Veritas sine intellecto

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Veritas sine intellecto
Il vero, riprendendo la definizione di Tommaso d’Aquino presente nelle sue Quaestiones disputatae
de veritate, è la perfetta corrispondenza tra la cosa e il pensiero della stessa (o la conoscenza di
essa).
Tale formulazione però non si sbilancia né dalla parte dell’intelletto: quindi la verità è
l’adeguazione della conoscenza alla cosa; né dalla parte della cosa: quindi la verità è l’adeguazione
della cosa alla conoscenza.
Questa formulazione trova il suo fondamento nella fede teologica cristiana, in quanto pone
l’esistenza delle cose che sono solo in quanto corrispondono all’idea anticipatamente pensata
nell’intelletto divino.
La religione cristiana è un sincretismo di monoteismo e filosofia ellenica, ed ha radicato
ulteriormente il concetto che esistano verità assolute e ben definite: “Dio è verità” in primo luogo.
Al pensatore occidentale non si mostrano altre possibilità oltre alla ragione e alla fede.
Si può affermare che il pensiero occidentale crei una struttura di tipo logico-discorsiva sopra alcune
premesse di tipo fideistico (nel campo della religione) o di “evidenza empirica” (nel campo della
scienza).
La definizione della verità sembra uno dei problemi filosofici più difficili.
Bisogna ora fare una distinzione tra verità relativa e verità assoluta.
Per ciò che riguarda le verità relativa la definizione di Tommaso d’Acquino fornisce un metodo
assai rigoroso e preciso per stabilire la verità, ponendola come corrispondenza tra oggetto e idea
dell’oggetto; il problema si pone, con Kant, quando la realtà intrinseca dell’oggetto non è
conoscibile in sé, ma ciò che è conoscibile è la nostra percezione di tale oggetto, operando la
classica distinzione tra fenomeno e noumeno.
È quindi possibile che vi sia una corrispondenza tra la realtà noumenica di un oggetto e l’idea che
abbiamo di esso relativo alla sua realtà fenomenica?
Vi può essere corrispondenza alcuna tra ciò che non si può conoscere e ciò che si conosce?
E ammesso che vi possa essere tale corrispondenza, perdurerebbe nel tempo in modo da rendere tale
verità assoluta?
Già i primi filosofi si erano accorti della natura cangiante, in divenire della realtà, tale visione
assume un carattere contraddittorio con Gorgia: in quanto l’essere si fa non essere per poi ritornare
essere; sarà Aristotele a risolvere tale contraddittorietà affermando che il divenire sia
semplicemente il passaggio da un certo tipo di essere a un altro tipo di essere, l’unica realtà è
l’essere e il divenire è solo la sua modalità.
Con la distinzione tra atto e potenza, ovvero la possibilità da parte della materia di assumere una
determinata forma, Aristotele fornisce un’anticipazione seppur minima delle teorie della fisica
quantistica: una particella prima di “collassare” entro una realtà definita e limitata è potenzialmente
tutto e niente, un intervallo di probabilità inconoscibili.
Tutto questo per dire quanto poco la nostra idea di un oggetto posso corrispondere all’oggetto
stesso.
Prendiamo innanzitutto in esame le condizioni necessarie affinché la corrispondenza prima presa in
considerazione possa essere perfetta.
Da una parte vi è la “cosa”, il “fatto”, intendendo con quest’ultimo tutto ciò che rientra nella sfera
dell’esistenza.
Dall’altra parte vi è la conoscenza di tale cosa, che potremmo assimilare al linguaggio, in quanto
tutto ciò che viene “conosciuto” è esprimibile attraverso esso, quindi l’idea di un oggetto può essere
identificata con il linguaggio che esso assume in quanto idea.
Quindi in sostanza la verità sta nella perfetta corrispondenza tra fatto e linguaggio.
È dunque possibile che una proposizione del linguaggio umano sia corrispondente in modo assoluto
con un fatto assoluto?
Il fatto stesso che si tratti del linguaggio “umano” fa sì che una corrispondenza incondizionata,
assoluta sia impossibile, dato che l’uomo, e quindi il suo linguaggio, per sua natura è limitato.
Nessuna proposizione del linguaggio umana può esprimere l’assoluto. Il linguaggio umano,
indissolubilmente con la ragione umana, a sua volta legata alla natura umana in generale, introduce
di per sé una limitazione in ciò che può esprimere.
Verità assoluta è quindi inesprimibile. Si può allora pensare di togliere completamente di mezzo il
linguaggio. A questo punto, però, l’argomentazione filosofica, che per sua natura fa ricorso al
linguaggio, si ferma: “Soltanto la piena consapevolezza dell’inaccessibilità della verità assoluta
discorsiva ci permette di riportare ogni questione nella sua propria sfera”.
Cosi quando si è compreso che tutte le domande metafisiche non hanno senso, dice Wittgenstein, e
che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, non riamane più alcuna domanda.
Mi piacerebbe concludere con un pensiero di Siddharta, protagonista del romanzo di Hesse: “Una
verità si lascia enunciare e tradurre in parole soltanto quando è unilaterale. E unilaterale è tutto ciò
che può essere concepito in pensieri ed espresso in parole, tutto unilaterale, tutto dimidiato, tutto
privo di totalità, di sfericità, di unità”.
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