Processi formativi, cittadinanza e identità nazionale in Italia tra Otto e Novecento Università degli Studi di Macerata Sommario • Questa parte del corso si propone di approfondire taluni passaggi del più generale processo di ridefinizione dei modelli di cittadinanza e di identità nazionale, ponendo l’accento sul ruolo esercitato in tale ambito dal sistema scolastico, con riferimento alle diverse fasi che hanno contrassegnato lo sviluppo storico dell’Italia unita, dal compimento del processo unitario al secondo dopoguerra. • In particolare, si ritiene opportuno concentrare l’attenzione su: ruolo esercitato dagli insegnamenti fondamentali su questo versante, quali quello della storia e quello dei diritti e doveri del cittadino (in seguito: educazione civica), caratteristiche e funzioni svolte dalla relativa manualistica (libri di testo), funzione svolta dalla letteratura per l’infanzia e dai periodici per la gioventù attraverso «Il Giornalino della Domenica» (1906-1920) di Luigi Bertelli/Vamba. Università degli Studi di Macerata • Il discorso sarà articolato tenendo presenti i seguenti punti: 1. Le dinamiche e i processi. La scuola italiana dell’Ottocento e la promozione della cittadinanza e dell’identità nazionale, Un bilancio dei risultati. I limiti del processo di «nazionalizzazione degli italiani» attraverso la scuola dell’Ottocento, Crisi dello Stato liberale ottocentesco e avvento della società di massa. I tentativi di universalizzare la cittadinanza borghese e di rifondare l’identità nazionale tra età giolittiana e fascismo Scuola e Nazione. Il fascismo e la ridefinizione dell’insegnamento scolastico della storia come strumento di una nuova «pedagogia nazionale». Gli anni del secondo dopoguerra. La difficile costruzione dell’identità repubblicana e della cittadinanza democratica. 2. 3. 4. 5. Università degli Studi di Macerata Le dinamiche e i processi La scuola italiana dell’Ottocento e la promozione della cittadinanza e dell’identità nazionale All’indomani della promulgazione della Legge Casati (1859), com’è noto, con il Regolamento del 15 settembre 1860 furono varati dal ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani i nuovi programmi didattici per la scuola primaria e secondaria, destinati ad essere estesi, dopo l’unificazione, all’intera penisola italiana, insieme alle relative Istruzioni ai maestri sul modo di svolgerli. Nelle scuole elementari, l’insegnamento della storia, era limitato ai «fatti più notevoli della storia nazionale» e risultava presente solo nella quarta e ultima classe. Esso era introdotto nell’ambito della sezione «Lettura», che comprendeva, tra l’altro, i «doveri dell’uomo e del cittadino sopratutto in relazione con lo Statuto fondamentale del Regno», lo studio degli «Stati principali dell’Europa e loro metropoli» e una «breve descrizione dell’Italia». Università degli Studi di Macerata • Il motivo di questa scelta era precisato nella Istruzione ai maestri delle Scuole primarie sul modo di svolgere i programmi approvati col R.D. 15 settembre 1860, redatta dall’ispettore generale Angelo Fava e pubblicata con la C.M. del 26 novembre 1860. In tale Istruzione era affermato: Tutte queste nozioni furono comprese nel titolo Lettura affinché s’intenda che nelle scuole elementari non si vuole insegnare né l’etica, né il diritto costituzionale, né la storia d’Italia, né la geografia, ma darne solamente quelle nozioni più elementari di che i fanciulli sono capaci, e che possono riuscir loro di grande giovamento sia che vogliano proseguire gli studi, sia che debbano abbandonare le scuole. • L’Istruzione redatta dal Fava, inoltre, identificava la «storia nazionale» con la storia dei sovrani sabaudi, specie laddove precisava che l’insegnamento storico avrebbe dovuto contribuire a fornire ai fanciulli «una prima idea della storia nazionale», attraverso lo studio «dell’origine della R. Casa di Savoia; la lega Lombarda; le gesta principali di Amedeo V, VI, VII, VIII, di Emanuele Filiberto, di Carlo Emanuele I, di Vittorio Amedeo II, del Principe Eugenio, di Carlo Emanuele III; di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II». Università degli Studi di Macerata Alla storia dinastica di Casa Savoia avrebbe dovuto essere associata anche la conoscenza di «alcune altre corte biografie di scrittori ed artisti che onorano il nome italiano, o meritano di essere in particolar modo ricordati in ciascuna città e provincia d’Italia». Negli Avvertimenti Generali annessi all’Istruzione del Fava, si affermava che «anche dalle cognizioni più semplici può il Maestro trarre argomento per dichiarare e raffermare qualche ottimo precetto morale, qualche regola opportuna al vivere civile, ed ispirare così ai suoi alunni il sentimento del dovere, l’amore alla patria». • Ciò attesta l’importanza attribuita fin dalla costituzione dello Stato unitario all’insegnamento della storia patria nelle scuole elementari, ai fini della formazione civile e della promozione del sentimento nazionale nelle nuove generazioni. Università degli Studi di Macerata • Al riguardo, notava ancora il Fava: Finalmente parlando del dovere che tutti gli altri [doveri] sociali abbraccia, vale a dire dell’obbligo di amare e servire la patria, quella civile società alla quale ci stringono l’origine e la lingua, le comuni leggi e gli interessi, le memorie e le speranze, mostrerà il maestro come l’amor di patria non debba consistere in vuote aspirazioni o in calde parole, e molto meno nelle vanterie o nel disprezzo delle altre nazioni, ma sì in atti di operosa virtù e di abnegazione; e come per esser fruttuoso esso debba avere il suo fondamento nei sentimenti più nobili dell’animo e nell’osservanza delle leggi morali e civili. Nelle prescrizioni formulate da Angelo Fava, e più in generale nelle indicazioni relative ai contenuti e alle finalità dell'insegnamento della storia patria proposte dai programmi del 1860, si coglie non solamente l’impronta moderata e sabaudista che animava gli uomini della Destra storica, ma anche una visione inevitabilmente parziale, e dunque poco avvertita, delle difficoltà e degli ostacoli con i quali, di lì a poco, l’ambizioso progetto di una nazionalizzazione delle popolazioni della penisola attraverso la scuola si sarebbe trovato a fare i conti. Università degli Studi di Macerata La pubblicazione, nel 1865, della relazione generale Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia, predisposta dal vicepresidente del Consiglio Superiore Carlo Matteucci su incarico dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Natoli, oltre a far emergere le difficoltà che caratterizzavano l’istruzione primaria e popolare e gli scarsi risultati ottenuti sul terreno della lotta all’analfabetismo, forniva un quadro fortemente problematico dell’insegnamento impartito nelle scuole elementari. Per quello che concerne l’insegnamento della storia civile e nazionale, oltre a non figurare mai tra «le materie che si studiano e s’apprendono di più nelle scuole elementari», talora era addirittura annoverata dagli ispettori tra quelle destinate a risultare «più difficili all’intelligenza dei fanciulli» e a dare quindi «iscarso frutto». • Tale situazione va ricondotta a diverse cause: Esigenza di ridurre all’essenziale il piano di studi del corso elementare, puntando alla trasmissione di quelle abilità e di quei contenuti – «catechismo, leggere, scrivere e far di conto» – in grado di garantire, sia pure al più basso livello, un’effettiva omogeneità culturale delle popolazioni. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Carenze del corpo docente sul piano della formazione culturale di base e delle competenze di tipo metodologico e didattico: spesso gli insegnanti ignoravano completamente la storia civile e nazionale che, tra l’altro, non era compresa tra le materie insegnate nelle scuole elementari e normali della maggior parte degli Stati preunitari. • Consistente presenza di ecclesiastici e membri di istituti regolari maschili e femminili tra le file dei maestri (sul totale dei 34.263 maestri elementari in servizio nell’anno scolastico 1863-1864, il numero di sacerdoti e religiosi ammontava a 10.888, pari al 31,8%). Estranei in massima parte – quando non addirittura ostili – al «nuovo corso politico» inauguratosi nel 1861 con la costituzione dello Stato unitario, essi avevano una scarsa attenzione nei riguardi della storia civile e nazionale, il cui insegnamento, specie nelle scuole degli ex territori pontifici e del Meridione, fu largamente disatteso. Non sorprende sotto questo profilo che, soprattutto all’indomani dell’avvento della Sinistra di Depretis alla guida del Paese, la classe dirigente liberale abbia avvertito l’esigenza di rimuovere le cause che contribuivano a rendere l’ insegnamento della storia trascurato e negletto nell’ambito della scuola elementare. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata I principali sforzi furono rivolti a fornire ai futuri maestri una più organica formazione storica, con particolare riferimento alla storia italiana recente, e, nel contempo, a promuovere specifiche iniziative di aggiornamento per il corpo docente già in servizio. Si spiega alla luce di tali considerazioni l’intensa opera di riordino e aggiornamento dei programmi di storia per le scuole normali avviata tra il 1867 e il 1883 dai ministri della Pubblica Istruzione Coppino, De Sanctis e Baccelli. Nel 1867 Michele Coppino introduceva lo studio della «Storia d’Italia» nel primo biennio della scuola normale (biennio che abilitava all’insegnamento nel corso elementare inferiore, l’unico realmente diffuso sul territorio e frequentato dalla gioventù delle classi popolari). • • Anna Ascenzi Nel 1880 Francesco De Sanctis stabiliva che nelle scuole normali maschili e femminili si sarebbe dovuta approfondire, per tutti e tre gli anni del corso, la sola storia nazionale, con particolare riferimento ai fatti e ai personaggi dell’epopea risorgimentale. Università degli Studi di Macerata • Nel 1883, il nuovo titolare della Minerva Guido Baccelli stabiliva che nelle scuole normali si dovesse partire dalla storia contemporanea, posta al primo anno, e percorrere poi a ritroso, negli anni successivi, le epoche più remote. All’origine di tale scelta si poneva la convinzione che la storia del Risorgimento fosse la più indicata per formare tutti i maestri, anche quelli che abbandonavano le scuole normali dopo il secondo anno per andare a insegnare nelle elementari inferiori e che quindi finivano per ignorare proprio le vicende più recenti, ossia il processo che aveva portato all’unificazione della penisola. «Sarebbe veramente grave – si affermava nelle Avvertenze ai programmi didattici per le scuole elementari del 1883 – se dalla storia del nostro Risorgimento l’insegnante non traesse gli argomenti per rafforzare lo spirito nazionale, per coltivare l’amor di patria e delle sue libere istituzioni». Per valutare appieno le caratteristiche e il significato assunti dall’insegnamento della storia nelle scuole elementari all’indomani dell’unificazione nazionale è necessario, infine, esaminare i libri di testo utilizzati dai maestri nell’ambito di tale insegnamento. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A partire dal 1861, troviamo in circolazione, nelle scuole elementari della penisola, una nuova generazione di manuali e raccolte di letture e racconti di storia patria redatti da insegnanti, direttori didattici, ispettori ministeriali e caratterizzati, per la maggior parte, da: • • una struttura narrativa fondata essenzialmente sulla presentazione di rapidi profili biografici dei personaggi più rappresentativi e sull’illustrazione, anch’essa estremamente succinta e a carattere aneddotico, delle vicende e degli avvenimenti più rilevanti delle diverse epoche; e da una visione fondamentalmente moderata della recente storia nazionale, in sintonia, del resto, con quanto avveniva sul versante storiografico. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta la produzione di manuali e compendi di storia civile e nazionale per la scuola elementare entra in una nuova fase. • Tra il 1865 e il 1880 le pubblicazioni per l’insegnamento della storia nelle scuole elementari (manuali, compendi, racconti, sommari, «letture» ecc.) raggiungono, complessivamente, il rispettabile numero di 317, con un incremento notevole a partire dal 1878. • Inoltre, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in concomitanza con l’avvento al governo della Sinistra di Depretis, si afferma una concezione del Risorgimento nazionale maggiormente attenta al ruolo giocato dalle correnti democratiche e, in particolare, alla dimensione nazional-popolare del processo di unificazione della penisola. • In questo periodo comincia a prendere forma un’immagine del Risorgimento, semplificata e ‘mitologica’, ma non priva di una sua efficacia laica e patriottica, la quale faceva perno su «un composito pantheon di padri della patria, di episodi gloriosi, di detti e gesti eroici»; un’immagine la cui edificazione si sarebbe completata solo sul finire del secolo XIX. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Allo stesso modo, la rimessa in discussione, a seguito della già ricordata legge Coppino, dell’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola elementare, e la contemporanea introduzione nel piano di studi della medesima scuola delle «prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino», ebbero come effetto la comparsa di manuali di «diritti e doveri» nei quali la spiegazione dei principali articoli dello Statuto del Regno d’Italia si accompagnava sovente a una «compendiosa» illustrazione della storia italiana contemporanea, ossia delle vicende risorgimentali e del processo che aveva portato all’unificazione della penisola. • Caratteristico della produzione manualistica degli anni Ottanta, come si è accennato, è il ricorso a moduli narrativi e linguistici nuovi, nei quali si riflette – per la prima volta in modo preciso e generalizzato – quella tendenza alla sacralizzazione dell’epopea risorgimentale e all’esaltazione in termini propriamente religiosi dei protagonisti del processo di unificazione nazionale che avrà poi ulteriori e ben più organici sviluppi nei libri di storia degli anni Novanta. • Ma che è dato di ritrovare, in questo stesso periodo, anche nei racconti destinati all’infanzia e alla gioventù, come il celebre e fortunatissimo Cuore di Edmondo De Amicis, del quale merita di essere segnalato l’uso mitopoietico della storia, e la creazione, o l’avvio di un nuovo modello di storia sacra, su base patriottica, che sostituiva, senza distinguersene considerevolmente nello spirito e nei contenuti – compresi i miracoli e i martiri – la storia sacra propriamente detta. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • È significativo, per citare solo qualche esempio, il riferimento continuo dei manuali di storia editi in questo periodo a concetti quali martire/martirio, salvatore/salvezza, redentore/redenzione, provvidenza/riscatto o ad espressioni quali «la santa causa d’Italia», «la missione salvifica», «il sacro compito di liberare i popoli oppressi», e altre ancora. • A titolo esemplificativo di un simile approccio alla storia nazionale, vale la pena di richiamare la sintetica ma illuminante prefazione posta dal Corti alla sua Breve storia del Risorgimento italiano (1885). In essa l’insegnante elementare capitolino scriveva: La scuola per riuscire veramente educativa dev’essere nazionale; deve formare il cuore del cittadino italiano […]. I giovanetti non ricordano che quello che fa sul loro animo impressione profonda, e perciò, anziché esporre una serie di fatti, ho preso a narrare le vite de’ nostri martiri gloriosi intorno alle quali si raggruppano i principali avvenimenti, che ci diedero la redenzione della patria; e di quegli illustri che con morte gloriosa hanno suggellato i principii santi a cui informarono tutta la loro vita […]. Giovani nella vita delle nazioni, noi abbiamo bisogno di conoscerci di conoscerci per apprezzarci e per amarci; e come il comune dolore aveva affratellati i nostri padri, un comune amore stringa i nostri figli, ed un comune intento guidi le opere loro: far grande questa Italia nostra carissima che un lungo martirologio, ed i sacrifici e le vittorie de’ nostri padri ci hanno consegnata libera ed indipendente. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Coerentemente con il proposito di un’interpretazione in chiave religiosa dell’epopea risorgimentale, il Corti rileggeva le tappe del processo di unificazione della penisola (i moti carbonari del 1820-21, le sollevazioni mazziniane della Giovane Italia, le insurrezioni del 1848 e, infine, la prima e la seconda guerra d’indipendenza) in termini di vere e proprie «stazioni della via crucis» del popolo italiano e del «martirologio della patria» proponendo ai suoi giovani lettori una vera e propria galleria di martiri votati alla «santa causa» della libertà e dell’indipendenza nazionale: dalla «virtuosa, dotta ed eroica» Eleonora Fonseca Pimentel, il cui «amore di patria» era stato «punito con il martirio» e il cui sangue aveva contribuito «a consacrare questa patria diletta»; ai «martiri» delle Cinque Giornate di Milano, «il cui sangue tutta santificò la nostra patria dilettissima»; fino a Giuseppe Garibaldi, le cui «gesta meravigliose» dovevano testimoniare al mondo intero il significato di «quell’amor di patria che tutto santifica» e spronare «tutti i cittadini italiani alle sante imprese per la patria». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Sulla medesima scia, e con toni altrettanto enfatici, si poneva Lorenzo Bettini ne I martiri e i fattori dell’unità ed indipendenza d’Italia (1885). Tra gli aspetti di maggiore interesse di questo manualetto, merita di essere segnalata la vera e propria aurea spirituale che circonda i protagonisti dell’epopea risorgimentale. Così, Giuseppe Garibaldi è definito «l’eroe del popolo […] mandato da Dio a liberare la patria dallo straniero e a far grande l’Italia», nato, vissuto e «morto povero» e destinato a «sagrificare tutto sé stesso alla patria»; di Giuseppe Mazzini si ricorda che «egli visse, sofferse, pianse e morì per la patria» e che con le sue parole e i suoi scritti operò «come un profeta al suo popolo»; sulla «nuova Italia […] fecondata dal sangue di tanti martiri, santificata dal dolore di tanti uomini Grandi», infine, Bettini invocava la benedizione di Dio quale «vero Artefice della sua unità e libertà». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Un capitolo a sé, nell’ambito della manualistica per l’insegnamento della storia nelle scuole, è rappresentato dalle numerose biografie di carattere celebrativo e dalle proposte di «didattica pratica» apparse all’indomani della morte di Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878. • L’improvvisa scomparsa del primo re d’Italia era destinata, com’è noto, non solamente a suscitare una vasta eco e una sincera e generalizzata commozione in tutto il Paese, ma anche a rappresentare, per gli uomini della Sinistra storica approdati alla guida del governo dopo la «rivoluzione parlamentare» del marzo 1876, un’inattesa quanto decisiva opportunità per promuovere – facendo leva sul mito del «gran Re», dell’artefice dell’unità e dell’indipendenza nazionale appena scomparso – il rafforzamento dell’egemonia borghese e l’allargamento del consenso alle istituzioni liberali e al nuovo assetto politico realizzato con la proclamazione del Regno d’Italia. • La strategia adottata dalla classe dirigente liberale in questo frangente puntò da un lato ad esaltare l’identificazione esclusiva di Vittorio Emanuele II e della monarchia sabauda con l’intero processo di unificazione del Paese, dall’altro ad avvalorare un’immagine del defunto sovrano come «perfetta incarnazione della storia, della cultura, delle idealità e aspirazioni dell’intero popolo italiano, senza distinzione di ceti». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Per altri versi, è testimoniato dalle già ricordate biografie di Vittorio Emanuele II edite a partire dal 1878 e destinate ad essere utilizzate, come letture integrative per l’insegnamento della storia nazionale, nei diversi ordini e gradi di scuola. • Si tratta in generale di operette redatte con linguaggio semplice e piano, il cui impianto narrativo, prevalentemente aneddotico, è integrato sovente da un apparato iconografico volto ad accrescere l’efficacia del testo scritto e a coinvolgere emotivamente il lettore. • La struttura narrativa di questi libri, presenta un susseguirsi di bozzetti familiari pieni di buoni sentimenti, di premonizioni guerriere fin dai primi passi del futuro re, di armonioso equilibrio fra amor di patria e religione dei padri, di fulgido eroismo sui campi di battaglia, di lealtà e galantomismo a tutta prova, di acume politico superiore a chiunque. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • In realtà, l’approccio narrativo fatto proprio dalle biografie di Vittorio Emanuele II destinate alle scuole elementari non presentava tratti originali, sembra di poter dire, anzi, che esso ricalcava i moduli e le caratteristiche di fondo del genere agiografico popolare, ossia delle tradizionali vite dei santi, già ampiamente utilizzate nei secoli precedenti dalla Chiesa, e da questa riproposte con rinnovato slancio all’indomani della Rivoluzione francese, quale strumento di formazione delle coscienze e di promozione di idealità e costumi morali e religiosi nelle nuove generazioni. • Sotto questo profilo, siamo in presenza di una vera e propria ripresa e reinterpretazione in senso laico e patriottico di un genere letterario il quale, destinato tradizionalmente a veicolare modelli di santità e di comportamento religioso, assurge ora a mezzo di diffusione, tra le popolazioni della penisola, di una comune identità nazionale da plasmare e rinsaldare attraverso la sacralizzazione di modelli civili e la trasposizione sul piano politico del linguaggio e degli apparati simbolici caratteristici della religione cattolica. • Non a caso nei decenni seguenti il ricorso alla narrazione agiografica ai fini dell’educazione civile e patriottica della gioventù si estenderà anche alla vita e alle gesta degli altri due protagonisti dell’epopea risorgimentale, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini, destinati anch’essi a figurare, accanto a Vittorio Emanuele II, tra i «Padri della Patria». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A fronte dei profondi mutamenti registratisi nel corso del primo trentennio unitario non solamente in ambito scolastico, ma anche, e soprattutto, sul versante politico e sociale, l’impianto didattico e i contenuti dell’istruzione elementare stabiliti nel 1860 erano destinati, com’è noto, a non subire modificazioni sostanziali fino alla seconda metà degli anni Ottanta. • Risale a questa fase infatti il varo, con R.D. 25 settembre 1888, dei nuovi programmi per le scuole elementari ad opera dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli. • Questi programmi, i quali presero il nome dal pedagogista e uomo di scuola Aristide Gabelli, che ne stese le celebri Istruzioni generali, facevano proprie, com’è noto, alcune istanze peculiari della pedagogia e didattica di matrice positivista. • «Se la scuola ha da servire i bisogni nostri –scriveva al riguardo Aristide Gabelli –, ne viene di conseguenza che essa deve impartire l’insegnamento in maniera che l’alunno acquisti certe abitudini intellettuali più feconde, ossia ne tragga un modo di pensare più chiaro, più pratico, più proficuo, che non sia quello ch’egli acquista ordinariamente». L’istruzione impartita nelle scuole, il cui scopo restava pur sempre l’alfabetizzazione, doveva rivestire, secondo l’estensore delle Istruzioni generali, anche una marcata valenza educativa. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Per quel che concerne nello specifico l’insegnamento della storia, esso assumeva, secondo Gabelli, un ruolo di primaria importanza quale strumento atto a promuovere la maturazione di personalità dotate di autentica coscienza civile e sociale. • Nelle Istruzioni generali, infatti, Gabelli, dopo aver rilevato come «il buon uomo può non essere un buon cittadino», suggeriva al maestro di «cogliere tutte le occasioni per infondere ne’ suoi alunni i sentimenti che più conferiscono al benessere civile, l’amore dell’ordine, della concordia, della tranquillità laboriosa e della socialità umana, distogliendoli, ove bisogni, da gare e da odi municipali, e facendo che il nome d’Italia e la compiacenza di appartenere a una gran nazione valida e stimata campeggi nel loro pensiero e nel loro cuore». • In generale, i programmi del 1888 conferivano un particolare rilievo all’educazione nazionale e patriottica. Nelle Istruzioni speciali relative al programma di storia, infatti, era sottolineato che: «L’insegnamento della storia ha per fine principalmente di inspirare coll’esempio ai fanciulli il sentimento del dovere, la devozione al bene pubblico e l’amore di patria». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Per raggiungere questi obiettivi etico-civili, la prospettiva educativa da perseguire avrebbe dovuto essere quella di richiamare le vicende della storia nazionale «senza vanti improvvidi e insulsi retoricismi», facendo comprendere ai fanciulli il contributo dell’Italia al progresso della civiltà, per generare in loro un sentimento di ammirazione per la grandezza del passato e stimolare, nel contempo, un vigile e forte senso del dovere, verso la patria e verso le istituzioni nazionali. • Si poneva indubbiamente un’interpretazione dell’idea di nazionalità di chiara derivazione mazziniana. Tale idea, infatti, era concepita dal Gabelli e dagli estensori dei programmi del 1888 come una vera e propria religione civile, capace di mobilitare l’opinione pubblica, di inculcare ideali di attività e di sacrificio, di diffondere l’idea che per essere nazione non bastava una lingua, una tradizione, un’area geografica comune, ma occorreva una volontà comune che non era la rousseauiana ‘convenzione iniziale’ né un portato della natura, ma un’operosità continua e incessante. • Una concezione della nazione, questa, che era destinata a integrarsi con il nuovo ideale di scienza e di progresso civile e sociale veicolato anche nel nostro paese, a partire dagli anni Settanta, dal positivismo. «La fede nella scienza – come ha scritto al riguardo Federico Chabod – fu quasi un corollario della fede nella patria e fece tutt’uno con il sentimento nazionale». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Si comprende bene, allora, come questo principio di nazionalità, con il suo richiamo alla coscienza individuale e alla storia, la sua forte impronta volontaristica e il primato conferito alla dimensione etica e spirituale della comunità nazionale, fosse destinato a tradursi in uno specifico progetto pedagogico, il quale, facendo leva sulla dimensione dei doveri, sull’esortazione alla rettitudine e allo spirito di sacrificio, sul rispetto dell’autorità e dell’ordine gerarchico, fosse capace di sanzionare definitivamente sul piano morale quell’unità della nazione già realizzata a livello politico e istituzionale, e di operare un’autentica rigenerazione delle popolazioni italiane. • E che tale obiettivo, perseguito sia pure in modo non sempre lucido ed efficace fin dai primordi dell’unificazione, fosse ormai divenuto prioritario per lo stesso consolidamento delle istituzioni e della vita del Paese, lo si evince dal dibattito che, su tale questione, si era sviluppato già dopo l’avvento della Sinistra di Depretis al governo, e che coinvolse intellettuali ed esponenti della classe politica, da Francesco De Sanctis a Pasquale Villari, fino allo stesso Aristide Gabelli e ad altri pedagogisti e uomini di scuola d’orientamento positivista. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il clima di involuzione politica e culturale che caratterizzò l’ultimo quindicennio del secolo XIX ed il prevalere, anche sul versante della politica scolastica, delle istanze nazionalistiche espresse da Francesco Crispi e condivise dal ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli portarono, com’è noto, all’emanazione, con il R.D. del 29 novembre 1894, di nuovi programmi didattici per la scuola elementare, a soli sei anni di distanza dai precedenti. • I programmi del 1894 segnarono un’autentica svolta rispetto ai precedenti, tanto sotto il profilo di una riduzione e semplificazione dei contenuti, quanto dal punto di vista degli obiettivi ideologici e culturali fissati. • Alla scuola elementare, intesa essenzialmente come «scuola del popolo» e ricondotta «entro i naturali confini determinati dalle ragioni del suo essere e dall’utilità nazionale», il ministro Baccelli attribuiva il compito di farsi «strumento di redenzione morale e civile» del Paese, fornendo alle nuove generazioni pochi e basilari insegnamenti utili a integrarsi positivamente nel mondo del lavoro e nella comunità civile e politica: «Leggere, scrivere, far di conto e diventare un galantuomo operoso fu ed è ancora il programma vivo del buon senso italiano; tornare ad esso animosamente è […] un progredire spedito e infallibile». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • L’obiettivo riassunto nella formula «istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può» traeva alimento, comunque, non solamente da preoccupazioni d’indole pedagogica, ma anche, e soprattutto, da motivazioni di natura fondamentalmente politica. • All’esigenza di ricondurre l’istruzione del popolo entro confini ben definiti e di determinarne caratteristiche ed estensione in base ai concreti bisogni dei ceti subalterni e alle specifiche necessità della vita produttiva e del mercato del lavoro nei centri urbani e rurali, si accompagnava, infatti, la prospettiva di fare della scuola elementare il luogo e lo strumento privilegiato per un’educazione civile e nazionale volta essenzialmente a rafforzare la coesione sociale e la piena identificazione delle popolazioni con gli ordinamenti e le istituzioni dello Stato liberale, attraverso un complesso processo di omogeneizzazione e nazionalizzazione degli italiani. Si trattava, in sostanza, di promuovere per mezzo «della scuola elementare generazioni moralmente rinnovate, per le quali l’ossequio alla legge sia forte e invincibile […] e l’amore di patria si trasformi in atti quotidiani di onestà, di lavoro, di sacrifizio». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Alla base della prospettiva, perseguita dai programmi del 1894, di una «nazionalizzazione» degli italiani da realizzare attraverso la scuola – in primis quella elementare, restituita alla sua fisionomia più autentica di «scuola del popolo» e chiamata ad esercitare la sua funzione educativa in senso interclassista – si ponevano, come si è già accennato, i timori e le preoccupazioni di tanta parte della classe dirigente liberale, in una fase della vita nazionale nella quale il distacco tra governanti e governati pareva divenire via via più grave e minacciare la stessa compattezza del Paese. • Emblematica, sotto questo profilo, è l’analisi compiuta da Francesco Crispi dei ritardi e delle arretratezze che caratterizzavano la vita politica e sociale dell’ancor giovane regno d’Italia. «Non basta – egli scriveva – aver distrutto i sette Stati e costituita l’unità nazionale, vuolsi formare l’uomo cittadino, senza il quale il grande edifizio non può consolidarsi, anzi rischia di sfasciarsi». • Egli, inoltre, sottolineava come, per la sostanziale «assenza d’ogni educazione civile» e politica, le popolazioni apparivano ancora «quali erano prima della costituzione del nuovo Regno […], senza alcuna fusione» e senza autentici riferimenti a un’identità comune: «L’unità materiale fu fatta, il grande edifizio fu elevato, ma per l’unità intellettuale e morale siamo ancora al cominciamento dell’opera nostra». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Le responsabilità di un siffatto stato di cose, a detta di Crispi, andavano attribuite non solamente ai moderati della Destra storica, che avevano governato il Paese nel primo quindicennio dopo l’unificazione, ma all’intera classe dirigente liberale, rea di non aver compreso fino in fondo la necessità di una «pedagogia nazionale» capace di rimuovere «quegli elementi che per loro natura tengono divise le genti della penisola» e di unificare le coscienze attorno ai valori della patria: Noi – scriveva lo statista siciliano - abbiamo soppresso le cattedre di teologia dalle Università, abbiamo tolto dalle scuole la educazione religiosa […]. Confessiamolo: questa fu un’opera incompleta. La nostra fu una negazione, e la negazione crea il vuoto. Noi dovevamo affermarci […]. Sventuratamente il Governo d’Italia ha trascurato quello che era il primo suo dovere: l’educazione del popolo. Non ci ha pensato, mentre a questo doveva rivolgere le sue cure sino dai primordi del risorgimento nazionale. • Crispi muoveva dai presupposti già noti: mancanza di coesione della nazione, di solidità del nuovo Stato, estraneità alla patria delle masse da educare, e non solo di esse; al punto che egli aveva in mente non solo una ‘nazionalizzazione’ (è il termine da lui usato, nella stessa accezione odierna) degli strati più bassi, ma anche di quelli medi e alti. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Si poneva, per lo statista siciliano, la fondamentale importanza e l’urgenza di una educazione civile da esercitarsi sulle plebi che facesse perno sui valori patriottici e sulla costruzione di un immaginario collettivo «comune a tutta l’Italia nuova»: un’educazione civile con «una mèta, il culto della patria, e un mezzo, la storia». Il culto del patriottismo – scriveva lo statista siciliano – educa il popolo […]. Se volete tenere il popolo sempre pronto ai supremi cimenti, parlategli spesso di coloro che tutta la vita dedicarono alla patria. Come la consuetudine con gli uomini superiori ci rende migliori, così desta lo spirito di emulazione il racconto dei sacrifici, delle audaci imprese, degli eroismi. E ancora: Le popolazioni vennero all’unità coi vizii succhiati sotto i governi assoluti e, finché la nuova educazione non sia fatta, finché le vecchie abitudini non siano scomparse, l’Italia sarà una nazione decrepita […]. L’Italia giovane, l’Italia nascente è la generazione che ci segue e dobbiamo formarla noi. A ciò è necessario migliorare le istituzioni, diffondere l’istruzione, educare questo popolo che ci segue, che non ha i vizii né le abitudini di quello che se ne va […]. La memoria di coloro i quali […] hanno dedicato la loro persona al risorgimento nazionale ed al trionfo della libertà dev’essere un retaggio che incateni a noi le giovani generazioni. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Alle luce delle riflessioni sopra richiamate, si comprende agevolmente la peculiare attenzione attribuita all’insegnamento della storia nei programmi didattici del 1894, così come appaiono tutt’altro che sorprendenti le modificazioni apportate ai contenuti e alle finalità della disciplina rispetto a quelli fissati nel 1888. • Accorpato a quelli della Geografia e dei Diritti e doveri del cittadino, l’insegnamento della Storia – limitato alla dimensione nazionale e denominato «Storia d’Italia» – avrebbe dovuto dare «a tutta l’istruzione», come si legge nelle Istruzioni speciali, «quel compimento e quel carattere che meglio si convengono ai bisogni e alle aspirazioni della nazione italiana», concorrendo a «far conoscere ed amare la patria, divenuta libera e grande per virtù dei pensatori e dei martiri che ne prepararono il riscatto da lungo servaggio» e a promuovere, in tal modo, nelle nuove generazioni, «la coscienza e […] il sentimento dell’italianità». • L’aggregazione di tale disciplina con la Geografia e i Diritti e doveri del cittadino, sotto questo profilo, rispondeva a un preciso obiettivo educativo, la cui portata e le cui caratteristiche andavano al di là delle semplici nozioni e conoscenze derivanti dall’apporto delle singole materie: «Perché mai non si perda di vista il concetto – si legge ancora nelle Istruzioni speciali – che le tre discipline qui aggruppate ne devono formare una sola nel metodo, nelle applicazioni e negli effetti, è d’uopo considerare che dalla loro coordinazione dipende di poter dare la prima forma, cioè la più durevole, di un’educazione civile». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • L’insegnamento vero e proprio della storia era previsto a partire dalla terza classe elementare, con lo studio delle vicende «che nei tempi a noi più vicini fecero di province divise ed oppresse un solo e grande paese». Il relativo programma prevedeva, infatti, l’esposizione di «Racconti educativi che riguardino i fatti e gli uomini più notevoli del Risorgimento italiano, dal 1848 al 1870». • Senza la conoscenza di tali vicende, «i fanciulli della terza classe elementare, ai quali una specie di esame di Stato accorda il diritto elettorale […] non avrebbero potuto comprendere appieno il significato e l’importanza dei nuovi diritti, né dall’esempio storico far emergere il dovere che hanno di servire la patria con disinteresse e amore. Così fin dal corso elementare inferiore, rimarrà impressa nella mente e nel cuore quella parte di storia nazionale, che può essere più facilmente intesa». • Le Istruzioni speciali fornivano altresì ai maestri indicazioni precise circa l’opportunità di utilizzare già nelle prime due classi del corso primario le narrazioni storiche, ai fini di una più solida educazione civile e nazionale, non mancando di richiamare la loro attenzione sull’opportunità di prendere spunto dalle varie celebrazioni e ricorrenze di carattere civile e nazionale, che proprio nell’ultimo decennio del secolo XIX erano destinate a intensificarsi e ad assumere una più marcata curvatura pedagogica: Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’avere assegnato – recitava al riguardo il testo ministeriale – la storia, la geografia, i diritti e i doveri del cittadino alle tre ultime classi, non vuol significare che i maestri delle prime due debbano astenersi dal prendere occasione da letture fatte, da feste nazionali, da monumenti visitati per dare un certo avviamento a quella educazione morale e civile che alla fine del corso elementare sarà ben salda e compiuta. • I programmi didattici del 1894 riflettono chiaramente le forti istanze nazionalistiche che segnarono il paese e alimentarono le scelte della classe dirigente liberale nell’ultimo decennio del secolo XIX. Con riferimento ai contenuti e agli indirizzi dell’insegnamento storico, a questo riguardo, meritano di essere segnalate talune prospettive interpretative della storia nazionale fatte proprie da tali programmi. Si tratta di prospettive che troveranno sviluppo e approfondimento, e assumeranno carattere più organico e incisivo, nei programmi didattici per le scuole elementari e secondarie emanati nel ventennio fascista, ma che già ora ci sembra opportuno lumeggiare in quanto espressione compiuta di quell’utilizzo dell’insegnamento storico ai fini della promozione di una «pedagogia nazionale» che proprio nella scuola elementare aveva il suo canale privilegiato. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Intendiamo riferirci, innanzi tutto, al tema della sostanziale continuità tra la Roma imperiale e la «Terza Italia» nata dalle lotte risorgimentali, e all’altro, ad esso collegato, di una ricostruzione del passato, anche di quello più remoto, in chiave di «preparazione» dell’evento unitario. • Ricostruzione, quest’ultima, volta non solamente ad esaltare l’epopea risorgimentale e le origini del giovane Stato italiano, ma anche a fornire una nuova e più solida legittimazione al ceto politico artefice del processo unitario, nel momento in cui la crisi delle istituzioni e delle forze politiche liberali e, per converso, la crescente affermazione delle idee e delle iniziative dell’opposizione socialista e di quella cattolica tra le classi popolari tendevano ad accentuare la frattura tra «paese legale» e «paese reale» e a minacciare le basi stesse dello Stato liberale. • I riferimenti diretti a tali temi sono, al riguardo, molteplici. I In particolare, va segnalata l’esortazione rivolta ai maestri a far ben comprendere ai rispettivi alunni lo stretto nesso intercorrente tra l’attuale situazione del Paese e la sua storia più recente, invitandoli «a considerare le presenti condizioni d’Italia come continuazione ed effetto di quanto i padri operarono». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Allo stesso modo, merita di essere sottolineato il richiamo all’opportunità che gli alunni intendessero appieno «come ne’ secoli trascorsi il concetto della patria e l’idea liberatrice di Roma informarono tutto il pensiero, tutta l’arte, tutta l’azione del popolo italiano, e condussero questo, uscito appena dalle recenti battaglie nazionali, a comporsi pacificamente sotto la tutela di quelle libere istituzioni, che sogliono prosperare in tempi di civiltà già matura». Emblematica di una nuova concezione dell’epopea risorgimentale e delle stesse vicende che resero possibile il compimento dell’unificazione italiana risulta essere, del resto, la periodizzazione stabilita nei programmi Baccelli per lo studio della storia italiana contemporanea nella terza e nella quinta classe elementare: 1848-1870. • Se appare ormai sufficientemente chiaro, alla luce delle riflessioni formulate precedentemente, il senso dello spostamento fino al 1870 del terminus ad quem, meno agevole risulta cogliere il significato della decisione di far partire la narrazione riguardante «i fatti e gli uomini più notevoli del Risorgimento italiano» dal 1848, recidendo di fatto i legami con la fase precedente, ossia con l’esperienza dei movimenti cospiratori e dei moti costituzionali del 1820-21 e del 1831. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • In realtà, l’immagine del Risorgimento che i programmi didattici del 1894 intendevano promuovere era quella di una vera e propria «rivoluzione nazionale», al centro della quale si collocavano da un lato la monarchia sabauda, ossia il sovrano Vittorio Emanuele II e l’esercito regolare piemontese, dall’altro il «popolo» considerato nell’accezione più ampia, espressione cioè non solamente della borghesia, ma di tutti gli italiani: immagine destinata a divenire concreta proprio a partire dalle insurrezioni del 1848 e a trovare poi ulteriore e più incisivo riscontro nella seconda guerra d’indipendenza e, soprattutto, nell’impresa garibaldina del 1860. • Non è casuale che proprio il binomio monarchia-popolo e la lettura del Risorgimento come grande epopea nazional-popolare rappresentassero i cardini della concezione crispina del processo di unificazione nazionale; concezione dalla quale discendeva l’idea che il Risorgimento non era affatto concluso nel 1861 o nel 1870, ma avrebbe dovuto continuare e assumere le caratteristiche di «una riforma morale e intellettuale di tutta la società che facesse perno non più soltanto sui valori dinastici ed elitari dell’epopea lasciata alle spalle, ma sul binomio unificazione-sviluppo». • E proprio alla luce di tale trovano il loro più autentico significato i programmi per la scuola elementare del 1894 e, più in generale, la «pedagogia nazionale» ad essi sottesa che dall’insegnamento della «Storia d’Italia» traeva la sua linfa e la sua principale giustificazione. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Un bilancio dei risultati: I limiti del processo di «nazionalizzazione degli italiani» attraverso la scuola dell’Ottocento Sul significato e sull’incidenza dell’insegnamento della storia nelle scuole italiane, in relazione soprattutto alla questione della formazione dell’identità civile e nazionale nelle nuove generazioni, esercitarono un influsso tutt’altro che irrilevante taluni fattori. • In primo luogo quello delle carenze e dei ritardi strutturali che contrassegnarono, anche nell’ultima fase dell’Ottocento, il più generale processo di alfabetizzazione e di scolarizzazione dei ceti popolari. I dati di cui disponiamo sono, al riguardo, eloquenti. • Relativamente all’anno scolastico 1891-1892, su 2.266.593 iscritti alle scuole elementari pubbliche, coloro che frequentavano la terza classe erano 287.171, mentre ammontava a 45.281 il numero degli alunni della quinta. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Un decennio più tardi, nell’anno scolastico 1901-1902, i fanciulli prosciolti dall’obbligo scolastico risultavano essere 214.300, mentre raggiungeva appena le 27.079 unità gli aventi diritto a presentarsi agli esami di licenza al termine della quinta elementare. • I dati sull’evasione dall’obbligo scolastico registrati dall’inchiesta ministeriale del 1897-98 confermano ampiamente i limiti che, soprattutto nelle aree rurali e nei piccoli centri della penisola, doveva incontrare la diffusione dell’istruzione primaria e popolare. Basti dire che nell’anno scolastico 1895-1896 ben 805.818 fanciulli in età scolare non risultavano iscritti alla scuola elementare; l’anno seguente gli inadempienti ammontavano a 606.579, mentre erano 558.676 nell’anno scolastico 1897-98. • Oltre a ciò occorre considerare che molti fanciulli frequentavano regolarmente solo la prima classe elementare, perdendosi poi di fatto prima del completamento del triennio, tanto che all’esame di proscioglimento finale, secondo le statistiche riportate dall’inchiesta del 1895-96, giungeva annualmente solo 1/6 degli iscritti. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Alla luce di un simile quadro, appare in buona sostanza condivisibile quanto scriveva qualche anno fa Simonetta Soldani circa il fatto che, con «un periodo di scolarità così ridotto all’osso», era improbabile che la scuola elementare potesse assumere nel nostro Paese «un ruolo di educazione civile e patriottica simile a quello della scuola francese o tedesca». In secondo luogo, sembra di poter dire che la forzata esclusione dal circuito della scolarizzazione primaria di larga parte delle popolazioni rurali e di settori consistenti delle stesse classi lavoratrici dei centri urbani e, per altri versi, i ritardi e le carenze di cui, sul piano metodologico e didattico come su quello culturale, diede prova la stessa istruzione elementare, contribuirono a vanificare in larga misura il tentativo della classe dirigente liberale dell’Ottocento – in particolare degli uomini della Sinistra di Depretis e, soprattutto, di Crispi – di estendere attraverso la scuola il processo di «nazionalizzazione degli italiani» all’intera popolazione, realizzando quella nazionalizzazione delle masse di cui ha parlato George L. Mosse a proposito di altri grandi Stati europei. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Crisi dello Stato liberale ottocentesco e avvento della società di massa: I tentativi di universalizzare la cittadinanza borghese e di rifondare l’identità nazionale tra età giolittiana e fascismo Il tentativo di promuovere, nella società italiana d’inizio Novecento, un nuovo modello di cittadinanza e di favorire la promozione tra le nuove generazioni di un vigoroso sentimento nazionale, prima ancora che attraverso la scuola, trovò in una serie di esperienze e iniziative formative extrascolastiche e rivolte al grande pubblico le sue più originali e significative espressioni. • Non deve meravigliare, allora, se, nell’aprire questa seconda parte, dedicata al Novecento, del nostro seminario, ci dedichiamo in prima battuta all’approfondimento di un’esperienza sotto questo profilo esemplare: quella dello scrittore Luigi Bertelli (noto ancora oggi quale autore del celebre Il Giornalino di Gian Burrasca) e della sua creatura più importante, il periodico per ragazzi «Il Giornalino della Domenica» (1906-1920). Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Letterato, giornalista politico e di costume, più tardi, a partire dal 1893, raffinato scrittore per l’infanzia con lo pseudonimo di Vamba – dal nome del buffone di Cedric nell’Ivanhoe di Walter Scott –, Luigi Bertelli è stato indubbiamente uno degli intellettuali ed educatori di maggiore spicco nel panorama politico e culturale dell’Italia umbertina e giolittiana. • Animato da una profonda fede nelle idee mazziniane e nei valori della tradizione laica e democratica di matrice risorgimentale, Luigi Bertelli riscosse subito un vivace successo come commentatore e notista politico sulle pagine dei principali giornali satirici e politici della capitale in età umbertina: il «Capitan Fracassa», il «Don Chisciotte della Mancia» (1887-1892), destinato poi a trasformarsi nel «Don Chisciotte di Roma» (1893-1899) e a fondersi successivamente, nel dicembre 1899, con il «Fanfulla» per dare vita al quotidiano «Il Giorno» (1899-1901). Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Tali giornali mentre da un lato intrapresero una vivace opposizione al sistema di potere crispino e alla politica reazionaria e liberticida dei governi di fine secolo, dall’altro non mancarono di stigmatizzare l’indifferenza dei ceti medi e il distacco di tanta parte dell’opinione pubblica borghese dalla vita politica e di sostenere con vigore, negli articoli di fondo, la necessità di salvaguardare ed ampliare le libertà costituzionali e di dare finalmente soluzione ai problemi dell’arretratezza del Meridione e dell’ignoranza e miseria delle plebi contadine. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • A partire dai primissimi anni Novanta, se per certi versi la vis polemica ed il tratto umoristico di Luigi Bertelli apparivano ancora vigorosi e ben lontani dall’avere esaurito le loro potenzialità creative, per altri versi cominciarono a manifestarsi nello scrittore e giornalista i primi sintomi della crisi che, di lì a poco, avrebbero determinato una vera e propria svolta nella sua esistenza. • Egli, infatti, era venuto persuadendosi che le idee radical-democratiche e gli entusiasmi mazziniani di matrice risorgimentale che lo animavano facevano sempre meno presa sull’opinione pubblica nazionale e, soprattutto, sembravano ormai incapaci di modificare l’inquietante scenario della politica italiana. • La graduale presa di coscienza della necessità di lasciarsi alle spalle le ormai sterili polemiche giornalistiche e di mutare radicalmente il registro del proprio impegno intellettuale e politico coincise, in Luigi Bertelli, con la maturazione di un nuovo ideale al quale dedicare i propri sforzi di giornalista e scrittore e la propria vena creativa: la formazione di una nuova coscienza etico-civile nelle giovani generazioni, nello spirito di quella pedagogia politica tanto cara al suo idolo Giuseppe Mazzini e ai grandi uomini del Risorgimento. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata All’origine della decisione di dare alle stampe «Il Giornalino della Domenica», il cui primo fascicolo vide la luce il 24 giugno 1906, riscuotendo un immediato e notevole successo, si collocavano diverse motivazioni. Luigi Bertelli, che già qualche tempo prima, dopo avere abbandonato l’impegno militante nel giornalismo ‘per adulti’ e nelle riviste di satira politica, si era cimentato con successo nella narrativa per l’infanzia, portava nell’impresa gli esiti del travaglio che lo aveva accompagnato negli anni precedenti, allorché, deluso e amareggiato per l’infelice evoluzione della politica post-unitaria e per quello che egli giudicava lo scarso sentimento patriottico e nazionale che contrassegnava le popolazioni e le stesse classi dirigenti dell’Italia unita, aveva guardato alla gioventù, ossia alle nuove generazioni come ai principali destinatari di un’opera di formazione etico-politica e di animazione delle coscienze, capace di ridestare il sentimento della patria e l’effettiva assunzione di una nuova e più solida concezione della cittadinanza e delle responsabilità sociali. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • In sostanza, la conversione dal giornalismo ‘per grandi’ a quello ‘per ragazzi’, dall’azione politica a quella pedagogica, non costituì per Bertelli un ripudio dei suoi ideali di laico e radicale: si trattava di un loro diverso orientamento, quasi del passaggio ad un modo più lungimirante di realizzarli e verificarli. • Luigi Bertelli aveva avversato la politica triplicista e colonialista, il trasformismo che degradava la costituzione delle maggioranze parlamentari. Dalle trascorse lotte patrie non erano rimaste eredità di caratteri fondati sui doveri politici ed etico-sociali, ma destrezze, personalismi e conformismo. • I giovani, perciò, dovevano essere rimessi in contatto con i grandi ideali nazionali, si doveva soprattutto scardinare quell’abito conformistico e ‘qualunquistico’ che soffocava, nell’ambiente stesso della famiglia e della scuola, i doveri e gli ideali della gioventù. • Di qui la passione con cui Luigi Bertelli si dedicò alla messa a punto del progetto e all’avvio dell’impresa de «Il Giornalino della Domenica», attorno al quale cercò di raccogliere il fior fiore degli intellettuali, degli artisti, dei letterati e scrittori, non solo per l’infanzia, operanti in quegli anni, chiedendo loro di mettere a disposizione il proprio talento per la realizzazione di un ambizioso progetto di formazione delle nuove generazioni secondo gli ideali che avevano alimentato l’esperienza risorgimentale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Significative, al riguardo, appaiono le riflessioni con cui Bertelli riassumeva – per i piccoli lettori de «Il Giornalino della Domenica» – il compito che egli sentiva affidato non solo a se stesso, ma, più in generale, a quella «generazione di mezzo» che si collocava tra il «grande ed epico Risorgimento nazionale» e l’incerto futuro: Quando i soldati italiani entrarono in Roma io ero entrato, invece, nel mio decimo anno di età … e voialtri ragazzi, al contrario, non eravate ancora usciti all’onor del mondo. Felici i soldati che andarono a riconquistare alla Patria la sua capitale – il suo cuore fiammante – e si trovarono a quell’irresistibile scoppio d’entusiasmo che Edmondo De Amicis (egli era fra loro) sa così ben racchiudere in un suo bel sonetto! E felici pur voi, giovani d’Italia, che non eravate allora nati e a cui forse un amico destino riserba la invidiabile fortuna di riconquistare alla Patria, nell’avvenire, altre sue membra doloranti sotto l’artiglio predatore di uno straniero. Chi sta peggio siamo noi, nati troppo tardi e troppo presto per far qualcosa; noi che comparimmo alla luce mentre i nostri bravi babbi si battevano per far l’Italia, noi che spariremo nell’ombra quando i nostri bravi figli si batteranno per completarla … Pazienza! E cerchiamo almeno di fare una cosa: ricordare i nostri babbi che si batterono ai figli che si batteranno, consegnando all’avvenire pieno di speranza sempre accesa la fiaccola sacra dell’Ideale che alle nostre mani affidò il passato pieno di gloria. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Il programma de «Il Giornalino della Domenica» era ispirato da una profonda conoscenza dell’animo dei fanciulli e delle loro aspettative e passioni. Nell’editoriale con il quale si apriva il primo fascicolo, infatti, il direttore illustrava quali erano i destinatari e gli intenti del nuovo settimanale, non mancando di sottolineare l’ampio spettro di temi e di motivi con i quali s’intendeva far breccia nell’animo giovanile: Occorre, dunque, che il Giornalino della Domenica sappia contentare tutto il suo pubblico di lettori e di lettrici dai sette ai quindici anni, e contenga perciò il raccontino, la fiaba, la poesia, per i bambini e per le bambine, e la novella, l’articolino di attualità, la divagazione scientifica per i giovinetti e per le giovinette; ma occorre anche dall’altra parte altrettanta buona volontà: che, cioè, ciascun di voi, lettori e lettrici del nostro giornalino, non storca la bocca a quel tanto che vi troverà al disotto o al disopra del proprio comprendonio e si accontenti di quel che vi sarà di adattato al suo rispettabilissimo cervello. • Tra il 1906 e il 1920, Luigi Bertelli si dedicò completamente a «Il Giornalino della Domenica», chiamandovi a collaborare letterati e scrittori di grande notorietà, come Emilio Salgari, Ada Negri, Ida Baccini, Renato Fucini, Grazia Deledda, Luigi Capuana, Giovanni Pascoli, Marino Moretti, Scipio Slataper, Edmondo De Amicis, Matilde Serao; nonché giovani intellettuali, studiosi e scrittori e scrittrici per l’infanzia destinati a maturare proprio sulle colonne del settimanale la loro vocazione. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Il settimanale diretto da Vamba si propose fin dagli esordi di offrire ai suoi lettori non soltanto occasioni di diletto e di autentico svago, ma anche conoscenze e informazioni sulla realtà e sul «mondo degli adulti» capaci di stimolare in essi un punto di vista autonomo e una nuova consapevolezza circa le esigenze della società e i principi che ispiravano e regolavano la vita dello Stato e il progresso della comunità civile. • I testi pubblicati su «Il Giornalino della Domenica» non avevano nulla a che fare con la quotidianità scolastica del leggere, dello scrivere e del far di conto, del nozionismo talora arido e fine a se stesso, normalmente sperimentata da fanciulli e ragazzi, ma facevano riferimento a un progetto formativo che aveva come propria finalità la progressiva acquisizione di un’identità culturale e sociale tipica della nascente borghesia urbana. L’interlocutore non era quindi lo scolaro impegnato nell’apprendimento di nozioni, ma il ragazzo in quanto persona autonomamente dotata di gusti, desideri, fantasie. • «Il Giornalino della Domenica», insomma, «si presentava sulla scena dei periodici per ragazzi come – si direbbe oggi – un soggetto educativo alternativo e parallelo all’istituzione scolastica, uno strumento di formazione precisamente calibrato sulle esigenze culturali della borghesia». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Forte di una tiratura media che nei primi anni raggiunse le 30 mila copie a fascicolo, la rivista diretta da Vamba era destinata a rappresentare qualcosa di più di un pur significativo e innovativo periodico per fanciulli e ragazzi. Attraverso l’abile regia di Luigi Bertelli e dei suoi più stretti collaboratori, il settimanale divenne il punto di riferimento e lo strumento di collegamento per una serie di iniziative di mobilitazione della gioventù italiana, almeno di quella dei ceti medio-alti e della borghesia urbana, nelle cui famiglie l’abbonamento a «Il Giornalino della Domenica» assurse a una vera e propria consuetudine. • Nel 1908, sulle pagine del settimanale Luigi Bertelli rivolse un appello ai suoi giovani lettori proponendo la costituzione di un’associazione destinata a dare corpo ad un ambizioso programma formativo; nacque così la Confederazione giornalinesca, poi detta del Girotondo, fra tutti gli abbonati, i quali, come scriveva lui stesso, «formano un popolo sparso in tutta l’Italia, comprese naturalmente le province di Trieste, dell’Istria, di Gorizia, della Dalmazia e di Trento, poiché il nostro popolo non riconosce barriere politiche». • In tal modo Bertelli riuscì ad ampliare la funzione formativa de «Il Giornalino della Domenica», cominciando ad abituare fanciulli e ragazzi, i futuri cittadini, alle forme e alle pratiche della vita civile e politica del mondo adulto. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • La Confederazione riproduceva infatti le istituzioni di un vero e proprio statorepubblica, anche se si trattava naturalmente di uno «Stato balocco», e dunque di una simulazione per gioco del fare politica. Al pari di una piccola repubblica, infatti, la Confederazione giornalinesca del Girotondo aveva un presidente, lo stesso Vamba, disponeva altresì di un parlamento, di un governo centrale, con sede a Firenze, di prefetture nelle città maggiori, e di sindaci e assessori (assessorati alla Beneficenza, alla Pace pubblica, allo Sport, ecc.). Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A fronte del successo ottenuto in campo editoriale e degli ampi consensi registrati tra i fanciulli e i ragazzi della borghesia italiana, «Il Giornalino della Domenica» diretto da Luigi Bertelli non riuscì, nel corso della sua esistenza, a raggiungere quella stabilità economica che, sola, avrebbe consentito al settimanale di continuare ad uscire regolarmente e a sviluppare appieno le sue straordinarie potenzialità. L’elevata qualità del prodotto editoriale, che imponeva costi di produzione molto alti, il bacino relativamente limitato dei potenziali lettori, pesantemente condizionato dal notevole costo dell’abbonamento (12 lire l’anno) e un numero di abbonati che, ancorché notevolmente superiore a quello dei periodici per ragazzi di fine Ottocento, si sarebbe rivelato ben presto insufficiente a coprire le ingenti spese richieste dalla pubblicazione e distribuzione del settimanale; infine, il delinearsi dell’agguerrita concorrenza di altri vivaci e innovativi periodici per la gioventù (si pensi a «Il Corriere dei Piccoli»), portarono ben presto «Il Giornalino della Domenica» ad una serie di mutamenti organizzativi, preludio di un suo lento declino che, di lì a poco, avrebbe condotto alla interruzione delle pubblicazioni (1911). Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • «Il Giornalino della Domenica» era stato creato con una precisa finalità formativa che mirava a coinvolgere prevalentemente i figli della borghesia attorno ad un progetto di costruzione di una salda identità nazionale (di qui l’ampio spazio assegnato da Vamba alla narrazione del Risorgimento e all’esaltazione degli ideali patriottici e dello spirito nazionale) e di promozione di una nuova cittadinanza imperniata su un solido complesso di principi e valori fondanti: il sentimento di giustizia, il rigore morale e l’onestà intellettuale, il rispetto per le leggi e per le istituzioni, la solidarietà sociale, il senso di appartenenza alla comunità civile ecc. • Obiettivi, questi ultimi, che Luigi Bertelli aveva individuato come autentiche priorità per il riscatto del Paese e per un reale quanto necessario superamento di quella «penosa e inesorabile decadenza» in cui, dopo i fasti e le grandi speranze legati «alla stagione del riscatto risorgimentale», il nuovo Stato era precipitato, massime nella controversa stagione umbertina e nell’ancora incerta e convulsa età giolittiana. • Non a caso, accomiatandosi dai suoi lettori, Vamba avrebbe lucidamente chiarito che «Il Giornalino della Domenica», per come era stato «ideato e creato, non poteva naturalmente mirare a una immediata forte tiratura: se questo avesse voluto avrebbe preso un altro indirizzo, con veste di minor prezzo, abbassando, snaturando e adattando le proprie idee e i propri gusti al livello intellettuale dei più, invece di dirigersi a un pubblico eletto di sane idee e di gusti fini, cui prema trasmetterli puri e intatti ne’ propri figli». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Scuola e Nazione Il fascismo e la ridefinizione dell’insegnamento scolastico della storia come strumento di una nuova «pedagogia nazionale» Se è vero che l’insegnamento scolastico della storia assunse nel corso del ventennio fascista – e più in particolare negli anni Trenta – un ruolo di primo piano nel programma di trasformazione della scuola italiana in strumento di propaganda e di formazione ideologica di massa, ovvero nell’edificazione dell’uomo nuovo fascista, è altrettanto vero che tale ruolo, e più in generale la centralità conferita all’insegnamento della storia nei curricula scolastici, fino a farne il cardine del percorso di formazione ideologica e politica delle nuove generazioni, rappresenta il risultato di un processo dalle movenze graduali e tutt’altro che scontato nei suoi approdi e negli esiti finali. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Esso infatti passa attraverso la liquidazione, a partire dalla metà degli anni Venti, della riforma Gentile del 1923 e il progressivo svuotamento dell’impianto culturale e degli indirizzi pedagogici e didattici che avevano connotato la scuola gentiliana, nel cui ambito l’insegnamento della storia era tornato ad assumere, dopo l’accentuazione delle finalità di educazione politica registrate nel corso dell’ultimo quindicennio del secolo XIX e in epoca giolittiana, una valenza e un ruolo eminentemente culturali e di formazione etico-civile. Sulle movenze di tale processo, che al principio degli anni Trenta poteva dirsi ormai già concluso, pesarono indubbiamente le differenti strategie perseguite dal ministero della Pubblica Istruzione, e poi dell’Educazione Nazionale, in materia di controllo della manualistica e dei libri di testo sul versante della scuola primaria e popolare e su quello, ben più composito e articolato, dell’istruzione secondaria. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Le scelte operate in materia di libri di testo non furono, infatti, irrilevanti ai fini del superamento dell’impostazione gentiliana e della concreta attuazione di una scuola al servizio della formazione politica e della propaganda ideologica del regime, nel cui ambito l’insegnamento scolastico della storia assurgeva a insegnamento cardine, a disciplina alla quale era assegnato il compito di riannodare i fili con il glorioso passato, la cui rilettura diveniva funzionale alla legittimazione del presente, di rafforzare l’identità e la coesione nazionali con l’evocazione di un primato italiano che aveva trovato espressione nei secoli passati e che occorreva ora rinverdire e riaffermare; di superare, infine, le secolari divisioni e le irrisolte contraddizioni sociali ed economiche che laceravano il Paese, attraverso l’invenzione di una missione storica che l’Italia era chiamata ad esercitare nel mondo. Con riferimento alla riforma Gentile del 1923, si può senz’altro affermare che, nella determinazione dei contenuti e dell’articolazione didattica dell’insegnamento della storia e nella stessa collocazione di tale disciplina all’interno dei diversi indirizzi e curricula della scuola secondaria, si riscontra una netta inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In controtendenza con l’orientamento che aveva caratterizzato le élites liberali nella stagione risorgimentale e post-unitaria e che era stato ribadito con forza e a più riprese nel corso dei primi due decenni del secolo XX, la funzione giocata tradizionalmente dalla storia nella formazione delle classi dirigenti e nella socializzazione dei ceti subalterni veniva ridimensionata. Coerentemente con i suoi indirizzi teoretici, infatti, il filosofo neoidealista Giovanni Gentile puntava essenzialmente sulla filosofia e sulle letterature per realizzare l’obiettivo della formazione delle classi dirigenti. A riprova di ciò, basterebbe qui richiamare il maggiore spazio orario assegnato alla filosofia e alle discipline letterarie rispetto alla storia e, soprattutto, l’impostazione didattica e contenutistica conferita a quest’ultimo insegnamento rispetto a quelli filosofico e letterario. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Ma la cesura forse più rilevante realizzata da Giovanni Gentile rispetto ai programmi di storia emanati nelle fasi precedenti riguardava l’impostazione storiografica di fondo e, conseguentemente, il criterio guida che avrebbe dovuto presiedere all’analisi e all’interpretazione delle vicende storiche. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nelle Avvertenze poste in calce ai programmi di storia del 1923 per il conseguimento della maturità classica, scientifica e magistrale, in singolare controtendenza con gli indirizzi della storiografia positivistica tradizionale e di quella di matrice economicogiuridica, l’impostazione etico-politica si precisava in modo netto: Il senso degli avvenimenti – precisavano le Avvertenze predisposte dal ministro Gentile – è tutto nelle idee, negli istituti in cui sorgono e a cui conducono, e questo dev’essere ben chiaro all’intelligenza del candidato perché è quello che deve rimanergli fisso nell’animo dell’insegnamento della storia. In sostanza, la svalutazione operata in sede teorica dal Gentile «di tutte le ‘altre’ storie rispetto a quella della filosofia» conferiva un tono tutto particolare ai programmi del 1923: la negazione della storia dei ‘puri fatti’ si risolveva in pura e semplice svalutazione dei fatti medesimi; l’esigenza della sintesi, del coordinamento razionale dei fatti diventava, una volta perso il solido supporto degli avvenimenti, affermazione di una storia astratta e disincarnata. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’avvento di Alessandro Casati alla Minerva coincise, com’è noto, con l’avvio dei primi ‘ritocchi’ alla riforma Gentile, i quali, tuttavia, interessarono solo marginalmente i nuovi programmi di storia per le scuole secondarie. La mancata inversione di tendenza, da molti auspicata, ebbe come conseguenza il rinfocolarsi delle polemiche e il manifestarsi di un dissenso crescente tra le fila della stessa burocrazia ministeriale, soprattutto all’indomani della pubblicazione delle relazioni delle commissioni dei primi esami di maturità classica e di abilitazione magistrale (1924), dalle quali emergevano con chiarezza gli esiti tutt’altro che positivi prodotti dalle innovazioni gentiliane. La diffusa ignoranza riscontrata circa le fondamentali coordinate cronologiche e geografiche e, su un diverso piano, la carente preparazione dimostrata da tanta parte degli esaminandi in ordine alle vicende della storia risorgimentale e contemporanea sembravano avvalorare in modo inequivocabile le manchevolezze e i gravi limiti dell’impostazione gentiliana. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Non sorprende, a questo proposito, il fatto che il nuovo ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele, subentrato al Casati alla guida della Minerva all’indomani della crisi successiva all’assassinio di Giacomo Matteotti, si impegnasse a porre mano all’ormai inevitabile revisione dei programmi didattici introdotti da Gentile, in particolare di quelli di storia. Tale revisione giungeva in una fase particolarmente cruciale e drammatica della storia italiana: quella, per intenderci, che segnava il definitivo tramonto dello Stato liberale e la trasformazione del fascismo in regime totalitario. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata I nuovi programmi di storia emanati da Fedele si caratterizzavano per un indirizzo di fondo assai differente rispetto a quello caratteristico dei precedenti, venati com’erano di suggestioni positivistiche (il ritorno ai ‘fatti’) e di aperture agli indirizzi e ai temi cari alla storiografia economico-giuridica. Per altri versi, l’ottica di storia politica affiancava o addirittura sostituiva quella di storia della civiltà nei corsi inferiori e quelle di storia delle istituzioni e delle idee nei corsi superiori. Sul piano ideologico, la tendenza a porre un’attenzione più marcata sulla storia contemporanea rifletteva la volontà di stabilire un primo – e per ora implicito – legame con i principi del regime fascista: sottolineare con enfasi maggiore l’epopea risorgimentale, porre al centro dell’attenzione la prima guerra mondiale, far risaltare il ‘nuovo posto dell’Italia nel mondo’, equivaleva a rendere operanti istanze care ai nazionalisti e, nel contempo, a rilanciare quell’uso ideologico e politico dell’insegnamento scolastico della storia che la riforma Gentile aveva in larga misura accantonato se non addirittura rimosso. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nella seconda metà degli anni Venti, parallelamente all’avvio del processo di trasformazione in senso totalitario dello Stato e della messa fuori legge non solamente dei partiti democratici, ma anche degli organismi di rappresentanza sindacale e delle stesse associazioni professionali di categoria, il regime mussoliniano, com’è noto, s’impegnò in un organico processo di fascistizzazione della scuola italiana, attraverso un’opera sistematica destinata ad interessare progressivamente gli apparati amministrativi centrali e periferici della Pubblica Istruzione, l’operato del corpo docente, l’organizzazione della didattica e gli stessi indirizzi culturali dell’insegnamento (programmi didattici, libri di testo ecc.). Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il vero e proprio mutamento di rotta sul versante dei programmi di storia per le scuole secondarie si registrò, tuttavia, qualche anno più tardi, allorché nel 1930 furono varati i nuovi programmi didattici firmati dal ministro Balbino Giuliano, l’ex provveditore agli studi della Lombardia, già fedelissimo di Gentile, ora divenuto uno dei principali fautori del nuovo corso totalitario nella scuola italiana. I programmi predisposti dal ministro Giuliano si differenziavano profondamente rispetto a quelli varati nell’ambito della riforma gentiliana del 1923, proiettando l’insegnamento della storia in uno scenario ideologico e politico del tutto nuovo. Su questo versante, con particolare riferimento all’età contemporanea, meritano di essere sottolineati la vera e propria centralità conferita alla storia nazionale, rispetto alla più generale evoluzione dello scenario europeo ed extra-europeo, e l’ampio spazio attribuito alle vicende più recenti, ovvero a quelle relative al primo dopoguerra e all’avvento del fascismo: «L’Italia da Vittorio Veneto alla Marcia su Roma. Il Fascismo e la rinnovazione etico-giuridica dello Stato. L’ordinamento corporativo. Il nuovo posto dell’Italia nel mondo». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Su un piano più generale, i mutamenti di prospettiva sopra richiamati si ponevano nella direzione di un più stretto ed efficace raccordo con gli orientamenti politici del regime. La centralità dei grandi personaggi, l’accresciuta importanza degli avvenimenti di carattere militare, l’enfasi posta sugli aspetti guerrieri conferivano alla storia un accento ‘eroico’, la restrizione dell’orizzonte geografico e la prospettiva più marcatamente italocentrica erano gli elementi fondamentali di un’educazione improntata ad un gretto ed esasperato nazionalismo. Per altri versi, si trattava di fare emergere in modo privilegiato dal passato aspetti e vicende sentiti particolarmente affini dallo Stato fascista, ovvero dare spessore storico e implicita, quanto autorevole sanzione alle scelte politiche mussoliniane: tra passato e presente, in sostanza, era stabilito artificiosamente un nesso talmente forte da dare l’impressione di un processo unitario, del quale in fascismo rappresentava il culmine e l’autentico compimento. Fin dal 1930, dunque, il processo di liquidazione dell’impianto gentiliano e di definizione in termini ideologico-politici e propagandistici dei programmi d’insegnamento della storia poteva dirsi compiuto, almeno nelle sue direttrici fondamentali. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata • Con i programmi di storia per le scuole secondarie emanati nel 1933 dal nuovo ministro dell’Educazione Nazionale Francesco Ercole la linea di tendenza e le dimensioni e caratteristiche sopra richiamate trovavano un ulteriore e più incisivo sviluppo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Così, ad esempio, a fronte di una significativa riduzione delle parti del programma relative alla storia antica e a quella medievale e moderna, i capitoli relativi alla storia contemporanea registravano un notevole incremento, e soprattutto un’ulteriore accentuazione delle parti concernenti le vicende italiane, specie nel caso della fase successiva all’avvento del fascismo. Per limitarci ai secoli XIX e XX, dopo avere richiamato l’opportunità di fornire agli alunni alcuni «Cenni sullo sviluppo politico ed economico dei maggiori Stati nel secolo XIX», il programma di storia per l’ultimo anno degli istituti tecnici concentrava la sua attenzione pressoché esclusivamente sui fatti nazionali: «Sviluppo civile ed economico dell’Italia dal 1815 al 1861», «Il regno d’Italia dal 1861 al 1879», «La vita politica italiana dal 1870 al 1914». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata I nuovi programmi didattici introdotti tre anni più tardi, nel quadro della cosiddetta «bonifica fascista della cultura» e della scuola italiana, dal ministro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, giungevano all’indomani dell’impresa etiopica e della proclamazione dell’Impero. Con il provvedimento varato da De Vecchi, l’insegnamento della storia assumeva una finalità specifica e prioritaria: esso, infatti, doveva essere impartito in modo tale da far emergere «l’apporto fondamentale recato in ogni tempo e in ogni campo dal nostro Paese». Sotto questo profilo, «il massimo rilievo» avrebbe dovuto essere dato «in ogni ordine di scuole al processo formativo dello Stato unitario che confluisce nel Fascismo, alla funzione esercitata dalla dinastia Sabauda dal suo primo orientamento verso l’Italia all’azione decisiva che essa svolse durante il Risorgimento e nella più recente vita italiana». Lo stesso Risorgimento avrebbe dovuto essere presentato agli alunni «non quale materiale conseguenza di sia pur grandi eventi stranieri, ma come fenomeno schiettamente italiano le cui origini risalgono ai primordi del secolo XVIII». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nel complesso, comunque, i programmi di storia del 1936 non apportavano grandi mutamenti rispetto a quelli varati tre anni prima, se non sotto il profilo dell’aggiornamento cronologico e dell’ulteriore sviluppo dell’impostazione marcatamente ideologica e politica già adottata dal ministro Francesco Ercole. Una simile scelta traeva la sua principale motivazione dalla necessità di promuovere negli alunni il sentimento della «funzione perenne di Roma nella storia della civiltà»: una funzione che proprio nel 1936, con il «ritorno dell’Impero sui Colli fatali di Roma», il fascismo avrebbe contribuito a rilanciare in tutta la sua grandezza. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Sulla scia dei programmi di storia del 1933, infine, quelli varati dal ministro De Vecchi estendevano ulteriormente l’arco cronologico della storia contemporanea, fino a comprendere – attraverso l’assunzione di una lettura degli eventi primo novecenteschi (l’età giolittiana e il primo dopoguerra) in termini di «crisi» e di inarrestabile «declino» del Paese, il cui «nuovo risorgimento» appariva strettamente correlato con il trionfo della «rivoluzione fascista» – le ultime imprese e realizzazioni del regime mussoliniano («Il nuovo Stato fascista. Il rinnovamento della coscienza e l’unità spirituale del popolo italiano. La politica estera e coloniale del Fascismo. Sviluppo agricolo, industriale e commerciale. Italia urbana e Italia rurale») e, in particolare, le vicende relative a «L’impresa etiopica», alle ‘inique sanzioni economiche’ decretate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni («L’assedio economico») e alla creazione dell’Impero. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Se dall’esame degli ordinamenti e dei programmi didattici si passa a quello dei libri di testo, ovvero dei manuali di storia per le scuole secondarie, si rende opportuno tenere presente una serie di fattori di carattere generale che meritano di essere segnalati preliminarmente, in quanto consentono di cogliere talune delle direttrici del più complessivo sviluppo dell’insegnamento storico. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In primo luogo, si può notare che, a fronte della sostanziale continuità e stabilità della produzione manualistica registrata nei primi due decenni del secolo XX, nel corso degli anni Trenta è dato di riscontrare il venir meno della maggior parte dei manuali in uso precedentemente: solo un ridotto numero di essi ebbe riedizioni o ristampe e, comunque, in forma profondamente rimaneggiata. Sul piano dell’analisi dell’impianto storiografico e degli orientamenti ideologici e politici che caratterizzavano i manuali adottati all’indomani della riforma Gentile, la realtà risulta assai più composita e articolata di quanto le tradizionali e un po’ semplicistiche interpretazioni offerte dalla ricerca storico-pedagogica tendano ad accreditare. Una pur rapida scorsa ai testi adottati, ad esempio, rivela come certe nette distinzioni di campo appaiono assai più fluide e sfumate allorché ci si riferisca alla manualistica scolastica. E ciò, si badi, non solo e non tanto per i vincoli imposti dai programmi didattici, quanto, piuttosto, per l’influsso esercitato sugli autori dei manuali di storia – in taluni casi giovani storici destinati a raggiungere una discreta notorietà e, talora, ad ottenere una cattedra universitaria – dal nuovo clima generato dalla prima guerra mondiale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’istanza nazionalistica, ad esempio, doveva alimentare larga parte della produzione manualistica per le scuole primarie e secondarie, condizionando non solamente quegli autori che si richiamavano alla storiografia di matrice etico-politica, ma anche, in modo specifico, quegli storici che in epoca giolittiana si erano mostrati sensibili ai temi e ai motivi della scuola storica economico-giuridica e del materialismo storico. E’ il caso, solo per fare solo un esempio , di un autore come Niccolò Rodolico, il cui Sommario storico ad uso dei licei, edito alla vigilia della riforma Gentile, era destinato ad incontrare una notevole fortuna scolastica e ad avere numerose ristampe e riedizioni negli anni seguenti. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In termini più generali, si potrebbe dire che l’esperienza dell’interventismo, il prepotente affermarsi degli ideali patriottici e di un sentimento nazionale dai tratti nuovi rispetto al retaggio ottocentesco e primo novecentesco, la crisi intellettuale e spirituale generata dalla Grande Guerra, infine, avevano favorito l’emergere – anche sul piano storiografico – di aspirazioni e orientamenti talora anche radicalmente differenti rispetto a quelli che avevano caratterizzato la fase precedente. In sintesi, l’analisi dei manuali adottati nel corso della seconda metà degli anni Venti rivela una certa eterogeneità di indirizzi storiografici e di orientamenti ideologici e culturali. Prevalente tuttavia, come nel caso del già ricordato Sommario storico di Niccolò Rodolico e della Storia medievale, moderna e contemporanea di Alfonso Manaresi – per citare solo i due manuali più noti e maggiormente adottati nei licei italiani – è l’ottica politico-militare, caratterizzata da forti venature nazionalistiche e patriottiche, specie nella narrazione della storia moderna e contemporanea. La centralità dell’epopea risorgimentale e del raccordo di questa con la Grande Guerra («la quarta guerra d’Indipendenza»), il riferimento ad un presunto primato e alla missione civilizzatrice dell’Italia, la svalutazione dei partiti e delle forze politiche dello Stato liberale e, per contro, una lettura del fascismo come antidoto al disordine e ai conflitti sociali del primo dopoguerra, come occasione Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata per riannodare i fili della tradizione politica e culturale nazionale, per ristabilire l’ordinato sviluppo sociale ed economico del Paese, per rilanciare l’Italia nello scenario internazionale e consentirle di riprendere il ruolo che le spettava nel novero delle grandi potenze europee: sono questi gli aspetti eminentemente ideologicopolitici e a forte connotazione nazionalistica che tornano più frequentemente nei manuali. Si comprende bene come un simile approccio della manualistica storica più diffusa fosse indubbiamente poco coerente con l’impostazione che Gentile aveva inteso conferire all’insegnamento della storia nelle scuole secondarie, massime nei Licei. Almeno per quel che concerne i manuali di storia per le scuole secondarie, infatti, siamo ben lontani da presunte egemonie neo idealistiche e da astratte «ipoteche gentiliane». Paradossalmente, ciò che non è dato di ritrovare nei testi adottati in questo periodo è proprio quell’approccio di tipo idealistico, quel maggiore slancio culturale, quella capacità di introdurre gli alunni ad una più alta ed efficace comprensione delle origini e dell’evoluzione delle grandi civiltà auspicati da Giovanni Gentile. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Gli anni Trenta, dunque, registrarono l’introduzione di una nuova generazione di manuali di storia, le cui caratteristiche presentano scarsi elementi di continuità con quelli della fase immediatamente precedente. È il caso de Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista (1930) e di Nazioni e imperi dell’età moderna di Carlo Capasso, che facevano parte di una collezione di manuali di storia per i diversi ordini della scuola secondaria dal titolo «Le Nazioni e gli Imperi», edita dalla casa editrice Vitagliano di Milano in vista dei nuovi programmi didattici introdotti nello stesso 1930. Tale manualistica, sia pure con sfumature e accenti diversi, si configurava come pienamente coerente con l’impronta fortemente ideologizzata e con l’obiettivo di un uso propagandistico della storia, fatti propri dai già ricordati programmi didattici per le scuole secondarie emanati nel 1930, nel 1933 e nel 1936 rispettivamente dai ministri Balbino Giuliano, Francesco Ercole e Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. In sostanza, si ritrovano in questi manuali i tratti caratteristici e distintivi di una concezione dell’insegnamento scolastico della storia non solamente ormai del tutto disancorata dalla ricerca scientifica del settore e dalle acquisizioni della più accreditata e rigorosa storiografia italiana ed europea, ma anche scarsamente sensibile ai temi della crescita culturale degli alunni. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Impegnata, per converso, a fornire una lettura delle vicende e degli avvenimenti del passato funzionale al progetto di fascistizzazione integrale delle nuove generazioni perseguito dal regime e per ciò stesso aliena da ogni problematicità interpretativa, incline ad un esasperato italocentrismo e portata alla semplificazione, alla sintesi enfatica e retorica, in qualche caso a veri e propri anacronismi e forzature. Una vera e propria rilettura integrale delle vicende della storia moderna e contemporanea in chiave fascista era offerta dal già ricordato Carlo Capasso nei due ambiziosi e fortunati manuali – Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista e Nazioni e imperi nell’età moderna – dati alle stampe entrambi nel 1930 dall’editore Vitaliano di Milano e prefati rispettivamente da due insigni gerarchi del regime: Luigi Federzoni e Alfredo Rocco. Nel ripercorrere le vicende dell’epoca moderna, l’autore, come sottolineava con vivo apprezzamento Federzoni, non aveva esitato a porsi in netta e coraggiosa controtendenza con «l’orientamento di pensiero» prevalente in Italia e all’estero pur di correggere gli errori e di colmare le lacune della storiografia tradizionale e di offrire una ricostruzione dei fatti e dei personaggi finalmente «veritiera» e in sintonia con le «tradizioni italiche». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Straniero – scriveva Federzoni – è stato l’orientamento di pensiero che ha fatto apparire i signori italiani del primo Rinascimento quali altrettanti mostri di viziosa crudeltà e di capricciosa perfidia, mentre un invitto romanticismo anche indigeno ha idealizzato in perpetuo l’epoca dei Comuni come la virtuosa primavera cristiana, patriottica e democratica della Nazione. Ora la verità, per noi, è diversa. Noi sappiamo che i Comuni, per le fiere e sanguinose dissensioni interiori che li travagliano e politicamente li paralizzano, come per le loro vigili gelosie reciproche, tendono a comporsi in un sistema di equilibrio, che non arriva mai a saldarsi durevolmente […]. Solo il Signore, sorgendo a debellare inesorabilmente i rivali e i refrattari, porta con la sua energia la tranquillità e l’ordine entro le mura cittadine […]. La sua avidità di dominio è, senza che egli lo sappia, lo strumento di una necessità storica messo al servizio della Nazione. Allo stesso modo, merito non secondario del manuale era quello di avere finalmente corretto le «falsificazioni» costruite a bella posta riguardo al significato e alla portata dei conflitti religiosi del XVI secolo e della Rivoluzione francese. L’avvenimento culminante dell’età moderna – scriveva ancora Federzoni – è la Riforma protestante, che l’insidiosa falsificazione massonica, inspirata dalla faziosità anticattolica, ha voluto glorificare come l’aurora della libertà e del progresso etico e politico del genere umano. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Noi crediamo che, anche prescindendo in questa sede dal principio religioso, assorbente e decisivo per ogni credente, oggi nell’Italia fascista non si possa parlare della Riforma senza ricordare che essa fu sopra tutto il segno della rivolta del mondo germanico e anglo-sassone contro la supremazia morale di Roma e che, spezzando irreparabilmente la compagine spirituale dell’Europa, causò un nuovo e più grave oscuramento della latinità […]. Ideologicamente figlia e nepote della Riforma, la Rivoluzione francese scaturisce da cagioni talmente profonde e suscita un così smisurato sommovimento di passioni, di dee e di moltitudini, che sarebbe troppo semplicistico pretendere di definirne il carattere e lo svolgimento […]. Importa invece che i giovani italiani ricordino che l’aspirazione al rinnovamento politico, l’idea dell’indipendenza, l’incitatrice coscienza dell’unità non nascono miracolosamente in Italia dal riflesso dei «lumi» di Francia, né dal trionfo degli eserciti rivoluzionari e napoleonici. Una nobile corrente nazionale di pensiero e di cultura aveva già precorso e preparato il risveglio della Patria. La prefazione di Federzoni rispecchia la linea interpretativa adottata nel manuale sull’età moderna del Capasso e fa emergere l’idea di ricostruzione storica italocentrica e imperniata sulla rivendicazione di una sorta di primato nazionale derivante dal legame con la classicità romana, nonché su una visione dell’epoca moderna come un perpetuarsi dello scontro tra la «civiltà latina» e «il mondo germanico e anglosassone», reo di avere spezzato l’unità politica, culturale e religiosa del mondo antico e medievale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A completamento di tale «rilettura» della storia moderna si poneva l’orgogliosa rivendicazione di una «via italiana», autonoma e autosufficiente al «riscatto nazionale», destinata a culminare con l’epopea risorgimentale e con la costituzione dello Stato unitario, qual era quella offerta dal Capasso, il quale, nel ripercorrere le vicende relative a «Il risveglio italiano nella seconda metà del secolo XVIII», sottolineava: Le riforme [settecentesche] ebbero larga attuazione anche in Italia. Senza essere così radicali come quelle giuseppine, esse si presentarono più organiche e più rispondenti alle necessità: ebbero anche la fortuna di avere un lungo periodo di esperimento e, quindi, nelle loro linee generali si può dire che rimasero. Avvenne di conseguenza che l’Italia […] poté compiere buona parte di quelle trasformazioni economiche e sociali che la Rivoluzione impose in Francia con la violenza. In altri termini l’Italia, in alcune delle sue parti, aveva già fatto prima della Francia la sua rivoluzione. Piuttosto gli Italiani potevano interessarsi del lato politico della questione: ossia il conseguimento di libertà e di Costituzioni. Per di più si era iniziato un generale risveglio, presso di noi – del quale sono espressione per una parte i grandi scrittori della seconda metà del secolo, i grandi eruditi e scienziati e artisti – il quale senza concepire subito l’idea di una possibile unificazione della penisola dava però la sensazione di una coraggiosa coscienza d’italianità anche in politica, il che era naturalmente un presupposto necessario per lo sviluppo dell’idea nazionale a idea unitaria. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’opera di «rilettura» in chiave fascista della storia, avviata da Capasso con il manuale sull’età moderna, trovava il suo completamento con il manuale Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista, incentrato sulle vicende contemporanee. Anche in questo, la prefazione – affidata, al giurista Alfredo Rocco – era destinata a fare emergere la linea interpretativa adottata dall’autore. Il sorgere dell’ideologia fascista – scriveva Rocco – costituisce, e sempre più costituirà, man mano che la dottrina andrà elaborandosi e diffondendosi, nel campo intellettualistico, un rivolgimento non meno vasto di quello che produsse, nei secoli XVII e XVIII, il sorgere e il diffondersi delle dottrine giusnaturalistiche, che vanno sotto il nome di «filosofia della rivoluzione francese». Questa filosofia, che mise capo alla formulazione dei principii, la cui autorità fu per un secolo e mezzo indiscussa, fino a meritare l’attributo dell’immortalità, determinò la formazione di una nuova cultura e di una nuova concezione del vivere civile. Alla rivendicazione dell’individuo contro la Società, avvenuta nel secolo XVIII, segue nel secolo XX la rivendicazione della società contro l’individuo. All’epoca dell’individualismo, dell’indebolimento dello Stato, della indisciplina, segue l’epoca della socialità, dell’autorità, della gerarchia […]. Non dunque contro il medioevo si rivolse il movimento individualistico e antisociale dei secoli XVII e XVIII, ma contro la restaurazione dello Stato, operata dalle grandi monarchie nazionali. Che se il movimento batté in breccia anche istituzioni medievali sopravvissute al medioevo e innestatesi nel nuovo Stato unitario, ciò non fu che la conseguenza della lotta intrapresa contro lo Stato. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Alfredo Rocco individuava un autonomo e originale «pensiero politico e giuridico italiano», estraneo e contrapposto alle teorie giusnaturalistiche e ai teorici dell’individualismo, il quale nel corso dei secoli aveva sostenuto, in sostanziale continuità con la tradizione classica, il primato della comunità politica sull’individuo e la supremazia dello Stato sulla società civile: Il pensiero liberale-democratico-socialista, per le sue origini e il modo del suo sviluppo appare una formazione essenzialmente oltremontana, tedesca, francese e inglese. Già il fatto delle sue profonde radici medievali lo rivela estraneo allo spirito latino. La grande disgregazione medievale fu effetto del prevalere dell’individualismo germanico sullo spirito politico di Roma. I barbari, operando dentro e fuori l’Impero, distrussero la grande costruzione politica dovuta al genio latino, ma non vi sostituirono nulla […]. L’Italia fu quasi estranea al sorgere e al diffondersi del giusnaturalismo: solo nel secolo XIX vi si ricollega tardivamente, come tardivo e limitato fu il contributo che gli dette alla fine del secolo XVIII con Beccaria e Filangieri. Mentre, pertanto, negli altri paesi di Europa: Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, la grande tradizione, nel campo delle scienze sociali e politiche, è per l’individualismo antistatale, e quindi per le dottrine liberali e democratiche, in Italia la grande tradizione è per una forte concezione dei diritti dello Stato, della preminenza della sua autorità, della superiorità dei suoi fini. Il fatto stesso che la dottrina politica italiana, nel medioevo, si ricollega ai grandi scrittori politici dell’antichità, Platone ed Aristotile, nei quali, in diverso modo, ma saldamente, domina il concetto dello Stato forte e della subordinazione degli individui allo Stato, dà ragione sufficiente dell’indirizzo della filosofia politica in Italia. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Sulla base di tali premesse, Rocco illustrava le caratteristiche di quell’autonomo e originale «pensiero politico e giuridico italiano» che, da Machiavelli e Vico, attraverso Cuoco e Mazzini, aveva alimentato il Risorgimento nazionale e ispirato la stessa «Rivoluzione Fascista»: La tradizione romana […] influì ancora più direttamente e profondamente sul fondatore della scienza politica moderna: Nicolò Machiavelli […]. È inutile cercare in Nicolò Machiavelli la costruzione di teorie dello Stato: vi si troverà invece una inesauribile miniera di osservazioni e di consigli pratici, in cui però l’idea dello Stato domina e non più come pura astrazione, ma come realtà concreta, come idea dello Stato Nazionale Italiano. Machiavelli non è dunque soltanto il più grande degli scrittori politici moderni, ma è anche il più grande italiano che ebbe chiara la visione dell’Unità dell’Italia nello Stato Nazionale. Per fare libera e grande l’Italia, serva, lacera e corsa, a Machiavelli parve buono ogni mezzo, pensando egli che la grandezza e la santità del fine l’avrebbero purificato […]. Machiavelli non fu solo un grande politico, fu un maestro di energie e di volontà; a lui il fascismo si ricollega non solo come dottrina, ma come azione. Dopo Machiavelli, G.B. Vico. Altra tempra d’ingegno, altro tipo di cultura, altra forma di scrittore, ma che al Machiavelli si ricongiunge e dal Machiavelli, in parte, deriva. In pieno imperversare del giusnaturalismo, Vico se ne discosta e lo combatte, e conduce la sua vigorosa polemica contro i principii del diritto naturale: Grozio, Seldeno e Pufendorf, contro l’astrattismo, il razionalismo e l’utilitarismo del secolo XVIII […]. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Del Vico è la critica delle democrazie, l’affermazione della loro breve durata, del loro rapido risolversi, per l’opera delle fazioni e dei demagoghi, prima nell’anarchia, poi nelle monarchie quando l’estrema corruzione non le conduce al servaggio allo straniero […] Vichiano è il concetto della libertà civile come soggezione alla legge, come giusta subordinazione dell’interesse privato all’interesse pubblico, all’impero dello Stato. Vico ha disegnata la società moderna come un mondo di Nazioni custode ciascuna di un proprio impero, combattenti tra loro giuste e non inumane guerre. In Vico è quindi la condanna del pacifismo, e vichiana è l’affermazione che il diritto si attua con la forza del corpo, che senza la forza la ragion non vale e che quindi «qui ab iniuriis se tueri non potest, servus est». Sono evidenti le analogie con i concetti fondamentali e soprattutto con lo spirito della dottrina fascista. E si comprende. Il Fascismo, fenomeno prettamente italiano, si ricollega col Risorgimento e il Risorgimento subì indubbiamente l’influsso del Vico […]. Forse G.B. Vico sarebbe rimasto estraneo al movimento intellettuale che accompagnò il moto politico dell’unità italiana, se un altro forte ingegno meridionale, Vincenzo Cuoco non si fosse fatto tramite e propugnatore del pensiero vichiano, proprio negli anni in cui si preparava intellettualmente il risorgimento […]. All’influsso della tradizione italiana, riassunta e tramandata dal Cuoco, non si sottrasse il Mazzini, le cui idee sulla funzione del cittadino come dovere e come missione, si ricollegano piuttosto alle concezioni vichiane, che non alle dottrine filosofiche e politiche della rivoluzione francese […]. Nella concezione mazziniana del cittadino come mezzo per il raggiungimento dei fini della Nazione, obbligato da una superiore missione al dovere del sacrificio supremo, noi vediamo anticipato veramente uno dei punti fondamentali della dottrina fascista. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In realtà, notava ancora Alfredo Rocco, «l’autonomia del pensiero politico italiano affermatasi vigorosamente con G.B. Vico, rivendicata nobilmente da Vincenzo Cuoco, conservatasi anche durante il moto del Risorgimento, che pur sentì così prepotentemente l’influsso delle ideologie straniere, sembrò esaurirsi e sparire dopo conseguita l’unità» nazionale. Di qui il grande merito del fascismo, il quale aveva assunto il compito «di ricondurre il pensiero italiano, nel campo delle dottrine politiche, alle sue tradizioni, che sono le tradizioni stesse della romanità» e, attraverso tale opera, «che integra[va] e continua[va] il Risorgimento», cessata la «servitù politica», aveva operato affinché cessasse «la servitù intellettuale del popolo italiano». Tale visione storica trovava ampio spazio nel manuale del Capasso, il quale, nel ripercorrere le principali vicende dell’età contemporanea, non mancava di offrire continui motivi di riflessione atti a presentare l’odierna realtà del fascismo come sintesi e ricapitolazione della storia nazionale, «culmine e inveramento delle tradizioni italiche di pensiero e azione». Così, Napoleone Bonaparte era presentato dall’autore come il «restauratore del principio di autorità dello Stato» e la creazione dell’impero napoleonico era riguarda come l’esito necessario di un processo volto a scardinare le vecchie consuetudini e il vecchio mondo che derivava i suoi istituti dalla tradizione medievale e a consolidare lo Stato moderno contro l’opera disgregatrice delle vecchie potenze europee e contro le manovre di quei settori della società che auspicavano il ritorno alle idee e agli ordinamenti rivoluzionari. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nel lungo exursus di Capasso sull’epopea risorgimentale erano destinate a campeggiare le figure di Giuseppe Mazzini e di Camillo Benso di Cavour, considerate l’espressione delle due principali correnti ideali e politiche che, sotto l’egida della monarchia sabauda, avevano incarnato l’ideale unitario e creato le condizioni per l’indipendenza nazionale. Se consideriamo la grandiosità del programma nazionale, dobbiamo ancora rilevare la portata sensibilissima della scossa data dal Mazzini all’Italia. Tanto più se inquadriamo la cosiddetta «missione» dell’Italia nel rinnovamento del mondo, del quale essa avrebbe dovuto segnare la base. L’unificazione nazionale italiana nella dottrina mazziniana era un dovere da compiere nell’interesse non di una sola nazione, ma per il bene dell’umanità. L’Italia doveva servire di guida, di esempio, di aiuto per il rilevamento di tutte le nazioni oppresse in un ideale di giustizia e di solidarietà umana […]. Sfrondando, pertanto, tutto ciò che è caduco e inattuabile o irreale, è innegabile che nel programma mazziniano stavano alcune idee fondamentali grandiose e feconde: esse hanno segnato non solo un’orma profonda, ma hanno costituito – e questo importa soprattutto – un progresso sensibile e un sicuro avviamento alla risoluzione del problema. Fissando come concetti programmatici la unità, la indipendenza, la libertà della Nazione, l’educazione della coscienza nazionale, la necessità della azione oltre che del pensiero (vedi il motto Pensiero ed Azione), dando anche rilievo al maggiore interessato, il popolo, e risvegliandone l’animo, Mazzini gettava le linee direttive indistruttibili. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Poco importa che egli vagheggiasse repubbliche, democrazie, sistemi internazionali di collaborazione, che fosse vago e mistico troppo spesso […]. Il programma mazziniano ha veramente prodotto nelle coscienze quel rivolgimento che le antiche sette, del tutto separate dalle masse, non potevano operare così facilmente: il che si esprime in un risultato, la cui efficienza si doveva sentire più tardi e in tempi più adatti […]. Toccherà ad altri uomini egualmente ardenti per l’ideale nazionale, certo educati alle stesse sue idee nazionali, di saper fare tesoro delle migliori dottrine mazziniane e contemperarle con la necessità della Monarchia. Ben diversa, naturalmente, era il profilo di Cavour presentato dal Capasso. Personalità veramente di primissimo ordine, alla quale la Nazione italiana deve se, sapendone egli esprimere i profondi bisogni e le idealità, e stringere e disciplinare intorno ad un’unica e forte volontà tutte le varie forze che fino ad ora s’erano variamente contrastate ed elise, essa ha potuto trovare finalmente la via vera della sua definitiva evoluzione e del suo ingresso come nuovo ed importante fattore nella vita internazionale. Cavour ha rappresentato per l’Italia per l’Europa, quello che invano gli Italiani hanno desiderato nei primi decenni del secolo XIX: l’uomo, la volontà ferrea, intelligente, abile e lungimirante che, riassumendo in sé tutte le forze e le volontà e le correnti della nazione, ha saputo convogliarle e animarle di un’unica volontà nel momento supremo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Particolarmente significative erano le pagine dedicate dal Capasso alla fase postunitaria e all’edificazione del nuovo Stato, dalle quali emerge l’idea di una sorta di «progressiva degenerazione», frutto del «tradimento» delle speranze e degli ideali risorgimentali, da parte dalla classe politica liberale, in special modo della Sinistra di Depretis, subentrata nel 1876 ai moderati nel governo del Paese, rea di non essere riuscita a fornire adeguata risposta alle attese delle popolazioni e alle esigenze di sviluppo economico e sociale, ma soprattutto di avere profondamente stravolto e corrotto la vita politica e l’operato delle istituzioni statali. Fu questa – sottolineava l’autore – la crisi che, fermata un momento dalla Guerra Mondiale, ricominciò con ritmo accelerato nel dopoguerra. Tutte le energie contrarie, tutti i desideri di ricostruzione e di progresso confluirono nei nostri tempi in quel movimento che, ridando coscienza allo Stato e ai cittadini, ha, col Fascismo, posto fine alla Sinistra, esautorata, e ha ricondotto Governo e Paese nel solco maestro già tracciato autorevolmente dalla Destra. Nel quadro di tale polemica liquidazione dell’operato della classe dirigente postunitaria, Capasso faceva un’eccezione per i governi di Francesco Crispi, al quale riconosceva il grande merito di avere tentato, sia pure con esiti solo parzialmente duraturi, di imprimere una svolta alla vita del Paese e di ripristinare, tanto negli affari interni quanto sul piano della politica estera, quell’autorevolezza dello Stato che la Sinistra di Depretis aveva contribuito a indebolire. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Un Crispi, quello delineato da Capasso, riguardato anch’egli, per molti versi, come un antesignano e un precursore di Mussolini. Più geniale e più grande la figura di Francesco Crispi. Patriota ardente, conscio dei difetti e delle virtù della stirpe, ebe un mobilissimo concetto del compito assegnato dalla Storia al paese e volle rendere questo degno di quello. Volle all’interno governare con autorità (egli dominò con vari Ministeri dal 1887 al 1896) concependo lo Stato come autorità suprema superiore ai partiti, assommante in sé tutte le necessità della Nazione e in diritto quindi di obbedienza da parte dei sudditi. Precursore evidente, in questo, dell’alto concetto dei diritti dello Stato e dei doveri dei cittadini dell’Italia attuale, ciò che si tradusse altresì nel concetto: dovere il cittadino tutto allo Stato. Non esitò, quindi, a procedere contro coloro che minavano la costituzione e l’autorità dello Stato, ossia contro repubblicani e socialisti […]. Crispi vedeva bene che l’Italia doveva avere una politica mediterranea. Effettivamente egli aveva ragione e i governi posteriori hanno battuto la via indicata; ma allora, non potendo procedere altrimenti, egli fu un pugnace assertore della nostra politica coloniale […]. Crispi non fu beninteso dai suoi contemporanei, più che per certi difetti di temperamento che lo resero alle volte molesto, perché troppo meschino fu in genere il livello politico degli uomini del suo tempo e troppo cieche le competizioni personali o di partito per il dilagare di una preoccupante degenerazione del parlamentarismo. Egli, che si ricongiungeva alla grande politica del Cavour, parve un esaltato o un illuso e, invece, è stato l’unico tra i ministri d’Italia che per la prima volta dopo la costituzione del Regno ne abbia fatto sentire il valore e il peso nel concerto Europeo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Ben diverso era il giudizio formulato dal Capasso su Giovanni Giolitti e sull’età giolittiana. Dopo brevi ministeri del Saracco e dello Zanardelli, governò quasi senza interruzioni per circa dieci anni (1903-1913), Giovanni Giolitti, piemontese. La sua fu politica di conciliazione verso i partiti estremi con la lusinga di ammansirli chiamandoli entro l’orbita legalitaria, ma fu anche politica aliena da grandi ambizioni, politica pedestre […]. L’autorità dello Stato – che si collocava agnostico, quasi passivo, spettatore, salvo il caso di intervento necessitato dalla tutela dell’ordine pubblico – ne sofferse in modo gravissimo […]. Mancava nella politica giolittiana un vero ideale, che non fosse il materiale incremento. Politica dunque del piede di casa in confronto ad una Europa circostante in fermento e minacciosa e a cui mancarono sempre stimoli ideali di vasta portata. Crispi voleva gettare le basi di una Italia che sapesse anche sacrificare all’occorrenza le fortune materiali, pur di vivere e di crescere in dignità; per Giolitti, invece, l’opportunismo del momento è tutto, anche a costo di rinunzie poco decorose. La gioventù cresciuta tra la fine dell’800 e il primo decennio del ’900, generazione ormai lontana e dai fondatori della unità e dai successori che avevano subito le inevitabili ripercussioni delle delusioni degli anni difficili […], avida di un più nuovo e vasto avvenire, sentiva fortemente la mancanza d’ideali e di fede e si disgustava a poco a poco della vita pedestre d’ogni giorni. Questa reazione morale al giolittismo – in quanto era privo della potente forza dello spirito – non poteva essere scossa che dalla guerra e dalle sue gravi conseguenze. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Ma la responsabilità più grave di Giovanni Giolitti risiedeva nella sua incapacità di cogliere i mutamenti in atto sulla scena internazionale: Giungono a maturazione – scriveva Capasso – condizioni e rivolgimenti veramente radicali, e pertanto si altera sensibilmente la distribuzione dei valori. Sorgono nuovi aggruppamenti di Potenze, s’impongono altre direttive; per di più entrano in scena, ossia fanno sentire maggiormente la loro efficacia, pure nello svolgimento della vita politica, anche elementi d’ordine diverso: sociale, economico, spirituale, di assai più modesta portata nel passato, ma che ora sono straordinariamente cresciuti di intensità e di estensione. Si estende rapidamente, per di più il campo delle competizioni generali di interessi, onde risulta la Storia; la quale, pertanto, in breve volgere di tempo non è più solamente europea, ma pur permanendo in genere la prevalenza all’Europa, è anche asiatica, africana, americana; è mondiale […]. Un più violento conflitto di dottrine, di coltura, di aspirazioni ideali: in una parola un flusso di vita più ampio e più complesso, una più profonda agitazione e fermentazione di elementi, a cui prendono parte tutti gli organismi politici, sociali, economici di tutto il mondo: tali sono le caratteristiche di quello straordinario periodo di storia che sta ora per aprirsi, e che si conchiude in un primo tempo nel grandioso e fatale urto della Guerra Mondiale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata La ricostruzione delle vicende del primo dopoguerra operata da Capasso si poneva in stretta continuità con quella che aveva alimentato, negli anni precedenti, la propaganda fascista. Dal 1919 al 1920 e ’21 si scatenò in Italia una bieca ondata di propaganda bolscevica, che paralizzò tutti i gangli nervosi dell’organismo nazionale. Scioperi nelle industrie, ma più che altro nei servizi pubblici, disordine permanente in questi, impiegati dimentichi dei loro doveri che abbandonavano il loro posto per scendere in piazza nei comizi, categorie d’impiegati, come i ferrovieri, che imponevano diritti e privilegi alla propria classe, come se l’azienda ferroviaria appartenesse a loro: disobbedienza e disordine da per tutto, aperte minacce al governo, alle classi, alla Dinastia, all’esercito: scherniti e persino violentati nelle vie e nelle piazze gli ex-combattenti e perfino percossi gli ufficiali: intemperanze di linguaggio e di atti da parte degli strati inferiori della popolazione aizzati quotidianamente e divenuti orribilmente presuntuosi: questo il quadro di un disordine più morale forse ancora che politico. Ridicolo contrasto a questo l’incapacità dei partiti estremi che promettevano ogni momento la Rivoluzione, la repubblica, il comunismo, ma che rimandavano sempre, incapaci di qualsiasi vera idea direttiva e soprattutto paurosi dell’azione. Di contro governi, essi stessi paurosi, inetti a reagire e soprattutto nefasti perché lasciavano calpestare i principi più sani e più rigidi della comunità nazionale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata La marcia su Roma e l’avvento del fascismo avevano significato, innanzi tutto, il prevalere «dell’Italia nuova, che già era la maggioranza e che non aspettava altro che di poter disciplinarsi sotto un Capo ed un programma», rispetto «all’Italia gravida dei sorpassati», al vecchio e fallimentare mondo liberale. La ricostruzione operata da Capasso della genesi e degli sviluppi della «Rivoluzione fascista» si snoda attraverso una serie di quadri volti a far emergere la sostanziale «modernità» delle intuizioni e delle scelte mussoliniane, ovvero ad accreditare l’idea della piena adesione e corrispondenza del fascismo alle esigenze proprie del «momento storico»: in altre parole, come espressione della «necessità della Storia» e come suo inevitabile compimento. Nell’illustrare, nella parte finale de Le nazioni moderne dall’età napoleonica all’era fascista, i progressi compiuti dall’Italia sotto la guida del regime mussoliniano tra il 1923 e il 1930, Capasso puntava da un lato a ribadire l’originalità e il carattere eminentemente nazionale del fenomeno fascista, dall’altro, a collocare la «nuova Italia Fascista» nel contesto europeo e nell’ambito dei più generali equilibri internazionali. Si tratta di due passaggi chiave del manuale, nei quali era sintetizzata con efficacia un’interpretazione della storia contemporanea – o, più propriamente, dell’attualità – funzionale tanto ai fini del consolidamento politico del regime, quanto alla legittimazione delle sue mire espansionistiche e delle più complessive scelte di politica estera perseguite in quegli stessi anni. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In questo quadro, i giovani alunni che si preparavano ad entrare attivamente nella vita e nella comunità politica dovevano essere messi a giorno della «missione storica» che la «nuova Italia Fascista» era chiamata ad esercitare nel mondo. Mussolini ha assunto direttamente la politica estera italiana […]. Fondamento di questa politica che doveva essere il coronamento di tutta la ricostruzione: fare dell’Italia veramente una Potenza di primo ordine e curarne romanamente il prestigio e l’autorità. L’Italia, non più tollerata come nei tempi della tracotanza europea, doveva avere una sua direttiva personale, suoi principi chiari e fermi dinanzi a cui le Potenze dovevano disporsi coi dovuti riguardi […]. A questa più forte e più dignitosa messa in valore delle attività italiane all’Estero, che è politica lungimirante e a grande respiro, è strettamente collegato un più vivo impulso impresso alla politica coloniale […]. Poiché l’espansione coloniale si colloca oramai tra i maggiori problemi delle Grandi Potenze e questi acquistano, quindi, una importanza di primissimo ordine per il futuro sviluppo e la stessa esistenza dei grandi organismi imperiali, quali sono oggi le Grandi Nazioni; l’Italia non poteva mancare in questa gara […]. L’Italia ha oggi coscienza di essere una grande Potenza mediterranea ed europea […], una Nazione rinnovata, gagliarda, sana, operosa e piena di forze vitali di espansione. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’interpretazione fatta propria da Carlo Capasso dell’età contemporanea come epoca del trionfo della forza e del dominio, come teatro dell’affermazione di «grandi organismi imperiali» e dell’indispensabile trasformazione delle «maggiori Nazioni ottocentesche» in veri e propri «Imperi», era destinata ad incontrare una notevole fortuna e ad essere assunta e riproposta in varie fogge da numerosi altri manuali scolastici di storia editi lungo il corso degli anni Trenta. Essa avrebbe alimentato la formazione storica e politica di diverse generazioni di studenti delle scuole secondarie dell’Italia fascista, fino a che le drammatiche vicende della seconda guerra mondiale e i nuovi scenari politici aperti dalla caduta del regime fascista e dall’avvento della democrazia nel Paese non portarono a riconsiderare in modo nuovo gli stessi fatti e gli stessi scenari del recente passato e a porre con urgenza la necessità di ridefinire in forme nuove lo stesso insegnamento scolastico della storia. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Gli anni del secondo dopoguerra La difficile costruzione dell’identità repubblicana e della cittadinanza democratica Per analizzare il ruolo esercitato dalla scuola, all’indomani del secondo dopoguerra, nella promozione degli ideali democratici tra le nuove generazioni e nella formazione di un costume civile ispirato ai principi della Costituzione repubblicana, è opportuno prendere le mosse dal recente dibattito sviluppatosi nel nostro Paese attorno ai temi della cittadinanza democratica e dell’identità nazionale. Si tratta, com’è noto, di un dibattito che ha visto la partecipazione di storici, politologi, studiosi dei processi culturali di diverso orientamento ideologico e politico e che ha trovato significativi stimoli e ulteriori motivi di discussione non solamente nelle vicende che hanno portato al crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo e, su un diverso piano, all’accelerazione e al graduale allargamento del processo di integrazione europea. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Ma anche, e soprattutto, nei recenti mutamenti politici e sociali che hanno interessato il nostro Paese. Intendiamo riferirci, in modo particolare, alla fine della cosiddetta Prima Repubblica e all’avvento di una vera e propria mutazione genetica del costume politico nazionale. Nonché alla crescente – e per certi versi convulsa – trasformazione della società italiana in una società multietnica e multiculturale, cui si accompagnano, accanto al riemergere di diffusi sentimenti xenofobi e d’intolleranza, tentazioni separatiste alimentate da vaghe mitologie e, soprattutto, una crescente e diffusa insofferenza nei riguardi delle regole comuni, di un ideale condiviso di cittadinanza, di un’identità collettiva capace di elevarsi al di sopra delle appartenenze e identità particolaristiche. Tra i risultati largamente condivisi e ormai acquisiti di questo dibattito, uno mi sembra particolarmente significativo ai fini del nostro discorso: la consapevolezza che, nell’Italia repubblicana degli ultimi cinquant’anni, la questione della cittadinanza democratica o, per meglio dire, di un’identità collettiva condivisa e fondata sui valori della Costituzione democratica è ancora una questione aperta, un problema tutt’altro che risolto, e che proprio l’incompiutezza del processo di democratizzazione del costume e della vita civile nel nostro Paese ha rappresentato – e rappresenta ancora oggi – una delle grandi anomalie del sistema democratico italiano, con i suoi inevitabili riflessi non solo sulla vita politica, ma anche sulla convivenza civile e sociale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata È necessario allora chiedersi perché tutto ciò si è verificato, per quali ragioni nel nostro Paese la ‘democrazia formale’ non è riuscita – o non è riuscita compiutamente – a trasformarsi in una ‘democrazia sostanziale’, capace di permeare le scelte e i comportamenti individuali e collettivi, di farsi costume civile, pratica diffusa. Su un diverso piano, perché non è riuscita ad alimentare quello che Habermas ha definito il «patriottismo della Costituzione», ossia l’unica forma di identità nazionale compatibile con i moderni regimi democratici, quella cioè che si fonda sulla consapevolezza dei cittadini di essere titolari di diritti e di doveri nei riguardi della comunità, sulla base di valori comuni e condivisi, che sono quelli espressi dalla Costituzione. Nell’ambito della nostra analisi, un’attenzione privilegiata deve essere riservata alla scuola. E ciò perché è proprio a questa istituzione che, all’indomani della seconda guerra mondiale, la nuova classe dirigente democratica ha assegnato il compito di formare i nuovi cittadini. Tuttavia, se non si vuole circoscrivere il discorso ad una mera recensione dei provvedimenti adottati in ordine all’educazione civile e democratica nella scuola italiana del secondo dopoguerra, è opportuno far luce sui più generali fattori di natura ideologica e politica (più e prima ancora che pedagogica e didattica) che condizionarono profondamente il quadro e incisero sul modo stesso di affrontare e di dare soluzione al problema della ‘democratizzazione del popolo italiano’ attraverso la scuola. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il primo dei fattori sopra ricordati attiene, senza dubbio, alla diversa – e per certi aspetti antitetica – concezione della democrazia che caratterizzava le forze politiche che avevano combattuto il nazi-fascismo e gettato le basi per la rinascita democratica del nostro Paese. La più recente e accreditata storiografia sul secondo dopoguerra – e penso, in particolare, agli studi di Paolo Spriano, Pietro Scoppola, Claudio Pavone, Silvio Lanaro e Roberto Sani – ha posto efficacemente in luce come, nelle diverse aree politiche e culturali, il problema di una definizione univoca e condivisa della democrazia fosse tutt’altro che risolto: la democrazia in Italia rinasceva, infatti, senza potersi rifare ad un sicuro e consolidato patrimonio di esperienze e di valori comuni. Un secondo fattore, sul quale è opportuno richiamare l’attenzione, concerne il ruolo giocato dai partiti e, più in generale, il clima di crescente conflittualità ideologica e politica che doveva caratterizzare gli anni del secondo dopoguerra. Su questo terreno, com’è stato efficacemente notato da Scoppola, il ruolo dei partiti è stato per molti versi contraddittorio: «Essi di fatto, nel momento in cui pongono le premesse, nella Costituzione, di una cittadinanza democratica di tutti gli italiani, contribuiscono a formare forti identità di parte, radicati sentimenti di appartenenza partitica, che sovrastano il sentimento di un’appartenenza comune». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Se si tengono presenti questi fattori di contesto, è possibile cogliere in modo più adeguato caratteristiche e limiti degli itinerari di educazione democratica e di formazione alla cittadinanza messi in atto nella scuola dell’Italia repubblicana: - dalle proposte e iniziative della Commissione Alleata di Controllo, istituita nel novembre 1943 (al cui interno, com’è noto, operava la Sottocommissione per l’Educazione presieduta dal pedagogista americano Carl Washburne); - al più complessivo disegno di educazione alla cittadinanza democratica propugnato dal ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella nel quadro della riforma della scuola italiana da lui presentata in Parlamento nel 1951; - fino all’introduzione, sul finire degli anni Cinquanta, dell’educazione civica nelle scuole ad opera del responsabile della Minerva Aldo Moro (1958). In via preliminare, merita osservare che, durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra, la questione della formazione alla democrazia attraverso la scuola non incontrò, da parte delle forze politiche antifasciste, un’attenzione particolare. Laddove tale questione fu posta a tema, fra l’altro, le indicazioni formulate al riguardo non furono quelle che ci si potrebbe attendere. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Sugli orientamenti dei principali esponenti della nascente democrazia italiana pesava, indubbiamente, il ricordo dell’uso politico della scuola fatto dal fascismo; così come pesava la consapevolezza della grave mistificazione perpetrata dal regime mussoliniano dell’ideale di ‘scuola formativa del cittadino’, già presente nella legge Casati e riproposto con forza dalla riforma Gentile del 1923. Alla luce di tali remore, trova spiegazione, ad esempio, l’atteggiamento fortemente critico assunto, nei riguardi dell’educazione alla democrazia attraverso la scuola, dalle forze politiche di sinistra, in particolare dal Partito d’Azione. Emblematica, al riguardo, è la posizione assunta nel 1944, in un intervento pubblicato sulle pagine dei «Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà», da Augusto Monti: Meno scuola. Pretendere meno dalla scuola […]. Educazione, coltura generale, scuola formativa, scuola e vita: ubbie […]. Occorre che tutta la scuola italiana assuma finalmente questo aspetto; occorre che si decida tutta ad essere la scuola dell’epoca presente: e se il nostro è il tempo del lavoratore – del produttore – occorre che la nostra scuola, compresa la secondaria classica, sia non più la scuola del retore, o del letterato o del cittadino ma sia direttamente e indirettamente la scuola, appunto, del produttore». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Interessante la replica all’intervento del Monti avanzata da Leo Valiani, il quale si mostrava persuaso che la scuola dovesse comunque servire a fare «non solo dei lavoratori, ma anche e soprattutto dei cittadini, non solo gente che sappia maneggiare il tornio, ma anche gente che sappia ubbidire alle leggi e partecipare alla vita politica». Rispondeva polemicamente al Valieni Vittorio Foa, ribadendo, e anzi accentuando la tesi di Monti: Qui il nostro disaccordo è completo. È ora di togliere allo Stato quel formidabile strumento di parte che è la scuola educativa e formativa, è ora di snebbiare l’atmosfera dai vapori gentiliani. La scuola formativa può essere molto comoda finché nel governo e nella struttura statale ci siamo noi o dei nostri amici, ma la faccenda diventa fastidiosa quando vi si insedino degli avversari decisi e senza scrupoli. La scuola deve istruire e basta […]. Un partito modernamente democratico non deve chiedere allo Stato di fabbricare della gente onesta, dei buoni patrioti, degli scrupolosi padri di famiglia ecc. Sempre in via preliminare, vale la pena di sottolineare come, anche nell’ambito dell’Assemblea Costituente, la questione dell’educazione alla democrazia delle nuove generazioni – a più riprese sollevata e messa a tema – non suscitò quell’unanime consenso che sarebbe logico ipotizzare. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Soprattutto da parte delle forze politiche laiche e di sinistra, infatti, s’insistette sul fatto che di tale questione si dovesse far carico, al momento opportuno, il legislatore ordinario. Al riguardo, vale la pena di ricordare che un emendamento tendente ad introdurre nella scuola «un insegnamento ed una educazione civica di ispirazione democratica e nazionale», presentato dal cristiano-sociale Gerardo Bruni nella seduta del 28 aprile 1947, fu respinto il giorno successivo dall’Assemblea riunita in seduta plenaria. Solo pochi giorni prima del voto finale sulla Costituzione, l’11 dicembre 1947, l’Assemblea Costituente approvò all’unanimità un ordine del giorno, presentato dai democristiani Franceschini, Moro, Ferrarese e Sartori, così formulato: «L’Assemblea Costituente esprime il voto che la nuova Carta costituzionale trovi, senza indugio, adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sacro retaggio del popolo italiano». Come si vede, la pur timida proposta di un’educazione civica fondata sui valori democratici, avanzata da Gerardo Bruni, era sfociata in un ancora più modesto invito rivolto alla scuola affinché offrisse ai giovani un’adeguata conoscenza del progresso compiuto con l’affermazione dei nuovi principi costituzionali. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In realtà, a porre fin dal 1944 l’accento sulla necessità di una «rieducazione democratica» del Paese, era stata la Sottocommissione per l’Educazione dell’Allied Military Gouvernment (AMG), presieduta dal pedagogista statunitense Carl Washburne. Nel quadro di una serie di interventi vòlti a dare soluzione alle «necessità immediate» della scuola italiana, profondamente segnata dalla guerra, e ad avviare al suo interno una prima e necessaria opera di defascistizzazione, la Sottocommissione Alleata pose mano alla stesura dei nuovi programmi didattici per le scuole elementari e materne, che furono promulgati con il Decreto luogotenenziale 24 maggio 1945. Si tratta di un documento importante, nel quale la questione dell’educazione alla democrazia e ad un nuovo sentimento della cittadinanza era collocata al centro dell’opera formativa della scuola di base: a tale scuola, infatti, era assegnato non solamente il compito di combattere l’analfabetismo e di trasmettere gli elementi essenziali del sapere e della cultura, ma anche quello di formare, nelle nuove generazioni, una «coscienza sociale operante», ossia un «habitus civile» capace di promuovere «nel fanciullo il cittadino». Ispirati ai principi della pedagogia attivistica di matrice deweyana, i programmi per le scuole elementari e materne del 1945 concepivano l’educazione alla democrazia come educazione all’esercizio della responsabilità e dell’iniziativa personale fin dalla fanciullezza. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Non a caso, l’enfasi era posta sulla necessità, da parte della scuola, di «svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco: in breve delle virtù civili, sociali e morali»; nonché sulla «formazione del carattere con un avveduto esercizio della libertà nella pratica dell’autogoverno». Incentrata sul senso di responsabilità individuale e sull’esercizio dell’autogoverno personale, caratteristici del modello pedagogico statunitense, la prospettiva di educazione alla democrazia che alimentava i programmi didattici del 1945 era destinata a suscitare scarsi consensi negli ambienti pedagogici e scolastici del nostro Paese, ancora largamente oscillanti tra il riferimento alla tradizione pedagogica gentiliana, le nuove istanze della pedagogia collettivistica di matrice marxista e l’emergere di un personalismo pedagogico cattolico poco incline, almeno in questi anni, a valorizzare appieno le istanze attivistiche. A titolo puramente esemplificativo, vale la pena di ricordare che, ancora nel 1949, recensendo sulle pagine della rivista marxista «Società» l’opera Democrazia ed educazione di John Dewey, Mario Casagrande puntava l’indice su quelli che erano gli indirizzi di fondo della proposta formulata dal Washburne sulla scia delle intuizioni deweyane. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il senso della sua pedagogia – scriveva lo studioso comunista – è tutto qui: promuovere modi di collaborazione sociale dove la libertà e responsabilità del singolo trovino campo di affermarsi meglio […]. Dewey ha reso veramente un grande servigio all’ideologia imperialistica: l’ha trasformata in esperienza didattica, l’ha convertita nella forma conveniente all’azione propagandistica di massa. Ma perplessità e riserve – sia pure diversamente motivate – dovevano venire un po’ da tutti i settori culturali e pedagogici. In realtà, il vero limite delle innovazioni introdotte in materia di educazione alla democrazia dalla Sottocommissione Alleata presieduta dal Washburne risiedeva nel loro carattere provvisorio e solo parziale, limitato cioè ai programmi didattici della scuola di base. A riproporre con forza, e con ben maggiore ampiezza di prospettive, la questione dell’educazione alla nuova cittadinanza democratica attraverso la scuola provvedeva, al principio del 1947, il neo ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella, destinato, com’è noto, a dirigere la Minerva per un quinquennio, dal luglio 1946 al luglio 1951. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il 12 aprile 1947, il ministro Gonella insediava una Commissione nazionale d’inchiesta per la riforma della scuola, il cui scopo, come recitava il decreto istitutivo, era quello di «compiere un’inchiesta sulle condizioni della scuola italiana di ogni ordine e grado, anche di quella non governativa, e di condurla in guisa da raccogliere, con la sicura e precisa notizia delle sue presenti condizioni spirituali e materiali, l’indicazione dei programmi, disegni e voti proposti da coloro i quali esercitano l’insegnamento». Alla consultazione nazionale del mondo della scuola – che si svolse nei mesi di ottobre e novembre 1948, tramite la compilazione di questionari appositamente predisposti – parteciparono ben 211 mila insegnanti delle scuole statali e non statali di ogni ordine e grado e circa 85 mila non docenti. I risultati dell’Inchiesta furono presentati pubblicamente nella seduta conclusiva dei lavori della Commissione nazionale, il 30 novembre 1949. Nel luglio dello stesso anno, Gonella insediava una nuova Commissione ministeriale incaricata di redigere – sulla scorta delle indicazioni emerse dall’Inchiesta – il vero e proprio progetto di riforma scolastica, il cui testo definitivo, approvato, com’è noto, dal Consiglio dei ministri il 18 giugno 1951, fu presentato ufficialmente alla Camera dei deputati nella seduta del 13 luglio, con il titolo: Norme generali sull’istruzione n. 2100. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In concomitanza con l’avvio dei lavori dell’Inchiesta nazionale per la riforma della scuola, con il Decreto legge 17 dicembre 1947, il ministro della Pubblica Istruzione istituiva la cosiddetta Scuola popolare per la lotta all’analfabetismo, nel cui ambito, tra il 1948 e il 1953, ovvero nel corso della prima Legislatura repubblicana, furono attivati, in tutta la penisola, 91.568 corsi di alfabetizzazione e di istruzione popolare destinati alle popolazioni adulte, che coinvolsero complessivamente quasi due milioni di cittadini, specie delle zone agricole e montane e delle aree del Paese maggiormente segnate dall’arretratezza e dall’analfabetismo. E, tuttavia, la creazione di «una scuola adeguata ai bisogni e conforme agli ideali di una schietta società democratica» rappresentava una sfida che andava ben al di là dei pur indispensabili provvedimenti e interventi del governo. All’obiettivo di promuovere una cittadinanza democratica fondata sulla responsabilità, ossia sulla diretta e consapevole partecipazione dei cittadini alla vita politica, rispondevano anche le iniziative per la lotta all’analfabetismo avviate attraverso l’istituzione della Scuola popolare. Al riguardo, aprendo i lavori del primo Congresso nazionale sull’educazione popolare, svoltosi a Roma nel maggio 1948, il ministro della Pubblica Istruzione sottolineava: Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Un popolo i cui ordinamenti rispondono a criteri di vera democrazia, non può prescindere dall’educazione dei suoi cittadini e di tutti indistintamente senza eccezioni privilegiate, senza esclusioni inconcepibili […]. In questa preoccupazione si innesta il problema dell’assistenza educativa agli adulti […]. Si tratta, in questo caso, del recupero di ogni cittadino, anche di chi ha varcato le soglie della virilità senza avere beneficiato di quegli elementi di istruzione e di cultura che devono essere il requisito minimo di ogni cittadino; recupero che può e deve avvenire nell’ambito di una vera concezione democratica dell’educazione […]. L’eguaglianza dei cittadini dinanzi alle urne impone come logica conseguenza il dovere di assicurare i requisiti indispensabili per esercitare i propri diritti e pronunciarsi sui problemi che il cittadino è chiamato ad affrontare […]. Ci siamo soffermati su questi due fondamentali passaggi della politica scolastica avviata dal ministro Gonella, perché solo attraverso l’approfondimento delle ragioni poste alla base della riforma della scuola e dei provvedimenti adottati nella lotta contro l’analfabetismo è possibile cogliere il significato e la portata delle proposte di educazione alla cittadinanza democratica attraverso la scuola elaborate nella prima stagione della Repubblica. Esiste, infatti, uno stretto e inscindibile nesso tra le riforme scolastiche di Gonella e il disegno di democratizzazione della società italiana perseguito dai governi degasperiani e dalla nuova classe dirigente democratica e antifascista. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nell’illustrare le ragioni e il significato della riforma scolastica avviata a partire dal 1947, il ministro della Pubblica Istruzione sottolineava appunto la centralità di questo nesso, specie laddove indicava nella «nuova scuola riformata» lo strumento «indispensabile al consolidamento e al progresso del nostro Stato democratico». La democrazia italiana, aggiungeva Gonella, «ha bisogno della scuola, poiché senza la formazione morale e intellettuale del cittadino non vi può essere cosciente esercizio della sovranità popolare […]. Se lo Stato democratico deve essere del popolo e per il popolo, in cui è posta la sovranità, l’educazione e la scuola si rivelano appunto come un primordiale elemento generatore della democrazia, poiché soltanto per esse e con esse il popolo potrà venire elevato all’esercizio effettivo, cosciente e responsabile della sovranità». Questa educazione si esprimerà in maniere molteplici, che vanno dall’educazione alla vita democratica all’illustrazione dei principi etico-giuridici sui quali tale vita si svolge [per] dare al Paese cittadini sempre più coscienti e sempre più in grado di organizzare e di difendere le loro libere istituzioni. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Alla luce del quadro sin qui tracciato, non sorprende che, nel progetto di riforma della scuola italiana predisposto dal ministro Gonella e presentato in Parlamento nel 1951, l’educazione alla cittadinanza democratica assumesse una rilevanza particolare. L’art. 15 del DDL n. 2100, infatti, prevedeva l’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado di uno specifico insegnamento di «Educazione civile», il cui scopo era quello di «educare la coscienza dei doveri e diritti del cittadino» e di contribuire a diffondere gli ideali democratici e «ad alimentare l’amore della Patria». Nella relazione introduttiva al DDL, il ministro della Pubblica Istruzione precisava ulteriormente le caratteristiche e le finalità di un simile insegnamento: «Lo spirito democratico della Costituzione e la conoscenza della struttura stessa dello Stato democratico costituiscono elementi necessari per la formazione di una coscienza civica nazionale. L’educazione civile è, quindi, un supremo interesse della società democratica, ed è condizione del consolidamento di una libera democrazia, al di sopra e al di fuori delle distinzioni dei partiti […]. L’educazione civile si svolge secondo un duplice processo che è informativo e formativo della coscienza civile, per culminare poi nella piena partecipazione della persona alla vita della comunità». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Per quel che concerne i contenuti e gli obiettivi della nuova disciplina scolastica, Gonella aggiungeva: L’insegnamento deve essere alimentato ad una educazione alla democrazia intesa come esercizio di tutte le libertà civili e politiche tradotte in costume di vita sociale. Il sistema democratico esige un massimo di virtù civili che si possono coltivare con l’educazione all’esercizio di una libertà intesa non solo negativamente, come liberazione da vincoli, ma anche positivamente, come capacità del cittadino di autodeterminarsi secondo la legge, come virtù del carattere. Specialmente attraverso la formazione del carattere si potrà dar vita ad una società autenticamente democratica». Così intesa, concludeva il ministro, «l’educazione civile saprà anche efficacemente contribuire ad alimentare nei giovani l’amore della Patria e, insieme, la comprensione dei doveri verso la comunità internazionale. Nella presentazione dell’art. 15 del DDL n. 2100 sopra richiamata, l’educazione civile era riguardata da Gonella come «la condizione del consolidamento di una libera democrazia al di sopra e al di fuori dei partiti». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Tale affermazione importante rifletteva un convincimento proprio non solo del ministro della Pubblica Istruzione, ma anche di Alcide De Gasperi e degli ex popolari che con lui avevano dato vita alla Democrazia Cristiana. Nella concezione degasperiana, fatta propria sul versante scolastico da Gonella, la scuola avrebbe dovuto rappresentare, infatti, non il luogo delle polemiche ideologiche e dello scontro politico, ma piuttosto il terreno di incontro e di collaborazione fattiva tra le diverse forze politiche democratiche: il laboratorio per la costruzione di un’autentica cittadinanza democratica, al di sopra della dialettica politica e delle inevitabili contrapposizioni tra i partiti. Sulla stessa linea si poneva il ministro della Pubblica Istruzione: La scuola non interessa solo questo o quel partito, l’una o l’altra ideologia, ma investe direttamente gli interessi di tutta la comunità nazionale. Anzi, direi di più: proprio la scuola, con la sua alta funzione educativa, ci può fornire il terreno su cui le stesse differenziazioni ideologiche possono trovare una superiore composizione. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Sotto questo profilo, l’appello rivolto dallo stesso Gonella alle diverse forze politiche nel discorso tenuto al Senato il 21 ottobre 1948, a conclusione del dibattito sul bilancio della Pubblica Istruzione, si rivela particolarmente significativo. Nel momento in cui - dopo la definitiva rottura dell’alleanza di governo dei partiti del CLN (maggio 1947) e la successiva, drammatica contrapposizione registrata alle elezioni del 18 aprile 1948 tra lo schieramento centrista e i partiti di sinistra – sembrava davvero compromessa ogni possibile collaborazione unitaria tra le forze che, pure, avevano combattuto il nazi-fascismo e contribuito a fondare la democrazia nel nostro Paese, il ministro della Pubblica Istruzione così si esprimeva al termine del suo intervento: Concludendo, rivolgo a tutti l’appello a guardare alla scuola al di sopra dei partiti, per costituire una coalizione di tutte le forze che desiderano l’unico vero bene della nazione: l’elevazione intellettuale e civile del nostro popolo. La centralità attribuita all’azione di governo, rispetto a quella dei partiti, nell’educazione alla democrazia rappresentava, a nostro avviso, l’espressione di una concezione profondamente realistica – e per ciò stesso molto lungimirante sotto il profilo politico – della democrazia italiana e delle forti tensioni che la agitavano e che rischiavano di impedirne il radicamento nel Paese e l’effettiva crescita. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A questo proposito, ci domandiamo se proprio il prevalere, di lì a poco, della logica dei partiti politici quali moderni educatori di massa non abbia finito per compromettere la possibilità stessa di una formazione alla cittadinanza democratica comune e condivisa, in nome del primato delle appartenenze ideologiche contrapposte. Presentato alla Camera dei deputati nel luglio 1951, come si è detto, il DDL n. 2100 predisposto dal ministro Gonella fu presto accantonato, senza ottenere neppure gli onori della discussione parlamentare, finché due anni più tardi decadde a seguito della conclusione della prima Legislatura. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia, maturò tra le file della Democrazia Cristiana una nuova sensibilità in ordine all’educazione civica. L’istituzione di tale insegnamento nella scuola italiana divenne, infatti, uno dei punti qualificanti del programma di politica scolastica attuato dal ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro nel corso del ministero Zoli. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Intervenendo alla Camera dei deputati il 24 ottobre 1957, infatti, Moro rese nota la volontà dell’esecutivo di introdurre l’educazione civica nei due cicli dell’istruzione secondaria, impegnandosi a predisporre in tempi brevi i relativi programmi didattici. La decisione del governo, com’è noto, suscitò ampi consensi non soltanto negli ambienti cattolici, ma anche negli altri schieramenti politici e scolastici. Ribaltando l’atteggiamento di chiusura assunto dal mondo comunista nei primi anni Cinquanta, a questo proposito, la rivista scolastica del Partito Comunista Italiano «Riforma della Scuola» espresse un sostanziale appoggio all’iniziativa. In un intervento pubblicato nel febbraio 1958, infatti, la direzione del periodico manifestò la convinzione che fosse ormai necessario «suscitare nei ragazzi quelle riflessioni che s’inquadrano in quei principi di vita costituzionale che costituiscono la spina dorsale della nostra Repubblica». E ciò in quanto: Se quei principi sono trascurati nella scuola, la formazione dei cittadini nuovi non avverrà mai. Ci chiuderemo in un circolo vizioso e la Costituzione, non sorretta dalla volontà dei cittadini, non avrà mai attuazione completa, né sarà in grado di sviluppare tutte le premesse da cui ha preso consistenza. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Quasi a giustificare il mutamento d’indirizzo rispetto alle posizioni assunte in passato dai comunisti in merito all’educazione civica, la direzione di «Riforma della Scuola» sottolineava nella conclusione dell’articolo: «Aspettare che ‘muti il clima politico e morale’ per iniziare un’opera di rinnovamento significa rinunciare a quelle possibilità d’iniziativa che possono rompere il circolo vizioso». Anche tra le file dei laici, la prospettiva di avviare i giovani alla riflessione sui principi della Costituzione repubblicana e all’approfondimento dei valori della democrazia e della convivenza civile incontrò ampi consensi, come testimoniano le prese di posizione di autorevoli testate scolastiche e culturali: dai periodici fiorentini «Scuola e Città» e «Il Ponte» a «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Il sensibile mutamento di posizioni registrato sul finire degli anni Cinquanta negli ambienti laici e di sinistra in ordine all’introduzione dell’educazione civica nella scuola deve essere ricondotto, in primo luogo, al graduale emergere, della cosiddetta questione giovanile (fenomeno di «perdita d’identità collettiva», «estraneità delle nuove generazioni agli ideali e ai valori della Resistenza e della rinascita democratica del Paese»), alla quale viene dedicata sempre maggiore attenzione nelle riviste scolastiche e culturali d’ispirazione laica e marxista Occorre tuttavia ricordare che, al generale favore con cui nell’ottobre 1957 era stato accolto l’annuncio di Moro dell’introduzione dell’educazione civica nelle scuole secondarie, subentrò nei mesi successivi un’altrettanto generale delusione. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata I programmi elaborati dal ministero della Pubblica Istruzione e promulgati con il DPR 13 giugno 1958 n. 585, infatti, suscitarono critiche e riserve un po’ in tutti gli schieramenti. In sostanza, si rimproverava all’educazione civica, così come veniva proposta dai programmi del 1958, di essere poco più di una sintetica illustrazione dei principi costituzionali e degli ordinamenti dello Stato repubblicano, e di ignorare completamente le esigenze specifiche di un’educazione alla cittadinanza democratica. Al riguardo, si faceva fra l’altro notare come, nella lunga e densa Premessa ai programmi della disciplina, i termini ‘democrazia’, ‘cittadinanza democratica’ ed ‘educazione alla democrazia’ non comparissero neppure. La stessa collocazione dell’educazione civica nell’ambito dell’insegnamento della storia (quasi un’appendice di tale insegnamento) e l’esiguo spazio orario ad essa assegnato (2 ore al mese) erano destinati ad avvalorare l’impressione che, da parte del governo, si fosse inteso conferire un basso profilo alla nuova disciplina. Indubbiamente, la soluzione avanzata da Moro era ben lontana da quella ispirata a grandi idealità e ad ottimistica fiducia nella capacità formativa delle nuove generazioni propria della scuola che aveva alimentato, in epoca degasperiana, i propositi riformatori del ministro Gonella. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Non si può fare a meno di notare infatti che, in questo caso, l’intento di evitare contrapposizioni e polemiche tra appartenenze politiche diverse era sfociato in una scelta di sapore minimalista, in virtù della quale l’ambizioso obiettivo di un’educazione alla cittadinanza democratica lasciava il campo al ben più modesto disegno di un’informazione sugli ordinamenti e sui meccanismi di funzionamento del sistema politico e sull’organizzazione della società italiana. L’ottimismo espresso da Aldo Moro circa la fecondità del nuovo insegnamento, così come egli l’aveva concepito ed attuato, era destinato a non trovare riscontro nell’esperienza concreta. In realtà, l’educazione civica non è riuscita ad assumere una propria specifica fisionomia nel quadro della proposta formativa scolastica, né ha suscitato – se non in qualche sporadico caso – quell’attenzione e quel coinvolgimento degli insegnanti che rappresentavano la condizione prima del suo successo. Più in generale, tale insegnamento ha finito per configurarsi come una sorta di riflesso della più complessiva difficoltà, non solo della scuola, ma del sistema democratico italiano nel suo insieme, a esprimere in un progetto compiuto di formazione alla cittadinanza le potenzialità ben presenti nella nostra Carta Costituzionale. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Ma per cogliere appieno il significato e i molteplici aspetti di un processo che ha impedito la maturazione e il radicamento nell’Italia repubblicana degli ultimi cinquant’anni di un’autentica cittadinanza democratica è opportuno gettare uno sguardo, ancora una volta, sull’evoluzione fatta registrare, in seno alla scuola italiana degli ultimi cinquant’anni, dall’insegnamento della storia e dalla manualistica storica, ossia dai libri di testo adottati su questo versante. La questione dei libri di testo si configurò, già all’indomani del crollo del regime fascista, come uno dei temi centrali del più generale dibattito, sviluppatosi tra le forze politiche del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), in ordine alla ricostruzione su nuove basi della scuola italiana. E ciò in virtù di una serie di motivi : • la diffusa consapevolezza del ruolo di primaria importanza assegnato ai libri di testo nel quadro dell’ordinamento didattico della scuola italiana introdotto dalla riforma Gentile del 1923, • la convinzione della peculiare funzione esercitata dai libri testo, nel corso del ventennio fascista, come strumento ideologico e politico (fattore di costruzione del consenso), • la persuasione che la scuola – e all’interno di essa i libri di lettura e la manualistica – avesse un ruolo di primaria importanza nella promozione di un ethos collettivo ampiamente condiviso. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A fronte di questi convincimenti, non sorprende l’attenzione tributata già nel corso della Resistenza al problema della revisione dei libri di testo; attenzione testimoniata fra l’altro dalle deliberazioni e dai propositi espressi nei documenti elaborati dal C.L.N.A.I. e, più in particolare, dalle commissioni per la scuola e la didattica istituite in seno alle cosiddette Repubbliche partigiane. In realtà, ad avviare concretamente una prima revisione ideologica dei testi scolastici in uso nel Ventennio mussoliniano e a sollecitare – nel quadro di una più generale defascistizzazione della scuola italiana –fu la già ricordata Sottocommissione per l’Educazione dell’Allied Military Gouvernment (AMG), presieduta dal pedagogista statunitense Carl Washburne. Tra il 1944 e il 1945 la Sottocommissione stabilì i criteri per la revisione dei libri di testo relativi alle scuole di ogni ordine e grado, affidando tale compito ad una Commissione ministeriale centrale e ad una serie di Commissioni regionali per la scuola istituite nei territori via via liberati e sottoposti al controllo dell’Allied Military Gouvernment, composte da insegnanti e funzionari scolastici designati dai Regional Education Officiers di comune accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione. Un’attenzione particolare fu dedicata dalla Commissione ministeriale centrale e da quelle regionali ai manuali di storia. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Questo, non solamente per via dell’elevato ‘tasso di ideologia fascista’ riscontrabile in tali testi, ma anche perché, a seguito delle disposizioni emanate dopo il 25 luglio 1943 dal governo Badoglio, i relativi programmi della disciplina erano stati decurtati della parte relativa alla storia più recente (la marcia su Roma e le realizzazioni della «Rivoluzione fascista») dove più diretta e smaccata era la propaganda ideologica e politica del regime, e ricondotti, per quel che concerne il terminus ad quem, alla fine della prima guerra mondiale. L’iniziativa di revisione dei testi di storia interessò complessivamente 147 opere, per un totale di circa 200 volumi, fra manuali, antologie di letture storiche o di critica storica e atlanti storici. Limitatamente alla vera e propria manualistica di storia per le diverse classi della scuola secondaria, il confronto fra i testi in circolazione durante il ventennio fascista e quelli approvati dalla Commissione rivela un aspetto interessante: la riproposizione nel secondo dopoguerra, con pochi tagli e aggiustamenti, dei più accreditati e diffusi manuali dell’epoca fascista, vale a dire quelli di Pietro Silva, Niccolò Rodolico, Alfonso Manaresi, Nino Cortese, Augusto Lizier, Agostino Savelli, Francesco Landogna e Francesco Calderaro. Si tratta, indubbiamente, di un caso emblematico di vera e propria continuità tra fascismo e post-fascismo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Come nel caso dei libri di testo destinati alla scuola elementare, anche per i manuali di storia delle secondarie occorrerà attendere la fine degli anni Quaranta per poter disporre di una produzione affatto nuova. Tanto sotto il profilo dell’impianto storiografico, quanto dal punto di vista dell’articolazione didattica, dunque, i testi che circolarono nelle scuole secondarie italiane dell’immediato dopoguerra si posero più su una linea di stretta continuità con il passato che su quella di un’effettiva apertura alle sollecitazioni culturali e civili della nuova società democratica. E, se dal punto di vista scientifico gli indirizzi prevalenti oscillarono tra il riferimento alla tradizionale storiografia economico-giuridica d’inizio secolo o alla più recente – ma non meno riduttiva - impostazione etico-politica di matrice crociana e le non rimosse suggestioni interpretative in chiave nazionalistica e imperiale della storia italiana recepite nel corso degli anni Trenta, sotto il profilo dell’educazione civile e democratica delle nuove generazioni i manuali di storia si rivelarono del tutto inadeguati quando non addirittura fuorvianti. D’altra parte, il persistere all’interno della classe docente di una cultura e di una sensibilità storica ancora in larga misura ancorate ai tradizionali canoni gentiliani, con la conseguente assenza di concrete sollecitazioni al cambiamento da parte del mondo della scuola, contribuì a rendere meno evidenti i ritardi e le carenze del settore, almeno fino al principio degli anni Cinquanta. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A rilanciare con forza, in seno alla classe politica e all’opinione pubblica, la questione di una revisione dei manuali di storia e, più in generale, degli stessi programmi d’insegnamento di questa disciplina nelle scuole primarie e secondarie furono, al principio degli anni Cinquanta, due eventi non direttamente collegati alla vita scolastica, ma carichi di significato per gli sviluppi della fragile democrazia italiana: 1. il dibattito in Parlamento intorno alla Legge Scelba sulla repressione delle attività neofasciste (1952), nel corso del quale la richiesta di un aggiornamento dei manuali e di un’estensione dei programmi di storia della scuola secondaria fino ai fatti più recenti (fascismo, Resistenza e costituzione della Repubblica democratica) accomunò trasversalmente gli esponenti della maggioranza di governo e dell’opposizione di sinistra, 2. Il convegno sull’insegnamento della storia nelle scuole italiane promosso dall’Associazione per la Difesa della Scuola Nazionale (ADSN) celebrato a Perugia nell’aprile 1952 (quasi in concomitanza con il dibattito al Senato sulla legge Scelba). Al convegno diedero la loro adesione i principali esponenti della cultura e della storiografia di orientamento laico e marxista: Croce, Salvatorelli, Monti, Pieri, Cantimori, Sestan, Valeri, Saitta e Spini. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Tale assise – che fu all’origine di un più ampio dibattito destinato a svilupparsi, negli anni seguenti, sulle pagine delle principali riviste culturali e scolastiche italiane (da «Il Mondo» a «Società», da «Scuola e Città» a «Riforma della Scuola» e a «La Voce della Scuola Democratica», per citare solo le più rappresentative) – contribuì da un lato a rilanciare l’obiettivo di un’estensione dei programmi di storia fino ai fatti più recenti e, dall’altro, a richiamare l’attenzione sulla necessità e urgenza di uno svecchiamento dei manuali scolastici della disciplina. Relativamente al primo dei due obiettivi, merita di essere richiamata la relazione svolta al convegno perugino dallo storico Piero Pieri, sul tema La tradizione della Resistenza e l’insegnamento della storia. In essa, Pieri si esprimeva chiaramente a favore di un allargamento dei programmi fino a comprendere il ventennio fascista e le vicende legate alla lotta partigiana e alla fondazione della Repubblica democratica nel nostro paese. Era necessario, secondo lo studioso, introdurre nelle scuole italiane «non la storia e la cronaca minuta del Fascismo e della Resistenza», ma piuttosto la narrazione del significato assunto da tali eventi nella più complessiva vicenda dello Stato unitario, al fine di promuovere nelle giovani generazioni una coscienza critica e un’autentica consapevolezza del valore della rinata democrazia. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata La posizione assunta da Pieri sull’insegnamento scolastico della storia recente era tutt’altro che condivisa da altri autorevoli storici dell’area laica e di sinistra, preoccupati in particolare dei rischi di un utilizzo strumentale di tale disciplina. È il caso, ad esempio, di Gaetano Salvemini, il quale, intervenendo a più riprese, nei mesi seguenti, sulle pagine de «Il Mondo», si domandava ad esempio se non era preferibile «negli alunni delle nostre scuole la più candida ignoranza sulla storia del fascismo e della resistenza ad un insegnamento controllato da catechisti, insegnanti di disegno, presidi repubblichini e un Ministero clericale»; e soprattutto se era corretto «preoccupare l’animo indifeso della gioventù con insegnamenti, i quali non possono non essere perturbati dalle passioni di un tempo troppo vicino a maestri e alunni». La posizione di Salvemini non fu affatto isolata e raccolse consensi un po’ in tutti gli schieramenti ideologici e politici. Sulla questione del rinnovamento dei manuali dedicati alla storia contemporanea, al convegno di Perugia del 1952 intervenne lo storico comunista Ernesto Ragionieri. Ragionieri, dopo avere ripercorso a grandi tappe le vicende relative all’epurazione dei testi scolastici nell’immediato dopoguerra, si soffermava ad esaminare analiticamente l’impostazione e gli indirizzi di fondo dei più diffusi manuali che circolavano nelle scuole italiane: dalle nuove edizioni dei vecchi testi sopravvissuti al periodo fascista, a quelli dati alle stampe dopo il 1945. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Le conclusioni alle quali approdava Ragionieri erano fortemente critiche: fatta eccezione per i due recentissimi testi dello Spini e del Saitta, apprezzati per la loro impostazione ispirata ai canoni della nuova storiografica marxista, tutti gli altri, sia pure con diverse sfumature, erano giudicati o non pienamente rispondenti alle esigenze di un insegnamento della storia didatticamente efficace e ideologicamente corretto, o del tutto inadeguati, quando non addirittura fuorvianti, sul piano dell’interpretazione storiografica. Le osservazioni critiche formulate da Ragionieri, in sostanza, andavano ben oltre la polemica circa l’oggettività e l’efficacia didattica e formativa delle ricostruzioni storiche proposte nei manuali scolastici in circolazione. Esse miravano a legittimare in modo esclusivo un’interpretazione della storia italiana ed europea contemporanee nella quale confluivano accenti e motivi non del tutto estranei alla polemica politica corrente. Non sorprendono, sotto questo profilo, le riserve espresse al riguardo dagli storici d’orientamento cattolico e di formazione crociana, tutt’altro che inclini ad avvalorare una simile presa di posizione. L’approccio di Ragionieri, fra l’altro, era destinato ad essere fatto proprio e riproposto, negli anni seguenti, nelle diverse rassegne critiche sui manuali di storia curate da Giorgio Rochat, Luigi Ganapini, Massimo Legnani e altri per la rivista «Il movimento di liberazione in Italia», organo ufficiale dell’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Il dibattito sviluppatosi in questi mesi ebbe importanti ripercussioni in ambito politicoscolastico. Nell’ottobre 1952, nel corso della discussione parlamentare sul bilancio di previsione della Pubblica Istruzione, il ministro Antonio Segni, accogliendo una serie di ordini del giorno presentati da deputati della maggioranza e dell’opposizione, assumeva una serie di impegni di notevole significato. Segni prendeva posizione sul problema dell’ampliamento dei programmi di storia: persuaso, infatti, che «l’insegnamento della storia [dovesse giungere] fino al periodo attuale», e che non si potesse ignorare «quella parte [della recente storia nazionale] che si riferisce alla nascita della Repubblica italiana», il ministro assumeva di fronte al Parlamento anche l’impegno di dare corso alla richiesta di «provvedere con la massima urgenza alla pubblicazione e alla diffusione di un opuscolo che obiettivamente esponga ai giovani delle scuole medie superiori i fatti e le vicende della storia d’Italia dal 1920 ai giorni nostri»; opuscolo destinato a rappresentare la prima, importante tappa di un percorso che sarebbe poi culminato con la vera e propria modifica del terminus ad quem dei programmi di storia per le scuole secondarie. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata In attuazione di tali propositi, com’è noto, pochi mesi più tardi vedeva la luce il volumetto dello storico Luigi Salvatorelli, Venticinque anni di storia (1920-1945), che il ministero della Pubblica Istruzione faceva distribuire gratuitamente agli insegnanti e agli alunni dell’ultimo anno delle scuole secondarie di tutta la penisola. L’opera dello storico liberale Luigi Salvatorelli, di taglio necessariamente sintetico e informativo, si caratterizzava per il tono pacato e piano della narrazione e per l’equilibrio delle valutazioni di eventi e di personaggi. La periodizzazione adottata andava ben oltre la seconda guerra mondiale, giungendo fino ai primi anni Cinquanta: l’ultima sezione del volume, infatti, comprendeva i trattati di pace, la Costituzione democratica e i primi sviluppi dell’Italia repubblicana, la ricostruzione economica in Italia e nel resto d’Europa, la formazione dei due Blocchi e l’avvento della «guerra fredda», il Patto Atlantico, l’avvio del processo di integrazione europea; fino al processo di decolonizzazione e all’emergere dei movimenti per l’indipendenza dei popoli in Asia e in Africa, alla guerra di Corea, alla morte di Stalin e ai primi segnali di disgelo fra i Blocchi. D’indubbio significato era lo sforzo di superare definitivamente l’ottica nazionalistica e di offrire al lettore uno sguardo sull’intera realtà europea ed extra-europea; così come rilevante appariva lo spazio riservato alle vicende legate alla rivoluzione russa del 1917 e alla nascita dello Stato sovietico, come pure all’enorme impatto che la rivoluzione dei Soviet esercitò sulle grandi masse operaie dei paesi occidentali. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Nella ricostruzione delle vicende europee degli anni Venti e Trenta – ossia di quella che Salvatorelli definiva l’età del totalitarismi – erano indagate con notevole equilibrio le cause e gli sviluppi della crisi delle istituzioni liberali e democratiche e dell’avvento dei regimi dittatoriali in Italia, Germania, Spagna ecc., nonché le trasformazioni subite dall’Unione Sovietica dopo l’avvento di Stalin. Ampia e circostanziata era, naturalmente, la parte del volume dedicata alle vicende italiane, la quale prendendo le mosse dalla crisi del primo dopoguerra e dall’avvento del fascismo, si sviluppava attraverso l’analisi dell’edificazione dello Stato totalitario (con riferimenti all’attività clandestina del movimento antifascista all’estero), per culminare poi con le vicende belliche e con un’organica – ancorché sintetica - ricostruzione delle varie fasi della lotta di Liberazione: la ricostituzione dei partiti pre-fascisti e la nascita di nuove formazioni politiche, il CLN e la guerra partigiana, i rapporti con gli Alleati, l’Assemblea Costituente e la fondazione della Repubblica democratica. Merita di essere sottolineato che, nel descrivere le varie tappe della lotta al nazi-fascismo, Salvatorelli introduceva una categoria interpretativa – quella della lotta di liberazione come guerra civile – che in questi ultimi anni ha incontrato una certa fortuna tra gli storici di diverso orientamento ideologico e culturale (mi riferisco, innanzi tutto, all’importante lavoro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Milano, Bollati Boringhieri, 1991), Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata ma che all’epoca suscitò non poco sconcerto e contrarietà tra gli studiosi d’orientamento azionista e marxista, determinando una vera e propria avversione nei riguardi del volume, destinata a riverberarsi sulla più complessiva operazione avviata dal ministro Segni. La fredda accoglienza, quando non l’aperta ostilità, riservata al volume di Salvatorelli e, più in generale, alla scelta di Segni di procedere con una certa gradualità verso l’introduzione della storia recente nelle scuole italiane, contribuì non poco a frenare l’attività del ministro della Pubblica Istruzione su questo versante; tanto più che all’interno della stessa Democrazia Cristiana prevalse la volontà di evitare contrapposizioni ideologiche e politiche destinate a riverberarsi sull’attività della maggioranza e sulla stessa coesione della compagine governativa. Ciò spiega, ad esempio, la sorprendente rimozione del problema registrata nella fase immediatamente successiva, almeno per quel che attiene alla politica del governo. Rimozione tanto più significativa in quanto, nella seconda metà degli anni Cinquanta, il dibattito in sede storiografica e le pressioni operate fuori e dentro il Parlamento dai partiti di sinistra in favore di un allargamento dei programmi di storia fino ai fatti più recenti e di un rinnovamento della didattica disciplinare e dei libri di testo assunsero dimensioni sconosciute in precedenza. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Era necessario attendere la fine del decennio perché tali pressioni sortissero effetti concreti. In un contesto politico, quello degli inizi della terza Legislatura, caratterizzato dai primi tentativi di un allargamento della maggioranza di governo ai socialisti, con l’avvento di Amintore Fanfani alla segreteria DC. Ma anche dal manifestarsi delle spinte verso un’involuzione della vita politica italiana: come nel caso del governo Tambroni del marzo-luglio 1960 sorretto dai voti del Movimento Sociale Italiano. Con il DPR 6 novembre 1960, comunque, il ministro Bosco (III governo Fanfani) promulgava i nuovi programmi per l’insegnamento della storia nei licei e negli istituti magistrali, ai quali, nei tre anni seguenti, si sarebbero aggiunti quelli destinati agli istituti tecnici (DPR 30 settembre 1961) e alla scuola media unica istituita nel 1962 (DM 24 aprile 1963). I nuovi programmi introducevano finalmente nelle scuole secondarie la narrazione delle vicende italiane e internazionali più recenti, nel cui ambito assumevano un rilievo particolare «la resistenza, la lotta di liberazione, la Costituzione della Repubblica italiana; [gli] ideali e [le] realizzazioni della democrazia». Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata A fronte di tale indubbia e fondamentale novità, rimanevano tuttavia irrisolte talune questioni destinate a condizionare negativamente la stessa applicazione ed efficacia dei nuovi indirizzi didattici: • il problema dell’aggiornamento culturale degli insegnanti di storia (in larga maggioranza privi di adeguate conoscenze dei fatti recenti) e a quello, non meno importante, della messa a punto di una nuova generazione di manuali e di libri di testo, • l’accentuarsi lungo gli anni Sessanta del clima di conflittualità ideologica e politica all’interno della scuola secondaria italiana favorì indubbiamente una crescente strumentalizzazione dell’insegnamento della storia recente (polemiche su fascismoantifascismo e sulla cosiddetta Resistenza tradita). Le trasformazioni socio-culturali e i mutamenti del costume registratisi nel corso degli anni Sessanta hanno contribuito a porre in luce i ritardi, le incertezze e i limiti del progetto di fare della narrazione scolastica della storia contemporanea il caposaldo di un’autentica coscienza critica e, più in generale, la base per la promozione, tra le giovani generazioni, della cittadinanza democratica. • Già nell’aprile 1965, ad esempio, sulle pagine del periodico fiorentino «Il Ponte», erano stati pubblicati i risultati di una grande inchiesta svolta nelle scuole secondarie superiori di Voghera su Fascismo e antifascismo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata L’inchiesta, condotta su un campione di oltre un migliaio di studenti, e basata su un questionario comprendente 14 domande destinate a valutare il grado di conoscenza del fenomeno fascista e dell’antifascismo e a far risaltare il giudizio degli intervistati, doveva fornire risultati sorprendenti - e per molti versi sconcertanti – sulla mentalità e sugli orientamenti politici del mondo giovanile. Nell’indicare gli aspetti più rilevanti emersi dall’inchiesta, la redazione de «Il Ponte» poneva l’accento sull’atteggiamento di «rifiuto della condanna del fascismo» che caratterizzava gli studenti intervistati, la maggior parte dei quali, anzi, si mostrava convinta che esistesse «una verità ben diversa» dell’esperienza fascista, rispetto a quella propagandata dall’antifascismo. La redazione del periodico fiorentino sottolineava altresì come ci si trovasse di fronte a «una generazione essenzialmente moderata, inseritasi e facilmente adattatasi negli schemi di vita che la società ha loro – e non solo a loro – imposto». Era la generazione dei «nati dopo», di coloro che non avevano vissuto la stagione della guerra di liberazione e che in pochi sapevano «dare una collocazione cronologica e una definizione esatte del movimento di Resistenza»; ma era anche la generazione che rivelava non solo estraneità, ma anche diffidenza di fronte ai grandi ideali etico-civili e alle aspirazioni democratiche che avevano animato la lotta contro il nazi-fascismo. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Un’ulteriore e ancora più decisa conferma del fallimento del progetto di fare dell’insegnamento della storia uno strumento di educazione alla democrazia è venuta dalla contestazione studentesca del 1968. Essa ha rappresentato indubbiamente il momento dell’emergenza a livello di opinione pubblica di un problema che aveva radici profonde e che coinvolgeva, sul piano delle responsabilità, l’intera classe politica italiana. Un problema di ritardi e d’inadeguatezze, certamente, ma anche d’incapacità di riconoscersi – al di là delle specifiche appartenenze ideologiche e politiche – in una storia comune e condivisa; di costruire cioè, se ci si passa il riferimento a Gramsci, una sorta di autobiografia della democrazia italiana da offrire come fondamento della coscienza etico-civile per le nuove generazioni. Vale la pena qui di richiamare l’importante relazione su La storia contemporanea nella scuola italiana presentata dallo storico Guido Quazza al convegno su «Libri di testo e Resistenza», svoltosi a Ferrara nel novembre 1970 per iniziativa dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI). Nel ripercorrere le principali tappe del dibattito condotto su fascismo e antifascismo e sull’interpretazione della Resistenza e della nascita dello Stato democratico proposta negli anni del secondo dopoguerra dagli storici di vario orientamento ideologico, Quazza non mancava di rilevare i limiti dell’intreccio tra storiografia e politica e di denunciare i riflessi negativi di tale posizione sotto il profilo della formazione civile delle nuove generazioni: Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata Che cosa è venuto da questa considerazione della storia contemporanea nell’ultimo venticinquennio per quanto riguarda i giovani? Ne è conseguito che la parte migliore di essi per impegno e intelligenza, ha finito col cogliere il sostanziale distacco fra cultura e intelligenza, non come una conseguenza inconsapevole, ma come un mezzo consapevole usato dai politici, dai partiti, per avallare un sostanziale monopolio del potere. Qui non si vuol fare della polemica politica, ma si deve riconoscere con molta franchezza che da qui è nata la diffidenza dei giovani verso la doppia verità dei partiti. In particolare, la Resistenza è stata utilizzata ai fini dell’interesse delle parti politiche più contrastanti. I moderati, ad esempio, ne hanno fatto un sacrario di glorie da mummificare, cioè un fatto concluso che non doveva avere più conseguenze dirette nella nostra attività quotidiana. Ma anche le sinistre hanno presentato un concetto di Resistenza che non era quello rispondente realmente alla resistenza quale fu, cioè non un tentativo di rivoluzione, rimasto incompiuto, ma una lotta nazionale fondata su un compromesso politico. Di qui il graduale formarsi di un senso di insoddisfazione verso l’Italia della Resistenza, sfociato poi, dal 1967 ad oggi nella contestazione giovanile, la quale quindi è stata in primo luogo una crisi di sfiducia nei partiti che si dicevano innovatori o rivoluzionari e in secondo luogo una rivolta contro tutto il sistema dei partiti. I giovani hanno perfettamente ragione: quando polemizzano con la Resistenza, polemizzano con una certa immagine della Resistenza che noi abbiamo dato, un’immagine ambivalente, mitizzata da un lato e, dall’altro apparentemente rivoluzionaria. Se vediamo la Resistenza in questo quadro ci spieghiamo anche perché ha inciso poco nella formazione della coscienza democratica dei giovani. Anna Ascenzi Università degli Studi di Macerata