Uomo e lupo: l`eterno conflitto

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Uomo e lupo: l’eterno conflitto
(di Mario Andreani)
Da quando l’uomo è diventato allevatore ha riconosciuto nei predatori selvatici un nemico da
combattere con ogni mezzo, tanto da essere legalmente catalogati come “animali nocivi” fino alla
fine del XX secolo. La persecuzione diretta operata dall’uomo è stata la principale causa del declino
delle popolazioni di lupo fino a livelli prossimi all’estinzione. A partire dagli anni 70, i
cambiamenti economici e sociali – spopolamento delle aree montagnose, concentrazione degli
interessi economici e della popolazione nelle aree urbane – hanno portato alla nascita di una
coscienza culturale e ad una maggiore sensibilità naturalista che hanno indotto i legislatori a
riconoscere il valore del patrimonio naturale e faunistico nella loro interezza, promulgando le prime
norme di tutela del lupo in quanto specie di particolare interesse biologico e culturale.
Ma la conflittualità del lupo con gli allevatori è reale e non solo frutto di ignoranza o di una
“subcultura” rurale: il lupo se ne ha l’occasione preda gli animali domestici, soprattutto gli ovini,
così indifesi e facili da catturare. L’uomo allevatore, oltre a perseguitare direttamente il lupo, ha
adottato delle misure di protezione delle proprie greggi: il controllo costante al pascolo, il ricovero
degli animali in recinti sicuri durante la notte e soprattutto l’ausilio dei cani da difesa. In tutte le
regioni in cui lupo e pastori si sono trovati a convivere, dal Caucaso alla penisola Iberica, l’uomo ha
selezionato razze di cani adattate perfettamente a difendere le greggi dagli attacchi del loro antenato
selvatico. Una selezione impostata verso un obiettivo comune che ha prodotto animali del tutto
simili fra loro: molossi di grande taglia, a pelo lungo e di colore chiaro, in grado di mimetizzarsi
all’interno del gregge e di fronteggiare fisicamente i lupi qualora fosse necessario. La scomparsa del
lupo da molte regioni e la riduzione della redditività dell’attività zootecnica nelle aree cosiddette
marginali hanno comportato l’abbandono di quelle pratiche che hanno consentito storicamente al
lupo di convivere con gli allevatori: gli animali domestici vengono lasciati al pascolo incustoditi, i
cani da difesa, la cui preparazione e mantenimento sono divenuti costi superflui, sono scomparsi.
Ma il lupo è tornato. L’abbandono delle montagne, l’istituzione di aree protette e i ripopolamenti
effettuati a scopo venatorio hanno comportato negli ultimi anni un aumento notevole dei
popolamenti di ungulati selvatici, le prede naturali del lupo, che ha quindi potuto, anche grazie ad
una riduzione della pressione persecutoria, tornare ad occupare i territori da cui era stato scacciato.
Il primo impatto è stato disastroso: gli animali domestici hanno perso le naturali capacità di difesa
da predatori che non conoscono e l’uomo, che addomesticandoli se ne è assunto la responsabilità,
per motivi economici non applica più le misure necessarie a proteggerli. Così il lupo si è
immediatamente riconquistato il titolo di “nocivo”, e la persecuzione - anche se oggi illegale continua.
Il cane, un tempo antagonista diretto, è oggi diventato un nemico indiretto del lupo. Sia esso
randagio (senza padrone e in grado di muoversi in ambiente urbano o del tutto silvestre) o
“vagante” (lasciato libero temporaneamente da un padrone da cui farà sicuramente ritorno) il cane è
spesso responsabile dei delitti di cui il lupo paga il prezzo.
Il problema dell’impatto del lupo sulle popolazioni di animali domestici è fondamentale ai fini della
conservazione e gestione della specie e la normativa di tutela del lupo ha quindi sempre considerato
la necessità di prevedere forme di indennizzo per gli allevatori danneggiati, al fine di prevenire
forme di persecuzione e per tutelare gli allevatori, che non devono essere costretti a subire da soli il
costo della conservazione di una specie il cui valore è riconosciuto dall’intera comunità
internazionale. Purtroppo l’applicazione delle misure di indennizzo si complica e perde efficacia a
causa dell’intersezione di diversi livelli legislativi e di competenza. La legge nazionale di
riferimento per la protezione del lupo e l’indennizzo dei danni da esso provocati dovrebbe essere la
L. 157/92 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”,
che include il lupo tra le specie particolarmente protette (Art. 2 comma 1 ). La legge nazionale
delega alle regioni la costituzione e la gestione di un apposito fondo destinato al risarcimento dei
danni arrecati alle produzioni agricole da parte della fauna selvatica, “in particolare quella protetta”.
Purtroppo nell’articolo è stata inserita la solita formula soggetta a libera interpretazione con la
definizione dell’ambito di applicazione in “danni non altrimenti risarcibili”. La regione Emilia
Romagna, nella legge regionale di recepimento della 157/92, L.R. 6/2000 “Disposizioni per la
protezione della fauna selvatica omeoterma e per l’esercizio dell’attività venatoria”, attribuisce alle
Province la competenza per il
risarcimento dei danni provocati dalla fauna selvatica protetta e
nell’ambito delle aree sottratte all’esercizio venatorio (art. 17). Istituisce inoltre il fondo regionale
per il risarcimento dei danni (art 18) stabilendo una ripartizione delle risorse tra le province
proporzionalmente alla superficie delle aree protette, introducendo inoltre il concetto che gli
indennizzi siano concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse. Con una direttiva applicativa
del 19 dicembre 2000, la Giunta regionale stabilisce le modalità di applicazione dell’art. 18 della
L.R. 6/2000, limitando l’ambito di competenza alle produzioni agricole vegetali e animali derivanti
da allevamenti ittici. Di fatto, escludendo arbitrariamente le produzioni zootecniche dalla
definizione di “produzione agricola”, viene escluso il lupo, e gli altri predatori, dalla tutela offerta
dalla L. 157/92.
Il legislatore ha infatti individuato il modo di “risarcire altrimenti” i danni provocati al patrimonio
zootecnico da parte di predatori selvatici nella L. 281/1991 “Legge quadro in materia di animali
d’affezione e prevenzione del randagismo”, recentemente recepita dalla Regione Emilia Romagna
con la L.R. 27/2000 “Nuove norme per la tutela ed il controllo della popolazione canina e felina”.
La normativa nazionale in materia di prevenzione del randagismo, con l’istituzione dell’anagrafe
canina e la delega finale ai comuni o alle Comunità montane di realizzare e mantenere un servizio
pubblico di cattura, ricovero e mantenimento dei cani randagi, nasce dalla necessità di risolvere il
problema crescente del randagismo canino nel rispetto della acquisita sensibilità popolare in materia
di tutela e benessere degli animali d’affezione, senza dimenticare la necessità di adeguamento alle
prescrizioni igieniche previste dal Regolamento di Polizia Veterinaria in materia di profilassi della
rabbia. La normativa regionale sul randagismo ha quindi assunto una forte connotazione animalista,
senza considerare i problemi creati direttamente e indirettamente dal randagismo alle zoocenosi
naturali, soprattutto in considerazione della lacunosa applicazione delle misure preventive previste
(e imposte dalla norma nazionale) da parte di Comuni e/o Comunità montane.
L’Emilia Romagna aveva anticipato il parlamento nazionale approvando già nel 1988 la L.R. 5/88
“Norme per il controllo della popolazione canina”, che assoggettando i cani ad un regime di tutela
totale si assumeva la responsabilità di indennizzare i danni da essi provocati al patrimonio
zootecnico. Il lupo, al momento della sua ricolonizzazione dell’appennino emiliano, in assenza di
una normativa specifica come ad esempio quella della regione Abruzzo, ha goduto della tutela di
questa norma, anche in considerazione della difficoltà oggettiva nell’attribuzione degli atti di
predazione al lupo o a cani, tanto che il personale competente per l’accertamento dei danni si è
sempre espresso con la formula “predazione da canidi”. Fino alla fine degli anni 90, seppure solo
parzialmente e sempre con notevole ritardo, gli allevatori sono stati risarciti per i danni subiti.
L’abbondanza delle popolazioni di ungulati selvatici, soprattutto capriolo e cinghiale, e la relativa
scarsità di animali domestici accessibili
(l’allevamento ovino è una realtà piuttosto marginale) e il
ripristino dell’impiego dei cani da difesa da parte dei pastori, hanno comportato negli ultimi anni
una progressiva riduzione dei danni provocati dal lupo. Addirittura a partire dal 2000, nonostante la
presenza stabile del lupo sia ormai una realtà su tutto l’Appennino tosco – emiliano, le richieste di
indennizzo da parte degli allevatori si sono quasi azzerate. Si è finalmente raggiunto
quell’auspicabile equilibrio tra uomo e lupo che tuteli le attività del primo garantendo la
sopravvivenza del secondo? No, in realtà le pratiche di indennizzo a partire dall’emanazione della
LR 7/2000 sono rimaste inevase essendo venuto meno l’istituzione degli appositi finanziamenti
regionali previsti dalla legge. Inoltre l’obbligo dello smaltimento dei resti degli animali uccisi in
centri di smaltimento autorizzati, conseguente alle misure di prevenzione delle encefalopatie
spongiformi trasmissibili (BSE e SCRAPIE), i cui oneri di trasporto e smaltimento (che in
montagna superano ampiamente il valore oggettivo degli animali) sono a carico dell’allevatore
stesso, ha indotto un ulteriore elemento di conflittualità. La copertura finanziaria della LR 7/2000
attribuita nel 2002 non ha risolto il problema, infatti con la delibera n. 416 del 29 novembre 2002, il
Consiglio Regionale ha definito le misure e i criteri di erogazione degli indennizzi agli allevatori ai
sensi della LR 27/2000. Nella definizione di questi criteri non si è tenuto conto della necessità di
compensare totalmente le perdite subite dall’allevatore per poter infondere nuovamente fiducia nel
sistema degli indennizzi e interrompere il meccanismo della “prevenzione fatta in casa”, ossia la
persecuzione diretta del lupo.
Tale delibera limita infatti il risarcimento al 90% del valore medio di mercato degli animali uccisi,
maggiorato di una quota pari all’80 % per i soggetti iscritti a Libro genealogico.
Oltre al fatto che il prezzo medio di mercato è normalmente inferiore al valore effettivo di un
animale per l’allevatore, non sono prese in considerazione le consistenti perdite accessorie dovute
ad un atto di predazione: tempo necessario al recupero delle carcasse, spese di smaltimento, perdite
di produzione (animali gravidi, riduzione del gregge in caso di animali da latte), spese veterinarie
per la cura degli animali eventualmente feriti e, nel caso di soggetti iscritti al libro genealogico,
perdita dei contributi relativi. In pratica, l’allevatore che subisce la perdita di una pecora del valore
di € 250 per colpa del lupo, si trova nella prospettiva di poter ricevere dopo alcuni mesi
un
indennizzo di € 224 o € 242, se iscritta al libro genealogico, dovendo sostenere una spesa minima di
€ 120 per lo smaltimento dei resti, con una perdita netta di almeno € 138. Si spiega perché
ufficialmente si riducono i casi di predazione a carico del bestiame domestico, perché aumentano le
denuncie di smarrimento di animali (per poter scaricare i soggetti persi dai registri anagrafici),
perché il lupo continua ad essere considerato negli ambienti rurali una calamità da eliminare con
ogni mezzo.
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