Processi formativi, cittadinanza e
identità nazionale in Italia
tra Otto e Novecento
Università degli Studi di Macerata
Sommario
• Questa parte del corso si propone di approfondire taluni passaggi del più
generale processo di ridefinizione dei modelli di cittadinanza e di
identità nazionale, ponendo l’accento sul ruolo esercitato in tale ambito
dal sistema scolastico, con riferimento alle diverse fasi che hanno
contrassegnato lo sviluppo storico dell’Italia unita, dal compimento del
processo unitario al secondo dopoguerra.
• In particolare, si ritiene opportuno concentrare l’attenzione su:
 ruolo esercitato dagli insegnamenti fondamentali su questo versante,
quali quello della storia e quello dei diritti e doveri del cittadino (in
seguito: educazione civica),
 caratteristiche e funzioni svolte dalla relativa manualistica (libri di testo),
 funzione svolta dalla letteratura per l’infanzia e dai periodici per la
gioventù attraverso «Il Giornalino della Domenica» (1906-1920) di Luigi
Bertelli/Vamba.
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•
Il discorso sarà articolato tenendo presenti i seguenti punti:
1.
Le dinamiche e i processi. La scuola italiana dell’Ottocento e la
promozione della cittadinanza e dell’identità nazionale,
Un bilancio dei risultati. I limiti del processo di «nazionalizzazione degli
italiani» attraverso la scuola dell’Ottocento,
Crisi dello Stato liberale ottocentesco e avvento della società di massa.
I tentativi di universalizzare la cittadinanza borghese e di rifondare
l’identità nazionale tra età giolittiana e fascismo
Scuola e Nazione. Il fascismo e la ridefinizione dell’insegnamento
scolastico della storia come strumento di una nuova «pedagogia
nazionale».
Gli anni del secondo dopoguerra. La difficile costruzione dell’identità
repubblicana e della cittadinanza democratica.
2.
3.
4.
5.
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Le dinamiche e i processi
La scuola italiana dell’Ottocento e la promozione della
cittadinanza e dell’identità nazionale
All’indomani della promulgazione della
Legge Casati (1859), com’è noto, con il
Regolamento del 15 settembre 1860
furono varati dal ministro della Pubblica
Istruzione Terenzio Mamiani i nuovi
programmi didattici per la scuola
primaria e secondaria, destinati ad essere
estesi, dopo l’unificazione, all’intera
penisola italiana, insieme alle relative
Istruzioni ai maestri sul modo di svolgerli.
Nelle scuole elementari, l’insegnamento della storia, era limitato ai «fatti più notevoli
della storia nazionale» e risultava presente solo nella quarta e ultima classe. Esso era
introdotto nell’ambito della sezione «Lettura», che comprendeva, tra l’altro, i «doveri
dell’uomo e del cittadino sopratutto in relazione con lo Statuto fondamentale del
Regno», lo studio degli «Stati principali dell’Europa e loro metropoli» e una «breve
descrizione dell’Italia».
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•
Il motivo di questa scelta era precisato nella Istruzione ai maestri delle Scuole
primarie sul modo di svolgere i programmi approvati col R.D. 15 settembre
1860, redatta dall’ispettore generale Angelo Fava e pubblicata con la C.M. del 26
novembre 1860. In tale Istruzione era affermato:
Tutte queste nozioni furono comprese nel titolo Lettura affinché s’intenda
che nelle scuole elementari non si vuole insegnare né l’etica, né il diritto
costituzionale, né la storia d’Italia, né la geografia, ma darne solamente
quelle nozioni più elementari di che i fanciulli sono capaci, e che possono
riuscir loro di grande giovamento sia che vogliano proseguire gli studi, sia
che debbano abbandonare le scuole.
•
L’Istruzione redatta dal Fava, inoltre, identificava la «storia nazionale» con la storia
dei sovrani sabaudi, specie laddove precisava che l’insegnamento storico avrebbe
dovuto contribuire a fornire ai fanciulli «una prima idea della storia nazionale»,
attraverso lo studio «dell’origine della R. Casa di Savoia; la lega Lombarda; le gesta
principali di Amedeo V, VI, VII, VIII, di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele I, di
Vittorio Amedeo II, del Principe Eugenio, di Carlo Emanuele III; di Carlo Alberto e di
Vittorio Emanuele II».
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
Alla storia dinastica di Casa Savoia avrebbe dovuto essere associata anche la
conoscenza di «alcune altre corte biografie di scrittori ed artisti che onorano il
nome italiano, o meritano di essere in particolar modo ricordati in ciascuna città
e provincia d’Italia».

Negli Avvertimenti Generali annessi all’Istruzione del Fava, si affermava che
«anche dalle cognizioni più semplici può il Maestro trarre argomento per
dichiarare e raffermare qualche ottimo precetto morale, qualche regola
opportuna al vivere civile, ed ispirare così ai suoi alunni il sentimento del dovere,
l’amore alla patria».
•
Ciò attesta l’importanza attribuita fin dalla costituzione dello Stato unitario
all’insegnamento della storia patria nelle scuole elementari, ai fini della
formazione civile e della promozione del sentimento nazionale nelle nuove
generazioni.
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•
Al riguardo, notava ancora il Fava:
Finalmente parlando del dovere che tutti gli altri [doveri] sociali abbraccia,
vale a dire dell’obbligo di amare e servire la patria, quella civile società alla
quale ci stringono l’origine e la lingua, le comuni leggi e gli interessi, le
memorie e le speranze, mostrerà il maestro come l’amor di patria non debba
consistere in vuote aspirazioni o in calde parole, e molto meno nelle vanterie o
nel disprezzo delle altre nazioni, ma sì in atti di operosa virtù e di abnegazione;
e come per esser fruttuoso esso debba avere il suo fondamento nei sentimenti
più nobili dell’animo e nell’osservanza delle leggi morali e civili.

Nelle prescrizioni formulate da Angelo Fava, e più in generale nelle indicazioni
relative ai contenuti e alle finalità dell'insegnamento della storia patria proposte
dai programmi del 1860, si coglie non solamente l’impronta moderata e
sabaudista che animava gli uomini della Destra storica, ma anche una visione
inevitabilmente parziale, e dunque poco avvertita, delle difficoltà e degli
ostacoli con i quali, di lì a poco, l’ambizioso progetto di una nazionalizzazione
delle popolazioni della penisola attraverso la scuola si sarebbe trovato a fare i
conti.
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La pubblicazione, nel 1865, della relazione generale
Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno
d’Italia, predisposta dal vicepresidente del Consiglio
Superiore Carlo Matteucci su incarico dell’allora
ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Natoli,
oltre a far emergere le difficoltà che caratterizzavano
l’istruzione primaria e popolare e gli scarsi risultati
ottenuti sul terreno della lotta all’analfabetismo,
forniva un quadro fortemente problematico
dell’insegnamento impartito nelle scuole elementari.

Per quello che concerne l’insegnamento della storia civile e nazionale, oltre a
non figurare mai tra «le materie che si studiano e s’apprendono di più nelle scuole
elementari», talora era addirittura annoverata dagli ispettori tra quelle destinate a
risultare «più difficili all’intelligenza dei fanciulli» e a dare quindi «iscarso frutto».


•
Tale situazione va ricondotta a diverse cause:
Esigenza di ridurre all’essenziale il piano di studi del corso elementare, puntando
alla trasmissione di quelle abilità e di quei contenuti – «catechismo, leggere,
scrivere e far di conto» – in grado di garantire, sia pure al più basso livello,
un’effettiva omogeneità culturale delle popolazioni.
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•
Carenze del corpo docente sul piano della formazione culturale di base e delle
competenze di tipo metodologico e didattico: spesso gli insegnanti ignoravano
completamente la storia civile e nazionale che, tra l’altro, non era compresa tra
le materie insegnate nelle scuole elementari e normali della maggior parte degli
Stati preunitari.
•
Consistente presenza di ecclesiastici e membri di istituti regolari maschili e
femminili tra le file dei maestri (sul totale dei 34.263 maestri elementari in servizio
nell’anno scolastico 1863-1864, il numero di sacerdoti e religiosi ammontava a
10.888, pari al 31,8%). Estranei in massima parte – quando non addirittura ostili –
al «nuovo corso politico» inauguratosi nel 1861 con la costituzione dello Stato
unitario, essi avevano una scarsa attenzione nei riguardi della storia civile e
nazionale, il cui insegnamento, specie nelle scuole degli ex territori pontifici e del
Meridione, fu largamente disatteso.
 Non sorprende sotto questo profilo che, soprattutto all’indomani dell’avvento della
Sinistra di Depretis alla guida del Paese, la classe dirigente liberale abbia avvertito
l’esigenza di rimuovere le cause che contribuivano a rendere l’ insegnamento della
storia trascurato e negletto nell’ambito della scuola elementare.
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
I principali sforzi furono rivolti a fornire ai futuri maestri una più organica
formazione storica, con particolare riferimento alla storia italiana recente, e, nel
contempo, a promuovere specifiche iniziative di aggiornamento per il corpo
docente già in servizio.

Si spiega alla luce di tali considerazioni l’intensa opera di riordino e
aggiornamento dei programmi di storia per le scuole normali avviata tra il 1867
e il 1883 dai ministri della Pubblica Istruzione Coppino, De Sanctis e Baccelli.
Nel 1867 Michele Coppino introduceva lo studio
della «Storia d’Italia» nel primo biennio della scuola
normale (biennio che abilitava all’insegnamento nel
corso elementare inferiore, l’unico realmente
diffuso sul territorio e frequentato dalla gioventù
delle classi popolari).
•
•
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Nel 1880 Francesco De Sanctis stabiliva che nelle scuole
normali maschili e femminili si sarebbe dovuta
approfondire, per tutti e tre gli anni del corso, la sola
storia nazionale, con particolare riferimento ai fatti e ai
personaggi dell’epopea risorgimentale.
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• Nel 1883, il nuovo titolare della Minerva
Guido Baccelli stabiliva che nelle scuole
normali si dovesse partire dalla storia
contemporanea, posta al primo anno, e
percorrere poi a ritroso, negli anni successivi,
le epoche più remote.


All’origine di tale scelta si poneva la convinzione che la storia del Risorgimento
fosse la più indicata per formare tutti i maestri, anche quelli che abbandonavano
le scuole normali dopo il secondo anno per andare a insegnare nelle elementari
inferiori e che quindi finivano per ignorare proprio le vicende più recenti, ossia il
processo che aveva portato all’unificazione della penisola.
«Sarebbe veramente grave – si affermava nelle Avvertenze ai programmi didattici
per le scuole elementari del 1883 – se dalla storia del nostro Risorgimento
l’insegnante non traesse gli argomenti per rafforzare lo spirito nazionale, per
coltivare l’amor di patria e delle sue libere istituzioni».
Per valutare appieno le caratteristiche e il significato assunti dall’insegnamento
della storia nelle scuole elementari all’indomani dell’unificazione nazionale è
necessario, infine, esaminare i libri di testo utilizzati dai maestri nell’ambito di
tale insegnamento.
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 A partire dal 1861, troviamo in circolazione, nelle scuole elementari della penisola,
una nuova generazione di manuali e raccolte di letture e racconti di storia patria
redatti da insegnanti, direttori didattici, ispettori ministeriali e caratterizzati, per la
maggior parte, da:
•
•
una struttura narrativa fondata essenzialmente sulla presentazione di rapidi
profili biografici dei personaggi più rappresentativi e sull’illustrazione, anch’essa
estremamente succinta e a carattere aneddotico, delle vicende e degli
avvenimenti più rilevanti delle diverse epoche;
e da una visione fondamentalmente moderata della recente storia nazionale, in
sintonia, del resto, con quanto avveniva sul versante storiografico.
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
A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta la produzione di manuali e
compendi di storia civile e nazionale per la scuola elementare entra in una
nuova fase.
•
Tra il 1865 e il 1880 le pubblicazioni per l’insegnamento della storia nelle scuole
elementari (manuali, compendi, racconti, sommari, «letture» ecc.) raggiungono,
complessivamente, il rispettabile numero di 317, con un incremento notevole a
partire dal 1878.
•
Inoltre, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in
concomitanza con l’avvento al governo della Sinistra di Depretis, si afferma una
concezione del Risorgimento nazionale maggiormente attenta al ruolo giocato
dalle correnti democratiche e, in particolare, alla dimensione nazional-popolare del
processo di unificazione della penisola.
•
In questo periodo comincia a prendere forma un’immagine del Risorgimento,
semplificata e ‘mitologica’, ma non priva di una sua efficacia laica e patriottica, la
quale faceva perno su «un composito pantheon di padri della patria, di episodi
gloriosi, di detti e gesti eroici»; un’immagine la cui edificazione si sarebbe
completata solo sul finire del secolo XIX.
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•
Allo stesso modo, la rimessa in discussione, a seguito della già ricordata legge
Coppino, dell’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola elementare, e
la contemporanea introduzione nel piano di studi della medesima scuola delle
«prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino», ebbero come effetto la
comparsa di manuali di «diritti e doveri» nei quali la spiegazione dei principali
articoli dello Statuto del Regno d’Italia si accompagnava sovente a una
«compendiosa» illustrazione della storia italiana contemporanea, ossia delle
vicende risorgimentali e del processo che aveva portato all’unificazione della
penisola.
•
Caratteristico della produzione manualistica degli anni Ottanta, come si è
accennato, è il ricorso a moduli narrativi e linguistici nuovi, nei quali si riflette –
per la prima volta in modo preciso e generalizzato – quella tendenza alla
sacralizzazione dell’epopea risorgimentale e all’esaltazione in termini
propriamente religiosi dei protagonisti del processo di unificazione nazionale che
avrà poi ulteriori e ben più organici sviluppi nei libri di storia degli anni Novanta.
•
Ma che è dato di ritrovare, in questo stesso periodo, anche nei racconti destinati
all’infanzia e alla gioventù, come il celebre e fortunatissimo Cuore di Edmondo De
Amicis, del quale merita di essere segnalato l’uso mitopoietico della storia, e la
creazione, o l’avvio di un nuovo modello di storia sacra, su base patriottica, che
sostituiva, senza distinguersene considerevolmente nello spirito e nei contenuti –
compresi i miracoli e i martiri – la storia sacra propriamente detta.
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•
È significativo, per citare solo qualche esempio, il riferimento continuo dei
manuali di storia editi in questo periodo a concetti quali martire/martirio,
salvatore/salvezza, redentore/redenzione, provvidenza/riscatto o ad espressioni
quali «la santa causa d’Italia», «la missione salvifica», «il sacro compito di
liberare i popoli oppressi», e altre ancora.
•
A titolo esemplificativo di un simile approccio alla storia nazionale, vale la pena
di richiamare la sintetica ma illuminante prefazione posta dal Corti alla sua Breve
storia del Risorgimento italiano (1885). In essa l’insegnante elementare
capitolino scriveva:
La scuola per riuscire veramente educativa dev’essere nazionale; deve formare il
cuore del cittadino italiano […]. I giovanetti non ricordano che quello che fa sul loro
animo impressione profonda, e perciò, anziché esporre una serie di fatti, ho preso a
narrare le vite de’ nostri martiri gloriosi intorno alle quali si raggruppano i principali
avvenimenti, che ci diedero la redenzione della patria; e di quegli illustri che con
morte gloriosa hanno suggellato i principii santi a cui informarono tutta la loro vita
[…]. Giovani nella vita delle nazioni, noi abbiamo bisogno di conoscerci di conoscerci
per apprezzarci e per amarci; e come il comune dolore aveva affratellati i nostri
padri, un comune amore stringa i nostri figli, ed un comune intento guidi le opere
loro: far grande questa Italia nostra carissima che un lungo martirologio, ed i
sacrifici e le vittorie de’ nostri padri ci hanno consegnata libera ed indipendente.
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•
Coerentemente con il proposito di un’interpretazione in chiave religiosa
dell’epopea risorgimentale, il Corti rileggeva le tappe del processo di
unificazione della penisola (i moti carbonari del 1820-21, le sollevazioni
mazziniane della Giovane Italia, le insurrezioni del 1848 e, infine, la prima e la
seconda guerra d’indipendenza) in termini di vere e proprie «stazioni della via
crucis» del popolo italiano e del «martirologio della patria» proponendo ai suoi
giovani lettori una vera e propria galleria di martiri votati alla «santa causa»
della libertà e dell’indipendenza nazionale:
dalla «virtuosa, dotta ed eroica» Eleonora
Fonseca Pimentel, il cui «amore di patria» era
stato «punito con il martirio» e il cui sangue
aveva contribuito «a consacrare questa patria
diletta»; ai «martiri» delle Cinque Giornate di
Milano, «il cui sangue tutta santificò la nostra
patria dilettissima»; fino a Giuseppe
Garibaldi, le cui «gesta meravigliose»
dovevano testimoniare al mondo intero il
significato di «quell’amor di patria che tutto
santifica» e spronare «tutti i cittadini italiani
alle sante imprese per la patria».
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•
Sulla medesima scia, e con toni altrettanto enfatici, si poneva Lorenzo Bettini ne
I martiri e i fattori dell’unità ed indipendenza d’Italia (1885). Tra gli aspetti di
maggiore interesse di questo manualetto, merita di essere segnalata la vera e
propria aurea spirituale che circonda i protagonisti dell’epopea risorgimentale.
Così, Giuseppe Garibaldi è definito
«l’eroe del popolo […] mandato da Dio a
liberare la patria dallo straniero e a far
grande l’Italia», nato, vissuto e «morto
povero» e destinato a «sagrificare tutto
sé stesso alla patria»; di Giuseppe
Mazzini si ricorda che «egli visse,
sofferse, pianse e morì per la patria» e
che con le sue parole e i suoi scritti
operò «come un profeta al suo popolo»;
sulla «nuova Italia […] fecondata dal
sangue di tanti martiri, santificata dal
dolore di tanti uomini Grandi», infine,
Bettini invocava la benedizione di Dio
quale «vero Artefice della sua unità e
libertà».
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 Un capitolo a sé, nell’ambito della manualistica per l’insegnamento della storia
nelle scuole, è rappresentato dalle numerose biografie di carattere celebrativo e
dalle proposte di «didattica pratica» apparse all’indomani della morte di Vittorio
Emanuele II, il 9 gennaio 1878.
•
L’improvvisa scomparsa del primo re d’Italia era destinata, com’è
noto, non solamente a suscitare una vasta eco e una sincera e
generalizzata commozione in tutto il Paese, ma anche a
rappresentare, per gli uomini della Sinistra storica approdati alla
guida del governo dopo la «rivoluzione parlamentare» del marzo
1876, un’inattesa quanto decisiva opportunità per promuovere –
facendo leva sul mito del «gran Re», dell’artefice dell’unità e
dell’indipendenza nazionale appena scomparso – il
rafforzamento dell’egemonia borghese e l’allargamento del
consenso alle istituzioni liberali e al nuovo assetto politico
realizzato con la proclamazione del Regno d’Italia.
•
La strategia adottata dalla classe dirigente liberale in questo frangente puntò da
un lato ad esaltare l’identificazione esclusiva di Vittorio Emanuele II e della
monarchia sabauda con l’intero processo di unificazione del Paese, dall’altro ad
avvalorare un’immagine del defunto sovrano come «perfetta incarnazione della
storia, della cultura, delle idealità e aspirazioni dell’intero popolo italiano, senza
distinzione di ceti».
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
Per altri versi, è testimoniato dalle già ricordate biografie di Vittorio Emanuele II
edite a partire dal 1878 e destinate ad essere utilizzate, come letture integrative
per l’insegnamento della storia nazionale, nei diversi ordini e gradi di scuola.
•
Si tratta in generale di operette redatte con linguaggio semplice e piano, il cui
impianto narrativo, prevalentemente aneddotico, è integrato sovente da un
apparato iconografico volto ad accrescere l’efficacia del testo scritto e a
coinvolgere emotivamente il lettore.
•
La struttura narrativa di questi libri, presenta un susseguirsi di bozzetti familiari
pieni di buoni sentimenti, di premonizioni guerriere fin dai primi passi del futuro
re, di armonioso equilibrio fra amor di patria e religione dei padri, di fulgido
eroismo sui campi di battaglia, di lealtà e galantomismo a tutta prova, di acume
politico superiore a chiunque.
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•
In realtà, l’approccio narrativo fatto proprio dalle biografie di Vittorio Emanuele II
destinate alle scuole elementari non presentava tratti originali, sembra di poter
dire, anzi, che esso ricalcava i moduli e le caratteristiche di fondo del genere
agiografico popolare, ossia delle tradizionali vite dei santi, già ampiamente
utilizzate nei secoli precedenti dalla Chiesa, e da questa riproposte con rinnovato
slancio all’indomani della Rivoluzione francese, quale strumento di formazione
delle coscienze e di promozione di idealità e costumi morali e religiosi nelle nuove
generazioni.
•
Sotto questo profilo, siamo in presenza di una vera e propria ripresa e
reinterpretazione in senso laico e patriottico di un genere letterario il quale,
destinato tradizionalmente a veicolare modelli di santità e di comportamento
religioso, assurge ora a mezzo di diffusione, tra le popolazioni della penisola, di
una comune identità nazionale da plasmare e rinsaldare attraverso la
sacralizzazione di modelli civili e la trasposizione sul piano politico del linguaggio
e degli apparati simbolici caratteristici della religione cattolica.
•
Non a caso nei decenni seguenti il ricorso alla narrazione agiografica ai fini
dell’educazione civile e patriottica della gioventù si estenderà anche alla vita e alle
gesta degli altri due protagonisti dell’epopea risorgimentale, Giuseppe Garibaldi e
Giuseppe Mazzini, destinati anch’essi a figurare, accanto a Vittorio Emanuele II, tra
i «Padri della Patria».
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
A fronte dei profondi mutamenti registratisi nel corso del primo trentennio
unitario non solamente in ambito scolastico, ma anche, e soprattutto, sul
versante politico e sociale, l’impianto didattico e i contenuti dell’istruzione
elementare stabiliti nel 1860 erano destinati, com’è noto, a non subire
modificazioni sostanziali fino alla seconda metà degli anni Ottanta.
•
Risale a questa fase infatti il varo, con R.D. 25 settembre 1888, dei nuovi
programmi per le scuole elementari ad opera dell’allora ministro della Pubblica
Istruzione Paolo Boselli.
•
Questi programmi, i quali presero il nome dal pedagogista e uomo di scuola
Aristide Gabelli, che ne stese le celebri Istruzioni generali, facevano proprie,
com’è noto, alcune istanze peculiari della pedagogia e didattica di matrice
positivista.
•
«Se la scuola ha da servire i bisogni nostri –scriveva al riguardo Aristide Gabelli –,
ne viene di conseguenza che essa deve impartire l’insegnamento in maniera che
l’alunno acquisti certe abitudini intellettuali più feconde, ossia ne tragga un modo
di pensare più chiaro, più pratico, più proficuo, che non sia quello ch’egli acquista
ordinariamente». L’istruzione impartita nelle scuole, il cui scopo restava pur
sempre l’alfabetizzazione, doveva rivestire, secondo l’estensore delle Istruzioni
generali, anche una marcata valenza educativa.
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
Per quel che concerne nello specifico l’insegnamento della storia, esso
assumeva, secondo Gabelli, un ruolo di primaria importanza quale strumento
atto a promuovere la maturazione di personalità dotate di autentica coscienza
civile e sociale.
•
Nelle Istruzioni generali, infatti, Gabelli, dopo aver rilevato come «il buon uomo
può non essere un buon cittadino», suggeriva al maestro di «cogliere tutte le
occasioni per infondere ne’ suoi alunni i sentimenti che più conferiscono al
benessere civile, l’amore dell’ordine, della concordia, della tranquillità laboriosa e
della socialità umana, distogliendoli, ove bisogni, da gare e da odi municipali, e
facendo che il nome d’Italia e la compiacenza di appartenere a una gran nazione
valida e stimata campeggi nel loro pensiero e nel loro cuore».
•
In generale, i programmi del 1888 conferivano un particolare rilievo
all’educazione nazionale e patriottica. Nelle Istruzioni speciali relative al
programma di storia, infatti, era sottolineato che: «L’insegnamento della storia
ha per fine principalmente di inspirare coll’esempio ai fanciulli il sentimento del
dovere, la devozione al bene pubblico e l’amore di patria».
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•
Per raggiungere questi obiettivi etico-civili, la prospettiva educativa da
perseguire avrebbe dovuto essere quella di richiamare le vicende della storia
nazionale «senza vanti improvvidi e insulsi retoricismi», facendo comprendere ai
fanciulli il contributo dell’Italia al progresso della civiltà, per generare in loro un
sentimento di ammirazione per la grandezza del passato e stimolare, nel
contempo, un vigile e forte senso del dovere, verso la patria e verso le istituzioni
nazionali.
•
Si poneva indubbiamente un’interpretazione dell’idea di nazionalità di chiara
derivazione mazziniana. Tale idea, infatti, era concepita dal Gabelli e dagli
estensori dei programmi del 1888 come una vera e propria religione civile, capace
di mobilitare l’opinione pubblica, di inculcare ideali di attività e di sacrificio, di
diffondere l’idea che per essere nazione non bastava una lingua, una tradizione,
un’area geografica comune, ma occorreva una volontà comune che non era la
rousseauiana ‘convenzione iniziale’ né un portato della natura, ma un’operosità
continua e incessante.
•
Una concezione della nazione, questa, che era destinata a integrarsi con il nuovo
ideale di scienza e di progresso civile e sociale veicolato anche nel nostro paese,
a partire dagli anni Settanta, dal positivismo. «La fede nella scienza – come ha
scritto al riguardo Federico Chabod – fu quasi un corollario della fede nella patria
e fece tutt’uno con il sentimento nazionale».
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•
Si comprende bene, allora, come questo principio di nazionalità, con il suo
richiamo alla coscienza individuale e alla storia, la sua forte impronta
volontaristica e il primato conferito alla dimensione etica e spirituale della
comunità nazionale, fosse destinato a tradursi in uno specifico progetto
pedagogico, il quale, facendo leva sulla dimensione dei doveri, sull’esortazione
alla rettitudine e allo spirito di sacrificio, sul rispetto dell’autorità e dell’ordine
gerarchico, fosse capace di sanzionare definitivamente sul piano morale
quell’unità della nazione già realizzata a livello politico e istituzionale, e di
operare un’autentica rigenerazione delle popolazioni italiane.
•
E che tale obiettivo, perseguito sia pure in modo non sempre lucido ed efficace
fin dai primordi dell’unificazione, fosse ormai divenuto prioritario per lo stesso
consolidamento delle istituzioni e della vita del Paese, lo si evince dal dibattito
che, su tale questione, si era sviluppato già dopo l’avvento della Sinistra di
Depretis al governo, e che coinvolse intellettuali ed esponenti della classe
politica, da Francesco De Sanctis a Pasquale Villari, fino allo stesso Aristide
Gabelli e ad altri pedagogisti e uomini di scuola d’orientamento positivista.
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
Il clima di involuzione politica e culturale che caratterizzò l’ultimo quindicennio
del secolo XIX ed il prevalere, anche sul versante della politica scolastica, delle
istanze nazionalistiche espresse da Francesco Crispi e condivise dal ministro
della Pubblica Istruzione Guido Baccelli portarono, com’è noto, all’emanazione,
con il R.D. del 29 novembre 1894, di nuovi programmi didattici per la scuola
elementare, a soli sei anni di distanza dai precedenti.
•
I programmi del 1894 segnarono un’autentica svolta rispetto ai precedenti, tanto
sotto il profilo di una riduzione e semplificazione dei contenuti, quanto dal
punto di vista degli obiettivi ideologici e culturali fissati.
•
Alla scuola elementare, intesa essenzialmente come «scuola del popolo» e
ricondotta «entro i naturali confini determinati dalle ragioni del suo essere e
dall’utilità nazionale», il ministro Baccelli attribuiva il compito di farsi «strumento
di redenzione morale e civile» del Paese, fornendo alle nuove generazioni pochi
e basilari insegnamenti utili a integrarsi positivamente nel mondo del lavoro e
nella comunità civile e politica: «Leggere, scrivere, far di conto e diventare un
galantuomo operoso fu ed è ancora il programma vivo del buon senso italiano;
tornare ad esso animosamente è […] un progredire spedito e infallibile».
Anna Ascenzi
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•
L’obiettivo riassunto nella formula «istruire il popolo quanto basta, educarlo più
che si può» traeva alimento, comunque, non solamente da preoccupazioni
d’indole pedagogica, ma anche, e soprattutto, da motivazioni di natura
fondamentalmente politica.
•
All’esigenza di ricondurre l’istruzione del popolo entro confini ben definiti e di
determinarne caratteristiche ed estensione in base ai concreti bisogni dei ceti
subalterni e alle specifiche necessità della vita produttiva e del mercato del
lavoro nei centri urbani e rurali, si accompagnava, infatti, la prospettiva di fare
della scuola elementare il luogo e lo strumento privilegiato per un’educazione
civile e nazionale volta essenzialmente a rafforzare la coesione sociale e la piena
identificazione delle popolazioni con gli ordinamenti e le istituzioni dello Stato
liberale, attraverso un complesso processo di omogeneizzazione e
nazionalizzazione degli italiani. Si trattava, in sostanza, di promuovere per mezzo
«della scuola elementare generazioni moralmente rinnovate, per le quali
l’ossequio alla legge sia forte e invincibile […] e l’amore di patria si trasformi in
atti quotidiani di onestà, di lavoro, di sacrifizio».
Anna Ascenzi
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
Alla base della prospettiva, perseguita dai programmi del 1894, di una
«nazionalizzazione» degli italiani da realizzare attraverso la scuola – in primis
quella elementare, restituita alla sua fisionomia più autentica di «scuola del
popolo» e chiamata ad esercitare la sua funzione educativa in senso
interclassista – si ponevano, come si è già accennato, i timori e le preoccupazioni
di tanta parte della classe dirigente liberale, in una fase della vita nazionale nella
quale il distacco tra governanti e governati pareva divenire via via più grave e
minacciare la stessa compattezza del Paese.
•
Emblematica, sotto questo profilo, è l’analisi compiuta da Francesco Crispi dei
ritardi e delle arretratezze che caratterizzavano la vita politica e sociale
dell’ancor giovane regno d’Italia. «Non basta – egli scriveva – aver distrutto i
sette Stati e costituita l’unità nazionale, vuolsi formare l’uomo cittadino, senza il
quale il grande edifizio non può consolidarsi, anzi rischia di sfasciarsi».
•
Egli, inoltre, sottolineava come, per la sostanziale «assenza d’ogni educazione
civile» e politica, le popolazioni apparivano ancora «quali erano prima della
costituzione del nuovo Regno […], senza alcuna fusione» e senza autentici
riferimenti a un’identità comune: «L’unità materiale fu fatta, il grande edifizio fu
elevato, ma per l’unità intellettuale e morale siamo ancora al cominciamento
dell’opera nostra».
Anna Ascenzi
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•
Le responsabilità di un siffatto stato di cose, a detta di Crispi, andavano attribuite
non solamente ai moderati della Destra storica, che avevano governato il Paese
nel primo quindicennio dopo l’unificazione, ma all’intera classe dirigente
liberale, rea di non aver compreso fino in fondo la necessità di una «pedagogia
nazionale» capace di rimuovere «quegli elementi che per loro natura tengono
divise le genti della penisola» e di unificare le coscienze attorno ai valori della
patria:
Noi – scriveva lo statista siciliano - abbiamo soppresso le cattedre di teologia dalle
Università, abbiamo tolto dalle scuole la educazione religiosa […]. Confessiamolo:
questa fu un’opera incompleta. La nostra fu una negazione, e la negazione crea il
vuoto. Noi dovevamo affermarci […]. Sventuratamente il Governo d’Italia ha
trascurato quello che era il primo suo dovere: l’educazione del popolo. Non ci ha
pensato, mentre a questo doveva rivolgere le sue cure sino dai primordi del
risorgimento nazionale.
•
Crispi muoveva dai presupposti già noti: mancanza di coesione della nazione, di
solidità del nuovo Stato, estraneità alla patria delle masse da educare, e non solo
di esse; al punto che egli aveva in mente non solo una ‘nazionalizzazione’ (è il
termine da lui usato, nella stessa accezione odierna) degli strati più bassi, ma
anche di quelli medi e alti.
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•
Si poneva, per lo statista siciliano, la fondamentale importanza e l’urgenza di una
educazione civile da esercitarsi sulle plebi che facesse perno sui valori patriottici
e sulla costruzione di un immaginario collettivo «comune a tutta l’Italia nuova»:
un’educazione civile con «una mèta, il culto della patria, e un mezzo, la storia».
Il culto del patriottismo – scriveva lo statista siciliano – educa il popolo […]. Se volete
tenere il popolo sempre pronto ai supremi cimenti, parlategli spesso di coloro che
tutta la vita dedicarono alla patria. Come la consuetudine con gli uomini superiori ci
rende migliori, così desta lo spirito di emulazione il racconto dei sacrifici, delle audaci
imprese, degli eroismi.
E ancora:
Le popolazioni vennero all’unità coi vizii succhiati sotto i governi assoluti e, finché la
nuova educazione non sia fatta, finché le vecchie abitudini non siano scomparse,
l’Italia sarà una nazione decrepita […]. L’Italia giovane, l’Italia nascente è la
generazione che ci segue e dobbiamo formarla noi. A ciò è necessario migliorare le
istituzioni, diffondere l’istruzione, educare questo popolo che ci segue, che non ha i vizii
né le abitudini di quello che se ne va […]. La memoria di coloro i quali […] hanno
dedicato la loro persona al risorgimento nazionale ed al trionfo della libertà dev’essere
un retaggio che incateni a noi le giovani generazioni.
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•
Alle luce delle riflessioni sopra richiamate, si comprende agevolmente la peculiare
attenzione attribuita all’insegnamento della storia nei programmi didattici del
1894, così come appaiono tutt’altro che sorprendenti le modificazioni apportate ai
contenuti e alle finalità della disciplina rispetto a quelli fissati nel 1888.
•
Accorpato a quelli della Geografia e dei Diritti e doveri del cittadino,
l’insegnamento della Storia – limitato alla dimensione nazionale e denominato
«Storia d’Italia» – avrebbe dovuto dare «a tutta l’istruzione», come si legge nelle
Istruzioni speciali, «quel compimento e quel carattere che meglio si convengono ai
bisogni e alle aspirazioni della nazione italiana», concorrendo a «far conoscere ed
amare la patria, divenuta libera e grande per virtù dei pensatori e dei martiri che
ne prepararono il riscatto da lungo servaggio» e a promuovere, in tal modo, nelle
nuove generazioni, «la coscienza e […] il sentimento dell’italianità».
•
L’aggregazione di tale disciplina con la Geografia e i Diritti e doveri del cittadino,
sotto questo profilo, rispondeva a un preciso obiettivo educativo, la cui portata e le
cui caratteristiche andavano al di là delle semplici nozioni e conoscenze derivanti
dall’apporto delle singole materie: «Perché mai non si perda di vista il concetto – si
legge ancora nelle Istruzioni speciali – che le tre discipline qui aggruppate ne devono
formare una sola nel metodo, nelle applicazioni e negli effetti, è d’uopo considerare
che dalla loro coordinazione dipende di poter dare la prima forma, cioè la più
durevole, di un’educazione civile».
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•
L’insegnamento vero e proprio della storia era previsto a partire dalla terza classe
elementare, con lo studio delle vicende «che nei tempi a noi più vicini fecero di
province divise ed oppresse un solo e grande paese». Il relativo programma
prevedeva, infatti, l’esposizione di «Racconti educativi che riguardino i fatti e gli
uomini più notevoli del Risorgimento italiano, dal 1848 al 1870».
•
Senza la conoscenza di tali vicende, «i fanciulli della terza classe elementare, ai
quali una specie di esame di Stato accorda il diritto elettorale […] non avrebbero
potuto comprendere appieno il significato e l’importanza dei nuovi diritti, né
dall’esempio storico far emergere il dovere che hanno di servire la patria con
disinteresse e amore. Così fin dal corso elementare inferiore, rimarrà impressa
nella mente e nel cuore quella parte di storia nazionale, che può essere più
facilmente intesa».
•
Le Istruzioni speciali fornivano altresì ai maestri indicazioni precise circa
l’opportunità di utilizzare già nelle prime due classi del corso primario le
narrazioni storiche, ai fini di una più solida educazione civile e nazionale, non
mancando di richiamare la loro attenzione sull’opportunità di prendere spunto
dalle varie celebrazioni e ricorrenze di carattere civile e nazionale, che proprio
nell’ultimo decennio del secolo XIX erano destinate a intensificarsi e ad
assumere una più marcata curvatura pedagogica:
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L’avere assegnato – recitava al riguardo il testo ministeriale – la storia, la geografia, i
diritti e i doveri del cittadino alle tre ultime classi, non vuol significare che i maestri delle
prime due debbano astenersi dal prendere occasione da letture fatte, da feste nazionali,
da monumenti visitati per dare un certo avviamento a quella educazione morale e civile
che alla fine del corso elementare sarà ben salda e compiuta.
•
I programmi didattici del 1894 riflettono chiaramente le forti istanze
nazionalistiche che segnarono il paese e alimentarono le scelte della classe
dirigente liberale nell’ultimo decennio del secolo XIX.

Con riferimento ai contenuti e agli indirizzi dell’insegnamento storico, a questo
riguardo, meritano di essere segnalate talune prospettive interpretative della
storia nazionale fatte proprie da tali programmi. Si tratta di prospettive che
troveranno sviluppo e approfondimento, e assumeranno carattere più organico e
incisivo, nei programmi didattici per le scuole elementari e secondarie emanati
nel ventennio fascista, ma che già ora ci sembra opportuno lumeggiare in
quanto espressione compiuta di quell’utilizzo dell’insegnamento storico ai fini
della promozione di una «pedagogia nazionale» che proprio nella scuola
elementare aveva il suo canale privilegiato.
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•
Intendiamo riferirci, innanzi tutto, al tema della sostanziale continuità tra la
Roma imperiale e la «Terza Italia» nata dalle lotte risorgimentali, e all’altro, ad
esso collegato, di una ricostruzione del passato, anche di quello più remoto, in
chiave di «preparazione» dell’evento unitario.
•
Ricostruzione, quest’ultima, volta non solamente ad esaltare l’epopea
risorgimentale e le origini del giovane Stato italiano, ma anche a fornire una
nuova e più solida legittimazione al ceto politico artefice del processo unitario,
nel momento in cui la crisi delle istituzioni e delle forze politiche liberali e, per
converso, la crescente affermazione delle idee e delle iniziative dell’opposizione
socialista e di quella cattolica tra le classi popolari tendevano ad accentuare la
frattura tra «paese legale» e «paese reale» e a minacciare le basi stesse dello
Stato liberale.
•
I riferimenti diretti a tali temi sono, al riguardo, molteplici. I
In particolare, va segnalata l’esortazione rivolta ai maestri a far ben comprendere
ai rispettivi alunni lo stretto nesso intercorrente tra l’attuale situazione del Paese
e la sua storia più recente, invitandoli «a considerare le presenti condizioni d’Italia
come continuazione ed effetto di quanto i padri operarono».
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Allo stesso modo, merita di essere sottolineato il richiamo all’opportunità che gli
alunni intendessero appieno «come ne’ secoli trascorsi il concetto della patria e l’idea
liberatrice di Roma informarono tutto il pensiero, tutta l’arte, tutta l’azione del popolo
italiano, e condussero questo, uscito appena dalle recenti battaglie nazionali, a
comporsi pacificamente sotto la tutela di quelle libere istituzioni, che sogliono
prosperare in tempi di civiltà già matura».

Emblematica di una nuova concezione dell’epopea risorgimentale e delle stesse
vicende che resero possibile il compimento dell’unificazione italiana risulta
essere, del resto, la periodizzazione stabilita nei programmi Baccelli per lo studio
della storia italiana contemporanea nella terza e nella quinta classe elementare:
1848-1870.
•
Se appare ormai sufficientemente chiaro, alla luce delle riflessioni formulate
precedentemente, il senso dello spostamento fino al 1870 del terminus ad quem,
meno agevole risulta cogliere il significato della decisione di far partire la
narrazione riguardante «i fatti e gli uomini più notevoli del Risorgimento italiano»
dal 1848, recidendo di fatto i legami con la fase precedente, ossia con l’esperienza
dei movimenti cospiratori e dei moti costituzionali del 1820-21 e del 1831.
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•
In realtà, l’immagine del Risorgimento che i programmi didattici del 1894
intendevano promuovere era quella di una vera e propria «rivoluzione nazionale», al
centro della quale si collocavano da un lato la monarchia sabauda, ossia il sovrano
Vittorio Emanuele II e l’esercito regolare piemontese, dall’altro il «popolo»
considerato nell’accezione più ampia, espressione cioè non solamente della
borghesia, ma di tutti gli italiani: immagine destinata a divenire concreta proprio a
partire dalle insurrezioni del 1848 e a trovare poi ulteriore e più incisivo riscontro
nella seconda guerra d’indipendenza e, soprattutto, nell’impresa garibaldina del
1860.
•
Non è casuale che proprio il binomio monarchia-popolo e la lettura del Risorgimento
come grande epopea nazional-popolare rappresentassero i cardini della concezione
crispina del processo di unificazione nazionale; concezione dalla quale discendeva
l’idea che il Risorgimento non era affatto concluso nel 1861 o nel 1870, ma avrebbe
dovuto continuare e assumere le caratteristiche di «una riforma morale e
intellettuale di tutta la società che facesse perno non più soltanto sui valori dinastici
ed elitari dell’epopea lasciata alle spalle, ma sul binomio unificazione-sviluppo».
•
E proprio alla luce di tale trovano il loro più autentico significato i programmi per la
scuola elementare del 1894 e, più in generale, la «pedagogia nazionale» ad essi
sottesa che dall’insegnamento della «Storia d’Italia» traeva la sua linfa e la sua
principale giustificazione.
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Un bilancio dei risultati:
I limiti del processo di «nazionalizzazione degli italiani»
attraverso la scuola dell’Ottocento
Sul significato e sull’incidenza dell’insegnamento della storia nelle scuole
italiane, in relazione soprattutto alla questione della formazione dell’identità
civile e nazionale nelle nuove generazioni, esercitarono un influsso tutt’altro
che irrilevante taluni fattori.
•
In primo luogo quello delle carenze e dei ritardi strutturali che contrassegnarono,
anche nell’ultima fase dell’Ottocento, il più generale processo di alfabetizzazione
e di scolarizzazione dei ceti popolari. I dati di cui disponiamo sono, al riguardo,
eloquenti.
•
Relativamente all’anno scolastico 1891-1892, su 2.266.593 iscritti alle scuole
elementari pubbliche, coloro che frequentavano la terza classe erano 287.171,
mentre ammontava a 45.281 il numero degli alunni della quinta.
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•
Un decennio più tardi, nell’anno scolastico 1901-1902, i fanciulli prosciolti
dall’obbligo scolastico risultavano essere 214.300, mentre raggiungeva appena le
27.079 unità gli aventi diritto a presentarsi agli esami di licenza al termine della
quinta elementare.
•
I dati sull’evasione dall’obbligo scolastico registrati dall’inchiesta ministeriale del
1897-98 confermano ampiamente i limiti che, soprattutto nelle aree rurali e nei
piccoli centri della penisola, doveva incontrare la diffusione dell’istruzione
primaria e popolare. Basti dire che nell’anno scolastico 1895-1896 ben 805.818
fanciulli in età scolare non risultavano iscritti alla scuola elementare; l’anno
seguente gli inadempienti ammontavano a 606.579, mentre erano 558.676
nell’anno scolastico 1897-98.
•
Oltre a ciò occorre considerare che molti fanciulli frequentavano regolarmente
solo la prima classe elementare, perdendosi poi di fatto prima del completamento
del triennio, tanto che all’esame di proscioglimento finale, secondo le statistiche
riportate dall’inchiesta del 1895-96, giungeva annualmente solo 1/6 degli iscritti.
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Alla luce di un simile quadro, appare in buona sostanza condivisibile quanto scriveva
qualche anno fa Simonetta Soldani circa il fatto che, con «un periodo di scolarità così
ridotto all’osso», era improbabile che la scuola elementare potesse assumere nel
nostro Paese «un ruolo di educazione civile e patriottica simile a quello della scuola
francese o tedesca».

In secondo luogo, sembra di poter dire che la forzata esclusione dal circuito della
scolarizzazione primaria di larga parte delle popolazioni rurali e di settori
consistenti delle stesse classi lavoratrici dei centri urbani e, per altri versi, i
ritardi e le carenze di cui, sul piano metodologico e didattico come su quello
culturale, diede prova la stessa istruzione elementare, contribuirono a vanificare
in larga misura il tentativo della classe dirigente liberale dell’Ottocento – in
particolare degli uomini della Sinistra di Depretis e, soprattutto, di Crispi – di
estendere attraverso la scuola il processo di «nazionalizzazione degli italiani»
all’intera popolazione, realizzando quella nazionalizzazione delle masse di cui ha
parlato George L. Mosse a proposito di altri grandi Stati europei.
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Crisi dello Stato liberale ottocentesco e
avvento della società di massa:
I tentativi di universalizzare la cittadinanza borghese e di
rifondare l’identità nazionale
tra età giolittiana e fascismo
Il tentativo di promuovere, nella società italiana d’inizio Novecento, un nuovo
modello di cittadinanza e di favorire la promozione tra le nuove generazioni di
un vigoroso sentimento nazionale, prima ancora che attraverso la scuola,
trovò in una serie di esperienze e iniziative formative extrascolastiche e
rivolte al grande pubblico le sue più originali e significative espressioni.
•
Non deve meravigliare, allora, se, nell’aprire questa seconda parte, dedicata al
Novecento, del nostro seminario, ci dedichiamo in prima battuta
all’approfondimento di un’esperienza sotto questo profilo esemplare: quella
dello scrittore Luigi Bertelli (noto ancora oggi quale autore del celebre Il
Giornalino di Gian Burrasca) e della sua creatura più importante, il periodico
per ragazzi «Il Giornalino della Domenica» (1906-1920).
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Letterato, giornalista politico e di costume, più tardi, a
partire dal 1893, raffinato scrittore per l’infanzia con
lo pseudonimo di Vamba – dal nome del buffone di
Cedric nell’Ivanhoe di Walter Scott –, Luigi Bertelli è
stato indubbiamente uno degli intellettuali ed
educatori di maggiore spicco nel panorama politico e
culturale dell’Italia umbertina e giolittiana.
•
Animato da una profonda fede nelle idee mazziniane e nei valori della tradizione
laica e democratica di matrice risorgimentale, Luigi Bertelli riscosse subito un
vivace successo come commentatore e notista politico sulle pagine dei principali
giornali satirici e politici della capitale in età umbertina: il «Capitan Fracassa», il
«Don Chisciotte della Mancia» (1887-1892), destinato poi a trasformarsi nel «Don
Chisciotte di Roma» (1893-1899) e a fondersi successivamente, nel dicembre 1899,
con il «Fanfulla» per dare vita al quotidiano «Il Giorno» (1899-1901).
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•
Tali giornali mentre da un lato intrapresero una vivace opposizione al sistema di
potere crispino e alla politica reazionaria e liberticida dei governi di fine secolo,
dall’altro non mancarono di stigmatizzare l’indifferenza dei ceti medi e il distacco
di tanta parte dell’opinione pubblica borghese dalla vita politica e di sostenere
con vigore, negli articoli di fondo, la necessità di salvaguardare ed ampliare le
libertà costituzionali e di dare finalmente soluzione ai problemi dell’arretratezza
del Meridione e dell’ignoranza e miseria delle plebi contadine.
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•
A partire dai primissimi anni Novanta, se per certi versi la vis polemica ed il
tratto umoristico di Luigi Bertelli apparivano ancora vigorosi e ben lontani
dall’avere esaurito le loro potenzialità creative, per altri versi cominciarono a
manifestarsi nello scrittore e giornalista i primi sintomi della crisi che, di lì a
poco, avrebbero determinato una vera e propria svolta nella sua esistenza.
•
Egli, infatti, era venuto persuadendosi che le idee radical-democratiche e gli
entusiasmi mazziniani di matrice risorgimentale che lo animavano facevano
sempre meno presa sull’opinione pubblica nazionale e, soprattutto, sembravano
ormai incapaci di modificare l’inquietante scenario della politica italiana.
•
La graduale presa di coscienza della necessità di lasciarsi alle spalle le ormai sterili
polemiche giornalistiche e di mutare radicalmente il registro del proprio impegno
intellettuale e politico coincise, in Luigi Bertelli, con la maturazione di un nuovo
ideale al quale dedicare i propri sforzi di giornalista e scrittore e la propria vena
creativa: la formazione di una nuova coscienza etico-civile nelle giovani
generazioni, nello spirito di quella pedagogia politica tanto cara al suo idolo
Giuseppe Mazzini e ai grandi uomini del Risorgimento.
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
All’origine della decisione di dare alle stampe «Il Giornalino della Domenica», il
cui primo fascicolo vide la luce il 24 giugno 1906, riscuotendo un immediato e
notevole successo, si collocavano diverse motivazioni.
Luigi Bertelli, che già qualche tempo prima, dopo
avere abbandonato l’impegno militante nel
giornalismo ‘per adulti’ e nelle riviste di satira
politica, si era cimentato con successo nella
narrativa per l’infanzia, portava nell’impresa gli esiti
del travaglio che lo aveva accompagnato negli anni
precedenti, allorché, deluso e amareggiato per
l’infelice evoluzione della politica post-unitaria e per
quello che egli giudicava lo scarso sentimento
patriottico e nazionale che contrassegnava le
popolazioni e le stesse classi dirigenti dell’Italia
unita, aveva guardato alla gioventù, ossia alle nuove
generazioni come ai principali destinatari di un’opera
di formazione etico-politica e di animazione delle
coscienze, capace di ridestare il sentimento della
patria e l’effettiva assunzione di una nuova e più
solida concezione della cittadinanza e delle
responsabilità sociali.
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•
In sostanza, la conversione dal giornalismo ‘per grandi’ a quello ‘per ragazzi’,
dall’azione politica a quella pedagogica, non costituì per Bertelli un ripudio dei
suoi ideali di laico e radicale: si trattava di un loro diverso orientamento, quasi
del passaggio ad un modo più lungimirante di realizzarli e verificarli.
•
Luigi Bertelli aveva avversato la politica triplicista e colonialista, il trasformismo
che degradava la costituzione delle maggioranze parlamentari. Dalle trascorse
lotte patrie non erano rimaste eredità di caratteri fondati sui doveri politici ed
etico-sociali, ma destrezze, personalismi e conformismo.
•
I giovani, perciò, dovevano essere rimessi in contatto con i grandi ideali
nazionali, si doveva soprattutto scardinare quell’abito conformistico e
‘qualunquistico’ che soffocava, nell’ambiente stesso della famiglia e della scuola,
i doveri e gli ideali della gioventù.
•
Di qui la passione con cui Luigi Bertelli si dedicò alla messa a punto del progetto e
all’avvio dell’impresa de «Il Giornalino della Domenica», attorno al quale cercò di
raccogliere il fior fiore degli intellettuali, degli artisti, dei letterati e scrittori, non
solo per l’infanzia, operanti in quegli anni, chiedendo loro di mettere a
disposizione il proprio talento per la realizzazione di un ambizioso progetto di
formazione delle nuove generazioni secondo gli ideali che avevano alimentato
l’esperienza risorgimentale.
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
Significative, al riguardo, appaiono le riflessioni con cui Bertelli riassumeva – per
i piccoli lettori de «Il Giornalino della Domenica» – il compito che egli sentiva
affidato non solo a se stesso, ma, più in generale, a quella «generazione di
mezzo» che si collocava tra il «grande ed epico Risorgimento nazionale» e
l’incerto futuro:
Quando i soldati italiani entrarono in Roma io ero entrato, invece, nel mio decimo anno
di età … e voialtri ragazzi, al contrario, non eravate ancora usciti all’onor del mondo.
Felici i soldati che andarono a riconquistare alla Patria la sua capitale – il suo cuore
fiammante – e si trovarono a quell’irresistibile scoppio d’entusiasmo che Edmondo De
Amicis (egli era fra loro) sa così ben racchiudere in un suo bel sonetto! E felici pur voi,
giovani d’Italia, che non eravate allora nati e a cui forse un amico destino riserba la
invidiabile fortuna di riconquistare alla Patria, nell’avvenire, altre sue membra
doloranti sotto l’artiglio predatore di uno straniero. Chi sta peggio siamo noi, nati
troppo tardi e troppo presto per far qualcosa; noi che comparimmo alla luce mentre i
nostri bravi babbi si battevano per far l’Italia, noi che spariremo nell’ombra quando i
nostri bravi figli si batteranno per completarla … Pazienza! E cerchiamo almeno di fare
una cosa: ricordare i nostri babbi che si batterono ai figli che si batteranno,
consegnando all’avvenire pieno di speranza sempre accesa la fiaccola sacra dell’Ideale
che alle nostre mani affidò il passato pieno di gloria.
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•
Il programma de «Il Giornalino della Domenica» era ispirato da una profonda
conoscenza dell’animo dei fanciulli e delle loro aspettative e passioni.
Nell’editoriale con il quale si apriva il primo fascicolo, infatti, il direttore illustrava
quali erano i destinatari e gli intenti del nuovo settimanale, non mancando di
sottolineare l’ampio spettro di temi e di motivi con i quali s’intendeva far breccia
nell’animo giovanile:
Occorre, dunque, che il Giornalino della Domenica sappia contentare tutto il suo
pubblico di lettori e di lettrici dai sette ai quindici anni, e contenga perciò il raccontino,
la fiaba, la poesia, per i bambini e per le bambine, e la novella, l’articolino di attualità,
la divagazione scientifica per i giovinetti e per le giovinette; ma occorre anche
dall’altra parte altrettanta buona volontà: che, cioè, ciascun di voi, lettori e lettrici del
nostro giornalino, non storca la bocca a quel tanto che vi troverà al disotto o al
disopra del proprio comprendonio e si accontenti di quel che vi sarà di adattato al suo
rispettabilissimo cervello.
•
Tra il 1906 e il 1920, Luigi Bertelli si dedicò completamente a «Il Giornalino della
Domenica», chiamandovi a collaborare letterati e scrittori di grande notorietà, come
Emilio Salgari, Ada Negri, Ida Baccini, Renato Fucini, Grazia Deledda, Luigi Capuana,
Giovanni Pascoli, Marino Moretti, Scipio Slataper, Edmondo De Amicis, Matilde Serao;
nonché giovani intellettuali, studiosi e scrittori e scrittrici per l’infanzia destinati a
maturare proprio sulle colonne del settimanale la loro vocazione.
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•
Il settimanale diretto da Vamba si propose fin dagli esordi di offrire ai suoi lettori
non soltanto occasioni di diletto e di autentico svago, ma anche conoscenze e
informazioni sulla realtà e sul «mondo degli adulti» capaci di stimolare in essi un
punto di vista autonomo e una nuova consapevolezza circa le esigenze della società
e i principi che ispiravano e regolavano la vita dello Stato e il progresso della
comunità civile.
•
I testi pubblicati su «Il Giornalino della Domenica» non avevano nulla a che fare
con la quotidianità scolastica del leggere, dello scrivere e del far di conto, del
nozionismo talora arido e fine a se stesso, normalmente sperimentata da fanciulli e
ragazzi, ma facevano riferimento a un progetto formativo che aveva come propria
finalità la progressiva acquisizione di un’identità culturale e sociale tipica della
nascente borghesia urbana. L’interlocutore non era quindi lo scolaro impegnato
nell’apprendimento di nozioni, ma il ragazzo in quanto persona autonomamente
dotata di gusti, desideri, fantasie.
•
«Il Giornalino della Domenica», insomma, «si presentava sulla scena dei periodici
per ragazzi come – si direbbe oggi – un soggetto educativo alternativo e parallelo
all’istituzione scolastica, uno strumento di formazione precisamente calibrato sulle
esigenze culturali della borghesia».
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
Forte di una tiratura media che nei primi anni raggiunse le 30 mila copie a
fascicolo, la rivista diretta da Vamba era destinata a rappresentare qualcosa di
più di un pur significativo e innovativo periodico per fanciulli e ragazzi.
Attraverso l’abile regia di Luigi Bertelli e dei suoi più stretti collaboratori, il
settimanale divenne il punto di riferimento e lo strumento di collegamento per
una serie di iniziative di mobilitazione della gioventù italiana, almeno di quella
dei ceti medio-alti e della borghesia urbana, nelle cui famiglie l’abbonamento a
«Il Giornalino della Domenica» assurse a una vera e propria consuetudine.
•
Nel 1908, sulle pagine del settimanale Luigi Bertelli rivolse un appello ai suoi
giovani lettori proponendo la costituzione di un’associazione destinata a dare
corpo ad un ambizioso programma formativo; nacque così la Confederazione
giornalinesca, poi detta del Girotondo, fra tutti gli abbonati, i quali, come
scriveva lui stesso, «formano un popolo sparso in tutta l’Italia, comprese
naturalmente le province di Trieste, dell’Istria, di Gorizia, della Dalmazia e di
Trento, poiché il nostro popolo non riconosce barriere politiche».
•
In tal modo Bertelli riuscì ad ampliare la funzione formativa de «Il Giornalino della
Domenica», cominciando ad abituare fanciulli e ragazzi, i futuri cittadini, alle forme
e alle pratiche della vita civile e politica del mondo adulto.
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•
La Confederazione riproduceva infatti le istituzioni di un vero e proprio statorepubblica, anche se si trattava naturalmente di uno «Stato balocco», e dunque di
una simulazione per gioco del fare politica. Al pari di una piccola repubblica, infatti, la
Confederazione giornalinesca del Girotondo aveva un presidente, lo stesso Vamba,
disponeva altresì di un parlamento, di un governo centrale, con sede a Firenze, di
prefetture nelle città maggiori, e di sindaci e assessori (assessorati alla Beneficenza,
alla Pace pubblica, allo Sport, ecc.).
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

A fronte del successo ottenuto in campo editoriale e degli ampi consensi
registrati tra i fanciulli e i ragazzi della borghesia italiana, «Il Giornalino della
Domenica» diretto da Luigi Bertelli non riuscì, nel corso della sua esistenza, a
raggiungere quella stabilità economica che, sola, avrebbe consentito al
settimanale di continuare ad uscire regolarmente e a sviluppare appieno le sue
straordinarie potenzialità.
L’elevata qualità del prodotto editoriale, che imponeva costi di produzione molto
alti, il bacino relativamente limitato dei potenziali lettori, pesantemente
condizionato dal notevole costo dell’abbonamento (12 lire l’anno) e un numero di
abbonati che, ancorché notevolmente superiore a quello dei periodici per ragazzi
di fine Ottocento, si sarebbe rivelato ben presto insufficiente a coprire le ingenti
spese richieste dalla pubblicazione e distribuzione del settimanale;
infine, il delinearsi dell’agguerrita concorrenza di altri vivaci e innovativi periodici
per la gioventù (si pensi a «Il Corriere dei Piccoli»), portarono ben presto «Il
Giornalino della Domenica» ad una serie di mutamenti organizzativi, preludio di
un suo lento declino che, di lì a poco, avrebbe condotto alla interruzione delle
pubblicazioni (1911).
Anna Ascenzi
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•
«Il Giornalino della Domenica» era stato creato con una precisa finalità formativa che
mirava a coinvolgere prevalentemente i figli della borghesia attorno ad un progetto di
costruzione di una salda identità nazionale (di qui l’ampio spazio assegnato da Vamba
alla narrazione del Risorgimento e all’esaltazione degli ideali patriottici e dello spirito
nazionale) e di promozione di una nuova cittadinanza imperniata su un solido
complesso di principi e valori fondanti: il sentimento di giustizia, il rigore morale e
l’onestà intellettuale, il rispetto per le leggi e per le istituzioni, la solidarietà sociale, il
senso di appartenenza alla comunità civile ecc.
•
Obiettivi, questi ultimi, che Luigi Bertelli aveva individuato come autentiche priorità
per il riscatto del Paese e per un reale quanto necessario superamento di quella
«penosa e inesorabile decadenza» in cui, dopo i fasti e le grandi speranze legati «alla
stagione del riscatto risorgimentale», il nuovo Stato era precipitato, massime nella
controversa stagione umbertina e nell’ancora incerta e convulsa età giolittiana.
•
Non a caso, accomiatandosi dai suoi lettori, Vamba avrebbe lucidamente chiarito che
«Il Giornalino della Domenica», per come era stato «ideato e creato, non poteva
naturalmente mirare a una immediata forte tiratura: se questo avesse voluto avrebbe
preso un altro indirizzo, con veste di minor prezzo, abbassando, snaturando e
adattando le proprie idee e i propri gusti al livello intellettuale dei più, invece di
dirigersi a un pubblico eletto di sane idee e di gusti fini, cui prema trasmetterli puri e
intatti ne’ propri figli».
Anna Ascenzi
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Scuola e Nazione
Il fascismo e la ridefinizione dell’insegnamento scolastico della
storia come strumento di una nuova «pedagogia nazionale»
Se è vero che l’insegnamento scolastico della storia assunse nel corso del
ventennio fascista – e più in particolare negli anni Trenta – un ruolo di primo
piano nel programma di trasformazione della scuola italiana in strumento di
propaganda e di formazione ideologica di massa, ovvero nell’edificazione
dell’uomo nuovo fascista, è altrettanto vero che tale ruolo, e più in generale la
centralità conferita all’insegnamento della storia nei curricula scolastici, fino a
farne il cardine del percorso di formazione ideologica e politica delle nuove
generazioni, rappresenta il risultato di un processo dalle movenze graduali e
tutt’altro che scontato nei suoi approdi e negli esiti finali.
Anna Ascenzi
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Esso infatti passa attraverso la liquidazione, a
partire dalla metà degli anni Venti, della riforma
Gentile del 1923 e il progressivo svuotamento
dell’impianto culturale e degli indirizzi pedagogici e
didattici che avevano connotato la scuola
gentiliana, nel cui ambito l’insegnamento della
storia era tornato ad assumere, dopo
l’accentuazione delle finalità di educazione politica
registrate nel corso dell’ultimo quindicennio del
secolo XIX e in epoca giolittiana, una valenza e un
ruolo eminentemente culturali e di formazione
etico-civile.

Sulle movenze di tale processo, che al principio degli anni Trenta poteva dirsi ormai
già concluso, pesarono indubbiamente le differenti strategie perseguite dal
ministero della Pubblica Istruzione, e poi dell’Educazione Nazionale, in materia di
controllo della manualistica e dei libri di testo sul versante della scuola primaria e
popolare e su quello, ben più composito e articolato, dell’istruzione secondaria.
Anna Ascenzi
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
Le scelte operate in materia di libri di testo non furono, infatti, irrilevanti ai fini
del superamento dell’impostazione gentiliana e della concreta attuazione di una
scuola al servizio della formazione politica e della propaganda ideologica del
regime, nel cui ambito l’insegnamento scolastico della storia assurgeva a
insegnamento cardine, a disciplina alla quale era assegnato il compito di
riannodare i fili con il glorioso passato, la cui rilettura diveniva funzionale alla
legittimazione del presente, di rafforzare l’identità e la coesione nazionali con
l’evocazione di un primato italiano che aveva trovato espressione nei secoli
passati e che occorreva ora rinverdire e riaffermare; di superare, infine, le
secolari divisioni e le irrisolte contraddizioni sociali ed economiche che
laceravano il Paese, attraverso l’invenzione di una missione storica che l’Italia era
chiamata ad esercitare nel mondo.

Con riferimento alla riforma Gentile del 1923, si può senz’altro affermare che, nella
determinazione dei contenuti e dell’articolazione didattica dell’insegnamento della
storia e nella stessa collocazione di tale disciplina all’interno dei diversi indirizzi e
curricula della scuola secondaria, si riscontra una netta inversione di tendenza
rispetto ai decenni precedenti.
Anna Ascenzi
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
In controtendenza con l’orientamento che aveva caratterizzato le élites liberali
nella stagione risorgimentale e post-unitaria e che era stato ribadito con forza e a
più riprese nel corso dei primi due decenni del secolo XX, la funzione giocata
tradizionalmente dalla storia nella formazione delle classi dirigenti e nella
socializzazione dei ceti subalterni veniva ridimensionata.

Coerentemente con i suoi indirizzi teoretici, infatti, il filosofo neoidealista Giovanni
Gentile puntava essenzialmente sulla filosofia e sulle letterature per realizzare
l’obiettivo della formazione delle classi dirigenti.

A riprova di ciò, basterebbe qui richiamare il maggiore spazio orario assegnato alla
filosofia e alle discipline letterarie rispetto alla storia e, soprattutto, l’impostazione
didattica e contenutistica conferita a quest’ultimo insegnamento rispetto a quelli
filosofico e letterario.
Anna Ascenzi
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
Ma la cesura forse più rilevante realizzata da Giovanni Gentile rispetto ai programmi
di storia emanati nelle fasi precedenti riguardava l’impostazione storiografica di fondo
e, conseguentemente, il criterio guida che avrebbe dovuto presiedere all’analisi e
all’interpretazione delle vicende storiche.
Anna Ascenzi
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
Nelle Avvertenze poste in calce ai programmi di storia del 1923 per il conseguimento
della maturità classica, scientifica e magistrale, in singolare controtendenza con gli
indirizzi della storiografia positivistica tradizionale e di quella di matrice economicogiuridica, l’impostazione etico-politica si precisava in modo netto:
Il senso degli avvenimenti – precisavano le Avvertenze predisposte dal ministro
Gentile – è tutto nelle idee, negli istituti in cui sorgono e a cui conducono, e
questo dev’essere ben chiaro all’intelligenza del candidato perché è quello che
deve rimanergli fisso nell’animo dell’insegnamento della storia.

In sostanza, la svalutazione operata in sede teorica dal Gentile «di tutte le ‘altre’
storie rispetto a quella della filosofia» conferiva un tono tutto particolare ai
programmi del 1923: la negazione della storia dei ‘puri fatti’ si risolveva in pura e
semplice svalutazione dei fatti medesimi; l’esigenza della sintesi, del coordinamento
razionale dei fatti diventava, una volta perso il solido supporto degli avvenimenti,
affermazione di una storia astratta e disincarnata.
Anna Ascenzi
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L’avvento di Alessandro Casati alla Minerva
coincise, com’è noto, con l’avvio dei primi
‘ritocchi’ alla riforma Gentile, i quali,
tuttavia, interessarono solo
marginalmente i nuovi programmi di storia
per le scuole secondarie.

La mancata inversione di tendenza, da molti auspicata, ebbe come conseguenza il
rinfocolarsi delle polemiche e il manifestarsi di un dissenso crescente tra le fila della
stessa burocrazia ministeriale, soprattutto all’indomani della pubblicazione delle
relazioni delle commissioni dei primi esami di maturità classica e di abilitazione
magistrale (1924), dalle quali emergevano con chiarezza gli esiti tutt’altro che positivi
prodotti dalle innovazioni gentiliane.

La diffusa ignoranza riscontrata circa le fondamentali coordinate cronologiche e
geografiche e, su un diverso piano, la carente preparazione dimostrata da tanta parte
degli esaminandi in ordine alle vicende della storia risorgimentale e contemporanea
sembravano avvalorare in modo inequivocabile le manchevolezze e i gravi limiti
dell’impostazione gentiliana.
Anna Ascenzi
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Non sorprende, a questo proposito, il fatto che il
nuovo ministro della Pubblica Istruzione Pietro
Fedele, subentrato al Casati alla guida della
Minerva all’indomani della crisi successiva
all’assassinio di Giacomo Matteotti, si
impegnasse a porre mano all’ormai inevitabile
revisione dei programmi didattici introdotti da
Gentile, in particolare di quelli di storia.

Tale revisione giungeva in una fase particolarmente cruciale e drammatica della storia
italiana: quella, per intenderci, che segnava il definitivo tramonto dello Stato liberale
e la trasformazione del fascismo in regime totalitario.
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
I nuovi programmi di storia emanati da Fedele si caratterizzavano per un indirizzo di
fondo assai differente rispetto a quello caratteristico dei precedenti, venati com’erano
di suggestioni positivistiche (il ritorno ai ‘fatti’) e di aperture agli indirizzi e ai temi cari
alla storiografia economico-giuridica. Per altri versi, l’ottica di storia politica affiancava
o addirittura sostituiva quella di storia della civiltà nei corsi inferiori e quelle di storia
delle istituzioni e delle idee nei corsi superiori.

Sul piano ideologico, la tendenza a porre un’attenzione più marcata sulla storia
contemporanea rifletteva la volontà di stabilire un primo – e per ora implicito –
legame con i principi del regime fascista: sottolineare con enfasi maggiore l’epopea
risorgimentale, porre al centro dell’attenzione la prima guerra mondiale, far risaltare il
‘nuovo posto dell’Italia nel mondo’, equivaleva a rendere operanti istanze care ai
nazionalisti e, nel contempo, a rilanciare quell’uso ideologico e politico
dell’insegnamento scolastico della storia che la riforma Gentile aveva in larga misura
accantonato se non addirittura rimosso.
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
Nella seconda metà degli anni Venti, parallelamente all’avvio del processo di
trasformazione in senso totalitario dello Stato e della messa fuori legge non
solamente dei partiti democratici, ma anche degli organismi di rappresentanza
sindacale e delle stesse associazioni professionali di categoria, il regime mussoliniano,
com’è noto, s’impegnò in un organico processo di fascistizzazione della scuola italiana,
attraverso un’opera sistematica destinata ad interessare progressivamente gli apparati
amministrativi centrali e periferici della Pubblica Istruzione, l’operato del corpo
docente, l’organizzazione della didattica e gli stessi indirizzi culturali
dell’insegnamento (programmi didattici, libri di testo ecc.).
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Il vero e proprio mutamento di rotta sul versante
dei programmi di storia per le scuole secondarie
si registrò, tuttavia, qualche anno più tardi,
allorché nel 1930 furono varati i nuovi
programmi didattici firmati dal ministro Balbino
Giuliano, l’ex provveditore agli studi della
Lombardia, già fedelissimo di Gentile, ora
divenuto uno dei principali fautori del nuovo
corso totalitario nella scuola italiana.

I programmi predisposti dal ministro Giuliano si differenziavano profondamente
rispetto a quelli varati nell’ambito della riforma gentiliana del 1923, proiettando
l’insegnamento della storia in uno scenario ideologico e politico del tutto nuovo.

Su questo versante, con particolare riferimento all’età contemporanea, meritano di
essere sottolineati la vera e propria centralità conferita alla storia nazionale, rispetto
alla più generale evoluzione dello scenario europeo ed extra-europeo, e l’ampio
spazio attribuito alle vicende più recenti, ovvero a quelle relative al primo dopoguerra
e all’avvento del fascismo: «L’Italia da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. Il
Fascismo e la rinnovazione etico-giuridica dello Stato. L’ordinamento corporativo. Il
nuovo posto dell’Italia nel mondo».
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
Su un piano più generale, i mutamenti di prospettiva sopra richiamati si ponevano
nella direzione di un più stretto ed efficace raccordo con gli orientamenti politici del
regime. La centralità dei grandi personaggi, l’accresciuta importanza degli
avvenimenti di carattere militare, l’enfasi posta sugli aspetti guerrieri conferivano alla
storia un accento ‘eroico’, la restrizione dell’orizzonte geografico e la prospettiva più
marcatamente italocentrica erano gli elementi fondamentali di un’educazione
improntata ad un gretto ed esasperato nazionalismo.

Per altri versi, si trattava di fare emergere in modo privilegiato dal passato aspetti e
vicende sentiti particolarmente affini dallo Stato fascista, ovvero dare spessore
storico e implicita, quanto autorevole sanzione alle scelte politiche mussoliniane:
tra passato e presente, in sostanza, era stabilito artificiosamente un nesso
talmente forte da dare l’impressione di un processo unitario, del quale in fascismo
rappresentava il culmine e l’autentico compimento.

Fin dal 1930, dunque, il processo di liquidazione dell’impianto gentiliano e di
definizione in termini ideologico-politici e propagandistici dei programmi
d’insegnamento della storia poteva dirsi compiuto, almeno nelle sue direttrici
fondamentali.
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•
Con i programmi di storia per le scuole
secondarie emanati nel 1933 dal nuovo
ministro dell’Educazione Nazionale
Francesco Ercole la linea di tendenza e le
dimensioni e caratteristiche sopra
richiamate trovavano un ulteriore e più
incisivo sviluppo.
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

Così, ad esempio, a fronte di una significativa riduzione delle parti del programma
relative alla storia antica e a quella medievale e moderna, i capitoli relativi alla storia
contemporanea registravano un notevole incremento, e soprattutto un’ulteriore
accentuazione delle parti concernenti le vicende italiane, specie nel caso della fase
successiva all’avvento del fascismo.
Per limitarci ai secoli XIX e XX, dopo avere richiamato l’opportunità di fornire agli
alunni alcuni «Cenni sullo sviluppo politico ed economico dei maggiori Stati nel secolo
XIX», il programma di storia per l’ultimo anno degli istituti tecnici concentrava la sua
attenzione pressoché esclusivamente sui fatti nazionali: «Sviluppo civile ed economico
dell’Italia dal 1815 al 1861», «Il regno d’Italia dal 1861 al 1879», «La vita politica
italiana dal 1870 al 1914».
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I nuovi programmi didattici introdotti tre
anni più tardi, nel quadro della
cosiddetta «bonifica fascista della
cultura» e della scuola italiana, dal
ministro Cesare Maria De Vecchi di Val
Cismon, giungevano all’indomani
dell’impresa etiopica e della
proclamazione dell’Impero.


Con il provvedimento varato da De Vecchi, l’insegnamento della storia assumeva una
finalità specifica e prioritaria: esso, infatti, doveva essere impartito in modo tale da far
emergere «l’apporto fondamentale recato in ogni tempo e in ogni campo dal nostro
Paese».
Sotto questo profilo, «il massimo rilievo» avrebbe dovuto essere dato «in ogni ordine
di scuole al processo formativo dello Stato unitario che confluisce nel Fascismo, alla
funzione esercitata dalla dinastia Sabauda dal suo primo orientamento verso l’Italia
all’azione decisiva che essa svolse durante il Risorgimento e nella più recente vita
italiana». Lo stesso Risorgimento avrebbe dovuto essere presentato agli alunni «non
quale materiale conseguenza di sia pur grandi eventi stranieri, ma come fenomeno
schiettamente italiano le cui origini risalgono ai primordi del secolo XVIII».
Anna Ascenzi
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
Nel complesso, comunque, i programmi di storia del 1936 non apportavano grandi
mutamenti rispetto a quelli varati tre anni prima, se non sotto il profilo
dell’aggiornamento cronologico e dell’ulteriore sviluppo dell’impostazione
marcatamente ideologica e politica già adottata dal ministro Francesco Ercole.

Una simile scelta traeva la sua principale motivazione dalla necessità di promuovere
negli alunni il sentimento della «funzione perenne di Roma nella storia della civiltà»:
una funzione che proprio nel 1936, con il «ritorno dell’Impero sui Colli fatali di
Roma», il fascismo avrebbe contribuito a rilanciare in tutta la sua grandezza.
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
Sulla scia dei programmi di storia del 1933, infine, quelli varati dal ministro De Vecchi
estendevano ulteriormente l’arco cronologico della storia contemporanea, fino a
comprendere – attraverso l’assunzione di una lettura degli eventi primo
novecenteschi (l’età giolittiana e il primo dopoguerra) in termini di «crisi» e di
inarrestabile «declino» del Paese, il cui «nuovo risorgimento» appariva strettamente
correlato con il trionfo della «rivoluzione fascista» – le ultime imprese e realizzazioni
del regime mussoliniano («Il nuovo Stato fascista. Il rinnovamento della coscienza e
l’unità spirituale del popolo italiano. La politica estera e coloniale del Fascismo.
Sviluppo agricolo, industriale e commerciale. Italia urbana e Italia rurale») e, in
particolare, le vicende relative a «L’impresa etiopica», alle ‘inique sanzioni
economiche’ decretate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni («L’assedio
economico») e alla creazione dell’Impero.
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
Se dall’esame degli ordinamenti e dei programmi didattici si passa a quello dei libri di
testo, ovvero dei manuali di storia per le scuole secondarie, si rende opportuno
tenere presente una serie di fattori di carattere generale che meritano di essere
segnalati preliminarmente, in quanto consentono di cogliere talune delle direttrici del
più complessivo sviluppo dell’insegnamento storico.
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
In primo luogo, si può notare che, a fronte della sostanziale continuità e stabilità
della produzione manualistica registrata nei primi due decenni del secolo XX, nel
corso degli anni Trenta è dato di riscontrare il venir meno della maggior parte dei
manuali in uso precedentemente: solo un ridotto numero di essi ebbe riedizioni o
ristampe e, comunque, in forma profondamente rimaneggiata.

Sul piano dell’analisi dell’impianto storiografico e degli orientamenti ideologici e
politici che caratterizzavano i manuali adottati all’indomani della riforma Gentile,
la realtà risulta assai più composita e articolata di quanto le tradizionali e un po’
semplicistiche interpretazioni offerte dalla ricerca storico-pedagogica tendano ad
accreditare.

Una pur rapida scorsa ai testi adottati, ad esempio, rivela come certe nette
distinzioni di campo appaiono assai più fluide e sfumate allorché ci si riferisca alla
manualistica scolastica. E ciò, si badi, non solo e non tanto per i vincoli imposti
dai programmi didattici, quanto, piuttosto, per l’influsso esercitato sugli autori
dei manuali di storia – in taluni casi giovani storici destinati a raggiungere una
discreta notorietà e, talora, ad ottenere una cattedra universitaria – dal nuovo
clima generato dalla prima guerra mondiale.
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
L’istanza nazionalistica, ad esempio, doveva alimentare larga parte della produzione
manualistica per le scuole primarie e secondarie, condizionando non solamente
quegli autori che si richiamavano alla storiografia di matrice etico-politica, ma
anche, in modo specifico, quegli storici che in epoca giolittiana si erano mostrati
sensibili ai temi e ai motivi della scuola storica economico-giuridica e del
materialismo storico.

E’ il caso, solo per fare solo un esempio , di un autore come Niccolò Rodolico, il cui
Sommario storico ad uso dei licei, edito alla vigilia della riforma Gentile, era
destinato ad incontrare una notevole fortuna scolastica e ad avere numerose
ristampe e riedizioni negli anni seguenti.
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
In termini più generali, si potrebbe dire che l’esperienza dell’interventismo, il
prepotente affermarsi degli ideali patriottici e di un sentimento nazionale dai tratti
nuovi rispetto al retaggio ottocentesco e primo novecentesco, la crisi intellettuale e
spirituale generata dalla Grande Guerra, infine, avevano favorito l’emergere – anche
sul piano storiografico – di aspirazioni e orientamenti talora anche radicalmente
differenti rispetto a quelli che avevano caratterizzato la fase precedente.

In sintesi, l’analisi dei manuali adottati nel corso della seconda metà degli anni Venti
rivela una certa eterogeneità di indirizzi storiografici e di orientamenti ideologici e
culturali. Prevalente tuttavia, come nel caso del già ricordato Sommario storico di
Niccolò Rodolico e della Storia medievale, moderna e contemporanea di Alfonso
Manaresi – per citare solo i due manuali più noti e maggiormente adottati nei licei
italiani – è l’ottica politico-militare, caratterizzata da forti venature nazionalistiche e
patriottiche, specie nella narrazione della storia moderna e contemporanea.

La centralità dell’epopea risorgimentale e del raccordo di questa con la Grande
Guerra («la quarta guerra d’Indipendenza»), il riferimento ad un presunto primato e
alla missione civilizzatrice dell’Italia, la svalutazione dei partiti e delle forze politiche
dello Stato liberale e, per contro, una lettura del fascismo come antidoto al
disordine e ai conflitti sociali del primo dopoguerra, come occasione
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per riannodare i fili della tradizione politica e culturale nazionale, per ristabilire
l’ordinato sviluppo sociale ed economico del Paese, per rilanciare l’Italia nello
scenario internazionale e consentirle di riprendere il ruolo che le spettava nel novero
delle grandi potenze europee: sono questi gli aspetti eminentemente ideologicopolitici e a forte connotazione nazionalistica che tornano più frequentemente nei
manuali.

Si comprende bene come un simile approccio della manualistica storica più diffusa
fosse indubbiamente poco coerente con l’impostazione che Gentile aveva inteso
conferire all’insegnamento della storia nelle scuole secondarie, massime nei Licei.

Almeno per quel che concerne i manuali di storia per le scuole secondarie, infatti,
siamo ben lontani da presunte egemonie neo idealistiche e da astratte «ipoteche
gentiliane». Paradossalmente, ciò che non è dato di ritrovare nei testi adottati in
questo periodo è proprio quell’approccio di tipo idealistico, quel maggiore slancio
culturale, quella capacità di introdurre gli alunni ad una più alta ed efficace
comprensione delle origini e dell’evoluzione delle grandi civiltà auspicati da Giovanni
Gentile.
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
Gli anni Trenta, dunque, registrarono l’introduzione di una nuova generazione di
manuali di storia, le cui caratteristiche presentano scarsi elementi di continuità con
quelli della fase immediatamente precedente.

È il caso de Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista (1930) e di
Nazioni e imperi dell’età moderna di Carlo Capasso, che facevano parte di una
collezione di manuali di storia per i diversi ordini della scuola secondaria dal titolo
«Le Nazioni e gli Imperi», edita dalla casa editrice Vitagliano di Milano in vista dei
nuovi programmi didattici introdotti nello stesso 1930.

Tale manualistica, sia pure con sfumature e accenti diversi, si configurava come
pienamente coerente con l’impronta fortemente ideologizzata e con l’obiettivo di un
uso propagandistico della storia, fatti propri dai già ricordati programmi didattici per
le scuole secondarie emanati nel 1930, nel 1933 e nel 1936 rispettivamente dai
ministri Balbino Giuliano, Francesco Ercole e Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon.

In sostanza, si ritrovano in questi manuali i tratti caratteristici e distintivi di una
concezione dell’insegnamento scolastico della storia non solamente ormai del tutto
disancorata dalla ricerca scientifica del settore e dalle acquisizioni della più accreditata e
rigorosa storiografia italiana ed europea, ma anche scarsamente sensibile ai temi della
crescita culturale degli alunni.
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
Impegnata, per converso, a fornire una lettura delle vicende e degli avvenimenti del
passato funzionale al progetto di fascistizzazione integrale delle nuove generazioni
perseguito dal regime e per ciò stesso aliena da ogni problematicità interpretativa,
incline ad un esasperato italocentrismo e portata alla semplificazione, alla sintesi
enfatica e retorica, in qualche caso a veri e propri anacronismi e forzature.

Una vera e propria rilettura integrale delle vicende della storia moderna e
contemporanea in chiave fascista era offerta dal già ricordato Carlo Capasso nei due
ambiziosi e fortunati manuali – Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista
e Nazioni e imperi nell’età moderna – dati alle stampe entrambi nel 1930 dall’editore
Vitaliano di Milano e prefati rispettivamente da due insigni gerarchi del regime: Luigi
Federzoni e Alfredo Rocco.

Nel ripercorrere le vicende dell’epoca moderna, l’autore, come sottolineava con vivo
apprezzamento Federzoni, non aveva esitato a porsi in netta e coraggiosa
controtendenza con «l’orientamento di pensiero» prevalente in Italia e all’estero pur
di correggere gli errori e di colmare le lacune della storiografia tradizionale e di offrire
una ricostruzione dei fatti e dei personaggi finalmente «veritiera» e in sintonia con le
«tradizioni italiche».
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Straniero – scriveva Federzoni – è stato l’orientamento di pensiero che ha fatto apparire
i signori italiani del primo Rinascimento quali altrettanti mostri di viziosa crudeltà e di
capricciosa perfidia, mentre un invitto romanticismo anche indigeno ha idealizzato in
perpetuo l’epoca dei Comuni come la virtuosa primavera cristiana, patriottica e
democratica della Nazione. Ora la verità, per noi, è diversa. Noi sappiamo che i Comuni,
per le fiere e sanguinose dissensioni interiori che li travagliano e politicamente li
paralizzano, come per le loro vigili gelosie reciproche, tendono a comporsi in un sistema
di equilibrio, che non arriva mai a saldarsi durevolmente […]. Solo il Signore, sorgendo a
debellare inesorabilmente i rivali e i refrattari, porta con la sua energia la tranquillità e
l’ordine entro le mura cittadine […]. La sua avidità di dominio è, senza che egli lo sappia,
lo strumento di una necessità storica messo al servizio della Nazione.

Allo stesso modo, merito non secondario del manuale era quello di avere finalmente
corretto le «falsificazioni» costruite a bella posta riguardo al significato e alla portata
dei conflitti religiosi del XVI secolo e della Rivoluzione francese.
L’avvenimento culminante dell’età moderna – scriveva ancora Federzoni – è la Riforma
protestante, che l’insidiosa falsificazione massonica, inspirata dalla faziosità
anticattolica, ha voluto glorificare come l’aurora della libertà e del progresso etico e
politico del genere umano.
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Noi crediamo che, anche prescindendo in questa sede dal principio religioso, assorbente
e decisivo per ogni credente, oggi nell’Italia fascista non si possa parlare della Riforma
senza ricordare che essa fu sopra tutto il segno della rivolta del mondo germanico e
anglo-sassone contro la supremazia morale di Roma e che, spezzando irreparabilmente
la compagine spirituale dell’Europa, causò un nuovo e più grave oscuramento della
latinità […]. Ideologicamente figlia e nepote della Riforma, la Rivoluzione francese
scaturisce da cagioni talmente profonde e suscita un così smisurato sommovimento di
passioni, di dee e di moltitudini, che sarebbe troppo semplicistico pretendere di
definirne il carattere e lo svolgimento […]. Importa invece che i giovani italiani ricordino
che l’aspirazione al rinnovamento politico, l’idea dell’indipendenza, l’incitatrice
coscienza dell’unità non nascono miracolosamente in Italia dal riflesso dei «lumi» di
Francia, né dal trionfo degli eserciti rivoluzionari e napoleonici. Una nobile corrente
nazionale di pensiero e di cultura aveva già precorso e preparato il risveglio della
Patria.

La prefazione di Federzoni rispecchia la linea interpretativa adottata nel manuale
sull’età moderna del Capasso e fa emergere l’idea di ricostruzione storica italocentrica
e imperniata sulla rivendicazione di una sorta di primato nazionale derivante dal
legame con la classicità romana, nonché su una visione dell’epoca moderna come un
perpetuarsi dello scontro tra la «civiltà latina» e «il mondo germanico e anglosassone», reo di avere spezzato l’unità politica, culturale e religiosa del mondo antico
e medievale.
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
A completamento di tale «rilettura» della storia moderna si poneva l’orgogliosa
rivendicazione di una «via italiana», autonoma e autosufficiente al «riscatto
nazionale», destinata a culminare con l’epopea risorgimentale e con la costituzione
dello Stato unitario, qual era quella offerta dal Capasso, il quale, nel ripercorrere le
vicende relative a «Il risveglio italiano nella seconda metà del secolo XVIII»,
sottolineava:
Le riforme [settecentesche] ebbero larga attuazione anche in Italia. Senza essere così
radicali come quelle giuseppine, esse si presentarono più organiche e più rispondenti
alle necessità: ebbero anche la fortuna di avere un lungo periodo di esperimento e,
quindi, nelle loro linee generali si può dire che rimasero. Avvenne di conseguenza che
l’Italia […] poté compiere buona parte di quelle trasformazioni economiche e sociali che
la Rivoluzione impose in Francia con la violenza. In altri termini l’Italia, in alcune delle
sue parti, aveva già fatto prima della Francia la sua rivoluzione.
Piuttosto gli Italiani potevano interessarsi del lato politico della questione: ossia il
conseguimento di libertà e di Costituzioni. Per di più si era iniziato un generale risveglio,
presso di noi – del quale sono espressione per una parte i grandi scrittori della seconda
metà del secolo, i grandi eruditi e scienziati e artisti – il quale senza concepire subito
l’idea di una possibile unificazione della penisola dava però la sensazione di una
coraggiosa coscienza d’italianità anche in politica, il che era naturalmente un
presupposto necessario per lo sviluppo dell’idea nazionale a idea unitaria.
Anna Ascenzi
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
L’opera di «rilettura» in chiave fascista della storia, avviata da Capasso con il manuale
sull’età moderna, trovava il suo completamento con il manuale Le nazioni moderne
dall’età napoleonica all’era fascista, incentrato sulle vicende contemporanee.
Anche in questo, la prefazione – affidata, al giurista Alfredo Rocco – era destinata a fare
emergere la linea interpretativa adottata dall’autore.
Il sorgere dell’ideologia fascista – scriveva Rocco – costituisce, e sempre più costituirà,
man mano che la dottrina andrà elaborandosi e diffondendosi, nel campo
intellettualistico, un rivolgimento non meno vasto di quello che produsse, nei secoli
XVII e XVIII, il sorgere e il diffondersi delle dottrine giusnaturalistiche, che vanno sotto
il nome di «filosofia della rivoluzione francese». Questa filosofia, che mise capo alla
formulazione dei principii, la cui autorità fu per un secolo e mezzo indiscussa, fino a
meritare l’attributo dell’immortalità, determinò la formazione di una nuova cultura e
di una nuova concezione del vivere civile. Alla rivendicazione dell’individuo contro la
Società, avvenuta nel secolo XVIII, segue nel secolo XX la rivendicazione della società
contro l’individuo. All’epoca dell’individualismo, dell’indebolimento dello Stato, della
indisciplina, segue l’epoca della socialità, dell’autorità, della gerarchia […]. Non
dunque contro il medioevo si rivolse il movimento individualistico e antisociale dei
secoli XVII e XVIII, ma contro la restaurazione dello Stato, operata dalle grandi
monarchie nazionali. Che se il movimento batté in breccia anche istituzioni medievali
sopravvissute al medioevo e innestatesi nel nuovo Stato unitario, ciò non fu che la
conseguenza della lotta intrapresa contro lo Stato.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata
Alfredo Rocco individuava un autonomo e originale «pensiero politico e giuridico
italiano», estraneo e contrapposto alle teorie giusnaturalistiche e ai teorici
dell’individualismo, il quale nel corso dei secoli aveva sostenuto, in sostanziale continuità
con la tradizione classica, il primato della comunità politica sull’individuo e la supremazia
dello Stato sulla società civile:
Il pensiero liberale-democratico-socialista, per le sue origini e il modo del suo sviluppo
appare una formazione essenzialmente oltremontana, tedesca, francese e inglese. Già il
fatto delle sue profonde radici medievali lo rivela estraneo allo spirito latino. La grande
disgregazione medievale fu effetto del prevalere dell’individualismo germanico sullo spirito
politico di Roma. I barbari, operando dentro e fuori l’Impero, distrussero la grande
costruzione politica dovuta al genio latino, ma non vi sostituirono nulla […]. L’Italia fu quasi
estranea al sorgere e al diffondersi del giusnaturalismo: solo nel secolo XIX vi si ricollega
tardivamente, come tardivo e limitato fu il contributo che gli dette alla fine del secolo XVIII
con Beccaria e Filangieri. Mentre, pertanto, negli altri paesi di Europa: Francia, Inghilterra,
Germania, Olanda, la grande tradizione, nel campo delle scienze sociali e politiche, è per
l’individualismo antistatale, e quindi per le dottrine liberali e democratiche, in Italia la
grande tradizione è per una forte concezione dei diritti dello Stato, della preminenza della
sua autorità, della superiorità dei suoi fini. Il fatto stesso che la dottrina politica italiana, nel
medioevo, si ricollega ai grandi scrittori politici dell’antichità, Platone ed Aristotile, nei quali,
in diverso modo, ma saldamente, domina il concetto dello Stato forte e della subordinazione
degli individui allo Stato, dà ragione sufficiente dell’indirizzo della filosofia politica in Italia.
Anna Ascenzi
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Sulla base di tali premesse, Rocco illustrava le caratteristiche di quell’autonomo e originale
«pensiero politico e giuridico italiano» che, da Machiavelli e Vico, attraverso Cuoco e Mazzini,
aveva alimentato il Risorgimento nazionale e ispirato la stessa «Rivoluzione Fascista»:
La tradizione romana […] influì ancora più direttamente e profondamente sul fondatore
della scienza politica moderna: Nicolò Machiavelli […]. È inutile cercare in Nicolò
Machiavelli la costruzione di teorie dello Stato: vi si troverà invece una inesauribile
miniera di osservazioni e di consigli pratici, in cui però l’idea dello Stato domina e non
più come pura astrazione, ma come realtà concreta, come idea dello Stato Nazionale
Italiano. Machiavelli non è dunque soltanto il più grande degli scrittori politici moderni,
ma è anche il più grande italiano che ebbe chiara la visione dell’Unità dell’Italia nello
Stato Nazionale. Per fare libera e grande l’Italia, serva, lacera e corsa, a Machiavelli
parve buono ogni mezzo, pensando egli che la grandezza e la santità del fine
l’avrebbero purificato […]. Machiavelli non fu solo un grande politico, fu un maestro di
energie e di volontà; a lui il fascismo si ricollega non solo come dottrina, ma come
azione. Dopo Machiavelli, G.B. Vico. Altra tempra d’ingegno, altro tipo di cultura, altra
forma di scrittore, ma che al Machiavelli si ricongiunge e dal Machiavelli, in parte,
deriva. In pieno imperversare del giusnaturalismo, Vico se ne discosta e lo combatte, e
conduce la sua vigorosa polemica contro i principii del diritto naturale: Grozio, Seldeno
e Pufendorf, contro l’astrattismo, il razionalismo e l’utilitarismo del secolo XVIII […].
Anna Ascenzi
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Del Vico è la critica delle democrazie, l’affermazione della loro breve durata, del loro
rapido risolversi, per l’opera delle fazioni e dei demagoghi, prima nell’anarchia, poi nelle
monarchie quando l’estrema corruzione non le conduce al servaggio allo straniero […]
Vichiano è il concetto della libertà civile come soggezione alla legge, come giusta
subordinazione dell’interesse privato all’interesse pubblico, all’impero dello Stato. Vico ha
disegnata la società moderna come un mondo di Nazioni custode ciascuna di un proprio
impero, combattenti tra loro giuste e non inumane guerre. In Vico è quindi la condanna
del pacifismo, e vichiana è l’affermazione che il diritto si attua con la forza del corpo, che
senza la forza la ragion non vale e che quindi «qui ab iniuriis se tueri non potest, servus
est». Sono evidenti le analogie con i concetti fondamentali e soprattutto con lo spirito
della dottrina fascista. E si comprende. Il Fascismo, fenomeno prettamente italiano, si
ricollega col Risorgimento e il Risorgimento subì indubbiamente l’influsso del Vico […].
Forse G.B. Vico sarebbe rimasto estraneo al movimento intellettuale che accompagnò il
moto politico dell’unità italiana, se un altro forte ingegno meridionale, Vincenzo Cuoco
non si fosse fatto tramite e propugnatore del pensiero vichiano, proprio negli anni in cui si
preparava intellettualmente il risorgimento […]. All’influsso della tradizione italiana,
riassunta e tramandata dal Cuoco, non si sottrasse il Mazzini, le cui idee sulla funzione
del cittadino come dovere e come missione, si ricollegano piuttosto alle concezioni
vichiane, che non alle dottrine filosofiche e politiche della rivoluzione francese […]. Nella
concezione mazziniana del cittadino come mezzo per il raggiungimento dei fini della
Nazione, obbligato da una superiore missione al dovere del sacrificio supremo, noi
vediamo anticipato veramente uno dei punti fondamentali della dottrina fascista.
Anna Ascenzi
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
In realtà, notava ancora Alfredo Rocco, «l’autonomia del pensiero politico italiano
affermatasi vigorosamente con G.B. Vico, rivendicata nobilmente da Vincenzo Cuoco,
conservatasi anche durante il moto del Risorgimento, che pur sentì così
prepotentemente l’influsso delle ideologie straniere, sembrò esaurirsi e sparire dopo
conseguita l’unità» nazionale. Di qui il grande merito del fascismo, il quale aveva
assunto il compito «di ricondurre il pensiero italiano, nel campo delle dottrine politiche,
alle sue tradizioni, che sono le tradizioni stesse della romanità» e, attraverso tale opera,
«che integra[va] e continua[va] il Risorgimento», cessata la «servitù politica», aveva
operato affinché cessasse «la servitù intellettuale del popolo italiano».

Tale visione storica trovava ampio spazio nel manuale del Capasso, il quale, nel
ripercorrere le principali vicende dell’età contemporanea, non mancava di offrire
continui motivi di riflessione atti a presentare l’odierna realtà del fascismo come sintesi
e ricapitolazione della storia nazionale, «culmine e inveramento delle tradizioni italiche
di pensiero e azione».

Così, Napoleone Bonaparte era presentato dall’autore come il «restauratore del
principio di autorità dello Stato» e la creazione dell’impero napoleonico era riguarda
come l’esito necessario di un processo volto a scardinare le vecchie consuetudini e il
vecchio mondo che derivava i suoi istituti dalla tradizione medievale e a consolidare lo
Stato moderno contro l’opera disgregatrice delle vecchie potenze europee e contro le
manovre di quei settori della società che auspicavano il ritorno alle idee e agli
ordinamenti rivoluzionari.
Anna Ascenzi
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
Nel lungo exursus di Capasso sull’epopea risorgimentale erano destinate a campeggiare
le figure di Giuseppe Mazzini e di Camillo Benso di Cavour, considerate l’espressione
delle due principali correnti ideali e politiche che, sotto l’egida della monarchia sabauda,
avevano incarnato l’ideale unitario e creato le condizioni per l’indipendenza nazionale.
Se consideriamo la grandiosità del programma nazionale, dobbiamo ancora rilevare la
portata sensibilissima della scossa data dal Mazzini all’Italia. Tanto più se inquadriamo la
cosiddetta «missione» dell’Italia nel rinnovamento del mondo, del quale essa avrebbe
dovuto segnare la base. L’unificazione nazionale italiana nella dottrina mazziniana era un
dovere da compiere nell’interesse non di una sola nazione, ma per il bene dell’umanità.
L’Italia doveva servire di guida, di esempio, di aiuto per il rilevamento di tutte le nazioni
oppresse in un ideale di giustizia e di solidarietà umana […]. Sfrondando, pertanto, tutto ciò
che è caduco e inattuabile o irreale, è innegabile che nel programma mazziniano stavano
alcune idee fondamentali grandiose e feconde: esse hanno segnato non solo un’orma
profonda, ma hanno costituito – e questo importa soprattutto – un progresso sensibile e un
sicuro avviamento alla risoluzione del problema. Fissando come concetti programmatici la
unità, la indipendenza, la libertà della Nazione, l’educazione della coscienza nazionale, la
necessità della azione oltre che del pensiero (vedi il motto Pensiero ed Azione), dando
anche rilievo al maggiore interessato, il popolo, e risvegliandone l’animo, Mazzini gettava
le linee direttive indistruttibili.
Anna Ascenzi
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Poco importa che egli vagheggiasse repubbliche, democrazie, sistemi internazionali di
collaborazione, che fosse vago e mistico troppo spesso […]. Il programma mazziniano ha
veramente prodotto nelle coscienze quel rivolgimento che le antiche sette, del tutto
separate dalle masse, non potevano operare così facilmente: il che si esprime in un
risultato, la cui efficienza si doveva sentire più tardi e in tempi più adatti […]. Toccherà ad
altri uomini egualmente ardenti per l’ideale nazionale, certo educati alle stesse sue idee
nazionali, di saper fare tesoro delle migliori dottrine mazziniane e contemperarle con la
necessità della Monarchia.

Ben diversa, naturalmente, era il profilo di Cavour presentato dal Capasso.
Personalità veramente di primissimo ordine, alla quale la Nazione italiana deve se,
sapendone egli esprimere i profondi bisogni e le idealità, e stringere e disciplinare intorno
ad un’unica e forte volontà tutte le varie forze che fino ad ora s’erano variamente
contrastate ed elise, essa ha potuto trovare finalmente la via vera della sua definitiva
evoluzione e del suo ingresso come nuovo ed importante fattore nella vita internazionale.
Cavour ha rappresentato per l’Italia per l’Europa, quello che invano gli Italiani hanno
desiderato nei primi decenni del secolo XIX: l’uomo, la volontà ferrea, intelligente, abile e
lungimirante che, riassumendo in sé tutte le forze e le volontà e le correnti della nazione,
ha saputo convogliarle e animarle di un’unica volontà nel momento supremo.
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
Particolarmente significative erano le pagine dedicate dal Capasso alla fase
postunitaria e all’edificazione del nuovo Stato, dalle quali emerge l’idea di una sorta
di «progressiva degenerazione», frutto del «tradimento» delle speranze e degli ideali
risorgimentali, da parte dalla classe politica liberale, in special modo della Sinistra di
Depretis, subentrata nel 1876 ai moderati nel governo del Paese, rea di non essere
riuscita a fornire adeguata risposta alle attese delle popolazioni e alle esigenze di
sviluppo economico e sociale, ma soprattutto di avere profondamente stravolto e
corrotto la vita politica e l’operato delle istituzioni statali.
Fu questa – sottolineava l’autore – la crisi che, fermata un momento dalla Guerra
Mondiale, ricominciò con ritmo accelerato nel dopoguerra. Tutte le energie contrarie,
tutti i desideri di ricostruzione e di progresso confluirono nei nostri tempi in quel
movimento che, ridando coscienza allo Stato e ai cittadini, ha, col Fascismo, posto fine
alla Sinistra, esautorata, e ha ricondotto Governo e Paese nel solco maestro già tracciato
autorevolmente dalla Destra.

Nel quadro di tale polemica liquidazione dell’operato della classe dirigente
postunitaria, Capasso faceva un’eccezione per i governi di Francesco Crispi, al quale
riconosceva il grande merito di avere tentato, sia pure con esiti solo parzialmente
duraturi, di imprimere una svolta alla vita del Paese e di ripristinare, tanto negli affari
interni quanto sul piano della politica estera, quell’autorevolezza dello Stato che la
Sinistra di Depretis aveva contribuito a indebolire.
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Un Crispi, quello delineato da Capasso, riguardato anch’egli, per molti versi, come un
antesignano e un precursore di Mussolini.
Più geniale e più grande la figura di Francesco Crispi. Patriota ardente, conscio dei difetti e
delle virtù della stirpe, ebe un mobilissimo concetto del compito assegnato dalla Storia al
paese e volle rendere questo degno di quello. Volle all’interno governare con autorità (egli
dominò con vari Ministeri dal 1887 al 1896) concependo lo Stato come autorità suprema
superiore ai partiti, assommante in sé tutte le necessità della Nazione e in diritto quindi di
obbedienza da parte dei sudditi. Precursore evidente, in questo, dell’alto concetto dei
diritti dello Stato e dei doveri dei cittadini dell’Italia attuale, ciò che si tradusse altresì nel
concetto: dovere il cittadino tutto allo Stato. Non esitò, quindi, a procedere contro coloro
che minavano la costituzione e l’autorità dello Stato, ossia contro repubblicani e socialisti
[…]. Crispi vedeva bene che l’Italia doveva avere una politica mediterranea. Effettivamente
egli aveva ragione e i governi posteriori hanno battuto la via indicata; ma allora, non
potendo procedere altrimenti, egli fu un pugnace assertore della nostra politica coloniale
[…]. Crispi non fu beninteso dai suoi contemporanei, più che per certi difetti di
temperamento che lo resero alle volte molesto, perché troppo meschino fu in genere il
livello politico degli uomini del suo tempo e troppo cieche le competizioni personali o di
partito per il dilagare di una preoccupante degenerazione del parlamentarismo. Egli, che
si ricongiungeva alla grande politica del Cavour, parve un esaltato o un illuso e, invece, è
stato l’unico tra i ministri d’Italia che per la prima volta dopo la costituzione del Regno ne
abbia fatto sentire il valore e il peso nel concerto Europeo.
Anna Ascenzi
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
Ben diverso era il giudizio formulato dal Capasso su Giovanni Giolitti e sull’età giolittiana.
Dopo brevi ministeri del Saracco e dello Zanardelli, governò quasi senza interruzioni per
circa dieci anni (1903-1913), Giovanni Giolitti, piemontese. La sua fu politica di
conciliazione verso i partiti estremi con la lusinga di ammansirli chiamandoli entro
l’orbita legalitaria, ma fu anche politica aliena da grandi ambizioni, politica pedestre […].
L’autorità dello Stato – che si collocava agnostico, quasi passivo, spettatore, salvo il caso
di intervento necessitato dalla tutela dell’ordine pubblico – ne sofferse in modo
gravissimo […]. Mancava nella politica giolittiana un vero ideale, che non fosse il
materiale incremento. Politica dunque del piede di casa in confronto ad una Europa
circostante in fermento e minacciosa e a cui mancarono sempre stimoli ideali di vasta
portata. Crispi voleva gettare le basi di una Italia che sapesse anche sacrificare
all’occorrenza le fortune materiali, pur di vivere e di crescere in dignità; per Giolitti,
invece, l’opportunismo del momento è tutto, anche a costo di rinunzie poco decorose. La
gioventù cresciuta tra la fine dell’800 e il primo decennio del ’900, generazione ormai
lontana e dai fondatori della unità e dai successori che avevano subito le inevitabili
ripercussioni delle delusioni degli anni difficili […], avida di un più nuovo e vasto avvenire,
sentiva fortemente la mancanza d’ideali e di fede e si disgustava a poco a poco della vita
pedestre d’ogni giorni. Questa reazione morale al giolittismo – in quanto era privo della
potente forza dello spirito – non poteva essere scossa che dalla guerra e dalle sue gravi
conseguenze.
Anna Ascenzi
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
Ma la responsabilità più grave di Giovanni Giolitti risiedeva nella sua incapacità di
cogliere i mutamenti in atto sulla scena internazionale:
Giungono a maturazione – scriveva Capasso – condizioni e rivolgimenti veramente
radicali, e pertanto si altera sensibilmente la distribuzione dei valori. Sorgono nuovi
aggruppamenti di Potenze, s’impongono altre direttive; per di più entrano in scena,
ossia fanno sentire maggiormente la loro efficacia, pure nello svolgimento della vita
politica, anche elementi d’ordine diverso: sociale, economico, spirituale, di assai più
modesta portata nel passato, ma che ora sono straordinariamente cresciuti di intensità
e di estensione. Si estende rapidamente, per di più il campo delle competizioni generali
di interessi, onde risulta la Storia; la quale, pertanto, in breve volgere di tempo non è
più solamente europea, ma pur permanendo in genere la prevalenza all’Europa, è
anche asiatica, africana, americana; è mondiale […]. Un più violento conflitto di
dottrine, di coltura, di aspirazioni ideali: in una parola un flusso di vita più ampio e più
complesso, una più profonda agitazione e fermentazione di elementi, a cui prendono
parte tutti gli organismi politici, sociali, economici di tutto il mondo: tali sono le
caratteristiche di quello straordinario periodo di storia che sta ora per aprirsi, e che si
conchiude in un primo tempo nel grandioso e fatale urto della Guerra Mondiale.
Anna Ascenzi
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
La ricostruzione delle vicende del primo dopoguerra operata da Capasso si poneva in
stretta continuità con quella che aveva alimentato, negli anni precedenti, la propaganda
fascista.
Dal 1919 al 1920 e ’21 si scatenò in Italia una bieca ondata di propaganda bolscevica,
che paralizzò tutti i gangli nervosi dell’organismo nazionale. Scioperi nelle industrie,
ma più che altro nei servizi pubblici, disordine permanente in questi, impiegati
dimentichi dei loro doveri che abbandonavano il loro posto per scendere in piazza nei
comizi, categorie d’impiegati, come i ferrovieri, che imponevano diritti e privilegi alla
propria classe, come se l’azienda ferroviaria appartenesse a loro: disobbedienza e
disordine da per tutto, aperte minacce al governo, alle classi, alla Dinastia, all’esercito:
scherniti e persino violentati nelle vie e nelle piazze gli ex-combattenti e perfino
percossi gli ufficiali: intemperanze di linguaggio e di atti da parte degli strati inferiori
della popolazione aizzati quotidianamente e divenuti orribilmente presuntuosi: questo
il quadro di un disordine più morale forse ancora che politico. Ridicolo contrasto a
questo l’incapacità dei partiti estremi che promettevano ogni momento la Rivoluzione,
la repubblica, il comunismo, ma che rimandavano sempre, incapaci di qualsiasi vera
idea direttiva e soprattutto paurosi dell’azione. Di contro governi, essi stessi paurosi,
inetti a reagire e soprattutto nefasti perché lasciavano calpestare i principi più sani e
più rigidi della comunità nazionale.
Anna Ascenzi
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
La marcia su Roma e l’avvento del fascismo avevano significato, innanzi tutto, il
prevalere «dell’Italia nuova, che già era la maggioranza e che non aspettava altro che di
poter disciplinarsi sotto un Capo ed un programma», rispetto «all’Italia gravida dei
sorpassati», al vecchio e fallimentare mondo liberale.

La ricostruzione operata da Capasso della genesi e degli sviluppi della «Rivoluzione
fascista» si snoda attraverso una serie di quadri volti a far emergere la sostanziale
«modernità» delle intuizioni e delle scelte mussoliniane, ovvero ad accreditare l’idea
della piena adesione e corrispondenza del fascismo alle esigenze proprie del «momento
storico»: in altre parole, come espressione della «necessità della Storia» e come suo
inevitabile compimento.

Nell’illustrare, nella parte finale de Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era
fascista, i progressi compiuti dall’Italia sotto la guida del regime mussoliniano tra il 1923
e il 1930, Capasso puntava da un lato a ribadire l’originalità e il carattere
eminentemente nazionale del fenomeno fascista, dall’altro, a collocare la «nuova Italia
Fascista» nel contesto europeo e nell’ambito dei più generali equilibri internazionali.

Si tratta di due passaggi chiave del manuale, nei quali era sintetizzata con efficacia
un’interpretazione della storia contemporanea – o, più propriamente, dell’attualità –
funzionale tanto ai fini del consolidamento politico del regime, quanto alla
legittimazione delle sue mire espansionistiche e delle più complessive scelte di politica
estera perseguite in quegli stessi anni.
Anna Ascenzi
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
In questo quadro, i giovani alunni che si preparavano ad entrare attivamente nella vita e
nella comunità politica dovevano essere messi a giorno della «missione storica» che la
«nuova Italia Fascista» era chiamata ad esercitare nel mondo.
Mussolini ha assunto direttamente la politica estera italiana […]. Fondamento di questa
politica che doveva essere il coronamento di tutta la ricostruzione: fare dell’Italia
veramente una Potenza di primo ordine e curarne romanamente il prestigio e
l’autorità. L’Italia, non più tollerata come nei tempi della tracotanza europea, doveva
avere una sua direttiva personale, suoi principi chiari e fermi dinanzi a cui le Potenze
dovevano disporsi coi dovuti riguardi […]. A questa più forte e più dignitosa messa in
valore delle attività italiane all’Estero, che è politica lungimirante e a grande respiro, è
strettamente collegato un più vivo impulso impresso alla politica coloniale […]. Poiché
l’espansione coloniale si colloca oramai tra i maggiori problemi delle Grandi Potenze e
questi acquistano, quindi, una importanza di primissimo ordine per il futuro sviluppo e
la stessa esistenza dei grandi organismi imperiali, quali sono oggi le Grandi Nazioni;
l’Italia non poteva mancare in questa gara […]. L’Italia ha oggi coscienza di essere una
grande Potenza mediterranea ed europea […], una Nazione rinnovata, gagliarda, sana,
operosa e piena di forze vitali di espansione.
Anna Ascenzi
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

L’interpretazione fatta propria da Carlo Capasso dell’età contemporanea come
epoca del trionfo della forza e del dominio, come teatro dell’affermazione di
«grandi organismi imperiali» e dell’indispensabile trasformazione delle
«maggiori Nazioni ottocentesche» in veri e propri «Imperi», era destinata ad
incontrare una notevole fortuna e ad essere assunta e riproposta in varie fogge
da numerosi altri manuali scolastici di storia editi lungo il corso degli anni Trenta.
Essa avrebbe alimentato la formazione storica e politica di diverse generazioni
di studenti delle scuole secondarie dell’Italia fascista, fino a che le
drammatiche vicende della seconda guerra mondiale e i nuovi scenari politici
aperti dalla caduta del regime fascista e dall’avvento della democrazia nel
Paese non portarono a riconsiderare in modo nuovo gli stessi fatti e gli stessi
scenari del recente passato e a porre con urgenza la necessità di ridefinire in
forme nuove lo stesso insegnamento scolastico della storia.
Anna Ascenzi
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Gli anni del secondo dopoguerra
La difficile costruzione dell’identità repubblicana e della
cittadinanza democratica
Per analizzare il ruolo esercitato dalla scuola, all’indomani del secondo
dopoguerra, nella promozione degli ideali democratici tra le nuove generazioni
e nella formazione di un costume civile ispirato ai principi della Costituzione
repubblicana, è opportuno prendere le mosse dal recente dibattito
sviluppatosi nel nostro Paese attorno ai temi della cittadinanza democratica e
dell’identità nazionale.

Si tratta, com’è noto, di un dibattito che ha visto la partecipazione di storici, politologi,
studiosi dei processi culturali di diverso orientamento ideologico e politico e che ha
trovato significativi stimoli e ulteriori motivi di discussione non solamente nelle vicende
che hanno portato al crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo e, su un diverso piano,
all’accelerazione e al graduale allargamento del processo di integrazione europea.
Anna Ascenzi
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
Ma anche, e soprattutto, nei recenti mutamenti politici e sociali che hanno interessato
il nostro Paese. Intendiamo riferirci, in modo particolare, alla fine della cosiddetta Prima
Repubblica e all’avvento di una vera e propria mutazione genetica del costume politico
nazionale.

Nonché alla crescente – e per certi versi convulsa – trasformazione della società italiana
in una società multietnica e multiculturale, cui si accompagnano, accanto al riemergere
di diffusi sentimenti xenofobi e d’intolleranza, tentazioni separatiste alimentate da
vaghe mitologie e, soprattutto, una crescente e diffusa insofferenza nei riguardi delle
regole comuni, di un ideale condiviso di cittadinanza, di un’identità collettiva capace di
elevarsi al di sopra delle appartenenze e identità particolaristiche.

Tra i risultati largamente condivisi e ormai acquisiti di questo dibattito, uno mi sembra
particolarmente significativo ai fini del nostro discorso: la consapevolezza che, nell’Italia
repubblicana degli ultimi cinquant’anni, la questione della cittadinanza democratica o,
per meglio dire, di un’identità collettiva condivisa e fondata sui valori della Costituzione
democratica è ancora una questione aperta, un problema tutt’altro che risolto, e che
proprio l’incompiutezza del processo di democratizzazione del costume e della vita
civile nel nostro Paese ha rappresentato – e rappresenta ancora oggi – una delle grandi
anomalie del sistema democratico italiano, con i suoi inevitabili riflessi non solo sulla
vita politica, ma anche sulla convivenza civile e sociale.
Anna Ascenzi
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
È necessario allora chiedersi perché tutto ciò si è verificato, per quali ragioni nel nostro
Paese la ‘democrazia formale’ non è riuscita – o non è riuscita compiutamente – a
trasformarsi in una ‘democrazia sostanziale’, capace di permeare le scelte e i
comportamenti individuali e collettivi, di farsi costume civile, pratica diffusa.

Su un diverso piano, perché non è riuscita ad alimentare quello che Habermas ha
definito il «patriottismo della Costituzione», ossia l’unica forma di identità nazionale
compatibile con i moderni regimi democratici, quella cioè che si fonda sulla
consapevolezza dei cittadini di essere titolari di diritti e di doveri nei riguardi della
comunità, sulla base di valori comuni e condivisi, che sono quelli espressi dalla
Costituzione.

Nell’ambito della nostra analisi, un’attenzione privilegiata deve essere riservata alla
scuola. E ciò perché è proprio a questa istituzione che, all’indomani della seconda
guerra mondiale, la nuova classe dirigente democratica ha assegnato il compito di
formare i nuovi cittadini.

Tuttavia, se non si vuole circoscrivere il discorso ad una mera recensione dei
provvedimenti adottati in ordine all’educazione civile e democratica nella scuola italiana
del secondo dopoguerra, è opportuno far luce sui più generali fattori di natura
ideologica e politica (più e prima ancora che pedagogica e didattica) che condizionarono
profondamente il quadro e incisero sul modo stesso di affrontare e di dare soluzione al
problema della ‘democratizzazione del popolo italiano’ attraverso la scuola.
Anna Ascenzi
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
Il primo dei fattori sopra ricordati attiene, senza dubbio, alla diversa – e per certi aspetti
antitetica – concezione della democrazia che caratterizzava le forze politiche che
avevano combattuto il nazi-fascismo e gettato le basi per la rinascita democratica del
nostro Paese.
La più recente e accreditata storiografia sul secondo dopoguerra – e penso, in
particolare, agli studi di Paolo Spriano, Pietro Scoppola, Claudio Pavone, Silvio Lanaro e
Roberto Sani – ha posto efficacemente in luce come, nelle diverse aree politiche e
culturali, il problema di una definizione univoca e condivisa della democrazia fosse
tutt’altro che risolto: la democrazia in Italia rinasceva, infatti, senza potersi rifare ad un
sicuro e consolidato patrimonio di esperienze e di valori comuni.

Un secondo fattore, sul quale è opportuno richiamare l’attenzione, concerne il ruolo
giocato dai partiti e, più in generale, il clima di crescente conflittualità ideologica e
politica che doveva caratterizzare gli anni del secondo dopoguerra.
Su questo terreno, com’è stato efficacemente notato da Scoppola, il ruolo dei partiti è
stato per molti versi contraddittorio: «Essi di fatto, nel momento in cui pongono le
premesse, nella Costituzione, di una cittadinanza democratica di tutti gli italiani,
contribuiscono a formare forti identità di parte, radicati sentimenti di appartenenza
partitica, che sovrastano il sentimento di un’appartenenza comune».
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
Se si tengono presenti questi fattori di contesto, è possibile cogliere in modo più
adeguato caratteristiche e limiti degli itinerari di educazione democratica e di
formazione alla cittadinanza messi in atto nella scuola dell’Italia repubblicana:
- dalle proposte e iniziative della Commissione Alleata di Controllo, istituita nel
novembre 1943 (al cui interno, com’è noto, operava la Sottocommissione per
l’Educazione presieduta dal pedagogista americano Carl Washburne);
- al più complessivo disegno di educazione alla cittadinanza democratica propugnato dal
ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella nel quadro della riforma della scuola
italiana da lui presentata in Parlamento nel 1951;
- fino all’introduzione, sul finire degli anni Cinquanta, dell’educazione civica nelle scuole
ad opera del responsabile della Minerva Aldo Moro (1958).

In via preliminare, merita osservare che, durante la Resistenza e nell’immediato
dopoguerra, la questione della formazione alla democrazia attraverso la scuola non
incontrò, da parte delle forze politiche antifasciste, un’attenzione particolare. Laddove
tale questione fu posta a tema, fra l’altro, le indicazioni formulate al riguardo non
furono quelle che ci si potrebbe attendere.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Sugli orientamenti dei principali esponenti della nascente democrazia italiana pesava,
indubbiamente, il ricordo dell’uso politico della scuola fatto dal fascismo; così come
pesava la consapevolezza della grave mistificazione perpetrata dal regime mussoliniano
dell’ideale di ‘scuola formativa del cittadino’, già presente nella legge Casati e riproposto
con forza dalla riforma Gentile del 1923.

Alla luce di tali remore, trova spiegazione, ad esempio, l’atteggiamento fortemente
critico assunto, nei riguardi dell’educazione alla democrazia attraverso la scuola, dalle
forze politiche di sinistra, in particolare dal Partito d’Azione.

Emblematica, al riguardo, è la posizione assunta nel 1944, in un intervento pubblicato
sulle pagine dei «Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà», da Augusto Monti:
Meno scuola. Pretendere meno dalla scuola […]. Educazione, coltura generale, scuola
formativa, scuola e vita: ubbie […]. Occorre che tutta la scuola italiana assuma
finalmente questo aspetto; occorre che si decida tutta ad essere la scuola dell’epoca
presente: e se il nostro è il tempo del lavoratore – del produttore – occorre che la
nostra scuola, compresa la secondaria classica, sia non più la scuola del retore, o del
letterato o del cittadino ma sia direttamente e indirettamente la scuola, appunto, del
produttore».
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Interessante la replica all’intervento del Monti avanzata da Leo Valiani, il quale si
mostrava persuaso che la scuola dovesse comunque servire a fare «non solo dei
lavoratori, ma anche e soprattutto dei cittadini, non solo gente che sappia maneggiare il
tornio, ma anche gente che sappia ubbidire alle leggi e partecipare alla vita politica».
Rispondeva polemicamente al Valieni Vittorio Foa, ribadendo, e anzi accentuando la tesi
di Monti:
Qui il nostro disaccordo è completo. È ora di togliere allo Stato quel formidabile
strumento di parte che è la scuola educativa e formativa, è ora di snebbiare l’atmosfera
dai vapori gentiliani. La scuola formativa può essere molto comoda finché nel governo e
nella struttura statale ci siamo noi o dei nostri amici, ma la faccenda diventa fastidiosa
quando vi si insedino degli avversari decisi e senza scrupoli. La scuola deve istruire e
basta […]. Un partito modernamente democratico non deve chiedere allo Stato di
fabbricare della gente onesta, dei buoni patrioti, degli scrupolosi padri di famiglia ecc.

Sempre in via preliminare, vale la pena di sottolineare come, anche nell’ambito
dell’Assemblea Costituente, la questione dell’educazione alla democrazia delle nuove
generazioni – a più riprese sollevata e messa a tema – non suscitò quell’unanime
consenso che sarebbe logico ipotizzare.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Soprattutto da parte delle forze politiche laiche e di sinistra, infatti, s’insistette sul fatto
che di tale questione si dovesse far carico, al momento opportuno, il legislatore
ordinario.

Al riguardo, vale la pena di ricordare che un emendamento tendente ad introdurre nella
scuola «un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e
nazionale», presentato dal cristiano-sociale Gerardo Bruni nella seduta del 28 aprile
1947, fu respinto il giorno successivo dall’Assemblea riunita in seduta plenaria.

Solo pochi giorni prima del voto finale sulla Costituzione, l’11 dicembre 1947,
l’Assemblea Costituente approvò all’unanimità un ordine del giorno, presentato dai
democristiani Franceschini, Moro, Ferrarese e Sartori, così formulato: «L’Assemblea
Costituente esprime il voto che la nuova Carta costituzionale trovi, senza indugio,
adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di
rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali
che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano».

Come si vede, la pur timida proposta di un’educazione civica fondata sui valori
democratici, avanzata da Gerardo Bruni, era sfociata in un ancora più modesto invito
rivolto alla scuola affinché offrisse ai giovani un’adeguata conoscenza del progresso
compiuto con l’affermazione dei nuovi principi costituzionali.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

In realtà, a porre fin dal 1944 l’accento sulla necessità di una «rieducazione
democratica» del Paese, era stata la Sottocommissione per l’Educazione dell’Allied
Military Gouvernment (AMG), presieduta dal pedagogista statunitense Carl Washburne.

Nel quadro di una serie di interventi vòlti a dare soluzione alle «necessità immediate»
della scuola italiana, profondamente segnata dalla guerra, e ad avviare al suo interno
una prima e necessaria opera di defascistizzazione, la Sottocommissione Alleata pose
mano alla stesura dei nuovi programmi didattici per le scuole elementari e materne, che
furono promulgati con il Decreto luogotenenziale 24 maggio 1945.

Si tratta di un documento importante, nel quale la questione dell’educazione alla
democrazia e ad un nuovo sentimento della cittadinanza era collocata al centro
dell’opera formativa della scuola di base: a tale scuola, infatti, era assegnato non
solamente il compito di combattere l’analfabetismo e di trasmettere gli elementi
essenziali del sapere e della cultura, ma anche quello di formare, nelle nuove
generazioni, una «coscienza sociale operante», ossia un «habitus civile» capace di
promuovere «nel fanciullo il cittadino».

Ispirati ai principi della pedagogia attivistica di matrice deweyana, i programmi per le
scuole elementari e materne del 1945 concepivano l’educazione alla democrazia come
educazione all’esercizio della responsabilità e dell’iniziativa personale fin dalla
fanciullezza.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Non a caso, l’enfasi era posta sulla necessità, da parte della scuola, di «svegliare nei
fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine,
del rispetto, dell’aiuto reciproco: in breve delle virtù civili, sociali e morali»; nonché sulla
«formazione del carattere con un avveduto esercizio della libertà nella pratica
dell’autogoverno».

Incentrata sul senso di responsabilità individuale e sull’esercizio dell’autogoverno
personale, caratteristici del modello pedagogico statunitense, la prospettiva di
educazione alla democrazia che alimentava i programmi didattici del 1945 era destinata
a suscitare scarsi consensi negli ambienti pedagogici e scolastici del nostro Paese,
ancora largamente oscillanti tra il riferimento alla tradizione pedagogica gentiliana, le
nuove istanze della pedagogia collettivistica di matrice marxista e l’emergere di un
personalismo pedagogico cattolico poco incline, almeno in questi anni, a valorizzare
appieno le istanze attivistiche.

A titolo puramente esemplificativo, vale la pena di ricordare che, ancora nel 1949,
recensendo sulle pagine della rivista marxista «Società» l’opera Democrazia ed
educazione di John Dewey, Mario Casagrande puntava l’indice su quelli che erano gli
indirizzi di fondo della proposta formulata dal Washburne sulla scia delle intuizioni
deweyane.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata
Il senso della sua pedagogia – scriveva lo studioso comunista – è tutto qui: promuovere
modi di collaborazione sociale dove la libertà e responsabilità del singolo trovino campo
di affermarsi meglio […]. Dewey ha reso veramente un grande servigio all’ideologia
imperialistica: l’ha trasformata in esperienza didattica, l’ha convertita nella forma
conveniente all’azione propagandistica di massa.

Ma perplessità e riserve – sia pure diversamente motivate – dovevano venire un po’ da
tutti i settori culturali e pedagogici. In realtà, il vero limite delle innovazioni introdotte in
materia di educazione alla democrazia dalla Sottocommissione Alleata presieduta dal
Washburne risiedeva nel loro carattere provvisorio e solo parziale, limitato cioè ai
programmi didattici della scuola di base.

A riproporre con forza, e con ben maggiore
ampiezza di prospettive, la questione
dell’educazione alla nuova cittadinanza
democratica attraverso la scuola provvedeva, al
principio del 1947, il neo ministro della Pubblica
Istruzione Guido Gonella, destinato, com’è noto,
a dirigere la Minerva per un quinquennio, dal
luglio 1946 al luglio 1951.
Anna Ascenzi
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
Il 12 aprile 1947, il ministro Gonella insediava una Commissione nazionale d’inchiesta
per la riforma della scuola, il cui scopo, come recitava il decreto istitutivo, era quello di
«compiere un’inchiesta sulle condizioni della scuola italiana di ogni ordine e grado,
anche di quella non governativa, e di condurla in guisa da raccogliere, con la sicura e
precisa notizia delle sue presenti condizioni spirituali e materiali, l’indicazione dei
programmi, disegni e voti proposti da coloro i quali esercitano l’insegnamento».

Alla consultazione nazionale del mondo della scuola – che si svolse nei mesi di ottobre e
novembre 1948, tramite la compilazione di questionari appositamente predisposti –
parteciparono ben 211 mila insegnanti delle scuole statali e non statali di ogni ordine e
grado e circa 85 mila non docenti.

I risultati dell’Inchiesta furono presentati pubblicamente nella seduta conclusiva dei
lavori della Commissione nazionale, il 30 novembre 1949. Nel luglio dello stesso anno,
Gonella insediava una nuova Commissione ministeriale incaricata di redigere – sulla
scorta delle indicazioni emerse dall’Inchiesta – il vero e proprio progetto di riforma
scolastica, il cui testo definitivo, approvato, com’è noto, dal Consiglio dei ministri il 18
giugno 1951, fu presentato ufficialmente alla Camera dei deputati nella seduta del 13
luglio, con il titolo: Norme generali sull’istruzione n. 2100.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

In concomitanza con l’avvio dei lavori dell’Inchiesta nazionale per la riforma della scuola,
con il Decreto legge 17 dicembre 1947, il ministro della Pubblica Istruzione istituiva la
cosiddetta Scuola popolare per la lotta all’analfabetismo, nel cui ambito, tra il 1948 e il
1953, ovvero nel corso della prima Legislatura repubblicana, furono attivati, in tutta la
penisola, 91.568 corsi di alfabetizzazione e di istruzione popolare destinati alle
popolazioni adulte, che coinvolsero complessivamente quasi due milioni di cittadini,
specie delle zone agricole e montane e delle aree del Paese maggiormente segnate
dall’arretratezza e dall’analfabetismo.

E, tuttavia, la creazione di «una scuola adeguata ai bisogni e conforme agli ideali di una
schietta società democratica» rappresentava una sfida che andava ben al di là dei pur
indispensabili provvedimenti e interventi del governo.

All’obiettivo di promuovere una cittadinanza democratica fondata sulla responsabilità,
ossia sulla diretta e consapevole partecipazione dei cittadini alla vita politica,
rispondevano anche le iniziative per la lotta all’analfabetismo avviate attraverso
l’istituzione della Scuola popolare.

Al riguardo, aprendo i lavori del primo Congresso nazionale sull’educazione popolare,
svoltosi a Roma nel maggio 1948, il ministro della Pubblica Istruzione sottolineava:
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata
Un popolo i cui ordinamenti rispondono a criteri di vera democrazia, non può prescindere
dall’educazione dei suoi cittadini e di tutti indistintamente senza eccezioni privilegiate,
senza esclusioni inconcepibili […]. In questa preoccupazione si innesta il problema
dell’assistenza educativa agli adulti […]. Si tratta, in questo caso, del recupero di ogni
cittadino, anche di chi ha varcato le soglie della virilità senza avere beneficiato di quegli
elementi di istruzione e di cultura che devono essere il requisito minimo di ogni cittadino;
recupero che può e deve avvenire nell’ambito di una vera concezione democratica
dell’educazione […]. L’eguaglianza dei cittadini dinanzi alle urne impone come logica
conseguenza il dovere di assicurare i requisiti indispensabili per esercitare i propri diritti e
pronunciarsi sui problemi che il cittadino è chiamato ad affrontare […].

Ci siamo soffermati su questi due fondamentali passaggi della politica scolastica avviata
dal ministro Gonella, perché solo attraverso l’approfondimento delle ragioni poste alla
base della riforma della scuola e dei provvedimenti adottati nella lotta contro
l’analfabetismo è possibile cogliere il significato e la portata delle proposte di
educazione alla cittadinanza democratica attraverso la scuola elaborate nella prima
stagione della Repubblica.

Esiste, infatti, uno stretto e inscindibile nesso tra le riforme scolastiche di Gonella e il
disegno di democratizzazione della società italiana perseguito dai governi degasperiani
e dalla nuova classe dirigente democratica e antifascista.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Nell’illustrare le ragioni e il significato della riforma scolastica avviata a partire dal 1947,
il ministro della Pubblica Istruzione sottolineava appunto la centralità di questo nesso,
specie laddove indicava nella «nuova scuola riformata» lo strumento «indispensabile al
consolidamento e al progresso del nostro Stato democratico».

La democrazia italiana, aggiungeva Gonella, «ha bisogno della scuola, poiché senza la
formazione morale e intellettuale del cittadino non vi può essere cosciente esercizio
della sovranità popolare […]. Se lo Stato democratico deve essere del popolo e per il
popolo, in cui è posta la sovranità, l’educazione e la scuola si rivelano appunto come un
primordiale elemento generatore della democrazia, poiché soltanto per esse e con esse
il popolo potrà venire elevato all’esercizio effettivo, cosciente e responsabile della
sovranità».
Questa educazione si esprimerà in maniere molteplici, che vanno dall’educazione alla vita
democratica all’illustrazione dei principi etico-giuridici sui quali tale vita si svolge [per]
dare al Paese cittadini sempre più coscienti e sempre più in grado di organizzare e di
difendere le loro libere istituzioni.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Alla luce del quadro sin qui tracciato, non sorprende che, nel progetto di riforma della
scuola italiana predisposto dal ministro Gonella e presentato in Parlamento nel 1951,
l’educazione alla cittadinanza democratica assumesse una rilevanza particolare. L’art. 15
del DDL n. 2100, infatti, prevedeva l’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado di
uno specifico insegnamento di «Educazione civile», il cui scopo era quello di «educare la
coscienza dei doveri e diritti del cittadino» e di contribuire a diffondere gli ideali
democratici e «ad alimentare l’amore della Patria».

Nella relazione introduttiva al DDL, il ministro della Pubblica Istruzione precisava
ulteriormente le caratteristiche e le finalità di un simile insegnamento:
«Lo spirito democratico della Costituzione e la conoscenza della struttura
stessa dello Stato democratico costituiscono elementi necessari per la
formazione di una coscienza civica nazionale. L’educazione civile è, quindi, un
supremo interesse della società democratica, ed è condizione del
consolidamento di una libera democrazia, al di sopra e al di fuori delle
distinzioni dei partiti […]. L’educazione civile si svolge secondo un duplice
processo che è informativo e formativo della coscienza civile, per culminare poi
nella piena partecipazione della persona alla vita della comunità».
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Per quel che concerne i contenuti e gli obiettivi della nuova disciplina scolastica,
Gonella aggiungeva:
L’insegnamento deve essere alimentato ad una educazione alla
democrazia intesa come esercizio di tutte le libertà civili e politiche
tradotte in costume di vita sociale. Il sistema democratico esige un
massimo di virtù civili che si possono coltivare con l’educazione
all’esercizio di una libertà intesa non solo negativamente, come
liberazione da vincoli, ma anche positivamente, come capacità del
cittadino di autodeterminarsi secondo la legge, come virtù del carattere.
Specialmente attraverso la formazione del carattere si potrà dar vita ad
una società autenticamente democratica». Così intesa, concludeva il
ministro, «l’educazione civile saprà anche efficacemente contribuire ad
alimentare nei giovani l’amore della Patria e, insieme, la comprensione
dei doveri verso la comunità internazionale.

Nella presentazione dell’art. 15 del DDL n. 2100 sopra richiamata, l’educazione
civile era riguardata da Gonella come «la condizione del consolidamento di una
libera democrazia al di sopra e al di fuori dei partiti».
Anna Ascenzi
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
Tale affermazione importante rifletteva un
convincimento proprio non solo del ministro della
Pubblica Istruzione, ma anche di Alcide De Gasperi e
degli ex popolari che con lui avevano dato vita alla
Democrazia Cristiana.

Nella concezione degasperiana, fatta propria sul versante
scolastico da Gonella, la scuola avrebbe dovuto
rappresentare, infatti, non il luogo delle polemiche
ideologiche e dello scontro politico, ma piuttosto il terreno di
incontro e di collaborazione fattiva tra le diverse forze
politiche democratiche: il laboratorio per la costruzione di
un’autentica cittadinanza democratica, al di sopra della
dialettica politica e delle inevitabili contrapposizioni tra i
partiti.

Sulla stessa linea si poneva il ministro della Pubblica Istruzione:
La scuola non interessa solo questo o quel partito, l’una o l’altra ideologia, ma investe
direttamente gli interessi di tutta la comunità nazionale. Anzi, direi di più: proprio la
scuola, con la sua alta funzione educativa, ci può fornire il terreno su cui le stesse
differenziazioni ideologiche possono trovare una superiore composizione.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Sotto questo profilo, l’appello rivolto dallo stesso Gonella alle diverse forze politiche nel
discorso tenuto al Senato il 21 ottobre 1948, a conclusione del dibattito sul bilancio
della Pubblica Istruzione, si rivela particolarmente significativo.

Nel momento in cui - dopo la definitiva rottura dell’alleanza di governo dei partiti del
CLN (maggio 1947) e la successiva, drammatica contrapposizione registrata alle elezioni
del 18 aprile 1948 tra lo schieramento centrista e i partiti di sinistra – sembrava davvero
compromessa ogni possibile collaborazione unitaria tra le forze che, pure, avevano
combattuto il nazi-fascismo e contribuito a fondare la democrazia nel nostro Paese, il
ministro della Pubblica Istruzione così si esprimeva al termine del suo intervento:
Concludendo, rivolgo a tutti l’appello a guardare alla scuola al di sopra dei partiti, per
costituire una coalizione di tutte le forze che desiderano l’unico vero bene della nazione:
l’elevazione intellettuale e civile del nostro popolo.

La centralità attribuita all’azione di governo, rispetto a quella dei partiti, nell’educazione
alla democrazia rappresentava, a nostro avviso, l’espressione di una concezione
profondamente realistica – e per ciò stesso molto lungimirante sotto il profilo politico –
della democrazia italiana e delle forti tensioni che la agitavano e che rischiavano di
impedirne il radicamento nel Paese e l’effettiva crescita.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

A questo proposito, ci domandiamo se proprio il prevalere, di lì a poco, della logica dei
partiti politici quali moderni educatori di massa non abbia finito per compromettere la
possibilità stessa di una formazione alla cittadinanza democratica comune e condivisa,
in nome del primato delle appartenenze ideologiche contrapposte.

Presentato alla Camera dei deputati nel luglio 1951, come si è detto, il DDL n. 2100
predisposto dal ministro Gonella fu presto accantonato, senza ottenere neppure gli
onori della discussione parlamentare, finché due anni più tardi decadde a seguito della
conclusione della prima Legislatura.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia, maturò tra le file della
Democrazia Cristiana una nuova sensibilità in ordine all’educazione civica.

L’istituzione di tale insegnamento nella
scuola italiana divenne, infatti, uno dei
punti qualificanti del programma di
politica scolastica attuato dal ministro
della Pubblica Istruzione Aldo Moro nel
corso del ministero Zoli.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Intervenendo alla Camera dei deputati il 24 ottobre 1957, infatti, Moro rese nota la
volontà dell’esecutivo di introdurre l’educazione civica nei due cicli dell’istruzione
secondaria, impegnandosi a predisporre in tempi brevi i relativi programmi didattici.

La decisione del governo, com’è noto, suscitò ampi consensi non soltanto negli ambienti
cattolici, ma anche negli altri schieramenti politici e scolastici.

Ribaltando l’atteggiamento di chiusura assunto dal mondo comunista nei primi anni
Cinquanta, a questo proposito, la rivista scolastica del Partito Comunista Italiano
«Riforma della Scuola» espresse un sostanziale appoggio all’iniziativa.

In un intervento pubblicato nel febbraio 1958, infatti, la direzione del periodico
manifestò la convinzione che fosse ormai necessario «suscitare nei ragazzi quelle
riflessioni che s’inquadrano in quei principi di vita costituzionale che costituiscono la
spina dorsale della nostra Repubblica».
E ciò in quanto:
Se quei principi sono trascurati nella scuola, la formazione dei cittadini nuovi non avverrà
mai. Ci chiuderemo in un circolo vizioso e la Costituzione, non sorretta dalla volontà dei
cittadini, non avrà mai attuazione completa, né sarà in grado di sviluppare tutte le
premesse da cui ha preso consistenza.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Quasi a giustificare il mutamento d’indirizzo rispetto alle posizioni assunte in passato dai
comunisti in merito all’educazione civica, la direzione di «Riforma della Scuola»
sottolineava nella conclusione dell’articolo: «Aspettare che ‘muti il clima politico e
morale’ per iniziare un’opera di rinnovamento significa rinunciare a quelle possibilità
d’iniziativa che possono rompere il circolo vizioso».

Anche tra le file dei laici, la prospettiva di avviare i giovani alla riflessione sui principi
della Costituzione repubblicana e all’approfondimento dei valori della democrazia e
della convivenza civile incontrò ampi consensi, come testimoniano le prese di posizione
di autorevoli testate scolastiche e culturali: dai periodici fiorentini «Scuola e Città» e «Il
Ponte» a «Il Mondo» di Mario Pannunzio.

Il sensibile mutamento di posizioni registrato sul finire degli anni Cinquanta negli
ambienti laici e di sinistra in ordine all’introduzione dell’educazione civica nella scuola
deve essere ricondotto, in primo luogo, al graduale emergere, della cosiddetta
questione giovanile (fenomeno di «perdita d’identità collettiva», «estraneità delle
nuove generazioni agli ideali e ai valori della Resistenza e della rinascita democratica del
Paese»), alla quale viene dedicata sempre maggiore attenzione nelle riviste scolastiche
e culturali d’ispirazione laica e marxista

Occorre tuttavia ricordare che, al generale favore con cui nell’ottobre 1957 era stato
accolto l’annuncio di Moro dell’introduzione dell’educazione civica nelle scuole
secondarie, subentrò nei mesi successivi un’altrettanto generale delusione.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

I programmi elaborati dal ministero della Pubblica Istruzione e promulgati con il DPR 13
giugno 1958 n. 585, infatti, suscitarono critiche e riserve un po’ in tutti gli schieramenti.

In sostanza, si rimproverava all’educazione civica, così come veniva proposta dai
programmi del 1958, di essere poco più di una sintetica illustrazione dei principi
costituzionali e degli ordinamenti dello Stato repubblicano, e di ignorare
completamente le esigenze specifiche di un’educazione alla cittadinanza democratica.

Al riguardo, si faceva fra l’altro notare come, nella lunga e densa Premessa ai programmi
della disciplina, i termini ‘democrazia’, ‘cittadinanza democratica’ ed ‘educazione alla
democrazia’ non comparissero neppure.

La stessa collocazione dell’educazione civica nell’ambito dell’insegnamento della storia
(quasi un’appendice di tale insegnamento) e l’esiguo spazio orario ad essa assegnato (2
ore al mese) erano destinati ad avvalorare l’impressione che, da parte del governo, si
fosse inteso conferire un basso profilo alla nuova disciplina.

Indubbiamente, la soluzione avanzata da Moro era ben lontana da quella ispirata a
grandi idealità e ad ottimistica fiducia nella capacità formativa delle nuove generazioni
propria della scuola che aveva alimentato, in epoca degasperiana, i propositi riformatori
del ministro Gonella.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Non si può fare a meno di notare infatti che, in questo caso, l’intento di evitare
contrapposizioni e polemiche tra appartenenze politiche diverse era sfociato in una
scelta di sapore minimalista, in virtù della quale l’ambizioso obiettivo di un’educazione
alla cittadinanza democratica lasciava il campo al ben più modesto disegno di
un’informazione sugli ordinamenti e sui meccanismi di funzionamento del sistema
politico e sull’organizzazione della società italiana.

L’ottimismo espresso da Aldo Moro circa la fecondità del nuovo insegnamento, così
come egli l’aveva concepito ed attuato, era destinato a non trovare riscontro
nell’esperienza concreta.

In realtà, l’educazione civica non è riuscita ad assumere una propria specifica fisionomia
nel quadro della proposta formativa scolastica, né ha suscitato – se non in qualche
sporadico caso – quell’attenzione e quel coinvolgimento degli insegnanti che
rappresentavano la condizione prima del suo successo.

Più in generale, tale insegnamento ha finito per configurarsi come una sorta di riflesso
della più complessiva difficoltà, non solo della scuola, ma del sistema democratico
italiano nel suo insieme, a esprimere in un progetto compiuto di formazione alla
cittadinanza le potenzialità ben presenti nella nostra Carta Costituzionale.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Ma per cogliere appieno il significato e i molteplici aspetti di un processo che ha
impedito la maturazione e il radicamento nell’Italia repubblicana degli ultimi
cinquant’anni di un’autentica cittadinanza democratica è opportuno gettare uno
sguardo, ancora una volta, sull’evoluzione fatta registrare, in seno alla scuola italiana
degli ultimi cinquant’anni, dall’insegnamento della storia e dalla manualistica storica,
ossia dai libri di testo adottati su questo versante.

La questione dei libri di testo si configurò, già all’indomani del crollo del regime fascista,
come uno dei temi centrali del più generale dibattito, sviluppatosi tra le forze politiche
del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), in ordine alla ricostruzione su nuove basi
della scuola italiana. E ciò in virtù di una serie di motivi :
•
la diffusa consapevolezza del ruolo di primaria importanza assegnato ai libri di testo nel
quadro dell’ordinamento didattico della scuola italiana introdotto dalla riforma Gentile
del 1923,
•
la convinzione della peculiare funzione esercitata dai libri testo, nel corso del ventennio
fascista, come strumento ideologico e politico (fattore di costruzione del consenso),
•
la persuasione che la scuola – e all’interno di essa i libri di lettura e la manualistica –
avesse un ruolo di primaria importanza nella promozione di un ethos collettivo
ampiamente condiviso.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

A fronte di questi convincimenti, non sorprende l’attenzione tributata già nel corso della
Resistenza al problema della revisione dei libri di testo; attenzione testimoniata fra
l’altro dalle deliberazioni e dai propositi espressi nei documenti elaborati dal C.L.N.A.I. e,
più in particolare, dalle commissioni per la scuola e la didattica istituite in seno alle
cosiddette Repubbliche partigiane.

In realtà, ad avviare concretamente una prima revisione ideologica dei testi scolastici in
uso nel Ventennio mussoliniano e a sollecitare – nel quadro di una più generale
defascistizzazione della scuola italiana –fu la già ricordata Sottocommissione per
l’Educazione dell’Allied Military Gouvernment (AMG), presieduta dal pedagogista
statunitense Carl Washburne.

Tra il 1944 e il 1945 la Sottocommissione stabilì i criteri per la revisione dei libri di testo
relativi alle scuole di ogni ordine e grado, affidando tale compito ad una Commissione
ministeriale centrale e ad una serie di Commissioni regionali per la scuola istituite nei
territori via via liberati e sottoposti al controllo dell’Allied Military Gouvernment,
composte da insegnanti e funzionari scolastici designati dai Regional Education Officiers
di comune accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione.

Un’attenzione particolare fu dedicata dalla Commissione ministeriale centrale e da
quelle regionali ai manuali di storia.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata
Questo, non solamente per via dell’elevato ‘tasso di ideologia fascista’ riscontrabile in
tali testi, ma anche perché, a seguito delle disposizioni emanate dopo il 25 luglio 1943
dal governo Badoglio, i relativi programmi della disciplina erano stati decurtati della
parte relativa alla storia più recente (la marcia su Roma e le realizzazioni della
«Rivoluzione fascista») dove più diretta e smaccata era la propaganda ideologica e
politica del regime, e ricondotti, per quel che concerne il terminus ad quem, alla fine
della prima guerra mondiale.

L’iniziativa di revisione dei testi di storia interessò complessivamente 147 opere, per un
totale di circa 200 volumi, fra manuali, antologie di letture storiche o di critica storica e
atlanti storici.

Limitatamente alla vera e propria manualistica di storia per le diverse classi della scuola
secondaria, il confronto fra i testi in circolazione durante il ventennio fascista e quelli
approvati dalla Commissione rivela un aspetto interessante: la riproposizione nel
secondo dopoguerra, con pochi tagli e aggiustamenti, dei più accreditati e diffusi
manuali dell’epoca fascista, vale a dire quelli di Pietro Silva, Niccolò Rodolico, Alfonso
Manaresi, Nino Cortese, Augusto Lizier, Agostino Savelli, Francesco Landogna e
Francesco Calderaro.

Si tratta, indubbiamente, di un caso emblematico di vera e propria continuità tra
fascismo e post-fascismo.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Come nel caso dei libri di testo destinati alla scuola elementare, anche per i manuali di
storia delle secondarie occorrerà attendere la fine degli anni Quaranta per poter
disporre di una produzione affatto nuova.

Tanto sotto il profilo dell’impianto storiografico, quanto dal punto di vista
dell’articolazione didattica, dunque, i testi che circolarono nelle scuole secondarie
italiane dell’immediato dopoguerra si posero più su una linea di stretta continuità con il
passato che su quella di un’effettiva apertura alle sollecitazioni culturali e civili della
nuova società democratica.

E, se dal punto di vista scientifico gli indirizzi prevalenti oscillarono tra il riferimento alla
tradizionale storiografia economico-giuridica d’inizio secolo o alla più recente – ma non
meno riduttiva - impostazione etico-politica di matrice crociana e le non rimosse
suggestioni interpretative in chiave nazionalistica e imperiale della storia italiana
recepite nel corso degli anni Trenta, sotto il profilo dell’educazione civile e democratica
delle nuove generazioni i manuali di storia si rivelarono del tutto inadeguati quando non
addirittura fuorvianti.

D’altra parte, il persistere all’interno della classe docente di una cultura e di una
sensibilità storica ancora in larga misura ancorate ai tradizionali canoni gentiliani, con la
conseguente assenza di concrete sollecitazioni al cambiamento da parte del mondo
della scuola, contribuì a rendere meno evidenti i ritardi e le carenze del settore, almeno
fino al principio degli anni Cinquanta.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

A rilanciare con forza, in seno alla classe politica e all’opinione pubblica, la questione di
una revisione dei manuali di storia e, più in generale, degli stessi programmi
d’insegnamento di questa disciplina nelle scuole primarie e secondarie furono, al
principio degli anni Cinquanta, due eventi non direttamente collegati alla vita scolastica,
ma carichi di significato per gli sviluppi della fragile democrazia italiana:
1.
il dibattito in Parlamento intorno alla Legge Scelba sulla repressione delle
attività neofasciste (1952), nel corso del quale la richiesta di un
aggiornamento dei manuali e di un’estensione dei programmi di storia
della scuola secondaria fino ai fatti più recenti (fascismo, Resistenza e
costituzione della Repubblica democratica) accomunò trasversalmente gli
esponenti della maggioranza di governo e dell’opposizione di sinistra,
2.
Il convegno sull’insegnamento della storia nelle scuole italiane promosso
dall’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale (ADSN) celebrato a
Perugia nell’aprile 1952 (quasi in concomitanza con il dibattito al Senato
sulla legge Scelba). Al convegno diedero la loro adesione i principali
esponenti della cultura e della storiografia di orientamento laico e marxista:
Croce, Salvatorelli, Monti, Pieri, Cantimori, Sestan, Valeri, Saitta e Spini.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Tale assise – che fu all’origine di un più ampio dibattito destinato a svilupparsi, negli
anni seguenti, sulle pagine delle principali riviste culturali e scolastiche italiane (da «Il
Mondo» a «Società», da «Scuola e Città» a «Riforma della Scuola» e a «La Voce della
Scuola Democratica», per citare solo le più rappresentative) – contribuì da un lato a
rilanciare l’obiettivo di un’estensione dei programmi di storia fino ai fatti più recenti e,
dall’altro, a richiamare l’attenzione sulla necessità e urgenza di uno svecchiamento dei
manuali scolastici della disciplina.

Relativamente al primo dei due obiettivi, merita di essere richiamata la relazione svolta
al convegno perugino dallo storico Piero Pieri, sul tema La tradizione della Resistenza e
l’insegnamento della storia. In essa, Pieri si esprimeva chiaramente a favore di un
allargamento dei programmi fino a comprendere il ventennio fascista e le vicende legate
alla lotta partigiana e alla fondazione della Repubblica democratica nel nostro paese.

Era necessario, secondo lo studioso, introdurre nelle scuole italiane «non la storia e la
cronaca minuta del Fascismo e della Resistenza», ma piuttosto la narrazione del
significato assunto da tali eventi nella più complessiva vicenda dello Stato unitario, al
fine di promuovere nelle giovani generazioni una coscienza critica e un’autentica
consapevolezza del valore della rinata democrazia.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

La posizione assunta da Pieri sull’insegnamento scolastico della storia recente era
tutt’altro che condivisa da altri autorevoli storici dell’area laica e di sinistra, preoccupati
in particolare dei rischi di un utilizzo strumentale di tale disciplina.

È il caso, ad esempio, di Gaetano Salvemini, il quale, intervenendo a più riprese, nei
mesi seguenti, sulle pagine de «Il Mondo», si domandava ad esempio se non era
preferibile «negli alunni delle nostre scuole la più candida ignoranza sulla storia del
fascismo e della resistenza ad un insegnamento controllato da catechisti, insegnanti di
disegno, presidi repubblichini e un Ministero clericale»; e soprattutto se era corretto
«preoccupare l’animo indifeso della gioventù con insegnamenti, i quali non possono
non essere perturbati dalle passioni di un tempo troppo vicino a maestri e alunni».

La posizione di Salvemini non fu affatto isolata e raccolse consensi un po’ in tutti gli
schieramenti ideologici e politici.

Sulla questione del rinnovamento dei manuali dedicati alla storia contemporanea, al
convegno di Perugia del 1952 intervenne lo storico comunista Ernesto Ragionieri.

Ragionieri, dopo avere ripercorso a grandi tappe le vicende relative all’epurazione dei
testi scolastici nell’immediato dopoguerra, si soffermava ad esaminare analiticamente
l’impostazione e gli indirizzi di fondo dei più diffusi manuali che circolavano nelle scuole
italiane: dalle nuove edizioni dei vecchi testi sopravvissuti al periodo fascista, a quelli
dati alle stampe dopo il 1945.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Le conclusioni alle quali approdava Ragionieri erano fortemente critiche: fatta
eccezione per i due recentissimi testi dello Spini e del Saitta, apprezzati per la loro
impostazione ispirata ai canoni della nuova storiografica marxista, tutti gli altri, sia pure
con diverse sfumature, erano giudicati o non pienamente rispondenti alle esigenze di un
insegnamento della storia didatticamente efficace e ideologicamente corretto, o del
tutto inadeguati, quando non addirittura fuorvianti, sul piano dell’interpretazione
storiografica.

Le osservazioni critiche formulate da Ragionieri, in sostanza, andavano ben oltre la
polemica circa l’oggettività e l’efficacia didattica e formativa delle ricostruzioni storiche
proposte nei manuali scolastici in circolazione. Esse miravano a legittimare in modo
esclusivo un’interpretazione della storia italiana ed europea contemporanee nella quale
confluivano accenti e motivi non del tutto estranei alla polemica politica corrente. Non
sorprendono, sotto questo profilo, le riserve espresse al riguardo dagli storici
d’orientamento cattolico e di formazione crociana, tutt’altro che inclini ad avvalorare
una simile presa di posizione.

L’approccio di Ragionieri, fra l’altro, era destinato ad essere fatto proprio e riproposto,
negli anni seguenti, nelle diverse rassegne critiche sui manuali di storia curate da
Giorgio Rochat, Luigi Ganapini, Massimo Legnani e altri per la rivista «Il movimento di
liberazione in Italia», organo ufficiale dell’Istituto Nazionale per la storia del Movimento
di Liberazione in Italia.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Il dibattito sviluppatosi in questi mesi ebbe importanti ripercussioni in ambito politicoscolastico.

Nell’ottobre 1952, nel corso della discussione
parlamentare sul bilancio di previsione della
Pubblica Istruzione, il ministro Antonio Segni,
accogliendo una serie di ordini del giorno
presentati da deputati della maggioranza e
dell’opposizione, assumeva una serie di impegni
di notevole significato.

Segni prendeva posizione sul problema dell’ampliamento dei programmi di storia:
persuaso, infatti, che «l’insegnamento della storia [dovesse giungere] fino al periodo
attuale», e che non si potesse ignorare «quella parte [della recente storia nazionale] che
si riferisce alla nascita della Repubblica italiana», il ministro assumeva di fronte al
Parlamento anche l’impegno di dare corso alla richiesta di «provvedere con la massima
urgenza alla pubblicazione e alla diffusione di un opuscolo che obiettivamente esponga
ai giovani delle scuole medie superiori i fatti e le vicende della storia d’Italia dal 1920 ai
giorni nostri»; opuscolo destinato a rappresentare la prima, importante tappa di un
percorso che sarebbe poi culminato con la vera e propria modifica del terminus ad
quem dei programmi di storia per le scuole secondarie.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

In attuazione di tali propositi, com’è noto, pochi mesi più tardi vedeva la luce il
volumetto dello storico Luigi Salvatorelli, Venticinque anni di storia (1920-1945),
che il ministero della Pubblica Istruzione faceva distribuire gratuitamente agli
insegnanti e agli alunni dell’ultimo anno delle scuole secondarie di tutta la penisola.

L’opera dello storico liberale Luigi Salvatorelli, di taglio necessariamente sintetico e
informativo, si caratterizzava per il tono pacato e piano della narrazione e per l’equilibrio
delle valutazioni di eventi e di personaggi.

La periodizzazione adottata andava ben oltre la seconda guerra mondiale, giungendo
fino ai primi anni Cinquanta: l’ultima sezione del volume, infatti, comprendeva i trattati
di pace, la Costituzione democratica e i primi sviluppi dell’Italia repubblicana, la
ricostruzione economica in Italia e nel resto d’Europa, la formazione dei due Blocchi e
l’avvento della «guerra fredda», il Patto Atlantico, l’avvio del processo di integrazione
europea; fino al processo di decolonizzazione e all’emergere dei movimenti per
l’indipendenza dei popoli in Asia e in Africa, alla guerra di Corea, alla morte di Stalin e ai
primi segnali di disgelo fra i Blocchi.

D’indubbio significato era lo sforzo di superare definitivamente l’ottica nazionalistica e di
offrire al lettore uno sguardo sull’intera realtà europea ed extra-europea; così come
rilevante appariva lo spazio riservato alle vicende legate alla rivoluzione russa del 1917 e
alla nascita dello Stato sovietico, come pure all’enorme impatto che la rivoluzione dei
Soviet esercitò sulle grandi masse operaie dei paesi occidentali.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Nella ricostruzione delle vicende europee degli anni Venti e Trenta – ossia di quella che
Salvatorelli definiva l’età del totalitarismi – erano indagate con notevole equilibrio le
cause e gli sviluppi della crisi delle istituzioni liberali e democratiche e dell’avvento dei
regimi dittatoriali in Italia, Germania, Spagna ecc., nonché le trasformazioni subite
dall’Unione Sovietica dopo l’avvento di Stalin.

Ampia e circostanziata era, naturalmente, la parte del volume dedicata alle vicende
italiane, la quale prendendo le mosse dalla crisi del primo dopoguerra e dall’avvento del
fascismo, si sviluppava attraverso l’analisi dell’edificazione dello Stato totalitario (con
riferimenti all’attività clandestina del movimento antifascista all’estero), per culminare
poi con le vicende belliche e con un’organica – ancorché sintetica - ricostruzione delle
varie fasi della lotta di Liberazione: la ricostituzione dei partiti pre-fascisti e la nascita di
nuove formazioni politiche, il CLN e la guerra partigiana, i rapporti con gli Alleati,
l’Assemblea Costituente e la fondazione della Repubblica democratica.

Merita di essere sottolineato che, nel descrivere le varie tappe della lotta al nazi-fascismo,
Salvatorelli introduceva una categoria interpretativa – quella della lotta di liberazione
come guerra civile – che in questi ultimi anni ha incontrato una certa fortuna tra gli storici
di diverso orientamento ideologico e culturale (mi riferisco, innanzi tutto, all’importante
lavoro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza,
Milano, Bollati Boringhieri, 1991),
Anna Ascenzi
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ma che all’epoca suscitò non poco sconcerto e contrarietà tra gli studiosi
d’orientamento azionista e marxista, determinando una vera e propria avversione nei
riguardi del volume, destinata a riverberarsi sulla più complessiva operazione avviata dal
ministro Segni.

La fredda accoglienza, quando non l’aperta ostilità, riservata al volume di Salvatorelli e,
più in generale, alla scelta di Segni di procedere con una certa gradualità verso
l’introduzione della storia recente nelle scuole italiane, contribuì non poco a frenare
l’attività del ministro della Pubblica Istruzione su questo versante; tanto più che
all’interno della stessa Democrazia Cristiana prevalse la volontà di evitare
contrapposizioni ideologiche e politiche destinate a riverberarsi sull’attività della
maggioranza e sulla stessa coesione della compagine governativa.

Ciò spiega, ad esempio, la sorprendente rimozione del problema registrata nella fase
immediatamente successiva, almeno per quel che attiene alla politica del governo.

Rimozione tanto più significativa in quanto, nella seconda metà degli anni Cinquanta, il
dibattito in sede storiografica e le pressioni operate fuori e dentro il Parlamento dai
partiti di sinistra in favore di un allargamento dei programmi di storia fino ai fatti più
recenti e di un rinnovamento della didattica disciplinare e dei libri di testo assunsero
dimensioni sconosciute in precedenza.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

Era necessario attendere la fine del decennio perché tali pressioni sortissero effetti
concreti. In un contesto politico, quello degli inizi della terza Legislatura, caratterizzato
dai primi tentativi di un allargamento della maggioranza di governo ai socialisti, con
l’avvento di Amintore Fanfani alla segreteria DC.

Ma anche dal manifestarsi delle spinte verso un’involuzione della vita politica italiana:
come nel caso del governo Tambroni del marzo-luglio 1960 sorretto dai voti del
Movimento Sociale Italiano.

Con il DPR 6 novembre 1960, comunque, il ministro
Bosco (III governo Fanfani) promulgava i nuovi
programmi per l’insegnamento della storia nei licei e
negli istituti magistrali, ai quali, nei tre anni seguenti,
si sarebbero aggiunti quelli destinati agli istituti
tecnici (DPR 30 settembre 1961) e alla scuola media
unica istituita nel 1962 (DM 24 aprile 1963).

I nuovi programmi introducevano finalmente nelle scuole secondarie la narrazione delle
vicende italiane e internazionali più recenti, nel cui ambito assumevano un rilievo
particolare «la resistenza, la lotta di liberazione, la Costituzione della Repubblica
italiana; [gli] ideali e [le] realizzazioni della democrazia».
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

A fronte di tale indubbia e fondamentale novità, rimanevano tuttavia irrisolte talune
questioni destinate a condizionare negativamente la stessa applicazione ed efficacia dei
nuovi indirizzi didattici:
•
il problema dell’aggiornamento culturale degli insegnanti di storia (in larga maggioranza
privi di adeguate conoscenze dei fatti recenti) e a quello, non meno importante, della
messa a punto di una nuova generazione di manuali e di libri di testo,
•
l’accentuarsi lungo gli anni Sessanta del clima di conflittualità ideologica e politica
all’interno della scuola secondaria italiana favorì indubbiamente una crescente
strumentalizzazione dell’insegnamento della storia recente (polemiche su fascismoantifascismo e sulla cosiddetta Resistenza tradita).

Le trasformazioni socio-culturali e i mutamenti del costume registratisi nel corso degli
anni Sessanta hanno contribuito a porre in luce i ritardi, le incertezze e i limiti del
progetto di fare della narrazione scolastica della storia contemporanea il caposaldo di
un’autentica coscienza critica e, più in generale, la base per la promozione, tra le giovani
generazioni, della cittadinanza democratica.
•
Già nell’aprile 1965, ad esempio, sulle pagine del periodico fiorentino «Il Ponte», erano
stati pubblicati i risultati di una grande inchiesta svolta nelle scuole secondarie superiori
di Voghera su Fascismo e antifascismo.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata

L’inchiesta, condotta su un campione di oltre un migliaio di studenti, e basata su un
questionario comprendente 14 domande destinate a valutare il grado di conoscenza del
fenomeno fascista e dell’antifascismo e a far risaltare il giudizio degli intervistati, doveva
fornire risultati sorprendenti - e per molti versi sconcertanti – sulla mentalità e sugli
orientamenti politici del mondo giovanile.

Nell’indicare gli aspetti più rilevanti emersi dall’inchiesta, la redazione de «Il Ponte»
poneva l’accento sull’atteggiamento di «rifiuto della condanna del fascismo» che
caratterizzava gli studenti intervistati, la maggior parte dei quali, anzi, si mostrava
convinta che esistesse «una verità ben diversa» dell’esperienza fascista, rispetto a quella
propagandata dall’antifascismo.

La redazione del periodico fiorentino sottolineava altresì come ci si trovasse di fronte a
«una generazione essenzialmente moderata, inseritasi e facilmente adattatasi negli
schemi di vita che la società ha loro – e non solo a loro – imposto».

Era la generazione dei «nati dopo», di coloro che non avevano vissuto la stagione della
guerra di liberazione e che in pochi sapevano «dare una collocazione cronologica e una
definizione esatte del movimento di Resistenza»; ma era anche la generazione che
rivelava non solo estraneità, ma anche diffidenza di fronte ai grandi ideali etico-civili e
alle aspirazioni democratiche che avevano animato la lotta contro il nazi-fascismo.
Anna Ascenzi
Università degli Studi di Macerata



Un’ulteriore e ancora più decisa conferma del fallimento del progetto di fare
dell’insegnamento della storia uno strumento di educazione alla democrazia è venuta
dalla contestazione studentesca del 1968.
Essa ha rappresentato indubbiamente il momento dell’emergenza a livello di opinione
pubblica di un problema che aveva radici profonde e che coinvolgeva, sul piano delle
responsabilità, l’intera classe politica italiana. Un problema di ritardi e d’inadeguatezze,
certamente, ma anche d’incapacità di riconoscersi – al di là delle specifiche
appartenenze ideologiche e politiche – in una storia comune e condivisa; di costruire
cioè, se ci si passa il riferimento a Gramsci, una sorta di autobiografia della democrazia
italiana da offrire come fondamento della coscienza etico-civile per le nuove
generazioni.
Vale la pena qui di richiamare l’importante relazione su La storia contemporanea nella
scuola italiana presentata dallo storico Guido Quazza al convegno su «Libri di testo e
Resistenza», svoltosi a Ferrara nel novembre 1970 per iniziativa dell’Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI).
Nel ripercorrere le principali tappe del dibattito condotto su fascismo e antifascismo e
sull’interpretazione della Resistenza e della nascita dello Stato democratico proposta
negli anni del secondo dopoguerra dagli storici di vario orientamento ideologico, Quazza
non mancava di rilevare i limiti dell’intreccio tra storiografia e politica e di denunciare i
riflessi negativi di tale posizione sotto il profilo della formazione civile delle nuove
generazioni:
Anna Ascenzi
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Che cosa è venuto da questa considerazione della storia contemporanea nell’ultimo
venticinquennio per quanto riguarda i giovani? Ne è conseguito che la parte migliore di
essi per impegno e intelligenza, ha finito col cogliere il sostanziale distacco fra cultura e
intelligenza, non come una conseguenza inconsapevole, ma come un mezzo
consapevole usato dai politici, dai partiti, per avallare un sostanziale monopolio del
potere. Qui non si vuol fare della polemica politica, ma si deve riconoscere con molta
franchezza che da qui è nata la diffidenza dei giovani verso la doppia verità dei partiti.
In particolare, la Resistenza è stata utilizzata ai fini dell’interesse delle parti politiche
più contrastanti. I moderati, ad esempio, ne hanno fatto un sacrario di glorie da
mummificare, cioè un fatto concluso che non doveva avere più conseguenze dirette
nella nostra attività quotidiana. Ma anche le sinistre hanno presentato un concetto di
Resistenza che non era quello rispondente realmente alla resistenza quale fu, cioè non
un tentativo di rivoluzione, rimasto incompiuto, ma una lotta nazionale fondata su un
compromesso politico. Di qui il graduale formarsi di un senso di insoddisfazione verso
l’Italia della Resistenza, sfociato poi, dal 1967 ad oggi nella contestazione giovanile, la
quale quindi è stata in primo luogo una crisi di sfiducia nei partiti che si dicevano
innovatori o rivoluzionari e in secondo luogo una rivolta contro tutto il sistema dei
partiti. I giovani hanno perfettamente ragione: quando polemizzano con la Resistenza,
polemizzano con una certa immagine della Resistenza che noi abbiamo dato,
un’immagine ambivalente, mitizzata da un lato e, dall’altro apparentemente
rivoluzionaria. Se vediamo la Resistenza in questo quadro ci spieghiamo anche perché
ha inciso poco nella formazione della coscienza democratica dei giovani.
Anna Ascenzi
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