STUDI LINGUISTICI E DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA SECONDA SERIE COLLANA FONDATA DA MAURIZIO DARDANO Direttori Maurizio Dardano Università degli Studi Roma Tre Diego Poli Università degli Studi di Macerata Adam Ledgeway University of Cambridge Gianluca Frenguelli Università degli Studi di Macerata Luigi Spagnolo Università per Stranieri di Siena Comitato scientifico Paul Danler Universität Innsbruck Luca Lorenzetti Università degli Studi della Tuscia Fabio Marri Alma Mater Studiorum — Università di Bologna Lorenzo Tomasin Université de Lausanne Delia Bentley University of Manchester Gianluca Colella Högskolan Dalarna STUDI LINGUISTICI E DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA SECONDA SERIE COLLANA FONDATA DA MAURIZIO DARDANO Fondati nel da Maurizio Dardano, gli “Studi linguistici e di storia della lingua italiana” vantano un nutrito quantitativo di saggi e di atti di convegni. Con questa seconda serie, che si vale di una nuova direzione e di un nuovo comitato scientifico (entrambi comprendono anche docenti di rinomate università straniere) s’intende continuare il lavoro finora svolto nei seguenti campi della linguistica italiana: analisi di testi antichi e moderni, aspetti sociolinguistici dell’italiano, rapporti tra l’italiano e altre lingue (romanze e non romanze), storia delle idee linguistiche, teorie e procedure di analisi applicate allo studio e all’insegnamento dell’italiano. Le relazioni logico-sintattiche Teoria, sincronia, diacronia Cristiana De Santis Angela Ferrari Gianluca Frenguelli Francesca Gatta Letizia Lala Marco Mazzoleni Michele Prandi Copyright © MMXIV Aracne editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre Indice Introduzione Connessioni e congiunzioni Michele Prandi “Regole e scelte, relazioni concettuali e codifica linguistica, codifica relazionale e codifica puntuale ecc.”. Riflessioni dialogiche tra analisi del periodo e linguistica del testo Angela Ferrari Riflettendo sulle osservazioni di Angela Ferrari Michele Prandi Le relazioni di (ri)elaborazione. La riformulazione Letizia Lala Le consecutive nell’italiano antico. Un banco di prova dei rapporti tra struttura concettuale, sintassi e pragmatica Gianluca Frenguelli Sondaggi su come fra analogia e temporalità nell’italiano parlato contemporaneo Francesca Gatta Da sì. . . che nel fiorentino del Duecento a sicché nell’italiano contemporaneo. Un caso non prototipico di grammaticalizzazione Marco Mazzoleni Cresci, cresci, cresci. . . La reduplicazione espressiva come strumento di espressione di relazioni transfrastiche Cristiana De Santis Le relazioni logico-sintattiche ISBN 978-88-548-7805-1 DOI 10.4399/97888548780511 pag. 9–12 (dicembre 2014) Introduzione I saggi che qui presentiamo sono un primo bilancio delle riflessioni di un gruppo di studiosi su un tema sul quale convergono, per un verso o per l’altro, le loro ricerche: il confine mobile, saldo sul piano formale ma duttile e permeabile sul piano funzionale, tra la frase e il testo. Il gruppo di ricerca non è legato a una sede e a una collaborazione diretta e quotidiana: è un gruppo itinerante. A un gruppo di lavoro itinerante è negata, ovviamente, l’unità di luogo e di tempo: i suoi membri sono sparpagliati tra diverse sedi italiane – Macerata, BolognaForlì, Genova – e le sedi svizzere di Basilea e Losanna. Gli incontri non sono frequenti, ma ormai da qualche tempo vige la tradizione di ritrovarsi tutti una volta all’anno in una delle sedi per uno scambio di idee e un bilancio. Il primo incontro si è svolto a Forlì nel , il secondo a Basilea nel . Inoltre, Marco Mazzoleni e Angela Ferrari hanno tenuto seminari a Genova nel e nel , mentre Michele Prandi ha tenuto un corso nel semestre invernale del e un seminario nel a Basilea. Anche l’unità di azione è più ideale che reale, perché è legata alla condivisione di un’idea e di un oggetto di studio. L’idea è che le relazioni transfrastiche sono ponti concettuali tra processi aperti a un ventaglio molto ampio di opzioni espressive distribuite tra frase complessa e testo, codifica e ragionamento inferenziale. L’interazione di tutti questi fattori produce una varietà ricchissima di esiti accessibili alla descrizione empirica, il cui equilibrio può variare sia in sincronia, nella varietà degli usi, sia in diacronia, nell’evoluzione delle forme di codifica documentate. L’oggetto di studio è la lingua italiana nella sua complessa e stratificata realtà attuale e nella sua storia singolare. Alla messa a punto di questa idea in tutti i suoi aspetti è naturale, anche se non banale, che lavori un gruppo di studiosi provenienti da scuole diverse, da differenti settori scientifico-disciplinari e da diversi orientamenti: dalla linguistica generale e dall’italianistica, dalla descrizione Introduzione grammaticale e dalla linguistica del testo, dallo studio sincronico e da quello diacronico, da un orientamento più teorico e da uno più descrittivo. Sullo sfondo di un obiettivo comune e della condivisione di alcuni presupposti teorici, la varietà di formazione e di interessi fa sì che all’interno del gruppo di lavoro si sviluppi un dibattito scientifico aperto e diretto, orientato ai problemi, e libero da ogni rituale accademico. I lavori raccolti in questo volume sono al tempo stesso un risultato di questi anni di discussioni, un’illustrazione tangibile dello stile di lavoro del gruppo, e un punto di partenza per mettere a fuoco nuovi obiettivi. Michele Prandi affronta il problema della connessione nelle sue dimensioni grammaticali e testuali. Dopo aver criticato la distinzione tradizionale tra parole categorematiche e sincategorematiche, a sua volta basata sull’idea che i contenuti e le relazioni appartengono ad ambiti distinti – il lessico e la grammatica – Prandi illustra con l’esempio delle preposizioni e applica all’analisi delle congiunzioni l’idea che nelle espressioni linguistiche complesse la messa in opera di relazioni è inseparabile da un contenuto. Nella frase si può distinguere un nucleo formale da una periferia. Il nucleo è costituito, nella sua forma più tipica, da una rete di relazioni grammaticali riempite di contenuto dal termine predicativo principale – tipicamente dal verbo. Nella periferia, in presenza di margini, il legame grammaticale è creato dalla parola di collegamento – dalla preposizione o dalla congiunzione – mentre il contenuto nasce dall’interazione tra il significato codificato della parola di collegamento e l’inferenza. Nel testo, una rete di relazioni concettuali indipendenti si instaura in assenza di connessione grammaticale. Angela Ferrari dialoga con Michele Prandi intorno alle categorie e alle dicotomie teoriche di fondo del suo approccio “filosofico” alla grammatica: in particolare regole vs scelte, codifica relazionale vs codifica puntuale, codifica puntuale vs inferenza, nucleo vs margini, subordinazione/coordinazione vs giustapposizione. L’interesse della discussione critica di Angela Ferrari e della risposta di Michele Prandi risiede nella complementarità dei due approcci: più vicino alle problematiche specifiche del testo e più attento alla pluralità e imprevedibilità dei dati il primo, più focalizzato sulla grammatica e portato a privilegiare le sistemazioni teoriche il secondo. Decisamente all’interno della linguistica testuale si situa il contributo di Letizia Lala. Dopo un’analisi critica della distinzione teorica tra Introduzione riformulazione parafrastica e riformulazione non parafrastica, elaborata in area francofona negli anni’-’, l’autrice, basandosi principalmente su criteri semantici ma tenendo conto anche di segnali formali e testuali, propone una tipologia che divide le riformulazioni in tre macro-classi: riformulazione per parafrasi, per sviluppo, per correzione. Gli interventi di Gianluca Frenguelli e Francesca Gatta si situano all’interno della storia della lingua italiana e circoscrivono i suoi punti estremi: la lingua delle origini e l’uso contemporaneo. Gianluca Frenguelli analizza i costrutti consecutivi nell’italiano antico come banco di prova esemplare per lo studio dei rapporti tra struttura concettuale, sintassi e pragmatica. La capacità di dominare prospettive diverse – dalla sintassi formale alle prospettive funzionali, all’approccio testuale, pragmatico e cognitivo – è particolarmente essenziale quando si affrontano i testi dell’italiano antico, dei quali sovente non conosciamo la cornice socioculturale e le condizioni di produzione. Questo vale in particolare per i costrutti consecutivi, che raggruppano tradizionalmente un insieme di relazioni transfrastiche alquanto eterogeneo, dal punto di vista sia sintattico, sia semantico, sia funzionale. Proprio a causa di questa eterogeneità l’analisi delle espressioni linguistiche che veicolano la relazione consecutiva presenta punti controversi, riguardanti innanzi tutto la definizione stessa delle strutture e il loro funzionamento. Una proposta di classificazione di questo tipo proposizionale non può prescindere da una compenetrazione delle diverse prospettive di analisi. Francesca Gatta analizza l’espansione dell’uso della congiunzione come nell’italiano contemporaneo, divisa tra il valore di complementatore, che introduce interrogative indirette e dichiarative, e la codifica a vari gradi di un ventaglio di relazioni transfrastiche che include costrutti comparativi, temporali e causali. I dati provenienti da corpora mostrano la vitalità del valore temporale, soprattutto nel dialogo, al di fuori dei testi letterari. Mentre il valore comparativo è codificato dalla congiunzione, che riesce a imporre la relazione anche a contenuti incongrui, i valori temporali e causali si attivano grazie all’inferenza a partire dai contenuti concettuali di volta in volta connessi. I due punti estremi – l’italiano antico e la lingua d’oggi – sono collegati nello studio di Marco Mazzoleni che analizza il passaggio da sì. . . che nel fiorentino del Duecento a sicché nell’italiano contemporaneo. Sì. . . che è una struttura correlativa ipotattica costituita da un intensificatore cataforico che accompagna la frase sovraordinata preposta e dal complementatore Introduzione che introduce la subordinata che la segue, e ipercodifica una relazione semantica in senso proprio tra una causa intensificata ed un effetto presentato come la sua conseguenza non contingente ma (quasi) necessaria. Sicché è invece un connettore avverbiale anaforico che collega il contenuto proposizionale della frase o del frammento testuale che accompagna a quello di una frase o frammento testuale precedente, ed esprime una più semplice relazione causale generica. Il percorso documenta un cambio di categoria dell’espressione – da congiunzione accompagnata da un intensificatore ad avverbiale anaforico – accompagnato da un cambio di ambito di uso: dalla dimensione grammaticale della frase complessa alla dimensione del testo. Si tratta quindi di un caso che, pur manifestando alcune proprietà tipiche dei processi di grammaticalizzazione, ne capovolge l’orientamento, e che potremmo quindi caratterizzare come istanza di de-grammaticalizzazione. Cristiana De Santis mette sotto la lente una forma poco usata nell’italiano d’oggi, che fa parte dello stile fiabesco sia orale, sia scritto, frequente in Collodi: la reduplicazione del verbo come strategia per fare di una frase indipendente l’antecedente di una consecutiva. Sul piano formale, si tratta di un esempio interessante di uso di una struttura seriale all’interno della frase. Sul piano del contenuto, il costrutto sembra mettere in discussione l’idea della relazione consecutiva come struttura semantica “ipercodificata”, in quanto si presta a veicolare contenuti più poveri, in particolare la successione temporale. Sul piano stilistico, infine, documenta la trasposizione nel testo letterario di formule tipiche del parlato. Dopo queste parole di introduzione, è ora di invitare il lettore a avvicinarsi di persona ai nostri testi. Non è impresa facile riassumere in poche parole la complessità e l’ampiezza degli approcci e delle prospettive di ricerca che il nostro volume offre, seppur su di un ambito di studio piuttosto circoscritto. Se con questa pubblicazione saremo riusciti a stimolare gli interessi del lettore, ci auguriamo che tale stimolo generi una discussione più ampia. E dato che il gruppo è virtuale, oltre che itinerante, auspichiamo che esso si ampli, raccogliendo stimoli e sollecitazioni di altri studiosi, che invitiamo senz’altro a condividere lo stile di ricerca, i risultati acquisiti e le domande aperte del nostro lavoro di gruppo. Gli Autori Le relazioni logico-sintattiche ISBN 978-88-548-7805-1 DOI 10.4399/97888548780512 pag. 13–27 (dicembre 2014) Connessioni e congiunzioni M P . La connessione grammaticale: una funzione diffusa Se osserviamo un’espressione come il libro sul tavolo, siamo naturalmente portati a pensare a una divisione del lavoro tra due tipi di parole funzionalmente differenziate: parole che presentano un contenuto lessicale stabile – come i nomi libro e tavolo – e parole che creano connessioni, come su. L’intuizione è sollecitata più o meno consapevolmente dalla nostra abitudine a immaginare le strutture della lingua a partire da metafore legate a sfere concrete come la struttura degli edifici. Un muro, ad esempio, è fatto di pietre o mattoni tenuti insieme dalla malta. Così, ci sembra che i nomi abbiano la funzione delle pietre, e le preposizioni quella della malta. La stessa intuizione è alla base della distinzione classica tra “parole categorematiche”, portatrici di significato, e “parole sincategorematiche”, addette alla messa in opera delle relazioni e povere o addirittura prive di significato lessicale. Tradizionalmente, i nomi, i verbi e gli aggettivi sono considerati parole categorematiche, caratterizzate da un significato pieno indipendente, mentre le preposizioni e le congiunzioni sono considerate parole sincategorematiche, che la funzione grammaticale di collegamento svuoterebbe di contenuto . Questa distinzione è formulata in modo esplicito da Ullmann (/: ): «Gli articoli, le congiunzioni, le preposizioni, gli avverbi pronominali e i verbi ausiliari sono semplici strumenti sintattici: manca a loro un pieno status semantico e la costituzione di parole vere e proprie». . Ullmann (/: ) ricostruisce nei dettagli la storia di questa opposizione. «Lo stesso Aristotele ha contrapposto fonài semantikài e fonài ásemoi. Nel XVIII secolo, J. Harris consigliò “parole principali” e “parole accessorie”. I logici parlano di “termini categorematici” e “termini sincategorematici” (Husserl ; Marty ). [. . . ] Le particelle sono state anche variamente descritte come “parole vuote” (grammatici cinesi), “parole formali” (Sweet -), “parole proposizionali”, “operatori” (Russell ), ecc. M. Prandi Nella formulazione di Ullmann rimane implicita ma non meno attiva l’idea complementare, secondo la quale le «parole vere e proprie» non sarebbero «strumenti sintattici ». In realtà, la relazione tra contenuti lessicali e dimensione relazionale nelle diverse classi di parole è molto più complessa. La funzione di creare relazioni, e quindi l’ancoraggio nella sintassi, da un lato si trova in parole appartenenti a quasi tutte le classi (§ .), e dall’altro non caratterizza in modo uniforme le stesse parole tradizionalmente definite sincategorematiche (§ .). Inoltre, e soprattutto, osservando il comportamento delle parole capaci di funzionare come perni di relazioni, ci renderemo conto che la vocazione relazionale non implica assenza o povertà di contenuto lessicale, come l’opposizione tra parole categorematiche e sincategorematiche incoraggia a pensare. Viceversa, in una lingua l’autentica capacità di creare relazioni è inseparabile dalla presenza di un contenuto concettuale. .. Parole categorematiche: termini puntuali saturi e termini relazionali insaturi All’interno delle parole categorematiche, possiamo distinguere parole che hanno una vocazione relazionale passiva, che cioè sono pronte a entrare come termini in certi schemi di relazioni e non in altri dalle parole che hanno una vocazione relazionale attiva, che cioè contengono schemi di relazioni pronti a accogliere certi tipi di termini e non altri. Possiamo chiamare concetti puntuali, o classificatori, i primi e concetti relazionali i secondi. I verbi e gli aggettivi sono tutti concetti relazionali, mentre i nomi si dividono tra concetti puntuali, classificatori, e concetti relazionali. . Vale la pena di citare per esteso il passo di Ullmann (/: -), che ribadisce la distinzione netta tra lessico e sintassi, e la conseguente distinzione tra le «parole vere e proprie» dotate di significato lessicale e le parole assimilabili a «strumenti sintattici» che ne sarebbero sprovviste: «La differenza tra i due tipi di parole [parole categorematiche e sincategorematiche] diventa perfettamente chiara se si ricordi la linea di demarcazione fra lessico e sintassi. Il criterio principale è il contrasto fra significato lessicale e significato relazionale. È evidente che, così inquadrati, gli elementi sintattici potranno solo erroneamente venir chiamati “parole”. Come è già stato dimostrato, le particelle [le parole sincategorematiche] si trovano sullo stesso piano degli altri mezzi formali della sintassi: l’intonazione, l’ordine delle parole, la modificazione e la flessione». Connessioni e congiunzioni I concetti classificatori raggruppano individui in classi, o circoscrivono masse di sostanze, e funzionano come termini passivi di relazioni. I concetti relazionali classificano qualità che possono essere attribuite a diversi tipi di esseri, o processi nei quali diversi tipi di esseri possono essere coinvolti, e funzionano come termini attivi di relazioni. Cavallo, mela, bambino sono concetti classificatori nel senso stretto in quanto, oltre a entrare come termini passivi in relazioni, circoscrivono classi di oggetti. Acqua, sabbia, ferro sono concetti classificatori in un senso più debole: anche se non raggruppano oggetti in classi ma identificano masse di sostanza, entrano nelle relazioni come termini passivi. Verde, guardare, maturare sono concetti relazionali. In una frase come Il bambino guarda il cavallo, il verbo guardare istituisce una relazione nella quale il bambino e il cavallo – i suoi argomenti – entrano come termini passivi. I concetti classificatori e i concetti relazionali possono essere rigorosamente discriminati grazie a un criterio che risale a Aristotele (Categorie: , a). Se a un particolare essere applico un concetto classificatorio, posso applicargli coerentemente anche la definizione del concetto. Se di Moro dico che è un cavallo, posso dire anche che è un animale che trotta e nitrisce. Questo non è possibile con i concetti relazionali. Se di Moro dico che è nero, non posso dire che è il colore del carbone: posso dire che ha il colore del carbone. Ugualmente, se di Moro dico che galoppa, non posso dire che è l’azione di correre «in tre tempi, con tempo di sospensione più lungo di quello di appoggio» (Sabatini/Coletti ), ma che compie questa azione. La distinzione tra concetti classificatori puntuali e concetti relazionali si connette in modo diretto con la distinzione grammaticale tra espressioni sature e insature. I concetti relazionali, in particolare, sono significati di espressioni insature, cioè di espressioni che riescono a svolgere la loro funzione elettiva solo se saturate con un numero appropriato di argomenti. Tipicamente, sono significati di verbi e aggettivi, ma anche di nomi relazionali come bellezza o successo. Mentre la distinzione concettuale ci porta indietro nel tempo fino ad Aristotele, la distinzione grammaticale tra espressioni sature e insature risale a Frege (), ed è stata trasferita nell’ambito della linguistica da Tesnière (). La presenza di una dimensione relazionale in termini categorematici, cioè ricchi di contenuto lessicale, ci fa scoprire una proprietà M. Prandi tutto sommato ovvia ma non banale delle espressioni linguistiche: nelle espressioni significanti complesse costruite a partire dai termini relazionali le relazioni sono destinate comunque a riempirsi di un contenuto a sua volta relazionale: si tratta solo di vedere in che modo. Nel nucleo di una frase che ha un verbo come termine relazionale principale – come centro di gravità, direbbe Humboldt – il verbo riempie di contenuto concettuale una rete di relazioni grammaticali di per sé vuote . In Giovanni ha potato i meli, ad esempio, è evidente che il verbo potare riempie di contenuto concettuale, attraverso i ruoli di agente e paziente, una rete di relazioni grammaticali – soggetto e oggetto diretto – che formano il nucleo. Come il verbo potare, un nome come potatura, che pure appartiene alla stessa categoria morfologica di libro, crea una rete di relazioni all’interno di un sintagma nominale; diversamente da quanto accade al livello della frase, tuttavia, queste relazioni sono immediatamente concettuali. Nell’espressione la potatura dei meli da parte di Giovanni non troviamo un soggetto o un oggetto ma immediatamente un agente e un paziente (Prandi : Cap. ). Da un regime di codifica relazionale, basato sulla messa in opera di una rete di relazioni grammaticali vuote come il soggetto e l’oggetto nel nucleo di una frase, si passa a un regime di codifica puntuale, all’interno del quale un’espressione linguistica rende riconoscibile almeno fino a un certo punto una relazione concettuale accessibile indipendentemente al ragionamento coerente (Prandi : Cap. ). .. Parole sincategorematiche: dimensione relazionale e contenuto Tornando alle parole tradizionalmente definite sincategorematiche, è interessante osservare il comportamento delle preposizioni. Le preposizioni non si comportano mai come parole relazionali vuote. Se . Il nucleo di una frase può essere definito sulla base di due criteri non isomorfi. Da un punto di vista funzionale, il nucleo è formato dal verbo e dagli argomenti, e si oppone ai margini. Da un punto di vista formale, il nucleo è formato da una rete di relazioni grammaticali – soggetto, oggetto indiretto, oggetto preposizionale, oggetto indiretto – che si oppone a una rete di relazioni concettuali – per esempio una relazione spaziale, una causa, uno strumento. Il nucleo formale e il nucleo concettuale non si sovrappongono necessariamente, in quanto alcuni verbi ricevono argomenti che non sono relazioni grammaticali riempite di contenuto ma immediatamente relazioni concettuali. In una frase come Paolo è andato a Basilea, per esempio, abbiamo un soggetto, interpretato come agente di un movimento a partire dal contenuto del verbo, e una meta. Connessioni e congiunzioni disegnano relazioni, hanno un contenuto, più o meno ricco ma attivo. Quando non hanno contenuto, è perché non sono responsabili della messa in opera di relazioni. Alcune preposizioni – per esempio nonostante – non possono che tracciare relazioni piene di contenuto. In una frase come Giorgio è partito nonostante il cattivo tempo, la preposizione nonostante codifica una relazione concessiva tra la partenza di Giorgio e il cattivo tempo: il cattivo tempo non ha impedito la partenza di Giorgio. Così si comportano tutte le preposizioni dette “improprie” e le locuzioni preposizionali. Le preposizioni dette “proprie” come a, da, di, su, viceversa, presentano due usi distinti, caratterizzati da funzioni antitetiche: in alcuni usi, tracciano relazioni semanticamente attive, anche se non necessariamente ricche o univoche. Quando entrano nella reggenza dei verbi a due posti intransitivi, viceversa, le stesse preposizioni non tracciano affatto relazioni, e tanto meno relazioni piene, ma si limitano a segnalare relazioni vuote, che emanano dagli stessi verbi destinati a riempirle di contenuto. In una frase come La cicogna ha fatto il nido sul campanile, su crea una relazione dotata di un contenuto spaziale preciso tra il processo e il luogo che lo ospita: significa ‘sopra’, e si oppone a sotto, davanti o dietro. In Giovanni conta sui suoi amici, viceversa, su non crea la relazione tra Giovanni e i suoi amici, che emana dal verbo contare. La preposizione si limita a segnalare una relazione grammaticale vuota: nel momento in cui è introdotta da su, l’espressione nominale i suoi amici è marcata come complemento del verbo contare. La presenza della preposizione nella reggenza del verbo contare non è motivata dal suo contenuto concettuale, ma è una tautologia della grammatica italiana. A maggior ragione non codifica il contenuto della relazione, che viene fornito dalla struttura relazionale del verbo: gli amici sono i destinatari dell’atteggiamento di fare affidamento che il verbo assegna al soggetto. In quest’uso di pura e semplice segnalazione, su non significa ‘sopra’: non ci autorizza a pensare a una relazione spaziale tra Giorgio e i suoi amici. Per questa ragione, non fa parte di un paradigma di opzioni – non si oppone a sotto, davanti o dietro – ma è selezionata dal verbo. La perdita di pertinenza al tempo stesso relazionale e semantica della preposizione controllata dal verbo non deve essere confusa con una sua intrinseca povertà di significato. La preposizione di, ad esempio, ha M. Prandi un significato molto povero: codifica una relazione subordinativa vuota, compatibile con un numero imprecisato di contenuti. Tuttavia, anche in un caso come questo è possibile distinguere il ruolo puramente passivo della preposizione, al servizio della reggenza di un verbo, dalla funzione di perno di una connessione, per quanto povera di contenuto. In mi fido di te, ad esempio, il perno della relazione è il verbo fidarsi, mentre la preposizione si limita a segnalare la dipendenza del complemento. In un sintagma nominale come l’albero degli zoccoli, viceversa, la preposizione, per quanto povera di contenuto, è il perno della relazione. La relazione concettuale che alla fine sarà pertinente inferire – nel caso del titolo del film di Olmi, ‘l’albero che è stato tagliato per fabbricare gli zoccoli’ – riempie di contenuto questa stessa relazione. La conclusione è ovvia, anche se può sembrare paradossale: la preposizione si svuota del suo contenuto quando si limita a segnalare una relazione istituita indipendentemente dal verbo. Quando costruisce attivamente una relazione, viceversa, è inseparabile da un contenuto che riempie la relazione. Il concetto di preposizione come parola relazionale vuota, insomma, è intrinsecamente contraddittorio. Date queste premesse, il potere di creare relazioni interessa sia parole tradizionalmente classificate come sincategorematiche, sia parole dette categorematiche, appartenenti a classi diverse con proprietà distribuzionali diverse – per esempio verbi, nomi e preposizioni – e usi diversi delle stesse parole, come nel caso delle preposizioni. Inoltre, il potere di tracciare relazioni non solo non è incompatibile con la presenza di un significato pieno ma, al contrario, la richiede. . Congiunzioni e connessioni A partire dalle osservazioni precedenti, possiamo ora esaminare il comportamento delle congiunzioni. Una congiunzione crea una relazione quando mette in opera una connessione transfrastica, collegando una proposizione principale indipendente a una subordinata con valore di margine , ma non quando entra nell’espressione di una relazione completiva. . Chiamo margini i ruoli non argomentali di un processo, estendendo alla frase semplice il termine coniato da Longacre (()) per le frasi complesse. Connessioni e congiunzioni Quando entra nell’espressione di una relazione completiva, la congiunzione si limita a segnalare la dipendenza della frase argomentale dal verbo, che per parte sua dà una forma e un contenuto alla relazione. Esamineremo brevemente questo punto in relazione a due punti: la scelta del modo verbale, e in particolare del congiuntivo, per quel che riguarda la forma, e la fattualità del contenuto della subordinata – completiva o margine – per quel che riguarda il contenuto. In una relazione completiva, la selezione del modo verbale è controllata dal verbo della principale e non dalla congiunzione. A parità di congiunzione, verbi come rimpiangere e temere, ad esempio, reggono il congiuntivo nel registro standard, mentre verbi come vedere e sognare reggono l’indicativo. Né la congiunzione né il modo verbale, d’altra parte, influenzano il contenuto della completiva, e in particolare il suo valore modale, che dipende a sua volta dal contenuto del verbo. In (), ad esempio, la subordinata è all’indicativo e il suo contenuto è dato come reale; in () è al congiuntivo, e il suo contenuto è dato come non reale. In () è all’indicativo e il suo contenuto è dato come non reale; in () è al congiuntivo, ma il suo contenuto è dato come reale: () So che Giovanni è partito. () Temo che Giovanni sia partito. () Ho sognato che Giovanni è partito. () Rimpiango che Giovanni sia partito. Sia la congiunzione, sia il modo partecipano alla codifica di una relazione grammaticale di soggetto o oggetto destinata a essere riempita di contenuto dal verbo o dal predicato. L’oggetto di temere, ad esempio, è coerente solo se esprime un fatto non reale, mentre l’oggetto di rimpiangere è coerente solo se esprime un fatto reale. Solo così si spiega il fatto che un verbo fattivo come dispiacere regga il congiuntivo mentre un verbo creatore di mondi irreali come sognare regga l’indicativo . . Con alcuni verbi, possiamo effettivamente scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo. In questi casi, potremmo pensare che la scelta abbia delle conseguenze sul significato. Con il verbo dire, ad esempio, potremmo pensare che il parlante che sceglie l’indicativo – Dicono che Matteo è scappato di casa – fa suo l’oggetto della diceria, mentre il parlante che sceglie il congiuntivo – Dicono che Matteo sia scappato di casa – prende le distanze. Tuttavia, questa M. Prandi Tra le completive, ci sono casi nei quali l’elemento di collegamento partecipa attivamente alla messa in opera del contenuto, interagendo con le indicazioni che emanano dal contenuto del verbo principale. Il caso più vistoso è quello delle interrogative indirette focali, che sono introdotte da un ampio ventaglio di parole di collegamento, tra le quali il parlante sceglie in funzione del fuoco sul quale porta la domanda. In sostanza, si tratta degli stessi avverbi, pronomi e aggettivi interrogativi che useremmo nelle domande dirette corrispondenti: () Chiedi a Alfredo che cosa preferisce. (Che cosa preferisci?) () Dimmi dove ti posso trovare. (Dove ti posso trovare?) () Gli ho domandato a quale concerto andrà Giovanni. (A quale concerto andrà Giovanni?) () Chiedi a Margherita quando posso vederla. (Quando posso vedere Margherita?) () Non so perché Alessandro ha l’aria triste. (Perché Alessandro ha l’aria triste?) Questo comportamento è simile a quello documentato nella frase semplice dalle preposizioni che entrano nell’espressione dei ruoli di localizzazione e meta con i verbo di stato e movimento. Il verbo definisce il profilo generale dell’argomento – per esempio, si tratta di una meta, cioè di una relazione spaziale – lasciando alle preposizioni il compito di definirne il profilo specifico. L’interrogativa indiretta si comporta in modo simile: il verbo attribuisce alla frase oggettiva l’espressione del contenuto di una domanda, e lascia alla parola del collegamento il compito di metterlo a fuoco. Come le interrogative indirette, e per le stesse ragioni, si comporelegante simmetria è disturbata da un’incertezza sul registro: il parlante che dice Dicono che Matteo è scappato di casa potrebbe essere un parlante che sottoscrive la diceria, ma non è escluso che usi un registro medio-basso sprovvisto del congiuntivo. L’osservazione degli usi di registro basso porta un ulteriore argomento all’idea che il congiuntivo, controllato dal verbo principale, non dia un contributo proprio al contenuto della completiva. Dato un periodo come Dubito che Giorgio ha preso il treno, la realtà della completiva è sospesa né più né meno che in presenza del congiuntivo.