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Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
E DITORIALE
Pietro Angelo Casati, Mattia Sorgon
Il presente numero di RIFAJ è dedicato alla metafisica. Non abbiamo stabilito a priori
alcun disegno che privilegiasse particolari sottotemi intorno a cui strutturarlo, tuttavia sono accidentalmente emersi alcuni leitmotiv che gli conferiscono, rispetto al tema principale,
ulteriore uniformità, rendendolo particolarmente ricco di rimandi interni.
Per cominciare, un tema ricorrente è quello dei rapporti tra la metafisica analitica e alcuni
grandi filosofi del passato, tra cui Aristotele, Tommaso d’Aquino e Hegel. Enrico Berti, intervistato da Pietro Casati, ha illustrato le relazioni tra filosofia analitica e pensiero aristotelico,
svolgendo peraltro una serie di limpide considerazioni circa i diversi possibili approcci alla
storia della filosofia in generale.
Riguardo alla presenza di Tommaso nel dibattito contemporaneo, Fabio Ceravolo ha invece
recensito To be o esse: La questione dell’essere nel tomismo analitico, di Giovanni Ventimiglia.
Anche l’intervista a Francesco Berto, sempre di Pietro Casati e Fabio Ceravolo, è parzialmente legata al “recupero”, da parte di alcuni filosofi analitici, della dialettica hegeliana.
Una parte altrettanto consistente dell’intervista è dedicata a più recenti interessi di Berto, in
particolare metafisica modale e oggetti inesistenti.
Un secondo motivo presente diffusamente in questo numero è l’interesse che abbiamo
rivolto ad alcune iniziative condotte da giovani studenti, dottorandi o ricercatori, sia in Italia
che all’estero. Leda Berio ha intervistato Paolo Valore, coordinatore nazionale del progetto
di ricerca OntoForMat1 , che si propone l’elaborazione di un vero e proprio sistema sinottico
che individui fondamenti teorici e paradigmi classici all’interno dell’ontologia allo scopo di
sistematizzare le relazioni fra le posizioni correnti.
Mattia Sorgon, invece, ha intervistato il Forum Theoretical Philosophy2 , un “canale” di
ricerca per giovani accademici che ha organizzato, negli ultimi anni, una serie di eventi molto
interessanti, fra cui, la scorsa estate, una summer school che ha incluso delle lezioni di Kit
Fine, Peter van Inwagen, Peter Simons e Gabriele De Anna.
Sempre a proposito di iniziative condotte da studenti, ci fa piacere pubblicare in questa
sede la recensione del testo di Peter Zachar, A Metaphysics of Psychopathology, scritta da
1 Vedi
2 Vedi
http://www.ontoformat.com/.
http://theoretical-philosophy.net/.
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CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Pietro Angelo Casati, Mattia Sorgon. Pubblicato in
Italia. Alcuni diritti riservati.
A UTORI. Pietro Angelo Casati. [email protected]. Mattia Sorgon.
[email protected].
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:1 (2014)
ii
Lovro Savić, caporedattore di Scopus3 , una rivista studentesca di filosofia.
Merita un discorso a parte l’Ex-Cathedra di Achille Varzi e Claudio Calosi, a cui va la
nostra immensa gratitudine per averci gentilmente concesso la pubblicazione in questa sede
di un frammento inedito delle Tribolazioni del filosofare. Tale frammento, De li accidiosi che
sono avversi al possibile, dovrebbe, secondo le indicazioni dei curatori, contribuire a chiarificare la metafisica modale dell’anonimo autore della Comedia Metaphysica, di cui è possibile
leggere sul presente numero la recensione di Stefano Canali.
Anche la sezione Report è in linea con il tema del numero. Mattia Sorgon e Matteo Grasso
(che ringraziamo per la sua disponibilità), hanno assistito per noi al workshop in memoria di
E.J. Lowe (1950-2014), scomparso prematuramente lo scorso gennaio, tenutosi il 3 marzo a
Macerata.
Matilde Aliffi e Martina Rosola hanno invece partecipato alla seconda edizione del GRSelona, una conferenza su gender studies, sessualità e razza, tenutasi a il 29-30 maggio a
Barcellona.
Venendo alla sezione più importante, gli articoli che per questo numero hanno superato
positivamente la procedura di peer review sono quattro: What is the Nature of Properties,
di Lorenzo Azzano; On the relationship between Four-Dimensionalism and Perdurance, di
Michele Luchetti; L’identità diacronica fra ontologia e metafisica, di Francesco Franda; infine
Mondi di Wittgenstein. Metaontologia del “Tractatus” e teoria dei truthmakers di Armstrong,
di Simone Cuconato.
Sempre in relazione alla filosofia del “primo” Wittgenstein, si può leggere su questo numero la recensione, a cura di Martina Rovelli, del testo di Giorgio Lando Forme, relazioni,
oggetti. Saggio sulla metafisica del “Tractatus Logico-Philosophicus”.
Vorremmo chiudere questo editoriale con due ultimi brevissimi punti.
Innanzitutto vorremmo ringraziare i partecipanti al Workshop on Metaphysics4 e il LabOnt Roma5 , senza cui non sarebbe stato possibile organizzare l’evento, che si è svolto nel
migliore dei modi il 26 giugno a Roma.
Infine, vorremmo semplicemente condividere con i nostri lettori la soddisfazione per il
crescente “bilinguismo” dei contributi su RIFAJ, grazie a cui speriamo di rendere la Rivista
maggiormente accessibile anche al di fuori dell’Italia.
3 Vedi hrcak.srce.hr/scopus?lang=en. Rivista studentesca di filosofia fondata nel 1996 da un gruppo di studenti
presso l’Università di Zagabria.
4 Vedi http://metaphysicsworkshop.wordpress.com/.
5 Vedi http://labont.it/roma.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
I NTERVISTA A F RANCESCO B ERTO
Pietro Angelo Casati, Fabio Ceravolo
P RESENTAZIONE. Francesco ‘Franz’ Berto è professore di filosofia all’università
di Amsterdam. Oggi è un appassionato metafisico e un avventuroso esploratore
delle logiche devianti, ma ha cominciato studiando la dialettica hegeliana sotto la
guida di Emanuele Severino a Venezia. In quegli anni ha pubblicato La dialettica della struttura originaria (2003) e Che cos’è la dialettica hegeliana? (2005).
Durante il suo postdoc a Padova e, successivamente, a Parigi, ha vinto il premio
Castiglioncello per il suo Teorie dell’assurdo (2007). Più tardi, e fino al 2014, è
stato senior lecturer alla University of Aberdeen, partecipando al progetto di Crispin Wright sui fondamenti metafisici della logica e lavorando con Graham Priest
sulla semantica paraconsistente, i mondi impossibili e il dialeteismo. Il risultato è
L’esistenza non è logica (2010). Fra gli student italiani, Berto è ben conosciuto per
i suoi due manuali sulla logica del prim’ordine [Logica da zero a Gödel, 2007] e sui
teoremi di incompletezza di Gödel [Tutti pazzi per Gödel: La guida completa al teorema di incompletezza, 2008], editi da Laterza. Nell’introduzione a quest’ultimo e
in una precedente intervista ha dichiarato che ha scritto entrambi i libri principalmente per pagare le bollette. Personalmente, siamo orgogliosi di aver contribuito
a tale impresa. In quanto segue, gli rivolgiamo qualche domanda sulla sua concezione degli oggetti inesistenti e gli chiediamo di raccontarci le sue “impressioni
impressionistiche” sulla ricezione di Hegel nel panorama analitico.
Occupandoti di oggetti inesistenti, logiche non-standard, dialettica hegeliana (persino!), hai dimostrato un approccio molto inconsueto, ma estremamente interessante. Non deve essere semplice lavorare in isolamento rispetto ai dibattiti più
stabili e più seguiti. . . Vi ringrazio per avermi ritenuto interessante!
Allontanarsi dai dibattiti più stabili può essere molto divertente: ci consente di esplorare
percorsi originali in cui meno è dato per scontato.
La così detta filosofia analitica (o filosofia turbo-capitalistica, come la chiamerebbe lo stimato collega Diego Fuffaro – https://www.facebook.com/DiegoFuffa) spesso dà molto per scontato. I filosofi analitici se la prendono comoda, lavorando all’interno di paradigmi standard
senza sollevare domande troppo radicali, potremmo dire con spirito kuhniano, fino a che i
paradigmi stessi entrano in fase di crisi.
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BY:
C OPYRIGHT. 2014 Pietro Angelo Casati, Fabio Ceravolo. Pubblicato in
Italia. Alcuni diritti riservati.
A UTORI. Pietro Angelo Casati. [email protected]. Fabio Ceravolo.
[email protected].
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Qualcosa di questo genere succede al giorno d’oggi in ontologia – più precisamente in
meta-ontologia: la metodologia dell’ontologia. Il paradigma quineano degli anni quaranta è
stato dato per assodato per lungo tempo: l’impegno ontologico è espresso dal quantificatore
(“Essere è essere il valore di una variabile” era proprio uno dei motti retorici di Quine). E il
compito dell’ontologia è quello di scrivere l’inventario completo del mondo – di tutto ciò che
c’è. L’ontologia dice il vero nella misura in cui non include alcunché di non esistente e non
lascia fuori nulla di esistente. Punto e basta.
D’altro canto, l’ontologia del 21esimo secolo è caratterizzata dalle reazioni rivolte contro
tale paradigma: teorici del “grounding” come Kit Fine, Jonathan Schaffer e Fabrice Correia,
neo-meinongiani come Graham Priest, finzionalisti come Stephen Yablo e Hartry Field, teorici della variazione del quantificatore come Eli Hirch, e pluralisti ontologici come Jason Turner
e Kris McDaniel: tutti sostengono che ci sia qualcosa di seriamente sbagliato nell’impianto
quineano, e propongono di riformarlo in modi diversi, se non persino di rigettarlo. Niente
di tutto ciò sarebbe accaduto se questi ragazzi non avessero sentito il bisogno di camminare
lontani dal sentiero tracciato.
Ne L’esistenza non è logica scrivi: “È grazie alla creatività di Doyle in quanto
scrittore di fantasia che Holmes è ora disponibile nel dominio del mondo attuale”
(p. 288). La “fantasia” è alla base del principio di caratterizzazione (UCP), secondo
cui ad ogni combinazione di proprietà corrisponde un oggetto. Ma il principio è
proprio così esteso? Per esempio, Doyle potrebbe addirittura scrivere una storia
sulle avventure del quadrato rotondo nel mondo attuale, o commetterebbe forse in
tal modo un errore modale? Certo, e senza errore modale. Ecco il perché.
Per prima cosa, il vostro “ad ogni combinazione di proprietà corrisponde un oggetto” è una
formulazione del così detto principio ingenuo di comprensione illimitato.
(UCP) Ogni condizione A[x] è soddisfatta da qualcosa.
Questo principio viene meno molto facilmente, perché implica delle trivialità. Sia A[x]:
‘x = x & B’. Per UCP, qualcosa – per esempio, o, soddisfa A[x]. Perciò: o = o & B. Eliminando
la congiunzione: B. Ma B era arbitrario. Quindi si può usare UCP per derivare a piacimento
qualsiasi conclusione.
D’altro canto, nessuno ha mai sottoscritto UCP – nemmeno Meinong. Invece, quello che sostiene il meinongianismo modale (MM), la teoria difesa da me e Graham Priest, è un principio
di comprensione condizionato.
(QCP) Ogni condizione A[x] è soddisfatta da qualche oggetto in qualche mondo.
“Mondo” qui indica ogni situazione o stato di cose, compresi stati di cose che non potrebbero
accadere, vale a dire situazioni impossibili.
Ora, che qualcosa sia quadrato e rotondo è di sicuro una situazione impossibile: il mondo
attuale non potrebbe essere tale. Ma supponiamo che Doyle scriva di un quadrato rotondo
attuale, cioè, di qualcosa che viene caratterizzato da lui come quadrato e rotondo nel mondo
attuale @. Cosa può dire MM a proposito?
La risposta è abbastanza facile: quando si introducono nella semantica modi in cui il mondo non può essere, cioè, i così detti mondi impossibili (vedi: http://plato.stanford.edu/entries/impossibleworlds), non ci si può aspettare che gli operatori modali funzionino uniformemente in tutti I
mondi. E “attualmente” è un operatore di questo tipo. Le condizioni di verità e falsità dell’operatore di attualità sono date alle pagg. 175-6 de L’esistenza non è logica (ENL). Se w è un
mondo possibile
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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‘Attualmente A’ è vero in w sse A è vero in @.
‘Attualmente A’ è falso in w sse A è falso in @.
Se A è falso in @, allora ‘Attualmente A’ non è una verità necessaria. Ma quando w è un
mondo impossibile, A può essere vera in w anche se A non è vera in @. Così, dato A[x] =
‘attualmente, x è un quadrato rotondo’, abbiamo ancora, come per il QCP, che qualcosa ha, in
qualche mondo, la proprietà di essere un quadrato rotondo in @. Ma ciò non ci dà nulla che sia
un quadrato rotondo attuale, poiché il mondo preso in considerazione è non-normale, in cui le
condizioni di verità intuitive non hanno valore. La motivazione è ovvia: potete immaginare
che i vostri sogni impossibili siano realizzati attualmente, ma ciò non li rende affatto reali.
Quello che produce la vostra immaginazione è solamente qualcosa che viene rappresentato
così-e-così-in-@, ma niente è, in @, davvero così-e-così.
La semantica modale proposta da te e da Graham Priest (2005) è a designazione
rigida (gli operatori di denotazione non hanno indici che si riferiscono a mondi).
Allo stesso tempo, il PCQ permette agli oggetti a cui ci riferiamo di essere accompagnati da qualsiasi combinazione di proprietà, ‘naturalmente’ anche inconsistente.
Sembra esserci almeno una proprietà, tuttavia, tale che, se designazione rigida e
PCQ sono validi, non può essere istanziata in nessun mondo. È la non auto-identità:
λx(x 6= x). È giusto dire che non si può dare un mondo in cui Holmes non sia identico a se stesso, pena abbandonare la designazione rigida? E se sì, la designazione
rigida rende valida la necessità dell’auto-identità, almeno nel senso che non vi è alcun mondo in cui essa non vale – anche se vi sono mondi in cui essa vale in aggiunta
alla sua negazione? Sì, MM è perfettamente compatibile con la necessità dell’identità: assegnate semplicemente a “=” la stessa estensione/anti-estensione in tutti i mondi possibili.
Questo vi dà che se a = b, allora ‘a = b’ è vero in tutti i mondi possibili.
Per quanto riguarda invece la designazione rigida e il kripkeanesimo da manuale che
avete ripassato, che ci siano dei modi in cui il mondo non può essere, per esempio in cui
qualcosa non è identico a se stesso, non interagisce in alcun modo con la designazione rigida.
Ecco la mia ultima invenzione logica:
“Nonsy non era identico a se stesso e questo lo rendeva molto infelice: aveva avuto
diversi lavori e molte esperienze, aveva incontrato moltissime persone, e ciò nonostante non poteva trovare la sua identità: “Chi sono io?” – continuava a domandarsi. Per fortuna, un giorno Nonsy divenne amico di Selfy, una ragazza identica
a se stessa e generosa. . . ”
. . . e così via. Secondo MM, in questa storia ‘Nonsy’ si riferisce a Nonsy. Certamente, Nonsy
non esiste davvero – è solamente un personaggio di fantasia inventato da me. Nel mondo
attuale, tuttavia, Nonsy è perfettamente identico a se stesso: Nonsy è semplicemente Nonsy,
e nessun altro: in nessun modo in cui il mondo potrebbe essere vi è qualcosa che non è identico
a sé stesso.
Che ‘Nonsy’ è un designatore rigido significa semplicemente che si riferisce a quel tipo,
Nonsy, anche in situazioni controfattuali in cui egli ha proprietà che non ha attualmente.
Possiamo chiederci, per esempio, cosa farebbe Nonsy se dovesse innamorarsi di Selfy. Non
è attualmente vero che Nonsy è inammorato di Selfy (egli non esiste, ricordate? Gli oggetti
inesistenti non possono innamorarsi). Eppure ci riferiamo a Nonsy quando usiamo ‘Nonsy’
per descrivere le situazioni controfattuali che stiamo contemplando.
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Ora, dati i mondi non-normali, alcune situazioni controfattuali sono anche contropossibili:
situazioni in cui Nonsy ha proprietà che non potrebbe avere. λx(x 6= x) è proprio una di queste
proprietà. La storiella di Kripke è valida: per prima cosa fissiamo il riferimento di ‘Nonsy’
nel mondo attuale. Poi manteniamo il riferimento fisso attraverso circostanze non attuali,
comprese circostanze che non potrebbero accadere, alias mondi impossibili. Kripke ha detto
che dobbiamo mantenere il nostro linguaggio costante attraverso mondi alternativi. E aveva
ragione, ovviamente. Non c’è alcuna incompatibilità tra cose che non sono identiche a se
stesse in qualche circostanza impossibile, e la designazione rigida.
È un altro problema, invece, quello di fissare effettivamente il riferimento di ‘Nonsy’, e a
dirla tutta, per me è il problema più serio per MM. Si chiama problema della selezione: ho
provato a discuterlo nell’ultimo capitolo di (ENL) e altrove, ma è un problema difficoltoso e
tutte le varie congetture a riguardo sono ancora aperte.
Ok, ci è chiaro che hai deciso di trattare la designazione rigida ‘solo’ come una
condizione semantica e che questo ti permette di riferirti a Nonsy in ogni dominio
di un mondo in cui questo (a) è incluso. Ma la nostra testardaggine kripkiana un
po’ naïve (e anche una buona dose di Putnam for dummies, come avrai certo inteso) ci suggerisce che solo a condizione di ammettere la necessità dell’auto-identità
puoi ammettere la designazione, e che le due cose sono connesse in qualche modo
- presumibilmente l’una fungendo da condizione necessaria per l’altra. Dopotutto, quando battezzi Nonsy nel mondo attuale (supponendo che tu possa farlo), stai
battezzando qualcosa che è necessariamente identico a se stesso. Data questa relazione, non sembra possibile riferirsi a lui (lei?) in contesti in cui proprio Nonsy
non è la stessa cosa che Nonsy – otterresti davvero il riferimento? Che Nonsy debba
essere identico a se stesso in ogni mondo, e che suona invece strano pronunciare
verità su un Nonsy non identico a se stesso sono, almeno, intuizioni non semantiche abbastanza potenti. . . Penso che fraintendiate: (a) il riferirsi in @ a qualcosa che, nel
mondo w 6= @, è così e così, e (b): riferirsi in w a qualcosa che, in w, è così e così.
Potrebbe anche essere che, in un mondo w fra quelli più vicini in cui Nonsy non è identico
a se stesso (“nei contesti in cui proprio Nonsy non è identico a se stesso”, come dite voi) non
possiamo riferirci a lui, per esempio perché continuiamo a riferirci a qualcos’altro (!) o persino
a nulla.
Questo è un caso di tipo (b) e come tale non è un nostro problema qui in @. Noi trattiamo
dei casi di tipo (a): possiamo riferirci a Nonsy in @ (l’ho appena fatto, in quanto egli è perfettamente identico a se stesso qui. Possiamo poi descrivere uno scenario controfattuale, w,
in cui Nonsy non è identico a se stesso (l’ho fatto sopra). Che avremmo problemi a riferirci a
un tale oggetto non identico a se stesso in uno scenario contropossibile dove effettivamente
esistono cose del genere non influenza il modo in cui ci riferiamo ad esse attualmente, che
viene poi rappresentato come non identico a se stesso in una fantasia logica.
Nella metafisica modale del meinongianismo sembra mancare una componente importante: le proprietà essenziali. In particolare, la tua semantica combina designazione rigida e PCQ, da cui si può derivare che ogni oggetto può cambiare radicalmente tutte le sue proprietà, persino perdere l’auto-identità, pur ‘rimanendo’
lo stesso oggetto a cui ci riferiamo nel mondo attuale. Dietro questa omissione si
nasconde una forma di deflazionismo sulle proprietà essenziali? E se sì, come può
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accordarsi con la designazione rigida? Fortunatamente, MM è perfettamente neutrale
rispetto all’essenzialismo.
MM ammette mondi in cui, per esempio, Socrate è un iPhone 6. Agli essenzialisti potrebbe
non piacere. Ma non avrebbero ragione di protestare, poiché la semantica di MM include
mondi non-normali, che sono modi in cui le cose non potrebbero essere.
E la teoria non obbliga a prendere in considerazione mondi in cui è effettivamente possibile che Socrate sia un iPhone 6.
Fate finta per un momento di essere essenzialisti e di volere che Socrate sia necessariamente umano. Vi basta imporre a (-lla controparte linguistica di) “è umano” la condizione che
qualsiasi cosa lo renda attualmente vero, lo renderà vero anche per ogni mondo possibile (in
cui il suo argomento esiste). Così egualmente Socrate, essendo umano, sarà anche umano in
tutti i mondi possibili: le situazioni in cui Socrate è uno smartphone saranno eliminate dal
dominio delle possibilità.
Se, al contrario, siete anti-essenzialisti e non volete che Socrate sia essenzialmente umano,
vi basta evitare di imporre tale condizione. MM può rendervi la vita facile in ogni caso.
Possiamo concepire Socrate come un nuovo iPhone 6 nero e patinato, anche se la supposizione dell’essenzialista che questo non è uno scenario possibile è corretta? Io penso di sì, ma
questo problema, avendo a che fare con le connessioni fra concepibilità e possibilità, è molto
intricato, e non vorrei entrare nei dettagli durante la nostra chiaccherata.
Grazie. Ci perdonerai se ora cambieremo un po’ il tema delle domande. Nella discussione precedente è emerso diffusamente il problema della contraddizione e
spesso lo strumento di cui ti sei servito per affrontarlo è stato quello delle logiche
paraconsistenti. In passato, però, ti sei occupato anche di dialettica. Quale differenza c’è fra le due? In generale, che relazione c’è fra dialettica e logica formale?
L’interesse per la dialettica continua ad avere un influsso, magari subliminale, sulle tue ricerche attuali, oppure si tratta di un capitolo chiuso? “Dialettica” significa
moltissime cose. Se ciò che avete in mente è la dialettica di Hegel (o il metodo dialettico di
Hegel, o cose del genere) – la relazione fra essa e la logica formale è estremamente complicata.
Negli anni sessanta e settanta, quanto l’interesse per Marx e Hegel era molto acceso, diversi filosofi provarono a “formalizzare” la dialettica di Hegel (esiste una fantastica antologia
su questo tema, La formalizzazione della dialettica, curata da uno dei miei eroi filosofici:
Diego Marconi).
Alcune delle formalizzazioni in esso contenute usavano la logica paraconsistente. L’idea
generale era che siccome Hegel credeva che ci fossero contraddizioni vere e considerava queste essenziali per il suo “metodo dialettico”, la logica paraconsistente sarebbe per noi la soluzione migliore per rendere intellegibili le sue convinzioni. Infatti, ogni logica non paraconsistente, data la verità degli enunciati contradditori, permette di inferire che ogni enunciato è
vero – e Hegel di certo non sarà potuto essere così stupido.
Tuttavia, anche il fatto che la dialettica di Hegel richieda che vi siano enunciati contradditori veri è discusso: Bob Brandom, Diego Marconi, Emanuele Severino, Pirmin StekelerWeithofer e altri, lo hanno negato. Se dovessero avere ragione, non si vedrebbe più la ragione per cui adottare la logica paraconsistente come mezzo per rendere la dialettica di Hegel
intellegibile.
Per quanto riguarda il mio interesse di ricerca per Hegel, ogni tanto vorrei tornare a
coltivarlo, se non fosse che ho davvero poco tempo a disposizione. Beh, solo il futuro saprà
dare una risposta.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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Introducendo Empirismo e Filosofia della Mente di Wilfrid Sellars, Richard Rorty sostiene che con quest’ultimo, insieme a Quine, il secondo Wittgenstein, e poi
Brandom e McDowell vi sia stata una transizione della filosofia analitica da una
fase empirista ad una kantiana e infine ad un approdo hegeliano. In questa svolta,
tu sei andato contromano, partendo da Hegel e arrivando alla metafisica analitica. Data la prospettiva storica di larghe vedute proposta da Rorty, in che cosa
consisterebbe l’originalità della filosofia analitica nel ripercorrimento delle stesse
tappe? Ah, la sociologia della filosofia è una materia difficile! Bene, ecco qui le mie impressioni impressioniste, formate dalla mia esperienza personale e non supportate da alcun dato
statistico.
Dopo essere stata invocata per alcuni anni in seno alla filosofia analitica dei paesi anglosassoni, mi pare che in fin dei conti la transizione immaginata da Rorty non sia avvenuta.
Il secondo Wittgenstein è sempre meno popolare in campo analitico e i suoi principali sostenitori oggigiorno sono perlopiù suoi interpreti piuttosto che filosofi sistematici e parlano
esclusivamente l’uno all’altro.
Per quanto riguarda Brandom e McDowell, nonostante il loro lavoro abbia avuto una certa
incidenza sui così detti filosofi continentali e su alcuni analitici piuttosto strambi, dire che vi
sia stata un’influenza positiva in campo analitico è piuttosto controverso. Alcuni dei migliori
filosofi analitici – come Tim Williamson o il mio ex-capo ai tempi della Scozia, Crispin Wright
– si sono confrontati con il loro lavoro, ma con esiti estremamente critici e sempre con l’intento
di screditarlo.
Capisco perché Rorty abbia potuto desiderare che la filosofia analitica seguisse un sentiero
che passa da Kant, attraverso Hegel, fino a giungere al pensiero post-hegeliano e relativista.
Ma niente di tutto ciò sembra accadere. Ecco cosa sta realmente accadendo, secondo Tim
Williamson in The Philosophy of Philosophy (2007). Egli parla dei:
[. . . ] risultati più animati, esatti e crativi dell’ultimo terzo del [ventesimo] secolo:
il revival del teorizzare metafisico, realista nello spirito, spesso speculativo, qualche volta basato sul senso comune, associato a Saul Kripke David Lewis, Kit Fine,
Peter van Inwagen, David Armstrong, e molti altri [. . . ].
Secondo gli schemi narrativi tradizionali della storia della filosofia, quest’attività deve essere vista come un ritorno alla metafisica pre-Kantiana: non dovrebbe
accadere – ma sta accadendo. (p. 19)1
Il mio cammino nella direzione non-rortiana è stato puramente accidentale: sono nato come
continentale e ho appreso moltissima storia della filosofia. Ho scoperto la filosofia analitica
tardi, ma mi sono divertito moltissimo con essa, con la filosofia continentale, con tutto ciò che
sta nel mezzo e anche con tutta la filosofia che ho fatto e che non saprei come etichettare.
Mentre nel mondo anglosassone si è assistito ad un crescente interesse verso il
pensiero hegeliano, nell’introduzione al tuo Che cos’è la dialettica hegeliana? fai
notare en passant che la comunità analitica italiana continua a trascurare Hegel
come “un autore che ci guadagna a non esser letto”. Che spiegazione dai a questo
disinteresse? Suppongo che vi riferiate alla comunità di filosofi italiani che si considerano
filosofi analitici. Penso che ciò sia avvenuto perché la famigerata distinzione tra analitici
e continentali è percepita in modo più acuto nei paesi di robusta tradizione contintentale.
1 Traduzione
nostra.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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Ho avuto modo di trovarmi in una situazione per certi aspetti simile quando lavoravo all’
Ecole Normale Supérieure di Parigi. Potete immaginare questi poveri analitici italiani degli
anni settanta e ottanta, mentre cercano di instaurare una comunità di ricerca circondati da
neo-idealisti, hegeliani, aspiranti heideggeriani, postmodernisti, e via dicendo.
Non che i filosofi analitici nel Regno Unito o negli Stati Uniti dedichino ad Hegel moltissimo tempo, s’intenda. Ma di certo non hanno avuto alcuna controparte continentale predominante (né nei dipartimenti di filosofia né generalmente nel loro contesto culturale) che
richiedesse una reazione culturale.
Il primo filosofo di cui ti sei occupato, quando eri ancora studente, è stato Emanuele Severino, di cui ti sei spesso dichiarato in qualche modo debitore. È possibile
considerare la sua dialettica come un’evoluzione di quella hegeliana? Trovi auspicabile una ricezione del suo pensiero da parte della tradizione analitica, analoga
a quella del pensiero di Hegel? Direi che ci sono diversi aspetti comuni fra il modo in
cui intendo la dialettica di Hegel e una concezione che Severino stesso chiama “dialettica” in
alcuni capitoli di quello che ritengo essere il suo libro più bello, La struttura originaria. Non
sono sicuro che si tratti di “un’evoluzione”, poiché questa parola può voler dire troppe cose.
Certamente, però, la dialettica di Severino mi ha aiutato a capire quella di Hegel. Non credo
che ci sarà alcuna “ricezione” analitica del pensiero di Severino, cosa che è dovuta a diversi
fattori. In primo luogo, le sue opere sono accessibili solo ai lettori italiani e la lingua italiana,
sfortunatamente, non ha molta importanza dal punto di vista della ricerca internazionale di
massimo livello. Un altro fattore riguarda il fatto che Severino stesso si mostra di solito riluttante non appena qualcuno prova a proporre punti di contatto tra il suo pensiero e quello
di qualcun altro, un comportamento che ha a che vedere sia con la sua filosofia, sia con il suo
carattere. È un peccato, ma non credo di poter fare molto a riguardo. Per consolarvi, considerate che molti giovani filosofi analitici hanno studiato a Venezia, inizialmente a contatto
con Severino, e ancor oggi ammirano il suo lavoro, perseguendo carriere brillanti di profilo
internazionale: mi riferisco a persone come Elia Zardini, Roberto Loss, Matteo Plebani, e
altri.
Ultima domanda: possiamo sapere a che punto sono l’Esistenza non è logica II e
il libro che desideri scrivere su Wittgenstein, se esiste/esisterà nel mondo attuale?
Ha! Se L’esistenza non è logica II rimarrà un possibile inattualizzato o no dipende dal mio
trovare il tempo per rimettermi al lavoro su quel tema. Al momento, non saprei dire. Sapete
ciò che disse una volta Iris Murdoch? Nessun libro di filosofia è mai davvero finito: solo
abbandonato.
Non sono sicuro di aver mai indicato il desiderio di scrivere un libro su Wittgenstein (forse
l’ho fatto una volta, ma non ricordo). Se lo farò, spero di riuscire a seguire la raccomandazione
dello stesso Wittgenstein, almeno secondo gli scritti commemorativi di Malcolm: spero che sia
un libro di filosofia interamente composto di scherzi.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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Riferimenti bibliografici
Berto, F. (2005). Che cos’è la dialettica hegeliana? Il Poligrafo.
— (2010). L’esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili. Laterza.
expanded eng. ed., Existence as a Real Property, 2013, Synthèse Library, Springer.
Priest, G. (2005). Towards Non-Being: The Logic and Metaphysics of Intentionality. Oxford
University Press.
Sellars, W. (1956/1997). Empiricism and the Philosophy of Mind: with an Introduction by
Richard Rorty and a Study Guide by Robert Brandom. A cura di Robert Brandom. Harvard
University Press.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
I NTERVISTA : O NTO F OR M AT
Classical Paradigms and Theoretical Foundations in Contemporary
Research in Formal and Material Ontology
Leda Berio
P RESENTAZIONE. OntoForMat è un progetto di ricerca che coinvolge l’Università
degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di Perugia e l’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano e che si propone di dare un contributo innovativo al
panorama della ricerca nell’ambito dell’Ontologia. Il progetto è stato finanziato
da Futuro in Ricerca, un programma del Ministero dell’Istruzione, dell’Università
e della Ricerca, che si prepone di incoraggiare il ricambio generazionale all’interno degli atenei e degli enti pubblici italiani attraverso il finanziamento di progetti
portati avanti da giovani ricercatori. L’idea è dunque quella di promuovere la ricerca tra gli studiosi al di sotto dei quarant’anni in modo da permettere un contributo
più attivo all’interno del panorama europeo1 .
OntoForMat si colloca in questa prospettiva coinvolgendo dieci giovani accademici
di tre importanti università in un progetto che ha come scopo la rielaborazione di
un quadro sinottico coinvolgente le diverse questioni, teorie e posizioni interne all’Ontologia, finalizzato ad un avanzamento teorico all’interno della disciplina. Le
tre unità di ricerca coinvolte, afferenti alle tre università, hanno come coordinatori il Professor Paolo Valore, per l’Università degli Studi di Milano, il Professor
Francesco Calemi, per l’Università degli Studi di Perugia, e il Professor Lorenzo
Fossati per l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Coinvolti nel progetto sono i
ricercatori Ciro De Florio, Aldo Frigerio, Alessandro Giordani, Paolo Gomarasca e
Antonio Allegra e le assegniste di ricerca Giuliana Mancuso e Daria Mingardo.
Il progetto si articola attraverso la creazione di una “geografia delle posizioni” che
cataloga le proposte teoriche nel dibattito, mettendole in relazione e confrontandole per elaborare un quadro d’insieme. La ricerca si muove su tre piani fondamentali: quello della meta-ontologia, quello dell’ontologia formale e quello dell’ontologia
materiale.
All’interno di questa triplice prospettiva, sono stati individuati sette nodi teorici fondamentali: individui e proprietà, stati di cose, modalità e mondi possibili,
eventi e causalità, oggetti matematici, oggetti morali e meta-ontologia.
1 Per
maggiori informazioni http://futuroinricerca.miur.it/index.html.
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BY:
C OPYRIGHT. 2014 Leda Berio. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti riservati.
A UTORE. Leda Berio. [email protected].
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
L’analisi verte dunque sui grandi dibattiti che caratterizzano l’Ontologia definendo le posizioni chiave all’interno del confronto filosofico che riguarda i temi trattati (nominalismo e realismo, costruttivismo, atomismo logico etc). Un’importante
peculiarità del progetto è, tuttavia, l’approccio con il quale questi temi vengono
affrontati. Nel trattare il problema degli individui e delle proprietà, ad esempio, i
ricercatori si pongono l’obiettivo di valutare le diverse proposte teoriche dal punto
di vista dell’ontologia formale nel suo complesso, assumendo inoltre la prospettiva
secondo la quale una proposta in ontologia formale deve essere necessariamente
messa in relazione con i domini specifici delle ontologie materiali: di conseguenza,
ci si pone l’obiettivo di “testare” le varie soluzioni in contesti oggettuali. Centrali
nell’analisi del problema degli stati di cose, invece, sono l’analisi e lo studio dei
due approcci che caratterizzano il dibattito: da una parte quello fenomenologico
caratteristico del primo Husserl, di Meinong e di Reinach, dall’altro l’atomismo
logico sulla scia di Russell e Wittgenstein. La ricerca tenta quindi un superamento della dicotomia per un’interazione delle due diverse prospettive, con lo scopo di
ricavarne conclusioni utili alla definizione del dibattito più generale.
Per quanto riguarda la modalità, le posizioni realiste, realiste modali e anti-realiste
verranno trattate previa elaborazione di una semantica modale unificata: questo
permetterà un confronto tra le diverse visioni spesso impedito dalla diversità dei
sistemi linguistici e formali utilizzati dai singoli autori. Seguendo lo stesso principio di semplificazione e creazione di una prospettiva più comprensiva che permetta
il confronto delle diverse posizioni, la problematica della causalità vede nel progetto l’impiego di una metodologia unitaria che si richiama ai modelli strutturali di
Pearl, Halpern e Hitchcok e che ha come primo stadio la sistematizzazione delle
posizioni principali all’interno del dibattito corrente. Uno degli obiettivi è, inoltre,
quello di una descrizione omogenea dei diversi modelli causali deterministici. Allo stesso modo, nel trattare l’ontologia degli oggetti matematici, ci si prepone di
rintracciare le principali posizioni nel dibattito attuale e i loro presupposti teorici, inquadrando successivamente l’ontologia della matematica in un contesto più
ampio.
La trattazione della questione metaetica della considerazione ontologica degli oggetti morali prevede, nel progetto, una valutazione dei vantaggi e degli svantaggi
delle principali posizioni, realista e antirealista, e una chiarificazione dei modelli classici a cui è possibile fare riferimento. Inoltre, particolare attenzione viene
riservata alla possibilità di un’epistemologia della conoscenza morale.
Infine, i ricercatori hanno l’obiettivo di porre rimedio alla mancanza di una sintesi
critica del dibattito meta-ontologico, con particolare attenzione al contrasto tra
fondazionalismo e quantificazionismo come termini di riferimento e con uno studio
approfondito dell’origine storica e teoretica di queste posizioni.
Il lavoro è dunque improntato sull’individuazione dei fondamenti teorici del dibattito e su una ricostruzione e analisi comparata delle posizioni declinate in tutti e
sette i nuclei teorici principali. I risultati attesi comprendono una chiarificazione
delle relazioni di consistenza e inconsistenza delle assunzioni teoriche e della loro
giustificazione, oltre che l’individuazione di nuove prospettive di ricerca scaturenti
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dall’analisi.
RIFAJ ha intervistato per voi il coordinatore nazionale di OntoForMat, Paolo Valore, a proposito delle prerogative e degli intenti di questo imponente progetto che
coinvolge ricercatori in Logica, Metaetica, Filosofia della Scienza, Metafisica, Ontologia, Filosofia del Linguaggio, Teologia e Storia della Filosofia. Riportiamo qui
il suo intervento e le sue considerazioni.
L’idea del progetto è quella di individuare fondamenti teorici e paradigmi classici all’interno dell’Ontologia, partendo dalla considerazione che mancano sistemi sinottici veri e propri
che connettano le diverse possibilità filosofiche con le loro implicazioni in svariati ambiti di
indagine e che sistematizzino le relazioni tra le posizioni correnti. Il dibattito è ricco e variegato: la seconda parte del ventesimo secolo ha visto un deciso rinnovarsi nell’interesse
della filosofia per le tematiche ontologiche, il che ha portato ad un proliferare di posizioni e
ad un’incredibile ricchezza della discussione. L’idea, dunque, non è quella di “completare” il
dibattito contemporaneo, o comunque non solo: quello che ci poniamo invece è un obiettivo di
interesse teorico. A caratterizzare l’evoluzione del dibattito filosofico è stata, infatti, una certa
specializzazione, una tendenza sempre più settoriale che ha portato gli studiosi a considerare
problemi molto specifici riguardanti sotto-ambiti circoscritti: questa è, chiaramente, una necessità dettata dalla crescente ampiezza delle nozioni richieste e dall’espansione delle nostre
conoscenze negli ambiti relativi al nostro campo di ricerca. Tuttavia questa specializzazione
ha in parte portato ad una parcellizzazione del dibattito; se da una parte il concentrarsi su
un’area specifica conosciuta approfonditamente è un segno di professionalità, dall’altra è forse importante chiedersi se non occorra uno sguardo di insieme sul lavoro che si sta svolgendo.
La domanda che ci siamo posti nel pensare questo progetto è stata proprio “in che misura, alla
luce delle nostre competenze e della nostra formazione, possiamo contribuire a questo quadro?” La risposta a questa domanda ha portato al formarsi di un obiettivo che è allo stesso
tempo più ambizioso e meno ambizioso di quello di produrre una soluzione migliore specifica per un determinato problema o di portare argomenti a favore di una determinata teoria:
l’idea è quella di modificare la prospettiva sul lavoro già svolto. Preponendoci di ricreare un
quadro che riconnetta le posizioni correnti e le integri con quelle che sono state più trascurate nell’evolversi della storia del pensiero, l’obiettivo che ci poniamo è quello di portare un
concreto contributo teorico: e questo passa anche dal chiedersi, ad esempio, se determinate
conclusioni raggiunte in uno specifico ambito di ricerca non siano utili per altri sotto-domini.
Ci sono due problemi che possono essere evidenziati nel dibattito attuale: da una parte,
spesso sono rilevabili delle “duplicità metafisiche” in alcune posizioni, in cui sono incluse
diverse assunzioni ontologiche la cui compatibilità e relazione non è immediata. Ad esempio,
una posizione che concilia gli universali in ontologia della matematica e la teoria dei tropi
in ontologia delle entità concrete deve avere delle assunzioni che vanno approfondite. Ci si
può chiedere, allora, come sono conciliabili le due posizioni e come è possibile tracciare una
relazione tra le conclusioni raggiunte in un determinato ambito e quelle che compaiono in un
altro.
In secondo luogo, la ripresa di posizioni filosofiche di altri periodi storici è spesso rapsodica:
è necessaria invece una sistematica consapevolezza di quanto dibattiti del passato possano
essere utili alla ricerca presente. Un esempio ovvio è quello del dibattito sugli universali
che si è svolto nel Medioevo: questa disputa dalla grande ricchezza dovrebbe forse essere
considerata, più di quanto sia attualmente fatto, come una fonte teorica e non solamente
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storica. Questo è un esempio di come individuare paradigmi classici sia anche considerare
forme argomentative: questa, secondo noi, è una richiesta del dibattito contemporaneo stesso. Basti pensare ad un celebre esempio: in mereologia, al momento, vengono recuperate
argomentazioni aristoteliche.
Connessa a questo discorso c’è un’altra tematica che abbiamo considerato: l’idea, cioè,
che ci siano molte posizioni che non vengono considerate nel dibattito contemporaneo non
per ragioni teoriche, ma per semplici contingenze storiche. Il fatto che Ernst Cassirer sia
per esempio molto apprezzato nel dibattito internazionale ma che molti autori tedeschi del
neocriticismo della Scuola del Baden vengano completamente ignorati è qualcosa che dipende
anche da una contingenza storico-linguistica: Cassirer, trasferitosi negli Stati Uniti, scrisse
anche in inglese, diversamente da molti altri autori. È evidente che, in vicende di questo tipo,
le contingenze della storia e soprattutto l’importanza che la diffusione e l’assunzione di una
determinata lingua come lingua del dibattito filosofico sono determinanti. Allo stesso tempo,
si rischia che queste dinamiche, anche se comprensibili, vadano a minare la qualità e la
ricchezza del dibattito. Una cosa simile si può dire, a mio avviso, della distinzione tra filosofia
analitica e filosofia continentale: quando intesa come una distinzione di metodo, intendendo
la filosofia analitica come scelta a favore di un uso rigoroso all’argomentazione razionale,
ha un determinato valore. Quando porta però, come spesso accade, a tralasciare determinati
autori in quanto non appartenenti alla scuola analitica in senso più stretto, rischia di inficiare
la completezza del dibattito e di portare ad errori di valutazione, e tale fattore deve essere
quindi considerato.
Anche in questo senso, quindi, quello di un’operazione che ha un forte carattere teorico
oltre che storico, abbiamo pensato che le nostre conoscenze in qualità di ricercatori italiani
potessero offrire un contributo determinante, nell’includere determinate posizioni all’interno
di un quadro che, per diversi motivi, le ha tralasciate.
Un altro nodo centrale che si riflette nel progetto è l’idea che si possano rintracciare nel
dibattito dei paradigmi che consentano un dialogo tra ricercatori di diversa “vocazione”: davvero le conclusioni raggiunte da un logico non possono essere utili per uno studioso di metaetica? Questa idea si riflette nella struttura stessa del nostro progetto, che coinvolge persone con
competenze molto diverse che tentano però un lavoro comune. Nonostante il lavoro proceda
tramite una divisione interna, per necessità, il proposito è che tutto venga infine riconciliato.
L’idea è che ci sia la possibilità di chiarire, attraverso il nostro lavoro, i nessi tra questi
ambiti di ricerca. È anche a questo scopo che abbiamo svolto un lavoro preventivo in cui abbiamo individuato i nodi concettuali fondamentali: individui e proprietà, stati di cose, modalità,
eventi e causalità, oggetti matematici, oggetti morali, meta-ontologia. Noi presupponiamo
che lo scopo comune sia, una volta individuati questi nodi e chiariti i nessi tra le diverse
problematiche, rendere il dibattito contemporaneo più comprensibile e allo stesso tempo più
ricco teoricamente, cercando di aggiungere con la nostra analisi anche una componente di
originalità che deriva dalla possibilità di relazione tra diverse teorie e considerazioni.
Tra i risultati del progetto figureranno, per questo motivo, volumi dedicati ad una singola
problematica (ad esempio, gli stati di cose), scritti da studiosi diversi, come un epistemologo
ed uno storico della filosofia. Sempre su questa linea, abbiamo previsto che i seminari siano
aperti al pubblico e i risultati condivisi online tramite la nostra piattaforma: perché i risultati
di questo lavoro siano il più possibile accessibili e massimamente fruibili per contribuire al
dibattito.
Date tutte queste prerogative, infine, la sfida che OntoForMat si pone è quella della possibilità di proporre l’Ontologia come una disciplina con un senso unitario che permetta l’unio-
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ne di diverse competenze ed esperienze filosofiche all’interno di un linguaggio comune che,
mettendo in relazione le diverse discipline operanti in merito e ponendo in luce le possibili
relazioni tra le diverse conclusioni che vengono raggiunte da studiosi di diverse aree, possa
portare un contributo propositivo al quadro attuale.
Tutte le informazioni sul progetto possono essere trovate su www.ontoformat.com.
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CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Sponsored by Società Italiana di Filosofia Analitica
I NTERVIEW WITH THE
“F ORUM T HEORETICAL P HILOSOPHY ”
Mattia Sorgon
I NTRODUCTION. The Forum Theoretical Philosophy1 is a research network for
young academics. It has its origins in the Philosophy Department of the University of Bamberg, Germany where it was founded in 2010 by philosophy graduate
students. In the last four years the group has organized various philosophical
events, all focused on MA and PhD students. Among these, the two Bamberg International Summer Schools in Theoretical Philosophy organized in summers 2012
and 2014 are certainly the most important activities that characterize the Forum
as one of the most interesting, enterprising and fruitful European student organizations.
Dear Forum, would you kindly introduce yourself? We are Sebastian Krebs, Vanessa
Starke, Thimo Heisenberg and Simon Baumgartner. The four of us represent the board of
the Forum, and all of us work in different areas in philosophy (and also in different places
scattered around the globe). When we founded our research network, we wanted to reduce
our interests to the least common denominator, and figured out that all of us mainly work in
Theoretical Philosophy in its broadest definition. This includes such diverse fields as philosophy of psychology, philosophy of history, philosophy of language, logic, epistemology, and, of
course, metaphysics! All of us share an interest both in the continental and the analytic tradition of thinking – and we think these two “cultures” are way more intertwined than many
philosophers might think. The idea of the Forum is to strengthen exchange between graduate
students in the field across institutional and national boundaries. In pursuit of this aim, we
have organized numerous philosophical workshops.
What inspiration has led you to found a research network? Everything started when
we were advanced undergrads, and (as probably all philosophy students do at a certain point
in their life) puzzled our brains over Kant’s Critique of Pure Reason. We spontaneously decided to start a reading group, and we invited friends and colleagues from different universities to join in. This way, our first workshop was born, taking place in Winter 2010. It was
1 http://theoretical-philosophy.net/.
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BY:
C OPYRIGHT. 2014 Mattia Sorgon. Published in Italy. Some rights reserved.
A UTHOR. Mattia Sorgon. [email protected].
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really productive, and we decided to continue our workshop series. The idea to name ourselves Forum Theoretical Philosophy came later, when in early summer 2010, our academic
teachers Professor Christian Illies and Professor Christian Schäfer asked us whether we
are interested in organizing an international Summer School at the University of Bamberg.
(Well, we actually asked them whether we could organize a smaller workshop in collaboration
with the department, and their reply was something like ‘Why not making it really big and
really international?’ – and we were crazy enough to join in!)
What were the first steps of the project? As you might imagine, it is a huge difference
between organizing a small reading group, and organizing a two week Summer School for
international students. We needed a topic, a concept, a structure, a list of possible lectures,
and – most importantly – funding! The Bamberg philosophy department helped us where
it could and provided the basic infrastructure. But they also gave us the freedom to design
the Summer School according to our ideas of what students might like when taking place in
an international event. It was a huge responsibility (we were just about becoming graduate
students back then), but, of course, also a great opportunity! And we were lucky: the project
has been awarded with generous funding by the German Academic Exchange Service, and
some of the greatest philosophers alive accepted our invitation, among them Saul Kripke and
Barry Stroud. However, the project took an enormous amount of time: we spent about two
years for preparations – and barely met each other in person since there was always one or
two of us doing an exchange year in Norway, Japan or the United States. We coordinated our
projects via Skype and e-mail — and in the few weeks of the year when all of us where in the
same country, we somehow managed to keep our regular workshops ongoing.
In Italy, many philosophical activities promoted or organized by students have to
face huge problems in order to establish within the academic framework. The Forum is based in the University of Bamberg. Have you found a welcoming and supporting environment in the beginnings of your activities? Which were, if any, the
main obstacles that you had to deal with? It is both true and false to say that we are
based in the University of Bamberg. Most of us studied (or study) in Bamberg at a certain
point in our life (or at least, took part in some classes here), and without the great support
of Professor Illies, Professor Schäfer and Professor De Anna, our research network would not
have been possible. However, we are a registered association – and leg ally, we function as
an independent corporate body ourselves. That means that we have our own budget (even
though it is very small), and our activities are not limited to the University of Bamberg. We
do not get paid by the Bamberg Philosophy Department, which guarantees us the freedom
and independence of organizing the projects according to our own ideas. We also do not feel
any pressure to establish ourselves within the academic framework: we simply want to be
a Forum – that means a meeting place – for young academics working within the fields of
Theoretical Philosophy. Of course, there are many obstacles (most of them bureaucratic ones)
we had to deal with in the past, but all of us gained uncountable valuable experiences over
the last four years – and now, we are at a point where we also want to share our expertise
with younger academics, and help them to make their own ideas become real projects.
Would you provide an account of your activities? The core of our activities have always been, and always will be the exchange of ideas in philosophical workshops. They usually
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last for a weekend, and we try to find the most beautiful locations available to discuss philosophy: so far, we have met on a real castle, an old farmhouse at the picturesque Lake Constance,
in the charming Franconian wineyards, or in the tranquility of the Bavarian Forest.
The idea is to discuss certain topics or texts we are working on at the moment, or to
present early drafts of our own research projects. The feedback to this workshops is usually
pretty good. There is no academic pressure, no grading, no deadlines and no term papers
involved. It is not that academic pressure is bad in general, but sometimes it is good to leave
it behind and to focus only on the essentials.
The Summer Schools which we organized in collaboration with the Bamberg Philosophy
Department are, of course, a little bit different. They mainly provide a forum for young
researchers to meet and discuss their own work, too – but they are, in a way, much more
intense since we had international top researchers like Saul Kripke and Kit Fine as our
external guests, and we were doing top-of-the-edge philosophy constantly for two weeks. (And
as you might imagine: discussions never stopped after the official seminar time was over.)
Could you explain the fundamental idea that the Forum mainly aims to promote?
Our fundamental idea is to fill a certain gap within academia: Many students have so many
ideas – especially within philosophy. Not all ideas are equally good, but also many of the
best ideas fail due to a lack of funding or organisational infrastructure, sometimes also due
to a lack of self-confidence. Only a small percentage of good ideas become real. Our main
motivation is to higher this number – at least, by a tiny little bit.
In your opinion, what are the most important results of which the Forum should be
proud of? Definitely the two Summer Schools in Bamberg. We still have not fully realized
that Saul Kripke joined one of our projects! Imagine that we were just first year graduate
students back then, and imagine how we felt when the (arguably) most important philosopher
alive accepted our invitation. Not even to mention all the other smart and highly-motivated
people we brought together for intellectual and academic exchange over the last years.
What are your plans for the future? This is hard to tell! Right now, our professional
lives are in a big change and we all are more or less at the step of leaving our student life
behind, and starting a professional career. This mainly means that we want to open the
Forum for ideas of other students, and want to share our expertise and experiences with even
younger academics who might want to organize a workshop and do not know where to start.
This does not mean that we won’t organize events by ourselves: therefore, you better follow
us on Facebook if you do not want to miss our next event.
In summer 2012 you organized the first Bamberg International Summer School
in Theoretical Philosophy: “Metaphysics or Modernity?”, focused on the current
status of metaphysics and its tradition. The invited lectures were Richard King
(University of Glasgow), Jorge Gracia (SUNY Buffalo), Barry Stroud (UC Berkeley)
and Saul Kripke (CUNY). Could you give us an account of this event? Over the
course of the summer school, about twenty graduate and postgraduate students from all over
the world had opportunity to work with internationally-renowned academics on the topic
“Metaphysics or Modernity?”2 . Saul Kripke, Barry Stroud, Richard King and Jorge Gracia
2 http://theoretical-philosophy.net/invitation-to-apply-metaphysics-or-modernity/.
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delivered lectures to students for three days each. The focus was primarily on the detailed
exploration of the subject matter through discussion, rather than on introducing the main
problems and ideas. The educational objective of the Summer School was to create an arena
for rigorous intellectual debate on the issue of metaphysics and to promote academic and
cultural exchange between all participants.
What idea of metaphysics came out from this intensive experience? There were
many diverse understandings of metaphysics among the participating students before they
came to our Summer School. And we think it is fair to say that their idea of metaphysics
became even more diverse after two weeks of intensive classes. And this does not mean anything bad. Just to the contrary: we all broadened our understanding of the topic – and how
rich the diverse approaches to metaphysics are, you can see in our essay collection “Metaphysics or Modernity?” which appeared last year with Bamberg University Press (Baumgartner, Heisenberg, and Krebs, 2013).
According to this outcome, is metaphysical inquiry still a valid enterprise within
contemporary philosophy? It certainly is! Metaphysics has always been and (hopefully)
always will be one of the core disciplines of philosophy. And even if the only metaphysical
insight one can gain is (as many contemporaries believe) that there are no metaphysical
insights: it is still important to understand why this should be the case – and how one could
argue against it. However, there is so much more to say about metaphysics, which is also the
reason why we chose another metaphysical topic when organizing our second Summer School
in Bamberg.
In summer 2014 you organized the second Bamberg International Summer School
in Theoretical Philosophy: “Individuals and Indeterminacy. Perspectives in Contemporary Ontology”, focused on the fundamental metaphysical notions of individual and indeterminacy. The invited lectures were Kit Fine (NYU), Peter van Inwagen (Notre Dame University), Peter Simons (Trinity College Dublin) and Gabriele
De Anna (University of Bamberg). Could you give us an account of this event? We
basically took the concept and structure of our first Summer School, but tried to make it even
more professional than “Metaphysics or Modernity” in 2012. Probably this reflects also our
own personal and academic development. We became more interested in more specialised
topics, than asking again the big question “Is metaphysics still possible in the 21st century?”.
This way, our Summer School was more research-focussed, and the discussions were less general than in 20123 . Also, our preparation was much more professional than in 2012. Back
then, everything was a little bit spontaneous and improvised – and we also think that the
students profited a lot from this, which is what makes our work valuable.
Two very Big Questions. The first one: what is an individual? Take 20 graduate
students and four international experts, and put them in one seminar room. Are they just
one big individual, consisting of 24 parts, or are we still talking about 24 individuals here?
If you ask all of them what an individual is, you can be sure to get 24 different answers.
Probably even more. And it is probably the big strength of philosophy that philosophers
never agree with each other. Otherwise, discussions would be quite boring.
3 http://theoretical-philosophy.net/160/.
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The second one: what is indeterminacy? The answer to this question is even more indeterminate than to the one before – Kit Fine, Peter van Inwagen, Peter Simons and Gabriele
de Anna all presented us different accounts of indeterminacy. But most famously the problem
of indeterminacy is illustrated with a man with a full head of hair. He is obviously not bald.
Now the removal of a single hair will not turn a non-bald man into a bald one. And yet it is
obvious that a continuation of that process must eventually result in baldness. This paradox
is also called “Sorites paradox” and dates back to ancient times. It is impossible to give you an
ultimate answer of how many hairs a man must have to be considered non-bald. But we can
assure you that we all (including Kit Fine) lost our hair by discussing this delicate problem
in contemporary metaphysics!
Dear Forum, thank you very much for your kind availability and willingness. We
wish you all the best for the future!
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References
Baumgartner, Simon, Thimo Heisenberg, and Sebastian Krebs, eds. (2013). Metaphysics or
Modernity, Contributions to the Bamberg Summer School 2012. Bamberg: Bamberg University Press. ISBN: 978-3-86309-180-4.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
I NTERVISTA A E NRICO B ERTI
Pietro Angelo Casati
P RESENTAZIONE . Enrico Berti è professore emerito dell’Università di Padova.
Ha insegnato anche nelle università di Perugia, Ginevra e Bruxelles. È socio nazionale dell’Accademia Nazionale dei Lincei, membro della Pontificia Accademia
delle Scienze, presidente onorario dell’Institut International de Philosophie e socio
dell’International Academy for Philosophy. Ricordiamo, fra le sue pubblicazioni,
alcuni saggi riguardanti i rapporti fra pensiero aristotelico e filosofia analitica:
• La logica dell’argomentazione filosofica tra Aristotele e Ryle, in Società Filosofica Italiana, Momenti di storia della logica e Storia della filosofia. Atti del
convegno di Roma, 9-11 novembre 1994, Aracne, Roma 1996, pp. 59–68;
• Aristotele e il «Mind-Body Problem», in «Iride» 11 (1998), pp. 43–62;
• Platone e Aristotele nella filosofia analitica. Atti del corso residenziale di aggiornamento sulla didattica della filosofia, in E. Spinelli (a cura di), I filosofi
antichi nel pensiero del Novecento, Ministero della Pubblica Istruzione, Roma
1998, pp. 17–24;
• La presenza di Aristotele nella filosofia odierna, in S.L. Brock (a cura di),
L’attualità di Aristotele, Armando, Roma 2000, pp. 85–100;
• Being and Essence in Contemporary Interpretations of Aristotle, in A Bottani
et al. (eds.), Individuals, Essence and Identity. Themes of Analytic Metaphysics, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 2002, pp. 79–107.
• Ontologia o metafisica? Un punto di vista aristotelico, in C. Bianchi e A. Bottani (a cura di), Significato e ontologia, Franco Angeli Edizioni, Milano 2003,
pp. 25–38.
• Il «tomismo analitico» e il dibattito sull’Esse ipsum, «Giornale di Metafisica»
31(1), 2009, pp. 5–23.
Alla presenza di Aristotele nella filosofia analitica ha dedicato anche un capitolo
del suo libro Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992.
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C OPYRIGHT. 2014 Pietro Angelo Casati. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti
riservati.
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Secondo le parole di J. Barnes, “benché Aristotele sia sempre stato il principe dei
filosofi, si può dire senza esagerare troppo che ad Oxford, nel secolo ventesimo,
egli ha rinforzato il suo principato. [. . . ] Dopo la seconda guerra mondiale, il regno
dello Stagirita è proseguito allorché J.L. Austin si è installato nella sua corte come
un gran visir”1 . Alcuni pensatori si sono addirittura richiamati esplicitamente ad
Aristotele come all’autentico iniziatore dell’analisi del linguaggio ordinario praticata, a Cambridge, da G.E. Moore e Wittgenstein, e successivamente, ad Oxford,
da Austin e G. Ryle. Come e in che misura il pensiero aristotelico è stato presente
nella prima stagione della filosofia analitica? E in che senso è possibile dire che “la
filosofia analitica appartiene a pieno titolo alla grande tradizione della metafisica
occidentale”2 ? Se per «prima stagione della filosofia analitica» intendiamo i suoi inizi, cioè
il pensiero di Gottlob Frege e Bertand Russell, nonché del “primo” Wittgenstein (all’epoca del
Tractatus) e del Circolo di Vienna, si può dire che il pensiero di Aristotele è stato pressoché assente da essa. Non mi risulta che se ne siano occupati né Frege, né Wittgenstein, né Carnap,
mentre Russell nella sua Storia della filosofia occidentale (1945) considera Aristotele, spregiativamente, come il filosofo del senso comune (caratteristica che invece non sarebbe dispiaciuta
a Georg Edward Moore, notoriamente difensore del senso comune). L’incontro, per così dire,
della filosofia analitica con Aristotele avvenne proprio a partire da Moore, quando questi, a
differenza da Russell, Wittgenstein e Carnap, rivolse l’attenzione all’analisi del linguaggio
comune, scoprendo che tale forma di analisi era stata iniziata proprio da Aristotele.
Il suddetto incontro avvenne, non a caso, in Inghilterra, cioè nel paese europeo che più
di ogni altro aveva resistito all’influenza dello storicismo ottocentesco, diffuso nel continente,
il quale storicismo aveva decretato per bocca di Hegel che «le filosofie più antiche sono le
più povere e astratte», anche se poi Hegel considerò Aristotele il più grande filosofo di tutti i
tempi e gli dedicò lo spazio più ampio di tutti nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia. In
Inghilterra era stata fondata, nel 1880, la «Aristotelian Society for the Systematic Study of
Philosophy», che intendeva promuovere non lo studio di Aristotele, ma lo studio sistematico
della filosofia, e si intitolava ad Aristotele perché vedeva in lui il più eminente rappresentante
di tale modo di intendere la filosofia. Della «Aristotelian Society» furono presidenti lo stesso
Russell, poi Moore, Whitehead, il grande aristotelista William David Ross (direttore della
traduzione inglese di tutte le opere di Aristotele, nonché editore e commentatore di molte
fra esse), e Ryle, Austin, Wisdom, Ayer, Popper, Strawson, ed aristotelici più recenti quali
G.E.L. Owen, R. Sorabji, G.E.M. Anscombe, D. Wiggins, M. Burnyeat, S. Broadie.
In Inghilterra inoltre, ed in particolare in Moore, era presente l’influenza di Franz Brentano, aristotelico in metafisica ed in psicologia, di cui furono allievi alcuni tra i più grandi filosofi
continentali (Husserl, Meinong, Twardowski, Freud). Fu Moore che richiamò Wittgenstein in
Inghilterra dopo la prima e la seconda guerra mondiale, quando il filosofo austriaco compì la
svolta che lo portò verso l’analisi del linguaggio comune, e dalla scuola del “secondo” Wittgestein uscirono i filosofi della cosiddetta «Scuola di Oxford», che inaugurarono la filosofia come
analisi del linguaggio quotidiano proprio nel nome di Aristotele, cioè John L. Austin, Gilbert
Ryle, G. Elizabeth M. Anscombe, Peter F. Geach ed altri.
All’ultima parte della domanda n. 1, cioè se la filosofia analitica appartenga a pieno titolo alla grande tradizione della metafisica occidentale, risponderò nello spazio dedicato alla
domanda n. 8.
1 J.
Barnes, Aristote dans la philosophie anglosaxonne, «Revue philosophique de Louvain», 75, 1977.
Berti, Ontologia o metafisica? Un punto di vista aristotelico, in C. Bianchi e A. Bottani (a cura di), Significato
e ontologia, Franco Angeli Edizioni, Milano 2003.
2 E.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
22
È corretto ravvisare una qualche forma di “essenzialismo” nella ripresa delle fondamentali distinzioni categoriali aristoteliche? Ed eventualmente si tratterebbe, a
Suo avviso, di una “compromissione” nel senso deleterio del termine? Dipende da
che cosa si intende per «essenzialismo». Se con questo termine si intende, come ha proposto
Quine, una filosofia secondo la quale il linguaggio si riferisce ad oggetti dotati di un’essenza
esprimibile mediante una definizione, o una «formula», la quale è identica in tutti i mondi
possibili, per cui, ad esempio, la formula dell’acqua è H2 O in tutti i mondi possibili, e ciò che
non ha questa essenza non è acqua, allora non c’è dubbio che i filosofi analitici «essenzialisti»
(per esempio S. Kripke, H. Putnam, D.W. Hamlyn) sono aristotelici, perché Aristotele, nel
famoso libro Zeta della Metafisica, ha attribuito alle sostanze un’essenza, la forma, espressa
dalla definizione. Su questo tema si può vedere ora il volume di Gabriele Galluzzo e Mauro Mariani, Aristotle’s Metaphysics Book Z: The Contemporary Debate, Pisa, Edizioni della
Normale, 2006, che mette in relazione la filosofia analitica contemporanea col libro Zeta della
Metafisica di Aristotele.
Se invece per «essenzialismo» si intende, come fanno i suoi detrattori, una filosofia che
afferma l’esistenza di essenze eterne, non suscettibili di alcun mutamento, e che quindi è
incompatibile con la teoria biologica dell’evoluzione delle specie e con qualsiasi altra forma
di evoluzione, allora questo essenzialismo non ha nulla a che fare con Aristotele. Come ha
mostrato infatti un grande studioso della biologia di Aristotele, David M. Balme, la forma
di cui parla Aristotele non va confusa con la specie, e tanto meno va concepita come un’Idea platonica, trascendente, eterna ed immutabile, ma è invece un principio attivo che opera
nello sviluppo degli esseri viventi come un programma, alla maniera del DNA scoperto dalla genetica contemporanea, ed è suscettibile di variazioni, dovute al caso, come mostrano le
differenze tra individui della stessa specie rilevate dallo stesso Aristotele (cfr. D.M. Balme,
Aristotle’s Biology was not Essentialist, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 62, 1980,
pp.1–12). Gli studi di Balme, preceduti da quelli di Max Delbrück, premio Nobel per la medicina (Aristotle-totle-totle, in J. Monod and E. Bore (eds.), Of Microbes and Life, New York,
Columbia U.P., 1978, pp. 50–55), hanno indotto uno storico della biologia quale Ernst Mayr a
ricredersi a proposito dell’essenzialismo aristotelico (cfr. E. Mayr, Toward a New Philosophy
of Biology. Observations of an Evolutionist, Cambridge MA 1988, pp. 56–57).
Ma la nozione di essenza, o meglio di forma, non è l’unica delle distinzioni aristoteliche riprese dalla filosofia analitica, come dimostrano innumerevoli opere di filosofi analitici e, riassuntivamente, la recente raccolta intitolata Aristotelian Contemporary Metaphysics (ed. by
T.E. Tahko, Cambridge U.P. 2013), in cui autori come Jonathan Lowe, Kit Fine, Peter Simons
e altri riprendono i concetti aristotelici di esistenza, categoria, sostanza e proprietà, potenza
e atto, sviluppandoli secondo le problematiche della filosofia contemporanea.
Concepire le essenze come suscettibili di variazioni sembra difficilmente conciliabile con l’idea che siano identiche in tutti i mondi possibili. Inoltre, anche le definizioni, che dovrebbero esprimere le essenze, erediterebbero tale mutevolezza. Non
è desiderabile per le definizioni un carattere di immutabilità? Come si può uscire
da questa impasse? Nella parte finale del libro Theta della Metafisica, Aristotele
scrive che “non è possibile ingannarsi intorno all’essenza se non accidentalmente”:
in altre parole, a proposito delle definizioni dell’essenza non è possibile errore, ma
solo conoscenza o ignoranza3 . È plausibile scorgere in questa affermazione un ele3 R. Sorabji, Definitions: why necessary and in what way?, in E. Berti (a cura di), Aristotle on Science: the
«Posterior Analytics» (Proceedings of the eighth Symposium Aristotelicum held in Padua from September 7 to 15,
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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mento di convenzionalità legato alle definizioni e alle essenze che dalle definizioni
vengono espresse? Per uscire dall’impasse bisogna distinguere le essenze delle sostanze
non viventi, per esempio dell’acqua, da quelle delle sostanze viventi, cioè delle piante e degli animali. Le prime sono totalmente immutabili, per cui è aristotelico dire, con Kripke e
Putnam, che la formula dell’acqua è la stessa in tutti i mondi possibili e che, se una cosa
non ha questa formula, non è acqua. Le essenze delle sostanze viventi invece, per Aristotele, sono sì costanti, ma non completamente, poiché un individuo di una certa specie genera
un altro individuo della stessa specie, cioè dotato della stessa forma o essenza (“l’uomo genera l’uomo”). Tuttavia lo stesso Aristotele ammette che questa regola, come tutte le leggi
fisiche, non vale “sempre”, ma vale solo “per lo più”, cioè nella maggior parte dei casi, permettendo alcune eccezioni, per cui può accadere, ad esempio, che un cavallo generi un mulo.
Lo stesso Aristotele ammette che tra animali della stessa specie ci possano essere differenze dovute al luogo, al tempo e ad altri fattori (per esempio tra gli esseri umani i bianchi e
i neri). Questo fatto introduce nella natura la possibilità di variazioni, dovute in genere al
caso, analoghe alle “mutazioni” casuali del codice genetico ammesse dalla genetica odierna
per spiegare l’evoluzione delle specie.
I filosofi analitici si sono spesso collocati rispetto ai filosofi del passato in “un rapporto, per così dire, da pari a pari, [. . . ] discutendone le tesi da un punto di vista
filosofico e indicando i punti di accordo e quelli di disaccordo, le argomentazioni
valide e quelle non valide”4 , considerandoli, insomma, come interlocutori importanti per il dibattito attuale. Come storico della filosofia nel senso tradizionale del
termine, con che occhio vede questo tipo di interazione, che privilegia il confronto
teoretico all’indagine esegetica? Ci sono due modi opposti, a mio avviso entrambi sbagliati, di rapportarsi ai filosofi del passato: quello che chiamerei antistorico e quello storicistico. Il primo consiste nel trattare i filosofi del passato da pari a pari, discutendo con loro, ma
giudicandoli alla luce della scienza di oggi, cioè rilevando facilmente nel loro pensiero errori,
mancanze di informazioni, lacune, che si sono rivelati tali grazie ai progressi della scienza
moderna e contemporanea, senza tenere minimamente conto della situazione culturale in cui
i filosofi del passato sono vissuti. Questo è un modo praticato da alcuni filosofi analitici, per
esempio da Bertrand Russell, il quale nella sua Storia della filosofia occidentale rimprovera
Aristotele di non conoscere le leggi della meccanica di Newton o altre scoperte scientifiche del
genere. Non c’è bisogno di dire che, dal punto di vista storico, questo atteggiamento porta a
una totale incomprensione non solo della filosofia, ma della cultura in genere, del passato e
quindi è del tutto fuorviante. Purtroppo molti filosofi analitici, e soprattutto molti scienziati
ignari di storia della filosofia, si comportano in questo modo.
Il secondo modo di rapportarsi al passato, quello storicistico, è l’estremo opposto rispetto
al primo, ed è altrettanto sterile ed inutile. Esso consiste nel relegare i filosofi del passato
nella rispettiva situazione storica, escludendoli da qualsiasi possibilità di confronto con punti di vista appartenenti ad altri momenti della storia, e quindi da qualunque discussione di
carattere teorico. Secondo l’approccio storicistico le filosofie del passato appartengono totalmente ed esclusivamente al passato e non possono dire più nulla alla filosofia o alla cultura
di oggi. Qualunque dialogo di carattere teorico con esse si risolve in una forma errata di attualizzazione, a priori impossibile. Non faccio i nomi degli storici che praticano questo tipo
di approccio, per non offenderli, perché è chiaro che il loro modo di fare la storia del passato
1978), Padova 1981, pp. 205–244.
4 E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, p. 177.
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è del tutto inutile e privo di qualsiasi interesse filosofico; tuttavia essi esistono e sono particolarmente numerosi nell’Europa continentale, in particolare in Italia, probabilmente per
influenza dello storicismo non mai tramontato di Croce, Gentile, Gramsci, anche in filosofi
che si credono immuni da esso.
Il modo che io considero corretto è, ovviamente, il “giusto mezzo”, o meglio la sintesi, tra
i due estremi opposti, cioè comporta anzitutto una radicale storicizzazione delle filosofie del
passato, cioè una loro collocazione nelle rispettive situazioni storiche, comprese e ricostruite
nella loro genuinità, usando tutti i mezzi offerti dalle moderne tecniche filologiche, linguistiche, sociologiche, insomma esso consiste in una piena comprensione storica. Ma questa
comprensione non deve escludere a priori la possibilità di un confronto teorico con i filosofi del passato, dai quali ci può essere molto da imparare, non trasponendo meccanicamente
le soluzioni dei loro problemi ai problemi di oggi, ma cercando di comprendere se il modo
in cui essi hanno risolto i problemi del loro tempo può essere utile, mutatis mutandis, alla
nostra soluzione dei problemi di oggi. Senza questa seconda operazione, la prima, cioè la
storicizzazione, è del tutto priva di interesse filosofico, ma senza la prima la seconda è del
tutto artificiosa, perché l’interlocutore della discussione che si intraprende è un interlocutore
fittizio, non reale, quindi con lui una vera discussione è impossibile.
Accanto ai filosofi che si sono accostati ad Aristotele con un interesse squisitamente filosofico, si è sviluppato, all’interno della comunità analitica, un filone di veri
e propri studi aristotelici, i cui protagonisti ebbero un ruolo rilevante nei Symposia aristotelica e segnarono il “passaggio dalla maniera tradizionale di studiare
Aristotele, quella rappresentata, nella prima metà del Novecento, soprattutto da
Jeager e Ross, ad una maniera nuova”5 . In che cosa è consistito questo passaggio
e che esiti ha avuto? La maniera nuova di studiare Aristotele, inaugurata dai Symposia
aristotelica internazionali, ma non solo da essi, è l’abbandono del metodo storicistico consistente nel ricostruire esclusivamente l’evoluzione storica del pensiero di Aristotele, incarnato
soprattutto dagli studi, pur meritevoli, di Werner Jaeger, che hanno dominato l’esegesi aristotelica della prima metà del Novecento. Essa consiste nel praticare l’approccio che ho indicato
sopra come sintesi, o giusto mezzo, tra i due estremi opposti, cioè il metodo che unisce la
comprensione storica alla valutazione filosofica, cercando soprattutto di ricostruire e valutare le argomentazioni usate da Aristotele a sostegno delle sue tesi. Questa maniera nuova è
stata inaugurata, o continua ad essere praticata oggi, da filosofi di estrazione analitica, come
Elizabeth Anscombe, G.E.L. Owen, Anthony Kenny, Jonathan Barnes, Myles Burnyeat, Sarah Broadie in Inghilterra, Wolfgang Wieland, Günther Patzig e Michael Frede in Germania,
Terence H. Irwin, John Cooper, Martha C. Nussbaum negli Stati Uniti, ma anche da filosofi di estrazione ermeneutica o addirittura heideggeriana come Pierre Aubenque, o filologica
come Pierre Pellegrin, André Laks e Michel Crubellier in Francia, o in Italia da un filosofo
fenomenologico come Leo Lugarini o da un filosofo neoscolastico come Giovanni Reale. Ma
esistono oggi studiosi eccellenti di Aristotele, che praticano questo metodo, in molti altri paesi e continenti, per esempio in Spagna e Portogallo e nell’America latina (Messico, Argentina,
Cile, Colombia, Brasile), in Canada, in Grecia e in Polonia, anche in Russia, benché i lavori
dei russi, a causa della lingua, siano meno conosciuti. Non posso, evidentemente, fare i nomi
di tutti, ma ne conosco molti. Io stesso ambirei ad essere considerato un esponente di questa
maniera nuova di studiare Aristotele, come mi è stato più volte riconosciuto. Gran parte di
5 E.
Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari 1992, p. 128.
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questi studi hanno fatto di Aristotele un filosofo nostro contemporaneo, cioè uno dei filosofi
oggi più discussi ed utilizzati.
Un altro filosofo del passato che è stato “reso contemporaneo” grazie a questo tipo
di approccio è Tommaso d’Aquino. Che tipo di interazione c’è e c’è stata fra tradizione tomistica e filosofia analitica? Fra tradizione tomistica e filosofia analitica c’è
stata un’interazione, che ha dato vita al cosiddetto “tomismo analitico” (espressione coniata
da John Haldane nel 1997). Questa corrente ha approfondito col metodo della filosofia analitica alcune dottrine di Tommaso d’Aquino, rilevandone la convergenza con la stessa filosofia
analitica. Ciò è avvenuto soprattutto per la teoria della conoscenza, come ha mostrato Anthony Kenny nel suo libro Aquinas on Mind (1993). Quanto alla concezione dell’essere, il
tomismo analitico ha interpretato la posizione di Tommaso in una direzione diversa da quella
dei neotomisti di tendenza esistenzialistica (E. Gilson, C. Fabro), cioè ha mostrato che per
Tommaso l’actus essendi non è semplicemente l’atto di esistere, ma è l’atto di una determinata essenza, la quale nel caso di Dio non è l’esse ipsum in generale, ma “il suo stesso essere”,
cioè l’essere perfettissimo che si addice a Dio (così Peter Geach in Three Philosophers, 1963,
ma anche Anthony Kenny in Aquinas on Being, 2002).
Un interessante dibattito interno al tomismo analitico riguarda la relazione di
priorità ontologica tra essenza ed esistenza. Da un lato è possibile, riprendendo Tommaso d’Aquino, sostenere che tutte le essenze sono attualmente istanziate.
Dall’altro si può sostenere, seguendo Avicenna, che l’esistenza non sia una condizione necessaria per avere proprietà essenziali. In che modo questa alternativa è
legata ad Aristotele? E che rilevanza ha per la discussione odierna?6 Per Aristotele
non c’è essenza senza esistenza, quindi le definizioni degli oggetti inesistenti (per esempio
dell’“ircocervo”) sono definizioni puramente nominali, non definizioni di essenze. Dal punto
di vista di Aristotele, pertanto, la distinzione tra essenza ed essere non è interpretabile in
termini di potenza e atto, come fa Tommaso nel De ente et essentia per spiegare la natura
composta delle sostanze immateriali (gli angeli e le anime intellettive), subendo un forte condizionamento ad opera del neoplatonismo e di Avicenna. Per Aristotele inoltre l’esistenza non
è univoca, cioè non è la semplice proprietà di una classe, consistente nel non essere vuota,
come hanno sostenuto Russell, Quine e van Inwagen, ma è costitutiva delle essenze e si dice anch’essa in molti sensi, corrispondenti alle diverse essenze, come hanno sostenuto John
Austin e Gilbert Ryle. Ciò non significa che tutte le essenze esistano necessariamente, cioè
siano tutte eterne, perché alcuni enti sono per essenza generabili e corruttibili, quindi hanno
un’esistenza limitata nel tempo.
Nel Suo saggio su La presenza di Aristotele nella filosofia odierna ha indicato una
direzione inesplorata nell’“appropriazione” di Aristotele da parte della filosofia
analitica, evidenziando la necessità di passare da un’ontologia meramente formale
ad un’ontologia “integrale”, capace di “spingersi sino alle cause prime dell’essere
in quanto essere” e di “considerare qualsiasi tipo di spiegazione, non solo quella
logico-linguistica, ma anche quella di tipo causale, nel senso di una causalità rea6 Ringrazio Fabio Ceravolo per avermi suggerito questa domanda. Su questo numero di RIFAJ (5:2) è possibile
leggere una sua recensione del testo di Giovanni Ventimiglia, To be o esse: la questione dell’essere nel tomismo
analitico, Roma, Carocci, 2012.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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le, ontologica, concernente l’essere, non solo il linguaggio”7 . A tal fine ha scorto la
possibilità di una siffatta trasformazione in un’eventuale ripresa delle argomentazioni aristoteliche legate alla nozione di “atto” come significato primario di “essere”. In che modo la nozione aristotelica di “atto” potrebbe contribuire ad ovviare
all’“incompletezza” dell’ontologia formale? Il limite che finora ho riscontrato nell’utilizzo di Aristotele da parte della filosofia analitica è la sua prevalente concentrazione su
alcune dottrine, o opere, di Aristotele, che attengono esclusivamente a quella che tradizionalmente è stata chiamata «metafisica generale» o «ontologia», cioè la dottrina delle categorie
(Categorie), del discorso predicativo (De interpretatione) e della sostanza (Metaphysica Zeta).
La filosofia analitica in genere trascura la concezione aristotelica della metafisica come ricerca delle cause prime, intese in tutti i sensi in cui la causa può fornire delle spiegazioni
ai fenomeni considerati, cioè come materia, come forma, come causa efficiente e come causa
finale. Nella tradizione della metafisica occidentale questo aspetto della filosofia aristotelica,
sviluppato nei libri conclusivi della Metafisica, ma anche nella Fisica, nel De anima, nelle
opere biologiche, nelle opere di etica e di politica, perfino nella Retorica e nella Poetica, è
stato ricondotto alla cosiddette «metafisiche speciali», cioè la teologia razionale, la cosmologia
razionale e la psicologia razionale. Sono convinto che questa ripartizione sia sbagliata, cioè
non abbia nulla a che fare con l’autentica metafisica di Aristotele, che è appunto ricerca delle
cause prime (tutti i tipi di causa) dell’essere in quanto essere (cioè di tutti i tipi di oggetti). La
metafisica divisa in generale e speciale è quella elaborata dalla filosofia moderna, soprattutto
tedesca, e criticata da Kant con argomenti sui quali varrebbe la pena di soffermarsi.
Sono inoltre convinto che alcune delle cause prime ricercate da Aristotele siano state in
gran parte portate alla luce, in età moderna e contemporanea, dalle scienze non filosofiche
(Aristotele non distingueva tra scienza e filosofia, ma solo tra scienza o filosofia prima e altre
scienze o filosofie, dette per comodità seconde), per esempio la causa prima materiale dalla
fisica atomica e subatomica (particelle, energia, materia oscura), la causa prima formale dalla
chimica e dalla biologia (formule chimiche, DNA, ecc.). Da un punto di vista genuinamente
aristotelico bisogna fare grande affidamento sulle scienze particolari. Resta oggi affidato alla
filosofia, mi sembra, il discorso sulla causa prima efficiente e quello sulla causa prima finale
(almeno sul fine ultimo dell’uomo), e qui mi attendo un contributo più consistente da parte
della filosofia analitica.
Non credo che, a proposito della causa prima efficiente, si debba enfatizzare eccessivamente l’importanza del concetto di atto, come forse ho fatto io stesso in qualche mio scritto,
probabilmente per influenza della filosofia neoscolastica, che ha fatto del concetto tomistico
di actus essendi il perno di tutta la metafisica di origine aristotelica (per esempio, come ho
ricordato sopra, con Étienne Gilson e Cornelio Fabro). Condivido invece le critiche mosse
da filosofi analitici (Peter F. Geach e A. Kenny) al concetto di actus essendi, e ritengo che il
concetto di atto vada ricondotto, con Aristotele, a quello di forma, o atto primo. Ma a questo
proposito il discorso si farebbe troppo lungo e gli sviluppi a cui rinvio, sempre nell’ambito
della filosofia analitica, si possono ritrovare, a mio avviso, soprattutto negli scritti di Geach.
7 E. Berti, La presenza di Aristotele nella filosofia odierna, in S.L. Brock (a cura di), L’attualità di Aristotele,
Armando, Roma 2000.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
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W HAT IS THE NATURE OF PROPERTIES ?
Lorenzo Azzano
A BSTRACT. In the recent debate about the nature of properties, dispositional essentialism, which claims that a property possesses its powers essentially, seems to
provide an interesting alternative to the quite simple and problematic view that
properties are to be identified through primitive qualities, quidditates (this position may be called quidditism). However, it is not easy to characterize explicitly
and uncontroversially dispositional essentialism, in particular when it comes to
the treatment of powers. A further reference to primitive qualities may prove to
be unavoidable, thus suggesting a medium between quidditism and dispositional
essentialism.
Whatever means are used in the explanation of a property’s nature, the resort to
a rock-bottom entity like a quidditas seems to be the only way to avoid a regress.
K EYWORDS. Properties, Quidditism, Dispositional essentialism, Essence, Individuation.
C
\
$
CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Lorenzo Azzano. Published in Italy. Some rights
reserved.
A UTHOR. Lorenzo Azzano. [email protected].
R ECEIVED. March, 7th 2014. A CCEPTED. February, 20th 2014.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
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Introduction
The ball is red. A cucumber is not red. Milan is a big town, Paris is a big town too, and
much bigger than Milan. There are ways things are, and such ways can be compared, and,
according to these comparisons, things are said to be similar or different. These ways are
called properties1 , and are sometimes said to be real entities somehow correlated with the
things they are attributed to. Yet it is far from clear how this simple reification could be, per
se, of any philosophical interest: what kind of thing is a property? The most venerable debate
about properties is the explanation of the alleged repeatability of their instances, say, the
debate that separates universalists from particularists. As interesting as it is, this is not the
kind of question that we are going to address in this paper. Our primary point of interest will
be rather the nature of properties as they are themselves, and not relatively to their instances;
the focus will thus primarily be on the nature and identity of properties.
First of all, it would be best to clarify our lexicon. We’ll be using the terms “essence” and
“nature” as synonyms; the nature/essence of x is what makes x what it is, or, according to a
different definition, the very being of x. We will sometimes use the term “essential property”
– and although we won’t explain the correlation between essence and essential properties, for
an x to have P essentially means that the very being of x somehow includes or encompasses
P . To have P essentially involves a de re predication of (metaphysical) necessity, but the
converse may or may not be the case – it will be best to keep neutral on the matter.
Talk about identity can be even more confusing; let us separate identity from individuation. We take identity to be the classic relation =, a.k.a., the smallest equivalence relation, a.k.a., the equivalence relation for which Leibniz’s Law holds. Identity between entities
falling under a sortal P is pivotal in reasoning about the number of P s: this is achieved
through identity conditions of the form “x = y if and only if. . . ”. Individuation is a quite
different thing; intuitively, the operation of individuation is an operation of determination in
which we single out an entity from a certain collection. This determination, however, has to
satisfy a few requirements; for instance, Caesar may be undeniably singled out by the fact
that he was the only Roman dictator stabbed to death in 44 b.C. – yet that is wholly contingent of Caesar. We would want this kind of determination to be stronger; so, in order to know
what is always, necessarily true of x and only of x, we must understand what does it take to
be x, and so we have to know what ultimately x is: the concept of individuation is thus entangled with the concept of nature and essence2 . It is crucial to understand that to have criteria
of individuation involves having a criterion for identity (but not vice versa): if we know what
does it take to be Socrates rather than Plato we know whether Socrates and Plato are numerically different or not (we have identity conditions for humans); conversely, we may be able
to tell humans apart – to decide statements of numerical identity between them – without
knowing their nature, or even without knowing what does it take to be human. Criteria of
identity given through criteria of individuation, the ones we will be interested in, are those
that settle whether or not x and y are (absolutely, numerically) identical on the basis of what
1 Also relations are ways things are. Moreover, properties can be seen as monadic relations. However, the nature
and identity of polyadic relations raise many specific problems, which lie beyond the proper subject matter of this
paper.
2 As already noted, statements of necessity may or may not entail statements of essence. See Fine (1994). This
is also true of individuation: not all necessary determinations are individuations in the strict sense, if they fail to
take into consideration the essence of the determined; using Fine’s example of a necessary non-essential predication,
Caesar is not individuated by the fact that, necessarily, he’s the only member of his singleton.
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x and y essentially are3 .
The goal of this paper is to shed at least some light on the nature of properties, and also
on their criteria of individuation and identity.
Both identities and essences of objects are notably given through the properties they have,
but, if properties themselves are to be found amongst other entities in the world, we could
ask about the identity and essences of properties as well. To some extent, some properties’
identities and essences are given through other properties, for instance in the case of what we
will call complex properties. For a complex property, identities and essences of properties are
given through simpler properties, or properties of constituents. “Being human” is different
from “being a horse” insofar as being a horse entails a whole different set of properties, and,
on the other hand, the essence of “being human” is, for instance, “being a rational animal”,
just like the essence of each human is to be a rational animal. Yet when it comes to simpler
properties, this can’t go on forever. Yet, if properties are genuine entities, they too exist, and
call for essences, natures, conditions of identity and individuation. How are they to be given?
In section 2 and 3 we’ll proceed to explore two competitive answers to this question, quidditism and dispositional essentialism; in section 4 we will present the problems of an extreme interpretation of dispositional essentialism, and given that quidditism is an highly
problematic position itself, we will conclude (section 5) that an intermediate solution within
the boundaries of dispositional essentialism may be preferable to both extremes.
2
Quidditism
Let us consider some of the most fundamental properties of physics; these properties are
sometimes called simple qualities: to ask about their identity conditions seems quite puzzling.
This is because they are admittedly quite difficult to individuate. Why is it that “having a
positive charge” is different than “having a negative charge” (and why, in turn, are they
different from “having a mass”)?
One of the most tempting answer is that “having a mass” and “having a positive charge”
are different because they are what they are, and this matter is no longer open for explanation; at the bottom of the properties-defined identity conditions and essences ladder, if
properties are finite (and at some point, there is a property which is simple in the sense we
defined earlier), then there must be at least a case of identity conditions and essence not given
through other properties. This is when the notion of quidditas comes into play. Quidditates
are non-qualitative primitive identities for properties (just like haecceitates for individuals).
Quidditates directly individuate properties – in pretty much the same way haecceitates pick
out the same individual across instants or possible worlds, whatever the change they undergo. Identity between qualities is primitively settled by quidditates, and a quidditas is the
only essential feature of a property4 . Having a mass is different from having a charge because they are different qualities: their only difference is their quantitative difference (they
are two quidditates, and not one).
3 As
individuation has a stronger modal value, conditions of individuations are usually taken to provide conditions
of identity across possible worlds (trans-world identity): to check whether or not Humphrey is the same person as
the guy x winning the election in a possible world we need to know whether or not that guy x has all that is required
to be Humphrey.
4 It is often put forward the claim that qualities are essentially all alike; this is because their essences are exhausted by quidditates, which are different only by merely being numerically distinct.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
30
This position, that we may call quidditism, in his purest and most naïve version, such as
the one we presented, is vulnerable from at least three objections. The first objection is not
really an argument (let alone a knock-down argument), but a more general claim that this
theory is not very interesting; it does not offer any insight on what a simple property is like,
nor does it care to explain much on the features of quidditates. When quidditism is compared
with some more explanatory alternatives, this objection gains strength by highlighting the
lack of explanatory content of quidditism.
The second objection is an objection from epistemic humility5 . The point is that our only
source of knowledge for properties passes through the causal powers to interact with us in
a certain fashion. A causal power is the ability to interact with the environment in order
to produce a certain manifestation in certain circumstances, and it is usually determined by
its manifestation property. But if quidditates exhaust a property’s essence, all powers are
only contingently possessed by those properties. In a counterfactual situation a property
may be unrecognizable to us, and its true nature, its quidditas, remains forever unknowable.
Therefore, there could be two different but apparently indiscernible worlds6 , insofar as they
give rise to the same knowledge but present different qualities (a slightly different way to put
quidditism is: identities and differences of properties do not supervene on any recognizable
feature they possess). This form of humility constitutes a heavy requirement for a pure form
of quidditism which takes powers to be contingent of properties.
The third objection is the “swapping powers” objection, and, in short, it claims that it is
weird to think that essential features of properties are exhausted by quidditates7 ; it is a metaphysical version of the previous epistemological argument. If all causal powers are contingent
of properties, it is plausible to posit two possible worlds, w and w1 , where two properties A
and B completely swap their causal powers, and therefore their nomic and causal roles, while
remaining absolutely re-identifiable with themselves in the transition from w to w1 . If their
only essential feature is their quidditas, besides, they have swapped all of their characteristics – including how they are called in that world. The quidditist requires that w and w1 are
different worlds, even if their distinction seems completely irrelevant and, in a sense, does
not make any difference8 .
This is not, strictly speaking, a compelling argument; if it was to be rigidly formulated,
it would be clear that it is precisely assuming the question-begging claim that there cannot
be a quidditas to explain the difference between worlds w and w1 . The point however is that
the quidditist metaphysics is unnecessarily complicated. What can be said for properties A
and B in world w, in fact, can be said for any other couple of properties at any world, and the
introduction of the additional possibility constituted by world w1 can be straightforwardly
generalized: there is a great number, perhaps an infinite number, of additional possibilities,
indistinguishable between them, which are however not identical insofar as they display
5 At least one famous supporter of quidditism – David Lewis – explicitly embraced the consequences of the epistemic humility objection; see (Lewis, 2008).
6 Theoretically, they are discernible; that is to say, this is not a violation of Leibniz’s Law. They are indiscernible
from an human perspective – or for any entity for which a causal theory of knowledge applies.
7 (Black, 2000), (Bird, 2007a, ch. 4).
8 Black (2000) is well aware that this is not a knock-down argument against quidditism. He therefore makes the
additional claim that quidditism generates a serious problem when it comes to determine the cardinality of the set
of possible worlds. Given that all that you need to posit a new quality is to determine its numerical difference from
the others, there seems to be no non-arbitrary answer to the question “how many possible qualities are there?”. That
is to say, for any collection of possible worlds, there always is the possibility of an additional world where some new
quality is present. A full exposition and evaluation of Black’s argument, and its interesting correlation with the
cardinality paradoxes for possible worlds, would lead us astray, and we leave it for another time.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
31
different (unknowable) qualities9 .
3
Causal powers
In order to dispel the epistemological argument shown earlier, Shoemaker (1980), suggested
the possibility to take a property’s causal powers as necessary, and even essential to it. It
is, on a general level, an interesting proposal; in the case of the extremely simple properties, such as charge, what allows us to distinguish one property from another is not some
underlying quality, but how the possession of the property affects the behavior of the individual. Positively charged individuals, for instance, are those that are disposed to repel other
positively charged individuals and attract the negatively charged ones.
The idea of a strict correlation between properties and causal powers can be understood
with different degrees of strength, and this is what several philosophers have done within the
so-called project of dispositional essentialism10 . In the weakest interpretation, dispositional
essentialism claims that a property’s powers are essential to it. The stronger interpretation
claims that all that there is to a property is its causal powers: they are not only essential to
it, but they exhaust its essence. Let us see both of them in turn.
3.1
Causal powers as essential properties
If a property’s powers to interact with the environment are essential to it, two problems
of quidditism are immediately solved: humility on the one hand, and the “swapping powers”
problem (that is to say, the problem of trans-world identification) on the other. This is because
a property retains all of its powers at all worlds in which it exists. Yet to take causal powers
as essential suggests more general consequences on one’s metaphysical landscape.
If the causal, and thus the nomic, roles a property occupies are the same at all worlds,
an interesting consequence is that natural laws are necessary: in fact, all individuals that
have that property behave in the same way at all worlds in which they exist. Dispositional
essentialism often takes a step forward and claims that natural laws, whose nature has been
9 The
previous line of reasoning requires that there is no issue with property trans-world identity per se. The
whole “swapping powers” objection echoes Beth (1967) reasoning on haecceitism. (Chisholm worked, in that paper,
with world-indexed properties, so this reconstruction is slightly different from his exposition – yet, properly treated,
the content is the same). Let us take two actual individuals A and B such that A 6= B, and consider a possible
world w1 where they both exist (they are both identical to something in w1 , respectively, A1 and B1 ) but have some
property swapped between them; now, iterate the same operation on a series of worlds w2 , w3 . . . wn until all of their
properties have been swapped: An is indiscernible from B, and Bn from A. But, for the transitivity of identity,
An is identical to A, and Bn to B. And, ex hypothesi, A is not identical to B. If we characterize haecceitism with
the claim that individuals’ identity does not supervene on their properties (Identity of Indiscernibles is false), we
can follow Chisholm’s reasoning on the rebuttal of haecceitism; as it is absurd to claim that wn is not actuality
(that An 6= B, and Bn 6= A), the problem resides on whether (1) some passage in the whole swapping operation
was unwarranted because of essential properties (properties that could not be lost without the individual ceasing to
exist/to be identical to something in that world) or (2) there was something wrong about trans-world identity to begin
with. Alternative conceptions, such as counterpart theory, offer some way out of the problem. As Bird (2007a, p. 73)
stresses out, this is Lewis’ view on particulars. Yet if this counter-objection has to work not only for haecceitism
but also for quidditism, one has to accept counterpart theory for properties, or some other treatment for de re modal
contexts that does excludes trans-world identity.
On a side note, could Chisholm’s rebuttal of haecceitism help us understand what, in turn, is wrong with quidditism? Unfortunately, Chisholm is not so clear on the matter: he simply states that, if there is a non-actual world
in which you and I have all of our properties swapped, but still are, respectively, you and I, “God could have had no
sufficient reason for choosing the world in which you play your present role instead of one in which you play mine”.
10 Notably Harré and Madden (1975), Shoemaker (1980), Ellis and Lierse (1994), Ellis (2001) and Molnar (2003).
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32
difficult to account for, are to be grounded and explainable through causal powers rather than
vice versa.
The view that laws are contingent is on the other hand often associated with antirealism
about powers: power and dispositional ascriptions are sometimes analyzed as ascriptions of
non-dispositional properties in relation with a relevant law. If powers are non-essential of a
property, the nature of this property, that must not be dispositional in character, needs to be
explained. Categoricalism, that is to say, the claim that a property’s powers are not essential
to it, is closely related to quidditism, which offers an apparently viable non-dispositional story
about the nature of a property. According to this position, all properties are essentially nondispositional in character (this is the kind of properties that are sometimes called “categorical
properties”)11 .
To better understand what is it that dispositional essentialism is claiming, let us answer
the following question: what is the difference between a power and a law? The question might
seem awkward; yet, powers and laws are strikingly similar items, as they both provide correlations of events/states/property instance patterns throughout space-time; they both have
some modal value. Both of them, furthermore, have something to do with causation. Long
story short, whatever the role, laws and powers seem to compete for it12 . But then, why are
they competing at all? What is the difference between a law and a power? The crucial difference between them is that the power is referred to a property (as part or constituent of it,
or even as numerically identical to it), and so, ultimately, the object that possesses it. It is
the object that has the power to M when S, in virtue of some property it possesses. Laws, on
the other hand, are not subject to this kind of attribution: it is not the object which “has the
law” that all P s are Qs – we rather say that the law applies to it. This suggests an important
truth about laws, even if not an uncontroversial one: laws are usually taken to be external
to individuals and properties they are taken to. So the difference between dispositional essentialism and categoricalism/quidditism, when it comes to the nature of properties, is that
while the first considers the source of change as internal to the property, the second considers
it external. Therefore, according to quidditism, they cannot neither individuate them either;
if x is external to y, x cannot be “what is it that makes y so”, nor “its very being”.
What is the best metaphysics of properties and laws? There is a recent and interesting argument against laws of nature that may be interesting to discuss: Mumford (2004)’s Central
Dilemma. Being an argument against realism about laws, it is tailored to immediately qualify dispositional essentialism as a better candidate when it comes to the correct positioning
of nomic roles of properties. The pivotal claim of the Central Dilemma is that realists about
laws, such as nomological realists, have failed to clearly express what is the role (intuitively,
the “governing” role on individual pattern of properties / events) laws are playing in one’s
11 The
use of the term categorical may be confusing; the point is that, if the presence of a dispositional property
can be settled only through test, the presence of a non-dispositional property can, at least in principle, be decided
here and now through observation. Back in the days of empiricism, when powers were sometimes equated with their
manifestations, the legitimate properties were said to be “categorical” as they were unconditionally instantiated by
objects, and not only in certain circumstances, for instance under stimulation.
12 Metaphysically, laws and powers may indeed be the very same thing. On one of the most accredited account
of laws, nomological realism (Dretske (1977), Tooley (1977), Armstrong (1983)) a law is an higher-order relation
between types, and one of the best account of powers says that powers are technically relations between types: a
power is a “power to M (type) when S (type)”. For this claim, see Ellis (2001, pp. 132–135), Mumford (2004, pp. 192–
195) and Bird (2007a, pp. 106–108). Their difference rather lies in the correlation between second-order relations
and the first-order properties they relate; according to Barker and Smart (2012) this similarity is of serious concern
for the dispositional essentialist.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
33
metaphysics and how they are supposed to play it13 . It is a not fiercely compelling argument
– it does not claim that such a specification is impossible, yet it clearly puts the adversaries
of dispositional essentialism at a disadvantage.
The argument proceeds through a dilemma-like form in two horns: the horns are generated by the choice between external or internal laws, that is to say whether or not being a
case of a governing law is internal or not to what the law is supposed to govern. The dilemma
argues that there is no viable reconstruction of laws as neither externally (first horn) or internally (second horn) governing principles, thus concluding that laws cannot be governing
principles at all.
Let us start from the first horn: external laws. Nomological realism is a good option
for external laws (Mumford claims that is the best option), as laws are external relations
connecting the universals instantiated in the patterns. Let us consider a successful causal
pattern from S(x) to M (x) which is an instance of the law L(S, M ). This instance, relative
to object a, can be called Li (S(a), M (a)). The Li instance is clearly related to L through
instantiation, but it is less clear how it is governed by L. Intuitively we can characterize
Li as governed by L by saying that, S(a) and L(S, M ) are sufficient to nomically necessitate
M (a), and so the instance Li of L. The relation of instantiation is not explicitly tailored to
be a relation of dependence of the instance on what it instantiates, especially if we consider
some kind of Aristotelian theory of properties14 . The external horn of Mumford’s argument
argues that no viable account of governing external law has been proposed, and presumably
is not forthcoming.
The internal horn states that no law that is internal to properties occurrences/states of
affairs/events that it applies to, can govern the behavior of the premises ‘from the inside’.
Here the argument proceeds from the assumption that laws must not be taken as a primitive
and, being internal to some other kind of entity, can be construed out of it in some fashion,
for instance through the relation of supervenience, or reduction, or constitution; yet it is
far from clear how they could govern, or exert any determining force in such a subordinate
position: in the case of Ellis (2001), for instance, the governing role is taken upon properties
themselves, in the sense that, being essentially dispositional, nomic roles pertain necessarily
to properties, that basically auto-govern themselves.
So, if (governing) laws cannot be neither internal nor external, if we want some nonHumean metaphysics about properties and laws, the most flashed-out candidate is dispositional essentialism. That being said, dispositional essentialism, like that set forth by Bird
(2007a, Ch. 9) could consider laws as internal, in the sense of being generated by essential
powers of individuals, but such laws would fail to possess the feature of contingency and
governance – they are not doing the real job. For our goal, the internal horn of Mumford’s
dilemma is the most interesting, as it excludes a priori the possibility of primitive internal
laws; things such as “the fact that all As are Bs” cannot be internal to some individual.
13 The
exact meaning of “governing” is not spelt out. However, we can claim that governing laws are laws that are
not simply supervenient on (the totality of) matter of facts, as regularist Humean-like laws, but rather determine
and regulate their cases through a specific relation, that we may call “government” (it may have, for instance, a
modal value, or an explanatory function).
14 One of the most prominent supporter of nomological realism, David Armstrong, is also an Aristotelian about
properties. It is not immediate to see where the incompatibility lies, as we both a lack a precise definition of governing
laws and Aristotelism about properties. But if the specific case C is an instance of the general law L, governing laws
needs some kind of metaphysical priority of L over C, while Aristotelism about properties sanctions metaphysical
priority of C over L. Thorough scrutiny is needed to understand what this ‘metaphysical priority’ amounts to and
whether or not it is the same in the two cases.
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34
In conclusion, the crucial difference between powers and laws is that powers are internal
and laws are external to properties and individuals; so it would be nonsense to be realist
about causal powers, while at the same time holding that powers are not internal to properties: that would just be a realist theory of laws under disguise. The choice between categoricalism and dispositional essentialism is just parasitically a choice about whether a property
has its powers contingently or necessarily; it is primarily a choice between laws being more
fundamental than powers rather than vice versa. Therefore, their difference, when it comes
to the nature of properties, is whether the source of potential change a property affords is internal of it, or not. In accordance to Ellis (2001), dispositional essentialism is a rebuttal of the
passivist view of the world which features per se inert entities being externally put in motion
by laws and principles.
On the contrary, categoricalism/quidditism is both the thesis that properties have their
powers contingently and that they have a non-powerful nature. They are strictly correlated15
and yet different claims.
3.2
Causal powers and the identity of properties
It is an interesting divide to keep in mind that essential properties may not be essences
tout court; a set of essential properties may not exhaust the essence of an individual, so it
may be the case that, even if dispositional essentialism is true, trans-world individuation for
properties through powers may fail, as it could be the case that two distinct properties A and
B have the same set of essential powers16 . It is not the case that each difference between
individuals/properties is an essential difference; nonetheless, if powers are not sufficient for
trans-world individuation, something else is needed to exhaust a property’s nature.
Therefore, even if we accept the weak thesis usually correlated with dispositional essentialism (“a property has its powers essentially”), our quest for the nature of properties is not
yet concluded.
The stronger thesis in the same continuum is the thesis that not only powers are essential
to properties, but that matters of individuation of properties are settled through powers17 . We
won’t present any argument for or against the possibility of two properties necessarily sharing the same powers, but we shall explore the possibility of giving criteria of individuation of
properties through powers. Was this suggestion to be taken literally, the nature of a property
would consist in the nomic/causal roles it is called to play.
There are a few problems with this suggestion. First of all, it may generate an unbearable
regress in the determination of the identity of a property. Let us assume that each property is
identified by one causal power (but a similar argument works even if the powers involved are
more than one): if property A is identified by its power to produce property B – where property
B is the output of the said power – and property B by the power to produce property C, and
15 As
far as we know, there is no other attempt to build non-contingent laws that does not appeal to constitutive
powers of individuals. By contrast, all attempts to build dispositional essences for properties with contingent powers
seem weird: we could have, for instance, couples <world, powers> that pair for each possible world the powers the
property has in it, but it still looks wrong to say that the essence of a property is a set of worldly- relativized items.
It takes a bold departure from our initial sense of “essence” and “nature” to consider the essence of a property as
constituted by its contingencies.
16 This also suggests the somewhat related point that even if we currently talk about “essential properties”, the
very essence of an individual is probably not a property possessed by it, as that would involve the weird consequence
that an individual is (numerically) different from its essence, at least on a substance-attribute position abut property
instantiation.
17 Technically, intra-world criteria of identity are given through power-based trans-world criteria of individuation.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
35
so forth we would have a structure of identity determination that is infinite, if there are
infinite properties, or circular, if they are finite in number. Even if each operation of identity
determination or individuation is per se successful, the global structure is unacceptable. The
problem is engendered by the fact that identity conditions of properties are given through
other properties18 .
Nonetheless, Bird (2007b) shows how it is a simple truth of graph theory that this claim
is not backed up by facts. Let us assume that there are finite properties, and so the structure
is circular. In what sense is it unacceptable? In the following graph
the dots represent properties and lines the relation of identity determination; the shaped
lines work like arrows or vectors – they represent an asymmetric relation. It is a graph of a
2-place relation structure displaying non-trivial automorphism. That is to say, points can be
moved leaving the structure untouched. The identity of the points should be determined by
their position in the structure, but unfortunately, no internal feature of the structure allows
to discriminate one position from another. We know that the points are four, yet, given two
variables ranging on points, there is no non-haecceitistic property to provide a suitable right
member of the formula “for each x and y, x = y if and only if. . . ”. Therefore the structure fails
to determine their identity, that is to say, out of the model, fails to determine the identity of
properties involved. This is because points are not properly individuated.
It must be precised that the identity of a property cannot just be determined by one other
property. We earlier said that each power is determined by the couple <input, output>, corresponding to stimulus and manifestation properties; in that case identity determination is a 3place relation, having two determinantes and a determinandum. The stimulus-manifestation
model is not, however, the only one in town; to avoid complications let us say that identity
determination for properties is an (n + 1)-place relation, where n is the number of determinantes needed. The problem is not yet dissolved, as shown in the following graph of a 3-place
relation structure with the same feature of non-trivial automorphism (again, the shape of the
lines roughly represents the asymmetry of the relation).
18 (Lowe,
2006, p. 138).
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
36
Bird’s solution rests on the possibility that the structure generated by powers has no nontrivial automorphism. That cannot be excluded a priori. In Bird’s words “the identity and
distinctness of the vertices of a graph can indeed supervene on the structure of that graph”,
by providing an asymmetrical graph as in the following case.
Properties are determined by clusters of powers. In our graphs, properties are represented
as positions in the structure. This kind of position constitutes a metaphysically robust take on
properties as it involves holism about their identity. Therefore, as the identity determination
we are looking for is not contingent (it depends on trans-world individuation), the whole
structure, and the properties in it, needs to exist at all worlds that display at least one of them
(e.g., there cannot be qualitatively poorer worlds where at least one of the actual properties
is present).
It looks like a good start, but the most pressing worries for dispositional essentialism at
this point are not formal but ontological. Given the graphs we previously showed, what really
is a power? This is the right moment to shed some light on the generic claim that a property
bears essentially all of its powers. It is then the case that we have two things, the property
and (the set of) the powers? From the point of view of the dispositional essentialist, it is
perfectly fine to say that a property essentially has all its powers, or that it is determined by
its powers (and, additionally, individuated by powers), or that it supervenes on its powers.
However the pure powers view, as we may call this version of dispositional essentialism does
not settle for that: it claims that a property just is its powers. This is the position endorsed
in both Bird (2007b) and Mumford (2004, p. 170), who claims: “The view of properties I find
most attractive is one in which they are natural clusters of, and exhausted by, powers”19 .
So, if we consider again the last graph, the most economic outcome is that properties do
19 In the same pages however Mumford downplays the importance of essentialism in his account. It is of no
importance right now.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
37
not fill positions in the structure: they rather are positions in the structure. The natural
justification of this kind of position is that it avoids any redundancy in the explanation of the
relation between properties and powers: it is, allegedly, a more parsimonious solution.
4
Quidditism strikes back
According to the pure powers view, all that a property is, are causal powers – or a bundle of
causal powers. There seem to be, however, a couple of objections to this proposal that may
suggest the possibility of quidditates coming back into the picture – these (partially related)
objections, roughly put, question the ultimate metaphysical consistency of the picture set
forth by the pure power theorist. They do so by questioning the nature of powers specifically,
rather than properties generically, and the correlation between powers and properties.
First objection: one of the most pressing worries in the metaphysics of powers is constituted by the need to explain the correlation between a power and its manifestation (e.g.,
between fragility and breaking); pure power theorists sometimes imply what we may call a
relational framework of powers: that is to say, that a “power to M ” is to be understood as an
n-adic relation where a relatum is M 20 . To take at face-value the correlation between a power
and its manifestation as a genuine relation is surely tempting; yet, from the standpoint of the
pure powers view, that solution is bound to backfire, as eventually (although pure power theorists like Bird did not explicitly claim of this conclusion) properties would just be relations,
or bundles of relations.
It is a gloomy perspective: if we identify each property with a (set of) higher-order relations, there is no lower-order property that can be properly said to enter into such relations.
We are therefore asked to identify the relata, if there are any, of these relations. But these
relata cannot be, as initially suggested, properties themselves, as they are, in turn, bundles
of relations. So our task is to identify alternative relata for the power relation. Jacobs (2011,
pp. 84–89) raises this problem, suggesting other kinds of relata the pure power theorist can
appeal to. The main problem, according to Jacobs, is to suitably link individuals with the
power-structure, in a way that such a structure is not left “floating around” uninstantiated,
while at the same time keeping a strongly realist attitude on properties. As the task is impossible, according to Jacobs, the pure powers variety of dispositional essentialism is to be
rejected in favor of some sort of weaker position.
We can for example suppose that relata we are searching for are further instances of
the relation itself. Everything that instantiates the relation by being a relatum is a relation itself. But if at some point we want individuals to have powers, that would have the
consequence that not only properties but also individuals are (bundles of) relations. If we accept this line of reasoning, together with a classical repartition of worldly existents between
substances/individuals and properties – the outcome is that all that there is, is structure generated by the power relation. Intuitively, whenever we go searching for what is filling one
place in the structure, we discover more structure; there is nothing immediately malicious
in this regress (except, maybe, the ontological commitment to an infinite number of relations), but the resulting stance is overly complex and demanding. If any form of dispositional
essentialist is insubstantial, this one is.
However, as Mumford (2004, p. 173) claimed, “[a] cluster theory of properties is wholly
20 Bird
(2007b) is a fine example of this category.
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38
independent from a cluster theory of substances”, therefore we may want to search for some
less expensive solution. We could, for example, think that the relata of the dispositional
relation are individuals themselves. So we have individuals and a first-order structure. The
charge against this second solution is that it cannot properly countenance the existence of
properties; since, at the end of the day, it reduces properties to relations; such a reduction
constitutes the topic for a tricky and very complex debate that we are not going to discuss
right now21 .
Any weakened position that grants more autonomy to properties with respect to powers
needs to explain what that autonomy amounts to; and quidditism is indeed the most natural
response, as we will need something that is not dispositional in itself to fill the places in the
structure.
The second problem, as raised in Barker (2009), is the following: if properties are just
(bundles of) relations, our initial question about the nature of properties is bound to ultimately pop up for relations as well: what are relations – in particular, what is the powerrelation? After all, one of our premise was that properties are just a special kind of relations.
To iterate the pure powers view would just mean to generate a regressum ad infinitum in the
explanation of properties; this is not a merely apparent regress, such as the one discussed earlier. It is a real one, as the latter (merely apparent) regress is generated between same-order
powers, and can easily be dispelled by manipulating the shape of the structure, while the
former regress is between different-order powers. If the pure power theorist does not want to
run in full circles, she has to deny the existence of a regress of high-ordered structures in the
determination of properties/relations. But, that being said, no non-quidditist solution seems
appealing; for instance, we can understand powers in terms of functions; yet a function is a
unitary entity which generates the correspondence between the input and output, as a power
for its stimulus and response; in the case of simple arithmetical function, what is it that
makes the function y = x + 2 different from the function y = x˘2 that is not the difference in
<input, output> pairs they produce? It seems that they are different because they are made
to work that way, and that is no longer open for further explanation.
In conclusion, there are three troublesome commitments for the pure powers view (on a
relational account of powers). Some of them point to what we take to be fatal flaws of the
position.
1) Necessary existence of the structure where at least one property exists.
2) A purely relational view of properties (and perhaps of substances as well).
3) An infinite regress of high-ordered structures.
5
Powerful quidditism
A fall-back manoeuver from pure powers may be preferable. We can accept that it is in the
property’s constitutive nature to be dispositional, but that cannot be the end of the story. So,
we cannot go past weak dispositional essentialism to strong dispositional essentialism, and
give full criteria of identity/individuation of properties in terms of powers.
21 We
earlier said that properties are a particular kind of relations, but this is something more; according to the
first definition, properties are monadic relations – but if the previous reasoning is correct, there are no monadic
relations.
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39
How to formulate a new position? The idea is to accept the existence of quidditates, that
is to say, primitive sources of identities that make each property the property that it is, and
not another. Properties would therefore be both dispositional and categorical22 . Quidditates
would fill the places in the structure in virtue of being what they are and not other qualities. As a property’s powers are retained necessarily, this dispositional essentialist-friendly
version of quidditism (that we are going to call “powerful quidditism”) will not be affected
by any of the arguments above. As for the first objection, powerful quidditism is more interesting than the traditional one: even if ultimately the true nature of a property cannot
be fleshed out in more simple terms, each quidditas now generates a series of core features,
summarized by the role in the power structure the property essentially plays; this sheds at
least some light on what a property essentially is. The humility objection and the “swapping
powers” objections are dealt with, insofar as properties retain their powers necessarily and
can easily be recognized through worlds.
As for the problems of pure powers, powerful quidditism solves some of them. Firstly, the
identity conditions of a property are not determined holistically but locally, by the quidditas;
yet, as it is essential of the property to enter that place in the structure, the structure must
still exist at all worlds in which the property exists.
As for the second regressum objection, there is still the problem that if power-talk has to
be understood as a relational talk (if the structure is real), we have to countenance a special
quidditas, the quality of the power-relation which is different from the others as it generates
the structure and doesn’t have powers itself. This peculiar quidditas would be different from
the others not just by being primitively numerically different, but by displaying different
features, such as not having a place in the structure. It is indeed a problematic and not
parsimonious claim to make. Quidditism is one thing, double quidditism is another.
At this point, dispositional essentialism risks being forced to renounce the core of her
credo: if one doesn’t accept the existence of this “special” quidditas, there will be nothing left
of dispositional essentialism in powerful quidditism. As a consequence, powerful quidditism
lapses back into categorical quidditism as presented in sections 2 and 3.
We could eliminate the need of this special quidditas and claim each property to be directly
(and essentially) powerful – and not through a power-making relation. But, as in this interpretation the power structure is not real, we would have to explain what “powerful” means.
Jacobs (2011) claims powerful qualities to be so, insofar as they are primitively apt to be
the truthmakers of counterfactual conditionals23 . This eliminates the problems of powerful
quidditism relatively to the nature of the power-relation, but we take it to be a troublesome
path to take. First of all, the relation between dispositions and conditionals is known for being controversial, so if an entailment between a power ascription and a conditional is taken
to formalize the relation of truthmaking, several counterexamples can be brought forward.
Secondly, if the dispositional character of a property is played by the quiddity itself, no metaphysically interesting explanation is given of why should a property be dispositional. Instead,
a property would be primitively dispositional in virtue of its correlation with a truth-bearer,
such as a proposition: but it does not seem right to claim that dispositionality resides in a
relation with a linguistic entity. It may be true that properties are truthmakers for counterfactuals, but that cannot be the end of the story: we have to point out the nature of the
property that truly allows us to call it powerful, and to be a truthmaker. If we cannot do that,
22 See
Martin (2008), Martin and Heil (1999) and Heil (2003).
proposal seem to be, in turn, the more straightforward interpretation of some statements usually put
forward by dispositional essentialists. For example, see: Ellis and Lierse (1994, p. 33).
23 Jacobs’
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40
because we appeal to a primitive nature like a quidditas, then the account ends up being less
interesting.
The general problem seems to be a reiteration of the regress argument against pure powers. First, a theory endows a property a with a feature b that makes a dispositional. Second,
the same problem that concerned property a is raised for feature b (since features can be seen
as properties under a different label – as in the relational account of the correlation between
a power and its manifestation). And so on24 .
6
Conclusions
Dispositional essentialism, the claim that a property is essentially powerful, seems more explanatory than a radical categorical quidditism, as it has overall more to say about what a
property is. However, it is difficult to make dispositional essentialism evolve from a theory
about essential properties into a theory about essences. Even if, pros and cons all considered,
we still take dispositional essentialism to be a more enlightening position when it comes to
analyze the nature of properties, there is no non- problematic version of it. Our take is that
powerful quidditism (there are essentially powerful quidditates) is an interesting intermediate position between pure powers (the most extreme version of dispositional essentialism)
and categorical quidditism.
Powerful quidditism can solve all the problems of pure quidditism and at least one problem of pure powers (the problem of finding the relata in the power structure). Yet we still lack
an account of what makes a property powerful that does not fall in the problems of either the
“double quidditism” position or in the problems of simpler accounts, such as the one in Jacobs
(2011). This last choice suggests a further problematic all dispositional essentialists have to
tackle, and precisely whether or not we have to agree on a relational account on the correlation between a power and its manifestation: no disposition-based account of properties is
forthcoming without an understanding on this matter.
The dispositional essentialist, in short, still owes us many explanations, and the question
about the nature of properties is far from being fully answered.
24 These positions were sometimes labeled as a kind of “double aspect” insofar as they endow each property with
both a dispositional and a categorical side. The problem of the double aspect was to explain how could the categorical
and the dispositional coexist in one and the same property, and, from the point of view of dispositional essentialism,
how it happens that they necessarily covary. While both of these problems are solved by non-relational accounts
of powers such as Jacobs (2011) through the appeal to an ineffable quidditas, they are somewhat problematic for
double quidditism; strictly speaking, on that account, properties are not essentially dispositional, yet they enter
necessarily into some position in the power structure – but why is each quality necessarily paired with a position in
the structure is left unsaid.
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41
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CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Sponsored by Società Italiana di Filosofia Analitica
O N THE RELATIONSHIP BETWEEN F OUR -D IMENSIONALISM
AND P ERDURANCE
Michele Luchetti
A BSTRACT. A relevant part of the literature around the metaphysical problem
of the persistence of concrete particulars has been charged of being too liberal on
the following respect: despite the fact that Four-Dimensionalism and Perdurantism are often treated as theories equivalent in content, they actually seem to be
different metaphysical doctrines. Parsons (2000) attempts to clarify the content
of these doctrines: his clarification is based on the postulation of a difference between temporal parts and temporal extension and it aims at demonstrating that
Four-Dimensionalism and Perdurantism are not tied by any a priori connection
and are not underpinned by the same ontological footing. In this work I endorse
Parsons’ clarification as legitimate from a logical and semantic point of view, but
I maintain that, in spite of his distinction between Perdurantism as a theory of
persistence and Four-Dimensionalism as a theory of extension, these doctrines are
ultimately equivalent, when it comes to formulating a general view about material
objects. Indeed, I argue that material objects extended four-dimensionally persist
by perduring, and perduring objects extend four-dimensionally in space-time.
K EYWORDS. Metaphysics, Ontology, Temporal Parts, Four-Dimensionalism, Perdurantism.
C
\
$
CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Michele Luchetti. Published in Italy. Some rights
reserved.
A UTHOR. Michele Luchetti. [email protected].
R ECEIVED. March, 7th 2014. A CCEPTED. July, 6th 2014.
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1
44
Introduction
Four-Dimensionalism and Perdurantism are normally conceived as inseparable if not even
equivalent. In fact, they are often both taken to require that objects extend four-dimensionally
by having temporal parts. For instance, Trenton Merricks (1995) uses perduring and fourdimensional interchangeably and Ted Sider (2001, p. 68)1 , in his influential treatise on FourDimensionalism states: “I use the term [Four-Dimensionalism] in the sense of perdurance”.
However, the identity of Four-Dimensionalism and Perdurance Theory has been challenged by Josh Parsons (2000), who claims not only that Four-Dimensionalism and Perdurantism are not equivalent, but also that no a-priori connection holds between them. With
reference to Jackson’s formulation of Four-Dimensionalism2 , Parsons (2000, p. 399) states
that, in respect to the debate about temporal parts, “four-dimensionalism is a broader programme that (allegedly) entails a certain specific theory of persistence, namely perdurantism”. Furthermore, as he argues, theoretically Four-Dimensionalism is not in disagreement
with Endurantism, according to which objects do not persist by having temporal parts but
by being wholly present at every moment at which they exist. Therefore, conceiving objects
four-dimensionally does not necessarily imply conceiving them as being made of temporal
parts.
Firstly, this work is aimed at delving into Parsons’ strategy, which is based on an attempt
to strengthen the distinction between Four-Dimensionalism and Perdurantism, inasmuch as
they constitute two theories different in kind and content, in order to make room for a plausible combination of Four-Dimensionalism and Endurantism. Secondly, I will criticise some
of the weak points of Parsons’ metaphysical picture in order to show that, despite the fact
that Four-Dimensionalism and Perdurantism do not necessarily imply the very same theses,
there are valuable reasons to assert that these two theories must go together to provide an
effective account of reality.
2
Parsons’ Four-Dimensionalism without Temporal
Parts
While Four-Dimensionalism is usually known as the doctrine whose core states that entities
in space-time have four dimensions since they extend in time as well as in space, Parsons
distinguishes between two different theses constituting Four-Dimensionalism: the Dimensionality Thesis and the Analogy Thesis. The Dimensionality Thesis claims that the universe
is a four-dimensional manifold of which one of the dimensions is time. This is, according
to Parsons, the central claim of Four-Dimensionalism, whereas the content of the Analogy
Thesis is merely “that time is somehow, strongly or weakly, analogous to space” (Parsons,
2000, p. 401). This latter thesis is not implied by the former, but it grants a solution to many
puzzles about time through the analogy with space. Parsons believes that these relevant
philosophical implications have led some philosophers, for example Heller (1990), to consider
the Analogy Thesis, erroneously, as the only relevant content of Four-Dimensionalism. In
particular, Heller’s mistake consisted in taking the Dimensionality Thesis for granted, and
making of the Analogy Thesis the only claim of his ‘minimal Four-Dimensionalism’.
1 The
2 See
term “Perdurantism” goes back to Lewis (1986).
(Jackson, 1998, p. 138).
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45
Many versions of the Analogy Thesis are possible, some stronger than others, but ultimately all of them state that time is in some way similar to space. For instance, “a weaker
form of the Analogy Thesis could assert that time is just like space, except that objects fill
time by enduring, while they fill space by having spatial parts” (Parsons, 2000, p. 403). However, Parsons does not provide any criterion which we might base our choice of the degree of
‘weakness’ of the Analogy Thesis upon, and his argument makes use of the Analogy Thesis
in its strongest possible version. According to this version, time and space seem to be alike
tout court. Parsons’ purpose is to demonstrate that the fundamental theses defining FourDimensionalism do not necessarily involve recourse to Perdurance Theory and to temporal
parts, since they can also be perfectly efficient in an ‘endurantist’ frame.
Parsons’ reasoning runs as follows: if we did not take the fact that things extend in space
by having spatial parts3 for granted, a position analogue to ‘Endurance Theory’ would be
available: call it ‘Entension Theory’. Whereas the former asserts that every material object
is wholly present at every time at which it exists, the latter states that material objects fill
space by being wholly located in each of several places. Parsons believes that if we had enough
empirical evidence to claim that some, if not all objects, entend, we would be bound to embrace
Endurance Theory as well, since the spatial analogy compels us to do so. Still, this picture
would be perfectly compatible with Four-Dimensionalism, conceived as the combination of
Dimensionality Thesis and Analogy Thesis, since none of these would be contradicted.
For an object to ‘entend’, it is necessary that it is wholly located in each of several places;
that means it has to extend in space without having parts. If we argued that extended objects
were composed of extensionless parts, we would run into a paradox, since extended objects
themselves would be extensionless. Therefore, we must admit the existence of ‘mereologically
simple’ objects which will correspond to the entending objects we are looking for. “What are
these entending simples? I think that it is most likely that they are the most fundamental
objects of physics, leptons and quarks” (Parsons, 2000, p. 404).
According to current physics these subatomic particles are ‘mereologically simple’ objects
and they correspond to the extreme limit which matter can be subdivided into. From these
premises, Parsons draws the conclusion that these objects have an extension while lacking
parts, and assumes that, even in case we might find even smaller particles, the questions
whether there are ‘mereologically simple’ objects and what they are like, should have empirical answers.
Parsons does not explicitly consider these ‘mereologically simple’ objects to be the fundamental constituents of the ontology of material objects, although it is plausible that he
believes these objects to be somehow more fundamental than non-entending – or ‘pertending’ – objects. Nevertheless, his argument only aims at demonstrating “that some material
objects, not regions of space, entend” (Parsons, 2000, p. 405).
A common objection raised against the endurantist view is that its account of change leads
to the problem of temporary intrinsics, which is often brought up to support the ontology of
temporal parts. According to Lewis (1986, p. 202), “endurance involves overlap: the content
of two different times has the enduring thing as a common part”: therefore enduring objects
necessitate the coexistence of mutually exclusive properties, if we are not to deny the possibility for an object to change. For instance, a window glass can be intact at T1 and broken at
T2 : hence, if we are to consider the window glass as an object wholly present at every time at
3 This position, according to which material objects extend in space by being divided into parts, is called by Parsons
‘Pertension Theory’, which is nothing but the analogue of Perdurance as far as extension of material objects in space
is concerned.
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46
which it exists, it will instantiate both the intrinsic properties4 of being intact and of being
broken. The very same problem may affect Parsons objects, which are intended as extending
in time by being wholly present at every time at which they exist.
How to account for change without running into the problem of temporary intrinsics, if
temporal parts are to be rejected? Parsons’ solution resorts to temporally indexed properties5 ,
which are intrinsic, non-relational and “should be understood in a way that makes it possible
for objects located at two different times to share such a property. If two pokers, created at
different times, were to have the same history of cooling down, and being destroyed, they
would share all their temporal indexed heat properties” (Parsons, 2000, p. 408).
These properties are distributional, since each of them accounts for certain distributions
of a characteristic of an object in time and space. They are also disjunctive, that is: “wherever
we have a temporally indexed property of being X-at-t, we have a number of corresponding
permanent distributional properties: the X-ness distributions, the ones that are compatible
with being X-at-t” (Parsons, 2000, p. 409). According to these claims, change is to have a
distribution that is non-uniform over time and does not compel us to admit the existence of
any sort of temporal part whatsoever.
Therefore Parsons attempts to open the way for a four-dimensional picture that does not
need the controversial concept of ‘temporal part’ and can account for change in an endurantist
perspective, apparently without running into the usual objections raised against the threedimensional endurantist picture, since distributional properties avoid the problem of temporary intrinsics by integrating the temporal dimension. Indeed, a distributional property is not
exemplified or non-exemplified by an object with reference to a single instant t, but it is exemplified for more or less uniform temporal intervals, with reference to the whole “life-span”
of the object considered. Just like the colour red in a chequered white and red tablecloth is
exemplified on several and different occurrences along the whole extension of the tablecloth,
the same reasoning applies, roughly, to a poker which exemplifies the property of being hot.
The distributional property of being hot is not taken into accounted by considering the poker
at a fixed moment t1 , in which, let’s say, the property is exemplified, and at another moment
t2 , in which the property is not exemplified, but with reference to the irregular distribution
of the property along the whole “life-span” of the poker.
3
Objections against Parsons’ View and Minimal
Four-Dimensionalism
Parsons tells apart two assertions usually accepted as constituting the central nucleus of
Perdurance Theory, and very often believed to be fundamental to Four-Dimensionalism as
well:
1) The claim that ordinary objects have temporal parts;
2) The claim that ordinary objects have temporal extent.
As Hawley (2008, p. 202) points out, “the distinction is useful because it seems at least
conceivable that an object could be temporally extended without having temporal parts”.
4 “A
thing has its intrinsic properties in virtue of the way that thing itself, and nothing else, is [. . . ] The intrinsic
properties of something depend only on that thing” (Lewis, 1983, p. 197).
5 See (Van Inwagen, 1990).
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47
Parsons regards 1) as the chief content of Perdurance Theory, but not as a necessary entailment of a four-dimensionalist position, whereas he considers 2) to be a central claim of
Four-Dimensionalism.
Similarly to the spatial case, in which those who believe in the possibility of spatiallyextended simples may also believe that an object can extend through a spatial region without having a proper part in every proper sub-region of that region6 , Parsons postulates
temporally-extended simples: objects extended over time but without temporal parts. In
this way, he opens the path for a plausible association of Four-Dimensionalism and Endurantism and challenges the traditional picture, which combines of Perdurantism and FourDimensionalism.
In this paragraph some objections against Parsons’ view will be formulated and examined
in order to answer the following question: is it necessary for a four-dimensional object to
have temporal parts? Despite Parsons’ attempt, I hold that the most plausible answer is still
‘yes’. In order to analyze Parsons’ strategy in more detail, I believe his reasoning may be
deconstructed into the following steps:
a) Decomposition of the nucleus of Four-Dimensionalism into two theses, Dimensionality
Thesis and Analogy Thesis, and attribution of the ‘guilt’ of making seemingly necessary
the recourse to temporal parts to the latter.
b) Choice of the strongest version of the Analogy Thesis and demonstration of its compatibility with Endurantism.
c) Postulation of the existence of ‘mereologically simple’ objects that have temporal extension
by lacking parts, underpinned by the analogy of how objects extend in space and how we
have enough empirical evidence to regard the existence of ‘mereologically simple’ objects
that have spatial extension by lacking parts as plausible.
As far as a) is concerned, Parsons (2000, pp. 399–400) draws a sharp separation between
the Dimensionality Thesis and the Analogy Thesis. This separation reflects and supports the
distinction made between 1) and 2): the claim that material objects have a temporal extent
(2) is as fundamental to Four-Dimensionalism as the Dimensionality Thesis is. On the other
hand, the claim that material objects are made of temporal parts (1) is not constitutive of
Four-Dimensionalism, while it is essential to Perdurantism. Parsons asserts that the origins
of the Dimensionality Thesis lie in the set of consequences of relativity theory, the Analogy
Thesis being possibly justified only inasmuch as it is a useful philosophical addition, since it
provides a solution to paradoxes about time and change.
However, a justification for the Analogy Thesis may also be rooted in the very same field
as the Dimensionality Thesis. Since one of the results of relativity theory is, roughly, that
space and time relations cannot be analysed separately if they are not considered within the
same frame of reference, a single unified representation of the spatiotemporal extension of
objects is necessary. Moreover, both the possibility of a graphic representation of spatiotemporal extension on a spatiotemporal diagram, and the principle that objects extend in time
in the same way as they extend in space, do not necessarily require the annihilation of the
differences between spatial relations and temporal relations. They can be regarded, instead,
as consequences of the treatment of time on a par with space and of the loss of meaning of
6 See
also (Markosian, 1983).
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48
the notions of absolute time and space. If we consider the second part of a), it must also be
noted that the Analogy Thesis is not always used as an argument for temporal parts, but
rather to illustrate what they are: “though I appeal to the analogy between spatial parts and
temporal parts in explaining the concept of temporal parts, I do not appeal to any analogy as
an argument for temporal parts” (Heller, 1992, p. 696)7 .
Now let us turn our attention to b). Parsons believes that the strongest version of the
Analogy Thesis is the most difficult to combine with Endurantism. If it can be demonstrated
that this combination is possible, it follows that any incompatibility between Endurantism
and weaker versions of the Analogy Thesis is ruled out. However, the fact that weaker versions of the Analogy Thesis, as it will be shown, may be more problematic for Endurantism
than the strongest version, is taken for granted. Furthermore, no criterion is provided by
Parsons, on which we should base our choice of the degree of weakness of the Analogy Thesis, when characterizing a particular four-dimensionalist theory. For instance, Heller (1992,
p. 696) claims that his version of the ontology of temporal parts accords better to weaker
versions of the Analogy Thesis: “it will prove important to my defence of the temporal parts
ontology to reject a complete analogy between space and time”. Parsons may therefore have
underestimated weaker versions of the Analogy Thesis as less forbidding enemies than the
strongest version.
Step c) consists of a postulation of ‘mereologically simple’ temporal objects, which extend
in time by lacking parts. The legitimacy of these entities derives from the analogy with space,
from the strongest version of the Analogy Thesis, in particular. Since the existence of these
entities does not contradict either of the two fundamental theses of Four-Dimensionalism,
they allow a combination of Four-Dimensionalism and Endurantism to be a plausible basis
for our ‘true’ ontology of material objects8 . However, two main kinds of objections can be
formulated against the legitimacy of the reasoning that might lead us to introduce these
entities in our ontology:
1) Objections from empirical premises;
2) Objections from non-empirical premises.
1) Parsons argues that, since ‘mereologically simple’ spatial objects exist, and time is
exactly like space, ‘mereologically simple’ temporal objects may exist. The first problem that
stands out is of empirical nature. According to Parsons, the fact that some things ‘entend’,
i.e. have spatial extension by lacking parts, has many empirical premises and “whether some
things entend (as I have argued), or whether, on the contrary, everything pertends9 is an
empirical matter” (Parsons, 2000, p. 404). But if empirical evidence is our measure, we are
not bound to accept the thesis that time is exactly like space, since the possibility that at least
some differences between the spatial dimensions and the temporal dimension subsist has not
been ruled out yet10 . For instance, we might mistakenly wind up believing that space and
time have the same density: in fact, since space is not dense, ‘mereologically simple’ spatial
7 Hawley (2001) also points out that the soundness of the argument that goes from the unified treatment inferred by Special Relativity to temporal parts is very debatable. However, as Heller points out, an argument is not
needed to introduce temporal parts in our ontology, as long as they are able to guarantee consistency and a stronger
explanatory capacity to an ontological theory.
8 A structured and in depth exposition of Parsons’ ontology can be found in (Parsons, 2007, pp. 201–232).
9 For a definition of “Pertension” see note 2.
10 One among many examples consists in the commonsensical belief that, differently from the spatial dimensions,
the temporal dimension has a direction. The question whether covering the temporal dimension along both direc-
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objects must therefore exist, if we do not want to incur the Argument from Avogadro11 . On
the grounds of the strongest version of the Analogy Thesis, according to which time is exactly
like space (i.e., not dense), ‘mereologically simple’ temporal objects must exist too. However,
we have no decisive empirical evidence that time is not dense12 , therefore we have no decisive
empirical evidence to legitimate the introduction of ‘mereologically simple’ temporal objects
on an empirical basis.
2) Parsons’ argument is based, as we have seen, on the premise that there are some things
that entend. Setting aside the empirical presuppositions, I would like to reflect upon the
meaning of the theory of ‘Entension’ coined by Parsons to legitimate his ‘mereologically simple’ temporal objects through the analogy with space.
Since Endurance Theory states that objects are wholly present at every moment at which
they exist, Entension Theory, which is defined by Parsons as the equivalent for space of Endurance Theory, entails that there are objects wholly located in each of several places. What
does this mean? If we attempt to explain how a world populated by mereologically simple
entending objects could be, I believe two possible scenarios can be given:
a) Each of these entending objects must fill exactly one unit only of space which is not any
further divisible, one place, and therefore these objects are wholly located, but in just one
place (at a time), in accord with the axiom that every ‘mereological simple’ occupies one
and only one point of space-time;
b) Entension is based on the assumption that mereological simple objects are the most fundamental objects of physics (i.e., leptons and quarks). These particles are not practically
decomposable any further. This derives from the fact that physical divisibility is assumed
as the privileged criterion to establish what is a ‘mereological simple’. However, the fact
that the most fundamental objects of physics cannot be subdivided into smaller parts,
might nevertheless be insufficient to rule out the possibility that our physical space is
composed by units even smaller than the particles by which these spatial units are occupied. If this was the case, i.e. if every lepton or quark occupied more than one place at a
time, our mereologically simple spatial objects would be only partially located in each of
several places.
Option a) fails the requirements of Entension, according to which ‘mereologically simple’
spatial objects are multiply located at the same moment of time; option b) fails to meet the
requirement that entending objects are wholly located in all of the places in which they exist.
Since Parsons’ defines Entension Theory in analogy with Endurance Theory, it follows that
the same problem occurs when his ‘mereologically simple’ temporal objects are defined. For
instance, Hawley challenges the strict connection between Endurantism and Parsons’ view,
drawn by Parsons himself. She suggests that both enduring objects and Parsons’ objects lack
temporal parts, but while an enduring object is wholly present at each of several times, a
Parsonian object occupies a temporally extended region without being wholly present at any
single time.
tions, just like they were spatial dimensions, is (logically and/or empirically) possible or not roused the philosophical
debate concerning the possibility of time travels and the discussion of the consequential paradoxes (see Torrengo,
2011). Another example, which is below taken into account, concerns the problem of space and time density.
11 See (Parsons, 2000, pp. 403–404)
12 Many views in philosophy of time are based on the ancient principle that time is continuous (See for example
Aristotle, Physics VI, 2). For a recent example of a theory of time based on that principle, see Skow (2012, pp. 223–
242)’s version of the spotlight view. Indeed, the question whether or not time is dense is still open.
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50
The distinction between enduring objects and Parsons objects depends upon a
non-mereological distinction between occupying a spatiotemporal region by being multiply-located at various of its subregions, and occupying it by extending
through it, a distinction between two ways in which a simple object might conceivably occupy a region. (Hawley, 2008, p. 7)
Hawley believes that Parsons’ objects are different from enduring objects, since the former
fail to be wholly present at any single time. From this reasoning, it follows that Parsons does
not manage to provide a solid endurantist frame for Four-Dimensionalism, and his system
tends to collapse onto a view not very different from a three-dimensional picture13 .
In fact, if we apply the two scenarios depicted for entending objects to enduring objects,
it results that these objects cannot subsist in a four-dimensional frame. Standard threedimensional continuants are objects with spatial parts and no temporal parts, which are
conceptualized in our experience as occupying space but not time, and as persisting wholes
through time. They exist entirely at every time at which they exist: they do not have temporal
parts through which they extend over time, but they endure over time. On the other hand,
Parsons’ four-dimensional enduring objects would occupy only one spatio-temporal region
(the smallest possible) and would be composed neither of spatial nor of temporal parts. These
objects would be spatio-temporally extended without having parts. However, as we have seen,
this claim is justified, as far as the temporal dimension is concerned, only on the basis of an
absolute analogy between space and time.
By applying scenario a) to the temporal dimension of Parsons’ objects, it follows that these
objects, even though they would not fail to meet the requirement of being four-dimensional,
since they would have a temporal extension, would fail to meet the requirement of being enduring objects, since they couldn’t have a temporal extension without having temporal parts.
For an object to be four-dimensional, an extension along the temporal dimension is needed,
but we do not have enough empirical evidence to support an absolute analogy between spatial
and temporal dimensions, and therefore to accept the fact that objects can have a minimal
temporal extension that cannot be subdivided into further parts. If Parsons’ objects were
to preserve a duration over time, they would need at least to ‘sweep’ over time, like threedimensional objects do.
According to scenario b), Parsons’ objects would occupy more than one spatio-temporal
unit, therefore they would extend in spacetime by having parts. As far as their extension
along the temporal dimension is concerned, they would be nothing but four-dimensional perduring objects.
4
Do we need Parsons’ distinction? A proposal of
“Minimal Four-Dimensionalism”
I believe Parsons’ distinction between temporal extent and temporal parts should be taken
into account when formulating a definition of Four-Dimensionalism, since it allows a logical
distinction between two expressions which do not designate the same concept. Nevertheless,
from an ontological point of view – and for as much empirical groundings as we want our
ontology to be underpinned by – Endurance Theory fails to provide an appropriate frame for
Four-Dimensionalism, and the recourse to temporal parts seems to remain inevitable.
13 This
point has been discussed with Katherine Hawley, whom I thank for the significant prompts.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
51
Therefore, I believe the main requirements of a minimal Four-Dimensionalism boil down
to the following claims:
1) The universe is a four-dimensional manifold of which one of the dimensions is time14 ;
2) Material objects extend four-dimensionally in space-time. They have a spatial as well as a
temporal extension.
The assertion that four-dimensional objects extend in time in the same way that they extend in space does not entail that time and space must have the same kind of ‘simples’ or
the same way of being divided into parts. The fact that it is not possible to consider spatial relations and time relations as being absolute outwith a frame of reference, simply does
not allow us to consider absolute spatial and temporal parts. If we follow Parsons, building the concept of ‘temporal part’ into the definition of minimal Four-Dimensionalism brings
implications that derive from a combination of Four-Dimensionalism and Perdurantism. The
principle that objects ‘extend’ in time, instead of ‘moving or sweeping in time’, or ‘being wholly
present at every instant’ guarantees in itself the analogy with space, since in both the temporal and the spatial case we are considering a relative extension in one (or more) of the four
dimensions of the manifold.
Nevertheless, I believe a fundamental reason stands out, which requires an effective definition of ‘minimal Four-Dimensionalism’ to include also the principle that four-dimensional
objects extend in time by having temporal parts. This reason has to do with the fact that
Four-Dimensionalism in combination with Endurantism tends, as we have seen, to flatten to
a sort of three-dimensionalist view. Although Four-Dimensionalism itself does not logically
entail Perdurantism – as much as ‘temporal extension’ might not logically imply ‘temporal
part’, if we believe in temporally-extended simples – as Parsons clearly pointed out, as a
matter of fact Four-Dimensionalism is not in a condition to provide an effective account of
material objects persisting over time if not recurring to temporal parts, which are ontologically necessary to make sense of Four-Dimensionalism. Therefore, I believe that 1) and 2)
need to be supplemented by the following principle:
3) Four-dimensional objects extend in time by having temporal parts.
5
Conclusions
I attempted to show that Parsons’ combination of Four-Dimensionalism and Endurantism has
some weak points. In the first place, I argue against the empirical and non-empirical premises
on which Parsons grounds the strongest version of spatial analogy that he endorses. In the
second place, I claim that, even if it were the case that this analogy was justified enough,
Parsons’ four-dimensional enduring objects would nonetheless fail to be contemporarily fourdimensional and enduring.
In conclusion, I maintain that, despite Parsons’ distinction between Perdurantism as a
theory of persistence and Four-Dimensionalism as a theory of extension, from an ontological
point of view these doctrines are inextricably entangled, when it comes to formulating a
general metaphysical theory on material objects. Indeed, I argue that objects extended fourdimensionally – persist by perduring, and perduring objects extend four-dimensionally in
space-time15 .
14 This
15 I
corresponds to Parsons’ Dimensionality Thesis.
thank Giuliano Torrengo and Paolo Valore for their priceless help and support during the revision of the paper.
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I also thank an anonymous referee for their valuable comments on some main points.
52
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
53
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Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
M ONDI DI W ITTGENSTEIN . M ETAONTOLOGIA DEL
“T RACTATUS ” E TEORIA DEI TRUTHMAKERS DI
A RMSTRONG1 2
Simone Cuconato
A BSTRACT. La “svolta ontologica” che contraddistingue l’odierna filosofia analitica ha consentito, attraverso il rigore logico e argomentativo, la ripresa di temi e
problemi della bimillenaria tradizione filosofica. In particolare, grazie al confronto
con uno dei principali interpreti di tale svolta, David Armstrong, si è analizzata
l’ontologia e la metafisica del Tractatus logico-philosophicus attraverso le nozioni
di: mondo contratto, combinatorialismo e truthmaker. Nel dettaglio, si è “sollevato” il problema riguardo la priorità ontologica tra fatti e oggetti semplici. Tale
tensione si è rivelata insuperabile attraverso la sola analisi ontologico-metafisica:
da un lato, infatti, ai fini della sensatezza di una proposizione, è stata assegnata la
priorità ontologica agli oggetti; dall’altro, invece, gli oggetti si sono mostrati come
“semplici finzioni”, frutto di un preciso processo di astrazione dai rispettivi fatti.
La radice del problema è stata, pertanto, individuata in questioni di natura metaontologica: solamente attraverso l’analisi del predicato “esiste” è stato possibile
superare la tensione sopra indicata. In particolare, grazie alla truthmaking question “cosa, nel mondo, rende vera una proposizione p?”, è stato possibile assegnare
il primato ontologico agli stati di cose sussistenti. Al tempo stesso però, simulando
il “catalogo universale” di un abitante di uno dei mondi contratti, si è mostrato
che la dipendenza ontologica degli oggetti non ne implica necessariamente un’esistenza finzionale. L’articolo, pertanto, conduce un’analisi esegetica e teoretica del
Tractatus attraverso gli strumenti dell’odierna metafisica analitica.
K EYWORDS. Metafisica, Metaontologia, Ontologia, Fondazionalismo, Wittgenstein, Armstrong.
1 Sono
grato alla prof.ssa A. d’Atri e al dott. F.F. Calemi per i numerosi e preziosi suggerimenti forniti durante la
stesura di questo testo. Inoltre, ringrazio i referee anonimi, i commenti dei quali sono serviti a migliorare la prima
versione del seguente articolo.
2 L’espressione Mondi di Wittgenstein è coniata da Armstrong (1986), all’interno di un articolo dedicato alla teoria
combinatoria della possibilità.
C
\
$
CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Simone Cuconato. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti
riservati.
A UTORE. Simone Cuconato. [email protected].
R ICEVUTO. 3 marzo 2014. A CCETTATO. 11 settembre 2014.
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1
55
Tra fattualismo e atomismo: ontologia e metafisica
La struttura ontologica e metafisica del Tractatus logico-philosophicus3 (1921) può essere
facilmente colta attraverso un esperimento mentale4 . Supponiamo che il mondo contratto5 ,
Ww , contenga un numero finito di oggetti semplici – non ulteriormente scomponibili – a,
b, una sola proprietà F, ed una sola relazione R6 . Dati individui ed universali7 (monadici e
poliadici), possiamo considerare, in base alla loro forma (arbitrariamente decisa), che l’intero
spazio logico si esaurisca nei soli stati di cose: Fa, Fb, aRb, e ricavarne agevolmente l’insieme
delle possibili configurazioni del sussistere e non sussistere degli stati di cose:
Ww1−8
Ww1
Ww2
Ww3
Ww4
Ww5
Ww6
Ww7
Ww8
Fa
Sussiste
Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Non Sussiste
Non Sussiste
Fb
Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Non Sussiste
aRb
Sussiste
Non Sussiste
Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Non Sussiste
Sussiste
Non Sussiste
Il mondo con cui Wittgenstein esordisce all’inizio dell’opera sarà, dunque, una delle possibili configurazioni – Ww1−8 –, ognuna delle quali determinata dal sussistere degli stati di
cose: i fatti (TLP 1, 2). Posti i costituenti dei mondi, supponiamo di dover redigere l’ormai
famoso “catalogo universale”. In base alla costruzione del nostro mondo Ww sorgono subito
una serie di complicate domande: ciò che esiste sono i fatti o ciò che costituisce i fatti? Se
ciò che esiste sono i fatti, cosa sono gli oggetti? Essi esistono realmente o sono solo finzioni?
Seguendo l’impostazione del Tractatus la domanda «Cosa sono i fatti?» sembrerebbe trovare
una facile risposta:
Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. (TLP 2)
Lo stato di cose è un nesso di oggetti (entità, cose). (TLP 2.01)
Inevitabilmente, identificare i fatti come una combinazione8 di oggetti non fa che riproporre la domanda «Cosa sono gli oggetti?». Riguardo la natura degli oggetti si gioca una
3 Al contrario di quanto sostiene la cosiddetta linea interpretativa del New Wittgenstein – e in particolare nella
lettura di McGinn (2007) – che vede nel “disegno” del Tractatus l’impossibilità di sostenere alcuna tesi metafisica,
nell’articolo si sono non solo sollevati problemi ontologico-metafisici ma, soprattutto, metaontologici. In particolare
per uno studio approfondito della metafisica del Tractatus si veda Lando (2012).
4 Carnap (1947) analizzò per primo l’ontologia del Tractatus utilizzando la nozione di mondo possibile. Un
esperimento mentale simile – anche se in contesti diversi – è presente in Frascolla (2000, pp. 121-129).
5 Per mondo contratto si intende la riduzione del nostro «ricco e complicato mondo attuale» (Armstrong, 1986,
p. 312) ad un mondo contenente i soli oggetti semplici: a, b, F, R
6 Per comodità si è intesa la relazione poliadica R simmetrica. Tuttavia, in Armstrong (1997, pp. 119-123) la tesi
della non simmetricità della relazione R è uno degli argomenti a favore della natura non mereologica degli stati di
fatto.
7 L’identificazione degli oggetti sia come particolari che universali è qui avanzata solo come ipotesi, in quanto essa
è in grado di evidenziare maggiormente la natura combinatoria degli stati di cose. Nel dettaglio, per una lettura
nominalista del Tractatus si veda Skyrms (1981), per una lettura realista, invece, si veda Fahrnkopf (1988). Infine, è
interessante segnalare una “terza via” evidenziata da Lowe (1998, p. 356)L in cui si suggerisce una lettura tropista
degli oggetti del Tractatus.
8 È opportuno specificare alcune caratteristiche del combinatorialismo Trattariano ed alcune questioni che non
verranno affrontate direttamente nell’articolo. Sintetizzando, nella concezione combinatoria della possibilità pre-
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partita decisiva e sono molteplici le interpretazioni da parte degli studiosi9 . In questa sede
non verranno esaminate le varie proposte ma, al contrario, sia attraverso un’attenta analisi del testo, sia attraverso lo studio del background russelliano di Wittgenstein si tenterà
un’interpretazione del problema. Procediamo con ordine.
Definito lo stato di cose come un nesso di oggetti, Wittgenstein fornisce delle precise
caratteristiche riguardo la natura degli oggetti, che possono essere così sintetizzate:
• Non-indipendenza
• Semplicità (logica e metafisica)
Per quanto concerne la prima caratteristica, il concetto di non-indipendenza è specificato
da Wittgenstein nella proposizione 2.0122 (ma già anticipato nelle tre proposizioni precedenti), con esso il filosofo austriaco vuole specificare la non possibilità da parte degli oggetti di
essere pensati al di fuori degli stati di cose. L’indipendenza degli oggetti, infatti, si esplica
nella loro possibilità di ricorrere in stati di cose, ma tale possibilità è a sua volta una non
possibilità, in quanto preclude la possibilità di essere pensati indipendentemente dallo stato
di cose nel quale ricorrono.
Molto più complessa risulta invece l’analisi della seconda caratteristica. È necessario specificare, fin da subito, che la semplicità a cui fa riferimento Wittgenstein è sia una semplicità
metafisica, che logico-linguistica. Ma che cosa s’intende per semplicità metafisica e semplicità
logico-linguistica?
Il concetto di semplicità logico-linguistica si fonde direttamente con il problema della
completa analizzabilità delle proposizioni:
Questi elementi io li chiamo segni semplici; la proposizione completamente analizzata. (TLP 3.201)
V’è una e solo una analisi completa della proposizione. (TLP 3.25)
Ogni enunciato sopra complessi può scomporsi in un enunciato sopra le loro parti
costitutive e nelle proposizioni che descrivono completamente i complessi. (TLP
2.0201)
La tesi della completa analizzabilità delle proposizioni fa parte del background russelliano
di Wittgenstein, secondo tale tesi l’analisi di ogni proposizione dotata di senso deve giungere
a dei termini non ulteriormente scomponibili/analizzabili. Questi ultimi vengono definiti da
Wittgenstein segni semplici primitivi, differenziandoli così dai segni semplici che sono abbreviazioni definitorie di descrizioni di complessi. Tale distinzione corrisponde, in linea di massima, alla distinzione russelliana tra nomi logicamente propri e nomi propri nell’accezione
comune10 .
sente nel Tractatus, gli stati di cose atomici sono frutto della combinazione di individui semplici con proprietà e
relazioni. A loro volta, gli stati di cose atomici possono combinarsi dando luogo a stati di cose molecolari e, quest’ultimi, essendo la totalità di ciò che sussiste, possono essere considerati un mondo possibile. Wittgenstein, inoltre,
postula una teoria dei mondi possibili basata su un «dominio costante»: gli oggetti sono ciò che non varia da una
possibile configurazione del mondo ad un’altra (TLP 2.024, 2.0271), ciò comporta una forte restrizione, sollevando
soprattutto la questione relativa agli «individui alieni». Le questioni che non prenderemo direttamente in considerazione sono: la necessità di considerare fatti superiori al primo ordine, «universali alieni» e conseguente logica
modale S4 anziché S5, ecceitismo e «Mondo vuoto». Per un’analisi completa di questi temi si rimanda a (Skyrms,
1981), (Armstrong, 1986) e (Armstrong, 1989).
9 Per un’esauriente discussione delle principali interpretazioni dell’ontologia del Tractatus si veda Lando (2012,
pp. 171–217).
10 Per uno studio dettagliato si veda Frascolla (2000, pp. 98–104).
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57
Russell infatti, grazie al processo di parafrasi – descritto per la prima volta nel 1905 in
“On denoting” –, negò un autentico ruolo referenziale alle descrizioni definite e, dunque, ai
nomi propri che sono abbreviazioni di una descrizione11 . La parafrasi consente a Russell
di non dover ammettere l’esistenza di entità non esistenti e di liberarsi elegantemente dal
quineniano groviglio della “barba di Platone”:
Si tratta del vecchio enigma platonico del non essere. Il non essere deve, in un
certo senso, essere, altrimenti che cosa sarebbe ciò che non c’è? Questa intricata
dottrina potrebbe essere soprannominata “la barba di Platone”; nel corso della
storia si è dimostrata resistente, ed è riuscita spesso a smussare il filo del rasoio
di Occam. (Quine, 1948, p. 14)
Per farsi un’idea, è sufficiente prendere in considerazione il celebre esempio dello stesso
Russell “l’attuale re di Francia è calvo”. Se tale enunciato avesse un autentico ruolo referenziale, dovremmo ammettere l’esistenza di entità non esistenti e imbatterci in “nuovi mostri”
metafisici.
Al contrario, la proposizione “l’attuale re di Francia è calvo” viene parafrasata come:
(1) Esiste uno ed un solo individuo che regna attualmente in Francia, e questo individuo è
calvo.
Poiché tale individuo non esiste la proposizione (1) risulta essere falsa.
Negato un genuino ruolo referenziale alle descrizioni definite, Russell continuò ad ammettere l’esistenza di termini capaci di svolgere un’autentica funzione referenziale:
I nomi che usiamo comunemente, come «Socrate», sono in realtà abbreviazioni per
descrizioni; non solo: ciò che essi descrivono non sono particolari ma complicati
sistemi di classi o serie. Un nome, nel ristretto senso logico di una parola il cui
significato è un particolare, può solo essere applicato a un particolare di cui il
parlante ha conoscenza diretta, poiché non si può nominare qualcosa di cui non
si ha conoscenza diretta. [. . . ] Noi non abbiamo conoscenza diretta di Socrate,
e perciò non possiamo nominarlo. Quando usiamo la parola «Socrate» stiamo in
realtà usando una descrizione. Il nostro pensiero può essere reso da espressioni
come il «maestro di Platone», o «il filosofo che bevve la cicuta», o «la persona che i
logici asseriscono essere mortale», ma certamente non usiamo il nome come nome
nel senso proprio della parola. Ciò rende molto difficile disporre anche di un solo
esempio di nome nel senso rigorosamente logico della parola. Le sole parole che
vengono effettivamente usate come nomi in senso logico sono parole come «questo»
o «quello». Si può usare «questo» come nome che sta per un particolare di cui in
quel momento si ha conoscenza diretta. (Russell, 1918, p. 30)
Grazie all’apprensione diretta (acquaintance) dei significati da parte dei parlanti, Russell
rintracciò nei pronomi dimostrativi «questo» e «quello» i nomi logicamente propri:
Solo quando usate «questo» in modo ristretto, per indicare un oggetto sensoriale
reale, si tratta veramente di un nome proprio. [. . . ] Allo stesso modo, per comprendere il nome di un particolare, la sola cosa necessaria è avere conoscenza diretta
di quel particolare. Quando si ha conoscenza diretta di quel particolare, si ha
una comprensione del nome piena, adeguata e completa, e non è richiesta nessuna
informazione ulteriore. (Russell, 1918, p. 31)
11 Per
una presentazione completa della teoria delle descrizioni si veda Orilia (2002, pp. 93–107).
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58
Accettando il processo di analisi e parafrasi, Wittgenstein, come Russell, ritiene indispensabile, ai fini della sensatezza di una proposizione, che vi sia una sostanza del mondo; reputa,
dunque, necessaria l’esistenza di elementi ultimi non ulteriormente scomponibili: gli atomi
logici12 .
Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti. (TLP 2.021)
Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe
allora dall’essere un’altra proposizione vera. (TLP 2.0211)
Definita la “semplicità” nella sua accezione logica, è giunto il momento di illustrarla sotto il
profilo metafisico.
Gli oggetti semplici in ambito metafisico possono essere agevolmente definiti atomi astratti, ossia oggetti ricavati attraverso un processo di astrazione dai rispettivi fatti. Tale processo
è stato attentamente descritto sia da Skyrms che da Armstrong:
Potremmo concepire il mondo non come un mondo di individui o di proprietà e
relazioni, ma come un mondo di fatti – in cui individui e relazioni risultano essere
egualmente astrazioni dai fatti. (Skyrms, 1981, pp. 145–146)
Si consideri ora la totalità degli stati di cose atomici. Come ha suggerito Skyrms,
possiamo pensare a un individuo, ad esempio a, come niente di più di un’astrazione
di tutti gli stati di cose in cui a figura, F come un’astrazione di tutti quegli stati di
cose in cui F figura, e allo stesso modo per una relazione R. Per «astrazione» non si
deve intendere che a, F ed R appartengono in un qualche senso a un altro mondo,
e ancor meno che siano «mentali» o irreali. Ciò che si deve intendere è che, mentre
attraverso un atto di attenzione selettiva le si può considerare separatamente dagli
stati di cose in cui figurano, queste astrazioni non hanno alcuna esistenza al di
fuori degli stati di cose. (Armstrong, 1986, p. 306)
Applicando tale processo di astrazione al nostro mondo contratto Ww , possiamo schematicamente ricavarne:
• Particolari astratti13 : a, b
• Universali astratti: F, R
• Fatti: Fa, Fb, aRb
Così descritti, gli oggetti astratti potrebbero essere inquadrati in una cornice metafisica
più ampia: il finzionalismo. Il finzionalismo, come noto, ha una sua originaria applicazione
nel campo della filosofia della matematica e considera le entità matematiche – ad esempio i
numeri – come entità non effettivamente esistenti, ma come utili finzioni. Allo stesso modo,
poiché ciò che esiste sono solo i fatti, e giacché non è possibile «concepire alcun oggetto fuori
12 Come sottolinea Gargani: «Wittgenstein stabiliva la connessione tra linguaggio e realtà attraverso il modulo atomistico dell’analisi delle proposizioni elementari nei simboli semplici, indefinibili, ossia nei nomi, «simboli completi»
nel senso russelliano. [. . . ] Il senso della proposizione elementare risultava essere in tal modo una funzione dei nomi
o simboli semplici di oggetti assunti come entità di qualche tipo, semplici, indecomponibili, costituenti lo stato di
cose» (Gargani, 1973, p. 25).
13 Naturalmente, l’espressione “particolari astratti” non ha alcun riferimento alla teoria dei tropi, ma, semplicemente, si intendono quegli oggetti particolari ricavati attraverso un processo di astrazione dai rispettivi stati di
cose.
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della possibilità del suo nesso con altri (TLP 2.0121)» se non grazie ad un preciso processo
astrattivo, si possono identificare gli atomi del Tractatus come oggetti di finzione e non oggetti
reali14 .
Indubbiamente, la possibilità di adottare un’ontologia sobria e austera, per quanto accattivante, corre il rischio di un’eccessiva miopia filosofica. Restringere il diritto di “cittadinanza
ontologica” ai soli fatti sembrerebbe, quantomeno, in contrasto con il concetto di semplicità
nella sua accezione logica. Difatti, in base all’analisi precedentemente condotta, l’esistenza degli atomi logici risulta essere necessaria ai fini della sensatezza di una proposizione.
Semplicità logica e semplicità metafisica sono, dunque, in palese contrasto sotto il profilo
ontologico. Osserviamo più da vicino questo punto.
La semplicità logica – in base all’analisi fin qui condotta – risponde ad un principio preciso,
il principio della necessità degli atomi logici:
Per ogni proposizione, p, è necessario che esistano almeno due atomi logici, x ed y,
tale che x ed y rendano sensata p.
Allo stesso modo la semplicità metafisica risponde ad un suo principio, il principio del rigetto
degli atomi non-astratti:
Per ogni oggetto astratto, z, esiste almeno uno stato di cose, S, tale che z sia
astratto da S.
Come si può facilmente notare, i due principi15 richiedono due ontologie differenti: nella
prima gli atomi logici hanno una “priorità ontologica” rispetto ai fatti; nella seconda, invece,
gli atomi astratti non sono da inserire nel nostro catalogo, in quanto ciò che esiste sono solo
gli stati di cose sussistenti. Posta in tali termini, la domanda «Che cosa esiste?» sembrerebbe
richiedere una duplice ontologia: nel caso degli atomi logici avremmo un’ontologia cosista –
in palese contrasto con quanto scritto da Wittgenstein fin dalle primissime proposizioni –, nel
caso degli atomi astratti, al contrario, avremmo sì un’ontologia fattualista, ma la definizione
degli atomi come atomi di finzione “prosciugherebbe” la portata ontologica degli atomi stessi,
entrando in conflitto con la necessità di postulare degli oggetti semplici ai fini della sensatezza
di una proposizione.
Appare oramai chiaro che l’indagine ontologica e metafisica fin qui condotta non consente
di risolvere i problemi sollevati. La tensione di fondo che attraversa l’intera opera ha dunque
la sua radice non in problemi di natura ontologica o metafisica, bensì metaontologica.
2
Esistenza e truthmaker: metaontologia
Seguendo l’impostazione di van Inwagen possiamo riassumere la domanda metaontologica in
«Che cosa stiamo chiedendo quando chiediamo “che cosa c’è?”?» (Van Inwagen, 1998, p. 233).
La metaontologia, dunque, prende direttamente in considerazione la domanda «Che cosa vuol
dire esistere?» tentando, così, di spiegare il significato del predicato “esiste”.
14 È opportuno specificare meglio il rapporto “astrazione-finzione”. La dicotomia in questione è tra oggetti esistenti
ed oggetti non-esistenti. Poiché gli oggetti astratti non esistono autonomamente, la loro esistenza potrebbe essere
definita un’esistenza finzionale. Tuttavia, come si vedrà nel corso dell’articolo, una posizione finzionalista riguardo
agli oggetti del Tractatus è da scartare.
15 È necessario evidenziare una tesi che non verrà argomentata direttamente nell’articolo: la tesi del realismo
proposizionale. Suddetta tesi – che ha la sua radice nella teoria dell’immagine del Tractatus – sostiene che il mondo
abbia una struttura proposizionale.
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60
Nel dettaglio, van Inwagen analizzando la metaontologia di Quine ne enuncia le principali
cinque tesi: 1) l’essere non è un’attività; 2) essere ed esistere sono la stessa cosa; 3) l’essere
è univoco; 4) questo unico significato è adeguatamente espresso dal quantificatore esistenziale; 5) criterio di impegno ontologico: «essere è essere il valore di una variabile». Tralasciando Quine e la lettura metaontologica di van Inwagen, concentriamoci ora sul concetto di
esistenza in Russell e Wittgenstein.
Il filosofo gallese, riguardo il tema dell’esistenza, non mostra alcun dubbio o tentennamento: “
esiste” è sempre un predicato di secondo livello; inoltre, l’esistenza è sempre
una proprietà di funzioni proposizionali e mai di individui:
[. . . ] una grande quantità di filosofia si basa sull’idea che l’esistenza sia – per così
dire – una proprietà che si può attribuire alle cose: che le cose che esistono abbiano la proprietà dell’esistenza e le cose che non esistono non ce l’abbiano. Questa
è spazzatura, sia che si considerino generi di cose, sia che si considerino cose individuali che sono oggetto di descrizione. [. . . ] L’esistenza può essere asserita in
modo significativo solo quando entra in gioco una funzione proposizionale. Potete
asserire «Il così-e-così esiste», intendendo che c’è un solo c che ha certe proprietà,
ma quando metto le mani su un c che possiede tali proprietà, non potete dire di
questo c che esiste, perché questo costituisce un nonsenso: non è falso, ma non ha
alcun significato. (Russell, 1918, p. 90)
Come già osservato, in Russell tutte le proposizioni esistenziali generali come “le sirene esiè una sirena’ è soddisfatta almeno
stono”, vengono rese come “la funzione proposizionale ‘
una volta”, ovvero “(∃x) (x è una sirena)”. Pertanto, le proposizioni esistenziali singolari come
“Socrate esiste”, possono essere trasformate in una proposizione come “Il maestro di Platone
esiste”, ossia “(∃x) (Fx ∧ ∀y (Fy → x = y))” dove “Fx” sta per “x è un maestro di Platone”. In
tal modo Russell può brillantemente asserire che l’esistenza è sempre un predicato di secondo
livello ed una proprietà di funzioni proposizionali. Perciò si può sostenere, senza grosse complicazioni, che Russell condivida la sinonimia di fondo tra essere ed esistenza e l’univocità del
predicato “esiste”.
Wittgenstein, come già evidenziato, eredita e custodisce l’impostazione russelliana ivi descritta. Tuttavia, al contrario di Russell, il filosofo austriaco non fornisce nel Tractatus esempi
di oggetti semplici. Al fine di provare a superare la tensione ontologica e metafisica tra oggetti semplici e fatti, è opportuno fornire una prima formulazione del principio metaontologico
che fa da sfondo all’intera opera. Per Wittgenstein “esistere è essere uno stato di cose sussistente”. A sua volta potremmo definire la “sussistenza” come “qualcosa nel mondo che rende
vera una proposizione”:
La realtà è confrontata con la proposizione. (TLP 4.05)
[. . . ] Vera, infatti, una proposizione è se le cose stanno così come noi diciamo
mediante essa. . . (TLP 4.062)
Se la proposizione elementare è vera, lo stato di cose sussiste; se la proposizione
elementare è falsa, lo stato di cose non sussiste. (TLP 4.25)
L’indicazione di tutte le proposizioni elementari vere descrive il mondo completamente. Il mondo è descritto completamente dall’indicazione di tutte le proposizioni
elementari più la indicazione, quali di esse siano vere e quali di esse siano, invece,
false. (TLP 4.26)
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È solo attraverso il confronto con la realtà che la proposizione può essere vera o falsa. Gli
stati di cose sussistenti, dunque, possono essere intesi, usando la terminologia di Armstrong,
come truthmakers16 . La teoria dei verificatori è presentata e difesa da Armstrong17 in Truth
and Truthmakers (2004), tuttavia, già in precedenza il filosofo australiano si era occupato
della nozione di verificatore, in particolare in A World of States of Affairs:
Il verificatore è qualsiasi cosa nel mondo che rende vera una verità. Gustav Bergmann e i suoi seguaci hanno usato l’espressione ‘fondamento ontologico’ e avevano
in mente la stessa cosa. (Armstrong, 1997, p. 1005)
Se la metafisica di questo saggio è corretta, i verificatori di tutte le verità saranno
stati di fatto o costituenti di stati di fatto. (Armstrong, 1997, p. 1235)
Sintetizzando, Armstrong giunge alla seguente definizione del principio del verificatore:
[. . . ] p (proposizione) è vera se e solo se esiste un T (un’entità nel mondo) tale che
T rende necessario che p e p è vero grazie a T . (Armstrong, 2004, p. 1563)
Tornando al Tractatus potremmo ridefinire la metaontologia come segue:
• Esistere è essere uno stato di cose sussistente
• Esistere è essere un verificatore
E ricavarne il seguente principio:
Per ogni proposizione vera, p, esiste uno stato di cose sussistente S, tale che S
renda vero p se e solo se non è possibile che S esista e p sia falso.
Posto tale principio possiamo analizzare la tensione tra oggetti e fatti, sollevando la truthmaking question: cosa, nel mondo, rende vera una proposizione p? La risposta non può che
essere una sola: i fatti. Ciò, però, non vuol dire che gli oggetti siano finzioni. La loro esistenza potrebbe essere definita come un’esistenza “riflessa”, cioè non indipendente. Essi, infatti,
dipendono ontologicamente dallo stato di cose nel quale sono aggregati; sono i fatti ad avere
la priorità ontologica sugli oggetti e non viceversa18 . Per comprendere meglio questo punto è
opportuno fornire un esempio utilizzando il nostro mondo contratto Ww .
Supponiamo di incontrare un abitante del mondo Ww3 , il filosofo McX, e supponiamo che
McX abbia una descrizione completa del mondo in cui si trova. Posto ciò, possiamo chiedere
al nostro amico filosofo di stilare un catalogo del suo mondo Ww3 . Cosa dovrebbe inserire?
Gli oggetti o i fatti? Naturalmente, posta la metaontologia sopra descritta, McX compilerà il
16 È doveroso sottolineare – come del resto fa lo stesso Armstrong – che Russell per primo introdusse il termine
“verifier”. In particolare, già dai tempi di The Philosophy of Logical Atomism: «Quando parlo di un fatto [. . . ] intendo
il genere di cose che rende una proposizione vera. Se dico «Sta piovendo», ciò che dico è vero in determinate condizioni
atmosferiche e falso in altre. [. . . ] È importante osservare che i fatti appartengono al mondo oggettivo. Essi non sono
creati dai nostri pensieri o dalle nostre credenze, eccetto che in casi speciali» (Russell, 1918, pp. 8–9).
17 È interessante notare che la metafisica fattualista di Armstrong trovi la sua dimensione definitiva solo dopo aver
superato le tensioni metaontologiche di fondo, ossia il passaggio da una posizione riformata di quantificazionalismo
ad una fondazionalista. Per uno studio dettagliato si veda Calemi (2013, pp. 93–122).
18 Lo stesso problema attraversa l’ontologia fattualista di Armstrong; anche nell’ultima sua opera Sketch for a Systematic Metaphysics (2010) molte questioni ontologiche non trovano una risposta definitiva. In particolare, come
sottolinea Mumford: «I loro costituenti possono essere proprietà, particolari e relazioni, e mentre questi sono abbastanza reali, essi stessi non sono esistenti perché non sono stati di fatto» (Mumford, 2007, p. 97). Inoltre, è necessario
specificare che, nella vasta produzione armstronghiana, si possono individuare tre (se non quattro) fasi della teoria
degli stati di fatto. Per uno studio completo si veda Calemi (2013, pp. 107–117).
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suo catalogo inserendo i fatti Fa e aRb. Quindi, gli si potrebbe chiedere “è possibile nel tuo
mondo isolare i costituenti dei fatti; e se sì, quali oggetti possiamo individuare?”. La risposta
di McX non può che essere, anche questa volta, positiva; attraverso il processo di astrazione
si possono identificare gli oggetti astratti: a, b, F, R. Come si può notare, riuscire ad isolare
gli oggetti semplici dai fatti non rivela nulla del mondo. Stilare un catalogo di soli oggetti
semplici non differenzierebbe, ad esempio, il mondo Ww3 dai mondi Ww1,4 .
Infatti, gli stessi oggetti semplici indicati da McX possono essere isolati anche nei mondi
Ww1,4 ma, come si può facilmente notare dalla tabella, isolare gli stessi atomi non vuol dire
trovare, ricombinandoli, gli stessi fatti. I mondi Ww1,3,4 presentano sì gli stessi oggetti, ma
sono tre mondi diversi tra di loro19 . Il mondo Ww3 ad esempio, contiene i fatti Fa e aRb; mentre
Ww4 contiene Fb e aRb. Naturalmente se dovessimo far compilare il catalogo ad un abitante
di Ww5,6,7 gli stati di cose sussistenti diminuirebbero e di conseguenza diminuirebbero anche
gli oggetti da astrarre; tuttavia, in Ww5,7 possiamo astrarre l’oggetto semplice a, senza però
venire a conoscenza del modo in cui tale oggetto si ricombini nei fatti dei rispettivi mondi.
Gli oggetti semplici sono, pertanto, una necessità al fine della sensatezza d’una proposizione ma, allo stesso tempo, sono dipendenti dallo stato di cose nel quale sono ricombinati.
La loro esistenza potrebbe essere definita un’esistenza “astratta”; cioè, frutto di un preciso
processo di astrazione. Essi sono definibili come oggetti modali astratti: modali perché necessari, astratti perché ontologicamente dipendenti. Per usare una felice espressione di Skyrms,
gli atomi logici sono dei “parassiti” dei rispettivi fatti.
Giunti a questo punto è indispensabile far notare che la scelta da parte di Wittgenstein
di non fornire esempi di oggetti semplici non è un limite interno al Tractatus, bensì è frutto di una precisa idea da parte del filosofo austriaco riguardo le differenze tra lo statuto
epistemologico della filosofia e quello della scienza empirica. Come evidenzia Armstrong20 :
A mio giudizio, l’ammissione di ignoranza da parte di Wittgenstein a questo proposito fu un vero colpo di genio e non, come si è spesso pensato, una scappatoia
un po’ codarda. È il tributo da pagare al fatto che non abbiamo un’intuizione a
priori dei mattoni dell’universo – in particolare di quali siano le vere proprietà e
le vere relazioni – ma soltanto, ancora oggi, una parziale comprensione a posteriori. Quello che contribuisce a confondere l’intuizione di Wittgenstein è il pensiero
che dovrebbe comunque essere possibile, per mezzo della sola analisi logica, giungere fino allo strato di roccia atomico a partire dalla verità o falsità di enunciati
ordinari. (Armstrong, 1986, pp. 307–308)
Non è la filosofia, dunque, a dirci quali stati di cose sussistono e conseguentemente quali
oggetti semplici possono essere astratti dai rispettivi fatti, essendo questo il compito della
scienza empirica. Sarà la scienza sperimentale a dirci quali proposizioni sono vere e quali
false:
La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle
scienze naturali). (TLP 4.11)
La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola «filosofia» deve significare
qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali). (TLP 4.111)
19 È interessante sottolineare che in questa prospettiva il rapporto di composizione che lega gli oggetti ai fatti sia
più vicino ad una posizione di tipo insiemistico anziché mereologico. In particolare si veda Lando (2007) per una
difesa della posizione insiemistica, mentre Simons (1986) per una di tipo mereologico.
20 Per uno sketch della teoria delle leggi di natura in Armstrong in rapporto al suo sistema metafisico si veda d’Atri
(2013).
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Al contrario, il compito della filosofia sarà quello di delimitare nel modo più chiaro e rigoroso
possibile, il campo del disputabile e del pensabile:
La filosofia delimita il campo disputabile della scienza naturale. (TLP 4.113)
Essa deve delimitare il pensabile e, con ciò, l’impensabile. Essa deve delimitare
l’impensabile dall’interno attraverso il pensabile. (TLP 4.114)
La filosofia dunque, attraverso un quadro metafisico, ontologico e metaontologico delimita il
campo delle scienze sperimentali e suggerisce, contemporaneamente, cosa potrebbe esserci.
Utilizzando le splendide parole di Lowe:
Non affermo, tuttavia, che la metafisica, da sola, sia in grado di dirci in generale
che cosa vi sia. Piuttosto, in prima approssimazione, credo che la metafisica possa
dire che cosa potrebbe esserci. Ammesso che la metafisica abbia stabilito ciò, l’esperienza potrà allora mostrare quale tra le varie possibilità metafisiche alternative sia plausibilmente vera. Il punto è che, benché ciò che è attuale debba essere,
per la stessa ragione, possibile, l’esperienza da sola non è in grado di determinare
ciò che è attuale senza una delimitazione metafisica del regno del possibile. In breve la stessa metafisica è possibile (e, di fatto, necessaria) come forma di indagine
razionale umana poiché la possibilità metafisica determina in maniere inevitabile
l’attualità. (Lowe, 1998, p. 22)
L’analisi metaontologica fin qui condotta, mostra, pertanto, non solo la possibilità di risolvere
il problema della priorità ontologica tra fatti e oggetti, ma, soprattutto, rivela l’opportunità di analizzare e studiare il Tractatus attraverso gli strumenti della metafisica analitica
contemporanea.
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CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
L’ IDENTITÀ DIACRONICA FRA ONTOLOGIA E METAFISICA
Francesco Franda
A BSTRACT. In questo articolo mi occuperò del problema dell’identità diacronica,
che riguarda l’identità di un ente nello stesso luogo o in diversi luoghi in tempi
diversi. L’intento dell’articolo non è di trovare un possibile criterio per stabilire
l’identità o meno di un oggetto nel tempo, bensì di capire se questo problema sia
di pertinenza dell’ontologia, intesa come quella parte della filosofia che si occupa
di rispondere alla domanda «che cosa c’è?», oppure della metafisica, intesa come
quella parte della filosofia che si occupa di rispondere alla domanda «che cosa è?».
Di primo acchito sembra che sia la metafisica a doversene occupare, ma attraverso l’esame delle teorie metafisiche tridimensionaliste e quadridimensionaliste, e di
quella sequenzialista, a metà fra ontologia e metafisica, cercherò di mostrare come
le cose stiano diversamente: la tesi qui sostenuta è che sia la metafisica che l’ontologia sono rilevanti nella questione dell’identità diacronica, ma che l’ontologia è
in questo caso prioritaria rispetto alla metafisica.
K EYWORDS. Identità diacronica, ontologia, metafisica, tridimensionalismo, quadridimensionalismo, sequenzialismo.
C
\
$
CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Francesco Franda. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti
riservati.
A UTORE. Francesco Franda. [email protected].
R ICEVUTO. 27 febbraio 2014. A CCETTATO. 20 settembre 2014.
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Introduzione
Nella filosofia analitica contemporanea si è soliti distinguere fra ontologia e metafisica, secondo i relativi compiti di ciascuna. Seguendo questa distinzione resa popolare in particolare
a partire da Quine (1948), l’ontologia è quel ramo della filosofia che si occupa di rispondere
alla domanda «che cosa esiste?», a stilare cioè un inventario degli oggetti che fanno parte del
mondo, siano essi fisici o ideali, mentre la metafisica risponde alla domanda «che cosa è?», e
indaga quindi la natura ultima di ciò che vi è. Queste due parti della filosofia, nonostante
si continui a discutere su quale delle due debba precedere l’altra (cfr. (Varzi, 2003) e (Varzi,
2011)), si occupano di due ambiti complementari1 .
A ridosso dell’ontologia e della metafisica si staglia un antico problema riguardante l’identità di un oggetto o di un evento nel tempo, la cosiddetta identità diacronica, la quale
va distinta da quella sincronica. Quest’ultima riguarda l’identità di enti che si trovano nello
stesso luogo allo stesso tempo, mentre l’identità diacronica riguarda l’identità di un ente nello
stesso luogo o in diversi luoghi in tempi diversi.
Si potrebbe affrontare la questione dell’identità nel tempo guardando agli oggetti che popolano la nostra vita di ogni giorno, noi stessi compresi. Per esempio, il computer col quale
sto scrivendo questo paper è lo stesso computer di ieri? La scrivania sulla quale sto lavorando
è la stessa scrivania che ho spostato dallo studio alla mia camera? Il bambino che vedo in una
vecchia fotografia e riconosco come ‘me’ è la stessa persona che sono oggi? Lo stesso discorso
vale anche per gli eventi: possiamo per esempio chiederci se stiamo assistendo al primo o al
secondo tempo di una certa partita di calcio. Sembrano domande banali e poco interessanti,
alle quali nella maggior parte dei casi risponderemmo senza esitazione; eppure come facciamo a sapere che le cose rimangono le stesse nonostante cambino nel tempo?2 O al contrario,
in base a cosa diciamo che una cosa non è più la stessa? Il riconoscere le cose come le stesse
nel corso del tempo è per l’uomo un’attività necessaria da un punto di vista pratico, ma se
guardiamo un po’ più a fondo ci accorgiamo che il criterio col quale giudichiamo identica una
certa cosa nel tempo non è affatto preciso. Paradossi antichi e moderni ci mettono di fronte a
questo problema.
Lo scopo del paper non è ricercare un possibile criterio di identità diacronica, bensì di
stabilire se questo problema sia di pertinenza dell’ontologia o della metafisica, come sopra
definite. La tesi che intendo sostenere è che la principale differenza fra i sistemi metafisici impegnati nella soluzione del problema dell’identità diacronica stia nella diversità delle
basi ontologiche su cui poggiano: per questo il problema dell’identità nel tempo è una questione riguardante entrambe le discipline, ma di cui prima dovrebbe occuparsi l’ontologia e
1 In certi autori che sostengono la priorità della metafisica sulla ontologia (per esempio Meinong e Chisholm), i
due termini sono invertiti, cioè la ‘metafisica’ si occupa di rispondere alla domanda sul «che cosa c’è», mentre ciò
che chiamano ‘ontologia’ (nel caso di Meinong è chiamata ‘Teoria dell’oggetto’) risponde a quella sul «che cos’è». La
differenza è solamente terminologica e quindi la distinzione non muta (cfr. Varzi, 2005, p. 18).
2 Si potrebbe far notare che certamente il cambiamento e il tempo sono due nozioni intrinsecamente connesse,
nel senso che non c’è cambiamento se non nel tempo, e però non necessariamente. È difficile immaginare che gli
oggetti fisici del nostro mondo non mutino anche solo minimamente ad ogni istante, ma potremmo pensare ad un
mondo possibile nel quale le cose non mutano in alcun modo, nonostante il trascorrere del tempo. È una posizione
comunque problematica perché si potrebbe obiettare che senza cambiamento non abbiamo neanche a che fare col
’tempo’ oppure che solo apparentemente gli oggetti materiali in questo mondo non cambierebbero: in realtà, infatti,
si potrebbe sostenere che hanno la proprietà relazionale di ‘essere all’istante t1 ’, di ‘essere all’istante t2 ’, ecc. Sorvoliamo comunque su questa difficoltà e assumiamo che gli oggetti materiali, almeno nel nostro mondo, cambino nel
tempo.
Per una nozione alternativa e più ampia di cambiamento, che non sia solo temporale, ma anche spaziale vedi
(Taylor, 1955, pp. 602–603).
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solo in seguito la metafisica. Questa tesi avvalorerebbe inoltre la visione dell’ontologia come prioritaria rispetto alla metafisica e sarebbe anche un buon punto di partenza in vista di
un’eventuale formulazione di un criterio di identità nel tempo.
Come casi problematici di identità nel tempo verranno presi ad esempio tre antichi puzzle:
il rompicapo di Dione e Teone, il «paradosso del sorite» e il «paradosso della nave di Teseo».
2
Paradossi antichi e problemi moderni
Il paradosso di Dione e Teone è presentato dallo stoico Crisippo di Soli nello scritto andato
perduto Sull’argomento crescente, e di cui ci rimane una testimonianza importante nell’opera Sull’eternità del mondo di Filone di Alessandria (cfr. Philo., Aet. Mundi 48 = SVF 2.397),
pensatore ebreo polemico nei confronti del filosofo stoico. Il puzzle è costruito da Crisippo per
rispondere al cosiddetto ‘argomento crescente’, secondo il quale, dato che se ad un numero ne
aggiungiamo un altro tale numero non è più lo stesso, analogamente se si aggiunge o si toglie
una parte di un oggetto, questo non rimane più lo stesso. L’argomento si trova in una commedia di Epicarmo (cfr. Epich. 23B1 DK ap. D.L. III 11) ed è ripreso dagli accademici contro gli
stoici (cfr. Plu. Comm. not. 44, 1083AB e 1083BC), ma in questa sede non ci interessa più di
tanto il quadro della polemica fra stoici e accademici intorno all’argomento crescente, quanto
il rompicapo proposto da Crisippo in risposta3 .
Prendiamo un tavolo4 , chiamiamolo Alfa, e chiamiamo Beta la parte propria di Alfa composta da ogni sua parte eccetto che per una molecola. È pacifico che Alfa e Beta non siano
la stessa cosa, bensì due cose distinte, poiché occupano allo stesso tempo porzioni diverse di
spazio. Supponiamo ora che ad Alfa venga sottratta quella molecola che non fa parte di Beta:
chiunque accetterebbe che Alfa continui ad essere lo stesso tavolo anche in seguito a un cambiamento minimo come questo. Ora però, Alfa e Beta vengono a coincidere, dato che Alfa si
ritrova ad occupare lo stesso identico spazio di Beta, e siamo quindi costretti ad ammettere o
che Alfa e Beta siano la stessa cosa, il che è in contraddizione con la premessa secondo la quale Alfa e Beta sono due cose distinte, oppure che uno dei due oggetti, o Alfa o Beta, scompaia
in seguito alla sottrazione della molecola. Ma quale dei due? E perché5 ?
3 Per
un quadro esaustivo dell’argomento crescente e del concetto di identità per gli stoici rimando all’ottimo
(Sedley, 1982) e a (Long e Sedley, 1987). Wiggins (1968) pone in esame un caso analogo nel suo articolo, attribuendo
il paradosso a Peter Geach, il quale a sua volta lo fa risalire a Guglielmo di Sherwood.
4 Modifichiamo un po’ la versione originale del paradosso, riguardante due ‘individui’ chiamati Dione e Teone, per
evitare di sfiorare il problema ancor più delicato dell’identità personale nel tempo. Il paradosso stoico presentava
Teone come la parte propria di Dione composta da ogni sua parte eccetto che per un piede.
5 La soluzione che Crisippo dà al paradosso è una vera a propria risposta alla domanda su chi sopravviva fra
Dione e Teone in seguito all’amputazione del piede, e non, come vedremo più avanti, una ‘dissoluzione’ del problema
che abbiamo adottando il punto di vista quadridimensionalista o sequenzialista, che non impone una scelta fra la
sopravvivenza di Alfa o Beta. Secondo Crisippo a sopravvivere è Dione perché alla domanda «Il piede di chi è stato
amputato?» l’unica risposta possibile è «Quello di Dione», perché Teone non può averlo perso, non avendolo mai avuto
(la testimonianza sulle ragioni della risposta di Crisippo non è sufficientemente chiara e questa ricostruzione è di
Sedley, 1982, p. 269). Nell’intento di Crisippo il paradosso di Dione e Teone ribalta la tesi dell’argomento crescente:
i processi di aumento e di diminuzione materiale, lungi dall’essere in realtà processi di ‘generazione’ e ‘corruzione’
nei quali un certo ente si trasforma in qualcos’altro, sono al contrario condizioni dell’identità nel tempo.
«According to the Growing Argument, material growth and diminution are fatal to any idea of enduring
identity. By way of counterexample, Chrysippus borrows the Growing Argument’s own presuppositions
to concoct an instance in which material diminution is actually a condition of enduring identity: the
undiminished Theon perishes, while it is the diminished Dion who survives». (Sedley, 1982, p. 270)
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Il paradosso del sorite, noto anche come «paradosso del mucchio», si deve invece a Eubulide
di Mileto, filosofo del IV secolo a.C. appartenente alla scuola megarica (cfr. Dominic, 2011).
Nella sua forma originaria il paradosso riguarda il concetto di ‘mucchio’ e pone la questione di
stabilire quanti chicchi di grano siano necessari per formare un mucchio. Chiedendosi questo
si interroga anche sulla reale possibilità di stabilire una quantità del genere. Il paradosso
verrà qui leggermente modificato perché, se nella sua forma originaria riguardava il formarsi
di un qualcosa, a noi interessa invece il persistere di un qualcosa nel tempo. In questo senso
si vedrà come questo paradosso sia per molti aspetti, ma non totalmente, analogo a quello
della nave di Teseo.
Prendiamo ancora un oggetto come un tavolo. Se noi togliessimo a questo tavolo una
sola molecola, penseremmo ancora che questo sia un tavolo? Attenendoci al senso comune
risponderemmo di sì senza alcuna esitazione, e accetteremmo dunque il fatto che la rimozione
di un’unica molecola dal tavolo non influisca sul suo essere ancora un tavolo; ma se accettiamo
questo dobbiamo anche accettare che, tolta un’altra molecola, ne possiamo togliere un’altra
e poi un’altra ancora. . . fino a concludere che per un numero qualsiasi di molecole il tavolo
rimarrà sempre tale, il che non è possibile. Togliendo un certo numero di molecole potrebbe
per esempio rimanere solo una gamba del tavolo, che evidentemente non è un tavolo.
È sempre su questo tipo di identità che gioca anche il paradosso della nave di Teseo6 ,
presente in Plutarco, e poi successivamente ripreso e modificato in età moderna da Thomas
Hobbes. Nella Vita di Teseo Plutarco racconta cosa fecero gli ateniesi della nave del mitico
eroe:
La nave sulla quale Teseo aveva compiuto la traversata ed era tornato indietro con
i giovani sani e salvi, una nave a trenta remi, gli Ateniesi la conservarono fino ai
tempi di Demetrio Falereo, eliminando le vecchie assi di legno, sostituendole con
altre solide e inserendole in modo tale che per i filosofi la nave costituisce un buon
esempio per ragionare sul discorso della crescita7 ; c’è infatti chi sostiene che la
nave sia rimasta la stessa, chi invece lo nega. (Plutarco, Thes. XXIII 1)
Hobbes, nell’undicesimo capitolo del De corpore, riprende l’antico paradosso e lo complica nel
quadro di una discussione intorno al fondamento del ‘principio di individuazione’, chiedendosi
se esso consista nell’unità della materia, della forma o dell’unità di tutti gli accidenti. Hobbes,
assumendo l’ipotesi della forma per poterla confutare, amplia il paradosso della nave di Teseo
aggiungendo che
[. . . ] se qualcuno avesse conservato le vecchie tavole, nell’ordine in cui venivano
tolte e, conservatele e rimessele nello stesso ordine dopo, avesse rifatto la nave, non
c’è dubbio che questa sarebbe stata, numericamente, la stessa che fu al principio,
cioè avremmo avuto due navi identiche, la qual cosa è del tutto assurda [traduzione
lievemente modificata]. (Hobbes, De corpore, XI 7)
Riprendendo a nostra volta il paradosso della nave di Teseo nella versione di Hobbes, ci chiederemo, indipendentemente dal principio di individuazione nella forma: quale delle due navi
è quella di partenza, la nave di Teseo?
6 Per una discussione del paradosso vedi il capitolo III «Identity through Time» di Person and Object. A
Metaphysical Study di Chisholm (1976, pp. 89–113).
7 Il «discorso della crescita» è il sopracitato «argomento crescente».
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Risposte metafisiche
Si potrebbe pensare di dipanare questa matassa filosofica grazie ad una risposta di carattere
metafisico, per come è stata definita sopra questa parte della filosofia, e cioè determinando
la natura di certe entità, per esempio degli oggetti materiali come la nave di Teseo e un
qualsiasi tavolo. Intuitivamente il tipo di risposta ‘metafisico’ sembra sia il più adatto a dare
una soluzione al problema dell’identità nel tempo: sapere che cosa è un oggetto fisico può
aiutarci a sapere come reidentificare un certo oggetto fisico nel tempo.
Prendiamo allora in considerazione tre fra le più importanti teorie metafisiche contemporanee: il tridimensionalismo, il quadridimensionalismo e il sequenzialismo8 .
3.1
Tridimensionalismo
La concezione tridimensionalista risale ad Aristotele e ha avuto moltissimi sostenitori nel
corso del XX secolo e ancora oggi, anche se per molti si tratta di fatto di una esplicitazione di
una nozione del senso comune. Il filosofo tridimensionalista sostiene che gli oggetti materiali
si estendono secondo le tre dimensioni dello spazio e che quindi persistono nel tempo poiché
permangono nel tempo; la teoria è nota anche come ‘endurantismo’ (dall’inglese to endure,
appunto ‘permanere’)9 .
Cerchiamo ora di sciogliere i paradossi attraverso la concezione tridimensionalista, partendo dal rompicapo elaborato da Crisippo. Accostandoci al problema però, notiamo fin
da subito che in questo caso il tridimensionalismo non sembra venirci incontro, ma pare
al contrario che il paradosso funzioni proprio perché pensato all’interno di una concezione
endurantista. Vediamo ora il perché.
Riprendiamo in considerazione ciò che riteniamo vero riguardo ad Alfa e a Beta prima
della scomparsa della molecola:
(1) Alfa e Beta sono due oggetti diversi.
Dopo che la molecola non è più in Alfa saremmo comunque disposti a credere che questo sia
lo stesso tavolo e che quindi
(2) Alfa è lo stesso oggetto dopo la perdita della molecola.
A questo punto però, dato che secondo la concezione tridimensionalista un oggetto è tale in
quanto si estende nelle tre dimensioni, Alfa e Beta vengono a coincidere, perché occupano la
stessa identica regione di spazio nello stesso istante. Quindi il tridimensionalista a questo
punto dovrebbe ritenere vero il seguente enunciato:
(3) Alfa e Beta sono lo stesso oggetto.
Ma (3) è in palese contraddizione con (1) e quindi il tridimensionalista è costretto o ad asserire
che Alfa e Beta siano sempre stati lo stesso oggetto, opzione che va scartata perché assurda,
oppure ad ammettere che o Alfa o Beta ‘svanisca’ in seguito alla sottrazione della molecola.
Si potrebbe optare per l’ipotesi secondo la quale è Beta a non sopravvivere se pensiamo
che Beta non sia rimasto in realtà indenne dalla perdita dalla molecola, perché ne era attaccata e in seguito la separazione «ne ha modificato la topologia complessiva» (Varzi, 2001,
8 Sider
(2000) offre una estesa bibliografia su questi temi e più in generale sul problema dell’identità diacronica.
terminologia è di David Lewis che nella sezione 4.2 «Against Overlap» di On the Plurality of Worlds scrive
«Let us say that something persists iff, somehow or other, it exists at various times; this is the neutral word. [. . . ]
[something] endures iff it persists by being wholly present at more than one time» (Lewis, 1986, p. 202). Vedi infra
per la terminologia quadridimensionalista di Lewis.
9 La
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
71
p. 114). Questa è in fondo la soluzione di Crisippo, che contiene però la premessa implicita
che una modifica unicamente relazionale, il tipo di cambiamento conosciuto come Cambridge
change, sia metafisicamente decisiva, e si tratta di una premessa non immediata da accettare
e che anzi è stata contestata10 . Oppure si potrebbe dire che è Alfa a non sopravvivere: Beta
c’è ancora perché non ha subito alcuna modifica (quella relazionale è quindi ininfluente in
questo caso), mentre Alfa non sopravvive perché ha perso una sua parte. Questa soluzione
lontana dal senso comune presuppone quello che Chisholm (1973) chiama «essenzialismo mereologico», secondo il quale se un oggetto perde anche una sola parte, questo cessa di esistere.
Torneremo su questo punto più avanti parlando del sequenzialismo11 .
Il tridimensionalista non se la cava meglio col paradosso di Eubulide. Infatti, abbiamo
visto che qualora si creda che togliendo una molecola dal tavolo si abbia ancora lo stesso
tavolo, allora si ritengono vere le seguenti proposizioni:
(4) Tolta una molecola abbiamo ancora un tavolo.
(5) Per ogni n, se dopo aver tolto n molecole abbiamo ancora un tavolo, allora anche togliendo n + 1 molecole abbiamo ancora un tavolo.
Ma ponendo k uguale al numero di molecole tale che, se tolte in un certo modo, resta
solo una gamba del tavolo, la conseguenza possibile delle precedenti proposizioni è accettare
anche la seguente proposizione:
(6) Tolto un numero k di molecole dal tavolo abbiamo ancora un tavolo.
Questa è una proposizione che vorremmo negare, ma che siamo però costretti ad ammettere
come conseguenza logica di (4) e (5). Anche questo paradosso è di fatto pensato all’interno
di una prospettiva tridimensionalista: supponendo che ad ogni istante t venga rimossa una
molecola, avremo il tavolo iniziale all’istante t1 uguale al tavolo all’istante t2 in cui viene sottratta una molecola, e così via fino all’istante tn in cui avremo solo una gamba del tavolo, ma,
per la proprietà transitiva dell’identità, saremo costretti ad asserire che il tavolo all’istante
tn è identico al tavolo all’istante t1 , il quale è persistito permanendo (secondo la terminologia tridimensionalista lewisiana) nel tempo fino all’istante tn in cui è però rimasta solo una
gamba del tavolo.
Per quanto riguarda il paradosso della nave di Teseo il problema è simile, ma non è lo
stesso come sostiene invece Varzi, secondo il quale
può essere visto come una versione diacronica del paradosso del mucchio. Chi ritiene che la nave sopravviverà alla rimozione della prima tavola dello scafo riterrà
che la nave sopravviva anche alla rimozione della seconda tavola. Ma allora sopravviverà anche alla rimozione della terza tavola. . . C’è forse un numero n tale
che la rimozione di n tavole non intacca l’identità della nave mentre la rimozione
della n + 1-esima tavola cambia tutto? (Varzi, 2001, p. 140)
Infatti, anche se modificassimo il paradosso come sopra (perché nella versione originale di
Plutarco come in quella di Hobbes ci si interroga sulla identità delle navi solo alla fine del
processo di sostituzione delle parti), avremmo comunque una differenza che risiede nel fatto
che nel paradosso di Eubulide ci si chiede se il tavolo in questione sia ancora un tavolo,
mentre nel paradosso della nave di Teseo la domanda è se la nave alla fine del processo di
10 Per
11 Per
una critica di tale premessa vedi (Denkel, 1995).
la discussione delle due opzioni vedi (Varzi, 2001, pp. 114–115).
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
72
sostituzione delle assi di legno sia ancora la nave di Teseo. Utilizzando la terminologia della
teoria dei ‘sortali’, nel primo problema ci si chiede se una certa cosa sia ancora di una certa
sorta, la quale in tal caso è il tavolo, domanda alla quale si può rispondere indicando quali
tratti essenziali deve perdere per non appartenere più a una sorta12 . Nel paradosso riportato
da Plutarco, invece, sappiamo che la nave di partenza, quella di Teseo, è della stessa sorta
dell’oggetto finale con tutte le assi di legno sostituite: entrambi gli oggetti sono navi. Ciò
che ci si chiede è se la nave così modificata sia la stessa nave sulla quale Teseo viaggiò secoli
prima oppure, nella versione del paradosso fornita da Hobbes, se quest’ultima sia identica
alla nave ricostruita coi vecchi pezzi di legno scartati.
In ogni caso di fronte al paradosso della nave di Teseo il tridimensionalismo non fornisce di
per sé una soluzione: o si sceglie il principio di continuità spazio-temporale e si indica la nave
ricostruita con nuovi pezzi come la nave di Teseo, oppure ci si appella all’identità materiale
fra la nave di Teseo e quella ricostruita coi vecchi pezzi. Oppure si potrebbe anche pensare
che c’è stata una ‘scissione’ che ha dato luogo a due nuove navi diverse dalla iniziale nave di
Teseo13 . Ma ad ogni modo il tridimensionalismo si rivela di per sé insufficiente per risolvere
il paradosso. Vediamo a questo punto se possiamo trovare utile il quadridimensionalismo.
3.2
Quadridimensionalismo
Il quadridimensionalismo è una teoria molto più recente del tridimensionalismo e che ha incontrato molto successo nel corso del XX secolo, anche perché ben si adatta a certi sviluppi
della fisica contemporanea come la teoria della relatività. Secondo il filosofo quadridimensionalista gli oggetti concreti possiedono non solo una estensione spaziale, ma anche una
temporale: gli oggetti rimangono nel tempo perché si protraggono nel tempo. La teoria è nota
anche come ‘perdurantismo’ (dall’inglese to perdure, appunto ‘protrarsi’)14 .
La teoria quadridimensionalista si rivela efficace nel caso del rompicapo di Crisippo, in
quanto il quadridimensionalista non sarà costretto come il tridimensionalista ad accettare la
proposizione (3) secondo la quale Alfa, dopo che gli è stata sottratta una molecola, è identico
a Beta, bensì dirà che
(1) Al momento t1 , nel quale ad Alfa è sottratta una molecola, abbiamo solo una parte
spazio-temporale dell’oggetto Alfa nella sua interezza.
(2) Al momento t1 , nel quale ad Alfa è sottratta una molecola, abbiamo solo una parte
spazio- temporale dell’oggetto Beta nella sua interezza.
L’espressione sulla quale occorre porre l’attenzione è «nella sua interezza»; per un tridimensionalista, quando ci troviamo in un certo istante davanti ad un certo oggetto, lo abbiamo
di fronte nella sua interezza, siccome si estende solo secondo le tre dimensioni dello spazio.
Per un quadridimensionalista invece, non ci troviamo mai di fronte ad un oggetto nella sua
12 «[. . . ] questa concezione occupa una posizione di rilievo nella letteratura recente, soprattutto sulla scorta dei
lavori di filosofi come Peter Strawson e David Wiggins. L’idea è che ogni cosa sia un qualcosa, cioè una cosa di
qualche sorta, è che la sorta di appartenenza ne determini le condizioni di identità (sia essa una sorta naturale,
come in Platone, o un semplice artefatto)» (Varzi, 2001, p. 87).
13 Cfr. (Chisholm, 1976, pp. 140–141 della trad. it.).
14 Anche in questo caso questa terminologia è presa da Lewis: «Something perdures iff it persists by having different temporal parts, or stages, at different times, though no one part of it is wholly present at more than one time
[. . . ]» (Lewis, 1986, p. 202). Il perdurantismo è sostenuto da Lewis stesso, ma per la prima formulazione completa
del quadridimensionalismo vedi (Quine, 1950).
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73
interezza, perché quest’ultima è sì data dalla sua estensione nello spazio, ma anche dall’estensione nel tempo. Noi abbiamo solo a che fare con parti di oggetti, i quali finiscono per
essere solo eventi particolarmente lunghi; come scrisse Goodman: «una cosa è un evento
monotono [. . . ]» (Goodman, 1951, p. 415).
Il problema è così risolto siccome non si potrà dire né che Alfa senza una molecola è
identico ad Alfa con la molecola, né che non lo è, ma si affermerà invece che si tratta di
due parti spazio-temporalmente diverse dello stesso tavolo, mentre Alfa e Beta, avendo parti
spazio-temporali diverse, sono per forza due oggetti diversi.
Passando al paradosso del sorite ci troviamo già in difficoltà. Seguendo la teoria quadridimensionalista non diremo più che allo stesso tavolo vengono sottratte progressivamente
n + 1 molecole, ma che diverse parti spazio-temporali del tavolo vengono modificate togliendo
ad esse n + 1 molecole. Vediamo come il problema, a questo punto, sia solamente rimandato. Non si accetteranno le proposizioni tridimensionaliste (4), (5) e (6), ma la sostanza non
cambia se le traduciamo ‘quadridimensionalmente’ nella maniera seguente:
(3) Tolta una molecola abbiamo ancora una parte spazio-temporale del tavolo.
(4) Per ogni n, se dopo aver tolto n molecole abbiamo ancora una parte spazio-temporale del
tavolo, allora anche togliendo n+1 molecole abbiamo ancora una parte spazio-temporale
del tavolo.
E ponendo k uguale al numero di molecole tale che, se tolte in un certo modo, ci rimane solo
la gamba del tavolo, l’enunciato del perdurantista sarà:
(5) Tolto un numero k di molecole abbiamo ancora una parte spazio-temporale del tavolo.
Non affermiamo più che la gamba del tavolo è ancora un tavolo, ma che questa è una parte
spazio-temporale di questo, il che è assurdo: non stiamo infatti affermando che la gamba
del tavolo è una parte dell’oggetto ‘tavolo’ dal momento in cui questo è composto da tutte le
parti che lo rendono tale (le gambe insieme all’asse che funge da superficie), perché in questo
caso ci riferiamo solo ad una parte necessaria per l’esistenza del tavolo, ma stiamo asserendo
invece che la gamba del tavolo senza il resto è una parte spazio-temporale di questo tavolo,
cosa impossibile perché significherebbe dire che la gamba è parte di un certo tipo di oggetto
che non è più tale.
Anche nel caso della nave di Teseo pare che il problema rimanga insoluto sia che si sposi
la tesi tridimensionalista che quella quadridimensionalista. Infatti, che si parli della stessa
nave che permane nel tempo malgrado le modifiche, o che si parli delle varie parti spaziotemporali della nave la quale si protrae nel tempo, questo non ci aiuta a stabilire quale delle
due navi sia quella di Teseo. Che questo problema di vaghezza sia metafisico o semantico non
ci interessa molto qui: ciò che ci preme sottolineare è che il quadridimensionalismo non ci è
più di aiuto.
3.3
Sequenzialismo
C’è un’altra teoria metafisica, meno nota e più radicale delle due precedenti, che potrebbe
aiutarci nella soluzione di tutti questi paradossi: il sequenzialismo. Secondo Varzi, il quale
abbraccia questa teoria, una certa forma di sequenzialismo era già presente in Malebranche
e negli scritti dei grammatici di Port-Royal. Il sequenzialista sostiene che gli oggetti materiali siano in realtà sequenze di entità più fondamentali tutte diverse le une dalle altre ad
ogni istante, e che è solo il nostro apparato concettuale unificatore a mettere insieme queste
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74
entità primarie secondo quelle sequenze che Chisholm (1976) chiama entia per alio o entia
successiva.
[. . . ] il sequenzialista traccerà una distinzione netta tra entità fondamentali, o
primarie (come le masse d’acque che salgono e scendono), e entità in qualche modo
secondarie, costituite da successioni di entità primarie (le onde). (Varzi, 2001,
p. 126)
Nella sua forma radicale, che considera la maggior parte degli oggetti attorno a noi come
entità secondarie la cui individualità è frutto di una costruzione cognitiva continua, questo
punto di vista scioglie tutti i paradossi fin qui esaminati. Smettiamo infatti di domandarci se
il tavolo Alfa sia identico a Beta nel caso del rompicapo di Crisippo, fino a che punto il tavolo
sia ancora un tavolo nel caso del paradosso di Eubulide e quale delle due navi sia quella
del mitico re di Atene nel caso del paradosso della nave di Teseo, perché quelle cose che noi
chiamiamo ‘tavoli’, ‘navi’, ‘case’ e ‘libri’ sono in realtà entia successiva, che però noi percepiamo
come oggetti dotati di una propria individualità e indipendenza. Questo implica anche una
revisione radicale del linguaggio in quanto i nomi non indicano più qualcosa di determinato
e invece «continuano ad aggiornare il proprio referente» (Varzi, 2001, p. 124): alla fine per il
sequenzialista le questioni intorno alla vaghezza diventano piuttosto irrilevanti.
Secondo una certa versione del sequenzialismo come quella di Sider (1996), che chiama
«teoria degli stadi», anche le persone non sono altro che entia successiva. Questa posizione
non è condivisa da Chisholm, le cui tesi comunque non sono esattamente sequenzialiste. La
teoria che Chisholm sostiene è, come si è visto sopra, l’«essenzialismo mereologico», secondo
cui è sufficiente un qualsiasi cambiamento mereologico di un oggetto perché questo non sia
più lo stesso; allo stesso tempo però, Chisholm sembra ammettere la possibilità, senza fornire
però esempi, di un cambiamento che non è mereologico e quindi sostanziale15 .
A differenza della posizione sequenzialista secondo la quale abbiamo a che fare con diversi
oggetti ad ogni istante, per Chisholm invece un oggetto può rimanere lo stesso nel corso del
tempo purché non subisca un qualsivoglia cambiamento mereologico (e per quanto riguarda
le persone un cambiamento sostanziale non avviene tout court).
È evidente però quanto l’essenzialismo mereologico si avvicini al sequenzialismo come
sopra descritto. Decisiva e fondamentale per il sequenzialista è la distinzione che Chisholm
pone fra una nozione di identità «stretta e filosofica» e una «ampia e popolare» (Chisholm,
1976) che il filosofo attribuisce a Thomas Butler nel suo L’analogia della religione: per un
essenzialista mereologico non è possibile che un oggetto cambi mereologicamente e rimanga
lo stesso in senso «stretto e filosofico», ma si può parlare di una nozione «ampia e popolare» e
quindi di un certo modo di persistenza per quanto riguarda le entità secondarie costituite dal
nostro apparato concettuale:
To say that a thing persists through a given period of time in the strict and philosophical sense is to say (i) that the thing exists at every moment within that
period of time and (ii) that the thing is a primary object [. . . ] But to say that a
thing persists through a given period of time only in a loose and popular sense is
to say (i) that the thing exists at every moment within that period of time and (ii)
15 «We
may take note, in passing, of this interesting metaphysical question: can there be any change without there
being mereological change? Of course, everything changes if anything changes, but can anything change if nothing
undergoes mereological change? I suggest that the answer to this is “Yes”. It is possible, surely, for me to think
now of this and now of that without it being the case that I or any other thing undergoes any mereological change».
(Chisholm, 1975, p. 482).
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that it is not a primary object. And therefore it is one thing to persist only in a
loose and popular sense and quite another to persist in the strict and philosophical
sense. (Chisholm, 1973, p. 603)
È evidente che questa distinzione fra due nozioni di identità e fra enti primari e non primari torna utile anche per il sequenzialista vero e proprio, ed è proprio ciò che Sider fa nel
difendere la sua «teoria degli stadi», seppure in termini diversi16 .
Come è evidente il sequenzialismo è una posizione decisamente distante dal senso comune, anche più del quadridimensionalismo, ma questo non per forza costituisce un punto debole
in filosofia. Il problema è un altro: quali sono le entità fondamentali o primarie? Particelle
subatomiche o un tipo di entità più grandi? Difficile stabilirlo. Inoltre, nella sua versione
estrema, che nega l’esistenza di un qualcosa come una ‘persona’ va incontro all’obiezione di
Kant riguardo alla teoria sequenzialista di Hume e Reid che all’inizio costituiva unicamente
una teoria dell’identità personale: il sequenzialismo presuppone quella stessa entità che vuole negare, cioè il soggetto che unifica gli oggetti che sono in realtà entità separate, rivelandosi
del tutto incoerente17 .
Ma supponiamo di accettare il sequenzialismo nella sua versione non così radicale, cioè
riguardante gli oggetti materiali, ma non le persone, in modo tale da evitare l’obiezione di
Kant, e supponiamo che le entità fondamentali o primarie siano particelle subatomiche. Applicando questa teoria ai paradossi abbiamo visto come questi siano stati superati, e non ci
siamo limitati solo ad andare oltre questi rompicapi, ma siamo riusciti anche a togliere di
mezzo il problema stesso dell’identità diacronica: ora non ha più senso chiedersi fino a che
punto i ‘tavoli’ o le ‘navi’ rimangano identici nel tempo, perché queste sono in realtà entità
fittizie e in quanto tali le loro condizioni di identità dipendono dalle nostre convenzioni e pratiche linguistiche, e non da quelle porzioni di materia che noi individuiamo come oggetti. Il
sequenzialismo pare a questo punto fornire una possibile soluzione di tipo metafisico al problema dell’identità diacronica. Ma in realtà questa non è affatto una via di uscita metafisica,
bensì ontologica.
4
Una metafisica dall’ontologia differente
Il sequenzialismo si differenzia sia dal tridimensionalismo che dal quadridimensionalismo
anche perché non condivide la stessa ontologia. Il tridimensionalismo e il quadridimensionalismo possono dare risposte diverse alla domanda sul ‘che cos’è’ di un certo oggetto materiale perché credono entrambi che quel determinato oggetto materiale esista: condividono
un’ontologia18 , ma sono metafisicamente in disaccordo. Nelle versioni delle due teorie che
abbiamo qui esaminato, queste condividono un’ontologia perché sono entrambe d’accordo sul
fatto che esistano cose come ‘tavoli’ e ‘navi’. Si potrebbe obiettare che non è vero che riguardo
16 «Io
sostengo di essere identico a uno stadio istantaneo, e sostengo anche che esisterò per più di un istante: come
posso avere entrambe le cose? La risposta è che quando dico che uno stadio è istantaneo, e quindi che domani
non esisterà, sto negando che si trovi nella I-relazione-di-stadio con uno stadio qualsiasi appartenente al futuro.
La I-relazione-di-stadio è la relazione di identità: poiché gli stadi non persistono nel tempo, le loro I-relazioni non
connettono mai stadi di momenti diversi (e ovviamente nemmeno stadi diversi simultanei). Tuttavia io (o il mio
stadio attuale, con cui sono identico) sono legato a degli stadi di domani da una I-relazione-di-persona, ed è questo
che intendo quando dico che esisterò domani». (Sider, 1996, pp. 229–230 della trad. it.). Poco più avanti Sider parla
anche di due diversi sensi di «persistenza» esattamente come ne parla Chisholm (Sider, 1996, p. 231).
17 Varzi (2001, p. 133) ricorda che questa obiezione è fra i paralogismi della Critica della ragion pura.
18 Ma non necessariamente condividono un’intera ontologia: per esempio riguardo al problema degli universali
potrebbero essere, indipendentemente l’uno dall’altro, ‘nominalisti’, ‘concettualisti’ o ‘realisti’.
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76
agli oggetti materiali il tridimensionalista e il quadridimensionalista condividano la stessa
ontologia. Per quest’ultimo infatti esistono parti spaziotemporali di oggetti materiali, mentre
per il tridimensionalista non esistono, essendoci unicamente parti spaziali19 .
In realtà non è così ovvio che le parti degli oggetti siano da includere nell’inventario ontologico che intendiamo stilare, e che abbiano quindi la stessa ‘dignità ontologica’ degli interi
che compongono. Secondo alcuni l’impegno ontologico nei confronti di un intero implica sì un
impegno nei confronti delle sue parti, ma questo non significa che questo sia un ulteriore impegno ontologico, perché le parti sono l’intero e l’intero è la parte. Sono esattamente la stessa
cosa. Questa è la tesi e l’argomentazione di Lewis: la mereologia non implica una indebita
moltiplicazione di entità a partire da un intero, perché vale la tesi della «composizione come
identità»:
I say that composition – the relation of part to whole, or, better, the many-one
relation of many parts to their fusion – is like identity. The ‘are’ of composition
is, so to speak, the plural form of the ‘is’ of identity. Call this the Thesis of Composion as Identity. It is in virtue of this thesis that mereology is ontologically
innocent: it commits us only to things that are identical, so to speak, to what we
were commited before. (Lewis, 1991, p. 82)
Se si accetta la tesi della cosiddetta «innocenza ontologica» allora possiamo ancora affermare
che i tridimensionalisti e i quadridimensionalisti condividono la stessa ontologia riguardo
agli oggetti materiali e che allo stesso tempo però, sono in disaccordo metafisico, siccome per
i primi gli oggetti materiali sono oggetti che si estendono nello spazio, mentre per i secondi si
estendono nello spaziotempo.
Non tutti i filosofi però assolvono la mereologia in quanto ‘ontologicamente innocente’20 .
Van Inwagen (1994, p. 213), per esempio, obietta che nel momento in cui è possibile quantificare tanto sull’oggetto intero quanto sulle parti che lo compongono, allora è opportuno inserire
anche queste ultime in un catalogo di ciò che vi è, in osservanza al principio quineano secondo
cui «essere è essere il valore di una variabile» (Quine, 1939, p. 708)21 .
Ora, proviamo ad ammettere a questo punto che la tesi dell’innocenza ontologica della
mereologia sia falsa e che quindi si debba ammettere una ontologia diversa riguardo agli
oggetti materiali per il tridimensionalista, fatta di parti spaziali, da quella del quadridimensionalista, fatta di parti spaziotemporali22 . Anche a questo punto il tridimensionalista e
il quadridimensionalista si troveranno ontologicamente d’accordo sull’esistenza di qualcosa:
degli oggetti materiali persistenti come le navi e i tavoli.
Due nazioni X e Y possono contendersi un lembo di terra al confine che ognuno reclama
come una parte del proprio territorio nazionale, ma questo non implica che i contendenti
siano in disaccordo sull’esistenza due stati, X e Y. Si può essere in disaccordo sul fatto che
la copertina estraibile di un libro sia o non sia effettivamente parte di quel volume, ma si
resta comunque d’accordo sul fatto che quel libro esista. Allo stesso modo se a un lato il
19 Ringrazio
due anonimi referee per aver sollevato questo punto.
«innocenza ontologica» della mereologia, oltre ai già citati (Lewis, 1991) e (Van Inwagen, 1994) si possono
trovare altri contributi a favore o contro la suddetta tesi, come (Baxter, 1988), (Forrest, 1996), (Varzi, 2000) e (Yi,
1999).
21 Cfr. anche (Quine, 1948, p. 26 della trad. it.).
22 Da notare che, assunte le stesse premesse mereologiche, secondo il quadridimensionalista ci saranno più parti
di un oggetto materiale, che non abbia durata istantanea, di quante saranno le parti secondo il tridimensionalista.
Infatti, se per il tridimensionalista l’oggetto sarà composto dalle parti spaziali presenti a un determinato istante, per
il quadridimensionalista sarà composto dalle parti spaziotemporali a un certo istante, a quello successivo, a quello
precedente, alle parti spaziotemporali che si estendono in tutti e tre gli istanti, ecc.
20 Sulla
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77
quadridimensionalista pensa che il tavolo sia formato da parti che sono temporali oltre che
spaziali, mentre dall’altro il tridimensionalista ritiene che siano solo parti spaziali di quel
determinato tavolo, questo non significa che non siano d’accordo sul fatto che quel determinato
tavolo esista, ma che non sono d’accordo su che cosa esso sia.
Il sequenzialista, invece, non la pensa allo stesso modo al riguardo, perché secondo lui le
cose come i ‘tavoli’ e le ‘navi’ non esistono proprio: esistono sequenze di entità fondamentali
che noi, secondo certi criteri di continuità e omogeneità (che sarebbe opportuno specificare in
una teoria del genere), leghiamo le une alle altre fino a formare gli ‘oggetti’ che ci circondano.
Ecco quindi come ciò che permette al sequenzialista di sbarazzarsi della questione dell’identità nel tempo sia la sua ontologia, e non la sua metafisica. Quest’ultima si rivela quindi
essere una metafisica «descrittiva» e non «correttiva» come quella del tridimensionalista e del
quadridimensionalista. Secondo questa distinzione risalente a (Strawson, 1959, pp. 9–11), la
metafisica (e l’ontologia) è descrittiva nel momento in cui descrive «l’effettiva struttura del
nostro pensiero sul mondo», mentre è correttiva quando si occupa invece della ‘realtà stessa’,
indipendentemente da come viene filtrata attraverso il nostro apparato cognitivo23 .
In effetti se i tridimensionalisti e i quadridimensionalisti ci dicono che cosa sia un oggetto
materiale ordinario indipendentemente dall’armamentario concettuale dell’uomo, invece il
sequenzialista quando afferma che non ci troviamo di fronte ad altro che entia successiva
organizzati dalla nostra mente, ci dice che cos’è ciò che noi riteniamo essere un oggetto e
descrive quindi il nostro apparato concettuale, e non propriamente come è il mondo esterno al
di là della nostra mediazione intellettuale. In questa concezione una metafisica correttiva può
riguardare unicamente quegli enti ammessi dall’ontologia che soggiace al sequenzialismo,
cioè quegli enti fondamentali o primari che formano le sequenze, un compito che abbiamo
visto essere senza dubbio alquanto problematico.
5
Conclusione
Non si è qui inteso sostenere una delle teorie presentate, bensì mostrare come il problema
dell’identità nel tempo possa essere risolto assumendo una soluzione filosofica radicale che è
solo apparentemente metafisica, ma che è in realtà ontologica. Questo non significa che non
esista una via di uscita metafisica dal problema: si potrebbe per esempio adottare una teoria
‘sortale’ e specificare certe precise condizioni di identità di un oggetto e accettare il problema
della vaghezza come insolubile, ma unicamente da un punto di vista semantico e non metafisico. Si dirà che esistono certi confini oltre i quali non si può andare, certi cambiamenti
essenziali che mutano un certo oggetto in un altro oggetto, ma si aggiungerà che questi confini
difficilmente possono essere conosciuti con precisione. Come ricorda Varzi (2001, pp. 86–87)
si tratta in fondo di acquisire quella precisa e accurata tecnica che Platone descriveva già nel
Fedro:
La capacità di suddividerlo [l’oggetto] nuovamente e per specie, seguendone le
articolazioni naturali e cercando di non lacerare nessun pezzo come farebbe un
cattivo macellaio [. . . ] (Platone, Phdr. 265e)
23 La
distinzione si presenta così per come è entrata nell’uso filosofico odierno, ma in realtà a proposito della metafisica correttiva Strawson in Individui. Saggio di metafisica descrittiva si limita a dire che «si interessa di produrre
una struttura migliore» (Strawson, 1959, p. 9). Si potrebbe quindi trattare di una distinzione diversa da come la si
intende oggi, anche perché Aristotele è collocato fra i metafisici descrittivi e difficilmente si può pensare allo Stagirita come un filosofo impegnato a descrivere non il mondo stesso, ma unicamente il nostro apparato concettuale. . . Ma
lasciamo da parte questo problema interpretativo che qui non ci interessa.
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Per quanto non sia così semplice sostenere una tale concezione, la teoria sortale si è fatta
sempre più strada nella filosofia contemporanea, in seguito ai lavori di Peter Strawson e
David Wiggins. Ma questo è tutto un altro discorso, che apre la strada a nuovi problemi.
Ciò che si è voluto sostenere è quindi che la questione dell’identità diacronica debba essere
affrontata innanzitutto da un punto di vista ontologico, prima che metafisico, in modo tale da
sapere con quali enti abbiamo a che fare prima di addentrarci in qualsivoglia soluzione di
carattere metafisico. Il punto di vista metafisico, il quale sembrava essere l’unico possibile e
che può risolvere il problema, è certamente fondamentale, ma è il punto di vista ontologico,
che è emerso nel caso del sequenzialismo e che può invece, per così dire, dissolvere il problema, ad essere prioritario. Lo dissolve perché se non esistono oggetti persistenti, non esiste
neanche alcuna questione relativa all’identità diacronica. Il problema, semplicemente, non si
pone più.
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T O BE O ESSE : L A QUESTIONE DELL’ ESSERE NEL TOMISMO
ANALITICO
Giovanni Ventimiglia
[Carocci, Roma 2012]
recensione a cura di Fabio Ceravolo
Quando, e con quali limitazioni, possiamo parlare della compatibilità di tesi attribuite a
filosofi del passato con il dibattito contemporaneo? Possiamo sperare che quelle contribuiscano al genuino progresso di questo? Difficilmente un solo libro potrebbe sobbarcarsi l’incarico
di rispondere a questioni meta-filosofiche così spinose. In questi casi, tuttavia, l’utilizzo di un
particolare case study su cui concentrare l’attenzione, sia esso proprio un particolare filosofo
o un complesso di problemi, costituisce la via pratica migliore per trovare una risposta, ed è
proprio tale obiettivo che Giovanni Ventimiglia si prepone nel suo To be o esse: La questione
dell’essere nel tomismo analitico.
L’impresa non è delle più semplici, in primo luogo perché i contributi di Tommaso alla metafisica sono notoriamente sostenuti da nozioni e premesse appartenenti alla teologia
razionale. Tuttavia, sin da subito viene resa chiara l’intenzione a rinunciare in toto a tale materiale per gli scopi dell’indagine1 . Risultato di tale scelta, a cui si aggiungono ampi
riferimenti alla ricerca internazionale più accreditata, è un tentativo che mi sembra decisamente originale per i lettori italiani che si interessano di metafisica contemporanea. Certo,
data l’originalità dell’approccio, è auspicabile che tali lettori abbiano una conoscenza almeno
basilare delle posizioni principali che vengono di volta in volta confrontate con il pensiero di
Tommaso e dei suoi interpreti.
Il volume si divide in sei capitoli. Nel primo, in seguito ad alcune dichiarazioni di metodo
sull’attribuzione di tesi filosofiche ad autori medievali, per cui bisogna tenere in considerazione il contesto della quaestio, Ventimiglia si preoccupa di sfatare l’opinione di certi tomisti
‘continentali’, secondo cui la filosofia di Tommaso sarebbe del tutto ostile ai capisaldi della
tradizione analitica ed in particolare alla filosofia del linguaggio di Frege (Shanley, 1999).
Questo pregiudizio manca il bersaglio, poiché i filosofi non conoscono dogmi ed eventuali in1 Non è escluso che quest’ultima disciplina possa, di per se stessa, integrarsi oggi ad alcune istanze metafisiche.
Mattia Sorgon ha discusso la questione nella sua recensione di La teologia razionale nella filosofia analitica (2010),
di Mario Micheletti, edita nel numero 3:1 della presente rivista.
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compatibilità si dovranno piuttosto trasformare in dottrine originali e generare occasioni di
dibattito.
Ciò potrebbe generare nel lettore il sospetto che discutere ‘da tomisti’ all’interno di una
questione contemporanea si riduca ad un problema di parafrasi e adattamento di terminologia, premesse ed argomenti tratti sia da Tommaso, sia dalla tradizione riconosciuta. Ventimiglia ha buon gioco nel disporre, nel corso dell’intero volume, della sua profonda conoscenza
del tomismo italiano e francese del Novecento, derivando costruttivamente argomenti soprattutto da C. Fabro e E. Gìlson. Tengo a premettere che ritengo il suo un compito importante,
auspicabile e spesso originale, ma ambizioso e da perseguire con molta pazienza. Non sempre, mi si concederà di dire, il tentativo produce una terminologia e una base di premesse
sufficientemente coincidenti e confrontabili con quelle delle problematiche odierne con cui
ambisce ad integrarsi. Sarò più preciso su questi aspetti in conclusione.
Il secondo capitolo è dedicato al “padre” del tomismo analitico: Peter Geach. Nel suo “Form
and Existence” (1955) il filosofo inglese riconosce in Tommaso alcune tesi con cui i filosofi
dovrebbero fare i conti dopo la svolta fregeana. La prima è la distinzione fra concetti e oggetti,
con i primi che esibiscono uno status logico pari a quello di una funzione dei secondi. Una
spiegazione analoga è assegnata a ciò che Tommaso chiama forma individuale: le proprietà
che ineriscono alle sostanze e fondano le loro differenze specifiche; e alla sinonimia degli
attributi di Dio, che è interpretabile in termini di funzioni proposizionali dotate dello stesso
valore di verità ma di intensione, o senso, diversa. Tuttavia, è soprattutto una differenza
introdotta da Tommaso relativamente al predicato ‘esiste’ a giocare un ruolo fondamentale da
Geach in poi: quella fra il suo utilizzo con senso relativo all’istanziazione di proprietà, il “there
is-sense”; e senso relativo all’esistenza individuale, il “present actuality sense”. Del primo è
nota l’analisi di Russell, secondo cui, ad esempio, “la cecità esiste” dovrà essere parafrasata
in: “esiste almeno un cieco”. Il secondo, con l’esistenza in veste di predicato di prim’ordine
‘E!’, è una (ri-)scoperta più recente in filosofia della logica.
Il terzo capitolo affronta le critiche mosse a Geach da parte di Anthony Kenny, ed in
particolare un’accusa di circolarità nella caratterizzazione dell’intensione di ‘E!’, il così detto
problema della “cifra” dell’esistenza (Berto, 2010). Quale proprietà comune unisce tutti gli
individui che cadono sotto ‘E’? Se, come vuole Geach, esistere vuol dire avere capacità di
subire cambiamenti reali, è allo stesso tempo vero che i cambiamenti reali sono proprio quelli
che richiedono l’esistenza di un soggetto attuale come sostrato del cambiamento.
Nei capitoli 4 e 5 l’autore si preoccupa di fornire un resoconto esaustivo del prosieguo del
dibattito post-Geach. Ventimiglia esplora sia le “riletture dell’ontologia tommasiana” che le
“proposte teoretiche”, facendoci conoscere le opinioni di autori di spicco rispetto ad alcune
istanze centrali: quale relazione intrattengono gli enti dotati di esistenza di primo livello
con la loro essenza? Che cosa intende Tommaso per actus essentiae? C’è una distinzione
reale fra essenza ed esistenza? E ancora, unica concessione riservata nell’intero volume ad
un problema ben conosciuto e affascinante: come si coniuga il rapporto fra essere ed essenza
nella natura di Dio? Tali istanze sono note a chi ha frequentato anche un solo corso di filosofia
medievale, magari custodito in fondo ai troppi ricordi del primo anno di università2 . Tuttavia,
il risalto attribuito ad esse da Ventimiglia risiede nel loro essere legate a doppio filo alla
questione dei due sensi di ‘esiste’, il perno dell’intera trasposizione analitica del tomismo e
della sua rilevanza odierna. Il che dona loro una luce tutta nuova.
2È
il mio caso, ndr.
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Certamente il maggior contributo espresso in questa sezione consiste nel mettere in luce il
lavoro di Barry Miller, nelle cui opere il ponte fra tomismo e metafisica analitica è solidissimo.
Miller è elogiato principalmente per due contributi. Anzitutto, egli argomenta che il senso
there is trova la sua spiegazione nel senso di present actuality, giacché non vi è verità di
una proposizione circa l’istanziazione di una proprietà che avvenga senza l’esistenza di primo
livello di almeno un soggetto a cui quella proprietà si applica. Secondariamente, egli risolve
un fraintendimento molto conosciuto riguardante il predicato ‘E!’. Quand’anche esistesse la
sua anti-estensione, un predicato di non-esistenza, esso starebbe al più per una proprietà
Cambridge, “che si dice di una cosa ma che non comporta una realtà corrispondente ad essa”
(p. 255), piuttosto che per un predicato reale3 . Consideriamo:
(1) “Socrate non è morale”.
(2) “Non si dà il caso che Socrate sia morale”.
(3) “Socrate è non-morale”.
Gli enunciati (2) e (3) esemplificano le due possibili letture di (1). In (2) la negazione è de dicto
e ha un campo di applicazione ampio che include la proposizione “Socrate è morale”. Inoltre,
(2) non implica che Socrate sia non-morale, rimanendo piuttosto in silenzio sulla questione,
allo stesso modo in cui dire di qualcosa che non è verde non equivale necessariamente a
dire alcunché riguardo al suo essere rosso o blu. In (3), al contrario, la negazione è de re e
viene predicata, nella forma dell’aggettivo “non-morale”, di Socrate. Visto che solamente la
forma (3) è problematica, argomenta Miller, non si vede perché tutti gli enunciaci esistenziali
negativi non possano essere ricondotti alla forma (2) (e.g. “non è il caso che Socrate esiste”),
in cui nessun predicato di non-esistenza compare.
Rispetto a tali argomenti è da segnalare una differenza con l’utilizzo di ‘E!’ divulgato dai
seguaci di Meinong. Ventimiglia sottolinea con decisione come ‘esiste’, concepito nel suo ‘present actuality’-sense concerna “soltanto gli individui concreti e non i numeri, le proprietà universali e le entità intenzionali”. Inoltre, Tommaso stesso rigetta ogni espansione del dominio
ontologico che coinvolga entità intenzionali e fittizie, mentre tale era la soluzione di Meinong
al problema “della barba di Platone” (Quine, 1948): dal momento che tali enti sono disponibili
agli stati intenzionali e predichiamo di essi la non-esistenza, vi dovrà essere qualcosa di cui
la non-esistenza è predicata: vi saranno cioè cose che non esistono. I tomisti non possono concordare su tale punto, pena abbandonare il fulcro della loro dottrina che vede l’esistenza come
più fondamentale rispetto all’essenza: se un qualsiasi ente ha una qualche proprietà che lo
caratterizza essenzialmente, questo ente dovrà esistere – o, in altre parole, “l’istanziazione di
una qualsiasi proprietà equivale a, o implica, l’esistenza” (Berto, 2010, p. 28). La stessa cosa
intende il tomista quando sostiene che ad esistere siano solo e soltanto le cose attuali.
A mio giudizio, su che cosa si debba intendere per ‘attuale’ si gioca una delle questioni più
delicate del volume, la stessa che costituì la disputa fra Geach e Kenny, come abbiamo visto.
Quel che è certo per i tomisti – e per lo stesso Tommaso – è che l’esistenza sia una proprietà in
grado di ‘fare la differenza’. Senza di essa, di un oggetto non rimarrebbe alcunché. Dunque,
ecco che nel sesto capitolo viene presentata la maggiore proposta teoretica di Ventimiglia
3 Vedi
Miller (2002): “Nonostante ‘non esiste’ compaia nelle vesti di predicato grammaticale in ‘Socrate non esiste’,
non ne segue che debba anche essere un predicato logico. Bisogna riconoscere la possibilità di attribuire a tale
proposizione la seguente forma logica: ‘Non è il caso che (Socrate esiste)’. In questo caso, ciò che è predicato (anche
se non asserito) di Socrate è semplicemente ‘esiste’ (e non ‘non esiste’); e cioè che non è il caso che Socrate esiste.
Secondo tale analisi delle proposizioni esistenziali singolari negative, ‘non esiste’ non sarebbe un predicato, e per
questa ragione non richiederebbe che la non-esistenza sia una proprietà di alcun genere”.
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(spoiler alert!), riguardante la differenza specifica fra i due sensi di esistenza. Per risolvere il
problema di Kenny, Ventimiglia recupera un’altra distinzione tommasiana: quella fra coppie
di enti x e y che si differenziano fra loro idem in alio e aliud in alio. Nel primo senso x
e y differiscono solo per via di determinabili comuni, appartenenti allo stesso genere di x
e y – come fanno i numeri e i concetti, che “si differenziano gli uni dagli altri non già di
per sé, ma per l’aggiunta o la sottrazione di qualche unità” (p. 305). Al contrario, un ente
dotato di esistenza di primo livello è diverso (e non meramente differente) da ogni altro ente,
perché la sua essenza non potrebbe eguagliare quella di qualsivoglia altro ente solo grazie a
determinabili comuni. La proposta resta poco più che un abbozzo del programma di ricerca
che Ventimiglia conduce ‘attualmente’ alla università di Lugano. Vale tuttavia un’immediata
preoccupazione: l’essenza di enti appartenenti allo stesso genere può essere ottenuta spesso
per addizione di parti anch’esse appartenenti allo stesso genere. Ad esempio, un quadrato
ed un rettangolo in quanto appartenenti al genere delle figure piane, oppure una molecola
di glucosio ed una di saccarosio in quanto appartenenti al genere dei disaccaridi, oppure –
esempio più controverso – uno dei famigerati abitanti del game of life di Conway. Tali enti
non dovrebbero per questa sola ragione essere considerati non-attuali.
Vi è da dire, in generale, che quando Ventimiglia passa dalla logica alla metafisica del
predicato ‘E’, i termini tendono a diventare tutti tommasiani, e la loro parafrasi piuttosto faticosa. Sono dell’idea che un problema contemporaneo in metafisica non possa essere costruito
ex nihilo semplicemente resuscitando la terminologia del tomismo, oppure ri-formulato con
premesse che si fondano esclusivamente su quella terminologia (mentre va riconosciuto che lo
sforzo nel paragone con la filosofia del linguaggio di Frege è ben condotto e fa leva su istanze
critiche spesso già presenti nello stesso testo fregeano, che facilitano la compresione).
Di conseguenza, relativamente al problema centrale del cap. 6, mi sembra che i desiderata
che la nozione di attualità dovrebbe soddisfare non risultino ben chiari. Da una parte non
è possibile cercare la spiegazione nella stessa distinzione di Geach fra i sensi del predicato
‘esiste’ senza incorrere in una petitio principii, poiché proprio tale distinzione di dovrebbe
essere fondata su una nozione univoca di attualità, non il contrario. Dall’altra una soluzione
formulata nel linguaggio di Tommaso appare, per il momento, troppo chiusa in se stessa per
impressionare gli addetti ai lavori nel campo della metafisica analitica.
Fra le molte alternative discusse spicca quella di Steven Brock (2004), il qualche mette
in risalto le parole di Tommaso riguardo all’esistenza in quanto actus essentiae, e le ricollega
alla nozione di dipendenza ontologica, forse il tema che di recente ha riscosso più attenzione
fra i metafisici. A grandi linee, l’idea è che qualcosa ha essere (è attuale) se, e solo se, è una
funzione di alcune proprietà essenziali. Ci sono diversi modi di declinare questo punto. Ma
risulta a prima vista evidente il distacco da un punto fermo del tomismo: gli stati di cose circa
l’esistenza degli individui sono ora dipendenti dagli stati di cose circa l’essere istanziate di
alcune proprietà essenziali, in un modo per cui risulta minacciata la tesi attualista per cui
non vi sono entità che non siano attuali. Che dire infatti dello status delle entità possibili?
Esse sono quei complessi di proprietà essenziali che certo non sono, ma potrebbero essere
istanziate prendendo parte a quella stessa relazione di dipendenza costitutiva fra essere ed
essenza. Se si vuole dire che i possibilia non esistono, dunque, bisognerà chiarire perché la
relazione di dipendenza ha come suoi relata solo certi determinati enti attuali, cioè bisognerà
trovare un criterio di attualità (indipendente dalla relazione stessa) che permetta a quegli
enti e a niente più di entrare nella relazione. Ma in questo modo si è punto e a capo nella
ricerca di un criterio di attualità. Se si vuol dire invece che i possiblia hanno essere, al
contrario, niente sembra impedire che per ogni combinazione di proprietà essenziali vi possa
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essere un individuo che possiede tali proprietà, sfociando così in una limpida confessione di
meinongianismo.
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F ORME , RELAZIONI , OGGETTI . S AGGIO SULLA METAFISICA
DEL “T RACTATUS L OGICO -P HILOSOPHICUS ”
Giorgio Lando
[Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012]
recensione a cura di Martina Rovelli
Forme, relazioni, oggetti. Saggio sulla metafisica del “Tractatus Logico-Philosophicus” di
Giorgio Lando (che ha studiato e lavorato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” e l’Università di Ginevra) consiste in una
rielaborazione, da parte dell’Autore, della propria tesi di dottorato, discussa nel 2006 e seguita, in veste di tutor, da Pasquale Frascolla. In effetti, come precisa lo stesso Frascolla nella
prefazione al testo, le riflessioni dell’uno hanno avuto grande influenza su quelle dell’altro:
“l’intensità dello scambio era tale che oggi avrei qualche difficoltà persino a stabilire a chi,
tra me e Lando, si debba questa o quell’idea” (Lando, 2012, p. iv).
Il titolo è interessante per tre ragioni. Prima ragione: annuncia che il testo è un saggio
sul Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. La traduzione italiana di riferimento è
quella di A.G. Conte, pubblicata da Einaudi, anche se in molti casi, soprattutto nel trattare
il problema delle relazioni e delle forme, l’Autore non manca di prendere le distanze dalle
scelte lessicali compiute da Conte (tutti i casi in cui ciò avviene sono segnalati in nota). Le
modifiche sono sempre tese a rendere la traduzione più letterale e sono motivate dal fatto che
Conte utilizza il termine “relazione” in riferimento a passi in cui l’originale tedesco impiega
l’endiadi “Art und Weise” (letteralmente, “modi” in cui gli oggetti o i nomi si combinano tra
loro). Questo modo di tradurre è fuorviante, in quanto il termine “relazione” rimanda alle
relazioni tradizionalmente intese, per le quali Wittgenstein preferisce utilizzare il tedesco
“Relation”. Seconda ragione: suggerisce che il Tractatus sostenga tesi metafisiche. Terza
ragione: fa capire che il testo si rivolge a coloro che condividono questa credenza. In altre
parole, dal momento che il saggio ha per oggetto le tesi metafisiche contenute nel Tractatus,
esso presuppone che il lettore creda che il Tractatus contenga tesi metafisiche e non sia “un
ironico nonsense”: il saggio, cioè, presuppone che il lettore non sia un esponente della linea
cosiddetta del New Wittgenstein. Gli esponenti del New Wittgenstein, infatti, ritengono che
nel Tractatus l’Autore abbia voluto esibire le insensatezze determinate da dottrine che egli
stesso “aveva preso sul serio nei primissimi anni della sua riflessione” (Lando, 2012, p. 31)
ma che poi era giunto a considerare, appunto, fonti di insensatezze. Per i rappresentanti del
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C OPYRIGHT. 2014 Martina Rovelli. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti
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A UTORE. Martina Rovelli. [email protected].
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New Wittgenstein, quindi, il Tractatus non comunicherebbe nulla, bensì sarebbe “una specie
di scherzo ironico autodistruttivo” (Lando, 2012, p. iii).
Una volta fatte queste precisazioni, possiamo proseguire ed esaminare la tesi dell’Autore.
In effetti, Lando sostiene due tesi, interconnesse tra loro. La prima tesi è che il nesso (o “la
relazione”, intesa però come modo in cui gli oggetti si combinano) che connette tra di loro i
costituenti dello stato di cose non sia altro che la forma dello stato di cose. La seconda tesi
è che la forma di uno stato di cose sia il risultato composizionale della forma dei costituenti
dello stato di cose stesso (possiamo chiamare questa tesi “principio della composizionalità
della forma”).
Ma andiamo con ordine. La prima parte del testo è dedicata a un inquadramento generale
della metafisica del Tractatus. L’Autore guida il lettore nelle intricate sezioni del Tractatus in
cui vengono presentati e messi in relazione i termini metafisici del testo, quali “mondo”, “fatto”, “stato di cose”, “oggetto”, “forma”, “struttura”, “sostanza”, etc. Naturalmente, nel parlare
dei termini del Tractatus, una difficoltà non indifferente giunge dal fatto che, spesso, anche
i termini che vengono introdotti mediante definizioni non conservano il medesimo significato
nel corso dell’opera (e proprio questa caratteristica è alla base della grande varietà di interpretazioni esistenti). Ad ogni modo, ad essere rilevante, qui, è la caratterizzazione che Lando
dà dei termini “forma” e “struttura”: secondo lui, infatti, per Wittgenstein la forma dello stato
di cose non sarebbe altro che la possibilità della struttura dello stato di cose, dove per struttura si intende il modo di combinazione degli oggetti nello stato di cose (attuale). La forma,
quindi, è propria degli stati di cose possibili, mentre la struttura è propria degli stati di cose
attuali o fatti (naturalmente, nei fatti forma e struttura coincidono, dal momento che i fatti,
in quanto stati di cose attuali, sono a fortiori stati di cose possibili. L’unica differenza è che
la struttura ha la componente – esterna – di attualità che manca alla forma).
La seconda parte del testo illustra la teoria delle relazioni, che è il fulcro del lavoro di
Lando. La tesi, come si è già detto, è che il nesso che tiene uniti gli oggetti in uno stato di cose
(la cosiddetta relazione) sia la forma dello stato di cose e, al tempo stesso, sia il risultato composizionale delle forme degli oggetti posti in connessione, dove le forme degli oggetti non sono
altro che le proprietà combinatorie degli oggetti stessi. La conseguenza di questa teoria delle
relazioni è che la relazione non è un costituente specifico dello stato di cose come lo sono gli
oggetti, ma è il modo in cui gli oggetti stanno nello stato di cose. Per utilizzare una metafora
cara a Wittgenstein, la relazione è il modo in cui gli anelli della catena sono interconnessi, e
non un anello ulteriore della catena. Questo non significa eliminare le relazioni dalla nostra
ontologia, ma ridurle alle forme degli oggetti, “nel senso che qualsiasi enunciato che parli di
relazioni può essere parafrasato in un enunciato in cui si parla d’altro, e in particolare delle
forme degli oggetti” (Lando, 2012, p. 66). In questo senso, si potrebbe dire che le relazioni
degli stati di cose sopravvengono sulle forme degli oggetti relati.
La terza parte del testo spiega quali sono le conseguenze di questa teoria delle relazioni
per la semantica e, in particolare, per la teoria raffigurativa della proposizione. Per considerare queste conseguenze, è necessario aggiungere, al già citato “principio di composizionalità
delle forme”, il “principio di rispecchiamento della forma”. Il principio di rispecchiamento
della forma afferma che le forme dei nomi (cioè le loro proprietà combinatorie) rispecchiano
le forme (cioè le proprietà combinatorie) degli oggetti che essi designano. In altre parole, un
nome a può combinarsi con i nomi b e c nella proposizione elementare P se e solo se l’oggetto A
designato da a può combinarsi con gli oggetti B designato da b e C designato da c nello stato
di cose S. Ora, il principio di composizionalità delle forme e il principio di rispecchiamento
della forma sembrano spiegare perché, per calcolare il valore semantico di una proposizio-
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ne, basti conoscere il significato dei nomi che la costituiscono (e le regole della sintassi), cioè
sembrano spiegare il principio di composizionalità del significato: solo perché la forma del
nome rispecchia la forma dell’oggetto, la proposizione implica, in virtù della sua correttezza
sintattica, che gli oggetti che sono il significato dei suoi nomi costituiscano uno stato di cose
possibile.
La quarta e ultima parte del testo spiega invece quali sono le conseguenze della teoria
delle relazioni per la natura degli oggetti semplici. In effetti, Lando mostra che qualsiasi
modello di ontologia che voglia presentarsi come modello di ontologia del Tractatus, deve rispettare tre requisiti di adeguatezza materiale. Primo, l’estensionalismo degli stati di cose,
cioè il fatto che l’identità di uno stato di cose è determinata unicamente dai suoi costituenti.
Secondo, la possibilità di generare la forma di uno stato di cose dalle forme dei suoi costituenti. Terzo, la possibilità di generare una varietà sufficientemente ampia di forme distinte
di stati di cose. L’Autore illustra alcuni modelli ontologici candidati a modelli ontologici del
Tractatus, e indica come modello privilegiato (in quanto rispettoso di tutti e tre i requisiti
elencati) proprio il modello proposto da Frascolla, che si basa sull’identificazione degli oggetti
semplici con i qualia (o qualità fenomeniche), e degli stati di cose con i concreta (o complessi
fenomenici concreti), che hanno i qualia per costituenti. È importante notare che la teoria delle relazioni proposta da Lando e il modello ontologico di Frascolla sono congetture metafisiche
indipendenti; eppure, ciascuna di esse conferisce supporto alla plausibilità dell’altra.
In definitiva, il saggio di Lando ha almeno quattro meriti. Primo, suggerisce che il Tractatus può essere considerato un’opera coerente e non un ironico nonsense, che esso contiene
tesi metafisiche e che le sue tesi metafisiche possono essere esaminate con gli strumenti della
metafisica analitica contemporanea. Secondo, elabora una teoria delle relazioni che sembra
trovare, nel Tractatus, evidenze testuali tali da permettere di credere che Wittgenstein avesse davvero in mente una teoria del genere. Terzo, permette di spiegare, tramite questa teoria
delle relazioni, alcune nozioni della teoria raffigurativa della proposizione. Quarto, formula
una teoria delle relazioni che, pur essendo indipendente dal modello ontologico di Frascolla,
trova nel modello Frascolla sostegno e lo sostiene a sua volta. A questi meriti si aggiunge il fatto di essere scritto in modo chiaro e di essere sviluppato in modo schematico, pregi
che aiutano la fruizione ad un lettore in cui, comunque, è presupposta una conoscenza, pur
superficiale, del Tractatus.
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Riferimenti bibliografici
Lando, Giorgio (2012). Forme, relazioni, oggetti. Saggio sulla metafisica del “Tractatus LogicoPhilosophicus”. Milano-Udine: Mimesis Edizioni.
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A M ETAPHYSICS OF P SYCHOPATHOLOGY (P HILOSOPHICAL
P SYCHOPATHOLOGY )
Peter Zachar
[The MIT Press, Cambridge (MA) 2014]
review by Lovro Savić
The first thing that comes to mind after reading Peter Zachar’s new book titled A Metaphysics of Psychopathology is: Peter Zachar and MIT press did it again! Aside from Oxford’s
University Press International Perspectives in Philosophy & Psychiatry series, MIT press
continues to do an excellent job in publishing the most interesting, relevant and up to date
scholarly and philosophical work in the continuously expanding field of philosophy of psychiatry. Zachar’s book presents one of the latest additions to the Philosophical Psychopathology series, and indeed a good one. The other thought that immediately follows is that MIT
press continues to complement its philosophical work on pragmatism. After Pragmatic Neuroethics (Racine, 2010) and Pragmatic Bioethics (McGee, 2003), Zachar’s book can be regared
as a fresh newcomer to MIT press publication list with an interesting implementation of the
american pragmatist theory to the domain of psychiatry and to its philosophical counterpart.
This in part serves as a new complement to the interesting remark made by Natalie F. Banner
and Tim Thorton that “philosophy of psychiatry in the english speaking world has broad historical roots, ranging across many traditions of thought in Europe, UK and the USA” (Banner
and Thornton, 2007).
Zachar’s book is by no means introductory either to philosophy of psychaitry or metaphysics. It does indeed cover and explain some of the most important theories in metaphysics,
but does it in a manner that is significantly far from ’introductory level’. In the light of this,
it is worth noting that some background knowledge in metaphysics and philosophy of science
is needed to engage in this book. However, even if you are a newcomer to both fields (metaphysics and philosophy of psychiatry), Zachar has provided a glossary at the end of the book.
It includes definitions and meanings of the most important philosophical concepts employed
in the book.
This 288 pages long book is divided in 12 chapters. Interestingly, keeping in mind the title
of the book, the first two chapters (excluding introduction) barely cover anything strictly related to psychiatric classification or psychopathology – two of the most prevailing and longest
standing topics in philosophical investigation of psychiatry. However, the author notes that
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C OPYRIGHT. 2014 Lovro Savić. Published in Italy. Some rights reserved.
A UTHOR. Lovro Savić. [email protected].
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“[t]he amount of psychiatric material generally increases thereafter, with chapter 8 being the
point at which psychiatric topics take center stage” (p. 17). Up to that moment, the reader is
not left in a research darkness as for the author engages into interesting philosophical and
historical exploration. Indeed, exploration and clarification of theories such as scientifically
inspired pragmatism (Chapter 2), instrumental nominalism (Chapter 3), essentialism (Chapter 4) are significantly important for the later parts of the book where the author deals with
classification and the concept of mental disorder (Chapter 8), narcisstic personality disorder
(Chapter 11) and human condition such as grief (Chapter 10). This book explores the most
important metaphysical concepts such as “real”, “true” and “objective” and advocates the
stance that “in addition to using these metaphysical concepts to think philosophically about
other concepts, we should also think philosophically about them” (p. 21). In other words, as
Zachar notes, we should “refrain from assuming that the meaning of those concepts is selfevident” (p. 210). In that way, both psychiatry and related clinical pscyhology could benefit
from such intelectual activity which is characteristic to philosophy in general and metaphyics
in particular.
However, one question arises: Why should philosophers and psychiatrist engage in this
kind of activity and endaveour at all? Some authors list several reasons which somewhat
closely resemble Zachar’s motivation for metaphyscial investigation of psychiatry: “the presence of apriori assumptions and matters such as categorization, causation and explanation”
(Ralston, 2013, p. 399).
Zachar’s recent book adds on and broadens this list: “As already said, both psychiatrists
and philosophers use terms such as “objective”, “reality” and “truth” in their everyday discourses and “instead of assuming that metaphysical questions about the reality of psychiatric
disorders are self-evident, I have offered some cognitive resources for making such ideas a little less obscure” (Zachar, 2014, p. 229). This congnitive resources now (as hinted by Banner
and Thornton) have their roots in American philosophical thoughts. Zachar makes it explicit
and relies on what he calls scientifically inspired pragmatism for which it gives an informative overview in frist two chapters.
It is worth noting that this book abounds with exploration and confrontation with most
important contemporary (e.g. Wakefield’s account of mental disorders) and (fortunately) now
historical concepts (e.g. drapetomania and dysaesthesia aesthiopis) and theories of psychiatric conditions, still relevant natural kinds theories and contrasted social construct theories,
and always interesting ideas linked to the newest (fifth) edition of Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder and particular human conditions such as grief and narcisstic
personality disorder.
Inovative nature of this book lies in Zachar attempt to come up with a new theory which
he names imperfect community model. In short, and in Zachar’s words, it is based on the idea
“that various symptom configurations that are classified by psychiatrists resemble each other
in a number of ways, but there is no property or group of properties that all of them share
in common as a class” (p. 19) which directly contrast essentialist account of mental disorder
and sides somewhat to Kazem Sadegh-Zadeh prototype resemblance theory of mental disorder
(Sadegh-Zadeh, 2008).
To conclude, it is worth noting that this book is written very well, includes a broad range
of the most important ideas, concepts, theories and achievements in the philosophy of psychiatry and deals with the several very controverisal issues in the psychiatric classification
systems. After Psychological Concepts and Biological Psychiatry: A philosophical analysis
(Zachar, 2000), it marks another remarkable contribution to the field of philosophy of psychi-
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atry made by Peter Zachar.
I would like to end this somewhat concise review with not so excessively optimistic response to “remain[ing] worries about the accessibility of work in the philosophy of psychiatry
to the average practitioner” (Ralston, 2013, p. 399). Zachar’s book, armed with both sophisticated theories and vocabulary on the one hand, and basic concepts and their clarification
on the other, with enough perserverence from psychiatric practicioners might in the near
future transmit its significant relevance from philosophy to psychiatry. That being said, A
Metaphysics of Psychopathology is a must-read and deserves a place on a bookshelf of anyone
interested in new advancements in philosophy, psychiatry and philosophy of psychiatry.
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References
Banner, N.F. and T. Thornton (2007). “The new philosophy of psychiatry: its (recent) past,
present and future: a review of the Oxford University Press series International Perspectives in Philosophy and Psychiatry”. In: Philos. Ethics Humanit. Med. 2.9.
McGee, G. (2003). Pragmatic Bioethics. Cambridge (MA): The MIT Press.
Racine, E. (2010). Pragmatic Neuroethics: Improving Treatment and Understanding of the
Mind-Brain. Cambridge (MA): The MIT Press.
Ralston, A.S.G. (2013). “The philosophies of psychiatry: empirical perspectives”. In:
Med. Health Care Philos. 16, pp. 399–406.
Sadegh-Zadeh, K. (2008). “The Prototype Resemblance Theory of Disease”. In: J. Med. Philos.
33, pp. 106–139.
Zachar, P. (2000). Psychological Concepts and Biological Psychiatry: A philosophical analysis.
Amsterdam, Philadelphia (PA): John Benjamins Publishing Company.
— (2014). A Metaphysics of Psychopathology. Cambridge (MA): The MIT Press.
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L E T RIBOLAZIONI DEL F ILOSOFARE .
C OMEDIA M ETAPHYSICA , NE LA QUALE SI TRATTA
DE LI ERRORI E DE LE PENE DE L’I NFERO
Achille Varzi e Claudio Calosi
[Laterza, Roma-Bari 2014]
recensione a cura di Stefano Canali
Non ci è dato di conoscere le origini del poema che con emozione consegniamo qui
alle stampe, né ci è nota l’identità del dotto Poeta dalla cui penna uscirono i versi
che lo compongono. Altri sapranno dire. Per parte nostra possiamo solo riferire che
le pagine che seguono sono la trascrizione il più fedele possibile dell’originale autografo a noi pervenuto, anonimo e senza indicazione di data o luogo di composizione,
da mani a loro volta anonime e senza volto. (Varzi e Calosi, 2014, p. IX)
È così che Achille C. Varzi e Clausio Calosi riferiscono di essere entrati in possesso del
testo di cui sono gli umili e attenti curatori, con parole simili a quelle usate da tanti grandi
autori (da Hawthorne a Cervantes passando per Manzoni) per descrivere il ritrovamento di
un prezioso manoscritto. Le Tribolazioni del Filosofare. Comedia Metaphysica, ne la quale si
tratta de li errori e de le pene de l’Infero è infatti opera di un Poeta la cui identità è avvolta
nel mistero. Nello specifico, è un poema filosofico suddiviso in 28 canti (purtroppo non interamente pervenutici), i quali sono composti in terzine incatenate di versi endecasillabi scritti
in volgare toscano.
Non si tratta, in altre parole, della classica tipologia di testo che siamo soliti recensire sulle
pagine di RIFAJ. Come si può facilmente constatare dagli altri contributi presenti in questa
sezione della rivista, le categorie di volumi oggetto di recensione sono fondamentalmente due:
testi specialistici, diciamo per addetti ai lavori (filosofici), e testi divulgativo-introduttivi. In
ogni caso, si tratta pur sempre del genere di prosa che in inglese viene definita non-fiction,
ossia propria di scritti che non sono oggetto di finzione letteraria. Di conseguenza, il volume
qui recensito differisce dalla norma nella misura in cui si tratta di fiction e di poesia, piuttosto
che di non-fiction e di prosa. Tutto ciò per dire tanto della straordinarietà del testo in esame,
quanto della conseguente particolarità della recensione che mi appresto a scrivere. Infatti,
in questa sede non ho intenzione di analizzare minuziosamente il testo, scandagliandone
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C OPYRIGHT. 2014 Stefano Canali. Pubblicato in Italia. Alcuni diritti
riservati.
A UTORE. Stefano Canali. [email protected].
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ogni riga – o meglio, verso – e narrando tutto quello vi si può trovare. Qui, proverò invece
a dare – per così dire – un assaggio del testo, concentrandomi su alcuni aspetti che ritengo
particolarmente interessanti.
Come dicevo, la composizione si suddivide in 28 canti partoriti dall’ingegno di un ignoto
Poeta. Nello specifico, in questi canti il Poeta narra in prima persona di un viaggio compiuto
attraverso quello che a più riprese viene chiamato Infero. Il termine ‘Infero’ non va semplicemente inteso come sinonimo dell’inferno a cui siamo normalmente abituati a pensare, nel
senso che nei dieci cerchi concentrici che il Poeta discende le anime vengono sì punite, ma
non per via di qualche peccato. Infatti, le anime che il Poeta incontra si sono macchiate di
errori piuttosto che di peccati, e nello specifico di errori nel campo della metafisica filosofica.
Gli errori e le pene di contrappasso aumentano di gravità al passare di ogni cerchio, iniziando
con i pusillanimi, che non decisero mai da che parte stare, fino ad arrivare agli ignoranti ed
ai cialtroni:
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In questo «errare» il Poeta non è solo, ma è accompagnato da «la madre, il padre, il principiatore di quel ch’è l’alto e ver filosofare, il più divino essemplo de l’amore» (vv. 1-3, Canto II).
Costui non può che essere Socrate, del resto comunemente ritenuto il fondatore della pratica
filosofica vera e propria.
Ora, la discesa in luoghi infernali, la descrizioni di colpe e supplizi, la presenza di una
guida antica non possono che far venire in mente l’affinità del testo in esame con un altro
e ben più noto poema: la Commedia di Dante Alighieri. Nell’Introduzione (Varzi e Calosi,
2014, pp. X–XI) i curatori si soffermano a lungo sul problema del rapporto tra i due testi, che
in molti casi presentano parti pressoché indistinguibili. Viene dunque lecito chiedersi se non
ci sia stata una qualche forma di influenza tra gli autori, che Varzi e Calosi affermano con
certezza, lasciando in sospeso il quesito su chi fu di ispirazione a chi (fu il Poeta ad ispirarsi
alla Commedia o, addirittura, Dante alla Comedia Metaphysica?).
Questo, però, non significa che non si possano ravvisare differenze sostanziali tra le due
commedie, che penso possano mettere in luce alcuni aspetti peculiari di quella qui recensita.
Come già si diceva, anzitutto, la creazione del Poeta ignoto è di argomento squisitamente filosofico e quella dell’Infero è una metafora utile solo a condannare alcune posizioni filosofiche,
senza arrivare a giudizi assoluti di impronta escatologica.
Questo aspetto è di primaria importanza e influenza altri aspetti generali dell’opera. Infatti, il viaggio del Poeta ha il fine di purificare il suo intelletto e la sua pratica filosofica, nella
misura in cui la visione delle anime punite è occasione di confronto con esse e in molti casi di
superamento dei loro errori. In questo senso ha funzione fondamentale la figura di Socrate, il
quale non si limita a fare da guida nei luoghi infernali e a descriverne le caratteristiche, ma
ingaggia con il poeta un dialogo costante, che spesso porta a riflessioni di alto livello teorico.
Confrontandosi con tematiche filosofiche quali la barba di Platone, l’identità diacronica, il dibattito sugli universali, il dualismo mente-corpo, il realismo ingenuo, il determinismo, ecc., il
Poeta matura, prende sicurezza delle sue capacità argomentative e si libera della confusione
che domina le battute dei primi versi. L’evoluzione positiva del Poeta esemplifica il fine del
suo viaggio: vedere gli errori commessi da altri per chiarificare le questioni e non commetterli
in prima persona. A ben vedere, però, questo non è soltanto il fine del viaggio personale del
protagonista/narratore. Infatti, si potrebbe sostenere che è il messaggio generale che l’opera
lascia al lettore1 : la purificazione dell’intelletto mediante la riflessione sugli errori altrui è un
percorso che chiunque sia amante della sapienza, ogni filosofo, dovrebbe intraprendere. Non
per nulla, molte delle posizioni filosofiche segnalate come erronee sono state difese e sostenute ben dopo la stesura originale del testo e, anzi, vengono portate avanti tutt’oggi. È questo,
ad esempio, il caso dell’errore metafisico presentato nel Canto XIX, cioè il dualismo del materiale (la tesi secondo cui un oggetto materiale è cosa diversa dalla materia che lo compone),
che ha avuto seguito nella filosofia contemporanea di Saul Kripke (1971) e, più recentemente,
Kit Fine (2003).
In quest’ottica, nelle note Varzi e Calosi si preoccupano di sottolineare costantemente
spunti e riflessioni che sembrano fare riferimento a personaggi vissuti molto dopo la morte
del Poeta, da Wittgenstein a Hume, da Shakespeare a Leopardi, a segnalare la larghezza
di vedute delle critiche e delle osservazioni contenute nella Comedia. Chiaramente, nelle
note troviamo anche abbondanti riferimenti alla probabile contemporaneità e al passato dell’autore, di cui alcuni protagonisti sono peraltro presenti in prima persona nei vari gironi
dell’Infero (si pensi ad esempio alla memorabile scena che mette insieme Socrate, Platone e
1 L’opinione
è condivisa dai curatori, vedi nota 1, Canto XXVIII.
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Aristotele nel Canto X, vv. 61-142). Le note servono inoltre a sottolineare la ricchezza linguistica dell’opera, che abbonda di figure retoriche, latinisimi, neologismi, termini propri della
lirica duecentesca, ecc. In alcuni casi, purtroppo, i contributi dei curatori sono necessari per
integrare le parti mancanti di alcuni o interi canti, anche se il lavoro di Varzi e Calosi – come
ogni ricerca filologica che si rispetti – è sempre in divenire e pronto a nuove scoperte2 .
Quindi, durante la lettura le note non vanno tralasciate. Ma, in realtà, non va tralasciata
nessuna parte di quest’opera, che non deve essere pensata come uno di quei testi da cui si può
semplicemente estrapolare un passaggio o una sezione tralasciando tutto il resto. In quanto
poema, infatti, va letto nella sua interezza e nel suo contesto per apprezzarne le proposte
filosofiche di fondo. Direi perciò che è alla luce di tutto questo, considerando cioè questo
intreccio di contesto, contenuto e stile, che va giudicato Le Tribolazioni del Filosofare. Cosa
ne risulta? A mio parere, riflettendo su questo intreccio si ha la sensazione di trovarsi di
fronte ad una nuova via di veicolare un contributo filosofico. Non si tratta di divulgazione,
così come non si tratta di un saggio in senso classico, ma, in un certo senso, qui si trovano
aspetti di entrambi e anche di più: l’introduzione e la spiegazione di tante teorie e problemi
filosofici (divulgazione) e la proposta argomentata di posizioni (saggio) sono racchiuse entro
una cornice di stile e vicende a dir poco peculiari. Questo per dire che la Comedia è l’inizio di
una sorta di terza via tra divulgazione e saggistica? Di certo, a leggere un’opera del genere,
si potrebbe pensare che sia una via legittima e auspicabile, ma forse tanto impegnativa (per
il lavoro di cura o per quello di stesura, qualora non si abbia la fortuna di trovare un antico
manoscritto) da restare un unicum. O meglio, forse un unicum solo fino alla pubblicazione
della parte seguente del manoscritto trovato da Varzi e Calosi.
2 È pertanto con grande piacere che accogliamo l’ultima delle loro scoperte come Ex-Cathedra di questo numero,
cogliendo l’occasione per ringraziarli di cuore.
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Riferimenti bibliografici
Fine, Kit (2003). “The Non-Identity of a Material Thing and Its Matter”. In: Mind 112.446,
pp. 195–234.
Kripke, Saul A. (1971). “Identity and Necessity”. In: Identity and Individuation. A cura di
Milton K. Munitz. New York: New York University Press, pp. 135–164.
Varzi, Achille C. e Claudio Calosi (2014). Le Tribolazioni del Filosofare. Comedia Metaphysica,
ne la quale si tratta de li errori e de le pene de l’Infero. Roma-Bari: Laterza.
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D E LI ACCIDIOSI CHE SON AVVERSI AL POSSIBILE
Claudio Calosi, Achille Varzi
Antefatto: Nella primavera del 2014 abbiamo avuto l’onore e il piacere di dare alle stampe
un volume contenente la trascrizione fedele di un poema anonimo in ventotto canti intitolato
Le tribolazioni del filosofare. Comedia metaphysica ne la quale si tratta de li errori & de le
pene de l’Infero (Roma-Bari, Editori Laterza). Il poema – composto interamente in terzine
incatenate di versi endecasillabi, in volgare toscano – tratta del viaggio allegorico del Poeta
attraverso il buio «Infero» dell’intelletto, sotto la guida di Socrate, alla ricerca di una via
d’uscita dalla condizione di stallo e confusione diffusa nella quale egli sarebbe malamente
precipitato. Più precisamente, l’Infero è strutturato in una serie di Cerchi concentrici che si
succedono verso un abisso sempre più buio e profondo, e ciascun Cerchio (dieci in tutto, alcuni
dei quali suddivisi in più Gironi, Zone o Bolge) rappresenta un grave «errore» filosofico a cui
corrisponde una «pena» altrettanto severa per quei pensatori che se ne sarebbero macchiati
nel corso della storia. Il viaggio del Poeta è appunto il viaggio liberatorio di chi ha la pazienza
e l’umiltà intellettuale – ma anche il coraggio – di attraversare ogni Cerchio apprendendo
«l’errori e da li errora».
Come abbiamo avuto modo di scrivere nell’introduzione al volume, il poema presenta evidenti analogie, sul piano dello stile come su quello dell’architettura complessiva, con la prima
cantica della Commedia di Dante Alighieri, benché non sia possibile determinare con certezza il nesso tra le due opere. Al momento possiamo solo confermare che le analogie sono tante
e tali da non lasciare dubbi sul fatto che i due autori non abbiano operato in isolamento: o
il Poeta trasse ispirazione da Dante per il suo poema filosofico (peraltro affiancato da un secondo componimento, per ora inedito, dedicato alle «virtù» e ai «premi» di un luogo chiamato
«Empireo»), ovvero fu Dante stesso a ispirarsi al Poeta per il suo poema divino. In effetti la seconda ipotesi è meno azzardata di quanto potrebbe sembrare, considerato il già lungo elenco
di opere che in vario modo si potrebbero annoverare tra i precursori del capolavoro dantesco.
A parte ovviamente il VI libro dell’Eneide di Virgilio e l’Apocalisse apocrifa di Paolo (e, per certi aspetti, le tre sure del Corano in cui si narra dell’isrā’ e del mi’rāj di Maometto), ricordiamo
in particolare le odissee monastiche irlandesi dell’Immram Brain (VIII sec.), dell’Immram
Maele Dúin (X sec.) e della Navigatio Brendani (X sec.), veri e propri best seller medievali
diffusi per ogni parte d’Europa in numerosissime traduzioni e varianti; le visioni infernali,
purgatoriali e paradisiache narrate nella Fís Adamnáin (X-XI sec.), nella Visio Tnugdali (XII
sec.), nella Visio Alberici (XII sec.) e nel Purgatorium Sancti Patricii (tardo XII sec.), alcune
delle quali certamente note a Dante; e infine i tanti testi in italiano volgare duecentesco che
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a loro volta proponevano il tema del viaggio nell’oltretomba con intenti non dissimili – sul
piano didascalico se non su quello lirico – da quelli del sommo poeta: dai 702 versi del Libro
di Uguccione da Lodi (c. 1260), in lasse monorime di endecasillabi e alessandrini in volgare
lombardo-veneto, ai due poemetti di Giacomino da Verona, il De Babilonia civitate infernali
e il De Ierusalem celestial (c. 1275), rispettivamente di 280 e 336 alessandrini monorimi in
volgare veronese, sino al Libro de le tre scripture di Bonvesin da la Riva (c. 1276), di 2108
alessandrini assonanzati in volgare lombardo, che con la Divina Commedia condivide anche
la suddivisione in tre cantiche (la «nigra», dove si narra «dre dodex pen dr’ inferno»; la «rossa, dove «sì determina dra passion divina»», e la «aurea», ove «sì dis dra cort divina, / zoè
dre dodex glorie de quella terra fina»). Detto questo, la prima ipotesi ci sembra senz’altro
più verosimile, sia per i motivi già evidenziati nella nostra introduzione, sia in considerazione dell’assoluta mancanza di testimonianze documentali in cui si faccia cenno all’opera del
Poeta. È davvero improbabile che Dante potesse esserne a conoscenza. Ciò non toglie che
al nostro Poeta vada in ogni caso riconosciuta la paternità di uno tra i più vasti e profondi
poemi filosofici di ogni tempo. Quali che siano i suoi debiti, Le tribolazioni del filosofare è
una straordinaria testimonianza di metafisica militante. È il poema di una vita. È il viaggio
ispirato e ispiratore di chi appetisce davvero all’Amore per la Sapienza e, prima ancora, a
quella purificazione dell’intelletto di cui in un modo o nell’altro abbiamo tutti bisogno.
Ora, nel dare alle stampe il poema abbiamo precisato che il manoscritto ci è pervenuto
in forma mutilata: sette canti risultano incompleti e altri sei del tutto mancanti. Ciò non
ha impedito una ricostruzione piuttosto dettagliata delle parti mutilate, anche grazie alle
indicazioni contenute nell’indice titolato – per la verità posticcio e di mano diversa – che accompagna le carte di guardia. Resta nondimeno il rincrescimento per le parti andate perse, e
con esso la curiosità per il loro effettivo contenuto. A ciò si aggiunge il rammarico per il fatto
che il secondo componimento a cui si accennava, il cui titolo per esteso è Le beatitudini del
filosofare. Comedia metaphysica ne la quale si tratta de le virtù & de li premi de l’Empireo, ci
è giunto in condizioni ancora più frammentarie e danneggiate, al punto da ostacolare seriamente la ricostruzione del materiale in vista di una sua pubblicazione. Proprio lavorando a
questa seconda parte del manoscritto ci siamo però imbattuti in una scoperta che, se da un
lato peggiora ulteriormente le prospettive di ricostruzione del secondo componimento, dall’altro costituisce motivo di gaudio per ciò che concerne il primo. Esaminando attentamente
le carte del manoscritto (a colonna singola, non numerate) ci siamo infatti resi conto che i
versi contenuti su uno dei fogli finali non collimavano con i contenuti previsti in quella parte
del poema, e un loro riesame accurato ha consentito con una certa facilità di identificarne la
corretta ricollocazione tra i fogli del componimento dedicato all’Infero. Si tratta, per l’esattezza, del foglio che fa seguito a quello contenente il frammento iniziale del Canto XXI, nel
quale si tratta de l’ottavo Cerchio, ne le due Zone de li Accidiosi che son avversi al possibile
& deterministi. Pur non completando interamente il Canto (l’ultima terzina è mutilata e sicuramente ne mancano delle altre), i nuovi versi ne costituiscono un arricchimento enorme,
sul piano lirico come su quello della riflessione filosofica, restituendoci un quadro piuttosto
chiaro della metafisica modale del Poeta. Non è quindi senza trepidazione che accogliamo
l’invito degli editori a pubblicare in questa sede il foglio ritrovato, nella speranza che i lettori
di Le tribolazioni del filosofare possano trarne il medesimo godimento che noi stessi abbiamo
provato preparandolo per la stampa.
Ricordiamo dunque brevemente il contesto. (Per un quadro più completo si veda la Struttura generale del poema riportata in Appendice.) Il XXI è il primo di due canti dedicati al
Cerchio degli accidiosi, categoria che dovrebbe includere tutti quei filosofi che in qualche mo-
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103
do peccarono di passività nei confronti del mondo così come è. Sulla base del nuovo materiale
possiamo anzi confermare quanto ipotizzato nel volume a stampa, ossia che «accidia» sia qui
da intendersi come sinonimo di «passività» e «grettezza modale», diversamente da Dante, che
invece contrappone l’accidia all’iracondia punendola insieme a quella nei fanghi dello Stige (e
diversamente dalla tradizione scolastica, che la identifica con il quarto dei sette vizi capitali
codificati nei Moralia di Gregorio Magno, ossia il rifiuto del bene divino). Dall’indice titolato
sappiamo altresì che il Cerchio stesso, l’ottavo dei dieci in cui è organizzato l’Infero, è a sua
volta diviso in quattro Zone così strutturate:
• Zona I: Avversi al possibile
• Zona II: Deterministi
• Zona III: Fatalisti
• Zona IV: Irresponsabili
Le prime due Zone formano appunto la materia del Canto XXI, mentre le altre due sono trattate nel Canto XXII, di cui purtroppo dobbiamo confermare la completa mancanza tra le carte
del manoscritto in nostro possesso. Può inoltre giovare ricordare che il Canto precedente, il
XX (pervenuto in forma integrale), è dedicato ai «timorosi del cambiamento». Il Poeta non
parla di costoro come di dannati veri e propri e infatti non li assegna a uno dei dieci Cerchi dell’Infero. Si tratta piuttosto dei marinai della nave di Teseo sulla quale egli, insieme
a Socrate, attraversa il fiume cangiante che separa il settimo Cerchio dall’ottavo (un fiume
«come il rivo d’Eraclito, / che nulla vi s’ammerge mai due volte / e mai comincia e non è mai
finito») disquisendo dei problemi riguardanti la persistenza nel tempo e l’identità attraverso
il cambiamento. Il Poeta vede dunque le tematiche di metafisica modale del Canto XXI come
il logico prosieguo della discussione appena conclusa a bordo dell’imbarcazione, e alcuni versi
della nuova parte renderanno il nesso esplicito. Infine, riportiamo per completezza il frammento iniziale del Canto, di 47 versi, già incluso nell’edizione a stampa del poema (alla quale
si rinvia per le relative note editoriali e di commento al testo).
E come il vento è predator leggero,
e come il fiume è il gran cancellatore,
sì anche il tempo, che nel suo sentiero
1
disporta via e dimentica ne l’ore
corrispondenze d’amorosi sensi
e onne cognizione del dolore.
4
Ma io rammento ancor, ed or ripensi,
mentre scendiam al fondo de la notte,
a quel ch’a nostre spalle ancor s’ostensi.
7
«Se raccogliessi io quell’assi rotte
che dal vascello si facean divisa
da’ marinai, ch’al fiume poi l’addotte,
10
e riformassi lor in tale guisa
che fa timone e stiva, chiglia e cima,
ed onne parte altra che s’affisa,
13
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la barca non s’avrebbe stessa e prima?
Or tutto questo a me possibil pare».
Sì dissi al duca in la valle solima.
16
«Avanti andasti nel filosofare
di tra questi maravigliosi segni!
Allor non posso io che dimandare:
19
son quei che tu raccogli stessi legni?».
E pria che di risposta i’ lo seconda
ei fé: «L’anime belle e i bell’ingegni
22
han imaginazione ch’è feconda;
di possibilitade manca il senso
a quei che quella manca o n’asseconda.
25
D’imaginar però tu par propenso
che la vista de’ legni smessi a l’onde
ha nova imago in te subito accenso;
28
sì poi svelare quel che si nasconde
ne le trame de l’essere, e scovare
tu puote, e nel poter tu n’hai ben donde.
31
Chi non sa imaginar dove pò andare
in solitudo, immobile al confino,
rimansi. Tutto ’l nostro adoperare,
34
tutto ’l sudar di quei che fa un giardino
da una steppa riarsa, assai depende
da imaginar al mondo altro cammino,
37
di come è, è stato e si distende
in altri corsi e sempre nove strade:
è ben che tutti l’omi quest’apprende.
40
Fonda maestra è possibilitade
e sua lezion è quella che qui sconta
43
Il frammento finiva qui, con questo inizio di spiegazione del perché l’essere non conti più del
non-essere, come dirà anche Musil nelle prime pagine de L’uomo senza qualità (tesi da non
confondersi con la lettura hegeliana del Fr. 49a di Eraclito, in base alla quale invece l’essere
non è più del non-essere). Ecco dunque come procede il Canto nel foglio che abbiamo ritrovato
e, a seguire, il nostro commento:
e a ciò che inver si dà fa l’orizzonta».
A stento veggio i nostri passi sparsi
ma tra le sue parole, oh quale luce!
Oh quale spema al cor pò sollevarsi,
49
al cieco cor che via for che conduce
52
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105
da la paluda non potea vedere.
Ed ora vedo, ed ora chied’ al duce:
«De lo pensero e sue misura intiere
le possibilitade fan desegno;
ma fino dove tendonsi a tegnere
55
i loro rami, le radici e ’l legno?
E come ricognoscerle si sepe?».
Allora fue che rifacendo segno
58
a quell’ infossi, a desolande screpe,
ei novo principiò le sue premure:
«Tu guarda a questa terra d’alte crepe
61
che scheletra di solchi e di fratture
e segna d’afflizione porta ’ncisi.
Si pote che la copra spighe dure
64
e carche de l’avena e mai ricisi;
le buche d’acqua fresca sieno piene
e il mandorlo fiorisca e i fiordalisi,
67
e come argïento i pesci ne le vene
sen vada gai notando ver’ lo rivo,
e a loro vischie celle l’api viene.
70
De la natura il canto sia: Io vivo!»
«È come questi lochi sì dannati
lo mondo tutto intero?», io m’ardivo.
73
«De’ mondi potenziali innumerati
codesto mondo tuo sol un discopra»,
fè Socrate scartando a li miei lati,
76
«la forgia del Demiurgo e la sua opra.
Ma in veritade dico che di quelli
voi siete chi disveli e chi ricopra.
79
Se’ tu, son tutti l’omi tuoi fratelli
di mondi facitor e di destini
e fabbri d’onne sorte che v’appelli:
82
ché onne vostro far taglia i confini
de l’essere da quel che si poteva.
E d’onne amor o foco che v’affini
85
di lagrime, e ’l martirio che si leva
d’onne vendemmia e caccia tra le fronde,
mignuscolo sussulto e vita breva
88
sì preme traccia e fora n’esce il monde.
91
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106
E come l’ape a la ginestra gialla,
destin de l’universo si nasconde
nel palpitar de l’ali di farfalla».
Sì mosse a far del volo con la mano.
«Se mai voltato avessi passo e spalla
94
allor che tu vedesti il leviatano,
avresti perso incrocio al mio passaggio
sì che tua vita, dico, assai lontano
97
saria da che sarà a la fin del viaggio».
Oh luce al mio penser, oh vampa al petto
che lì salimmi e mi ravviva maggio!
100
Beata è la fortuna a esser protetto
da tal maestro che qual fiamma tersa
rismove, scalda, alluma e fa perfetto.
103
«Ma i monda potenzïali e ognun diversa,
per quale modo e senso son reali?»,
i’ continuava ne la terra persa.
«Che contino anco quelli tali e quali
al tuo ch’è mondo solido, io dissi,
sol questo», ei fè; «e tu non pensi equali?».
106
«Lo penso», fei; «e pur li pïedi fissi
che quivi tegno, i’ veggio ben ch’altrove
ad altri terri potien esse affissi.
112
Sì parmi allor ch’un mondo v’è laddove
che volsi dir codesto ond’ io poggïai
le sole e calche ne le zolle nove.
115
Ma come ne’ due mondi sono mai?
E come ch’io medesmo in loro riesca?
Non siamo ne la barca e a’ marinai?».
118
«Tradisce il tuo parlar più che confesca.
Tu più comprenni», fè lo duca eccerso;
«non coglie il mar miracolo di pesca.
121
Ché nulla e niuno se ne sta traverso
ai mondi e a’ mondi l’argini disgrere:
tu sei confino al mondo in cui se’ immerso,
124
ne l’altro mondo è chi fa il tuo potere.
Di che tu istesso puote, dunque, chiosa
di lui e de la sua natura invere».
«Perché di lui, s’è un altro?», i’ non riposa
nel dimandare. Ed ei, con detti parchi:
127
109
130
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107
«Ché quei profila te, niun’ altra cosa».
«Vi son ben altresì limiti e varchi
a quel ch’in altri mondi mi profila?
Che giusto e saggio e occhiuto come i farchi
133
e laboroso qual formiche ’n fila
potea d’esser, facile m’accetto»,
io mi riprese per che mi s’affila;
136
«ma falco assai rapace, o immond’ insetto,
potea i’ resvegliar, tramutar veste?
Tra contrapparti mie ch’a’ mondi ammetto
139
v’è sasso, flume, nuvola celeste?».
A tanto dimandar, ei mi confida
pricise di risposte non ha preste:
142
«Di quanto e ’n qual mesura tu dicida
se puotesi menar li cangiamenti.
L’imaginare resti la tua guida;
145
ma s’abbisogna d’esser sempr’ attenti
che non si colga a frutto de l’imago
fantasmagore e fantasticamenti».
148
«Ben veggio ch’al contempo petra e lago
o pur formica e uccello in sola sede
non posso far ché controdetta assago.
151
Ma pote allore camminar chi siede?».
«Siduti deambulanti han d’abitare
soltanto ne la jungla che già vede;
154
ma chi su seggie o presso de l’altare,
io dico proprio quei ch’ora sedette,
avrebbe ben potuto camminare.
157
Distingi tu e distinte teni nette»,
riprese lo maestro tutto ’nfisso.
«del dir possebiltà e di chi l’hai dette».
160
Sì penseroso m’era ancora fisso
a ragionar col duca e mio dottore
ch’i’ non curava dove fui ammisso.
163
Fu allor che ridestammi tal romore
di risclangori, e sono di sferraglio
e d’altre stridi e schiavitare ancore.
166
E come quei che ’l sol troppo l’abbaglio
riposa l’occhia e poca luce affida
169
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e poscia li rischiude a novo taglio,
così sollevo ’l guardo che mi vida
de l’anime carcasse e d’animali
ch’a la seconda morte ciascun grida.
172
Rinchiode a terra o a’ mura son que’ mali
serramentati e saldemente presi
di tra le maglie di catene eguali.
175
Son tanto da’ chiavacci e ferri offesi
ch’a pur minemi moti ’l sangue gronda.
E una è tra di lor che i membri appesi
178
ha tra catene ch’a la roccia affonda,
la roccia che fa costa a gola marcia,
la roccia che la cerchia tutt’ attonda.
181
Novel Prometeo a noi cenna e discarcia
ché assatanata un’aquila maldetta
il fegato le sberca e ’l petto squarcia:
184
«Venite a me, sì misera e costretta!».
Al dire questo, per altro dannato,
qual è sonno leggero di vendetta,
187
l’aguglia se ne va. Lei sequo, e guato
stermìnio lungo di spirti malcondi.
«Quell’ aquila, di Zeus è il cane alato»,
190
mi disse ’l duca innanzi a quelli sgrondi,
«che or guardia i perduti, deventata
la morte, il destruggïetor di mondi».
193
«Qual onne uccello l’anima piumata
dai cielici cateni sciolta vola?»,
io dimandai, ancora d’una fiata.
196
Ma l’anima, a senghiozzi ne la gola,
richiamaci al dolor che mai s’attenia,
così che io col duca a lei s’invola.
199
«Chi fosti e quale colpa ti s’invenia?»,
io chiesi; onde di voce fece squillo:
«Fui figlia di Plutarco, Asclepigenia.
202
I codici dei cieli e lor sigillo
a Proclo divisai e quel mistero
per cui si vien al mondo e dipartillo.
205
Io creddi che non v’era altro potero
che l’essere. Io chi sarei potuta
208
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non fui, ben che potei quel che non ero.
In quest’accidia è quel che m’ha perduta».
Fermossi poco, e poi riprese ’l canto
come di nova voce ch’era muta:
211
«Potessi scioglier io ’ capelli e ’l pianto:
di quest’ or mi dispero e mi tormento,
di questo il cuore mio per sempr’ è affranto.
214
Il cuore mio è un lago di lamento:
io canto in le catene come il mare
il foco del rimpianguere mai spento.
217
Io canto quel che sol m’è da cantare:
l’amaro canto che m’ha condannato
di che non feci e che potevo fare.
220
Avessi io la voce disnodato
quand’ omai fue che ’l figlioletto mio
strapponno dal mio petto mai più amato!
223
Se a la mia terra de’ limoni addio
e de li olivi mai io lo concessi,
una vegliezza barbara e l’oblio
226
da questo mio destino avrebbe smessi.
Se solo avessi pioggia chiara a scrosce
bevuta mai! Lasciato io ch’avessi,
229
slegando i corsi del disio d’angosce,
lei cogliere il mio cuor su la mia bocca,
lei cogliere il mio cuor su le mie cosce,
232
il mondo ch’è miseria, che rintocca
di malatia, di cenere, d’orrore,
ch’è fossa ad una morte che strabocca,
235
sarebbe stato tutto il mondo ’n fiore.
[ ...]
238
Siamo certi che il lettore converrà che si tratta di versi straordinariamente ricchi, sul piano
lirico come su quello delle suggestioni filosofiche che emergono dal rapido incalzare del dialogo tra il Poeta e il suo maestro. Non ci resta che aggiungere qualche breve nota di commento,
nell’intento di agevolare l’esegesi del testo e suggerire almeno alcuni di quegli approfondimenti che, qui come altrove, il Poeta ci invita a considerare. (Per la parte già pubblicata nel
volume si rinvia, come detto, alle note editoriali incluse nello stesso in calce al testo; per la
nuova parte, la numerazione progressiva dei commenti rinvia direttamente a quella dei versi
a cui si riferiscono.)
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48. Il nuovo verso conclude la terzina lasciata in sospeso nel frammento precedente e, con
essa, il discorso di Socrate: è proprio il non-essere, ovvero ciò che non è ma potrebbe
essere, che definisce l’orizzonte entro il quale si attualizza ciò che realmente è. Difficile
stabilire se l’immagine dell’orizzonte tragga ispirazione dal significato astronomico del
termine, già codificato nel De sphaera mundi del Sacrobosco (c. 1230). Etimologicamente, il termine deriva dal greco oριζων, con significato di «limitante», ed è soprattutto in
questo senso che il Poeta sembra servirsene. Anche Dante conosce il termine con questo
significato, sfruttandolo sia in chiave poetica, come in Purg. VII, 60 («mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso»), sia in chiave metaforica, come in Mon. III, xvi, 3 («homo solus
in entibus tenet medium corruptibilium et incorruptibilium; propter quod recte a phylosophis assimilatur orizonti»). Non siamo tuttavia a conoscenza di altri testi di epoca
medievale, o precedenti, nei quali il termine venga impiegato con specifico riferimento
allo spazio delle possibilità a cui allude Socrate in questo bel verso. L’immagine avrà
comunque molto successo in epoche successive, sino a diventare un topos della filosofia
moderna e contemporanea (per es. in Husserl, dove ogni istante presente sopravviene a
un «suo orizzonte del prima» e a un suo «orizzonte del dopo»; Idee I, §82).
53. paluda. Il riferimento è alla «paluda dura» nella quale, all’inizio del poema, il Poeta dice
di essere sprofondato a tal punto che «scorger non potea io via d’uscita» (Canto I, vv. 11–
12). Emblematica della condizione di ristagno e confusione diffusa a cui può condurre
l’indagine filosofica su cui verte l’intero poema, la metafora ricorre con significato affine
nella Repubblica di Platone («ci si riempie di umori e vapori come le paludi», 533d) e
nella salmodia biblica («Mi ha tratto dalla fossa della perdizione, dal fango della palude», Salmi 40:2). Ricordiamo che il luogo d’inizio della Comedia di Dante è invece quella
«selva oscura» (Inf. I, 2) che già Virgilio poneva all’ingresso dell’Averno (Aen. VI, 131) e
che costituisce il locus simbolico di smarrimento morale di tanta letteratura medievale,
dalle Confessioni di Agostino («In hac tam immensa silva plena insidiarum et periculorum», X, xxxv, 56) al Tesoretto di Brunetto Latini («Perdei il gran cammino, / e tenni la
traversa / d’una selva diversa»; II, 76–78).
55–56. De lo pensero. . . Si aggancia ai vv. 36–42: «Tutto ’l nostro adoperare. . . ».
59. E come ricognoscerle. Se la prima domanda del Poeta riguarda l’ampiezza dell’orizzonte
del possibile, questa seconda domanda riguarda più propriamente il problema dei criteri
in base ai quali determinare, o saper («sepe») riconoscere, se e quando qualcosa è possibile. Socrate non risponderà in modo esplicito, ma la precedente discussione sul nesso
tra possibilità e capacità di immaginazione ai vv. 24 ss. e la raccomandazione a non
confondere immaginare e fantasticare che seguirà ai vv. 147–150 forniscono elementi
sufficienti a inquadrare il punto di vista del maestro su questo importante quesito.
63 ss. Tu guarda. . . Leggi: è una terra arsa e desolata, tuttavia potrebbe essere ricoperta di
spighe, le buche potrebbero essere colme d’acqua, ecc. È un esempio molto concreto, in
risposta alla prima domanda del Poeta (vv. 57–58), di quanto esteso e variegato sia l’orizzonte del possibile, con immagini di vaga ispirazione bucolica. Non è chiaro tuttavia
se l’esempio sia da prendersi alla lettera: l’Infero potrebbe davvero essere diverso da
come è?
70. vene: le venature del terreno, cioè i solchi e le fratture del v. 64, trasformate in torrenti
colmi di pesci che nuotano «gai» verso il più ampio rivo che Socrate e il Poeta hanno
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111
appena lasciato alle loro spalle (il «rivo cangiante» del Canto XX). Ricordiamo che anche
per Dante «tutti li animali [. . . ] son gai di lor natura» (Rime C, 33–34).
72. e a loro vischie celle l’api viene. Il verso riecheggia in Keats, To Autumn (1819): «and
still more, later flowers for the bees, / until they think warm days will never cease / for
Summer has o’er-brimm’d their clammy cells» (vv. 9–11).
76. mondi potenziali. Secondo la vulgata, la nozione di mondo possibile (o «potenziale») risalirebbe a Leibniz, che nella Theodicée (1710) parla di una «infinité de mondes possibles»
(I, §8) paragonabile a un’infinità di appartamenti in una piramide senza base in ciascuno dei quali la medesima storia si svilupperebbe in modo diverso (III, §416). In buona
sostanza, tuttavia, il concetto era già presente nella metafisica scolastica nota al Poeta, soprattutto negli scritti di Duns Scoto (che nella Ordinatio parla esplicitamente di
«combinazioni» di «compossibili», per es. in I, d. 7, n. 27, e d. 43, n. 16) e per certi aspetti
anche in Tommaso d’Aquino («Antequam mundus esset, dicitur possibile fieri mundum»,
De pot. q. 3, a. 1, ad 2; cfr. anche q. 3, a. 17, ad 10, e S. Theol. I, q. 46, a. 1, ad 1: «Antequam mundus esset, possibile fuit mundum esse»). Anche l’idea che i mondi possibili
siano in quantità infinita, o comunque innumerevole, ha dei precedenti nella letteratura scolastica, benché a questo riguardo sia più difficile valutare il debito intellettuale
del Poeta: le testimonianze in nostro possesso cominciano a essere esplicite soltanto a
partire dal sec. XVI, per es. nel commento al De caelo di Jean Dullaert del 1506, ove
si afferma che «Deus potest creare infinitos mundos» e «in quolibet illorum poss[u]nt
esse praecise 1000 homines» (cit. in Jacob Schmutz, Qui a inventé les mondes possibles?,
2006, p. 29), o in quello dei gesuiti conimbricensi del 1593, dove si tratta apertamente la
questione «Possintne per divinam potentiam plures mundi esse, an non?» (I, c. 9, q. 1), o
ancora nel commento di Antonio Ruvio del 1615, dove pure si argomenta che «possibiles
sunt plures mundi specie ac numero distincti» in quanto «non repugnat ex parte divinae
omnipotentiae, neque ex parte rei faciendae» (I, c. 9, q. 2, 70), per arrivare fino alle Disputationes di Francisco Suárez, per il quale «non est enim dubium quin potuerit Deus
plures mundos efficere» (XXIX, iii, 37). Naturalmente ci sarebbe un precedente anche
nella filosofia antica: già gli atomisti greci parlavano «dell’infinità degli elementi e dei
mondi che da questi provengono e che in essi si risolvono» (Diogene Laerzio, Vit. philos. IX, vi, 31), tra cui mondi nei quali «non esistono né sole né luna» accanto a mondi
«privi di animali, di piante e persino di umidità» (Ippolito, Ref. I, xiii, 2). Considerate le
simpatie per una metafisica di stampo atomista manifestate nel Canto immediatamente
precedente a questo, per il quale rimandiamo al volume a stampa, non è da escludersi
che proprio quella sia la fonte di ispirazione per i «mondi potenziali innumerati» del
Poeta. Tuttavia è opportuno sottolineare due differenze importanti. Da un lato, la molteplicità dei mondi degli atomisti classici era, per così dire, diacronica, derivante cioè
dalle successive combinazioni degli atomi, mentre è evidente che Socrate sta parlando
di «orizonta» del possibile che ci propongono ad ogni istante una molteplicità di mondi
diversi. Dall’altro lato, le successive combinazioni dell’atomismo classico obbedivano
a principi cosmologici che non lasciano spazio al «senso di possibilitade» che interessa
al Poeta, posto che per Democrito, e forse anche per Leucippo, tutto «avviene secondo
necessità» (Diogene, Vit. Philos. IX, vii, 45; Sesto Empirico, Adv. math. VII, 117; Aezio,
Plac. I, xv, 4) e le cause della realtà in divenire «hanno già in se stesse, predeterminato,
tutto ciò che è stato, che è, e che sarà» (Ps-Plutarco, Strom. VII). È vero che in seguito Epicuro rinunciò al vortice della necessità postulando negli atomi una «deviazione
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spontanea» (Ep. Hrdt. 43) e un «movimento libero» (Diogene Oen., Frag. 33, II) del tutto
casuali, così come è significativo che tale modifica sia stata introdotta proprio perché,
come dice Cicerone, «egli temeva che a noi uomini non sarebbe rimasto alcun margine
di libertà, se l’atomo fosse costretto a muoversi sempre per forza di gravità naturale e
necessaria, perché l’anima si regola a seconda di come è indotta dal movimento degli
atomi» (De fato, X, 22). Anche Lucrezio la pensava così, come testimonia uno splendido
passo del De rerum natura citato dallo stesso Leibniz nella traduzione italiana (allora
ancora inedita) di Alessandro Marchetti: «Se finalmente ogni lor moto sempre / insieme
si raggruppa e dall’antico / sempre con ordin certo il nuovo nasce, / nè travïando i primi
semi fanno / di moto un tal principio, il qual poi rompa / decreti del fato, acciò non segua / l’una causa dall’altra in infinito; / onde nel mondo gli animali han questa, / onde
han questa, dich’io, dal fato sciolta / libera volontà, per cui ciascuno / va dove più gli
aggrada?» (II, 251–258; Leibniz lo cita in Theod. III, §321). Ciononostante, è evidente
che la metafisica modale del Poeta non si può accontentare di una semplice modifica di
questo tipo. La molteplicità di mondi a cui allude Socrate mira a illustrare, non già la
sensazione di libertà che può emergere dal paradigma atomista sostituendo la casualità
alla causalità, bensì il senso di responsabilità che si accompagna alla contemplazione
sincera e spassionata delle alternative fra cui siamo continuamente chiamati a scegliere. Tutto lo scambio che segue mira a chiarire questo punto, a partire dal motto latino
evocato ai vv. 82–84.
77. discopra: il verbo è retto da «forgia» e «opra» al v. 79.
79. la forgia del Demiurgo. Il Demiurgo – da δηµιoς (popolo) e γoν (lavoratore), quindi
«artigiano» – è una figura mitologica che certe filosofie dell’antichità identificavano con
l’artefice del mondo terreno. Senza di lui, scrive Platone nel Timeo, «è impossibile che
alcuna cosa abbia nascimento» (28c). Socrate e il Poeta l’hanno già incontrato nel Canto
IX, dove è posto a guardia del terzo Cerchio (nei cui cinque Gironi sono punite diverse
forme di realismo metafisico), ed è per questo che qui il maestro si limita a menzionarlo senza ulteriori spiegazioni. Per la complessa interpretazione simbolica di questo
personaggio rimandiamo anche noi alle annotazioni incluse nel volume a stampa, e in
particolare al commento a IX, v. 137. È importante tuttavia sottolineare che nella concezione del Poeta il Demiurgo non è una forza creatrice. Questi ordina e plasma il cosmo
facendo in modo che ogni cosa sia così come è («sì come li esser sono, non diversi»; Canto
X, vv. 58–59), ma ciò non significa che l’assetto del mondo dipenda interamente da lui.
In particolare, non significa che sia lui a scegliere quale assetto portare in essere. Ed
è proprio su questo punto che Socrate si appresta a costruire il suo ragionamento. Ad
ogni istante, la forgia del Demiurgo «discopre» uno degli innumerevoli mondi possibili;
ma quale sia quel mondo non è lui a deciderlo. Siamo noi, l’umanità intera, a deciderlo
in buona parte attraverso le nostre azioni. Siamo noi, cioè, a indicare al Demiurgo quale
alternativa realizzare «ricoprendo» per sempre tutte le altre. (Ben diversa, naturalmente, era la concezione dei filosofi scolastici citati nella nota al v. 76, posto che già a partire
da Filone di Alessandria, De opificio mundi, e quindi da Origene, De principiis, il Demiurgo platonico venne gradualmente assimilato alla nozione giudaico-cristiana del dio
creatore in senso proprio. E ben diversa sarà la concezione di Leibniz, per il quale la
saggezza del dio creatore «non contenta di abbracciare tutti i possibili, li penetra, li confronta, li pesa gli uni con gli altri, per stimarne i gradi di perfezione o di imperfezione,
la forza e la debolezza, il bene e il male [. . . ] e il risultato di tutte queste comparazio-
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ni e riflessioni è la scelta del migliore fra tutti questi sistemi possibili, che la saggezza
compie per soddisfare pienamente alla propria bontà; e questo è esattamente il piano
dell’universo attuale»; Theodicée, II, §25).
82–84. Se’ tu, son tutti l’omi. . . Tutta la terzina, che riprende ancora il tema del «nostro adoperare» al v. 36, richiama il celebre motto «faber est suae quisque fortunae» riportato
nella seconda delle Epistulae ad Caesarem senem de re pubblica (I, i, 2). L’autore delle
Epistulae, attribuite a Sallustio ma di dubbia autenticità, citerebbe a sua volta il motto
da un carme del console romano Appio Claudio Cieco.
85–86. ché onne vostro far. . . Cfr. la bella formulazione di Duns Scoto: «Tale possibilità logica
non è rapportata alla capacità della volontà di emettere atti successivamente, bensì nel
medesimo istante: e cioè, nell’istante in cui la volontà emette un atto di volere, nel
medesimo istante e circa lo stesso oggetto può emettere l’atto di volere opposto» (Ord. I,
d. 39, q. 1–5, n. 50).
87. E d’onne amor o foco che v’affini. Dante usa parole simili in Purg. XXVI, 148 («Poi
s’ascose nel foco che li affina»), benché là «foco» alluda alle fiamme del purgatorio, non
alle passioni della vita.
94. nel palpitar de l’ali di farfalla. La bella immagine del battito d’ali, e prima ancora la tesi
che vorrebbe illustrare, richiama molto da vicino quello che nella cultura contemporanea viene chiamato «effetto farfalla», ossia l’idea che piccole variazioni nelle condizioni
iniziali di un sistema complesso possano a lungo termine produrre trasformazioni enormi. La metafora è solitamente attribuita al metereologo statunitense Edward Lorenz,
uno dei padri della teoria del chaos, che la impiegò in una sua conferenza del 1972 (Does
the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set Off a Tornado in Texas?). Il concetto però
è presente anche nell’opera di altri autori ed era già stato illustrato magistralmente da
Alan Turing diversi anni prima: «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due
avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una
valanga, o la sua salvezza» (Computing Machinery and Intelligence, 1950, p. 440). La
stessa idea ha ispirato anche molta letteratura di fantascienza, a partire dal classico
racconto di Ray Bradbury A Sound of Thunder (1952), nonché un’ampia produzione cinematografica, da Przypadek di Krzysztof Kieślowski (Polonia, 1987) a Lola rennt di
Tom Tykwer (Germania, 1998) ai più noti Sliding Doors di Peter Howitt (Gran Bretagna, 1998), Le battement d’ailes du papillon di Laurent Firode (Francia, 2000), 12B di
Jeeva (India, 2001) e The Butterfly Effect di Eric Bress e J. Mackye Gruber (USA, 2004).
Nella sostanza, se non nell’immagine che la illustra, le sue origini si possono tuttavia
far risalire alla proverbiale osservazione di Pascal: «Le nez de Cléopâtre, s’il eût été
plus court, toute la face de la terre aurait changé» (Pensées, §162).
96 ss. Se mai voltato avessi. . . Molto efficace la mossa retorica di Socrate, che dopo aver imitato con la mano il movimento della farfalla conclude la propria spiegazione illustrando
il «butterfly effect» con un controfattuale incentrato sulla vicenda personale del Poeta:
se nei pressi della palude egli avesse mosso il passo in una direzione diversa da quella
effettivamente intrapresa – di per sé una piccola variazione nell’economia complessiva
degli eventi – allora non avrebbe visto Socrate, i due non si sarebbero incontrati, il Poeta
non sarebbe qui, e la sua vita sarebbe ben diversa («assai lontano», v. 99) da come sarà
alla fine del lungo viaggio redentorio intrapreso sotto la guida del maestro.
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97. il leviatano: la terza delle belve ostili incontrate dal Poeta nei pressi della palude, dopo l’unicorno e la chimera. Per il significato simbolico delle tre belve rimandiamo al
commento al Canto I nel volume. Qui ci limitiamo a osservare che Socrate menziona soltanto il leviatano perché al suo incontro con il Poeta questi gli aveva parlato di
«quella belva» (v. 119), l’ultima in ordine di apparizione, senza accennare alle altre.
100. sarìa: forma condizionale di origine siciliana piuttosto comune nella lirica due-trecentesca,
che il Poeta talvolta preferisce a quella fiorentina in -ebbe (v. 238). Anche Dante usa
entrambe le forme, per es. in Inf. XV, 105 e IX, 57, rispettivamente.
103–106. Beata è la fortuna. . . Cfr. l’incipit del Canto II: «La madre, il padre, il principiatore /
di quel ch’è l’alto e ver filosofare, / il più divino essemplo de l’amore: / ven Socrate, non
altri, a sollevare».
107. per quale modo e senso son reali? Legittima la domanda del Poeta, che a questo punto
del viaggio ha evidentemente imparato bene a riconoscere i quesiti di natura ontologica.
Ed è una domanda alla quale è tenuto a rispondere chiunque chiami in causa l’infinità
dei mondi per spiegare la nozione di possibilità: in che senso se ne può parlare come di
entità reali? Il problema è particolarmente acuto in questo contesto – e fa bene il Poeta a
sollevarlo – perché abbiamo visto che Socrate non attribuisce al Demiurgo alcuna forza
creatrice. In effetti la tradizione creazionista che si rifà a Filone e a Origene (cfr. nota
al v. 79) avrebbe buon gioco nel rispondere facendo leva sulla concezione platonica delle
idee come archetipi del mondo creato: i mondi possibili sarebbero entità reali, ma solo
in mente Dei. Sarebbero cioè dei «modelli» presenti nella mente di quel dio creatore al
quale basta un atto di volontà per chiamarne uno all’esistenza, come nella bella analogia di Anselmo d’Aosta: «Che altro è quella forma delle cose, che nella ragione del
creatore precedeva le cose da creare, se non una certa locuzione nella ragione stessa,
come quando un artefice, che sta per fare un’opera dell’arte sua, la dice prima dentro di
sé, con concetto della mente?» (Monologion, X). Abbiamo visto però che non è questa la
concezione del Poeta. Né potrebbe egli accettarla a prescindere dalla sua concezione del
Demiurgo: le idee platoniche e le entità astratte sono già state condannate nel Cerchio
dei realisti, e precisamente nei primi due Gironi (Canti X e XI). Del resto anche Leibniz,
che pure condividerà la concezione creazionista testé richiamata, si guarderà bene dal
descrivere i suoi mondi possibili come «enti» veri e propri, parlandone piuttosto come
di «assemblages» (Théod. I, §7) o «suites» (§8) infinite (e se un mondo è infinito, «non è
certo un unico ente, non più di quanto lo sia la linea retta o il numero massimo»; De
mundo praesenti, 1684–1685). Il problema, dunque, è tutt’altro che banale, e non c’è da
sorprendersi se nei versi che seguono il Poeta glisserà sulla risposta. A suo discapito
bisogna comunque riconoscere che anche oggi i filosofi faticano a fornire una risposta
convincente, almeno a giudicare dalla varietà delle teorie proposte negli ultimi decenni.
Se per un filosofo come David Lewis i mondi possibili sono entità concrete alla pari del
mondo attuale, dal quale differiscono «non nel genere, ma solo in ciò che accade al loro
interno» (Counterfactuals, 1973, p. 85), per Saul Kripke – il padre della cosiddetta «semantica dei mondi possibili» – essi sono semplicemente delle rappresentazioni di ciò che
potrebbe o sarebbe potuto accadere, e come tali sono «stipulati, non scoperti con potenti
telescopi» (Naming and Necessity, 1972, p. 72). Dopo di che le alternative si moltilicano:
si va da varie forme di antirealismo per le quali il discorso sui mondi possibili va inteso
alla stregua di un’utile finzione (Gideon Rosen, Modal Fictionalism, 1990), un artefatto
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letterario (Amie Thomasson, Fiction and Metaphysics, 1999), o un gioco del «far finta
che» (Stephen Yablo, How in the World?, 1996), a varie forme di realismo moderato o
«ersatzista» che considerano invece i mondi possibili alla stregua di entità astratte di
vario genere, per es. proprietà «totali» esemplificabili dal mondo attuale (Robert Stalnaker, Possible Worlds, 1976), oppure insiemi consistenti e massimali di enunciati (Rudolf
Carnap, Meaning and Necessity, 1947), di proposizioni (Robert Adams, Theories of Actuality, 1974), di stati di cose (Alvin Plantinga, Actualism and Possible Worlds, 1976).
Né mancano teorie che si ispirano a concezioni meramente combinatorie di stampo wittgensteiniano, in base alle quali i mondi possibili sono combinazioni di stati di cose atomici (Brian Skirms, Tractarian Nominalism, 1981), di entità fondamentali messe a disposizione dal mondo attuale (David Armstrong, A Combinatorial Theory of Possibility,
1989), e via dicendo. Troppe risposte, nessuna soluzione.
109–111. Che contino. . . Effettivamente Socrate si era espresso in questi termini (pur senza chiamare in causa i mondi possibili in modo esplicito) al v. 46. Come già accennato, bisogna
tuttavia riconoscere che in questa circostanza la sua risposta è piuttosto evasiva. È chiaro che intende prendere le distanze da qualsiasi forma estrema di realismo à la Lewis.
Ma resta da chiarire che cosa significhi «contare» in questo contesto, e come abbiamo
appena visto, dietro a questa domanda si nasconde una selva di complicazioni.
120. Non siamo ne la barca e a’ marinai? Ecco l’aggancio esplicito alle tematiche del Canto XX riguardanti la persistenza nel tempo e l’identità attraverso il cambiamento. La
barca a cui si allude è quella sul cui ponte Socrate e il Poeta hanno attraversato il «rivo
cangiante» tra il settimo e l’ottavo Cerchio, che a sua volta rinvia alla classica formulazione del problema che dobbiamo a Plutarco: «Il vascello sopra il quale navigò co’
giovani Teseo, e che egli ricondusse salvo, era a trenta remi, e infino a’ tempi di Demetrio Falereo lo mantennero gli Ateniesi, levandone i legni vecchi che s’infracidavano e
rimettendone altri nuovi e forti. Perciò i filosofi, discutendo dei loro sofismi, citano questa nave come esempio di dubbio, e gli uni sostengono che si tratti sempre dello stesso
vascello, gli altri che sia un vascello differente» (Vita Thes. XXIII, 1). Quindi l’analogia
avanzata dal Poeta è che, proprio come la conversazione con i marinai l’ha indotto a
pensare che ciò che cambia non può conservare la propria identità numerica attraverso
tempi successivi (sicché «un sol oggetto a noi par si presenta, / ma onne alterazion tutto
disface», XX, vv. 190–191), così anche la duttilità modale non sembra compatibile con
l’identità numerica attraverso i mondi possibili. Il secondo punto verrà sviluppato nel
prosieguo; per ulteriori approfondimenti sul primo – l’identità diacronica – rimandiamo
al commento al Canto XX nel volume a stampa.
123. non coglie il mar miracolo di pesca. Leggi in metafora: con queste tue parole dimostri
in realtà di capire ben più a fondo di quanto tu stesso sappia riconoscere.
124 ss. Ché nulla e niuno. . . La risposta di Socrate prefigura a grandi linee (e anche nella
terminologia; cfr. oltre, v. 141) una metafisica della modalità che nella filosofia contemporanea trova la sua espressione più lucida nella «teoria delle controparti» di David
Lewis: «Mentre alcuni direbbero che tu sei in parecchi mondi, nei quali le tue proprietà
e le cose che ti accadono sono in qualche misura diverse, io preferisco dire che tu sei
nel mondo attuale e in nessun altro, ma hai controparti in parecchi altri mondi. Le tue
controparti [. . . ] ti somigliano più di quanto ti somiglino le altre cose nei loro mondi.
Ma non sono davvero te. Perché ciascuna di loro si trova nel suo mondo e solo tu sei
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qui nel mondo attuale» (Counterpart Theory and Quantified Modal Logic, 1968, p. 114;
naturalmente per Lewis questa teoria si accompagna alla posizione realista bocciata da
Socrate ai vv. 109–111, ma in linea di principio le due cose sono separabili). Anche Leibniz sembra aver operato con una concezione simile, sia nella Théodicée («ti mostrerò dei
mondi nei quali si troverà, non esattamente il medesimo Sesto che hai visto (ciò non è
possibile, egli porta sempre con sé quello che sarà), ma dei Sesti che gli si avvicinano,
[. . . ] dei Sesti di ogni specie e di un’infinità di maniere»; III, § 414) sia in certi passi epistolari («con la nozione individuale di Adamo intendo senz’altro una rappresentazione
perfetta di un certo Adamo che ha certe condizioni individuali, e che si distingue con ciò
da un’infinità di altre persone possibili, molto somiglianti, ma nondimeno differenti da
lui», lettera a Hessen-Rheinfels, 12 aprile 1686). Non è chiaro tuttavia in che misura
la teoria abbia precedenti anche tra i filosofi medievali, benché non manchi chi ne trovi traccia, per es., in certi testi dello Scoto («[È] possibile che Dio salvi chi non salva,
il quale alla fine morirà comunque nel peccato e sarà dannato, ma non si concede che
possa salvare Juda già condannato», Ordinatio, I, d. 44, n. 11; cfr. Douglas C. Langston,
Scotus and Possible Worlds, 1990).
127. chi fa il tuo potere: colui che rappresenta ciò che tu saresti potuto essere, la tua controparte (o meglio: le tue controparti, dato che ve ne possono essere diverse).
128–129. Di che tu istesso puote, dunque, chiosa di lui. Non è la prima volta nel corso del poema
che le analisi o le soluzioni proposte da Socrate richiedono che si vada al di là del comune modo di esprimersi. Questo perché, come si apprende nel Girone degli sprovveduti
fedeli al linguaggio, «V’è sempre qualche cosa che sostena / il vero dir; ma quale sia tal
cosa / mai trasparente appare una e piena» (Canto VII, vv. 49–51). Per esempio, discutendo il problema delle entità astratte nel secondo Girone del terzo Cerchio, Socrate si
raccomandava di interpretare un asserto della forma «La stella media ha due pianeti»,
che sembra impegnarci all’esistenza di una misteriosa stella media, come un asserto che
riguarda esclusivamente il rapporto tra il numero totale dei pianeti e quello delle stelle
(«La somma d’astri quieti ammezza quel di stelle vagabonde», Canto XI, vv. 121–122).
E siccome questa parafrasi sembra ancora impegnarci all’esistenza di entità astratte
di tipo matematico, egli si raccomandava di parafrasarla a sua volta nei termini di un
condizionale generalizzato che verte esclusivamente sui corpi celesti («Essempio: se son
nove tutte l’astre, contiamo sei pianeti e poi tre stelle», vv. 128–129, con «tre», «sei» e
«nove» a loro volta intesi come quantificatori che spaziano su oggetti concreti, non come
nomi per entità numeriche). Ebbene, qui la strategia è la stessa, benché la preoccupazione non sia di natura strettamente ontologica: Socrate invita il Poeta a «chiosare» ogni
asserto della forma «Io sarei potuto essere così e così», che sembra riproporre sul versante modale il problema dell’identità diacronica, nei termini di un asserto della forma «La
mia controparte è così e così» (o meglio, più in generale: «Una delle mie controparti è così e così»). È esattamente lo stesso tipo di analisi che sottende la teoria delle controparti
di Lewis.
130. Perché di lui, s’è un altro? Nell’ambito della letteratura contemporanea, la domanda del
Poeta sembra anticipare le perplessità sollevate da Saul Kripke proprio nei confronti
della teoria di Lewis: «[La teoria delle controparti afferma che] se diciamo “Humphrey
avrebbe potuto vincere le elezioni (se solo avesse fatto questo e quest’altro)”, non stiamo
parlando di qualcosa che sarebbe potuto succedere a Humphrey, ma a qualcun altro,
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una sua “controparte”. Probabilmente, tuttavia, a Humphrey non importerebbe proprio
nulla se qualcun altro, non importa quanto somigliante a lui, fosse stato il vincitore in
un altro mondo possibile» (op. cit., n. 13). Un’obiezione analoga è stata avanzata da
Alvin Plantinga: «Stando alla teoria delle controparti, Socrate [. . . ] esiste soltanto in
un mondo: il mondo attuale. In quel mondo è saggio. Quindi non vi sono mondi in cui
non è saggio. [. . . ] Quindi non è possibile che egli non sia saggio. Ma allora possiede la
proprietà di essere saggio in modo essenziale [quando è ovvio si tratta invece di una sua
proprietà accidentale]» (The Nature of Necessity, 1974, pp. 115–116).
132. Ché quei profila te, niun’ altra cosa. La replica di Socrate, per quanto breve, anticipa
nella sostanza quella dello stesso Lewis all’obiezione di Kripke (e, indirettamente, a
quella di Plantinga): «La teoria delle controparti dice effettivamente [. . . ] che qualcun
altro – la controparte vittoriosa – entra in gioco nella spiegazione di [. . . ] come Humphrey avrebbe potuto vincere. [. . . ] Ma non vedo come ciò costituisca un’obiezione [. . . ]
Grazie alla controparte vittoriosa, Humphrey stesso ha la proprietà modale richiesta:
possiamo dire, con veracità, che lui avrebbe potuto vincere» [On the Plurality of Worlds,
1986, p. 196]. In altre parole, come Lewis ha scritto in modo ancora più chiaro in un
altro testo, «nella teoria delle controparti è vero [che Humphrey possiede la proprietà
modale espressa da “avrebbe potuto vincere”] perché Humphrey stesso, in virtù delle caratteristiche qualitative che lo contraddistinguono, è tale da possedere delle controparti
vincenti» (Philosophical Papers 1, 1983, p. 42). Si noti tuttavia che Socrate non parla
esplicitamente di proprietà modali, la cui esistenza sarebbe incompatibile con il nominalismo sostenuto nei Canti precedenti (in particolare il Canto X, dedicato al Girone dei
realisti negli universali). Si limita a registrare il fatto che la controparte in questione
«profila» il Poeta, cioè gli assomiglia al punto da giustificare l’analisi proposta (e il fatto
è «bruto e duro», X, 131).
133–134. Vi son ben altresì limiti. . . Il Poeta rilancia riproponendo la prima delle due domande
con cui ha avuto inizio questo lungo scambio con il maestro (vv. 57–58), formulandola
però nei termini della teoria che questi ha appena esposto: posto che le nostre controparti sono diverse da noi, non solo numericamente ma anche qualitativamente, fino a
che punto il loro «profilo» deve assomigliarci? Ci sono cioè dei limiti a quali cose possono
ricoprire tale ruolo nell’universo dei mondi possibili?
135 ss. Che giusto e saggio. . . Il Poeta sceglie bene i suoi esempi, distinguendo subito una parte
facile del problema da una più difficile. Quella facile è che rispetto ai nostri attributi
qualitativi – come essere più o meno giusti, saggi, e capaci di vedere – si può bene immaginare che saremmo potuti essere diversi da come siamo. Ma potremmo essere stati
delle entità di tipo diverso, per esempio degli altri animali, o addirittura pietre, fiumi,
nuvole celesti (v. 142)? È possibile cioè cambiare, non solo rispetto a come siamo, ma
anche rispetto a che cosa siamo? È questa, per il Poeta, la parte difficile. Naturalmente
questo modo di porre il quesito si rifà a una veneranda distinzione che risale ad Aristotele (enfatizzata soprattutto nelle Categorie, V). Tuttavia per Aristotele tale distinzione
si fondava su una metafisica realista per la quale tanto gli attributi quanto i tipi sono a
loro volta delle entità bona fide, universali e immutabili, sicché era gioco facile poi risolvere il quesito in esame ammettendo il cambiamento rispetto ai primi ma non rispetto
ai secondi: la cosa che cambia «è uno stesso sostrato – sia questo un punto, una pietra
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o qualcos’altro – ma i suoi attributi sono diversi» (Phys. IV, 11, 219b 18–20). Non così il
Poeta, che a questo punto del viaggio è un nominalista convinto.
139. immond’ insetto: proprio come il Gregor Samsa della Verwandlung di Kafka (1915).
141. contrapparti: cfr. nota a 124 ss. Il vocabolo non è di conio del Poeta, benché all’epoca
venisse usato soprattutto per indicare la parte avversaria in una contesa giuridica, come
nel Breve di Villa di Chiesa: «Ordiniamo, che alcuno lavoratore che lavorasse in alcuna
fossa che guerrigiasse non debbia andare a lavorare a la contraparte» (ed. 1327, IV, §50).
147. L’imaginare resti la tua guida. Ritorna qui, in modo ancora più esplicito, la tesi adombrata ai vv. 26–27: «di possibilitade manca il senso / a quei che quella [l’immaginazione]
manca o n’asseconda». Nella letteratura moderna e contemporanea si preferisce parlare di concepibilità piuttosto che di immaginazione, ma l’idea è fondamentalmente la
stessa, almeno nella misura in cui si intende instaurare un nesso tra epistemologia e
metafisica modale. Si pensi alla formulazione che ne danno Tamar Szabó Gendler e John
Hawthorne nell’introduzione al loro volume Conceivability and Possibility (2002): «[D]al
fatto che siamo (o non siamo) in grado di rappresentarci uno scenario in cui ha luogo
un certo così-e-così, ci convinciamo di aver imparato qualcosa sul fatto che quel così-ecosì potrebbe (o non potrebbe) aver luogo» (p. 2). Naturalmente il nesso in questione è
tutt’altro che chiaro, e con tutta probabilità il termine che il Poeta fa usare a Socrate,
«guida», è volutamente vago. Come già abbiamo sottolineato nel commento originale al
v. 26, è improbabile che il Poeta voglia sostenere, come dirà Hume, che «qualsiasi cosa
la mente concepisca in modo chiaro include l’idea di un’esistenza possibile» (Treatise I,
ii, 2), e men che meno che sia possibile tutto ciò che è concepibile quocumque intellectu
concipiente, come diceva Duns Scoto (Ord. I, d. 36, 60). Piuttosto, il Poeta sembra volerci
ricordare che senza tale capacità il nostro senso della possibilità, e con esso la portata
delle nostre tesi filosofiche, soffrono gravi limitazioni.
148–150. ma s’abbisogna. . . Anche questo punto risuona nel dibattito contemporaneo sui temi
richiamati alla nota precedente. A titolo esemplificativo, si pensi alle parole con cui Peter van Inwagen si sbarazza di certi presunti «controesempi» alle leggi della mereologia
classica: «Nelle indagini concettuali non si possono usare esempi tratti dalla fantasia.
La ragione è semplice: l’autore di una storia fantastica ha il potere di conferire “veritànella-storia” a indiscusse falsità concettuali. Per esempio, potrei scrivere una storia
nella quale ci sono due montagne che si toccano alla base senza che le separi una valle. A fortiori, l’autore di una fantasia ha il potere di conferire verità-nella-storia a una
proposizione per la quale è una questione filosofica controversa se essa costituisca una
falsità concettuale» (Naive Mereology, Admissible Valuations, and Other Matters, 1993,
p. 229).
151–153. Ben veggio. . . Nonostante i dubbi, una cosa è chiara al Poeta: il senso della possibilità deve senz’altro obbedire alla legge di non-contraddizione, «il principio più saldo
di tutti», come l’aveva chiamato Aristotele («ββαιoτ ατ η δ 0 αρχη πασων», Met. IV 3,
1005b11–12) e come continuarono a chiamarlo i medievali («firmissimum omnium principiorum», Tommaso, In Met. IV, l. 2; Duns Scoto, In Met. IV q. 1, n. 2; ecc.). Non si può
quindi essere pietra e acqua («lago») nello stesso tempo, o formica e uccello nello stesso
luogo. Per il Poeta si tratta di una semplice applicazione del criterio della concepibilità
come «guida» alla possibilità testè enunciato da Socrate, con buona pace di chi, come
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Hegel, riterrà invece che la tesi per cui il contraddittorio «non si può rappresentare né
pensare» è «uno dei pregiudizi fondamentali della logica» (Wissenschaft der Logik, II, 2,
C, 3, iii; cfr. anche la già citata lettura hegeliana del Fr. 49a di Eraclito, dalle Vorlesungen über die Gesch. der Philosophie, I, i, 1.D.1). Per la verità si tratta di una tesi che
continua ad essere controversa anche nella filosofia contemporanea, ed è per questo che
accanto ai teorici dei mondi possibili «classici» citati nella nota a 106–107 non manca
chi ritiene lecito ampliare l’orizzonte del possibile sino a includervi mondi contraddittori, come nel realismo estremo di Takashi Yagisawa (Beyond Possible Worlds, 1988) o
in quello «ersatzista» di Edwin Mares (Who’s Afraid of Impossible Worlds?, 1997) o di
David Vander Laan (The Ontology of Impossible Worlds, 1997), o come in certe semantiche formali per la logica rilevante (Richard Routley e Robert Meyer, The Semantics
of Entailment, 1973), per le logiche paraconsistenti (Graham Priest, Richard Routley, e
Jean Norman, Paraconsistent Logic: Essays on the Inconsistent, 1989), o per i condizionali controfattuali (Daniel Nolan, Impossible Worlds: A Modest Approach, 1997). Anzi,
non manca nemmeno chi ritenga che il principio di non-contraddizione sia già violato
nel mondo attuale, sposando così una forma di «dialeteismo» (Priest, In Contradiction,
1987) che si ispira non solo a Hegel ma anche a filosofie appartenenti a tradizioni molto
diverse (per es. il catuskoti di Nagarjuna).
155 ss. Siduti deambulanti. . . La spiegazione di Socrate fa leva sulla distinzione tra una lettura de dicto (o de sensu) e una lettura de re della modalità in questione, distinzione
ampiamente nota ai medievali. Ecco per es. la definizione che si legge nel De propositionibus modalibus, un breve opuscolo per molto tempo attribuito al giovane Tommaso
d’Aquino (c. 1245) ma probabilmente apocrifo: «La modale de dicto è quella nella quale
tutto l’asserto funge da soggetto e il modo viene predicato, come in che Socrate corra
è possibile. La modale de re è quella nella quale il modo si interpone all’asserto, come
in Socrate è possibile che corra» (Op. omn. [Vivès], XXVII, p. 549). Applicando questa
definizione al caso in esame, si capisce che i dubbi del Poeta nascono da una confusione delle due modalità: il suo esempio al v. 154, normalizzato in «È possibile che chi è
seduto cammini», è certamente falso nella lettura de dicto, ma è vero nella lettura de
re. Più precisamente, è falso de dicto in quanto non è possibile che l’asserto «Chi è seduto cammina» sia vero, ma risulterà vero de re in quanto è possibile che «cammina»
sia vero di chi è attualmente seduto (vale a dire, servendoci come Socrate della nozione di mondo possibile: non vi è alcun mondo in cui l’asserto «Chi è seduto cammina» è
vero, ma per ogni persona seduta vi è qualche mondo in cui il predicato «cammina» è
vero di quella persona – o meglio, di una sua controparte). Per la verità questo caso è
un po’ più complesso di quello impiegato nella definizione, poiché «chi è seduto» non è
un nome proprio, come «Socrate», ma un sintagma pronominale. La sostanza, tuttavia,
non cambia, e i logici medievali a cui si ispira il Poeta (l’autore, se non il personaggio) ne
erano consapevoli. Ricordiamo infatti che negli Elenchi sofistici Aristotele discute un caso esattamente analogo, attribuendo la confusione a una fallacia di composizione: «Da
questa nascono ragionamenti come, per esempio, potere uno seduto camminare e uno
non iscrivente scrivere. Dappoiché non ha lo stesso significato se uno dica, dividendo e
componendo, che possa camminare uno seduto, e uno non scrivente scrivere. E similmente, nell’altro caso, se componga che non scriva uno scrivente, stanteché significa che
ha potere di non scrivere chi scrive. Ma quando si componga, vale ch’egli ha il potere di
scrivere nell’atto stesso che non scrive» (IV, 166a23–32). Ebbene, commentando questo
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passo nelle sue Glossae al De intepretatione, Abelardo forniva una diagnosi nei termini
della distinzione de dicto / de re che ricalca perfettamente quella fornita poc’anzi: «Si ha
il senso mediante composizione quando lo stare in piedi e il sedere vengono congiunti nel
medesimo soggetto, come se dicessimo “è possibile che colui che sta in piedi stia seduto
mentre rimane in piedi”, vale a dire: è possibile “stare in piedi e sedere simultaneamente” [. . . ] Ma è del tutto falso che due opposti possano inerire alla medesima cosa. In
questo caso, “possibile” si applica, per così dire, all’intero senso della proposizione, come
se si dicesse: “è possibile che accada quello che questa proposizione dice: ‘colui che è in
piedi siede’ ”. Se però si prende la proposizione come se dicesse che colui che sta in piedi
può talvolta sedere, allora non mettiamo insieme gli opposti e riferiamo “possibile” alla
cosa stessa, non alla proposizione» (Log. ingr. III, 489, 4–13).
156. jungla: è la zona dell’Infero descritta nel Canto IX. È posta tra il secondo e il terzo
Cerchio ed è sede dei Lussuriosi, che il Poeta identifica con coloro che ritennero di poter
risolvere i propri problemi filosofici arricchendo oltre misura il mondo delle cose anziché
facendo ordine nell’opulente lussuria del proprio apparato concettuale (un po’ come in
certe ontologie che nella filosofia contemporanea si ispirano alla Gegenstandstheorie di
Alexius Meinong). Il Poeta la descrive come una fitta boscaglia popolata da mirabilia di
ogni sorta, fra cui oggetti impossibili quali «tronchi cavi sanz’alcun vernice», «circoli con
spigoli e vertice», ecc. Dicendo che quello è l’unico luogo dove si possono trovare anche
i «siduti deambulanti» Socrate sta dunque confermando l’impossibilità che l’enunciato
del Poeta sia vero nella sua lettura de dicto, come s’è visto nella nota precedente. Il
riferimento alla jungla è però anche un espediente per illustrare la raccomandazione dei
vv. 148–150, ossia il monito a non confondere la sana immaginazione, che può esserci
da guida nella ricerca delle possibilità, col gretto fantasticare (con buona pace di Hegel
e degli altri autori citati nella nota a 151–153).
162. del dir / di chi l’hai dette: è appunto la distinzione de dicto / de re.
163–165. Sì penseroso. . . In effetti, tra le riflessioni iniziali ispirate al tragitto sulla nave di Teseo
e il lungo dialogo sull’immaginazione e il senso della possibilità avviato dalle successive osservazioni di Socrate, il Poeta non ha ancora avuto modo di guardarsi attorno e
acclimatarsi al nuovo Cerchio, l’ottavo della spirale infernale, in cui evidentemente è
già entrato («qui sconta. . . », v. 44). La terzina segna così il brusco passaggio dalla prima
parte del Canto, interamente filosofica, alla parte finale, dedicata invece alla descrizione
delle pene dei dannati e all’incontro con uno di loro.
166 ss. Fu allor. . . Il cambio di registro muove da una descrizione dell’ambiente che privilegia l’impatto auditivo. Non è la prima volta che succede nel corso del poema, a partire dal resoconto che prelude alla vista dei pusillanimi nel vestibolo dell’Infero, presso
l’Acheronte (Canto IV).
167–168. risclangori / schiavitare. Come già evidenziato nel volume a stampa, il Poeta si affida spesso a vocaboli distorti o inventati per ragioni metriche, fonetiche o figurative,
conferendo all’opera una plasticità stilistica molto personale pur nel rispetto dei canoni
stilnovistici. In questo caso la scelta dei vocaboli ha anche funzione onomatopeutica.
174. ch’a la seconda morte ciascun grida. Il verso si trova identico anche in Dante, Inf. I,
117. Come in Dante, la seconda morte è verosimilmente la dannazione eterna, cioè la
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morte dello spirito, dopo la prima morte che è quella del corpo. Diversamente da Dante, tuttavia, che probabilmente si rifaceva ad Agostino («Considera le due morti, una
temporale, che è la prima, e l’altra eterna, la seconda morte», Sermo 344, 4) o a Lattanzio («come due sono le vite proposte agli uomini, delle quali una è dell’anima e l’altra
del corpo, così si propongono anche due morti, una pertinente all’anima [. . . ] l’altra al
corpo», Divin. Inst. IV, 24), tale duplicazione è qui da intendersi in senso puramente
simbolico, non metafisico, per i motivi spiegati nel Canto XVIII del poema dedicato al
primo Girone del settimo Cerchio, dove sono puniti i «dualisti del mentale». La formula
deriva presumibilmente dall’Apocalisse, 20:14 («Poi la morte e l’inferno furono gettati
nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda»; cfr. 2:11, 20:6, 21:8) e in Dante ritorna nell’Epistola ai fiorentini («terror secunde mortis exagitat», Ep. VI, 5). La medesima
formula si ritrova in altri testi dell’epoca, a partire dal Cantico dei cantici di Francesco
d’Assisi («ka la morte secunda no ’l farrà male», v. 31). È possibile anche un riferimento
alla seconda morte di cui parla Boezio con riferimento all’oblio cui è destinata la fama
umana, che qui potrebbe intendersi come l’infamante ricordo dei dannati: «E se contate di prolungare la vita sull’onda della fama umana, quando il passar del tempo vi
sottrarrà anche questa, vi attenderà allora una seconda morte» (Cons. II m., vii, 26).
175–177 Rinchiode a terra. . . Dunque è questa la pena per gli «avversi al possibile» puniti in
questa prima Zona del Cerchio: come in vita peccarono di passività e condiscendenza
nei confronti del mondo così come è, ignorando sul piano teorico e forse anche su quello
della pratica quotidiana ogni alternativa all’assetto contingente delle cose, così qui sono
costretti all’inazione eterna inchiodati a terra o alle pareti del luogo «di tra le maglie di
catene eguali». Si tratta quindi di contrappasso per analogia, benché applicato con una
certa autonomia rispetto alla rigida formula che si ispira direttamente alla «legge del
taglione» dei testi biblici (Lv. 24:19–20; Ex. 21:23–25; Dt. 19: 21, Mt. 5:38): i dannati
sono costretti a patire la vera natura del loro errore. (Ricordiamo che in altri settori
dell’Infero la legge del contrappasso è invece applicata per contrasto, secondo la formulazione della Visio Tnugdali, dove si legge che i dannati «hano tuto lo contrario de quilli
delectamenti / donde elli al mondo usaveno con falzi adoperamenti», 290–291. Anche
Dante usa entrambe le formule, e in Bonvesin la formula per contrasto è addirittura
applicata uniformemente: «Lì ge sostene li miseri de tute guixe tormenti, / e hano tuto
lo contrario de quilli delectamenti / dond elli al mondo usaveno con falzi adovramenti»,
vv. 289–291). A ciò si aggiungerà, nei versi seguenti, l’elemento del cruento guardianoaquila che a turno tortura i dannati per l’eternità squarciandone il petto e dilaniandone
il fegato, probabilmente a simboleggiare l’effetto devastante dei fattori imprevisti sulle condizioni di chi rimane inchiodato alla contingenza dei fatti. Vedi anche la nota al
v. 220 per un possibile terzo elemento della pena.
184 ss. Novel Prometeo. . . Tutta la scena ricalca la descrizione di Prometeo incatenato nell’omonima tragedia di Eschilo (vv. 1022 ss.), cui si deve anche l’identificazione dell’aquila
col cane alato di Zeus (v. 777, qui al 192).
189. sonno leggero di vendetta: riecheggerà verbatim nel Prometheus Unbound di Shelley:
«Kindness to such is keen reproach, which breaks / with bitter stings the light sleep of
Revenge» (I, i, 393–394).
190. aguglia: toscanismo per «aquila», attestato per es. nel Mare amoroso («com’ aguglia fa
d’uccello, che ’l prende e no i fa male», v. 22) e ne L’intelligenza («l’aguglia la reca ond’
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ella regna», XXXVI, v. 8) e con diverse occorrenze anche nella Commedia di Dante (dieci
nell’Edizione Nazionale del Petrocchi, contro le due di «aquila» in Inf. IV, 96 e Par. VI,
1).
191. stermìnio: termine ambiguo, forse volutamente: lo si può intendere nel senso letterale di
«carneficina» (dovuta all’azione dell’aquila sul corpo dei dannati) oppure, per avvicinamento semantico all’aggettivo «sterminato», nel senso iperbolico di «quantità smisurata»
(dei dannati che si offrono alla vista del Poeta).
192–194 Quell’ aquila. . . Non è chiaro come l’aquila possa fungere al contempo da guardiano e
da tormentatore di anime. Negli altri Canti i guardiani sono sempre posti a vigilanza di
un intero Cerchio, anche quando questo si divide in più settori (per es. i cinque Gironi
del Cerchio dei realisti, al cui ingresso siede il Demiurgo). Tuttavia è evidente che i
«perduti» a cui si allude qui sono soltanto gli accidiosi della prima Zona, già annunciati
da Socrate ai vv. 44–45. Probabilmente l’aquila fa la sua parte anche nelle altre Zone,
ma la grave lacuna del manoscritto in corrispondenza del finale del Canto e dell’intero
Canto successivo rende impossibile verificare ulteriormente quest’ipotesi. Altrettanto
problematica è la lettura simbolica del guardiano stesso. Il riferimento al cane alato
di Zeus sembra più un tributo a Eschilo (cfr. nota a 184 ss.) che uno spunto allegorico,
anche perché a quell’aquila la mitologia greca attribuiva caratteristiche tutt’altro che
funeste (Omero la descrive come «il fosco cacciatore» ma anche, nel medesimo contesto,
come «il più perfetto degli augurii»; Il. XXIV, 315–316). Anche nella cultura medievale
l’aquila era simbolo di buon auspicio, non ultimo per il rinnovo del suo piumaggio a ogni
primavera, segno di un’abilità a «rigenerarsi» che le veniva già riconosciuta nei testi
biblici («Egli perdona tutte le tue colpe [. . . ] e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza», Psalm. 102:3,6) e nell’associazione al mito della fenice propagata da Erodoto («per
linea e grandezza è un po’ come un’aquila», Hist. II, lxxiii, 2). In particolare, nell’ambito
della tradizione giudaico-cristiana essa rappresentava nientemeno che la figura del Dio
signore («Come un’aquila incita la sua nidiata e aleggia sopra i suoi piccoli, così Egli
spiega le ali, lo prende e lo porta sulle sue penne», Deut. 32:11), del Cristo salvatore
(«L’aquila del Cristo che, col suo volo, è sceso in terra [. . . ] e in un volo tonante prende
d’assalto gl’inferi e porta via verso i cieli i santi che ha afferrato», Ambrogio, Serm. XLVII, 4), o di Giovanni apostolo evangelista («l’aquila, cioè Giovanni, l’araldo delle cose
più sublimi, colui che contempla con occhio sicuro la luce invisibile ed eterna», Agostino,
In Ioh. ev. XXXVI, 5). È per questo che Dante chiama l’aquila «uccel di Dio» (Par. VI, 4)
e «santo uccello» (XVII, 72) e l’evangelista «aguglia di Cristo» (XXVI, 53). Ed è a questo stesso simbolismo che si rifanno anche gli estensori di molti bestiari dell’epoca, da
Philippe de Thaon, XII sec. («L’aquila significa il figlio di Santa Maria, / re su tutti gli
uomini senza alcun dubbio; / e sta in alto e vede lontano, sa bene che cosa deve fare»;
Bestiaire, XXV, 1017–1019) a Guillaume le Clerc, XIII sec. («L’aquila, dunque, che è capace di ringiovanire [. . . ] Come lei dovrebbe comportarsi l’uomo che vuole lasciarsi alle
spalle la sua vecchia condizione per diventare un uomo nuovo, che sia ebreo o cristiano», Bestiaire divin, VIII). Infine, anche nella cultura e nella società laica l’aquila era
esaltata per la sua invincibile maestà, al punto da diventare l’emblema di sovranità e
autorità di tante nazioni, città, casate nobiliari, ecc. (dando così ragione a Caio Mario,
che facendone l’unica insegna della legione romana, come sappiamo da Plinio, Nat. hist. X, v, 16, l’aveva eletta a «emblema per eccellenza», come la chiamò Vegezio, De re
mil. II, 13). Nulla di tutto ciò, evidentemente, potrebbe spiegare la scelta del Poeta di
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fare dell’aquila un guardiano dell’Infero, e men che meno di questo Cerchio. Tuttavia
non mancava, anche nella cultura medievale, un simbolismo di tutt’altro genere che in
quel temibile uccello dal becco adunco e dagli artigli uncinati, avido di prede e di carogne, vedeva un’incarnazione del demonio «rapace di anime». È un’immagine che si trova
già in Gregorio Magno («maligni spiritus raptores animarum», Lib. mor. Job XLVII, 94)
e che ritorna alla lettera in molti testi successivi, dal De rerum naturis di Rabano Mauro, VIII sec. (CX, 694) all’anonimo Bestiarium di Ashmole, XII sec. (f. 62r). Altrettanto
esplicita è l’identificazione dell’aquila col demonio nella Clavis scripturae dello pseudoMelitone, VIII–IX sec. («Aquilae propter rapacitatem daemones significant», VIII, 7),
a sua volta ripresa testualmente in opere successive (per es. le anonime Distinctiones
monasticae et morales, sec. XII, lib. I, 4). È probabilmente a queste immagini che il Poeta si è voluto ispirare, legandole all’iconografia del mito di Prometeo. Anche a questo
riguardo, tuttavia, possiamo solo parlare di una congettura, e resta comunque aperta la
questione di un eventuale legame speciale tra i tratti satanici di questa simbologia, di
per sé piuttosto generici, e le pene specifiche riservate agli accidiosi.
195. la morte, il destruggïetor di mondi. Con la morte cala per sempre il sipario sull’orizzonte
del possibile, annichilendo così tutti i mondi che sino a quel punto vi si affacciavano. E
questo vale per la prima morte, quella terrena, come per la «seconda morte» (v. 174),
la dannazione eterna, soprattutto per i dannati incatenati di questo Cerchio. Sul piano
poetico, la descrizione – di grande effetto – sembra ispirarsi alle terribili parole che Krsna rivolge ad Arjuna nella Bhagavadgita, XI, 32: «kalo ’smi loka-ksaya-krt pravrddho
/ lokan samahartum iha pravrttah» [Io sono il tempo, il grande distruttore di mondi, / e
sono venuto ad annientare tutti gli uomini]. Sono queste stesse parole che riecheggeranno nella mente di Robert Oppenheimer, il fisico statunitense coinvolto nella costruzione
della prima bomba atomica, dinanzi all’esplosione di prova a Trinity Site, nel deserto
del Nuovo Messico, solo venti giorni prima dello sgancio su Hiroshima il 6 agosto 1945:
«I am become death, the destroyer of worlds» (o «the shatterer of worlds», come recita la
prima testimonianza a stampa in Time, 8 nov. 1948, p. 77; «destroyer» è il termine usato
dallo stesso Oppenheimer nel film documentario di Fred Freed The Decision to Drop the
Bomb, NBC, 1965, benché in tale contesto il fisico attribuisca erroneamente il verso a
Visnu, di cui Krsna è l’ottavo avatar). L’immagine del tempo-morte riecheggia anche
nel terzo Quartet di T.S. Eliot, The Dry Salvages (1941): «Time the destroyer is time the
preserver» (II, 67).
196–197. l’anima piumata dai cielici cateni sciolta vola? Domanda che sembra assolvere principalmente un intento lirico, alla quale infatti Socrate non fornirà risposta. La si ritrova,
con pari intensità, nel verso finale della Ballad in Plain D di Bob Dylan (1964): «Are
birds free from the chains of the skyway?». Per la forma «cielici», latinismo per «celesti»,
cfr. Francesco d’Assisi: «Gli disse Frate Pietro: O cielico. . . » (Fioretti, LXII).
204. Asclepigenia: filosofa ateniese di scuola neoplatonica fiorita intorno al 450 d.C. Di lei
sappiamo solo quanto narra Marino di Neapoli nella sua Vita Procli, a cui evidentemente fa riferimento anche il Poeta: «[Proclo] praticava i riti che portano alla congiunzione
con il dio e le preghiere dei Caldei e si serviva dei divini e ineffabili strophaloi. Aveva
imparato anche questi riti e ne aveva appreso i significati e ogni altro particolare da
Asclepigenia, figlia di Plutarco. Presso di lei soltanto si erano salvati i riti misterici
trasmessi dal grande Nestorio e tutta la iniziazione teurgica a lei tramandata per il
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tramite del padre» (§28). Il padre in questione non è, evidentemente, l’omonimo autore
delle Vite parallele bensì Plutarco di Atene (c. 350–430), filosofo neoplatonico fondatore
della Scuola che fu poi di Proclo e dello stesso Marino e ispirata alle dottrine di Plotino,
Porfirio e Giamblico che il Poeta condanna nel Canto XII. Damascio, Vita Is., 88, riferisce che ebbe anche un figlio di nome Gerio, a sua volta filosofo, che forse accompagnò
la sorella nella guida della Scuola subito dopo la morte del padre. Queste informazioni
non sono tuttavia sufficienti per formulare ipotesi fondate sui motivi soggiacenti alla
scelta del personaggio di Asclepigenia da parte del Poeta e alla sua collocazione in questo settore dell’Infero. Probabilmente le pratiche teurgiche e i riti misterici di antica
tradizione caldea di cui la filosofa ateniese era maestra – e che già Beroso descriveva nella sua Babyloniaca come orientati a «predire molto il futuro degli uomini» (apud
Diodoro Siculo, Bibl. hist. II, 29) – vengono intesi dal Poeta come sintomatici di un atteggiamento remissivo e modalmente rigido, propenso alla previsione del destino che
ci attende piuttosto che alla sua messa in opera libera e responsabile. Questa ipotesi
è plausibile soprattutto se si pensa che agli avversi al possibile puniti in questa Zona
del Cerchio faranno seguito i deterministi, i fatalisti e gli irresponsabili delle altre tre
Zone, e certamente il Poeta intende evidenziare lo slippery slope che dal primo di questi
errori conduce all’ultimo. A ciò bisogna comunque aggiungere che, salvo rare eccezioni,
per il Poeta punire un filosofo all’Infero significa anche rendere indirettamente omaggio alla sua sincera dedizione alla pratica del filosofare che costituisce il tema portante
dell’opera («Di volontade sua nessuno sbaglia», dice Socrate nel Canto II, v. 69, riprendendo le parole del Protagora, 345d–e). La scelta di Asclepigenia piuttosto che di altri
autori potrebbe perciò spiegarsi anche alla luce della «democratica» ampiezza di vedute
che hanno guidato il Poeta nella selezione dei suoi numerosi personaggi: le figure incontrate o menzionate nel poema includono filosofi maggiori accanto ad autori minori,
appartenenti a tradizioni culturali diverse (greca e latina, ma anche islamica, cinese,
araba e indiana) e rappresentate da personalità maschili come femminili (fra le quali
ricordiamo la «filosofa sospesa» nel Canto VII, Teano di Crotone e Saffo nel Canto XI,
Trottula de Ruggiero nel Canto XIX, e la «bella corte» che nel Canto III siede accanto alla Donna del Cielo: Aglaonìce di Tessaglia, Diotìma di Mantinea, Héloïse d’Argenteuil,
la servetta trace di Talete, e Ipazia d’Alessandria; anche il compito di giudicare le anime
assegnando a ciascuna la sua sede nell’Infero, che Dante assegna di diritto al Minosse
virgiliano, per il Poeta è appannaggio della figura femminile di Atena). In mancanza
di ulteriori elementi, ci piace pensare che una spiegazione di questo tipo sia non solo
possibile, ma conforme alle intenzioni didascaliche del Poeta e alla deontologia filosofica
che attraversa l’intero componimento.
208. Io creddi che non v’era altro potero che l’essere. È la confessione ufficiale dell’errore
commesso: il disconoscimento di qualsiasi possibilità al di là della realtà contingente.
Così formulato, l’errore ricorda per certi aspetti la posizione che Aristotele attribuisce
ai filosofi della scuola megarica, che ispirandosi all’assolutismo parmenideo «riducono
la potenza e l’atto alla medesima cosa» (Met. IX, 3, 1047a19). È improbabile però che
Asclepigenia ne condividesse i presupposti metafisici.
211. quest’ accidia. Conferma la titolazione del Canto (che, ricordiamo, nel manoscritto compare solo sulle carte di guardia, molto probabilmente posticce), con l’aggettivo dimostrativo a indicare che le colpe della filosofa corrispondono a una forma particolare di
accidia, distinta da quelle punite nelle successive Zone del Cerchio. Tutta la discussione
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filosofica che precede non lascia comunque dubbi sul fatto che per il Poeta l’accidia sia,
in ogni sua manifestazione, un errore dalle forti connotazioni modali. Come già si accennava all’inizio, in Dante si tratta invece di quella colpa (invero non del tutto disgiunta)
consistente nella «nostra troppa pazienza contra li mali esteriori» (Conv. IV, xvii, 5), che
come tale si contrappone per difetto all’ira e assieme all’ira è punita nelle acque stigie
del quinto Cerchio (Inf. VII, 121 ss.). Non a caso Dante ci presenta gli accidiosi come
coloro che furono «tristi», qualifica che rinvia direttamente all’identificazione scolastica
della «passio tristitiae» con quella neghittosità che cresce nell’iracondo quando non può
vendicarsi (Tommaso, S. theol. II/2, q. 158, a. 6, ad 1). Cfr. anche Brunetto Latini: «In
ira nasce e posa / accidia nighittosa» (Tesoretto, XXI, 145–146). E Jacopone: «Po’ che
ll’Ira non pò fare / tutto quant’è <’n> suo volere, / una Accidia n’è nata, / entra ’l core a
ppossedere» (Laude, XXX, 37–40). Ancora diversa, infine, è l’accidia intesa dalla cristianità come vizio capitale, che Gregorio Magno identificava con quell’inerzia esistenziale
che conduce al rifiuto del bene divino (Moral. XXXI, 45).
214. Potessi. Il congiuntivo imperfetto, qui come oltre ai vv. 223, 227 e 230, sottolinea tutto il dramma della condizione di Asclepigenia, costretta a riconoscere l’impossibilità di
mettere in atto adesso ciò che avrebbe potuto fare in vita. Anche l’infinito che segue,
«sciogliere», come pure «disnodato» e «slegando» ai vv. 223 e 232, enfatizza sul piano semantico il contrasto tra i rimpianti della filosofa e la sua presente condizione di
incatenata.
218. io canto in le catene come il mare. Così anche Dylan Thomas nell’ultimo verso di Fern
Hill (1945): «though I sang in my chains like the sea».
220. quel che sol m’è da cantare. Verso ambiguo. Potrebbe voler confermare la condizione di
eterno rammarico a cui sono costretti gli accidiosi di questa Zona, ai quali è concesso
di ripercorrere gli eventi della propria vita soltanto attraverso il canto: è troppo tardi
per prendersi cura «di che non feci e che potevo fare» (v. 222). Ma il verso potrebbe
anche voler indicare un ulteriore elemento della pena riservata a questi dannati, oltre
all’incatenazione e alle torture dell’aquila: Asclepigenia può recitare soltanto questo
canto, non altri. Il suo destino (contrappasso per analogia) è di continuare a cantare,
parola per parola, quest’unico, sconsolato, attuale inno al rimpianto.
221. l’amaro canto: come in Jacopone: «Or s’incomincia lo duro pianto / or intendete l’amaro
canto» (Odi, XIII, 3). Risuonerà ripetutamente nell’invocazione della prima Ecloga di
Giangiorgio Trissino, il traduttore del De vulgari eloquentia di Dante: «Reggete, Muse,
questo amaro canto» (v. 81, ripetuto in anafora altre undici volte).
223. disnodato. Grafia che compare anche in Dante, sia nel significato proprio di «sciogliere
dai nodi» (Par. XXXI, 90) sia in senso traslato (Purg. XIV, 57) o metaforico (Conv. III,
viii, 3). Dante usa liberamente anche «dislegare» accanto a «slegare», qui al v. 232 (per
es. in Purg. XXV, 31).
224. figlioletto. Non abbiamo testimonianze di un figlio di Asclepigenia. Sempre Marino riferisce che la filosofa ebbe una figlia da un certo Archiada («amante del vero», «caro agli
dei», «religiosissimo», §14), anch’ella di nome Asclepigenia, che Proclo guarì in modo
miracoloso da una grave malattia «quand’era ancora fanciulla e viveva in casa dei genitori» (§29). Poiché Marino precisa che Archiada «si affliggeva e piangeva avendo in lei
sola speranza per una discendenza» (ivi), c’è da pensare che la coppia non abbia avuto
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altri figli e che quindi il Poeta stia confondendo la figura del figliolo con la bimba. È anche possibile, tuttavia, che egli si stia qui riferendo a un evento precedente, di cui non
abbiamo notizia, che si risolse nella drammatica perdita di un figlioletto maschio «strappato dal petto» della madre (donde il riversamento di ogni speranza di discendenza nella
figlia).
226. Terra de’ limoni. Marino non fornisce alcuna notizia sulla terra che diede i natali ad
Asclepigenia. Nella nostra cultura «terra dei limoni» è divenuto sinonimo di «Sicilia»,
soprattutto per il celebre verso iniziale della canzone di Mignon nel Wilhelm Meisters
Lehrjahre di Goethe («Kennst Du das Land, wo die Zitronen blühn», III, ch. 1) ripreso in
moltissimi lieder del romanticismo tedesco: da Beethoven (Sechs Gesänge, op. 75, no. 1),
Schubert (Drei Lieder, op. 19, no. 2) e Wolff (Goethe-Lieder, op. 48, no. 9) ad Alban Berg
(Jugendlieder, vol. 2, no. 70). Anche la Grecia, tuttavia, è terra di limoni (e di ulivi), e lo
era già nell’antichità. In particolare, la descrizione definita usata dalla filosofa potrebbe
voler indicare la colonia greca di Pydna, in Macedonia, successivamente ribattezzata
«Kitron» (Strabone, Geog. VII, epit. 23) e quindi «Citrum», o «Citrus», dai romani.
228. vegliezza: vecchiaia. Dante preferisce «vecchiezza» (Conv. IV, xxiii, 8 e xxviii, 4), benché
«De la vegliezza» sia la sua traduzione del De senectude di Cicerone (ibid. II, viii, 9).
233–234. lei. Anche su questo personaggio femminile, purtroppo, le testimonianze che ci sono
pervenute non forniscono notizie utili a una sua identificazione. Potrebbe trattarsi della
figlia di cui riferisce Marino (cfr. nota a 224), con «cosce» a indicare il grembo materno.
Ma il riferimento al «disio» trattenuto dall’angoscia al v. precedente farebbe piuttosto
pensare a un’amante, o meglio, a una donna innamorata di Asclepigenia e con la quale
ella stessa avrebbe desiderato avere una relazione, se solo il suo senso della possibilità
gliel’avesse concesso.
238. Il testo si interrompe qui, con questo verso che sembra celebrare il senso di speranza che
si accompagna al senso della possibilità di cui sin qui si è sottolineata soprattutto l’importanza sul piano metafisico (ma che il Poeta aveva già evocato al v. 51). Considerata la
lunghezza del frammento complessivo, che già così supera i 229 versi del Canto più lungo tra quelli pervenutici integralmente (il XX), è lecito supporre che la parte mancante
non superasse poche terzine. E poiché il titolo del Canto nell’indice che accompagna
il poema fa esplicita menzione della seconda Zona del Cerchio, sede dei deterministi,
si può ipotizzare con una certa attendibilità che le terzine mancanti trattassero brevemente la colpa e la pena di questo secondo gruppo di accidiosi, colpevoli verosimilmente
di tradurre il disinteresse nei confronti delle possibilità alternative in un diniego vero
e proprio e quindi di ritenere che gli accadimenti della nostra vita, e della realtà tutta,
siano governati dalla necessità. Un grave errore, per il Poeta. Un grave errore per tutti
noi, soprattutto noi, filosofi di nascita ma non di costumi, in questa nostra attualità.
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Appendice: Struttura generale del poema
Da Le tribolazioni del filosofare, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. IX.
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CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
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O NTOLOGY, M IND AND F REE W ILL
A Workshop in Memory of E.J. Lowe (1950-2014)
[Macerata, March, 3rd 2014]
Matteo Grasso, Mattia Sorgon
The single day conference “Ontology, Mind and Free Will. A Workshop in Memory of
E.J. Lowe (1950-2014)” took place at the Department of Humanities of the University of
Macerata on March, 3rd 2014. It included as speakers Sophie Gibb (Durham University),
Mario De Caro (Roma Tre University) and Michele Paolini Paoletti (University of Macerata).
This event was thought by the organizers in order to honor the British philosopher Ethan
Jonathan Lowe, who suddenly passed away last January with infinite regret of the scientific
community. The discussion of some of his major research topics, such as mental causation,
free will and essence, was therefore meant as the right homage to one of the most influential
philosophers who animated and deepened the debate of the last thirty years.
Regarding the singular reviews of this report, Matteo Grasso took care of Sophie Gibb’s
and Mario De Caro’s talks, while Mattia Sorgon reviewed Michele Paolini Paoletti’s.
Contents
1 Causal Closure Principles, Causal Sufficiency
and Structuring Events
Sophie Gibb (Durham University)
2
2 Positive Views of Free Will: Conceptual vs. Metaphysical Formulations
Mario De Caro (Roma Tre University)
4
3 Grounding Modal Truths on Essences
Michele Paolini Paoletti (University of Macerata)
6
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CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Matteo Grasso, Mattia Sorgon. Published in Italy. Some
rights reserved.
A UTHORS. Matteo Grasso. [email protected]. Mattia Sorgon.
[email protected].
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129
1 Causal Closure Principles, Causal Sufficiency
and Structuring Events
Sophie Gibb (Durham University)
In her talk, Sophie Gibb discusses the current formulations of the causal closure principle,
and questions the assumption of causal sufficiency that usually goes with its acceptance.
In Gibb’s reconstruction the causal closure principle is based on the following argument:
1. Some mental events are causally relevant to physical effects.
2. All physical effects have sufficient physical causes.
3. There is no systematic causal-overdetermination.
4. Mental events (that are causally relevant in the physical domain) are identical with
physical events.
As Gibb argues, in the contemporary mental causation debate there are at least ten different formulations of the causal closure principle, but many of these formulations are unsatisfactory, because either too strong or too weak. For instance, on one hand, formulations
such as “All physical effects have sufficient physical causes” (Papineau, 1998, p. 375) are too
weak because they do not explicitly mention non-physical causes. On the other hand, other
formulations such as “Any cause of a physical event is itself a physical event—that is, no nonphysical event can be a cause of a physical event” (Kim, 2005, p. 50) are too strong, because
they exclude completely any role for non-physical causes.
According to Gibb, the formulations that accept the assumption that every physical effect
has sufficient physical causes (Papineau, 1998) are problematic. In fact, the case of double
prevention shows that this assumption is false. Gibb discusses the following example: in
order to win a prize, a player named Fred throws a ball aiming to break a bottle. The bottle
is protected by a barrier which prevents the ball to hit the bottle. However, the removal of
the barrier is controlled by a switch, which is activated by Sally. Therefore, the pressing of
the button by Sally prevents the barrier to prevent the breaking of the bottle caused by the
hit of the ball thrown by Fred. The question raised by Gibb is therefore: is the pressing of the
button (i.e. the double preventer) a cause of the breaking of the bottle?
According to Lewis’ counterfactual dependence theory of causation (Lewis, 1973) double
prevention is a form of causation. In our example, the pressing of the button (P) is a cause of
the breaking of the bottle (B) because B counterfactually depends on P: P prevents a preventer
of B and thus B counterfactually depends on P. However, accepting double prevention as a
genuine form of causation is not unproblematic. It requires one to accept wide scale macrocausation at a distance and causation from absences, as claimed by Mumford and Anjum
(2009). But to leave out completely double preventers from the causal story of the event
would be to miss something crucial, because it is precisely because Sally pressed the button
that Fred’s ball broke the bottle.
Gibb embraces a different theory of causation, based on powers ontology. In this view, powers are dispositional properties, such as fragility or solubility, which are manifested only in
specific circumstances. Powers are properties which are directed towards an end, and which
dispose their possessor to be or act in a certain way, which is manifested in appropriate circumstances. According to the powers theory of causation double prevention is not causation,
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
130
and there is a fundamental difference between causing an event (such as in normal causation) and permitting an event to be caused (such as in the cases of double prevention). In this
view, a double preventer does not cause the event that it prevents from being prevented, but
it permits or allows the event to be caused. This role is objective because the fact that a further event is required to permit the relevant causal relation to take place is independent to
our attitudes or our way of describing and explaining the process, therefore it is a completely
different metaphysical account and not just a different explanatory approach. Sally’s pressing of the button is not a cause but permits the breaking of the bottle by permitting a causal
relation involving Fred’s ball and the bottle to take place, by the removal of the barrier. This
grounds the counterfactual dependence relation, because if Sally had not pressed the button
not permitting Fred’s ball to hit the bottle, then the bottle would not have broken.
The important conclusion of this analysis is that, according to this account, causes are
not always sufficient for their effects. In this example, all the events that are causes of the
breaking of the bottle are not collectively sufficient for the breaking of the bottle, because even
given that all of these causes exist, the breaking of the bottle does not follow necessarily. The
double preventer (the pressing of the button) must also exist for the effect to take place, but
it is not a cause. Therefore, according to Gibb, Papineau (1998)’s formulation of the causal
closure principle as “Every physical effect has sufficient physical causes” is misconceived,
because not every physical effect has sufficient physical causes. Nonetheless, even if not a
cause, Sally’s pressing of the button should appear in the explanation of why Fred’s ball broke
the bottle, because it plays the essential role of an event that permits the cause to bring about
its effect, and it has the same importance as the role of the cause itself.
The fact that physical events not always have sufficient physical causes has deep implications on the matter of mental causation as well. The traditional question about the
psychophysical nexus which links mental states with physical (brain) states rests on the assumption that a physical effect, say an action, is the result of two different chains of events:
a chain of mental states and a chain of physical states. Recently, reductionist accounts are
focusing on the empirical inquiry of the neurological events that bring to action, denying any
irreducible existence of mental states because causally inert or epiphenomenal. However,
according to Gibb, an explanation of a movement which focuses exclusively on the chain of
neurological events would be incomplete. This description would specify the complete set
of causes of the movement, but the crucial role of a mental state allowing the movement
to take place would be left out. This enabling role is completely invisible to science, which
studies only the causal relationship among physical events. An empirical investigation will
not reveal any role for non-physical events, therefore for the scientist would be reasonable to
conclude that a complete account of the movement can be given purely in neurological terms.
However, for Gibb this conclusion is mistaken because it is a non-physical event (the mental event) that permits the neurological chain of events to produce the action. This account
would be therefore compatible with Libet’s theory of free won’t (Lewis, 1973), according to
which the neurological event (the readiness potential) precedes the decision to move, but the
mental event permits the final motor outcome, by preventing a further mental event from
preventing this causal relation (Gibb, 2013).
As we have seen, for Gibb the traditional model of causation fails because physical events
do not have sufficient physical causes, as shown in the case of double prevention. Hence,
the formulation of the causal closure principle as “Every physical effect has a sufficient
physical cause”, according to Gibb, should be reformulated. Gibb’s proposal is in line with
Lowe (2000)’s formulation of the principle, stated as follows: “Every physical event contains
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131
only other physical events in its transitive causal closure” (where “transitive causal closure”
means the set of events which includes the immediate causes of the event, the immediate
causes of those causes and so on). According to Gibb, this version of the causal closure principle allows to overcome the apparent incompatibility between psychophysical causation and
non-overdetermination. This result is reached combining a powers theory of causation with
the claim that mental events serve as double preventers (only enabling physical events to be
caused). Moreover, this account explains why the causal role of mental events is invisible to
science, contrary to the claims of the counterfactual theory of causation.
References
• S.C. Gibb (2013). “Mental Causation and Double Prevention”. In: Mental Causation and
Ontology. Ed. by S.C. Gibb, E.J. Lowe, and R.D. Ingthorsson. Oxford: Oxford University
Press, pp. 193–214.
• J. Kim (2005). Physicalism, or Something Near Enough. Princeton: Princeton University
Press.
• D. Lewis (1973). “Causation”. In: Journal of Philosophy 70, pp. 556–567.
• B. Libet (2004). Mind time: The temporal factor in consciousness. Harvard: Harvard
University Press.
• E.J. Lowe (2000). “Causal closure principles and emergentism”. In: Philosophy 75, pp. 571–585.
• S. Mumford and R.L. Anjum (2009). “Double prevention and powers”. In: Journal of
Critical Realism 8.3, pp. 277–293
• D. Papineau (1998). “Mind the gap”. In: Philosophical Perspectives 12, pp. 373–389.
2
Positive Views of Free Will: Conceptual
vs. Metaphysical Formulations
Mario De Caro (Roma Tre University)
In his talk, Mario De Caro contrasts the approach to the problem of free will typical of scientific naturalism with a variety of “duality views”, according to which the existence of free will
is compatible with the scientific worldview.
The problem of human freedom is one of the oldests in philosophy. As De Caro claims, the
contemporary debate is still characterized by many opposite replies to the question “Can we
solve the problem of free will?”. On one hand there is who claims that we surely can solve
it, because it is obvious that we have free will (libertarians). On the other hand, there are
scholars who claim that the problem is already solved, because it is obvious that free will is
just an illusion (illusionists).
According to De Caro, both libertarism and illusionism are unsatisfying because they
avoid the real challenge, which should be to give a satisfying account of free will in a naturalistic framework. In fact, in order to be satisfying, a conception of free will should account
for both the scientific and the agential views of the world.
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132
A first attempt to reconcile the normative dimension with a naturalistic view is scientific naturalism. The main tenets of this positions are that the world consists of nothing
but the entities to which successful scientific explanations commit us, that scientific inquiry
is our only genuine source of knowledge, and that all other forms of understanding should
be reducible to it. However, scientific naturalism faces a big issue, the so-called placement
problem, the problem of how to locate the normative, intentional, modal, phenomenological,
moral and abstract entities in the scientific world. Reductive and eliminative approaches
to free will surely fail in providing a satisfactory reply to the placement problem, therefore
another option is needed.
According to De Caro, a valuable alternative to scientific naturalism is liberal naturalism,
according to which there are some real non-supernatural features of reality that cannot be
accounted for by natural science, there are forms of understanding that are neither reducible
to the empirical forms of knowing nor supernatural, and that philosophy is not (always)
continuous with natural science.
However, liberal naturalism is committed to the existence of a duality, which should be
nonetheless compatible with the scientific worldview. As De Caro recalls, Dana Nelkin has
proposed three duality views in her paper from 2000 entitled Two standpoints and the belief in
freedom: the two-worlds view (embraced by Kant), the two-aspects view (Spinoza, Davidson),
and the two-standpoints view (Strawson, Nagel, Korsgaard). The two-worlds view claims
that our scientific and agential beliefs about free will are non-contradictory because our belief
that we are free is a belief about our noumenal selves, while our belief that our actions are
determined is a belief about our phenomenal selves. However, according to De Caro this view
is too liberal, since it tends to be strongly anti-realistic about natural sciences.
The two-aspects view claims that our beliefs and our scientific knowledge on free will are
about the same object, but one is about ourselves and our actions considered in one aspect
or under one description, while the other is about ourselves and our actions considered in a
different aspect or under different descriptions. However, according to De Caro, Davidson’s
two-aspects view faces a big problem: epiphenomenalism. In fact, this position is not liberal
enough since it tries to force freedom in the nomological-causal network to which it doesn’t
belong.
Finally, the two-standpoints view claims that there is nothing problematic in believing
that we are free even if determined, because each of our beliefs is held from different standpoints. Although reason commits us to contradictory beliefs, there need not be any irrationality as a result, as long as each belief is held from a distinct standpoint. According to De Caro
this view is problematic because it begins with a contradiction and tries to sterilize it.
For De Caro, a fourth more promising duality view is the intelligibility view. Contrary
to the other views, this perspective does not commit us to believe that we live in two different worlds, as agents and as natural entities (as in the two-worlds views), that freedom
and determination are two different descriptions of the same reality (as in the two-aspects
views), or that we can rationally hold contradictory beliefs (as in the two-standpoints views).
For the intelligibility view reality is intelligible for us from two different perspectives: on
one hand the scientific perspective, which uses causal-nomological concepts, and on the other
hand the agential perspective, which uses normative concepts. This view has been endorsed
by Putnam, Korsgaard, McDowell, White, and Bilgrami. Intelligibility views claim that two
conditions are crucial to ascribe freedom to an agent: she must be able to respond adequately
to normative reasons, and she must have some local causal powers not reducible to nomological causation, but not supernatural either. This view is different from the traditional
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133
agent causation views, since it is not in contradiction with the scientific view of the world. In
fact, intelligibility views require only a form of conceptual pluralism, that we already accept
in many cases. For instance, De Caro says, we accept that common sense tables exist, that
they are not reducible to their physical counterpart made of subatomic particles and basically
empty space, and that they cannot be eliminated without losing something important for our
practices. The same goes for human beings who are at the same time agents and natural
entities. For this conception we attribute responsibility looking at the relevant cause of an action, therefore it denies that there is only singular causation, embracing a pluralistic view of
causation. But, contrary to emergentism and other theories of mental causation, this position
avoids the danger of epiphenomenalism, admitting at most cases of overdetermination.
In conclusion, De Caro claims that the manifest image and the scientific image are in
relation of global supervenience with each other, therefore a duality view is required to account for these two deeply linked dimensions. Given that, compatibilism is the best option
for free will, because it takes seriously both our intuition about freedom and the scientific description of the world. Finally, by appealing to conceptual and causal pluralism, the doubleintelligibility view succeeds in reconciling the manifest and the scientific image, acknowledging at the same time that both these images rule in their respective dominions.
3
Grounding Modal Truths on Essences
Michele Paolini Paoletti (University of Macerata)
Paolini Paoletti starts his talk illustrating in details the topic of genuine mere possibilities,
according to which something could have been the case even though it is not, at least actually,
the case. Following this claim, statements like:
(1) Obama could have been an engineer.
(2) Persons might have not been mammals.
(3) Unicorns could have existed.
turn out to be true. Deepening the analysis, the author then shows how (1), (2) and (3) can be
declined in three different categories: singular/general mere possibilities, positive/negative
mere possibilities, and existential/non-existential mere possibilities. Under this view (1) expresses a singular, positive, and non-existential mere possibility; (2) expresses a general,
negative, and non-existential mere possibility; while (3) expresses a general, positive, and existential mere possibility. Furthermore, three different positions can be individuated within
this framework:
• necessitarism, for which there are no mere possibilites;
• extreme possibilism, for which it is legitimate to construct mere possibilites out of everything;
• moderate possibilism; for which there are mere possibilites, but some restrictions should
be imposed on their construction.
The aim of Paolini Paoletti’s talk is to explore the essentialist solutions to the problem of
mere possibilities. These particular versions of moderate possibilism, according to the author,
should indeed be able to ground the thuths of statements such as (1), (2), and (3) imposing
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134
on mere possibilities some restrictions based on the essences of objects. Focusing mainly on
statements of the sort of (1), expressing hence singular, positive, and non-existential mere
possibilites, the author provides thus an analysis of the modal view and the definitional view
of essences.
The first solution considered, the modal view of essences, claims that essences should
be characterized as properties that objects necessarily instantiate through a possible-world
framework. This proposal is constituted by two distinct theses:
(1p.w.) There is a possible world (that is different from the actual world) in which
Obama exists and he is an engineer.
(ex.mod.ess.) For every property, for every entity, that property is essential to that
entity iff it is necessary that that entity exists, only if it has that property, i.e., iff,
in every possible world, that entity exists, only if it has that property.
The first thesis gives the proper interpretation of (1) in terms of possible worlds, the second
one defines essences as properties necessarily instantiated by an object and able to restrict
the set of circumstances through which the same object can undergo in different possible
worlds. Once satisfied these two theses, different variants of this view can be provided ranging over three parameters: (a) the amount of entities that have essential properties (all/some
but not all/none), (b) the amount of properties that are essential to entities (all/some but not
all/none), and (c) what kind of properties are essential to entities. Additional specifications
can be stated distinguishing among the partial, complete, and general essence of something:
the first one is a subset of an entity’s essential properties, the second one is the set of an entity’s essential properties, while the latter one is an essential property that an object shares
with other objects. Particularly important is the definition of the individual essence of something:
(ex.mod.ind.ess.) For every property, for every entity, that property is an individual essence of that entity iff it is necessary that that entity exists iff it has that
property, i.e., iff, in every possible world, that entity exists iff it has that property.
that is the property which uniquely characterizes an entity. Given such analysis, the modal
view of essences is thus able to conceive the mere possibility expressed by (1) as:
(1p.w.a.) There is a possible world in which Obama’s individual essence is instantiated (so that Obama exists) and Obama is an engineer (or, equivalently, Obama’s
individual essence is coinstantiated with the property of being an engineer).
Paolini Paoletti clearly highlights how this first solution would face two orders of problems: the concerns related to the nature of possible worlds and their ontology and the worries
about the exact individuation of essential properties. Regarding the first objections, the author shows how the definitions of what a possible world is meant to be, which kind of relations
bind essential properties, objects and worlds together and how the conceivability of possible
worlds is determinated are far from being conclusive. Moreover, referring mainly to Kripke
(1980), he underlines how (1) and (1p.w.a.) seem to have different meanings: while (1) focuses
on what could happen to the object in the actual world, (1p.w.a.) expresses what happens to
the object in some possible world different from the actual. Concerning the second kind of
problems Paolini Paoletti quotes directly Fine (1994a,b; 1995a,b), pointing out how given
(ex.mod.ess) and (ex.mod.ind.ess.) too many properties turn out to be essential to an entity.
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This unpleasant consequence would entail that, incidentally, even existence turns out to be
an essential property. Trying to elude the problem referring exclusively to intrinsic properties (Cowling, 2013) would not undermine the objection: intrinsic properties are indeed often
determined in modal terms. The author concludes thus his analysis of the modal view claiming that modal facts themselves, assumed to ground an object’s essences, need to be grounded
by something which this view seems not able to provide.
Paolini Paoletti considers then the second solution to the problem of mere possibilities, the
definitional view of essences. This second version of moderate possibilism, claimed among
others by Lowe (1994, 2006, 2008, 2012, 2013) and Fine (1994a,b; 1995a,b), conceives the
essence of an entity in terms of “what that entity is” and assumes that it can be discovered
by providing a “real definition” of that entity. Basing on these principles, this view defines
hence metaphysical possibility and necessity as:
(met.poss.) it is metaphysically possible that some entity e is P iff being P is not
excluded by e’s essence (i.e., it is not the case that, if e is what it is, then it is not
P);
(met.imp.) it is metaphysically impossible that some entity e is P iff being P is
excluded by e’s essence (i.e., it is the case that, if e is what it is, then it is not P);
(met.mere poss.) it is metaphysically merely possible that some entity e is P iff e
is not P, but being P is not excluded by e’s essence (i.e., it is not the case that, if e
is what it is, then it is not P);
(met.nec.) it is metaphysically necessary that some entity e is P iff being non-P is
excluded by e’s essence (i.e., it is the case that, if e is what it is, then it is P).
providing in the end the following interpretation of (1)
(1ess.) Obama’s essence does not exclude his being an engineer, even though
Obama is not an engineer (i.e., it is merely metaphysically possible that Obama is
an engineer).
The author deepens then the analysis of the definitional alternative highlighting the particular view held by Lowe (2012). According to Lowe, being metaphysically necessary for an entity
is only a necessary condition for its belonging to that entity’s essence, but not a necessary and
sufficient condition. In order to clearly distinguish between the necessary and essential characteristics of a thing thus we have to refine our definitional view, complementing further
claims which discriminate between essences and entities:
(j1) every entity has an essence (serious essentialism);
(j2) yet, essences are not entities;
(j3) the essence of an entity is revealed by its real definition;
(j4) the metaphysical possibility/necessity of something for an entity is grounded on that
entity’s essence;
(j5) there are metaphysically necessary features of an entity that are not part of its essence
and they are grounded on that entity’s essence and on some other entity’s/ies’ essence(s).
Following these last points provided by Lowe, Paolini Paoletti concludes his talk addressing
two different questions: “are essences entities?” and “are there individual essences?”. Regarding the first question, he clearly argues, in opposition of Lowe’s view, in favor of the
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idea that essences are entities. Indeed, the author claims, if we admit that essences are conjunctive properties (or conjunctions of properties), then we can directly adimt that they are
infinite entities and infinite essences of entities without falling in any kind of fundational
infinite regress. Finally, concerning the latter question, the author rehearses Lowe’s relflections about individual essence and the individuator property in order to claim that, given an
object’s general essence, it is possible to conclude the truth of statements of the sorts of (1).
In this regards, it is possible to maintain at the same time the notion of existence itself and
existence in some other possible situation as irreducible features of a thing; features that
cannot be reduced to an object’s individual essence.
References
• S. Cowling (2013). “The Modal View of Essence”. In: Canadian Journal of Philosophy
43.2, pp. 248–266.
• K. Fine (1994a). “Essence and Modality”. In: Philosophical Perspectives 8, pp. 1–16.
• K. Fine (1994b). “Senses of Essence”. In: Modality, Morality and Belief. Essays in Honor
of Ruth Barcan Marcus. Ed. by W. Sinnott-Armstrong, D. Raffman, and N. Asher. Cambridge: Cambridge University Press.
• K. Fine (1995a). “Ontological Dependence”. In: Proceedings of the Aristotelian Society
95, pp. 269–290.
• K. Fine (1995b). “The Logic of Essence”. In: Journal of Philosophical Logic 24, pp. 241–273.
• S. Kripke (1980). Naming and Necessity. Cambridge (MA): Harvard University Press.
• E.J. Lowe (1994). “Ontological Dependency”. In: Philosophical Papers 23.1, pp. 31–48.
• E.J. Lowe (2006). Metaphysics as the Science of Essence. Available online.
• E.J. Lowe (2008). “Two Notions of Being: Entity and Essence”. In: Philosophy 83, pp. 23–48.
• E.J. Lowe (2012). “What is the Source of Our Knowledge of Modal Truths?” In: Mind
12.484, pp. 919–950.
• E.J. Lowe (2013). Forms of Thought. A Study in Philosophical Logic. Cambridge: Cambridge University Press.
Rivista Italiana di Filosofia Analitica Junior 5:2 (2014)
CC
ISSN 2037-4445 http://www.rifanalitica.it
Patrocinata dalla Società Italiana di Filosofia Analitica
GRS ELONA 2: G ENDER , R ACE AND S EXUALITY. I SSUES IN
METAPHYSICS
[Barcellona, 29–30 maggio 2014]
Matilde Aliffi, Martina Rosola
Il GRSelona è una conferenza sui temi del genere, della sessualità e della razza che si
svolge a Barcellona ed è quest’anno giunto alla seconda edizione. È un’occasione per i ricercatori di tutto il mondo per confrontarsi e incontrarsi con altri studiosi degli stessi argomenti,
per venire a conoscenza degli altri studi sul tema e dibattere tanto del proprio lavoro quanto
di quello degli altri. Il tema di quest’anno è stato la metafisica. Gli speaker e gli interventi
di quest’anno sono stati: Jennifer Saul (University of Sheffield): ‘Generics don’t essentialise
people; people essentialise people!’; David Ludwig (Columbia University): ‘Against the New
Metaphysics of Race’; Olivier Lemeire (Katholieke Universiteit Leuven, Belgium): ‘What do
you mean ‘races don’t exist”; Esa Diaz-Leon (University of Manitoba): ‘The Metaphysics of
Slurs’; Carrie Ichikawa Jenkins (Univ. of British Columbia - Univ. of Aberdeen): ‘Metaphysics of Romantic Love’; Teresa Marques (University of Lisbon): ‘Varieties of constructionism’;
Marta Jorba (University College Dublin) & Maria Rodó de Zárate (Universitat Autònoma de
Barcelona): ‘Disentangling Intersectionality’; Mari Mikkola (Humbolt-Universität zu Berlin):
‘Constructionism, Naturalism and Non-Ideal Theory’.
Per chi non si occupa di questi temi può non risultare immediato il motivo per cui il convegno si occupa tanto di genere e sessualità quanto di razza. Questa scelta deriva dagli studi
degli ultimi anni su questi temi: è emerso come sia impossibile scindere queste questioni,
che sono strettamente legate l’una all’altra. Uno degli interventi del convegno trattava dei
rapporti tra le diverse categorie sociali (vedi Jorba-Rodò de Zàrate).
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CC
BY:
C OPYRIGHT. 2014 Matilde Aliffi, Martina Rosola. Pubblicato in Italia.
Alcuni diritti riservati.
A UTORI. Matilde Aliffi. [email protected]. Martina Rosola.
[email protected].
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138
Indice
1 Generics don’t essentialise people; people essentialise people!
Jennifer Saul (University of Sheffield)
138
2 Against the New Metaphysics of Race
David Ludwig (Columbia University)
140
3 What do you mean ‘races don’t exist’
Olivier Lemeire (Katholieke Universiteit Leuven, Belgium)
142
4 The Metaphysics of Slurs
Esa Diaz-Leon (University of Manitoba)
143
5 Metaphysics of Romantic Love
Carrie Ichikawa Jenkins (Univ. of British Columbia - Univ. of Aberdeen)
145
6 Varieties of constructionism
Teresa Marques (University of Lisbon)
146
7 Disentangling Intersectionality
Marta Jorba (University College Dublin) & Maria Rodó de Zárate (Universitat Autònoma de Barcelona)
148
8 Constructionism, Naturalism and Non-Ideal Theory
Mari Mikkola (Humbolt-Universität zu Berlin)
1
149
Generics don’t essentialise people; people essentialise
people!
Jennifer Saul (University of Sheffield)
Nel suo intervento Jennifer Saul ha proposto una nuova prospettiva sui generici. I generici
sono enunciati che mirano a esprimere verità attraverso una generalizzazione che non è ristretta a un determinato tempo e luogo. Esempi di generici sono: “le donne sono arrendevoli”,
“i polli sono cibo”, “le tigri hanno le strisce”.
Sally Haslanger e Sarah-Jane Leslie hanno recentemente sostenuto che i generici dovrebbero essere evitati, poiché sono problematici e politicamente scorretti (Haslanger, 2010) (Leslie, forthcoming). Al contrario, Saul ha sostenuto che i generici non sono particolarmente
dannosi e che possono essere utili nella comunicazione.
Come punto di partenza Saul ha considerato gli argomenti di Leslie e Haslanger. Come
ha spiegato Saul, Leslie ha caratterizzato tipi diversi di generici, e in particolare, ha caratterizzato i “generici impressionanti” (striking properties generics, in inglese) come espressioni
dove una proprietà pericolosa viene predicata di un tipo, come gli esempi che seguono:
(1) Le zanzare trasportano il virus del Nilo occidentale
(2) Gli uomini neri sono violenti
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Come Saul ha detto, secondo Haslanger e Leslie, abbiamo l’intuizione che i generici impressionanti siano veri anche se pochi esemplari del tipo in questione possiedono la proprietà
pericolosa che viene predicata, se gli altri esemplari del tipo sono disposti, nelle dovute circostanze, ad avere anche loro questa proprietà. Quindi, negli esempi menzionati, anche se solo
l’uno percento delle zanzare porta il virus del Nilo occidentale, l’enunciato (1) è vero perché
anche se le altre zanzare non hanno questa proprietà, sono comunque disposte, verificatesi le
dovute circostanze, ad averla.
Secondo Haslanger, le proprietà impressionanti sono dannose perché implicano che le proprietà pericolose sono connesse con l’essenza del tipo. Per esempio accettare (2) implica anche
che la violenza sia qualcosa che appartiene alla natura degli uomini neri. Il problema è che se
le implicazioni non sono bloccate, esse si aggiungono al common ground della conversazione.
Haslanger ha proposto di usare una “negazione metalinguistica” (Horn, 1985) che consiste
nel rifiutare l’implicatura portata dai generici. Quindi, quando a qualcuno viene proferito l’enunciato (2), questi dovrebbe rispondere con (2*): “No, molti uomini neri non sono violenti”.
Saul ha criticato questo approccio, e in particolare il bisogno della negazione metalinguistica.
Questo è perché lei ha negato la verità degli enunciati in cui figurano generici di proprietà
pericolose come (1) e (2). Secondo Saul, (1) e (2) sono false se appartenere a un tipo non è
un buon predittore di avere una proprietà pericolosa. Quindi, per esempio, (2) è falso dal
momento che essere nero non è un buon predittore di essere violento. Una possibile obiezione a questo approccio, come ha detto Saul, è quella di insistere nel considerare (2) vero
dal momento che gli uomini neri sono tuttavia disposti, verificatesi le dovute circostanze, a
essere violenti. Tuttavia Saul rigetta questa obiezione, dicendo che se questa linea di argomentazione fosse corretta, allora si dovrebbe considerare anche l’enunciato “le donne bianche
sono violente” come vero, poiché anche le donne bianche, verificatesi le dovute circostanze,
sarebbero disposte ad essere violente. Questa analisi non è sufficiente: quello che importa ai
fini della verità dei “generici impressionanti” secondo Saul è che essi esibiscano la proprietà
che viene predicata al presentarsi della minima possibilità. Dato che non è così, (1) e (2) sono
semplicemente falsi.
Una volta che accettiamo con Saul che (1) e (2) sono falsi, non c’è bisogno di usare la
negazione metalinguistica. Saul ha sostenuto che dato che questi enunciati sono falsi, la
negazione ordinaria è già abbastanza per fermare l’implicazione dannosa.
A questo punto l’autrice continua la sua critica mostrando che il problema delle implicazioni false e dannose, se davvero fosse così preoccupante, non riguarderebbe solo i generici, ma
qualsiasi frase in cui fosse presente un termine tipo. Enunciati come (4) “Molti uomini asiatici trattano male le donne” o (5) “Il mio amico ha un amico asiatico che dice di trattare male
sua moglie” possono anche loro portare l’implicazione che trattare male le donne sia qualcosa
che appartiene, in qualche modo, all’essenza degli asiatici. Inoltre, Saul ha mostrato come
in questo caso la negazione metalinguistica non è una buona soluzione per bloccare l’implicatura. Sembra strano rispondere con “No, molti uomini lo fanno” se ci viene detto l’enunciato
(4). L’uso di una negazione metalinguistica è dunque non capace di tenere in conto questa
situazione e questo caso è una conseguenza negativa per la teoria di Leslie e Haslanger.
Successivamente, Saul ha discusso le evidenze empiriche di Leslie a favore della tendenza
di persone a pensare che le proprietà incluse nelle affermazioni generiche appartengano alle
essenze di un tipo. Saul pensa che l’argomento di Leslie non è convincente dato che porta
evidenze empiriche che non sono sufficienti a sostenere la conclusione. Una delle evidenze di
Leslie mira a mostrare che l’uso dei generici conduce i bambini a essenzializzare la proprietà che viene attribuita al tipo. In questo esperimento viene raccontata una storia inventata
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su una popolazione di esseri chiamati Zarpie a bambini di quattro anni. Ai bambini viene
detto che gli Zarpie mangiano fiori e che non-Zarpie mangiano i crackers. Poi ai bambini
viene chiesto se un figlio di una mamma Zarpie cresciuto da un non-Zarpie mangerebbe fiori
o crackers. I bambini rispondono che il figlio della mamma Zarpie mangerebbe fiori, e questo secondo Leslie mostra la tendenza dei bambini ad acquisire credenze sull’essenza degli
Zarpie attraverso i generici. Tuttavia Saul ha fatto notare che non è così chiaro da questo
esperimento che i generici sono responsabili di essenzializzare. Potrebbe essere anche che le
proprietà strane attribuite agli Zarpie, come mangiare fiori, abbiano svolto questo ruolo. Per
questo Saul suggerisce di ripetere gli esperimenti con proprietà meno strane. Saul ha anche
discusso altre evidenze che Leslie ha raccolto dal mondo reale, come i pregiudizi che hanno
coinvolto i musulmani dopo l’undici settembre. Secondo lei, queste anche queste evidenze
sono troppo vaghe, perché non mostrano che l’uso di generici ha un ruolo nel creare queste
credenze.
Per concludere, Saul suggerisce che alcuni generici possono anche essere utile contro la
tendenza ad essenzializzare. Per esempio, affermazioni come:
(5) Ci si aspetta che le donne indossino tacchi alti.
(6) Gli Zarpie sono costretti a mangiare farfalle.
(7) Le persone nere sono ostacolate dal pregiudizio di altri nell’ottenere certe opportunità.
Riferimenti bibliografici
• S. Haslanger (2010). “Ideology, Generics, and Common Ground”. In: Feminism and Metaphysics. A cura di Charlotte Witt. Springer.
• L.R. Horn (1985). “Metalinguistic Negation and pragmatic ambiguity”. In: Language
61.1, pp. 121–174.
• S. Leslie (forthcoming). Carving up the Social World with Generics. Oxford Studies in
Experimental Philosophy.
2
Against the New Metaphysics of Race
David Ludwig (Columbia University)
Questo talk si concentra sul tema della metafisica della razza prendendo in esame il dibattito contemporaneo a riguardo. Secondo Ludwig tuttavia, la disputa, tra realisti e antirealisti della razza non è di carattere metafisico ma puramente verbale e i dibattiti contemporanei riguardo alla realtà biologica delle razze si basano su una confusione di problemi di
classificazione metafisici e normativi.
La prima premessa dell’argomento di Ludwig è che l’evidenza empirica non determina
l’ontologia della razza. Infatti l’evidenza biologica non determina l’esistenza di tipi biologici
né determina l’identificazione tra tipi biologici e razze. Non determina l’esistenza di tipi
biologici perchè gli organismi si somigliano in diversi modi e gradi. Questo implica che si
possano trovare diverse somiglianze rilevanti e che secondo quale consideriamo possiamo
postulare diversi tipi biologici. Inoltre quali somiglianze troviamo rilevanti dipende da quale
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fenomeno vogliamo spiegare con la nostra teoria. Questo significa che non esistono dei tipi
biologici di per sé, ma che troviamo un tipo biologico o un altro secondo quale caratteristica
stiamo considerando e in ultima analisi secondo cosa ci interessa studiare e spiegare. La
seconda questione riguarda l’identificazione tra tipi biologici e razze e cioè il fatto che anche
se i tipi biologici esistessero non è detto che coincidano con le razze. Dipendendo da come
intendiamo “razza”, l’evidenza empirica ne dimostra l’esistenza o la non esistenza. Ludwig
presenta l’esempio della misura empirica di Rosenberg. Questa misura funziona dando un
valore a un software che, in base a questo, divide una popolazione in gruppi. Se il valore dato è
5, allora i gruppi in cui viene divisa la popolazione umana corrispondono alla popolazione dei
cinque continenti, e questo sembra dimostrare empiricamente l’esistenza delle razze umane.
Se però il valore considerato è maggiore di cinque, allora sembra che venga confermata la
non esistenza delle razze. La ragione per assegnare alla variabile un valore maggiore di
cinque è che negli altri animali per individuare gruppi di livello inferiore alla specie si usa un
indice che compara la variazione genetica nelle sotto-popolazioni con quella del totale della
popolazione. Usando questo indice per gli uomini, il risultato è appunto la non esistenza delle
razze. Tuttavia non c’è un’evidenza empirica che permetta di scegliere uno di questi due sensi
di “razza”. Pertanto è necessaria un’evidenza non empirica dell’esistenza delle razze.
La seconda premessa è che una prova non empirica non determina l’ontologia della razza.
Vi sono infatti due prove non empiriche ugualmente valide, una che dimostra l’esistenza delle
razze e l’altra che ne mostra la non esistenza. La prova realista assume le teorie causali del
riferimento, secondo cui un concetto si riferisce a un tipo scientifico anche se abbiamo false
credenze a riguardo. Pertanto, anche se abbiamo false credenze riguardo a cos’è una razza
questo non implica che il concetto di razza non abbia un referente. D’altro canto si può invece
sostenere che in questo caso non si può applicare una teoria causale della referenza perché
c’è troppa differenza tra il concetto che abbiamo e un tipo scientifico per giustificare un’identificazione. Identificare il concetto di “razza” con un tipo scientifico, come ad esempio i gruppi
di Rosenberg con k = 5, sarebbe usare queste teorie in modo troppo liberale. Infatti “razza”
viene usato nella letteratura contemporanea per riferirsi a molte cose diverse e pertanto è
improbabile che ci sia un’unica specificazione fondamentale o ammissibile di tale termine.
A questo punto abbiamo tanto un’indeterminazione empirica quanto una non empirica
dell’esistenza delle razze e perciò dovremmo rigettare, conclude Ludwig, l’idea di un’ontologia
fondamentale della razza.
Ludwig precisa come la sua strategia deflazionista non richieda una posizione deflazionista generale, che è controversa. Infatti ciò che questo argomento mira a mostrare è semplicemente che in questo caso le due ontologie sono equivalenti, ma non deve assumere questa come metodologia generale. Inoltre, anche se le dispute riguardo l’esistenza o meno delle razze
sono dispute verbali non sostanziali, resta comunque aperta la questione normativa di come
dovremmo usare questo concetto. Questa questione è di fondamentale importanza e rischia
di essere oscurata dai dibattiti metafisici che, come questo argomento mira a dimostrare, non
hanno a questo riguardo soluzione.
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What do you mean ‘races don’t exist’
Olivier Lemeire (Katholieke Universiteit Leuven,
Belgium)
Nel suo intervento, Oliver Lemeire ha distinto due posizioni anti-realiste sull’esistenza della
razza. Da un lato, la prima posizione realista (realismo forte) afferma che se si intende
una certa razza in quanto associata con certe proprietà, come avere un certo tipo di colore
della pelle o certe caratteristiche del naso, non si trova nessuna persona che soddisfa queste
proprietà. La seconda posizione antirealista (realismo superficiale), d’altra parte, afferma
che ci sono persone che hanno queste proprietà associate con una determinata razza; tuttavia
queste persone non costituiscono un tipo naturale.
Lemeire quindi ha considerato l’argomento concettuale e l’argomento ontologico di Glasgow (Glasgow, 2009) a favore di una posizione antirealista del concetto di razza. La prima
premessa dell’argomento concettuale è che il discorso rilevante per il dibattito è il discorso
comune arricchito dagli studi empirici e la seconda è che secondo i più recenti studi empirici,
i concetti associati alle razze sono biologici e a volte socialmente costruiti. Da queste due
premesse quindi segue che i concetti rilevanti sono biologici e a volte socialmente costruiti.
L’argomento ontologico parte da quest’ultima conclusione, che congiunto con la premessa
che non ci sono razze biologiche e che il concetto di razza puramente sociale non è un concetto
di razza nel senso rilevante, conclude che il concetto di razza nel senso rilevante non è reale.
Dato che per Glasgow il concetto di razza è un concetto di un gruppo che condivide proprietà biologiche, si dovrebbe chiedere al biologo se la razza è un tipo naturale. Dato che per
il biologo la razza non è un tipo naturale, Glasgow conclude che le razze non sono reali e il
realismo superficiale è falso. Tuttavia, secondo Lemiere, l’argomento di Glasgow non è efficace contro il realismo superficiale. Questo è perché se noi pensiamo che la razza, nel senso
rilevante, è il concetto di un gruppo di esseri umani che ha certe caratteristiche fisiche visibili, anche se le razze non sono tipi naturali, non segue che questi gruppi sono una illusione,
o che le razze nel senso rilevante non esistano. Quindi i realisti superficiali della razza possono sostenere l’esistenza “superficiale” del gruppo di persone che soddisfano un determinato
gruppo di proprietà, senza affermare che questi gruppi sono tipi naturali.
Lemiere ha poi considerato che ci sono due possibili argomenti contro la posizione del
realismo superficiale e ha mostrato come essi non siano convincenti. Il primo argomento è
un argomento a favore dell’affermazione che la razza è un tipo naturale. Se la razza è un
tipo naturale, afferma l’argomento, allora non c’è distinzione tra realismo forte e superficiale.
Tuttavia, secondo Lemiere questo non è un buon argomento perché assume che i tipi razziali
siano entità, ma le persone non credono che i gruppi razziali siano entità.
Il secondo argomento invece è basato sulla distinzione tra termini generali, in cui il significato è determinato internamente, e termini di tipi naturali, il cui significato è determinato
esternamente. Se non ci sono tipi di razze naturali, afferma l’argomento, i concetti di razza
non si riferiscono a nulla. Anche questo secondo possibile argomento contro il realismo superficiale secondo Lemiere non ha successo. Questo perché se il concetto di razza non potesse
riferirsi a niente, allora i concetti di razza sarebbero senza senso. E se davvero fosse così
allora anche un’analisi concettuale sarebbe impossibile.
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The Metaphysics of Slurs
Esa Diaz-Leon (University of Manitoba)
In questo intervento si analizza un problema riguardante gli slurs, ovvero quegli insulti rivolti a un individuo in quanto appartenente a un gruppo, come ad esempio “negro” o “frocio”.
Inoltre ogni slur ha una controparte neutra che si riferisce al gruppo senza insultarne i membri, come ad esempio “persone di colore” o “omosessuali”. Non è chiaro se questi termini
contribuiscano o meno a determinare il valore di verità degli enunciati in cui occorrono. Infatti alcune occorrenze di questi termini sono spiegate meglio da teorie che considerano che
gli slurs contribuiscano a determinare il valore di verità dell’enunciato in cui occorrono mentre altre sono spiegate meglio da teorie secondo cui gli slurs non contribuiscono al valore di
verità dell’enunciato. Le prime occorrenze sono dette ‘non ortodosse’ e si hanno quando gli
slurs occorrono come nomi o verbi, mentre le seconde sono dette ortodosse e si hanno quando
gli slurs occorrono come aggettivi o avverbi. Hom vuole dare un’interpretazione che spieghi
tutte le occorrenze di slurs. Secondo la sua proposta gli slurs contribuiscono sempre a determinare il valore di verità dell’enunciato in cui occorrono. Secondo Hom per ogni termine
peggiorativo D a m-posti e la sua controparte neutrale N, il valore semantico di D è una relazione complessa a m-posti della forma: ciascuno di y1 ,. . . yn dovrebbero essere soggetto alle
prescrizioni deontiche p1 *+. . . +pn * poiché ha le proprietà negative d1 *+. . . +dn * tutto per il
fatto di essere un N*(y1 ,. . . yn ). Per spiegare le occorrenze ortodosse ricorre a una spiegazione
pragmatica secondo cui per ogni occorrenza ortodossa ve n’è una corrispondente non ortodossa. Ad esempio per l’enunciato 1) “the dog is on the fucking couch” c’è un’occorrenza non
ortodossa 2) “The dog is on the couch where morally impermissible sex occurs”. Tuttavia questa frase risulterebbe inappropriata rispetto a molti contesti. Per questo i partecipanti alla
conversazione calcolerebbero un’implicatura conversazionale da cui risulterebbe: 3) “The dog
being on the couch is an extreme state of affairs (to the same degree of severity of a violation
of the moral impermissibility associated with fucking)”. In questo modo l’interpretazione di
Hom è in grado di spiegare tanto le occorrenze non ortodosse quanto quelle ortodosse.
Inoltre quest’analisi dà conto anche di un altro fenomeno collegato alle occorrenze ortodosse di slurs, ovvero il fatto che non sono vincolate dal dominio di operatori di negazione, di
report proposizionali e dei condizionali. Se infatti un parlante proferisce “Diana ha detto che
Mike è un negro”, l’atteggiamento denigratorio viene attribuito al parlante e non a Diana,
così come proferire “Mike non è un negro” non annulla il contenuto peggiorativo del termine
“negro”, nonostante sia dentro al dominio di una negazione. Spiegando gli slurs in queste
occorrenze ricorrendo alle implicature conversazionali si può spiegare questo fenomeno e il
fatto che il contenuto peggiorativo espresso in queste occorrenze è cancellabile, così come lo
sono le implicature conversazionali.
Tuttavia questa teoria ha alcuni problemi. Una prima obiezione che è stata sollevata
contro quest’analisi riguarda il fatto che negli enunciati in cui non occorre alcuno slur ma
che corrispondono a enunciati in questi occorrono, come ad esempio 2) rispetto a 1), il contenuto peggiorativo non esce dal dominio degli operatori come invece fanno gli slurs. La
soluzione che Hom dà a questo problema è distinguere denigrazione da offesa: denigrazione è l’atto oggettivo di predicare qualche proprietà negativa di un soggetto, mentre offesa è
l’atto soggettivo di fare un’azione che causa certi sentimenti ed emozioni a qualche soggetto.
Quando un parlante usa un predicato, implica conversazionalmente di considerare che questi non è vuoto. Pertanto, usando un peggiorativo il parlante si compromette col fatto che
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non abbia estensione nulla. Questo fa sì che l’offesa venga innescata ogni volta che il parlante usa un termine peggiorativo, a meno che non faccia in modo di cancellare l’implicatura
conversazionale proferendo ad esempio “Mike non è un negro, poiché nessuno lo è”.
Jeshion ha sollevato alcune obiezioni alla strategia semantica di Hom, a cui Diaz-Leon dà
una risposta. Una prima critica è che l’offesa espressa dall’enunciato “Mike è un negro” sembra essere offensiva allo stesso modo e per la stessa ragione di quella espressa da “Mike non è
un negro”, mentre secondo l’analisi di Hom l’offesa nei due casi ha diverse origini. Infatti, nel
secondo caso è data dall’implicatura conversazionale che viene calcolata dai parlanti, mentre
nel primo no. Secondo Diaz-Leon tuttavia non si tratta di una critica conclusiva ma al più
può essere usata come elemento per valutare due teorie in competizione, non come ragione
per rigettarne una. Una seconda obiezione che Jeshion avanza riguarda l’esempio “Mike non
è un negro. È un arabo”. In questo esempio non sembra possibile, al contrario di quanto
vorremmo, cancellare il contenuto peggiorativo dell’enunciato. Secondo la speaker però la
ragione per cui in questo specifico caso non è possibile cancellare il contenuto peggiorativo è
l’aggiunta di “è un arabo”. Questa aggiunta infatti da un lato rende difficile la lettura secondo cui il parlante, pur usando “negro” crede che l’estensione del termine sia vuota. Dall’altro
aggiunge un contenuto denigratorio verso gli arabi. Pertanto, anche se ci fosse un modo per
mostrare che il parlante ritiene che “negro” abbia estensione nulla, l’enunciato manterrebbe
comunque un contenuto denigratorio verso le persone arabe. Infine Jeshion critica la spiegazione di Hom perché sembra non prevedere la situazione in cui un parlante voglia insultare
qualcuno proferendo “sei un negro” pur non credendo che abbia le proprietà di un negro. Secondo l’interpretazione di Hom infatti il parlante starebbe affermando che la persona che
intende insultare ha proprio quelle caratteristiche. Tuttavia, sottolinea Diaz-Leon, la teoria
di Hom permette il caso in cui un parlante competente può usare un peggiorativo per esprimere proprietà con la forma vista precedentemente anche senza associare quella descrizione
al termine.
Diaz-Leon analizza poi un ultimo problema per la strategia di Hom. Secondo Hom gli
epiteti razziali, che sono una classe di slurs, esprimono un complesso di proprietà negative
socialmente costruito determinato dal fatto di stare in una certa relazione causale con istituzioni razziste. Tuttavia non sembra chiaro quale sia la natura di queste connessioni causali
né tantomeno come le pratiche sociali rilevanti possano essere la base del significato degli
epiteti razziali data la premessa che questi sono termini vuoti. Tutti gli autori trattati in
questo talk infatti vogliono spiegare il fenomeno linguistico degli slurs data l’assunzione che
sono termini con estensione nulla. Secondo Diaz-Leon questo problema viene eluso se si interpreta la strategia di Hom come una versione di inferenzialismo. Cioè considerando che
il significato dei termini peggiorativi è determinato dalle inferenze a cui questi termini danno luogo. Ovvero il significato di “negro” sarebbe determinato dalla catena di inferenze: da
“x è africano” inferisci “x è negro” e da “x è negro” inferisci “x è inferiore”. Tuttavia questa
spiegazione sembra andare bene solo per i parlanti che condividono la disposizione razzista
a seguire quest’inferenza. D’altro canto anche i parlanti che non hanno questa disposizione capiscono a cosa il razzista faccia riferimento quando usa un epiteto razziale. Per questo
Diaz-Leon propone una riformulazione della descrizione associata a un peggiorativo. Secondo
la speaker cioè un peggiorativo (D*) significherebbe “dev’essere soggetto a quelle pratiche discriminatorie (che sono salienti in questo contesto) poiché possiede quelle proprietà negative
(che sono salienti in questo contesto), tutto poiché è un Controparte Neutrale del Peggiorativo. In questa descrizione infatti occorrono degli indicali: questo fa sì che le disposizioni
inferenziali che permettono di cogliere il significato del peggiorativo sono le stesse per raz-
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zisti e non razzisti e la differenza è che mentre per il primi vi è qualcuno che corrisponde a
questa descrizione, per i secondi no.
Un’altra ragione per considerare la strategia di Hom come un tipo di inferenzialismo è
che secondo questa interpretazione i peggiorativi sono a priori termini vuoti. Secondo Hom
infatti dato che le ideologie razziste sono false, non ci sono entità che corrispondono alle
intenzioni dei parlanti che usano i peggiorativi. Pertanto l’ideologia razzista non determina
con successo se qualche oggetto possibile che condivide le proprietà descrittive associate al
peggiorativo rientri nella sua estensione e per questo nulla vi rientra. Inoltre dato che è una
verità a priori che le caratteristiche come genere, etnia, sesso, razza eccetera non si possono
valutare moralmente, i peggiorativi sono termini vuoti a priori. Tuttavia se si considera la
strategia originale di Hom non è possibile raggiungere questo risultato a priori. Al contrario
se si considera la versione di Diaz-Leon della strategia semantica allora i peggiorativi sono a
priori termini vuoti. Infatti questi termini corrispondono a priori con la descrizione (D*) e se a
priori è vero che i tratti di razza, genere, sesso, ecc. non possono essere valutati moralmente,
allora è vero a priori che non esiste alcun “negro”, ad esempio.
5 Metaphysics of Romantic Love
Carrie Ichikawa Jenkins (Univ. of British Columbia Univ. of Aberdeen)
L’obiettivo di questo talk era rispondere alla domanda se sia possibile o meno amare più di
una persona contemporaneamente. Si tratta di una questione metafisica, che non va confusa
con la sua controparte morale, ovvero la domanda se sia moralmente ammissibile amare più
di due persone alla volta.
La speaker mostra come nel dibattito contemporaneo la tesi della Monogamia Metafisica,
e cioè la tesi secondo cui le uniche relazioni amorose metafisicamente possibili sono quelle
monogame, sia largamente condivisa e laddove non viene difesa viene assunta implicitamente. Mentre infatti in alcuni autori si trovano argomenti a favore della MM (abbreviazione di
Monogamia Metafisica), in altri questa viene data per scontata, come mostra il fatto che si
passi liberamente dal parlare di “relazione amorosa” al parlare di “coppia” o che le teorie e gli
esperimenti si concentrino esclusivamente sul caso in cui gli amanti siano solo due. Secondo
Ichikawa Jenkins però la MM è falsa. Vi sono infatti molte relazioni d’amore a cui partecipano più d’una persona, in diverse combinazioni, dal classico esempio in cui uno dei due
appartenenti a una coppia instaura una relazione con una terza persona, al caso dei triangoli
poliamorosi in cui la relazione è tra tre persone dove una ama ed è amata dalle altre due
che condividono il comune partner ma non hanno una relazione d’amore tra loro. Il fatto che
esistano molti esempi, e di molti tipi, di relazioni tra più di due persone sembra costituire un
controesempio alla MM. Pertanto tutte le teorie che assumono questa tesi dovrebbero essere
rigettate o modificate. I difensori della MM tuttavia argomentano che questi casi sono pochi e
quindi trascurabili o che chi intrattiene queste relazioni si sbaglia quando dice di amare i suoi
partner. La risposta alla prima obiezione è che in metafisica non è un buon metodo trascurare
dei casi perchè numericamente limitati e considerare solo i casi normali e più comuni. Per
quanto riguarda l’affermazione secondo cui chi dice di amare più di una persona è in errore,
la risposta di Ichikawa Jenkins è che non c’è alcun motivo per sostenere che si sbaglino e che
tanto per queste relazioni amorose come per quelle monogame l’unico modo per stabilire se si
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amano o no è dare credito al report dei partner. Pertanto, se dei partner di una relazione non
monogama affermano di amarsi non c’è ragione per contraddirli.
Il secondo argomento di Ichikawa Jenkins contro la MM si basa su un’analogia con altri
tipi di amore che sono invece considerati unanimamente possibili tra più di due persone.
Cioè, esattamente come non è considerato contraddittorio amare (nel senso dell’amicizia) più
amici né amare (nel senso genitoriale) più figli, così non dovrebbe esserlo amare (nel senso
romantico) più partner. La risposta che i difensori della MM danno a questo argomento è che
la differenza tra l’amore romantico e altri tipi di amore sta proprio nella necessaria esclusività
che caratterizza il primo. L’obiezione di Ichikawa Jenkins è che un argomento di questo tipo
assume la MM ed è quindi question-begging.
Terzo ed ultimo argomento contro la tesi che le relazioni romantiche siano necessariamente monogame è che si tratta di una tesi molto metafisicamente molto impegnativa, al contrario della sua negazione. Infatti la MM è un’affermazione doppiamente universale cioè “tutti
i mondi possibili sono tali che tutto l’amore che contengono è monogamo”. La sua negazione
pertanto è un’affermazione doppiamente esistenziale, che per essere vera richiede che via sia
almeno un mondo in cui almeno un amore non è monogamo. Quest’ultima è evidentemente
meno impegnativa metafisicamente di MM.
Infine Ichikawa Jenkins analizza con questi strumenti le teorie di Smith e di Cheng che
richiedono la MM, sostenendo che debbano essere modificate o rigettate perchè si basano su
una tesi falsa.
6
Varieties of constructionism
Teresa Marques (University of Lisbon)
Teresa Marques presenta diverse versioni di costruttivismo e ne dà una valutazione, ponendole a confronto con alcune critiche e con l’obiettivo di favorire un cambiamento sociale. Cerca
cioè di analizzare come le diverse versioni di costruttivismo possano resistere a una critica
generale al costruttivismo e quale è la più adatta a permettere un cambiamento sociale.
Alcune categorie che sono state considerate da alcuni autori come socialmente costruite
sono la malattia mentale, il genere, il sesso, la razza etc. Per questo e per il fatto che queste categorie sono fondamentali per determinare l’identità delle persone secondo Marques è
cruciale capire cosa significa che qualcosa è socialmente costruito. Vi sono infatti molti modi in cui delle categorie possono essere socialmente costruite, e molti autori recentemente si
sono occupati di questo tema. Marques analizza due coppie di tipi di costruttivismo: a) oggettuale in contrapposizione a concettuale; e b) causale in contrapposizione a costitutivo. Il
costruttivismo concettuale riguarda la costruzione sociale di rappresentazioni, ovvero di idee
e concetti, mentre il costruttivismo oggettuale riguarda la costruzione sociale di cose, ovvero
di persone, categorie, eventi, proprietà etc. Usa la definizione che segue per la coppia costruito causalmente/costruito costitutivamente: un oggetto o un tipo è costruito socialmente
in modo causale quando fattori o agenti sociali sono causalmente responsabili dell’esistenza
dell’oggetto o del fatto che le proprietà corrispondenti vengano istanziate. D’altro canto, un
individuo o una proprietà F sono costruiti socialmente in modo costitutivo quando è parte
della definizione di cos’è per qualcuno essere un F, o parte della natura di essere un F, che gli
F stiano in qualche relazione con agenti o fattori sociali.
Il costruttivismo causale è considerato da molti autori meno adatto a permette un cambio
sociale in quanto sembra essere più difficile modificare le categorie così costruite. Secondo
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Marques però non va scartato dal principio e analizza il caso delle caratterizzazioni di cos’è il
genere per valutare se davvero un’interpretazione causale di queste ostacola un cambiamento
di alcune pratiche discriminatorie basate sul genere. Considerare la categoria “genere” come
costruita socialmente in senso costitutivo, significa sostenere che il fatto che vi sia uno stereotipo di genere fa sì che gli individui si comportino in modo da conformarsi a esso e che vengano
trattati dagli altri in base allo stereotipo. Marques presenta un esperimento che mostra come questo accada realmente. Nell’esperimento vengono testati i risultati di due gruppi di
studenti universitari rispetto a un compito di calcolo. A uno dei due gruppi viene detto che il
test serve a capire cosa rende alcuni individui migliori di altri in matematica, mentre all’altro
gruppo viene detto che dopo aver somministrato il test a migliaia di studenti è risultato che
le prestazioni di questo esercizio sono uguali tra uomini e donne. Quanto emerge da questo
esperimento è che tra gli studenti del primo gruppo ragazzi e ragazze realizzavano lo stesso
punteggio, mentre nel secondo le ragazze riuscivano meglio di tutti gli studenti del primo
gruppo, tanto maschi quanto femmine, e meglio dei ragazzi del loro gruppo, che invece avevano un punteggio uguale a quello dei ragazzi del primo gruppo. La conclusione che se ne può
trarre dunque è che le ragazze hanno prestazioni inferiori rispetto alle loro capacità in questo
compito perché le donne sono considerate meno capaci in matematica. Si può dunque dare
un’interpretazione in senso causale della costruzione sociale del genere affermando che i fattori o gli agenti sociali sono causalmente responsabili per la concezione che le persone hanno
di sé e per il fatto che queste istanzino su di sé alcuni tratti dello stereotipo, come ad esempio
basse capacità di astrazione o in esami di calcolo e un forte disposizione all’empatia. Questo
implica che operare un cambiamento sociale significhi eliminare le cause di questa costruzione causale. Tuttavia secondo Haslanger e Diaz-Leon questo da un lato richiederebbe troppo
tempo e dall’altro non è chiaro che queste caratteristiche esistano solo come conseguenza di
queste cause sociali. Le due autrici concludono perciò che una comprensione genuina della
costruzione sociale richiede il senso costitutivo di costruzione sociale. Tuttavia Marques sottolinea che è proprio il fatto che queste abilità esistono come conseguenza della costruzione
sociale che le rende ingiuste. Se infatti credessimo che una delle studentesse sia incapace di
svolgere questo compito per sua natura allora non troveremmo ingiusto che non possa seguire una carriera in cui tale compito è fondamentale. Quello che al contrario è ingiusto è che
persone capaci abbiano performance più basse o abbandonino opportunità di carriera perché
hanno false credenze rispetto alle proprie capacità. Cioè, quello che è ingiusto è che certi risultati dipendano da cause sociali. In questo senso dunque è plausibile una caratterizzazione
della costruzione sociale in senso causale e non necessariamente costitutivo.
Marques mette poi i due tipi di costruttivismo in questione alla prova dell’obiezione che
Boghossian fa al costruttivismo di fatti in generale. L’argomento di Boghossian contro il
costruttivismo è che l’uomo non può aver costruito i fatti poiché la storia dell’umanità è iniziata molto dopo quella del mondo e quindi molti fatti c’erano già prima che noi esistessimo.
Non è quindi possibile che li abbiano costruiti gli umani. Rispetto alle categorie umane, dice Marques, questo equivale a chiedersi “come potrebbero esserci certe categorie di persone
prima che le società e le culture che le hanno costruite esistessero?” Marques ricostruisce
l’argomento che sta alla base di questa critica in questo modo:
1) Le categorie X esistevano prima che le società adottassero convenzioni particolari riguardo a X.
2) Le società e le culture non possono “costruire la categoria X” retroattivamente. In altre
parole, le norme e le convenzioni dipendenti dalla società esistono solo all’interno di
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queste stesse società e culture.
3) Pertanto, le categorie di persone X in questione non sono socialmente costruite.
Tuttavia, 1) non sembra così indubitabilmente vera. Se ad esempio si considera la categoria
dell’omosessualità non sembra chiaro che questa esista prima che una società la costruisse.
Non è infatti la stessa cosa praticare sesso con individui del proprio sesso e concepirsi come
omosessuali. A questo rispetto Marques riporta uno studio fatto in Africa in cui individui che
hanno regolarmente rapporti sessuali con individui del loro stesso sesso rifiutano di autodefinirsi omosessuali. 1) quindi sembra quantomento dubbia. Anche 2) d’altro canto sembra
avere dei problemi. Se infatti consideriamo 2) in termini di convenzioni costitutive, ci sono
molti controesempi a quest’affermazione. L’esempio addotto da Marques è che benché i calendari siano un’invenzione umana e il concetto di anni sia socialmente costruito, possiamo
usarlo per contare la distanza con avvenimenti accaduti prima che gli umani cominciassero
a usare i calendari, come ad esempio la scomparsa dei dinosauri. Questo sembra un caso in cui le società e le culture hanno costruito retroattivamente una categoria ed è quindi
un controesempio a 2). Il costruttivismo costitutivo sembra quindi resistere alle critiche di
Boghossian. Riguardo al costruttivisimo causale invece, Marques prende l’esempio della categoria di malattia mentale. È stato sostenuto infatti che questa categoria ha cause sociali
ed è socialmente costruita. Tuttavia, dato che vi sono diversi modi di classificare la malattia
mentale, non sembra possibile valutare se le nostre descrizioni sono vere o false rispetto a
un dato indipendente da un determinato modo di classificare la malattia mentale. Questo è
dunque un modo in cui anche il costruttivismo causale può resistere a questo tipo di critiche.
Marques dunque ha mostrato come anche il costruttivismo causale può servire per un’analisi improntata al cambiamento sociale e che il costruttivisimo oggettuale, tanto se interpretato in senso causale come in senso costitutivo, resiste a critiche generali al costruttivismo,
come quella di Boghossian.
7 Disentangling Intersectionality
Marta Jorba (University College Dublin) & Maria Rodó
de Zárate (Universitat Autònoma de Barcelona)
Marta Jorba e Maria Rodò de Zàrate hanno dato un talk dal titolo “disentangling intersectionality”. Questo talk si concentrava su un approccio recente, chiamato intersezionalità,
che è uno strumento teorico che permette di avere a che fare con differenti categorie sociali,
come il genere, la razza, la classe sociale. Le speaker sostengono che il bisogno di questo
approccio sia dovuto all’insufficienza esplicativa del modello addizionale, che considera le categorie come separate nello spiegare l’esperienza dell’oppressione o del privilegio. Questo
poiché, secondo loro, quando diverse categorie sono presenti nell’esperienza del soggetto, non
si aggiungono meramente una all’altra ma piuttosto cambiano la natura della categoria. Per
esempio, l’oppressione delle donne nere non può essere spiegata semplicemente considerando
l’oppressione di genere e il razzismo separatamente, perché queste categorie sono correlate.
Nel loro talk, Jorba e Rodò de Zàrate cominciano assumendo che la reciproca costituzione
delle categorie sia una strada perseguibile alternativa al modello addizionale. Poi procedono
considerando diversi modi possibili di intendere l’intersezionalità, concludendo che la relazione delle categorie è una relazione di unità, perché diverse esperienze di oppressione o
privilegio sono unificate nell’esperienza.
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In primo luogo considerano la possibilità che la relazione di intersezionalità sia una relazione di simultaneità. Sostengono però che questa non sia una visione convincente poiché
la relazione di simultaneità non implica alcuna relazione tra categorie al di là dell’occorrere
allo stesso tempo. In secondo luogo, chiedono se la relazione tra categorie sia una relazione di
intensificazione. L’idea è che ci sono alcuni casi in cui un’oppressione dovuto a una categoria
sociale potrebbe essere amplificata da un’altra. Per esempio riguardo al diritto all’aborto,
l’oppressione causata dall’essere donna potrebbe essere intensificata dall’essere povera. Tuttavia anche questo approccio non è soddisfaciente perchè ci sono casi in cui, date categorie
sociali stigmatizzate, non si dà un’intensificazione dell’oppressione e anzi potrebbe esserci
una mitigazione dell’oppressione. Questo per esempio sembra essere il caso in cui risulti che
una donna lesbica sia meno oppressa nell’ambito della divisione del lavoro domestico.
L’altra relazione che considerano è la sopravvenienza, secondo la quale A sopravviene a
B se e solo se una differenza in A implica una differenza in B. Le speaker sostengono che
anche questa spiegazione fallisce perché ci sono casi in cui ci sono due diverse categorie sociali ma nessuna di queste sopravviene a un’altra. Per esempio, un uomo potrebbe avere la
stessa esperienza di privilegio a prescindere che sia bianco o nero. Un’altra relazione è la
relazione di dissoluzione. L’idea è che un sistema di oppressione potrebbe dissolversi in un’altra categoria. Il problema è che la conseguenza della dissoluzione sembra collassare nella
fusione. Per fusione, differenti intersezioni danno origine a diverse categorie. Tuttavia anche
questo approccio viene considerato problematico, perché diverse intersezioni, per esempio,
danno origine a diversi generi. Il problema con la fusione è, secondo le speaker, che sembra
essere costretta ad accettare un grande numero di generi e questo è controintuitivo. Inoltre
è anche dubbio se questa relazione aiuti effettivamente a capire la relazione tra categorie.
Infine, Jorba e Rodò de Zàrate considerano la relazione di mutua costituzione tra categorie e
motivano perché anche questa spiegazione presenta delle difficoltà, che risiedono soprattutto
nello spiegare come le categoria sociale si costituiscano vicendevolmente.
Dopo aver motivato perché tutti questi approcci possibili sono insoddisfacenti, le speaker
propongono il loro approccio, secondo cui l’esperienza di oppressione e di privilegio sono relazioni di unità. Sostengono che diverse esperienze di oppressione o privilegio sono unificate nel
produrre una singola esperienza di oppressione. Come risultato, l’intera esperienza è costituita da tutte le identità del soggetto. Più formalmente, essi sostengono che necessariamente,
per ogni soggetto di esperienza di oppressione o di privilegio e per ogni tempo t, le esperienze
simultanee di oppressione e privilegio che il soggetto ha al tempo t saranno sussunte da una
singola esperienza di oppressione e privilegio. Concludono il loro talk chiarendo i vantaggi
del loro approccio e sottolineando, tra le altre cose, che nella loro spiegazione ciò che conta
non è la relazione tra categorie ma il loro ruolo nella costituzione delle esperienze.
8
Constructionism, Naturalism and Non-Ideal Theory
Mari Mikkola (Humbolt-Universität zu Berlin)
Nel suo intervento, Mari Mikkola sostiene che il naturalismo e il costruttivismo sociale sono
visioni compatibili e propone una nuova metodologia per una filosofia sociale naturalista,
ovvero una teoria naturalista non ideale. Come dice Mikkola, aderire al naturalismo implica
credere che se ci sono cose che non sono fisiche, queste sono ancora parte dell’ordine causale.
Tuttavia, come Mikkola sottolinea, questo è compatibile col costruttivismo sociale perché non
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deve negare che le costruzioni sociali sono parte del mondo causale. La speaker poi suggerisce
che il naturalismo politico dovrebbe essere inteso come una teoria non ideale.
Il primo sforzo di Mikkola è fornire una caratterizzazione di teoria non ideale. La formulazione più semplice possibile è che la teoria non ideale dovrebbe evitare la teoria ideale. Come
lei dice, le teorie sono considerate ideali quando il loro scopo è sviluppare principi prescrittivi generali in modo da delineare la struttura basica della società e quando queste usano un
metodo di astrazione dalla situazione attuale. Un esempio di teoria ideale è la teoria della
giustizia di Rawls (1971).
Tuttavia, il modello di teoria non ideale di Mikkola non è semplicemente il rifiuto di teorie
ideali, ma dev’essere inteso nel suo senso forte, come fondante il lavoro filosofico in stati di
cose attuali e non ideali. Secondo Mikkola, ci sono tre modi in cui possiamo intendere una
teoria ideale, ovvero: a) ideale come modello normativo; b) ideale come modello descrittivo; e
c) e ideale come modello idealizzato. Tra questi tre modelli, secondo Mikkola quello problematico è l’ultimo. Questo poiché, secondo Mikkola, il modello ideale idealizzato è basato su un
modo idealizzato di intendere l’agire umano che può provocare fraintendimenti. Il problema
delle teorie ideali è che prendono l’ideale come punto di partenza, e rappresentano l’attuale
come una mera derivazione dall’ideale.
Un altro problema con le teorie ideali è l’uso e l’importanza dell’astrazione. A questo proposito, Mikkola presenta il dibattito tra O’Neil e Schwartzman riguardo questo punto. Da un
lato, dice, O’Neil pensa che un certo grado di astrazione sia inevitabile nel ragionamento e che
il vero problema con una teoria ideale sia l’idealizzazione, perché aggiunge troppe informazioni errate riguardo agli esseri umani, dando loro capacità cognitive o volitive super umane.
Dall’altro lato, Schwartzman esprime preoccupazioni riguardo l’astrazione perchè può tralasciare troppi aspetti, e ha bisogno di essere messa in relazione con I criteri che decidono quali
omissioni sono legittime e quali no. Tuttavia, secondo lui, un’idealizzazione è necessaria: le
femministe, per esempio, hanno bisogno di una concezione di ideale come normativo, perché
hanno bisogno di sapere come le cose dovrebbero andare in modo da abbandonare l’oppressione verso l’utopia. Ciò nonostante, questa idealizzazione, secondo Mikkola, non è necessaria.
Ciò che è vincolante, secondo Mikkola, è l’ideale come modello descrittivo. Questo significa
che data una realtà ingiusta il modello non dovrebbe idealizzare, non dovrebbe partire da
principi astratti, ma astrarre da “casi attuali”. Questa visione richiede di essere capaci di
spiegare quali sono le astrazioni corrette da fare. Una buona astrazione secondo Mikkola ha
quattro caratteristiche: primo, non deve ridurre la filosofia normativa a investigazione empirica, ma la filosofia e l’investigazione empirica devono interagire. Secondo, deve partire da
casi attuali e astrarre a partire da essi. Terzo, l’oggetto delle analisi filosofiche sono integrate
nelle pratiche sociali, che non possono essere eliminate come irrilevanti. Infine, una buona
astrazione deve rigettare tipi di entità supernaturali o misteriosi.
Riferimenti bibliografici
• J. Rawls (1971). A theory of Justice. Harvard University Press.
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