l`età di carlo d `asburgo prof . daniele casanova

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“L’ETÀ DI CARLO D’ASBURGO”
PROF. DANIELE CASANOVA
L’età di Carlo d’Asburgo
Università Telematica Pegaso
Indice
1
L’ASCESA DI CARLO D’ASBURGO ------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
L’OSSESSIONE TURCA ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
3
L’ASSETTO POLITICO DELL’EUROPA ------------------------------------------------------------------------------- 9
4
LE REGGENZE BARBARESCHE---------------------------------------------------------------------------------------- 11
5
LA MERCE UMANA -------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13
CRONOLOGIA ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 16
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 17
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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L’età di Carlo d’Asburgo
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1 L’ascesa di Carlo d’Asburgo
Alla morte dell’imperatore Massimiliano (1519) si aprì il problema della sua successione. I
due maggiori protagonisti dell’accordo di Noyon, Francesco I e Carlo d’Asburgo (1516-1554),
risultarono i principali candidati alla successione imperiale: da allora cominciò quel lungo scontro
franco-asburgico che caratterizzò la storia europea della prima metà del Cinquecento. Alla propria
potenza economica e militare, la monarchia francese aggiungeva il controllo dell’Italia
settentrionale; l’Asburgo possedeva la Castiglia, l’Aragona, i Paesi Bassi, l’Austria e parte della
Germania, ma aveva altresì il possesso del Napoletano, della Sicilia, della Sardegna, della Franca
Contea e delle colonie americane, una concentrazione territoriale senza precedenti, che accerchiava
da ogni parte la Francia e gli avrebbe consentito di avere a propria disposizione una forza
economica risolutiva nei confronti del rivale.
L’attribuzione della Corona imperiale a uno dei due maggiori contendenti avrebbe inciso in
un modo o in un altro su tutto l’equilibrio politico europeo e mediterraneo: il monarca francese
avrebbe consolidato le posizioni in Italia ed esteso la sua influenza sull’Europa centrosettentrionale, quello spagnolo avrebbe completato il proprio disegno egemonico, cioè quello di
ristabilire in Europa un potere superiore a quello di tutti i sovrani, il potere dell’impero. A far
volgere il peso della bilancia a vantaggio del monarca spagnolo, divenuto Imperatore col titolo di
Carlo V nel giugno del 1519, furono, però, i ricchi mercanti europei e soprattutto Jacob Fugger, il
grande banchiere di Augusta. Carlo d’Asburgo per comprarsi i voti dei principi tedeschi necessari
per la sua elezione spese più di 850.000 fiorini, pari a circa 2 tonnellate di oro, dei quali oltre la
metà gli furono forniti dai Fugger e il resto dai Welser, anch’essi originari della città di Augusta, dai
Gualterotti di Firenze, dai Fornari e dai Vivaldi di Genova, i quali furono ricompensati con una
serie di vantaggiose concessioni sulle rendite dei suoi domini e delle colonie americane.
Nato a Gand nel 1500 dal matrimonio di Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando e Isabella,
con Filippo d’Asburgo, l’erede dell’imperatore Massimiliano, Carlo era cresciuto nell’ambiente
culturale della corte di Borgogna, dov’era stato educato da Adriano di Utrecht, il futuro papa
Adriano VI (1522-1523), e dalla zia paterna Margherita d’Asburgo, reggente in suo nome sui
domini fiamminghi. All’età di appena 16 anni, a causa della pazzia della madre e della prematura
morte del padre avvenuta nel 1506, divenne erede col nome di Carlo I del vasto Impero spagnolo,
un regno, sino a quel momento, a lui lontano ed estraneo verso il quale si recò per la prima volta
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soltanto per prenderne possesso nel 1517. I Grandi di Spagna, cioè i maggiori dignitari aragonesi e
castigliani, lo ricevettero con molta diffidenza – il sovrano parlava francese e non si era curato di
imparare il castigliano o il catalano – e accolsero con disappunto, dopo la morte del nonno paterno,
la sua decisione di candidarsi alla successione dell’Impero, perché temevano che avrebbe trascurato
la Spagna. Carlo d‘Asburgo, dotato di un’eccezionale acume politico, non fu il primo e né l’ultimo
che desiderasse, per usare le parole dei suoi avversari, ‘diventare padrone del mondo’, ma per
compiere il suo disegno universalistico, per diventare la guida morale e politica della Cristianità,
accanto alla risoluzione dei problemi interni ai suoi estesi domini, fu obbligato a combattere su tre
fronti. Innanzitutto dovette fronteggiare i francesi per il predominio in Italia, poi affrontare il
movimento protestante e, infine, tentare di arginare la potenza turca nell’Europa centro-orientale e
nel Mediterraneo; un impegno, quest’ultimo sancito nel testamento dei Re Cattolici, che gli
affidavano il regno purché s’impegnasse nella “conquista de l’Africa y de pugnar por la fé contra
los infelies”. La momentanea sistemazione dell’Italia dopo la pace di Cambrai (1529) consentì
all’imperatore di potersi dedicare con più energia alla risoluzione dei problemi all’interno
dell’impero e dei suoi domini diretti, tra cui le questioni relative alle Fiandre e alla riforma luterana,
che dal 1521 aveva diviso il mondo cattolico.
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2 L’ossessione turca
La rivalità con i francesi per il predominio in Italia e lo spostamento degli interessi della
monarchia asburgica verso l’Europa centrale, determinarono per la Spagna il mancato
completamento della conquista delle piazzeforti sulla costa dell’Africa settentrionale prospicienti la
penisola iberica, e ciò favorì la crescente influenza ottomana sulle coste libiche, tunisine e algerine.
Inoltre, i turchi, dopo la conquista di Siria ed Egitto (1517), per assicurarsi i collegamenti tra
Istanbul e i porti del Levante, nel 1522 espugnarono l’isola di Rodi, dal 1309 in mano ai Cavalieri
di S. Giovanni. L’ordine militare, fondato a Gerusalemme subito dopo la prima Crociata, a cui era
affidata la cura e la protezione dei pellegrini diretti in Terra Santa, fu costretto a rifugiarsi prima a
Tripoli e poi dal 1530 si stabilì a Malta. Per gli spagnoli il Mediterraneo diventava sempre più un
mare insicuro e sulle coste nordafricane i corsari barbareschi diventavano sempre più pericolosi e
minacciavano gravemente le comunicazioni tra la Spagna e l’Italia.
Le occupazioni militari avvenute al tempo di Ferdinando delle città costiere nord africane
(Orano, Algeri, Tripoli, ecc.,) indussero gli abitanti di Algeri, dove gli spagnoli avevano installato
su un isolotto la fortezza del Peñon, a sollecitare l’intervento dei fratelli Barbarossa, Aruc e Khayr
ed Din. Originari dell’isola di Lesbo, probabilmente figli di un albanese al servizio del sultano
ottomano, i due fratelli dal 1504 conducevano nel Mediterraneo occidentale un’energica guerra di
corsa contro i cristiani. Così com’era già accaduto per altre località maghrebine, i due capi corsari
nel 1515 si impadronirono di Algeri, e dopo la morte di Aruc, avvenuta nel 1518 durante uno
scontro con gli spagnoli, Kayr ed Din per consolidare il suo potere si dichiarò vassallo di Selim I
(1512-1520) e ne ricevette protezione e aiuto. Il sultano lo nominò beylerbey, inviò duemila uomini
armati e autorizzò l’imbarco di quattromila volontari, ai quali accordò i privilegi dei giannizzeri, la
potente fanteria dell’Impero ottomano. Da quel momento il porto di Algeri divenne la base
principale della corsa turca nel Mediterraneo occidentale e in città fu costituito un sistema di
governo simile a quello delle altre province ottomane, caratterizzato dall’imposizione di tributi alle
popolazioni locali e dall’organizzazione di un sistema politico-amministrativo controllato dalla
Porta. Ma, vista l’importanza della guerra di corsa, che oltre all’aspetto militare e religioso,
contribuiva alla prosperità della nuova Reggenza, i corsari furono organizzati in una corporazione
che ebbe un ruolo importante nelle decisioni governative. Dopo aver assunto il potere nel nascente
stato algerino, Barbarossa si dimostrò un capo carismatico e dotato di un forte acume politico e
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militare. Coadiuvato da audaci e giovani luogotenenti, quasi tutti rinnegati destinati a compiere una
brillante carriera militare sotto l’insegna della mezzaluna, come Dragut, i calabresi Occhiali e
Carascosa, il genovese Ajdin e il siciliano Cicala, organizzò gli equipaggi barbareschi
trasformandoli in reparti ben addestrati e disciplinati, e nel giro di un decennio conquistò le città di
Bona, di Costantina e sottrasse agli spagnoli il Peñon, la rocca fortificata all’imbocco del porto di
Algeri (1529).
La situazione per gli spagnoli si fece ancora più difficile dopo il 1532, quando per
controbilanciare l’occupazione di Corone nella Morea da parte del genovese Andrea Doria, passato
dalle fila francesi a quelle spagnole, il sultano nominò Barbarossa kapudan pascià, cioè
grand’ammiraglio di tutta la flotta turca. Per oltre un decennio, sino alla morte avvenuta nel 1544,
Barbarossa tenne in scacco le marinerie cristiane. Con più di cento navi saccheggiò le coste
dell’Italia meridionale sino alla foce del Tevere, poi nel 1534 rivolse le sue forze contro Tunisi e le
altre città costiere tunisine, snodi vitali per i traffici spagnoli e per il controllo del Canale di Sicilia,
e pose, temporaneamente, fine all’alleanza tra Hafsidi e spagnoli. I domini mediterranei
dell’Imperatore erano ora seriamente minacciati, non solo dai corsari, ma da tutta la forza navale del
potentissimo impero rivale che impediva di fatto la circolazione delle navi spagnole, in un punto
strategico per le rotte commerciali marittime e rendeva difficili i collegamenti tra le varie parti
dell’Impero. In pratica la posta in gioco era il controllo del Mediterraneo centrale: la vittoria degli
spagnoli avrebbe protetto i domini mediterranei e interrotti i contatti fra il Barbarossa e Istanbul; il
successo dei turchi, invece, avrebbe mantenuto unite le forze musulmane e aperto la via a un attacco
in forze contro l’Italia e il Mediterraneo occidentale.
Carlo V quando operò nel Mediterraneo disponeva di un vasto impero. Egli, pertanto,
nonostante le divergenze col papato, lo scisma religioso e la rivalità con il monarca francese,
rappresentava ancora il difensore della Cristianità, e per di più i suoi domini italiani si trovavano,
come non era mai accaduto in passato, seriamente minacciati dall’inarrestabile espansione
ottomana. Impiegando non solo i prestiti dei grandi finanziari tedeschi e italiani, le entrate fiscali e i
sussidi votati dalle Cortes spagnole e italiane, ma anche i primi contingenti d’oro e d’argento
provenienti dal Nuovo Mondo, l’imperatore allestì un’imponente spedizione contro Tunisi formata
da quattrocento navi e trentamila uomini, ne assunse il comando diretto e per immortalare l’evento
portò con sé il pittore Jan Vermeyene e il poeta Garcilaso de la Vega. La conquista di Tunisi nel
1535 fu probabilmente il suo più grande trionfo, ma l’impresa non ebbe effetti risolutivi. Barbarossa
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già dopo qualche settimana rispose all’attacco spagnolo assalendo e devastando Port Mahòn
nell’isola di Minorca.
La volontà di riprendere una guerra contro i musulmani non era mai venuta meno
all’Imperatore, ma essa non andava disgiunta da una disinvolta visione della situazione
mediterranea, la quale suggeriva di affiancare all’azione militare quella diplomatica, così come
aveva fatto in funzione antispagnola Francesco I dopo l’espulsione francese dalla penisola italiana.
Il re transalpino, infatti, per controbilanciare le sconfitte subite in Italia e colpire il rivale cercava
un’intesa con tutti i potenziali nemici dell’Asburgo: dai principi luterani ai re di Svezia e Danimarca
sino al sultano turco, col quale, dopo la riconquista di Tunisi operata dall’imperatore, non esitò a
stipulare una serie di trattati commerciali a cui si aggiungevano reciproci impegni militari, in parte
segreti, tra cui la possibilità alle navi ottomane di trovare riparo nei porti provenzali. L’erede del re
Cattolico cercò, quindi, di trovare un’intesa prima con lo scià Safavide per impegnare Solimano su
due fronti, e poi cercò di trattare col Barbarossa per farlo passare, così come aveva fatto con Andrea
Doria, nel campo spagnolo. Le trattative fallirono. I turchi, dopo aver cercato di attirare Venezia
nell’orbita dell’alleanza turco-francese, nel 1537 bloccarono il Canale di Otranto e sferrarono un
attacco all’isola veneziana di Corfù, dando inizio al terzo conflitto con la Serenissima (1537-1540).
Nonostante la superiorità della coalizione veneta-imperiale, comandata dal Doria, la flotta ottomana
guidata dal Barbarossa riportò un importante successo nelle acque dell’antico golfo ionico di Azio,
a Prevesa, nel settembre del 1538. La sconfitta della lega cristiana, causata soprattutto dalla
reciproca diffidenza fra veneziani e spagnoli, spinse nel 1540 la Serenissima a siglare un trattato di
pace separato con la Porta, che prevedeva un risarcimento di trecentomila ducati e la cessione di
alcune fortezze veneziane sulla terraferma greca e di diversi presidi nelle Cicladi e in Dalmazia. La
Repubblica di Venezia, da allora, dovette affrontare contro i turchi costosissime guerre difensive
appoggiandosi, spesso, ad alleanze con la Spagna, i cui interessi divergevano enormemente da
quelli veneziani, in quanto mentre per la difesa degli interessi commerciali lagunari era importante
colpire l’Impero ottomano nel Levante, per gli Asburgo si trattava di respingere la pressione turca
dalla zona danubiana e di proseguire la politica di espansione nel Mediterraneo occidentale avviata
con la riconquista di Tunisi.
Le vittoriose imprese turco-barbaresche costituivano una grave minaccia per tutto
l’Occidente e le deboli linee di difesa erette nel Levante da Genova, Venezia e dai cavalieri di San
Giovanni, si mostravano insufficienti ad arginare il ‘pericolo turco’ nel Mediterraneo. Dopo la
battaglia di Prevesa, la superiorità navale ottomano-barbaresca era più che evidente e per oltre un
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trentennio, sino a Lepanto, il blocco cristiano non riuscì a opporre una significativa reazione. La
spedizione contro Algeri guidata dallo stesso imperatore nell’ottobre del 1541, forte di una poderosa
flotta e di oltre ventimila uomini si era risolta in un disastro a causa di un improvviso fortunale che
si abbatté sulla flotta imperiale distruggendone quasi la metà delle navi. Dopo la disfatta imperiale
dell’impresa di Algeri, i turchi, potendo anche disporre degli approdi francesi alle navi ottomane,
passarono al contrattacco e cercarono di approfittare della situazione per estendere il loro dominio
sulle coste nordafricane. In pratica, tranne qualche enclaves europea, in tutto il nord Africa solo il
Marocco atlantico restò fuori dalla dominazione ottomana.
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3 L’assetto politico dell’Europa
Il carattere composito dell’Impero asburgico se conferiva a Carlo un grande prestigio e una
notevole influenza sull’assetto continentale, rendeva estremamente difficile il conseguimento di una
‘pax asburgica’, tanto agognata dal sovrano. Mentre l’Imperatore era impegnato a contrastare i
turchi nel Mediterraneo, Francesco I decise di affrontare per la terza volta il rivale sul suolo italiano.
Dopo la morte nel 1536 di Francesco Sforza, il Ducato di Milano, così come previsto dagli accordi
di Cambrai, doveva passare definitivamente alla Spagna, ma il monarca francese d’intesa con
Solimano il Magnifico, che impegnava le forze imperiali sul fronte ungherese, riaffermò le vecchie
pretese francesi sul ducato e occupò il Piemonte, rendendo difficili i collegamenti via terra tra i
domini imperiali. Per ridurre l’offensiva francese che dal Piemonte minacciava di invadere il
Milanese, Carlo stipulò un’alleanza con Venezia per combattere la flotta ottomana-barbaresca e
trovò un’intesa con Paolo III (1534-1549), Alessandro Farnese, il pontefice che commissionò a
Michelangelo i lavori della Cappella Sistina. Allo stesso tempo l’Imperatore avviò trattative con
l’Inghilterra e con i nemici settentrionali dei turchi, soprattutto con la Polonia e la Russia. Dopo tre
anni di guerra e devastazioni che colpirono in particolar modo la Provenza, si arrivò alla tregua di
Nizza (1538). Ma le ostilità tra i due contendenti ripresero nuovamente nel 1541.
L’ennesima pace conclusa a Crépy (1544), non portò ad alcun risultato e le posizioni
rimanevano ancora immutate. I francesi rinunciavano ai diritti su Napoli, gli spagnoli alla
Borgogna, la questione di Milano e quella del Piemonte, occupato dai francesi, rimanevano irrisolte.
Tuttavia gli accordi di Crépy consentirono all’imperatore di concentrare i suoi sforzi sulla questione
protestante. Il problema tedesco era particolarmente spinoso per la convergenza di interessi tra il
movimento protestante e le ambizioni dei principi territoriali tedeschi. In un primo momento Carlo
pensava di ricomporre la questione cercando di avviare una generale riforma all’interno della
Chiesa cattolica, ma il fallimento della sua azione, dovuta all’opposizione degli ambienti romani e
alla rapida adesione di molti principi tedeschi al luteranesimo, lo costrinsero a rivedere la sua
posizione e a risolvere il problema con la forza soprattutto dopo che la Lega di Smalcalda, una
coalizione di città e principi protestanti formata nel 1531, organizzata e dichiaratamente ostile
all’imperatore iniziò a collegarsi con la Francia. Non appena fu possibile a Carlo disporre dei
necessari mezzi finanziari, fu organizzata una nuova campagna militare contro la Lega tedesca che
si concluse con la vittoria di Muhlberg (1547), un successo importante, immortalato dal famoso
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dipinto di Tiziano che ritrae l’imperatore vittorioso a cavallo, ma che non riuscì a risolvere il
problema religioso in Germania.
Neanche la morte di Francesco I mise fine alle guerre tra i due Stati che si contendevano il
primato in Italia e in Europa. Enrico II (1547-1559), secondogenito di Francesco, riprese la lotta
contro Carlo, riconfermò l’alleanza con Solimano e stipulò un accordo con i principi luterani. Dopo
aver spinto la Corsica a ribellarsi contro la Repubblica di Genova, quest’ultima dal 1528 alleata
degli spagnoli, e fomentato la ribellione di Siena anch’essa sotto il dominio spagnolo, Enrico II
concentrò le sue forze, anziché sull’Italia, in direzione della Germania con l’obiettivo di estendere i
confini francesi fino al Reno. Nel 1552 in combutta con i principi luterani occupò i vescovadi
lorenesi di Metz, Toul e Verdun, fino ad allora sotto il controllo imperiale, benché territori di lingua
francese. Sembrava profilarsi un nuovo scontro, ma all’improvviso, il vecchio Imperatore, ormai
stanco di oltre un trentennio di logoranti guerre che avevano impoverito i suoi domini e
consapevole, ormai, che il suo sogno egemonico era irrealizzabile, si ritirò a vita privata. Prima, di
appartarsi in una villa vicino al monastero di San Jeronimo de Juste in Estremadura, dove morì nel
1558, stipulò una tregua con i francesi a Vaucelles e con i protestanti tedeschi ad Augusta (1555),
con la quale si mise temporaneamente fine nei territori imperiali, dopo trent’anni, a una guerriglia
tra cattolici e luterani e furono stabiliti i principi fondamentali per regolare la convivenza tra
cattolici e protestanti all’interno dell’Impero. Nello stesso tempo, divise il suo Regno in due parti
con l’intento di salvaguardare la pace e conservare il predominio della sua dinastia in Europa. Al
fratello Massimiliano andò la Corona imperiale e i domini austriaci, mentre al figlio Filippo
toccarono gli altri domini europei e le colonie nel Nuovo Mondo della casa di Spagna.
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4 Le Reggenze barbaresche
Nei primi anni del Cinquecento, lo si è visto, lo spazio islamico mediterraneo presentava al
pari di quello cristiano divisioni al suo interno. Nel bacino meridionale, da Tripoli a Fès,
sopravvivevano ancora una serie di signorie islamiche rette da dinastie autoctone berbere e arabe,
caratterizzate dalla spiccata autonomia delle singole tribù nei confronti del potere centrale e dalla
forte autonomia delle città costiere che, come in passato, praticavano l’attività corsara. Nella parte
orientale, accanto all’Impero ottomano, vi erano due entità politico-militari di una certa importanza:
il Sultanato mamelucco in Egitto, considerato la principale potenza del mondo islamico, e quello
safavide in Persiasorto nel 1500, che costituiva una continua minaccia per i turchi, non solo sul
piano militare ma anche su quello religioso (sunniti contro sciiti). La nuova dinastia dei Safawiyya
con a capo il giovane sceicco Ismail I (1502-24), arrivò a conquistare la città di Baghdad (1504) e
impose la dottrina sciita duodecimana come religione del nuovo stato.
La pressione del Regno persiano, il cui capo esercitava una forte attrazione sui nomadi
dell’Anatolia orientale e fomentava continue ribellioni nella zona di confine tra i due regni, divenne
la principale preoccupazione del figlio di Bayazed II, il sultano Selim I, salito al trono dopo aver
ucciso i fratelli e costretto il padre all’esilio. Nel momento in cui l’Impero ottomano attraversava
una grave crisi, il nuovo sultano, passato alla storia con l’appellativo del ‘Crudele’, temendo la
formazione di una coalizione egiziano-persiana, attaccò prima i Safavidi sconfiggendoli in Iran
nella piana di Caldiran (1514) e poi con una breve ma violenta campagna militare condusse le
proprie armate contro i Mamelucchi che furono sconfitti nel 1516 nei pressi di Aleppo. La
successiva occupazione dell’Egitto determinò il crollo dell’Impero mamelucco che regnava da oltre
due secoli e mezzo su Egitto, Siria, Palestina e Arabia occidentale. Le operazioni militari condotte
da Selim fecero dell’Impero turco la prima potenza del mondo islamico e del suo sultano il
difensore della fede musulmana e il protettore delle due città sante dell’Islam: la Mecca e Medina.
Ciò conferì, come è ovvio, al sultano un fortissimo prestigio in tutto il mondo musulmano e favorì
l’inserimento degli Ottomani nelle dinamiche politiche delle regioni nordafricane minacciate dagli
attacchi europei.
A Tunisi, dopo l’impresa di Carlo V che aveva subito ripristinato il protettorato ispanico
(1535), gli ultimi sovrani Hafsidi dovettero destreggiarsi per un quarantennio tra turchi e spagnoli,
sino a quando la città non fu definitivamente conquistata da Sinan Pascià (1574), che diede alla
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Reggenza di Tunisi un organizzazione simile a quella di Algeri. Stessa sorte toccò a Tripoli
nell’agosto del 1551, quando una potente flotta turco-barbaresca, comandata da Dragut, attaccò la
città e costrinse alla resa i Cavalieri di San Giovanni. Anche in Tripolitania, come per le altre due
province maghrebine fu instaurato un protettorato ottomano. A eccezione del Regno di Marrakech,
nel Marocco occidentale, appoggiato dagl’inglesi per rompere il monopolio portoghese sulla costa
atlantica nordafricana, alla metà del Cinquecento tutto il litorale mediterraneo nord africano, in un
modo diretto o indiretto entrò a far parte del mondo ottomano. Ma le province di Tripoli, Tunisi e
Algeri, le cosiddette Reggenze barbaresche, seppur legate all’impero e poste sotto l’autorità di un
beylerbey nominato dal sultano, col tempo divennero sempre più difficili da controllare. La relativa
lontananza da Istanbul e il disinteresse ottomano per il Mediterraneo occidentale dopo il 1580,
indusse la Porta già alla fine del secolo ad assumere un atteggiamento verso le province maghrebine
prevalentemente rivolto al mantenimento dell’ordine interno e alla difesa delle frontiere. Inoltre, a
determinare nel corso del XVII secolo una sempre più spiccata autonomia delle Reggenze nei
confronti dell’autorità centrale, vi contribuì la vicinanza delle coste europee, che non solo favorì il
notevole flusso di mori fuorusciti dalla Spagna, ma permise l’insediamento di numerosi europei
convertiti all’Islam volontariamente o in seguito alla loro cattura da parte dei corsari. Secondo fonti
occidentali il loro numero tra il XVI e il XVII secolo era di circa trecentomila persone. Definiti dai
cristiani col titolo dispregiativo di rinnegati, essi non solo ebbero un ruolo importante nella vita
politica delle Reggenze e nella guerra di corsa, ma ne favorirono nel corso del XVII secolo una
sorta di ‘occidentalizzazione’.
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5 La merce umana
Negli ultimi anni gli storici del Mediterraneo hanno giustamente attirato l’attenzione
sull’importanza della guerra di corsa durante i secoli dell’età moderna e sugli effetti che essa ebbe
sulla storia mediterranea sino alla fine del XVIII secolo. Le razzie che turchi e barbareschi
condussero con successo sulle coste italiane e spagnole e le incursioni su quelle musulmane da parte
dei Cavalieri di San Giovanni, di quelli di Santo Stefano e dei corsari occidentali, ebbe tra le sue
principali conseguenze la cattura di uomini, donne e bambini, che intensificò tra le sponde del
Mediterraneo quell’antico e lucroso commercio di schiavi. Coloro che venivano catturati erano
considerati proprietà dello stato o di coloro che li avevano presi, e per questo erano oggetto di
vendita e di acquisto. Secondo Bernard Vincent questo tipo di traffico pare abbia interessato circa
due milioni di individui durante i tre secoli dell’epoca moderna, un numero relativamente esiguo se
rapportato al commercio di esseri umani tra l’Africa occidentale e l’America, ma la sua stima
riguarda solamente alcuni paesi europei: il Portogallo, la Spagna e l’Italia.
La massa dei captivi, cioè dei catturati, al pari degli altri schiavi, veniva negoziata sui grandi
mercati. Nella parte cristiana i principali si trovavano a Malta e a Messina, in quella musulmana ad
Algeri, Tunisi, Tripoli e Istanbul, quest’ultimo mercato era nelle mani dei commercianti e degli
intermediari ebrei. Le condizioni e il trattamento a cui venivano sottoposte le persone catturate
variavano molto e dipendevano da numerose circostanze. Il loro impiego maggiore fu sulle navi.
Quasi tutte le marinerie, cristiane e ottomane, accanto a rematori volontari, come i buonavoglia
spagnoli, prevedevano l’uso massiccio di schiavi e galeotti. Le proporzioni cambiavano a seconda
delle marinerie. In generale la maggioranza dei vogatori, a eccezione di Venezia che ingaggiava per
lo più rematori salariati, era reclutata tra gli schiavi e i forzati. I turchi da parte loro non si
preoccupavano di arruolare marinai greci islamizzati. Naturalmente gli schiavi non provenivano
solo dalle razzie effettuate dalle incursioni sulle coste dai pirati cristiani e musulmani. La guerra
rappresentava una fonte costante di approvvigionamento di prigionieri che venivano poi ridotti in
stato di schiavitù, così come un’altra considerevole fornitura di schiavi proveniva dalle coste
settentrionali e orientali del Mar Nero, un traffico, quest’ultimo, gestito prima da genovesi e
veneziani e poi a partire dalla fine del XV secolo dagli ottomani.
È superfluo sottolineare che lo stock di schiavi disponibile sul mercato, la cui compravendita
era regolamentata e soggetta a tassazione, eccedeva di molte centinaia di migliaia il fabbisogno
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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delle ciurme, per cui l’impiego di schiavi non si limitava solo alle marinerie. A metà del
Cinquecento a Napoli pare vi fossero circa ventimila schiavi, nello stesso periodo in Spagna ve ne
erano oltre centomila. La richiesta di schiavi sia nel mondo ottomano e sia in quello cristiano era
molto forte, per cui coloro che detenevano il commercio degli esseri umani non si facevano alcuno
scrupolo di piazzare a ogni costo la merce, contravvenendo ai divieti imposti dalle autorità religiose
e statali. Il Tribunale maltese dell’Inquisizione, per esempio, processò molti trafficanti europei che
avevano venduto per musulmane donne battezzate. Nel mondo cristiano i prigionieri musulmani
erano impiegati in lavori duri e avvilenti, come per esempio il restauro dell’Alcazar di Siviglia o la
costruzione del porto, delle fortificazioni e dell’arsenale di Cadice, inoltre erano utilizzati come
manodopera nelle saline, nelle miniere, nelle pulizie delle fogne, nel trasporto dell’acqua, e
così via. Stessa cosa accadeva nel mondo ottomano. Così l’arsenale di Istanbul impiegava migliaia
di schiavi che lavoravano in condizioni atroci e il tasso di mortalità era molto elevato. Altri, invece
erano utilizzati nei grandi cantieri per la costruzione di moschee, come taglialegna nelle foreste,
oppure erano al servizio degli artigiani e dei negozianti di Algeri, di Tunisi o di Istanbul. Gli uomini
e le donne di bell’aspetto e quelli alfabetizzati, scampavano ai lavori duri; spesso, erano offerti in
regalo al sultano oppure ai notabili ottomani. In questi casi gli uomini erano impiegati come
domestici e guardiani di harem; le donne, invece, come nutrici, serve o concubine, ma erano anche
impiegate nell’industria locale. Naturalmente il traffico riguardava anche i bambini. Scrive
Salvatore Bono:
“La cattura e la circolazione degli schiavi – cristiani e musulmani di ogni professione, ebrei,
africani, animisti – produssero una diffusa mobilità umana che è stata per secoli un tratto
caratteristico della ‘storia del Mediterraneo”.
Le occasioni per riconquistare la libertà erano varie. Nel mondo islamico il matrimonio con
una persona libera o il sopravvivere al proprio padrone comportava l’emancipazione dalla schiavitù.
La stessa legge coranica incoraggiava la liberazione degli schiavi, la cui condizione non poteva
essere ereditaria, e permetteva che a essi fosse corrisposto un salario, in modo tale che col tempo
potessero comprarsi la libertà. Un’altra modalità per riottenere la libertà era rappresentata dagli
eventi bellici che se da una parte fornivano l’opportunità di catturare i nemici, dall’altra rendevano
possibile la liberazione dei propri conterranei ridotti in schiavitù. La battaglia di Lepanto portò alla
liberazione di non meno dodicimila cristiani e la maggior parte dei settemila prigionieri musulmani
fu ridotto in schiavitù. Inoltre, subito dopo le incursioni non era infrequente che i Barbareschi
avviassero negli stessi luoghi di cattura una trattativa per il rilascio dei prigionieri dietro il
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pagamento di un riscatto in denaro. Stessa cosa accadeva sulle coste islamiche. Nel 1613 Ottavio
d’Aragona, dopo la conquista di Chio, negoziò il riscatto di sessanta prigionieri ottomani, tra cui il
comandante della squadra turca e il bey di Alessandria. Per di più, chi veniva deportato nelle città
maghrebine o del Mediterraneo orientale, poteva sperare di essere rilasciato, se nel frattempo non si
fosse convertito all’Islam, grazie all’intermediazione di mercanti europei e islamici o di appositi
organismi pubblici e privati. In particolare, con l’intensificarsi delle razzie barbaresche sorsero
numerose confraternite che provvedevano al pagamento del riscatto degli schiavi cristiani.
In Italia, tali sodalizi sorsero nelle maggiori città a partire dalla quarta decade del
Cinquecento, dopo che l’alleanza franco-turca diede il via libera alla marineria ottomana di
intensificare i suoi raid sulle coste italiane soggette al dominio spagnolo. A Napoli, Roma e
Palermo, la liberazione era affidata a confraternite laiche, che in autonomia decidevano a chi
indirizzare i sussidi per il rilascio, mentre a Genova e a Venezia, tale compito era svolto da apposite
magistrature cittadine che attuarono una forte razionalizzazione degli interventi. Infine, non bisogna
dimenticare l’attività a beneficio dei prigionieri esercitata da diversi ordini religiosi inviati nelle
missioni africane o presenti come redentori.
Nell’isola di Tabarca, per esempio, concessa nel 1540 dal bey di Tunisi alla famiglia
genovese dei Lomellini per la pesca del corallo, fu istituita una zelante missione di padri Cappuccini
che operò la liberazione di molti cristiani anche per conto della Repubblica genovese. Secondo Paul
Sebag, dal 1591 al 1700, il numero di cristiani liberati a Tunisi fu di 3.745 persone. A Napoli, dal
1652 al 1689 il solo Monte delle Sette Opere della Misericordia, uno dei maggiori istituti
assistenziali cittadini, per riscattare cinquecento persone catturate dai turchi e dai Barbareschi erogò
quarantamila ducati. Nel mondo islamico sembra che non vi fossero appositi istituti che si
occupavano della liberazione di schiavi musulmani, essa avveniva per lo più attraverso lo scambio
di prigionieri o per mezzo di trattative private condotte dai parenti che si avvalevano di intermediari
cristiani.
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Cronologia
1516 Carlo I d’Asburgo re di Spagna, diventerà imperatore col titolo di Carlo V nel 1519; il
pirata Barbarossa s’insedia ad Algeri.
1516-1517 Conquista ottomana della Siria e dell’Egitto; fine alla dinastia mamelucca.
1520-1566 Regno di Solimano il Magnifico.
1520 Rivolta dei comuneros in Spagna.
1522 I Turchi conquistano l’isola di Rodi occupata dai Cavalieri dell’ordine di S. Giovanni.
1527 Genova si allea con la Spagna; sacco di Roma.
1530 Carlo V insedia a Malta i Cavalieri di San Giovanni.
1534 I Turchi conquistano Bagdad
1535 Carlo V conquista Tunisi
1537-1540 III conflitto turco-veneziano
1538 Battaglia della Prevesa
1541 Disfatta navale spagnola davanti alle coste di Algeri; l’impero Ottomano si annette
l’Ungheria.
1543 I Turchi svernano a Tolone dopo aver razziato la Corsica e le coste del mediterraneo
occidentale.
1548 Inizio della costruzione delle grandi moschee di Istanbul e di Edirne (Adrianopoli) da
parte dell’architetto Sinan.
1551 I Turchi conquistano Tripoli.
1556 Abdicazione di Carlo V, gli succede nei domini spagnoli Filippo II e in quelli austriaci
Ferdinando d’Asburgo
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Bibliografia
•
Maravall, Potere, onore, élites nella Spagna del secolo d'oro, Il Mulino, Bologna,
1984.
•
R. Mantran (a cura di), Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, 1999.
•
K. Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino, 2001.
•
S. Bono, Un altro Mediterraneo, Salerno editore, Roma, 2007.
•
Musi, L’Europa moderna fra imperi e stati, Guerini e Associati, Roma, 2006.
•
J.B. Wolf, The barbary coast. Algeria under the turks, London-New York, 1979
•
G. Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell'Europa moderna, il
Mulino, Bologna, 2002.
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