studi linguistici e di storia della lingua italiana

STUDI LINGUISTICI
E DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
SECONDA SERIE
COLLANA FONDATA DA MAURIZIO DARDANO

Direttori
Maurizio Dardano
Università degli Studi Roma Tre
Diego Poli
Università degli Studi di Macerata
Adam Ledgeway
University of Cambridge
Gianluca Frenguelli
Università degli Studi di Macerata
Luigi Spagnolo
Università per Stranieri di Siena
Comitato scientifico
Paul Danler
Universität Innsbruck
Luca Lorenzetti
Università degli Studi della Tuscia
Fabio Marri
Alma Mater Studiorum — Università di Bologna
Lorenzo Tomasin
Université de Lausanne
Delia Bentley
University of Manchester
Gianluca Colella
Högskolan Dalarna
STUDI LINGUISTICI
E DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
SECONDA SERIE
COLLANA FONDATA DA MAURIZIO DARDANO
Fondati nel  da Maurizio Dardano, gli “Studi linguistici e di storia
della lingua italiana” vantano un nutrito quantitativo di saggi e di atti
di convegni.
Con questa seconda serie, che si vale di una nuova direzione e
di un nuovo comitato scientifico (entrambi comprendono anche docenti di rinomate università straniere) s’intende continuare il lavoro
finora svolto nei seguenti campi della linguistica italiana: analisi di
testi antichi e moderni, aspetti sociolinguistici dell’italiano, rapporti
tra l’italiano e altre lingue (romanze e non romanze), storia delle
idee linguistiche, teorie e procedure di analisi applicate allo studio e
all’insegnamento dell’italiano.
Le relazioni logico-sintattiche
Teoria, sincronia, diacronia
Cristiana De Santis
Angela Ferrari
Gianluca Frenguelli
Francesca Gatta
Letizia Lala
Marco Mazzoleni
Michele Prandi
Copyright © MMXIV
Aracne editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: dicembre 
Indice

Introduzione

Connessioni e congiunzioni
Michele Prandi

“Regole e scelte, relazioni concettuali e codifica linguistica,
codifica relazionale e codifica puntuale ecc.”. Riflessioni dialogiche tra analisi del periodo e linguistica del testo
Angela Ferrari

Riflettendo sulle osservazioni di Angela Ferrari
Michele Prandi

Le relazioni di (ri)elaborazione. La riformulazione
Letizia Lala

Le consecutive nell’italiano antico. Un banco di prova dei
rapporti tra struttura concettuale, sintassi e pragmatica
Gianluca Frenguelli

Sondaggi su come fra analogia e temporalità nell’italiano parlato contemporaneo
Francesca Gatta

Da sì. . . che nel fiorentino del Duecento a sicché nell’italiano
contemporaneo. Un caso non prototipico di grammaticalizzazione
Marco Mazzoleni

Cresci, cresci, cresci. . . La reduplicazione espressiva come strumento di espressione di relazioni transfrastiche
Cristiana De Santis

Le relazioni logico-sintattiche
ISBN 978-88-548-7805-1
DOI 10.4399/97888548780511
pag. 9–12 (dicembre 2014)
Introduzione
I saggi che qui presentiamo sono un primo bilancio delle riflessioni
di un gruppo di studiosi su un tema sul quale convergono, per un
verso o per l’altro, le loro ricerche: il confine mobile, saldo sul piano
formale ma duttile e permeabile sul piano funzionale, tra la frase e il
testo.
Il gruppo di ricerca non è legato a una sede e a una collaborazione
diretta e quotidiana: è un gruppo itinerante. A un gruppo di lavoro
itinerante è negata, ovviamente, l’unità di luogo e di tempo: i suoi
membri sono sparpagliati tra diverse sedi italiane – Macerata, BolognaForlì, Genova – e le sedi svizzere di Basilea e Losanna. Gli incontri
non sono frequenti, ma ormai da qualche tempo vige la tradizione di
ritrovarsi tutti una volta all’anno in una delle sedi per uno scambio
di idee e un bilancio. Il primo incontro si è svolto a Forlì nel ,
il secondo a Basilea nel . Inoltre, Marco Mazzoleni e Angela
Ferrari hanno tenuto seminari a Genova nel  e nel , mentre
Michele Prandi ha tenuto un corso nel semestre invernale del  e
un seminario nel  a Basilea.
Anche l’unità di azione è più ideale che reale, perché è legata alla condivisione di un’idea e di un oggetto di studio. L’idea è che le
relazioni transfrastiche sono ponti concettuali tra processi aperti a
un ventaglio molto ampio di opzioni espressive distribuite tra frase
complessa e testo, codifica e ragionamento inferenziale. L’interazione
di tutti questi fattori produce una varietà ricchissima di esiti accessibili
alla descrizione empirica, il cui equilibrio può variare sia in sincronia,
nella varietà degli usi, sia in diacronia, nell’evoluzione delle forme di
codifica documentate. L’oggetto di studio è la lingua italiana nella sua
complessa e stratificata realtà attuale e nella sua storia singolare. Alla
messa a punto di questa idea in tutti i suoi aspetti è naturale, anche
se non banale, che lavori un gruppo di studiosi provenienti da scuole
diverse, da differenti settori scientifico-disciplinari e da diversi orientamenti: dalla linguistica generale e dall’italianistica, dalla descrizione


Introduzione
grammaticale e dalla linguistica del testo, dallo studio sincronico e
da quello diacronico, da un orientamento più teorico e da uno più
descrittivo. Sullo sfondo di un obiettivo comune e della condivisione
di alcuni presupposti teorici, la varietà di formazione e di interessi fa
sì che all’interno del gruppo di lavoro si sviluppi un dibattito scientifico aperto e diretto, orientato ai problemi, e libero da ogni rituale
accademico.
I lavori raccolti in questo volume sono al tempo stesso un risultato di
questi anni di discussioni, un’illustrazione tangibile dello stile di lavoro
del gruppo, e un punto di partenza per mettere a fuoco nuovi obiettivi.
Michele Prandi affronta il problema della connessione nelle sue dimensioni grammaticali e testuali. Dopo aver criticato la distinzione tradizionale tra parole categorematiche e sincategorematiche, a sua volta
basata sull’idea che i contenuti e le relazioni appartengono ad ambiti
distinti – il lessico e la grammatica – Prandi illustra con l’esempio delle
preposizioni e applica all’analisi delle congiunzioni l’idea che nelle espressioni linguistiche complesse la messa in opera di relazioni è inseparabile
da un contenuto. Nella frase si può distinguere un nucleo formale da
una periferia. Il nucleo è costituito, nella sua forma più tipica, da una
rete di relazioni grammaticali riempite di contenuto dal termine predicativo principale – tipicamente dal verbo. Nella periferia, in presenza di
margini, il legame grammaticale è creato dalla parola di collegamento
– dalla preposizione o dalla congiunzione – mentre il contenuto nasce
dall’interazione tra il significato codificato della parola di collegamento
e l’inferenza. Nel testo, una rete di relazioni concettuali indipendenti si
instaura in assenza di connessione grammaticale.
Angela Ferrari dialoga con Michele Prandi intorno alle categorie
e alle dicotomie teoriche di fondo del suo approccio “filosofico” alla
grammatica: in particolare regole vs scelte, codifica relazionale vs codifica
puntuale, codifica puntuale vs inferenza, nucleo vs margini, subordinazione/coordinazione vs giustapposizione. L’interesse della discussione
critica di Angela Ferrari e della risposta di Michele Prandi risiede nella
complementarità dei due approcci: più vicino alle problematiche specifiche del testo e più attento alla pluralità e imprevedibilità dei dati
il primo, più focalizzato sulla grammatica e portato a privilegiare le
sistemazioni teoriche il secondo.
Decisamente all’interno della linguistica testuale si situa il contributo di Letizia Lala. Dopo un’analisi critica della distinzione teorica tra
Introduzione

riformulazione parafrastica e riformulazione non parafrastica, elaborata
in area francofona negli anni’-’, l’autrice, basandosi principalmente su criteri semantici ma tenendo conto anche di segnali formali
e testuali, propone una tipologia che divide le riformulazioni in tre
macro-classi: riformulazione per parafrasi, per sviluppo, per correzione.
Gli interventi di Gianluca Frenguelli e Francesca Gatta si situano
all’interno della storia della lingua italiana e circoscrivono i suoi punti
estremi: la lingua delle origini e l’uso contemporaneo.
Gianluca Frenguelli analizza i costrutti consecutivi nell’italiano antico
come banco di prova esemplare per lo studio dei rapporti tra struttura
concettuale, sintassi e pragmatica. La capacità di dominare prospettive
diverse – dalla sintassi formale alle prospettive funzionali, all’approccio
testuale, pragmatico e cognitivo – è particolarmente essenziale quando si
affrontano i testi dell’italiano antico, dei quali sovente non conosciamo
la cornice socioculturale e le condizioni di produzione. Questo vale in
particolare per i costrutti consecutivi, che raggruppano tradizionalmente
un insieme di relazioni transfrastiche alquanto eterogeneo, dal punto
di vista sia sintattico, sia semantico, sia funzionale. Proprio a causa di
questa eterogeneità l’analisi delle espressioni linguistiche che veicolano la
relazione consecutiva presenta punti controversi, riguardanti innanzi tutto
la definizione stessa delle strutture e il loro funzionamento. Una proposta
di classificazione di questo tipo proposizionale non può prescindere da
una compenetrazione delle diverse prospettive di analisi.
Francesca Gatta analizza l’espansione dell’uso della congiunzione
come nell’italiano contemporaneo, divisa tra il valore di complementatore, che introduce interrogative indirette e dichiarative, e la codifica
a vari gradi di un ventaglio di relazioni transfrastiche che include costrutti comparativi, temporali e causali. I dati provenienti da corpora
mostrano la vitalità del valore temporale, soprattutto nel dialogo, al di
fuori dei testi letterari. Mentre il valore comparativo è codificato dalla
congiunzione, che riesce a imporre la relazione anche a contenuti
incongrui, i valori temporali e causali si attivano grazie all’inferenza a
partire dai contenuti concettuali di volta in volta connessi.
I due punti estremi – l’italiano antico e la lingua d’oggi – sono collegati
nello studio di Marco Mazzoleni che analizza il passaggio da sì. . . che nel
fiorentino del Duecento a sicché nell’italiano contemporaneo. Sì. . . che è
una struttura correlativa ipotattica costituita da un intensificatore cataforico che accompagna la frase sovraordinata preposta e dal complementatore

Introduzione
che introduce la subordinata che la segue, e ipercodifica una relazione
semantica in senso proprio tra una causa intensificata ed un effetto presentato come la sua conseguenza non contingente ma (quasi) necessaria.
Sicché è invece un connettore avverbiale anaforico che collega il contenuto proposizionale della frase o del frammento testuale che accompagna
a quello di una frase o frammento testuale precedente, ed esprime una
più semplice relazione causale generica. Il percorso documenta un cambio di categoria dell’espressione – da congiunzione accompagnata da un
intensificatore ad avverbiale anaforico – accompagnato da un cambio di
ambito di uso: dalla dimensione grammaticale della frase complessa alla
dimensione del testo. Si tratta quindi di un caso che, pur manifestando
alcune proprietà tipiche dei processi di grammaticalizzazione, ne capovolge l’orientamento, e che potremmo quindi caratterizzare come istanza
di de-grammaticalizzazione.
Cristiana De Santis mette sotto la lente una forma poco usata nell’italiano d’oggi, che fa parte dello stile fiabesco sia orale, sia scritto, frequente
in Collodi: la reduplicazione del verbo come strategia per fare di una
frase indipendente l’antecedente di una consecutiva. Sul piano formale,
si tratta di un esempio interessante di uso di una struttura seriale all’interno della frase. Sul piano del contenuto, il costrutto sembra mettere in
discussione l’idea della relazione consecutiva come struttura semantica
“ipercodificata”, in quanto si presta a veicolare contenuti più poveri, in particolare la successione temporale. Sul piano stilistico, infine, documenta
la trasposizione nel testo letterario di formule tipiche del parlato.
Dopo queste parole di introduzione, è ora di invitare il lettore a avvicinarsi di persona ai nostri testi. Non è impresa facile riassumere in
poche parole la complessità e l’ampiezza degli approcci e delle prospettive
di ricerca che il nostro volume offre, seppur su di un ambito di studio
piuttosto circoscritto. Se con questa pubblicazione saremo riusciti a stimolare gli interessi del lettore, ci auguriamo che tale stimolo generi una
discussione più ampia. E dato che il gruppo è virtuale, oltre che itinerante,
auspichiamo che esso si ampli, raccogliendo stimoli e sollecitazioni di
altri studiosi, che invitiamo senz’altro a condividere lo stile di ricerca, i
risultati acquisiti e le domande aperte del nostro lavoro di gruppo.
Gli Autori
Le relazioni logico-sintattiche
ISBN 978-88-548-7805-1
DOI 10.4399/97888548780512
pag. 13–27 (dicembre 2014)
Connessioni e congiunzioni
M P
. La connessione grammaticale: una funzione diffusa
Se osserviamo un’espressione come il libro sul tavolo, siamo naturalmente portati a pensare a una divisione del lavoro tra due tipi di parole
funzionalmente differenziate: parole che presentano un contenuto
lessicale stabile – come i nomi libro e tavolo – e parole che creano
connessioni, come su. L’intuizione è sollecitata più o meno consapevolmente dalla nostra abitudine a immaginare le strutture della
lingua a partire da metafore legate a sfere concrete come la struttura
degli edifici. Un muro, ad esempio, è fatto di pietre o mattoni tenuti
insieme dalla malta. Così, ci sembra che i nomi abbiano la funzione
delle pietre, e le preposizioni quella della malta.
La stessa intuizione è alla base della distinzione classica tra “parole
categorematiche”, portatrici di significato, e “parole sincategorematiche”, addette alla messa in opera delle relazioni e povere o addirittura
prive di significato lessicale. Tradizionalmente, i nomi, i verbi e gli
aggettivi sono considerati parole categorematiche, caratterizzate da
un significato pieno indipendente, mentre le preposizioni e le congiunzioni sono considerate parole sincategorematiche, che la funzione
grammaticale di collegamento svuoterebbe di contenuto . Questa
distinzione è formulata in modo esplicito da Ullmann (/: ):
«Gli articoli, le congiunzioni, le preposizioni, gli avverbi pronominali e i verbi ausiliari sono semplici strumenti sintattici: manca a loro
un pieno status semantico e la costituzione di parole vere e proprie».
. Ullmann (/: ) ricostruisce nei dettagli la storia di questa opposizione.
«Lo stesso Aristotele ha contrapposto fonài semantikài e fonài ásemoi. Nel XVIII secolo,
J. Harris consigliò “parole principali” e “parole accessorie”. I logici parlano di “termini
categorematici” e “termini sincategorematici” (Husserl ; Marty ). [. . . ] Le particelle
sono state anche variamente descritte come “parole vuote” (grammatici cinesi), “parole
formali” (Sweet -), “parole proposizionali”, “operatori” (Russell ), ecc.


M. Prandi
Nella formulazione di Ullmann rimane implicita ma non meno attiva
l’idea complementare, secondo la quale le «parole vere e proprie» non
sarebbero «strumenti sintattici ».
In realtà, la relazione tra contenuti lessicali e dimensione relazionale
nelle diverse classi di parole è molto più complessa. La funzione di
creare relazioni, e quindi l’ancoraggio nella sintassi, da un lato si
trova in parole appartenenti a quasi tutte le classi (§ .), e dall’altro
non caratterizza in modo uniforme le stesse parole tradizionalmente
definite sincategorematiche (§ .). Inoltre, e soprattutto, osservando
il comportamento delle parole capaci di funzionare come perni di
relazioni, ci renderemo conto che la vocazione relazionale non implica
assenza o povertà di contenuto lessicale, come l’opposizione tra parole
categorematiche e sincategorematiche incoraggia a pensare. Viceversa,
in una lingua l’autentica capacità di creare relazioni è inseparabile dalla
presenza di un contenuto concettuale.
.. Parole categorematiche: termini puntuali saturi e termini relazionali
insaturi
All’interno delle parole categorematiche, possiamo distinguere parole
che hanno una vocazione relazionale passiva, che cioè sono pronte
a entrare come termini in certi schemi di relazioni e non in altri
dalle parole che hanno una vocazione relazionale attiva, che cioè
contengono schemi di relazioni pronti a accogliere certi tipi di termini
e non altri. Possiamo chiamare concetti puntuali, o classificatori, i
primi e concetti relazionali i secondi. I verbi e gli aggettivi sono tutti
concetti relazionali, mentre i nomi si dividono tra concetti puntuali,
classificatori, e concetti relazionali.
. Vale la pena di citare per esteso il passo di Ullmann (/: -), che ribadisce
la distinzione netta tra lessico e sintassi, e la conseguente distinzione tra le «parole vere e
proprie» dotate di significato lessicale e le parole assimilabili a «strumenti sintattici» che ne
sarebbero sprovviste: «La differenza tra i due tipi di parole [parole categorematiche e sincategorematiche] diventa perfettamente chiara se si ricordi la linea di demarcazione fra lessico
e sintassi. Il criterio principale è il contrasto fra significato lessicale e significato relazionale.
È evidente che, così inquadrati, gli elementi sintattici potranno solo erroneamente venir
chiamati “parole”. Come è già stato dimostrato, le particelle [le parole sincategorematiche]
si trovano sullo stesso piano degli altri mezzi formali della sintassi: l’intonazione, l’ordine
delle parole, la modificazione e la flessione».
Connessioni e congiunzioni

I concetti classificatori raggruppano individui in classi, o circoscrivono masse di sostanze, e funzionano come termini passivi di relazioni.
I concetti relazionali classificano qualità che possono essere attribuite
a diversi tipi di esseri, o processi nei quali diversi tipi di esseri possono
essere coinvolti, e funzionano come termini attivi di relazioni. Cavallo,
mela, bambino sono concetti classificatori nel senso stretto in quanto,
oltre a entrare come termini passivi in relazioni, circoscrivono classi
di oggetti. Acqua, sabbia, ferro sono concetti classificatori in un senso
più debole: anche se non raggruppano oggetti in classi ma identificano masse di sostanza, entrano nelle relazioni come termini passivi.
Verde, guardare, maturare sono concetti relazionali. In una frase come
Il bambino guarda il cavallo, il verbo guardare istituisce una relazione
nella quale il bambino e il cavallo – i suoi argomenti – entrano come
termini passivi.
I concetti classificatori e i concetti relazionali possono essere rigorosamente discriminati grazie a un criterio che risale a Aristotele
(Categorie: , a). Se a un particolare essere applico un concetto classificatorio, posso applicargli coerentemente anche la definizione del
concetto. Se di Moro dico che è un cavallo, posso dire anche che è
un animale che trotta e nitrisce. Questo non è possibile con i concetti
relazionali. Se di Moro dico che è nero, non posso dire che è il colore
del carbone: posso dire che ha il colore del carbone. Ugualmente, se di
Moro dico che galoppa, non posso dire che è l’azione di correre «in
tre tempi, con tempo di sospensione più lungo di quello di appoggio»
(Sabatini/Coletti ), ma che compie questa azione.
La distinzione tra concetti classificatori puntuali e concetti relazionali si connette in modo diretto con la distinzione grammaticale
tra espressioni sature e insature. I concetti relazionali, in particolare,
sono significati di espressioni insature, cioè di espressioni che riescono
a svolgere la loro funzione elettiva solo se saturate con un numero appropriato di argomenti. Tipicamente, sono significati di verbi
e aggettivi, ma anche di nomi relazionali come bellezza o successo.
Mentre la distinzione concettuale ci porta indietro nel tempo fino ad
Aristotele, la distinzione grammaticale tra espressioni sature e insature
risale a Frege (), ed è stata trasferita nell’ambito della linguistica
da Tesnière ().
La presenza di una dimensione relazionale in termini categorematici, cioè ricchi di contenuto lessicale, ci fa scoprire una proprietà

M. Prandi
tutto sommato ovvia ma non banale delle espressioni linguistiche:
nelle espressioni significanti complesse costruite a partire dai termini
relazionali le relazioni sono destinate comunque a riempirsi di un
contenuto a sua volta relazionale: si tratta solo di vedere in che modo.
Nel nucleo di una frase che ha un verbo come termine relazionale
principale – come centro di gravità, direbbe Humboldt – il verbo
riempie di contenuto concettuale una rete di relazioni grammaticali di
per sé vuote . In Giovanni ha potato i meli, ad esempio, è evidente che
il verbo potare riempie di contenuto concettuale, attraverso i ruoli di
agente e paziente, una rete di relazioni grammaticali – soggetto e oggetto diretto – che formano il nucleo. Come il verbo potare, un nome
come potatura, che pure appartiene alla stessa categoria morfologica
di libro, crea una rete di relazioni all’interno di un sintagma nominale;
diversamente da quanto accade al livello della frase, tuttavia, queste relazioni sono immediatamente concettuali. Nell’espressione la potatura
dei meli da parte di Giovanni non troviamo un soggetto o un oggetto
ma immediatamente un agente e un paziente (Prandi : Cap. ).
Da un regime di codifica relazionale, basato sulla messa in opera di
una rete di relazioni grammaticali vuote come il soggetto e l’oggetto
nel nucleo di una frase, si passa a un regime di codifica puntuale,
all’interno del quale un’espressione linguistica rende riconoscibile
almeno fino a un certo punto una relazione concettuale accessibile
indipendentemente al ragionamento coerente (Prandi : Cap. ).
.. Parole sincategorematiche: dimensione relazionale e contenuto
Tornando alle parole tradizionalmente definite sincategorematiche,
è interessante osservare il comportamento delle preposizioni. Le
preposizioni non si comportano mai come parole relazionali vuote. Se
. Il nucleo di una frase può essere definito sulla base di due criteri non isomorfi. Da
un punto di vista funzionale, il nucleo è formato dal verbo e dagli argomenti, e si oppone
ai margini. Da un punto di vista formale, il nucleo è formato da una rete di relazioni
grammaticali – soggetto, oggetto indiretto, oggetto preposizionale, oggetto indiretto – che
si oppone a una rete di relazioni concettuali – per esempio una relazione spaziale, una
causa, uno strumento. Il nucleo formale e il nucleo concettuale non si sovrappongono
necessariamente, in quanto alcuni verbi ricevono argomenti che non sono relazioni grammaticali riempite di contenuto ma immediatamente relazioni concettuali. In una frase
come Paolo è andato a Basilea, per esempio, abbiamo un soggetto, interpretato come agente
di un movimento a partire dal contenuto del verbo, e una meta.
Connessioni e congiunzioni

disegnano relazioni, hanno un contenuto, più o meno ricco ma attivo.
Quando non hanno contenuto, è perché non sono responsabili della
messa in opera di relazioni.
Alcune preposizioni – per esempio nonostante – non possono che
tracciare relazioni piene di contenuto. In una frase come Giorgio è
partito nonostante il cattivo tempo, la preposizione nonostante codifica
una relazione concessiva tra la partenza di Giorgio e il cattivo tempo: il cattivo tempo non ha impedito la partenza di Giorgio. Così si
comportano tutte le preposizioni dette “improprie” e le locuzioni
preposizionali.
Le preposizioni dette “proprie” come a, da, di, su, viceversa, presentano due usi distinti, caratterizzati da funzioni antitetiche: in alcuni
usi, tracciano relazioni semanticamente attive, anche se non necessariamente ricche o univoche. Quando entrano nella reggenza dei
verbi a due posti intransitivi, viceversa, le stesse preposizioni non tracciano affatto relazioni, e tanto meno relazioni piene, ma si limitano
a segnalare relazioni vuote, che emanano dagli stessi verbi destinati a riempirle di contenuto. In una frase come La cicogna ha fatto il
nido sul campanile, su crea una relazione dotata di un contenuto spaziale preciso tra il processo e il luogo che lo ospita: significa ‘sopra’,
e si oppone a sotto, davanti o dietro. In Giovanni conta sui suoi amici,
viceversa, su non crea la relazione tra Giovanni e i suoi amici, che
emana dal verbo contare. La preposizione si limita a segnalare una
relazione grammaticale vuota: nel momento in cui è introdotta da
su, l’espressione nominale i suoi amici è marcata come complemento del verbo contare. La presenza della preposizione nella reggenza
del verbo contare non è motivata dal suo contenuto concettuale, ma
è una tautologia della grammatica italiana. A maggior ragione non
codifica il contenuto della relazione, che viene fornito dalla struttura
relazionale del verbo: gli amici sono i destinatari dell’atteggiamento di
fare affidamento che il verbo assegna al soggetto. In quest’uso di pura
e semplice segnalazione, su non significa ‘sopra’: non ci autorizza a
pensare a una relazione spaziale tra Giorgio e i suoi amici. Per questa
ragione, non fa parte di un paradigma di opzioni – non si oppone a
sotto, davanti o dietro – ma è selezionata dal verbo.
La perdita di pertinenza al tempo stesso relazionale e semantica della preposizione controllata dal verbo non deve essere confusa con una
sua intrinseca povertà di significato. La preposizione di, ad esempio, ha

M. Prandi
un significato molto povero: codifica una relazione subordinativa vuota,
compatibile con un numero imprecisato di contenuti. Tuttavia, anche in
un caso come questo è possibile distinguere il ruolo puramente passivo
della preposizione, al servizio della reggenza di un verbo, dalla funzione
di perno di una connessione, per quanto povera di contenuto. In mi fido
di te, ad esempio, il perno della relazione è il verbo fidarsi, mentre la
preposizione si limita a segnalare la dipendenza del complemento. In un
sintagma nominale come l’albero degli zoccoli, viceversa, la preposizione,
per quanto povera di contenuto, è il perno della relazione. La relazione
concettuale che alla fine sarà pertinente inferire – nel caso del titolo del
film di Olmi, ‘l’albero che è stato tagliato per fabbricare gli zoccoli’ –
riempie di contenuto questa stessa relazione.
La conclusione è ovvia, anche se può sembrare paradossale: la preposizione si svuota del suo contenuto quando si limita a segnalare una
relazione istituita indipendentemente dal verbo. Quando costruisce
attivamente una relazione, viceversa, è inseparabile da un contenuto che riempie la relazione. Il concetto di preposizione come parola
relazionale vuota, insomma, è intrinsecamente contraddittorio.
Date queste premesse, il potere di creare relazioni interessa sia
parole tradizionalmente classificate come sincategorematiche, sia parole dette categorematiche, appartenenti a classi diverse con proprietà
distribuzionali diverse – per esempio verbi, nomi e preposizioni – e
usi diversi delle stesse parole, come nel caso delle preposizioni. Inoltre,
il potere di tracciare relazioni non solo non è incompatibile con la
presenza di un significato pieno ma, al contrario, la richiede.
. Congiunzioni e connessioni
A partire dalle osservazioni precedenti, possiamo ora esaminare il
comportamento delle congiunzioni.
Una congiunzione crea una relazione quando mette in opera una
connessione transfrastica, collegando una proposizione principale indipendente a una subordinata con valore di margine , ma non quando
entra nell’espressione di una relazione completiva.
. Chiamo margini i ruoli non argomentali di un processo, estendendo alla frase
semplice il termine coniato da Longacre (()) per le frasi complesse.
Connessioni e congiunzioni

Quando entra nell’espressione di una relazione completiva, la congiunzione si limita a segnalare la dipendenza della frase argomentale
dal verbo, che per parte sua dà una forma e un contenuto alla relazione.
Esamineremo brevemente questo punto in relazione a due punti: la
scelta del modo verbale, e in particolare del congiuntivo, per quel
che riguarda la forma, e la fattualità del contenuto della subordinata –
completiva o margine – per quel che riguarda il contenuto.
In una relazione completiva, la selezione del modo verbale è controllata dal verbo della principale e non dalla congiunzione. A parità di
congiunzione, verbi come rimpiangere e temere, ad esempio, reggono il
congiuntivo nel registro standard, mentre verbi come vedere e sognare
reggono l’indicativo. Né la congiunzione né il modo verbale, d’altra
parte, influenzano il contenuto della completiva, e in particolare il suo
valore modale, che dipende a sua volta dal contenuto del verbo. In (),
ad esempio, la subordinata è all’indicativo e il suo contenuto è dato
come reale; in () è al congiuntivo, e il suo contenuto è dato come
non reale. In () è all’indicativo e il suo contenuto è dato come non
reale; in () è al congiuntivo, ma il suo contenuto è dato come reale:
() So che Giovanni è partito.
() Temo che Giovanni sia partito.
() Ho sognato che Giovanni è partito.
() Rimpiango che Giovanni sia partito.
Sia la congiunzione, sia il modo partecipano alla codifica di una relazione grammaticale di soggetto o oggetto destinata a essere riempita
di contenuto dal verbo o dal predicato. L’oggetto di temere, ad esempio,
è coerente solo se esprime un fatto non reale, mentre l’oggetto di rimpiangere è coerente solo se esprime un fatto reale. Solo così si spiega il
fatto che un verbo fattivo come dispiacere regga il congiuntivo mentre
un verbo creatore di mondi irreali come sognare regga l’indicativo .
. Con alcuni verbi, possiamo effettivamente scegliere tra l’indicativo e il congiuntivo.
In questi casi, potremmo pensare che la scelta abbia delle conseguenze sul significato. Con
il verbo dire, ad esempio, potremmo pensare che il parlante che sceglie l’indicativo – Dicono
che Matteo è scappato di casa – fa suo l’oggetto della diceria, mentre il parlante che sceglie il
congiuntivo – Dicono che Matteo sia scappato di casa – prende le distanze. Tuttavia, questa

M. Prandi
Tra le completive, ci sono casi nei quali l’elemento di collegamento partecipa attivamente alla messa in opera del contenuto,
interagendo con le indicazioni che emanano dal contenuto del verbo
principale. Il caso più vistoso è quello delle interrogative indirette
focali, che sono introdotte da un ampio ventaglio di parole di collegamento, tra le quali il parlante sceglie in funzione del fuoco sul
quale porta la domanda. In sostanza, si tratta degli stessi avverbi, pronomi e aggettivi interrogativi che useremmo nelle domande dirette
corrispondenti:
() Chiedi a Alfredo che cosa preferisce. (Che cosa preferisci?)
() Dimmi dove ti posso trovare. (Dove ti posso trovare?)
() Gli ho domandato a quale concerto andrà Giovanni. (A quale concerto
andrà Giovanni?)
() Chiedi a Margherita quando posso vederla. (Quando posso vedere
Margherita?)
() Non so perché Alessandro ha l’aria triste. (Perché Alessandro ha l’aria
triste?)
Questo comportamento è simile a quello documentato nella frase
semplice dalle preposizioni che entrano nell’espressione dei ruoli
di localizzazione e meta con i verbo di stato e movimento. Il verbo
definisce il profilo generale dell’argomento – per esempio, si tratta di
una meta, cioè di una relazione spaziale – lasciando alle preposizioni
il compito di definirne il profilo specifico. L’interrogativa indiretta
si comporta in modo simile: il verbo attribuisce alla frase oggettiva
l’espressione del contenuto di una domanda, e lascia alla parola del
collegamento il compito di metterlo a fuoco.
Come le interrogative indirette, e per le stesse ragioni, si comporelegante simmetria è disturbata da un’incertezza sul registro: il parlante che dice Dicono che
Matteo è scappato di casa potrebbe essere un parlante che sottoscrive la diceria, ma non è
escluso che usi un registro medio-basso sprovvisto del congiuntivo. L’osservazione degli
usi di registro basso porta un ulteriore argomento all’idea che il congiuntivo, controllato
dal verbo principale, non dia un contributo proprio al contenuto della completiva. Dato un
periodo come Dubito che Giorgio ha preso il treno, la realtà della completiva è sospesa né più
né meno che in presenza del congiuntivo.