delle azioni, maturati o realizzati. Qui,
per semplicità, supponiamo che gli incrementi di valore siano una funzione
della quota di utili distribuita e che l’imposta sui capital gains sia equivalente a
un prelievo annuale sugli utili non distribuiti secondo un’aliquota c, applicata
sugli utili al netto dell’imposta societaria.
Nei due casi estremi di ritenzione totale e di distribuzione totale abbiamo:
d = 0 & x = t + c (1 - t)
d = 1 & x = t + tp(1 - t)
Se si ignora la tassazione degli incrementi in conto capitale, il sistema di
tassazione qui considerato non è neutrale in quanto all’aumentare di d, la
quota di utili distribuita, aumenta il carico fiscale. Quando si considera la
tassazione dei capital gains, la distribuzione degli utili è discriminata quando
vale la seguente relazione:
c 1 tp
Il sistema classico era tradizionalmente in vigore negli Stati Uniti; a partire dal
2003 è stato invece stabilito che i dividendi non siano in generale assoggettati
all’imposta personale (torneremo su questo punto successivamente).
Si può infine ricordare che il principio dell’autonoma capacità contributiva
delle persone giuridiche, implicito nel sistema classico, è circoscritto in
misura più o meno sensibile quando gli utili distribuiti sono assoggettati ad
un’imposta sostitutiva o solo una parte dei dividendi concorre alla formazione
del reddito complessivo. Questa soluzione è stata adottata in Italia, dove i
dividendi riconducibili a partecipazioni non qualificate sono tassati al 20%
in sostituzione dell’imposta personale; al contrario i dividendi provenienti
da partecipazioni qualificate rientrano nella base imponibile dell’imposta
personale per una quota pari al 49,72%.
Nei due casi, con distribuzione nulla o totale degli utili, l’onere fiscale com­
plessivo è pari a:
Non qualificate
T = tU + 0,20 dU(1 - t)
d = 0 " x = 0,275
d = 1 " x = 0,42
Qualificate
T = tU + tp 0,4972 dU(1 - t)
d = 0 " x = 0,275
d = 1 " x = 0,275 + tp 0,4972 (1 - 0,275).
Quando tp = 0,43, il carico fiscale complessivo è pari al 43% (coincide in
altri termini con l’aliquota più elevata dell’IRPEF). Con aliquote marginali
IRES
inferiori il carico fiscale complessivo sui dividendi derivanti da partecipazioni
qualificate è superiore a quello che si avrebbe con l’inserimento dei dividendi
nella base imponibile dell’imposta personale (ad esempio quando l’aliquota
marginale dell’imposta personale è pari al 38%, il carico fiscale complessivo
sulle partecipazioni qualificate è pari al 41,5%). Considerazioni analoghe
valgono per le partecipazioni non qualificate: solo quando l’aliquota marginale
è superiore al 42%, l’imposta sostitutiva comporta un minore onere fiscale
complessivo in caso di distribuzione degli utili.
Esenzione totale. Con il metodo dell’esenzione totale gli utili d’impresa
sono tassati esclusivamente presso l’impresa. Si abbandona in questo modo
il principio dell’onnicomprensività della tassazione, anche se l’effettivo
allontanamento da questo principio dipende dai livelli relativi dell’aliquota
massima dell’imposta personale e di quella societaria. Se, come accade in molti
sistemi tributari, le due aliquote sono vicine, il carico fiscale in un sistema che
applica l’esenzione totale non è significativamente diverso da quello risultante
dall’applicazione di un’imposta personale progressiva.
Riprendendo le formule derivate nell’ambito del sistema classico, è facile ve­
dere che il carico fiscale non muta qualunque sia la quota di utili distribuita,
esista o meno la tassazione dei capital gains.
È possibile circoscrivere l’esenzione dall’imposta personale agli utili che sa­
rebbero risultati dall’applicazione dell’aliquota legale d’imposta, prescindendo
quindi da qualsiasi meccanismo di tipo agevolativo.
In questa ipotesi i dividendi esentati dall’imposta personale sono calcolati
sulla base di questa formula:
DE = (tU/t*) - tU
dove:
DErappresenta i dividendi esenti;
t l’aliquota effettivamente gravante sugli utili d’impresa;
t* l’aliquota formale;
U gli utili d’impresa.
L’espressione (tU/t*) rappresenta gli utili corrispondenti alle imposte effetti­
vamente pagate, data l’aliquota formale. Un esempio chiarisce il meccanismo.
 ESEMPIO 5. L’aliquota dell’imposta sulle società t* è pari al 30%, ma per
effetto delle norme agevolative vigenti un’impresa che ottiene utili pari a 100
paga imposte per 20. Possiamo affermare che l’aliquota effettiva t che grava su
questa impresa è pari al 20% e che gli utili distribuibili sono 80.
Ci possiamo peraltro chiedere quali sarebbero gli utili distribuibili, a fronte di un
pagamento d’imposta di 20, qualora tale debito d’imposta derivasse dall’applica­
zione dell’aliquota legale del 30%. Gli utili (qui indicati con U*) corrispondenti
ad un debito d’imposta T di 20 e ad un’aliquota legale (qui indicata con t*) del
30% possono essere così ottenuti:
t*U* = T
89
90
Capitolo 3
D’altro canto T è il prodotto dell’aliquota effettiva t e degli utili conseguiti dalla
nostra impresa:
t*U* = tU
da cui:
U* =
tU
t*
Ne segue che gli utili distribuibili nell’ipotesi di applicazione dell’aliquota for­
male t* e di gettito pari a tU, corrispondenti ai dividendi esenti dall’imposta
personale, sono:
DE = U * - tU =
tU
t*
- tU
Sostituendo i valori del nostro esempio:
DE = 20/0,30 - 20 = 66,66 - 20 = 46,66
Integrazione completa. Nel sistema di integrazione completa l’utile d’impresa
rientra nella base imponibile dell’imposta personale, indipendentemente dalla
sua distribuzione.
Un famoso rapporto canadese, il Carter Report, propose l’adozione di questo
sistema (altrimenti definito partnership approach) per le società di capitali. L’ali­
quota dell’imposta sulle società doveva essere pari all’aliquota massima dell’im­
posta personale. Il contribuente con aliquota marginale dell’imposta personale
inferiore a quella massima avrebbe avuto diritto a un credito di imposta.
Abbiamo semplicemente:
x = tp
Il carico fiscale complessivo non dipende dalle scelte distributive dell’impresa:
il sistema di integrazione completa garantisce dunque la piena neutralità
rispetto alle scelte distributive.
In Italia, questo sistema è applicato alle società di persone. Inoltre, a partire dal
1o gennaio 2004, anche le società a responsabilità limitata possono imputare
il reddito o le perdite direttamente ai propri soci, persone fisiche, purché il
numero dei soci non ecceda i dieci, e dietro esplicito esercizio dell’opzione
(detta «opzione per la trasparenza fiscale»).
Credito d’imposta. Il sistema del credito d’imposta sui dividendi distribuiti
ha il fine di evitare la «doppia tassazione economica dei dividendi» nell’ipotesi
che esistano sia un’imposta sul reddito delle persone giuridiche (che assoggetta
ad imposizione tutti gli utili, distribuiti e non), sia un’imposta sulle persone
fisiche nella quale si vogliono far confluire gli utili distribuiti. L’imposta
societaria afferente agli utili distribuiti costituisce un credito da utilizzare
nella liquidazione dell’imposta personale. Il credito è totale quando tutta
l’imposta societaria afferente ai dividendi può essere portata in diminuzione
dell’imposta personale.
IRES
L’applicazione del credito d’imposta richiede in primo luogo che sia deter­
minata l’imposta afferente ai dividendi.
Indicando con U gli utili dell’impresa prima dell’applicazione dell’imposta
societaria e con t l’aliquota dell’imposta, il gettito è pari a:
[1]
T = tU
Nell’ipotesi di distribuzione totale degli utili che residuano dopo il pagamento
dell’imposta, i dividendi sono pari a:
[2]
D = U - tU = U(1 - t)
La [2] può essere riscritta come:
[3]
D
U=
( 1 - t)
Moltiplicando entrambi i lati per t otteniamo il debito d’imposta sul reddito
d’impresa in termini di dividendi distribuiti:
[4]
tU =
t
1-t
D
In secondo luogo si deve tener conto che il credito d’imposta è una compo­
nente del reddito imponibile del contribuente.
Nel caso di credito d’imposta totale (t/(1 - t) per unità di dividendi distri­
buiti) e nell’ipotesi che il contribuente percepisca solo dividendi, il reddito del
contribuente è pari alla somma dei dividendi più il relativo credito d’imposta.
Sostituendo la [4] quindi otteniamo:
D+
t
1-t
D=U
In altri termini, il reddito del contribuente (nell’ipotesi di distribuzione totale
dei dividendi, reddito costituito solo da dividendi e credito d’imposta totale)
coincide con l’utile dell’impresa prima dell’applicazione delle aliquote.
L’imposta personale che dovrà essere versata dal contribuente è quindi pari
alla differenza tra l’imposta personale (pari al prodotto dell’aliquota tp per il
reddito imponibile) e il credito d’imposta riconosciuto (corrispondente, nel
nostro caso di distribuzione totale degli utili, all’imposta versata dalla società):
[5]
Tp = t p f D +
t
1-t
Dp-
t
1-t
D
Si può agevolmente dimostrare che il debito d’imposta è nullo quando l’ali­
quota dell’imposta personale tp è uguale a quella dell’imposta societaria t.
Possiamo riformulare le precedenti considerazioni in termini più generali
ipotizzando che una percentuale d degli utili che residuano dopo le imposte
venga distribuita.
91
92
Capitolo 3
Indicando con c = t/(1 - t) il credito d’imposta (totale) riconosciuto per unità
di dividendo e tenendo conto che UN/U = (1 - t), l’onere fiscale complessivo
(dato dalla somma dell’imposta societaria e dell’imposta personale) è pari a:
T = tU + tp[dUN(1 + c)] - cdUN
L’aliquota effettiva è pari a:
x=
T
U
= t + t p d (1 + c) (1 - t) - cd (1 - t) =
= t + d [t p (1 + c) - c] (1 - t)
Il termine cd (il credito d’imposta per unità di utile netto) è sia una compo­
nente della base imponibile dell’imposta personale sia un credito d’imposta.
Sostituendo nell’ultima espressione c = t/(1 - t) e riordinando i termini,
possiamo osservare che un credito d’imposta non garantisce, in generale, la
neutralità dell’imposta delle società rispetto alle scelte distributive dell’im­
presa, in quanto il carico fiscale dipende dalla relazione fra l’aliquota dell’im­
posta personale e quella dell’imposta societaria. Infatti nelle due ipotesi di
distribuzione totale e di distribuzione nulla abbiamo:
d=0&x=t
d = 1 & x = tp
La neutralità è verificata solo quando l’aliquota dell’imposta societaria coincide
con quella dell’imposta personale.
In particolare, con un’imposta personale progressiva per scaglioni, la coin­
cidenza si può verificare solo per la fascia di reddito per la quale l’aliquota
dell’imposta personale coincide con quella dell’imposta societaria.
Concludendo, solo i sistemi di integrazione totale dei redditi delle società
di capitali nella base imponibile dell’imposta personale e di esenzione to­
tale garantiscono sempre la neutralità nei confronti delle scelte distributive
dell’impresa.
Come in precedenza, ripetiamo il ragionamento nel caso in cui vengano tassati
gli incrementi di valore delle azioni, maturati o realizzati. Nelle due ipotesi
polari di distribuzione totale e ritenzione totale, la formula precedente, con
la tassazione dei capital gains, diventa:
d = 0 & x = t + c (1 - t)
d = 1 & x = tp
La neutralità è verificata solo quando la somma dell’aliquota dell’imposta
societaria e di quella sui capital gains, dedotta l’aliquota t, coincide con quella
dell’imposta personale:
t + c (1 - t) = tp
IRES
6. EFFETTI DELL’IMPOSTA SOCIETARIA
SULLE SCELTE DELLE IMPRESE
Il sistema di imposizione del reddito è neutrale rispetto alle scelte di finanzia­
mento e di investimento quando i comportamenti delle imprese non variano
in seguito all’introduzione delle imposte.
Nella definizione di neutralità sono implicite le nozioni di costo del capitale e
di rendimento dell’investimento, rispettivamente, marginale e inframarginale.
Il costo del capitale è il rendimento minimo, al netto delle imposte, che deve
essere corrisposto all’investitore per indurlo a finanziare una specifica impresa
[Auerbach 1979; Atkinson e Stiglitz 1980; Giannini 1989].
Nell’ipotesi di produttività marginale decrescente degli investimenti e di
costo del capitale costante, l’investimento marginale è caratterizzato da un
rendimento, al netto dei costi variabili e degli ammortamenti e al lordo degli
oneri finanziari, pari al costo del capitale.
L’investimento inframarginale è invece caratterizzato da un rendimento, al
netto dei costi variabili e degli ammortamenti e al lordo degli oneri finanziari,
superiore al costo del capitale.
Per chiarire meglio i concetti ora esposti consideriamo la tabella 3.2, dove
ipotizziamo che un’impresa effettui investimenti (I) in successione dell’im­
porto unitario di 100.
Abbiamo assunto che i costi variabili (CV) e gli ammortamenti (A) corrispon­
denti al vero deprezzamento siano costanti, mentre i ricavi (R) per unità di
investimento diminuiscono all’aumentare del capitale impiegato. Ne segue che
il rendimento2 dell’unità aggiuntiva di capitale al lordo degli ammortamenti
(rl), pari alla differenza fra ricavi e costi variabili, è decrescente. Il rendimento
al netto degli ammortamenti (rl - d) in corrispondenza della quinta unità
investita è pari a 0,025.
Nell’ipotesi di finanziamento con debito (o prestiti bancari o emissione di
obbligazioni) e di assenza di imposte il costo del capitale coincide con il tasso
di interesse di mercato (i), pari nel nostro esempio al 5%; l’investimento
marginale (che per definizione dà profitto nullo dopo la deduzione degli oneri
finanziari) si raggiunge dopo l’impiego di quattro unità di capitale.
TAB. 3.2. Scelte d’investimento
1a unità
2a unità
3a unità
4a unità
5a unità
I
R
CV
A
rl
rl- d
iI
i
rl- d - i
100
100
100
100
100
50
45
40
35
32,5
20
20
20
20
20
10
10
10
10
10
0,30
0,25
0,20
0,15
0,125
0,20
0,15
0,10
0,05
0,025
5
5
5
5
5
0,05
0,05
0,05
0,05
0,05
-0,15
0,10
-0,05
0,00
- 0,025
Si ricorda che in termini analitici (utilizzando la notazione corrente) il rendimento di
un’unità aggiuntiva di capitale al lordo degli ammortamenti, espresso in termini percen­
tuali, è dato da: rl = (R - CV)/I; allo stesso modo definiamo il rendimento marginale al
net­to degli ammortamenti: rl = d = (R - CV - A)/I.
2
93
94
Capitolo 3
figura 3.1.
A
C=i
O
B
I
M
Lo stesso esempio può essere tradotto in termini grafici (fig. 3.1): l’inve­
stimento marginale per l’impresa considerata si avrà in corrispondenza di
M, quando il rendimento, al netto dei costi variabili e degli ammortamenti,
uguaglia il costo del capitale. L’area ABC è il profitto dell’impresa (al netto
degli ammortamenti).
In termini analitici il profitto (P) è pari al rendimento r, funzione di I, dimi­
nuito degli ammortamenti e degli oneri finanziari:
P = r (I) - dI - iI
 ESEMPIO 6. Usando i dati della tabella 3.2, quando gli investimenti sono
pari a 4 unità di capitale, r(I) è 90, dI è 40 e gli oneri finanziari 20: il profitto
complessivo è quindi pari a 30.
Massimizzando rispetto a I e uguagliando a zero la derivata si ottiene:
rl - d = i
Un’impresa realizza in successione gli investimenti con rendimento più elevato
fino a quello marginale; il profitto è massimizzato quando l’ultima unità di
investimento dà un rendimento, al netto degli ammortamenti, pari al costo
del capitale.
Nella nostra esposizione, il riferimento di base è costituito da una generica
imposta sul reddito di impresa, che si applica alla differenza fra ricavi, da
un lato, e costi variabili, ammortamenti e oneri finanziari sui capitali presi a
prestito, dall’altro.
In questo contesto l’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto
al netto delle imposte:
P = [r (I) - d I - iI ](1 - t)
Derivando rispetto a I:
(rl - d - i )(1 - t) = 0 + (rl - d)(1 - t) = i (1 - t)
IRES
I profitti sono massimizzati quando (rl - d = i ), come accade nella situazione
senza imposte: l’effetto di un’imposta sul reddito nella forma qui considerata
è quello di ridurre sia il rendimento, al netto degli ammortamenti, dell’in­
vestimento marginale, sia il costo del capitale nella proporzione (1 - t). Ne
segue che il livello ottimale di investimento non si modifica.
Nell’analisi della neutralità di un’imposta sul reddito d’impresa i problemi
più rilevanti sono riconducibili ai seguenti temi:
• determinazione delle quote di ammortamento;
• deducibilità degli interessi passivi sul capitale preso a prestito;
• trattamento fiscale della remunerazione del capitale di rischio.
In questo paragrafo impostiamo in termini generali il problema degli effetti
dell’anticipazione degli ammortamenti sulle scelte d’impresa.
6.1. Gli ammortamenti anticipati
L’ammortamento fiscale è costituito da due componenti.
La prima componente corrisponde al deprezzamento dello stock di beni
capitali utilizzati dall’impresa nel periodo d’imposta. Indicando con d il
coefficiente di deprezzamento e con Kt lo stock di capitale, il vero ammor­
tamento è pari a dKt.
La seconda componente è legata all’anticipazione degli ammortamenti che
il legislatore riconosce alle imprese. L’anticipazione è rappresentabile come
una quota (a) del costo dei beni capitali acquistati nel periodo d’imposta; i
nuovi acquisti possono essere destinati sia all’incremento del capitale netto
impiegato dall’impresa (It), sia alla sostituzione del capitale logoratosi nel
periodo d’imposta (dKt):
a(It + dKt)
L’anticipazione degli ammortamenti implica che l’ammortamento ordinario
non sia più commisurato all’intero valore dei beni capitali, ma alla parte del
loro valore che non è oggetto di anticipazione. In caso contrario, la somma degli
ammortamenti, ordinari e anticipati, eccederebbe il valore originario dei beni
capitali. Indicando con (1 - a) la quota oggetto di ammortamento ordinario,
la prima componente dell’ammortamento fiscalmente riconosciuta diventa:
d(1 - a)Kt
Sommando le due equazioni precedenti e semplificando, otteniamo:
dKt + aIt
L’ammortamento consentito a fini fiscali è quindi pari al deprezzamento eco­
nomico del capitale esistente più una quota a dell’investimento netto realizzato
nel periodo d’imposta. Si noti che con a = 0 l’ammortamento coincide con
l’effettivo deprezzamento dei beni capitali. Quando invece a = 1, è possibile
95
96
Capitolo 3
dedurre dall’imponibile, in ogni periodo d’imposta, il valore dell’investimento
netto; in altri termini, l’ammortamento si verifica integralmente nell’esercizio
in cui il bene capitale è acquistato.
 ESEMPIO 7. In un riferimento temporale discreto un investimento effettuato
all’inizio del periodo è soggetto al deprezzamento economico in ragione di d.
Supponiamo che il capitale esistente alla fine del periodo precedente sia pari a
100 e che la nostra impresa voglia incrementare il capitale netto di 40. L’obiettivo
è quindi il raggiungimento di uno stock di capitale pari a 140:
Kt = Kt - 1 + It = 100 + 40
I beni capitali impiegati, esistenti alla fine del periodo precedente o acquistati
all’inizio del periodo, sono soggetti a un deprezzamento economico in ragione di
d = 0,25. Per ottenere un incremento del capitale netto di 40, la nostra impresa
deve quindi effettuare investimenti lordi pari a 75 (oltre all’investimento netto di
40 devono essere reintegrati il capitale esistente alla fine del periodo precedente
(0,25 di 100), e il deperimento dei nuovi capitali acquistati (0,25 di 40)). Ponendo
la quota di ammortamento anticipato a 0,25, possiamo scrivere:
a(It + dKt) + d(1 - a)Kt = aIt + dKt
0,25 # (40 + 35) + 0,25 # (1 - 0,25) # 140 = 10 + 35
In assenza di anticipazione, l’ammortamento coincide con il vero deprezzamento
economico.
In questo paragrafo dobbiamo individuare gli effetti che l’anticipazione degli
ammortamenti ha sulle scelte di investimento delle imprese.
Con un’aliquota d’imposta pari a t la deduzione dall’imponibile della com­
ponente relativa all’anticipazione, aI, implica un risparmio d’imposta com­
plessivo pari a taI, cui corrisponde un risparmio per unità di investimento di
at. Questo risparmio d’imposta è riconducibile alla componente di ammor­
tamento relativa agli investimenti effettuati all’inizio del periodo corrente.
Il prezzo unitario del bene d’investimento si riduce pertanto a (1 - at). Il
costo unitario del capitale o gli oneri finanziari per unità d’investimento si
riducono a loro volta a [i(1 - at)]. In equilibrio sappiamo che il costo del
capitale deve essere uguale al rendimento al netto del logorio dei beni capitali,
per cui deve valere la relazione:
i(1 - at) = (rl - d)
Rielaborando l’ultima equazione possiamo esprimere gli effetti dell’anticipa­
zione degli ammortamenti nel modo seguente:
[6]
i=
(rl - d)
1 - at
Quando a = 0 gli ammortamenti consentiti a fini fiscali coincidono con il vero
deprezzamento del capitale esistente, non esistendo alcuna forma di anticipa­
zione; il rendimento dell’investimento è misurato, come prima, da (rl - d).
IRES
Viceversa, quando a è positivo (a 2 0) si è in presenza di ammortamenti
anticipati. In questa seconda ipotesi le imprese sono avvantaggiate dalla
possibilità di differire il pagamento dell’imposta sui profitti di impresa, a
parità di ammortamento complessivo, ottenendo un aumento del rendimento
dell’investimento.
In particolare, quando a = 1 il rendimento dell’investimento aumenta in
ragione di [1/(1 - t)]: quanto più elevata è l’aliquota, tanto maggiore è il
vantaggio riconducibile all’anticipazione degli ammortamenti e al connesso
risparmio d’imposta.
Le forme di anticipazione degli ammortamenti esistenti in tutti i sistemi tri­
butari collocano il valore di a tra 0 e 1. Si noti che questo risultato conferma
quanto abbiamo già osservato nell’analisi della base imponibile. L’anticipa­
zione degli ammortamenti permette di differire nel tempo gli oneri fiscali.
Con l’accelerazione degli ammortamenti aumentano, di conseguenza, il
valore attuale del risparmio d’imposta e il rendimento, in valore attuale, di
un progetto di investimento.
Conviene soffermarsi su due implicazioni della formula [6]. In primo luogo,
abbiamo dimostrato che, in corrispondenza dell’investimento marginale, il
rendimento (rl - d) è inferiore al tasso di mercato i in ragione del fattore
(1 - at). In termini generali, l’anticipazione degli ammortamenti porta a un
più elevato volume di investimenti.
 ESEMPIO 8. Se [(1 - at) = 0,5] e i = 0,05, gli investimenti sono spinti
fino al punto in cui il rendimento al netto degli ammortamenti è pari alla metà
del costo del capitale. Utilizzando i dati contenuti nella tabella 3.2, la quinta
unità di investimento diventa marginale: infatti, il rendimento al netto degli
ammortamenti, (rl - d), pari a 0,025 prima dell’anticipazione, sale a 0,05 per
effetto dell’anticipazione. Questo rendimento consente la copertura degli oneri
finanziari.
In secondo luogo, l’anticipazione degli ammortamenti si applica a tutti gli
investimenti, marginali e inframarginali, effettuati dall’impresa: il rendimento
netto (rl - d) aumenta per tutte le unità di investimento nella stessa propor­
zione [1/(1 - at)].
 ESEMPIO 9. Se a = 1 e t = 0,5, sempre con riferimento ai dati della tabella
3.2, si raddoppiano per ogni unità di investimento la differenza fra i ricavi, da
un lato, e la somma di costi variabili e di ammortamenti ordinari, dall’altro. Il
profitto totale, pari alla somma dei rendimenti netti ottenuti sulle singole unità
di investimento al netto degli oneri finanziari, è due volte quello ottenuto prima
dell’introduzione dell’anticipazione.
In termini generali, possiamo incorporare gli effetti dell’anticipazione degli
ammortamenti, come di qualunque altro sussidio, nella funzione obiettivo
dell’impresa. Il livello ottimale di investimento si ottiene massimizzando la
seguente funzione obiettivo:
97
98
Capitolo 3
[7]
f
r (I) - dI
1 - at
- iI p (1 - t)
All’interno della prima parentesi, il primo termine rappresenta il rendimento
ottenibile dall’impresa, tenendo conto degli effetti dell’anticipazione degli
ammortamenti. Il rendimento marginale è decrescente al crescere del volume
degli investimenti.
Massimizzando rispetto a I si ottiene la seguente condizione di equilibrio:
i=
rl - d
1 - at
È evidente che l’eliminazione dell’anticipazione (a = 0), ci permette di ottenere
i risultati derivati all’inizio di questo paragrafo.
6.2. Finanziamento con debito
Ipotizziamo che l’impresa finanzi gli investimenti con debito e che tutti gli
utili che residuano dopo il pagamento delle imposte siano distribuiti agli
azionisti. Quando l’ammortamento coincide con il deprezzamento economico
e la deducibilità degli interessi è piena, la funzione di profitto dell’impresa
è la seguente:
[8] P = [r (I) - dI - iI ](1 - t)
La massimizzazione della funzione di profitto si ottiene, riprendendo un
risultato ottenuto nel paragrafo precedente, uguagliando a zero la derivata
prima rispetto ad I:
[9]
(rl - d)(1 - t) = i(1 - t) & rl - d = i
In presenza di imposte, la condizione di ottimo non si modifica rispetto alla
situazione senza imposte. I profitti sono massimizzati quando il rendimento
marginale dell’investimento rl (decrescente al crescere di I) al netto del
vero ammortamento (d, costante) è uguale al tasso di interesse prevalente
sul mercato i.
Il risultato può essere esposto graficamente (fig. 3.2). L’imposta sui profitti
riduce il rendimento netto dell’investimento (infatti la retta rl - d ruota).
Allo stesso tempo, grazie alla piena deducibilità degli interessi, si riduce nella
stessa proporzione il costo effettivo del finanziamento per l’impresa: la mi­
nore imposta dovuta, a causa della deducibilità degli interessi, riduce l’onere
complessivo a OA # i l = OA # i(1 - t).
Per effetto delle imposte sono diminuiti solo i rendimenti inframarginali.
Infatti, in termini grafici, i profitti complessivi dopo le imposte sono rappre­
IRES
figura 3.2.
π′
π′ – δ
D
(π ′ – δ) (1 – t)
D′
E
i
i′ = i(1 – t)
E′
A
O
I
sentati dal triangolo i lElDl contraddistinto da un’area inferiore rispetto al
triangolo iED.
Abbiamo fin qui supposto che tutti gli interessi passivi (iI) siano deducibili.
È opportuno allargare l’analisi, ipotizzando che la percentuale di deducibilità
possa essere o nulla o parziale secondo un parametro a (0 # a # 1).
La deducibilità parziale degli interessi porta alla formulazione di una nuova
funzione di profitto:
max [r (I) - dI - iI - t (r (I) - dI - aiI)]
I
I primi tre addendi della precedente espressione rappresentano il profitto
prima delle imposte (P = r(I) - dI - iI); il quarto addendo (t[r(I) - dI - aiI ])
definisce il debito fiscale nell’ipotesi di deducibilità parziale degli interessi.
Massimizzando rispetto a I, otteniamo la condizione di equilibrio:
rl - d - i - t (rl - d - ai) = 0 & rl - d =
i (1 - at)
1-t
Essendo a 1 1, e quindi [(1 - at)/(1 - t)] 2 1, ne segue che al margine il
rendimento aumenta. Le imprese devono sopportare un costo del capitale
superiore a quello sopportato in assenza di imposta. Poiché il rendimento
marginale di equilibrio è decrescente al crescere degli investimenti, le imprese
dovranno ridurre i loro investimenti. L’imposta, in questo caso, non è neutrale.
L’anticipazione degli ammortamenti porta, come abbiamo già visto, a un
aumento del rendimento. La funzione obiettivo delle imprese si modifica
nel modo seguente:
max >
I
r (I) - dI
1 - at
- iI - t f
r (I) - dI
1 - at
- iI pH
99
100 Capitolo 3
Al margine deve valere la condizione:
rl - d
1 - at
rl - d
1 - at
- i - tf
rl - d
1 - at
-ip= 0
(1 - t) = i (1 - t) & rl - d = i (1 - at)
Poiché 0 1 a 1 1, si ha che [(1 - t)/(1 - at)] 1 1. Il rendimento richiesto
è quindi inferiore, il che significa maggiori investimenti.
Possiamo considerare congiuntamente l’anticipazione degli ammortamenti e
la deducibilità degli interessi passivi. In questo caso la funzione di profitto
diventa:
max >
I
r (I) - dI
1 - at
- iI - t f
r (I) - dI
1 - at
- iaI pH
La condizione di massimizzazione dei profitti richiede che al margine sia
uguagliata la differenza fra rendimenti e ammortamenti, compresi le anticipa­
zioni e gli oneri finanziari, tenendo conto della deducibilità di questi ultimi:
rl - d
[10]
1 - at
- i - tf
rl - d =
rl - d
1 - at
- ai p = 0
i (1 - at) (1 - at)
1-t
Sulla base di questa formulazione possiamo individuare le due configurazioni
dell’imposta sul reddito d’impresa che garantiscono la neutralità nei confronti
delle scelte di investimento nell’ipotesi di finanziamento con debito [Kay e
King 1990; Meade Committee 1978; Petretto 1987].
1. Vero ammortamento economico (a = 0) e piena deducibilità degli interessi (a = 1).
Sostituendo nell’equazione [5] si ottiene:
rl - d =
i (1 - t)
1-t
+ rl - d = i
La condizione di equilibrio derivata coincide con quella ottenuta in assenza
di imposte. Ne deriva che al margine non si modificano le condizioni di
equilibrio.
2. Nessuna deducibilità degli interessi (a = 0) e ammortamento immediato
(o istantaneo) (a = 1).
Anche in questo caso la condizione di equilibrio non muta rispetto alla si­
tuazione senza imposte.
Possiamo tentare un’interpretazione unitaria delle due condizioni, partendo
dall’osservazione che l’imposta sui profitti riduce il rendimento in ragione
IRES 101
dell’aliquota d’imposta. Lo stesso livello di investimento preimposte può essere
mantenuto solo se i costi dell’investimento sono ridotti nella stessa misura.
Questo risultato può essere ottenuto in due modi alternativi.
Da un lato, possono essere ridotti gli oneri finanziari: la piena deducibilità degli
oneri porta, come abbiamo visto, alla riduzione del costo del capitale (caso 1).
Dall’altro lato, può essere ridotto il costo dell’investimento: la deducibilità
immediata del costo del bene di investimento (implica un aumento del tasso di
rendimento di [1/(1 - t)], lasciando invariata l’incidenza degli oneri finanziari,
per i quali non è ammessa alcuna forma di deducibilità (caso 2)).
È evidente che si possono configurare anche situazioni intermedie in grado di
generare la neutralità in cui alla deducibilità parziale degli interessi è associata
un’anticipazione degli ammortamenti.
6.3. Finanziamento con azioni
Nell’ipotesi di finanziamento con capitale di rischio, l’impresa massimizza i
profitti dato il vincolo di garantire al sottoscrittore di azioni un rendimento
marginale uguale a quello ottenibile dalle altre forme di impiego del risparmio,
tipicamente obbligazioni.
Indicando con t il rendimento richiesto dall’investimento azionario e con i
quello delle obbligazioni, deve valere:
t=i
L’investimento, finanziato con l’emissione di azioni, deve garantire un ren­
dimento pari a quello dell’investimento finanziato con obbligazioni, su cui,
per ipotesi, non grava alcuna imposta.
L’introduzione di un’imposta sui profitti modifica la relazione di equilibrio.
Infatti l’impresa, che deve comunque remunerare i suoi finanziatori al tasso
i, massimizza questa funzione:
max [(r (I) - dI) (1 - t) - tI ] = max [(r (I) - dI) (1 - t) - iI ]
I
I
Derivando rispetto a I si ottiene:
(rl - d)(1 - t) = i = t
Si riduce, come nel caso precedente, il rendimento al netto degli ammorta­
menti; non si modifica invece il costo del capitale (in quanto non è consentita
alcuna deducibilità del «costo» del finanziamento in conto capitale).
In una rappresentazione grafica (fig. 3.3) l’imposta sui profitti fa ruotare la
curva dei rendimenti al di sotto di quella originaria; non si sposta invece la
curva del costo del capitale. Ne segue che solo gli investimenti pari a OAl
garantiscono un rendimento uguale o superiore a i. Pertanto, l’imposta sui
profitti non è neutrale quando gli investimenti sono finanziati con azioni,
102 Capitolo 3
figura 3.3.
π′ – δ
i
i(1 – t)
O
B
(π ′ – δ) (1 – t)
B′
A′
A
I
in quanto l’accumulazione di capitale si riduce rispetto alla situazione preimposte.
Anche nell’ipotesi di finanziamento con azioni è possibile configurare l’impo­
sta sui profitti in modo da renderla neutrale e non discriminare fra le diverse
forme di finanziamento.
La neutralità si ottiene quando ad ammortamenti corrispondenti al vero
deprezzamento economico è associata la deducibilità del «costo» del finanziamento in conto capitale. Il «costo» del finanziamento azionario (quanto
deve essere riconosciuto al sottoscrittore per indurlo a investire) può essere
esplicitamente assimilato agli oneri finanziari derivanti dall’indebitamento
e portato in deduzione dall’imponibile. In questa ipotesi il costo effettivo
dell’investimento azionario si riduce in ragione dell’aliquota dell’imposta
societaria (così come accade per il costo del finanziamento in conto debito).
I profitti totali sono infatti:
P = [r (I) - dI - tI ] [1 - t]
Gli investimenti finanziati con azioni sono realizzati fino al punto in cui è:
rl - d = t = i
La condizione di equilibrio coincide con quella che si ottiene quando l’inve­
stimento è finanziato con debito ed è riconosciuta la piena deducibilità degli
interessi passivi.
Lo stesso risultato di neutralità si ottiene quando all’indeducibilità del costo
del capitale (di rischio) può essere associata l’immediata e completa deducibilità delle spese in conto capitale.
IRES 103
Riprendendo la relazione da noi utilizzata per introdurre l’anticipazione
degli ammortamenti, la relazione di equilibrio per investimenti finanziati
con azioni diventa:
rl - d
1 - at
(1 - t) = t
Ponendo a = 1 e semplificando, otteniamo la relazione di equilibrio che ab­
biamo derivato in assenza di imposte sui profitti di impresa. Con immediata
deducibilità delle spese in conto capitale, l’imposta sui profitti non muta
la convenienza al margine degli investimenti finanziati con azioni. Come
si verificava con il finanziamento con debito, l’indeducibilità del costo del
capitale e la piena deducibilità delle spese in conto capitale non producono
modificazioni nelle scelte dell’impresa.
Possiamo ora interpretare le due condizioni di neutralità (rispettivamente,
vero ammortamento e uguale tassazione per tutte le forme di finanziamento
e deducibilità immediata delle spese in conto capitale senza alcuna deduzione
per gli oneri finanziari).
Per aver neutralità il rendimento del capitale impiegato dall’impresa, sia esso
in conto debito o di rischio, deve essere tassato in modo uguale: o assoggettato
alla medesima aliquota, come accade con la prima condizione, o non ammesso
in deduzione, come accade con la seconda condizione.
La neutralità richiede poi che il valore attuale della deduzione del costo
dell’investimento sia uguale al costo dell’investimento.
La seconda condizione di neutralità (deducibilità immediata delle spese in
conto capitale) consente la deduzione istantanea del valore dell’investimento,
ma non consente la deducibilità degli oneri finanziari: la deduzione è quindi
uguale per definizione al costo dell’investimento.
La prima condizione (vero ammortamento e uguale trattamento fiscale per
capitale di debito e capitale di rischio) fa coincidere l’ammortamento fiscale
con l’effettivo logorio economico dei beni capitali: in questo senso, dato il
vincolo di un ammortamento complessivo pari al costo dell’investimento, il
valore attuale degli ammortamenti consentiti è inferiore al costo dell’investi­
mento. Ma la deducibilità del costo del capitale consente di ridurre il costo
effettivo del capitale impiegato dall’impresa. Il risultato finale è che il valore
attuale delle deduzioni dall’imponibile dell’impresa coincide con il valore
dell’investimento.
6.4. Allowance for corporate equity (ACE)
Abbiamo visto che la neutralità dell’imposta societaria nei confronti di un
investimento finanziato con azioni si ottiene quando è consentita la deduci­
bilità del costo del capitale azionario, in equilibrio e prescindendo dai fattori
di rischio pari al costo del debito.
104 Capitolo 3
A questo esito, in termini tendenziali, porta una norma introdotta in Italia
nel 2011, denominata Aiuto alla crescita economica (ACE), che ammette in
deduzione un importo corrispondente al rendimento nozionale del nuovo
capitale proprio. Per i primi tre anni di applicazione della norma il rendi­
mento riconosciuto è pari al 3%. Dal quarto periodo d’imposta l’aliquota
percentuale per il calcolo del rendimento nozionale del nuovo capitale pro­
prio è determinata ogni anno tenendo conto dei rendimenti finanziari medi
dei titoli obbligazionari pubblici, aumentabili di ulteriori tre punti a titolo di
compensazione del maggiore rischio.
Il capitale proprio in relazione al quale si commisurano gli incrementi, e quindi
il rendimento nozionale deducibile, è quello esistente al 31 dicembre 2010.
6.5. Cash flow corporation income tax
L’ulteriore ipotesi di neutralità dell’imposta sui profitti, ottenibile con inde­
ducibilità degli oneri finanziari e deducibilità immediata delle spese in conto
capitale, è verificata dalla «cash flow corporation income tax» [Di Majo 1986]
originariamente proposta dal rapporto Meade [Meade Committee 1978].
In questo schema la base imponibile dell’imposta sulle società si ottiene
sottraendo dai ricavi, oltre ai costi di lavoro e di acquisti da altre imprese, le
spese di investimento. Non è invece concessa alcuna deduzione per gli oneri
finanziari.
Indicando con B la base imponibile, con R i ricavi, con L il monte salari,
con M gli acquisti da altre imprese, con I gli investimenti, possiamo scrivere:
B=R-L-M-I
Per gli schemi di contabilità nazionale il valore aggiunto al netto degli inve­
stimenti (VA) coincide con la somma di salari (L), dividendi (D), utili non
distribuiti (UN) e interessi passivi netti (F):
VA = R - M = L + D + UN + F
Possiamo quindi esprimere la base imponibile nel modo seguente:
B = VA - L - I
Esplicitando le componenti del valore aggiunto e semplificando si ottiene:
B = D + UN + F - I
La base imponibile dell’imposta coincide con la remunerazione del capitale
impiegato dall’impresa a qualsiasi titolo e quale che sia la destinazione, al
netto degli investimenti. Deve essere sottolineata la straordinaria semplicità di
un’imposta di questa natura che non richiede la valutazione necessariamente
IRES 105
arbitraria delle quote di ammortamento e non discrimina fra le diverse forme
di finanziamento e di destinazione degli utili, oltre a non modificare le scelte
di investimento dell’impresa.
Nonostante la sua semplicità la cash flow corporation income tax non ha mai
avuto concrete applicazioni per molti motivi. Sono stati avanzati timori di
caduta del gettito: in contesti dinamici con investimenti crescenti il debito
di imposta potrebbe essere permanentemente negativo. Esistono rilevanti e
ancora irrisolti problemi di coordinamento internazionale di un’imposta di
questo tipo, particolarmente evidenti nell’ipotesi di non adozione simultanea
da parte di tutti i paesi. Esistono infine problemi di transizione dall’attuale
sistema di imposizione, fondato sul reddito d’impresa, a quello riconducibile
ai flussi di cassa.
7. LA TASSAZIONE DEI GRUPPI
Abbiamo già osservato che le plusvalenze o minusvalenze realizzate su parte­
cipazioni che costituiscono immobilizzazioni finanziarie nella misura del 5%
concorrono alla formazione del reddito d’impresa. Si tratta di un’innovazione
contenuta nella riforma del 2003 che, per quanto riguarda le minusvalenze
derivanti da perdite operative (che in passato consentivano la svalutazione
della partecipazione), implica, in assenza di correttivi, una tassazione «ecces­
siva» del reddito d’impresa (proprio perché non si tiene conto dei risultati
negativi delle imprese partecipate).
Per circoscrivere questo fenomeno sono stati introdotti due istituti: il conso­
lidato fiscale e l’imputazione per trasparenza dei redditi delle società ai soci.
L’istituto del consolidato consente la somma algebrica dei profitti e delle
perdite delle società appartenenti a un gruppo che optano per il regime
di consolidamento. In pratica si determina il risultato del gruppo in capo
alla società controllante, che è tenuta al pagamento unificato delle imposte
dovute. Per le società aderenti al consolidato, tutti i dividendi erogati all’in­
terno del gruppo sono esenti da imposte (quando invece, come sappiamo, il
5% dei dividendi entra nella base imponibile dell’impresa che li percepisce).
L’imputazione per trasparenza si applica invece quando una società di capitali
è controllata esclusivamente da altre società di capitali con una compagine so­
cietaria ristretta (ogni socio deve detenere almeno il 10% del capitale sociale).
In questo caso i redditi della società partecipata sono attribuiti direttamente
alle società partecipanti, evitando ogni imposizione dell’impresa partecipata.
Anche in questo caso è quindi possibile la compensazione di eventuali per­
dite dell’impresa partecipata con i profitti delle imprese detentrici di una
partecipazione sociale.
Come si è già detto, la tassazione per trasparenza si applica anche ai soci
persone fisiche di società a responsabilità limitata in cui il numero dei soci
non sia superiore a 10. Si applica in altre parole lo stesso sistema previsto per
le società di persone.