Da: GIUSEPPE LIMONE, Fra ‘poiesis’ e ‘theoría”. La poesia di Corrado Calabrò come ontologia della mancanza e come eros della creazione, Edizioni Palazzo Vargas, Vatolla (Salerno), 2006. 1 Fra ‘poiesis’ e ‘theoría’. La poesia di Corrado Calabrò come ontologia della mancanza e come eros della creazione di Giuseppe Limone 1. Se guardiamo allo sviluppo della scienza moderna, ci accorgiamo che essa, nel guardare alla ‘verità’ come adeguazione al dato, al fatto, al complesso empirico verificabile e misurabile – e separandosi, nel suo guardarla così, dalla filosofia e dalla religione –, ha teso strutturalmente a specializzarsi nella conoscenza di una ‘verità’ che non è custodia del senso e che, anzi, consapevolmente e deliberatamente separa la ‘propria’ verità dalla verità intesa come custodia del senso. Quest’ultima – la verità come custodia del senso – è restata, nello sviluppo di un tale percorso, ascritta alla filosofia e alla religione. Si è trattato, in realtà, lungo questa china, della nascita epistemologica di quella impostazione che poi è stata chiamata, nel Novecento, la distinzione tra ‘fatti’ e ‘valori’. E’ qui uno dei punti cruciali in cui si consuma, a ben vedere, l’evento della secolarizzazione. Se è vero che l’investigazione di verità è in qualche misura il passare dalla frantumazione del ‘due’ alla elaborazione dell’‘uno’, in un tale contesto, invece, il 2 percorso dal due all’uno si compie consumando un preciso sacrificio epocale: il separare la verità come rispecchiamento del dato dalla verità come custodia del senso. Detto in altri termini: l’‘uno’ come meta del percorso è raggiunto al preciso prezzo di decurtarlo di una sua costitutiva metà – forse troppo invisibile per essere riconosciuta. In un tale percorso, il tempo della secolarizzazione arriva a convertirsi in un tempo in cui il dato oggettivo della ‘verità’ viene conosciuto al prezzo di essere scomposto, triturato, dominato, fattualmente riprodotto. Il tempo della conoscenza si realizza, così, decurtandosi della verità come attingimento del senso. Si tratta di un percorso che, d’altra parte, non rimane ascritto alla sola scienza. Perché man mano, catturata dall’asse magnetico segnato da un tale tragitto, incomincia a spostarsi, coinvolta dal risucchio esemplare costituito dalla scienza, la stessa filosofia. La quale sempre più viene spinta, perciò, a modellarsi sullo statuto della scienza e secondo un approccio dettato – in nome della esorcizzanda ‘fallacia naturalistica’ – da una rigorosa separazione tra ‘fatti’ e ‘valori’. La stessa filosofia, quindi, per guadagnare in scientificità, si lascia calamitare nella nuova deriva, che sempre più la conduce a respingere da sé, come ‘senza senso’, ogni problema del senso. Crediamo che siamo pervenuti, oggi, in un tale processo, al punto di non ritorno. Nel senso che, come dagli stessi fatti della 3 storia della conoscenza appare, un tale movimento di secolarizzazione – inteso come precisa opzione verso la ‘fatticizzazione’ del mondo – ha superato la soglia della ‘sostenibilità’. La ‘sostenibilità’, infatti, non è, a nostro avviso, solo problema ambientale (anche se è in questa specifica sede che, come è noto, si è fatto strada il suo segnale di emergenza), perché è problema da configurare – al tempo stesso – a livelli di ulteriore potenza (di seconda, di terza, di quarta potenza): a quello epistemologico, a quello valoriale, a quello interculturale, a quello apicale. A ben vedere, infatti, il principio della ‘sostenibilità’ si rivela, in quanto tale, criterio nevralgicamente transdisciplinare. E’, questo, uno specifico segno dei nostri tempi. In Amartya Sen, premio Nobel dell’economia, per esempio, ne troviamo, oggi, nell’impostazione del rapporto fra economia ed etica, rilevantissime tracce: soprattutto quando si mettono in radicale discussione i feticci epistemologici dell’‘homo oeconomicus’ e dell’ ‘utile’. Ma molti altri sono gli autori che, nella temperie contemporanea, in una visione transdisciplinare specifica, incominciano a sentire, ineludibile, in termini altri il problema della sostenibilità: in termini di sostenibilità della separazione fra i saperi e, al suo interno, di sostenibilità della stessa separazione fra la verità come separata dal senso e la verità come custodia del senso. In realtà, nel mondo 4 contemporaneo, culturalmente non riescono ad sostenibili un’attività accreditarsi e una più come conoscenza, un’esperienza intellettuale e reale che intendano recisamente prescindere dal problema del senso. Da quando la modernità – nel suo lavoro di rifondazione analitica che tutto ha consumato (compreso il suo fondamento) – si è trovata pertanto a rendere conto a sé stessa del senso della sua rifondazione, la sua eredità teorica, di cui tanto bene dà conto la storia del Novecento, si è paradossalmente rovesciata. Non riesce ad apparire più vero, in realtà, che porsi il problema del senso sia un problema senza senso, perché, al contrario, appare senza senso proprio il porsi problemi di verità a prescindere dal senso. Come in una precisa nemesi storica, noi assistiamo forse, oggi, a una paradossale vendetta consumata da un preciso fatto, mai riconosciuto, sui fatti: da quel fatto mai identificato che, pur negato, sempre irresistibilmente risorge e che è il bisogno di senso. Se nel mondo contemporaneo è certamente un fatto l’urgere del desiderio, tra questi fatti, anche se non riducibile ad essi, è il desiderio di senso. Se è vero che, come Ludwig Wittgenstein insegna, l’immortalità della vita non risolverebbe il problema della vita1, è anche vero, analogamente, che l’onnipotenza della ragione non risolverebbe il problema della 1 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di Amedeo G. Conte, Torino, Einaudi, 1964, proposizione 6.4312, p. 80. 5 ragione. Perché, come avemmo già occasione di sottolineare, “la ragione può, certo, sostenere che domandare il senso è problema privo di senso, ma non può – nemmeno invocando Wittgenstein e la settima proposizione del Tractatus – sottrarsi all’ulteriore obiezione: come negare senso al fatto del continuo bisogno di senso e come riconoscere senso, intanto, a una ragione che questo fatto neghi?”2. Ne nascono alcuni paradossi cruciali. A. La ragione, divenuta potenza tecnologica e informatica, non asciuga, anzi alimenta, i suoi bisogni di fondamento e di senso. B. Più la ragione scientifica diventa ricca di dominio, più diventa difettiva di certezze. L’idea ischemica che la ragione si fa della ragione, si rivela, davanti al suo tribunale, una para-noia della ragione – ossia un suo raddoppiamento schematico in guisa di invisibile prigione. Si dà, cioè, una paranoia della ragione proprio là dove occorrerebbe, invece, una metà-noia della ragione3: una ‘ragione’, cioè, che sappia scoprirsi virtuosamente s-fondata. Sfondata in tre punti che costitutivamente le s-fuggono, consegnandola alla sua radicale difettività: a. in senso orizzontale (l’apertura costitutiva alla relazione con l’altro); b. in senso verticale (l’apertura costitutiva a un profondo possibile, mai 2 interamente consumabile in Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, p. 12. Per una penetrante suggestione tratta da questa contrapposizione vedi Eligio RESTA, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 123 e passim. 3 6 rappresentazione, cui non disappartiene il mondo delle emozioni, dell’inconscio, di un complesso vivente non ‘computabile’); c. in senso riflessivo (l’apertura costitutiva alla propria difettiva e itinerante novità). Simile al tiranno di platonica memoria, che tutto può sugli altri e nulla su sé, la ragione tutto può dire di quanto essa fonda, nulla dei suoi fondamenti. Un tale esito ha, a nostro avviso, profondamente da fare con la rivoluzione che nascostamente si annuncia, oggi, per linee invisibili e immense, nei rapporti confinari fra tecnologia, scienza, filosofia, religione, arte e poesia. Su cui non possiamo qui molto dire, ma su cui molto è da dire. 2. L’esperienza va interrogata. Una delle situazioni più istruttive, divertenti e paradossali è quella generata dalla domanda che spesso si rivolge a colui che, per scelta di vocazione, si occupi contemporaneamente di scienza, di filosofia e di poesia – si provi, qui, a pensare a un solo nome: a Gaston Bachelard. La cosa risulta istruttiva, divertente e paradossale perché – nella situazione che ne nasce (e i paradossi sono sempre illuminanti: rompono il sonno dogmatico di chi credeva di pensare senza dogmi) – nella situazione generata da questa domanda ci si ritrova – prima ancora che a mettere allo scoperto il nocciolo nascosto dall’equivoco – a domandare al domandante quale sia, in realtà, il 7 fondamento della sua meraviglia, dal momento che ci sarebbe, forse e piuttosto, da meravigliarsi della sua. Noi crediamo che si apra, qui, un contesto di problemi illuminante, che consente di procedere in modo nuovo, come in un universo rovesciato. Lungo un sentiero di bordi, ossia lungo il crinale dei rapporti fra tecnologia, scienza, filosofia, religione e poesia. Vorremmo, pertanto provare a riflettere per un momento sulla situazione e sulla logica dei saperi separati nell’epoca della secolarizzazione. E vorremmo invitare a immaginare, per contro, i rapporti fra questi saperi secondo una figura geometrica diversa da quella consolidata. Diversa cioè da quella che, permanentemente sottotraccia nell’immaginario di ciascuno, si sviluppa secondo una metaforica del piano geometrico vedendo i singoli saperi come territori complanari, contigui e separati. Proveremmo a invitare, invece, a vedere i rapporti fra i saperi secondo una metaforica volumetrica, in cui essi appaiano, piuttosto che su un unico piano, come coni a basi concentriche e a vertice comune. Proveremmo a far vedere, secondo una simile guisa, ogni cono all’interno d’un altro e lungo la scala di conservazione di un asse e di condensazione di volumi. Riflettiamo. Proviamo a pensare a saperi che, a un certo punto, si avvedano, in un autotest di verifica epistemologica, della inevitabilità – stavamo per dire della irrimediabilità – del 8 problema del senso. Nella misura in cui i saperi si riappropriino, in maniera pur differenziata, dei problemi del senso e della loro inespungibilità, essi sono costretti, in realtà, nel reciproco cercarsi, a individuare una nuova modulazione nell’idea dei propri rapporti di confine. In questa prospettiva, appare come la scienza, e soprattutto la scienza sperimentale, ossia l’attività cognitiva che più accentuatamente si dichiara lontana dai problemi del senso, sempre più ripetutamente invece oggi se li ri-ponga. E appare altresì come, nel riporseli, li ponga alla filosofia – quella stessa che fino a poco prima, paradossalmente, per modellarsi sulla scienza, li aveva progressivamente accantonati espungendoli dall’orizzonte della sua ragione. Oggi il panorama delle scienze e delle consapevolezze muta, anche troppo velocemente per chi non vi si era teoreticamente equipaggiato. Nascono, non a caso, in un tale contesto, per uno straordinario Zeitgeist, la bioetica, la biopolitica, l’ecoantropologia, l’ecofilosofia, e tanti altri territori teorici incrociati, perfino meticci, che, dati i corti circuiti sviluppatisi fra i saperi, non riescono a non nascere. Ciò che appariva senza senso, si trova improvvisamente proiettato al centro del senso. Ciò che appariva scientificamente autonomo si trova improvvisamente interrogato sulla scientifica sostenibilità della propria autonomia. Ciò che appariva metodologicamente rigoroso 9 si trova messo in questione sulle stesse radici epistemologiche del suo rigore. Un illustre pensatore (Stephen Toulmin) ha, come è noto, scritto che, con la bioetica, la medicina ha salvato la vita all’etica, dando l’abbrivo ad altri che, sulla sua scia, hanno detto che l’etica ha salvato la vita alla filosofia. La medicina, quindi, avrebbe salvato la vita alla filosofia. La boutade è bella, ma è falsa. Noi risponderemmo a tutti, con garbo ma con determinazione, che questo loro pensiero è viziato da una Fata Morgana operante alla radice: perché è stata la bioetica, forse, a salvare – in Toulmin e in coloro che hanno pensato sulla sua scia – la possibilità di capire che cosa è la filosofia. E a svegliare dal sonno dogmatico i tanti che credevano di saperlo. Provando, pertanto, a immaginare diversamente il rapporto fra i saperi, cerchiamo di figurarci una scala specifica che ‘salga’ dalla scienza alla filosofia alla religione alla poesia lungo l’asse di una permanente comunanza di vertice e di una progressiva condensazione di volumi. Proviamo a immaginare, cioè, un tale rapporto osservando come la scienza e la tecnoscienza, in quanto scoprono di aver bisogno di senso, ne facciano richiesta alla filosofia, e a immaginare come la filosofia, in quanto scopre di aver bisogno di reinvestigare sul senso, ne faccia richiesta alla religione, proprio mentre quest’ultima, a sua volta, ulteriormente si sente spinta a rivolgere la propria richiesta di senso, 10 consapevole o inconsapevole che sia, alla poesia. Nell’immagine dei coni concentrici, di cui dicevamo, il cono a base più ampia risulta contenere al suo interno – a base concentrica più stretta e a vertice comune – un altro cono, che, a sua volta, ne contiene uno più interno – in un percorso sempre più denso e radicale. Nell’ordine in cui li avevamo precedentemente indicati, riappaiono, quindi, scienza, filosofia, fede religiosa, poesia. Limitandoci al contesto in cui oggi ci poniamo, diremmo, a questo punto, che, posto il cono della scienza, è nel cono interno della filosofia che si condensa il nucleo di senso di cui la scienza scopre di aver bisogno; e che, posto il cono della filosofia, è nel cono di una fede che si condensa il nucleo di senso di cui si scopre abbisognevole la filosofia, e che – ancora –, posto il cono di una fede religiosa, è nel cono della poesia che si condensa il nucleo di senso di cui scopre avere bisogno la fede. Un tale ordine di implicazioni progressive dice, in realtà, non solo la non espungibilità del bisogno di senso da ogni sapere (scientifico, teoretico, etico, religioso, poetico e poietico che sia), ma anche, al tempo stesso, la non collocabilità della scienza (ove mai venga fraintesa in una logica di pura ‘funzione calcolante’) fuori dei problemi della filosofia, la non collocabilità della filosofia (ove mai venga fraintesa in una logica di pura ‘evasione contemplativa’) fuori dei problemi di una fede e la non collocabilità della poesia (ove mai sia fraintesa in una logica di 11 pura ‘evasione emozionale’) fuori dei problemi del pensiero4. Se c’è una parte dei saperi – di ogni sapere – che ricorda la vita del mondo, c’è un’altra loro specifica parte che ricorda il mondo della vita. 3. E’ all’interno di questo medesimo discorso che può, a nostro avviso, comprendersi il ruolo epistemologico di cerniera svolto dalla metafora. Che, come è noto, non è solo della poesia. Perché, anzi, la strategia metaforica può, andando ben oltre un mero significato ornamentale, avere una sua precisa valenza epistemologica, che è, non a caso, all’origine delle rivoluzioni conoscitive e scientifiche. Come si sa, la rivoluzione teorica di Newton inserisce in una nuova area mentale comune la caduta dei gravi e l’attrazione fra i corpi celesti; e, d’altra parte, la ‘rivoluzione copernicana’ di Kant inserisce in una nuova area mentale comune l’oggettività dei fenomeni naturali e l’oggettività del suo ordinatore, il soggetto. La ‘metafora’ costituisce, da questo punto di vista, nient’altro che una rivoluzione dei confini. E la metafora poetica, la grande metafora poetica ne è una precisa species nell’ordine proprio. Walter Benjamin, nel suo discorso sulle Affinità elettive di 4 Lungo quest’itinerario ascensionale può essere ben collocata la stessa religione – tra la filosofia e la poesia – nella misura in cui la religione si radica in un senso che rivendica un fondamento oggettivo, laddove la poesia, cui la religione ancora ascensionalmente rinvia, si radica in un fondamento la cui ‘oggettività’ è in sé stessa. 12 Goethe, guardando al doppio ruolo di Goethe quale poeta e quale scienziato, l’aveva profondamente capito5. In questo senso, la metafora è il luogo in cui scienza, filosofia, religione e poesia trovano – ciascuna a suo modo – una propria possibile strategia di individuazione – in uno spazio a più dimensioni – di aree comuni. In questa figurazione dei coni concentrici noi possiamo forse, a questo punto, meglio capire come, mentre la scienza, non custodendo il suo senso, da cui pure non può interamente prescindere, chiede soccorso alla filosofia, la filosofia, che pur investiga il senso, non riuscendo a esplicitare fino in fondo il senso del suo senso, chieda soccorso a una fede – e possiamo meglio capire, ancora, come una fede, pur custodendo il suo senso, chieda, consapevolmente o inconsapevolmente, soccorso alla poesia. I saperi dell’uomo sull’uomo – e dell’esserci sull’essere – corrono, qui, lungo una fuga di coni, in modo nascosto e irresistibile, verso un nucleo comune. In questa prospettiva, se la filosofia custodisce il senso che la scienza le chiede, e se di tutto questo viene ancora rivolta domanda alla crucialità di una fede, la poesia custodisce, per così dire, il senso del senso del senso. Se non potremo vivere senza scienza, non potremo vivere nemmeno senza filosofia, né senza una fede, né senza poesia. 5 Ci permettiamo, qui, rinviare a Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, pp. 81 ss. 13 Giova precisare che un tale itinerario non significa affatto che la scienza, la filosofia e la fede debbano, per conseguire senso, rivolgere domanda a ciò che è fuori da sé, ma significa, piuttosto, che è necessario far emergere, dallo status cognitivo dei saperi, ciò che la modernità ha occultato e che bisogna, nella risposta a una simile crisi, consapevolmente recuperare: ossia, la comunanza – fin dall’origine – di un asse e di un nucleo comuni, che ogni sapere declina a modo suo e che il percorso della modernità è sembrato espellere come estraneo e impuro, costringendolo a rifugiarsi e a concentrarsi solo nella religione e nella poesia. 4. Vorremmo soltanto far riflettere, qui, per un esempio significativo, sul destino della matematica, oggi. La matematica aveva sempre avuto – fin da Platone, fin da Pitagora, fin dagli antichi – un ruolo centrale. Ma, allora, la matematica aveva, al tempo stesso, un’anima che le dava senso: un’anima ontologica, simbolica, sacra. A ben guardare, oggi, nel regime della secolarizzazione come ‘matematizzazione’, divenuti profani i numeri che ne costituiscono il tracciato, ci troviamo davanti a un platonismo dimezzato. E ciò diciamo senza parlare, per adesso, di quella matematica che è diventata una pura retorica della persuasione. In questo senso, il ritorno del problema del sacro, oggi, non è altro che il ritorno del problema del senso. 14 Perché interrogare la poesia su questi nodi? Perché riteniamo che ciò sia illuminante e cruciale. Noi possiamo infatti assistere, nella poesia e nell’arte, a un ribaltamento dei significati. Se ogni rivoluzione è una rotazione nello sguardo del guardante, noi oggi possiamo, in una riflessione sull’arte e la poesia, far ruotare l’attenzione del pensiero per capire che cosa una tale rotazione ci rivela. In che modo? Si pensi alla Gestalpsychologie. La quale rileva come nel fenomeno della percezione di figure e di sfondi, prima e più fortemente dell’esperienza percettiva passata, giochino indici strutturali che tendono a far vedere qualcosa come figura e il resto come sfondo: ed è da qui, come è noto, che si sviluppano le analisi delle cosiddette ‘illusioni ottiche’ – che, a ben guardare, non sono altro che reali fenomenologie del guardare. Noi segnaleremmo, in tale contesto, come anche per l’arte e la poesia sia, in qualche misura, percettibile una verità teatrale nel rapporto figura/sfondo: una verità di cui la poesia e l’arte hanno, oggi più che mai, una sapienza strategica segreta. Se infatti riusciamo a guardare il rapporto fra ‘essere’ e ‘simulazione’ come rapporto tra ‘figura’ e ‘sfondo’, ci accorgiamo che la poesia riesce ad attivare, nel suo orizzonte creativo, il miracolo per cui la figura diventa sfondo e lo sfondo figura. La simulazione diventa essere e l’essere, suo sfondo. La poesia, attivando infatti gl’indici strutturali che fanno parte della sua costitutiva sapienza 15 emozionale, apre un ‘essere’ altro rispetto al reale a cui si era abituati. La figura diventa sfondo; lo sfondo, figura. Il soffio che genera questo, è il soffio dell’arte. In un miracolo di tocco, che è proprio della grazia del creare. In un tale contesto, quindi, accade un preciso ribaltamento nel rapporto fra il due e l’uno, fra il dubbio e la verità. Quasi come in un celebre film di Jodorowski, i fari della scena invertono improvvisamente la loro direzione: lì, nel film di Jodorowski, sugli spettatori; qui, su quella verità non rinnegabile che è nel desiderio di verità. E’ anche questa la specifica ‘sospensione di incredulità’ di cui si è autorevolmente parlato (Coleridge). Si tratta, in realtà, della capacità di attivare un nuovo livello di esistenza, reso percettibile e vivo da un segreto ‘commutatore di banda’ – l’evento della poesia6. E’ la situazione di cui sempre la poesia vive. Dentro l’uno c’è il due – il che ne è anche l’anima segreta. Dentro la verità del vissuto c’è il vissuto della verità. Ciò che la conoscenza vive nel duale quesito sulla contraddizione logica, la poesia vive nell’unico volume dell’opposizione reale. Diremmo che è in questo preciso senso che, come è stato ben detto, la poesia non deve significare ma essere. 6 Sull’immagine felice del ‘commutatore di banda’ vedi Corrado Calabrò, “L’attesa del mancante”, in ID., Una poesia per il suo verso. Poesie (1960-2002), Introduzione di Dante Maffìa, Mondadori, Milano, 2002, p. LII. 16 5. C’è da porsi, qui, una domanda. Qual è, in un tale contesto, il significato epistemologico di questo rovesciamento strutturale di percezione di esistenza? Diremmo che è appunto il rapporto fra itinerario di ricerca e verità. Se, infatti, in certa misura, in ogni scienza cognitiva, l’itinerario di ricerca è lo sfondo di cammino a partire dal quale si cerca la figura dell’essere e della verità, tutto ciò, nel mondo della poesia e dell’arte, improvvisamente, come in uno spaesamento gestaltico, si rovescia: è l’itinerario di ricerca, infatti, ad acquistare volume d’essere, ad essere densità di vissuto, ad essere figura. Il poeta sente la forza medianica del vivere in un altro mondo dell’essere: che è mondo altro, ma vero. Ed egli, sentendo di viverlo, l’esprime – perché altri lo viva con lui rigenerandolo a cascata. La figura verso cui egli psichicamente puntava si è rovesciata in sfondo, perché è il suo stesso itinerario ad essere, ora, il vero essere: figura. La poesia, in questo senso, istituisce, con un colpo di spaesamento strutturale, un altro livello dell’essere, un’altra forma d’esistenza. Occorre un ‘commutatore di banda’ per vederlo. Solo così percepiremo un tale livello simbolico – ove si assuma il ‘simbolico’ in senso forte, ossia come forma vera di realtà, come territorio reale, emerso da quel gorgo emozionale che è eruzione, divisione e gravitazione reciproca di lacerti. Là 17 dove si costituisce, contemporaneamente, un livello di esistere e un ‘altrove’. In un gioco molteplice in cui l’assenza si converte in presenza e la presenza in assenza. Reistituendo senza sosta il travaglio del cercare. Riflettiamo. In uno specchio noi viviamo dimezzati – o raddoppiati – eppure potremmo viverci con una sensibilità altra che ci farebbe vedere – dall’interno di quel doppio dislocato – chi ne è fuori come una proiezione simulata. Allo stesso modo, per la sua potenza di evocazione da mancanza vive il poeta. Egli appartiene, da povero, a un mondo ricco – che non sarebbe veramente ricco se non fosse soprattutto ricco di questa sua povertà. Possibile orfano del mondo eppure recandolo dentro, possibile custode del senso eppure vivendone straniato, il poeta sa di poter istituire altri mondi proprio per la paradossale ricchezza della sua povertà. In un tale contesto, il ‘dubbio’ è non più procedura, ma livello reale di esistenza. Non più (provvisoria) contraddizione logica ma opposizione e travaglio reali. Non più alternativa mentale fra proposizioni, ma ontologico volume. Volume d’essere in cui il desiderio di verità è diventato la verità del desiderio. Là dove l’inquietudine, il nodo, l’Angst, la gioia, lo sgomento da meraviglia, il travaglio, il coraggio, il perdono non sono più procedure verso la verità, ma la verità stessa che si rifrange, 18 attraverso i cristalli del vissuto, nel proprio irredimibile sostare in un equilibrio incantato. In questo senso, la poesia è il regno dell’inconscio intelligente del poeta7. Come abbiamo ricordato in altra sede, il suo regno è, a suo modo, il platonico regno del mito di Er. C’è infatti, a nostro avviso, un modo, simbolico e metaforico insieme, di incontrare le due esperienze dell’arte e del sacro. Modo duplice, che rinvia alle due possibili facce di un mondo comune. E’ il mito di Er. Se nell’universo del testo d’arte, infatti, riusciamo a immaginare le parole e le forme come reali corpi viventi, il loro vivere e abitare la pagina – o il testo sonoro, o la tela d’arte – è, per notevoli versi, modo multiplo che sembra inconsciamente obbedire alle linee metafisico-narrative del mito platonico di Er. Come è noto – e come Platone racconta – Er, morto in guerra e tornato in vita dopo il decimo giorno, narrò quanto aveva visto nel mondo di là8. Ogni anima sceglieva la vita che avrebbe nella sua prossima incarnazione sulla terra vissuto. “Non sarà il demone a scegliere voi, ma voi il demone. Il primo estratto sceglierà per 7 Vedi Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997. Siamo tornati su questo punto in una Relazione al Convegno dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione, tenuto il 22.6.2002 a Roma, su ‘Religione, estetica e il concetto di immaginazione’, presso l’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, Facoltà di Filosofia, Villa Mirafiori, saggio pubblicato in www.aifr.it, “Giornale di Filosofia della Religione”. 8 Platone, Repubblica, X, 614 b ss., in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1991. 19 primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità” (617 e). La vita di ognuno viene a costituire, cioè, la precisa intersezione tra forze del tutto diverse fra loro: “caso”, “scelta” e “necessità”. Anche la parola, il suono, la forma, convocate davanti all’ispirazione poetica a scegliere il modello di vita che vivranno nella storia della pagina, sceglieranno – in base alla sorte che la vita precedente ha loro assegnato e in base al caso sortito (<<la scelta dipendeva, per lo più, dalle vicende della vita precedente>> : 620 a) – il modello di vita a cui saranno, poi, per necessità, destinati. L’incarnarsi della parola e delle forme nel testo – nel loro cadere specifico, tra gl’infiniti possibili, in quel modo e in quel mondo – si rivelerà derivare, perciò, sia dalla vita storica anteriore di cui il loro significato è custode e dal caso in quel momento toccato (la sorte), sia dalla scelta che l’inconscio intelligente del poeta ne farà (la sua libertà), sia, infine, dal contesto determinato in cui il loro interagire troverà il proprio individuato destino (la propria necessità). L’inconscio intelligente del poeta – convocato dalla sua ispirazione a questa scelta faticosa e perenne nel corso del proprio atto creativo – dovrà quindi, momento per momento, e condizionato dal carico di sorte impostogli dal vissuto, appunto scegliere – per ogni parola e spezzone sintagmatico e all’interno degl’infiniti possibili – quell’universo testuale di connessioni in 20 cui essi saranno, poi, costretti a giocare il proprio contestuato destino. Avverrà, così, che l’inconscio intelligente del poeta potrà, a livelli di invisibili comunicazioni freatiche, dialogare con un altro inconscio intelligente, quello di colui che, fruitore del testo, ne sarà maieuticamente scavato. E che, col testo dialogando, lo alleverà e ne sarà allevato istituendo col suo mondo simbolico – per risonanza e rigenerazione continue, a riflesso e a cascata – un intero multiverso comune. Se un sapere, in ogni sua forma, è desiderio di verità, c’è un suo livello specifico che non può non investigare la verità del desiderio – la verità del suo desiderio. Dentro ogni desiderio di verità c’è la verità del desiderio. Si tratta di un nucleo – esterno e interno all’investigare stesso – in cui ogni desiderio di verità non può non sentirsi mobilitato a interminabilmente e sapientemente scavare. 6. Sono grato al kairòs che mi ha fatto incrociare la poesia di Corrado Calabrò. Si tratta di una scrittura lirica complessa, cólta, ricca, cromatica, pensante, a più strati, capace di essere – al tempo stesso – palpitante e sommessa. Vi si coglie una grana di respiro in cui l’inconscio intelligente del poeta sa darsi – in una sommersa strategia – lungo una personalissima koiné di sentire e pensare. 21 Preso nell’avventura pulsante di una tale poesia, il lettore si riconosce percipiente e pensante, dialogante e spettatore, Orfeo e Ulisse, navigante d’anima e cursore di colori. Coinvolto in un labirinto magnetico che è la storia dell’uomo, chi legge è condotto, così, a sperimentare un grande viaggio interiore lungo i flussi e i colori del Mediterraneo, in un movimento a figure mobili, a invenzioni perenni, a sistole e diastole di venti, a percorsi pericolosi e screziati. Perché il mare di Corrado Calabrò è la sua stessa anima – e la sua poesia. Ci si sente, guardando questo mare, come davanti a una notissima opera di Max Ernst, straordinaria concentrazione di figure e di forze, L’esplosione della cattedrale – là dove un intero universo in frantumi racconta, in un unico sguardo, più livelli del senso, generando una suggestione che restituisce più mondi nell’imbuto d’un solo caleidoscopio: vivo, pulsante, complesso, come un polpo di colori. D’altra parte, è l’inconscio poetico dello stesso Calabrò a vivere i sonar di una simile suggestione. Si guardino, in proposito, alcuni versi di Colpo di luna9: “Forse il mare è istoriato/ come l’immensa vetrata/ d’una cattedrale sonora”. Si noti. Il mare è, al tempo stesso, un corpo dei sensi e un bene della storia, un luogo dell’anima e una pagina d’arte, un evento 9 Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso. Poesie (1960-2002), Introduzione di Dante Maffìa, Mondadori, Milano, 2002, p. 31. 22 uditivo e uno spaccato interiore. In una tale stratificazione di sensi entrano, così, in risonanza, come nei vetri di una cattedrale – percossa da suoni e/o costituita di suoni – più livelli di significato. Perché il mare di Corrado Calabrò non è solo un mondo, ma una metafora del mondo. Anzi, una metafora di mondi e un mondo di metafore, che si fanno un unico mondo. Un multiverso dell’anima, dalla molteplice e lacerata bellezza. Bello perché perennemente in frantumi. Frantumato perché puntinato di ansie. Unico perché ricco di legami. Pensoso e dolente, eppure, all’acme dell’anima, invasiva isola felice. Tutti i colori del Mediterraneo – tutti i colori della Grecia e della Calabria – diventano, qui, in una ritessitura di piani, le mille macchie solari della nostra vita. E, d’altra parte, l’assonanza sommersa che si vive fra l’‘acqua’ e il ‘vetro’ è, nell’inconscio creativo del poeta, ben radicata. Si guardino, solo per un esempio, altri precisi luoghi lirici del Nostro: “S’allunga il fiume nel golfo invetriato”10 e “Le navi che imboccano la rada/ entrano nella sua vetrata azzurra”11 (si noti: la vetrata è quella dell’Hotel Naxos, eppure in essa si rivela, in realtà, un altro volto del mare: che nasce da un trasmutarsi felice tra la sua azzurra vetrata e il movimento delle onde). 10 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, Newton & Compton, Roma, 2004, “Una lama nel miele”, p. 25. 11 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39 (“Entra negli occhi senza farmi male”). 23 7. Come può osservarsi incrociando i due modi di nominare l’uomo nella tradizione romana e greca – l’uomo quale ‘homo’ e l’uomo quale ‘anthropos’ –, l’‘uomo’ è sia ‘humus’ (‘terra’), sia ‘ho anà trépei’ (‘chi guarda in alto’ – o, anche, ‘chi guarda da luogo alto’12). Quest’‘uomo’ appare, pertanto, – in una tale lettura incrociata – un essere fatto di terra che guarda in alto. Corrado Calabrò, nella sua sapienza lirica, lo sa. Potremmo anche dire, in un tale orizzonte, che la sua poesia è un proprio originale viaggio nell’ètimo della tradizione occidentale. Con una sola variazione, forse, da apportare, che non ne sposta il significato, ma l’arricchisce: l’uomo è un essere di terra e di mare, che guarda in alto. Non inganni il linguaggio palese del testo. Si tratta, invece, a ben guardare, di una poesia ad alto rischio ermeneutico. Suscettibile di opposte interpretazioni. Che, non a caso, ha corso il pericolo di essere inscritta, ad opera di interi e opposti filoni critici, o nell’una o nell’altra lettura. C’è, infatti, chi la vorrebbe, sostanzialmente, poesia descrittiva, cromatica, estroflessa, della 12 Per queste e altre riflessioni si veda in Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegòmeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2001, spc. cap. I. 24 natura e del mare, e chi la configura, invece, come poesia di meditazione, soggettiva, introspettiva, interiore13. Né l’una né l’altra cosa, diremo, qui, con determinazione. E non perché si debba sempre cercare – nell’enucleazione di caratteri certi all’interno di una contesa – un’obbligatoria ‘terza via’. Ma perché la poesia di Corrado Calabrò batte una via altra rispetto a queste due ipotesi interpretative. Altra perché alta. Diremmo, perciò, che, per entrare in una simile lirica – nel Mediterraneo della sua liricità –, dobbiamo saper entrare con forza e delicatezza nel segreto della sua filigrana metafisica. Il poeta, in realtà, dissemina e nasconde, con celata maestrìa, i nodi del proprio centro profondo – il ‘logos’ complesso del suo sentire e pensare – proprio mentre, per una istintiva fedeltà a sé stesso, non lo dice né lo nega – ma, come il dio di Eraclito, accenna. Guardiamo, per mero esempio, le poesie edite dalla Newton & Compton14. Poesie d’amore, dice il titolo. ‘Antologia’, dice il commento interno. Né l’una né l’altra cosa, diciamo noi. Né l’una né l’altra cosa perché la poesia di Corrado Calabrò s’inscrive – per impasto lessicale, timbrico, semantico, simbolico – in un universo sui generis, ad alto profilo di originalità. Un universo la cui filigrana è metafisica (metà tà physikà) – anzi, ontologica. 13 Dà conto di questo dibattito a più voci, con fine maestria, Dante Maffìa nella sua Introduzione a Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso. Poesie, cit., pp. III ss. 14 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, Newton & Compton, Roma, 2004. 25 In questo senso, il percorso poetico del Nostro ha una sua trama essenziale, che, pur fra variazioni, si mantiene sempre verticalmente fedele al suo asse, alla sua originaria profondità. Si tratta, infatti, di una matrice di vita che, al tempo stesso, genera e manifesta pensiero: per farne colare – come da stampi retrostanti il medesimo atto del pensare – figure, nodi, varchi, oscillazioni, colori, picchi di forme, estasi, bagliori, emergenze di brividi emozionali che sono, contemporaneamente, esplosioni di pensieri. Nati in una condizione ambivalente e indecidibile in cui il sentire è pensare e il pensare è sentire, questi pensieri hanno un corpo, perché erompono come incessanti proiezioni di vita. Perché il vissuto lacera – e il suo evento poeticamente produce, come accade al Pier delle Vigne dantesco, parole e sangue, sentire e pensare, contemplazione ed emozione. Corrado Calabrò sa della dimensione profonda della sua poesia. Sa, ma stando attento a non dirne il segreto. Si apre, infatti, nel suo dire poetico, una dimensione forte e sommersa, qual è quella che si vive oltre lo specchio – nella quinta dimensione. A chi guardi, con la necessaria acutezza di analisi, questa poesia, appare, infatti, che la sua architettura opera – nel corpo d’un unico esprimersi – a più livelli e in più guise. E può, a un certo punto, scoprirsi che quanto Corrado Calabrò dice, a un primo livello, del suo oggetto – il mare, la donna, la natura, l’amore –, egli lo dice poeticamente, al tempo stesso, a un 26 secondo livello, del suo stesso dire l’oggetto (l’anima, la poesia). E ciò che Corrado Calabrò dice del suo dire l’oggetto, egli lo sta, al tempo stesso, dicendo di ciò che, a un terzo livello, – alle spalle del suo stesso dire – egli occultamente percepisce premere sotto la sua opera di poeta: l’essere. L’essere e la sua – inafferrabile e dura – vicenda metafisica. Ed è forse anche qui la segreta ragione per cui in questa poesia si fa tanto largo il lavorío concettuale e metaforico della scienza contemporanea. Perché questa scienza è – col suo lessico con le sue metafore con le sue intuizioni costruzioni e invenzioni – thesaurus immenso di una fantasia teoretica che solo pochi comprendono come complesso di incursioni segrete nel mondo dell’esistere – quasi colpi di sonda nel vissuto puro (per dirla con Henri Bergson). Abbiamo, così, l’essere e le sue fughe di forme. L’essere e i suoi varchi di colori. L’essere e le sue vertigini emozionali. L’essere e i suoi spaccati di riflessioni. L’essere e i suoi legami. L’essere e le sue perenni ferite. Qual è – qui – la vicenda di cui la poesia medianicamente proietta – come in un mito platonico della caverna, come in una chimica di vissuti – davanti agli occhi del lettore le forme, quasi ombre cinesi nello psicodramma dell’esistenza? 27 Come Calabrò sottolinea, siamo tutti, da sempre, impigliati in un “filo sottile e tagliente”, che è “infossato nel vivo”15: “Nemmeno tu puoi estrarmi questo filo/ lungo rigido filo”16. Si tratta di una consapevolezza segreta, seminata in più pagine, che, pur fra loro diverse e lontane, sono ipertestualmente contigue, se non accomunate in una sola: “Sottile come un capello/ è questa incrinatura”. “Sta sottilmente in agguato/ come il filo immerso nell’acqua/ che prende il pesce alla gola”17. Sta. Come filo alla gola. Come spina piantata nell’anima. Come lima insaziata18. E’ il filo dell’esistere. Anzi, il filo dell’ inevitabile esistere. Di cui è forma fatale il filo d’amore. E, nel luogo d’amore, la donna. Non però nel senso che l’amore sia un settore, un momento, un segmento della vita. Ma nel perentorio senso che l’amore è la vita – l’altro nome della vita. Anzi, dell’essere. Alfonso Gatto aveva già scritto, in un’ introduzione alle sue liriche, che “amare è invocare fisicamente tutto l’essere”. Potrebbe dirsi qui, lungo un tale sentiero, senza peraltro nulla concedere al gusto del paradosso, che la metafisica dell’essere è, in questo senso, tutta la fisicità dell’amore. Là dove una simile ‘fisicità’ non è una fisica del solo corpo, ma di quell’intero ‘tutto’ 15 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 43. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 43. 17 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 49. 18 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 49. 16 28 che complessivamente ne risuona. Perché l’anima e il corpo si fanno un tutt’uno, come in una musica sola. Stando nella corporeità del tempo. Nella fisicità della voce. Nella carne dell’anima. Stando nell’amore. Perché l’amore non è un piccione viaggiatore da evasione domenicale. Esso è un seminatore di pene, di gioie, di attese, di ritorni, di nodi alla gola, di coercizioni a perdoni, di nuove lacerazioni improvvise, di grazie, di addii, di sterminate necessità. E, nell’amore, la vita è quanto gira in un irrimediabile gorgo, che è, al tempo medesimo, tyche, anànche, mare, vento, magma, tempesta, vertigine, filo che sgozza, ferita, contorsioni di pescispada nel mare, nostos, luci, tramonti, bianco di luna, sangue che si espande a luna spenta… E’ per questa perentoria ragione che noi qui critichiamo tutte le concezioni ermeneutiche che – con mútila angustia di lettura – vedono nella liricità di Corrado Calabrò una poesia della natura. O una poesia dell’amore e della donna. O una poesia della natura e dell’amore. O una poesia descrittiva. O una poesia introspettiva. Nulla di tutto ciò, a nostro avviso. Perché, per capire l’itinerario creativo del nostro poeta, occorre saper guardare, per così dire, al suo percorso controluce. Emerge, da un simile gesto di comprensione, una filigrana metafisica che vi è in straordinaria evidenza sepolta. Come la lettera rubata di Edgar Allan Poe. O come le verità nascoste in primo piano di René Girard. 29 Una tale liricità ci ricorda, perciò, – in un paradossale commento a Platone – che oggi a noi spetta comprendere il fatto cruciale che non noi commentiamo l’eros del mondo, perché è ognuno di noi un commento all’eros del mondo. Un commento transustanziato in persona. Non l’eros – infatti – gira intorno a noi, ma noi giriamo intorno all’eros – sue oscillazioni complesse, elevate a coscienza di sé. Si tratta, qui, appunto, di un commento straordinario a Platone. Donde possiamo veder emergere, forse, due coordinate precise: La prima. Amore, come afferma lo stesso Platone nel Simposio, è figlio di Poros e Penía. In due sensi. Sia nel senso che è figlio di Ricchezza e di Povertà. Sia nel senso che è figlio di Espediente e di Povertà. Là dove noi possiamo cogliere, forse, ancor meglio, una verità profonda e inascoltata. Che l’amore è un mancare. Ma che esso è – al tempo medesimo e proprio per questo – un eccedere. Ed è un mancare in quanto eccede – e un eccedere in quanto è mancare. Nel preciso senso che il suo mancare indica una direzione : ed è appunto questa sua indicazione energetica di senso a costituire quell’‘eccedere’ che rende il mancare infinitamente più ricco di quanto, a un occhio esteriore, potrebbe apparire. Ma, a questo punto, potremmo scoprire ancora meglio la natura del Poros, di cui Eros è figlio. Perché il ‘Poros’ è, anche, il ‘sentiero’, il ‘passaggio’, la ‘via’: ossia quella scoperta di un 30 attraversamento adeguato che indica una direzione. Se Eros è figlio di Poros e di Penía, qui noi possiamo trovare, perciò, una strada di conferma linguistica a quanto dicevamo: Eros è una mancanza, quella mancanza (‘penía’) che sa aprirsi, dentro il suo mancare, un sentiero, un senso, una direzione. Veniamo alla seconda coordinata, che è anche la seconda considerazione. Guardiamo al mito di Zeus che taglia gli uomini – anzi ogni uomo – in due metà, in conseguenza della loro rivolta contro di lui. Ci domandiamo: perché mai Zeus taglia l’uomo? E’ una punizione, la sua, come la vulgata mitica dice? O si tratta, più profondamente e oscuramente, di una necessità? Non si tratterà, per caso, di un’apparente punizione che cela, in realtà, una necessità più antica e inquietante, cui lo stesso Zeus soccombe? Non si tratterà, per caso, qui, dell’intuizione ancestrale per cui – come il nostro inconscio profondo sembra talvolta sapere – un uomo, per essere uomo, deve continuamente esser sottoposto al dividersi per un oscuro ‘deve’ di cui egli e Zeus stesso non sanno le ragioni? (E parliamo, come è chiaro, dell’uomo con la ‘u’ minuscola, non di quello con la ‘U’ maiuscola, che non si sa nemmeno chi sia). C’è un notissimo testo di André Gide, il Prometeo mal incatenato, in cui l’autore, parlando di Zeus, lo configura come colui che, per pura potenza, può colpire chiunque egli voglia colpire senza dover giustificare il suo gesto. Ci si domanda: Zeus 31 non giustifica il suo gesto perché non ne ha bisogno o perché un tale suo gesto rivela, invece, una necessità più profonda che egli stesso non governa e che, anzi, subisce? A partire da tali domande si avverte – nel fondo dell’essere – il lampeggiare di una necessità oscura che comanda a ogni esistente uno scindersi e un cercarsi – necessità cui si oppone, intanto, un’altrettanto oscura necessità, che continua a riesigere, sempre, l’assenza del presente e la presenza dell’assente. Perché l’essenza è un dono dell’assenza e perché l’assenza è il furto perenne costituito da ogni presenza. Ci troviamo, qui, a ben vedere, davanti alla logica simbolica del sacrificio. In cui non a caso risuona un nome antico e terribile: il sacro19. Nella poesia di Corrado Calabrò c’è, nel suo dir dell’amore, come l’inquieta e perenne consapevolezza di una straniante verità: “…Meglio non saperlo. /L’assenza di motivi può spiegare/ di per se stessa una separazione”20. 8. Chi divide, produce un mancare. Ma, al tempo stesso, un eccedere. La metà divisa, infatti, aspira oscuramente a cercare quanto le manca. Anzi, essa è, nella sua stessa struttura, un oscuro presagio ontologico di ciò che costitutivamente le manca. Come un figlio che cerchi la madre ignota, di cui non sa, pur sapendo 19 Si veda, per una tale analisi, ancora: Giuseppe Limone, Il sacro come la contraddizione rubata, cit. 20 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 110. 32 che c’è stata, che c’è e che ci sarà. Come nel possibile, sempre nuovo richiamarsi delle piattaforme geologiche, nate dalla vicenda dei continenti alla deriva. Siamo – qui – condotti sul ciglio di quel più profondo sapere che è inscritto nelle viscere del non sapere. Chi gliel’ha detto – alla metà che cerca l’altra metà – di cercare? Chi gliel’ha detto – alla metà cercata – di farsi cercare? Nessuna delle due sa, eppure è precisamente nel loro non sapere il grembo ontologico del loro lancinante sapere. A ben guardare, l’intera vicenda umana del lasciar tracce e del cercar tracce – dell’‘essere fecondi di tracce’ e dell’‘esser cercati nelle proprie tracce’ – mostra una irresistibile e strana vicenda di simmetrie fra percorsi in cui consiste l’intero destino della civiltà. Un destino che sembra un preciso dialetto di una ignota ontologia essenziale. Perché è precisamente in un tale ‘mancare’, fecondo di tracce e desideroso di farsi cercare, in quanto non sa sapendo, – è precisamente in un tale ‘mancare’ che si dà anche il suo inespungibile ‘eccedere-che- cerca’, in quanto sa non sapendo. Ancora una volta: è il mancare stesso ad essere l’eccedere che cerca ed è l’eccedere stesso ad essere il mancare che si fa cercare. Il mancare, infatti, non solo cerca, ma si fa cercare. Cioè: non solo, in quanto ‘eccedere’, cerca, ma si fa cercare da quel correlativo ‘mancante’, che è un ‘eccedere’ anch’esso ed è l’‘eccedere’ corrispettivo. E, d’altra parte, mai il cercare si esaurisce nel cercato. Perché sempre – dall’uno e 33 dall’altro versante del cercare – il cercato resiste al suo cercante. Ci sono, infatti, due forme dell’ ‘eccedere’: c’è un ‘eccedere’ che, stando nel ‘mancare’, cerca, e c’è un ‘eccedere’ che, stando nel ‘mancare’, si fa cercare e resiste a chi lo cerca. Sicché, nella vicenda erotica, sempre, abbiamo i due poli paradossali del cercare: un mancare che, in quanto eccedere, cerca e un mancare che, in quanto eccedere, resiste. Il mancare dell’amore è un eccedere che cerca ciò di cui manca e che, in quanto eccedere rispetto a chi lo cerca, semina tracce di richiamo e resiste al suo cercante. L’eros è un mancare che oscuramente sa della sua meta. Perché il suo mancare ha in sé stesso ciò di cui manca. Anzi, potremmo anche dire che esso è ciò di cui manca. Perciò, la memoria è speranza. E l’attesa, ricordo. E l’amore – in quanto laccio – odio. E la custodia, ricerca. E la ricerca, memoria di ciò che più non abbiamo, ma siamo. E, perciò, l’essere dell’uomo è non solo ciò che manca, ma ciò di cui manca. Egli è l’altro in lui. E, nel resistere a chi lo cerca, egli è un eccedere che resiste a sé. Così, un uomo vive – può vivere –, senza saperlo, insieme, tutte le declinazioni della memoria e tutte le declinazioni dell’attesa. Ma anche, al tempo stesso, tutte le declinazioni della resistenza e della resa. 34 E’ la scoperta poetica di Corrado Calabrò nel corpo del vivere quotidiano: la scoperta in corpore vili di quanto la vita – nella sua simbiosi continua di sentire e pensare – irrimediabilmente ci dà. Vivere è le mille declinazioni dell’essere; e l’essere è le mille declinazioni dell’amore. Senza molesti ‘buonismi’ e senza – enfatici alla rovescia – ‘cattivismi’. Nodi alla gola, inquietudini, impulsi, interruzioni di sangue, idee profonde, galoppi di cuore, lacerate libertà – tutti i lacerti dell’anima galleggiano senza rimedio nel vivere di un essere sospesi. E tutte le occasioni d’amore ne sono parafulmini segreti. Si guardino questi splendidi versi del Nostro – geniali nell’esprimere, insieme, il distacco, l’impotenza e l’attesa: “…Ti vedo allontanare, ben eretta, senza voltarti e senza avermi udito. Rimango come una cornice vuota appesa al muro con il solo vetro, orbata della terza dimensione”21. Vivere è cercare, attendere, credere, dilaniarsi, separarsi, ancora cercarsi e dilaniarsi, restare inebetiti, sperare. E di ciò sono diretta espressione il mare, il vento, il sole, la notte, la luna, gl’incontri, le separazioni, i silenzi, il trasmutarsi interminabile e segreto delle forme e dei colori. 21 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 82. 35 Si tratta, infatti, sempre di luoghi liricamente omogenei in quanto corpi poetici d’un unico vissuto. E, pertanto, momenti carnali di un mondo che non ‘ha’ un linguaggio, ma ‘è’ linguaggio. Essendo, in realtà, quello stesso linguaggio che lo dice. Se ne possono esibire prove senza sosta. Ne presentiamo, qui, appena due. Anche molto sottili. Fatte per esprimere, in modo obliquo, quasi rasentando il sentiero di sillogismi della fantasia, una inattesa e sommersa continuità ontologica tra le forme. Si veda questa lirica – in tre movimenti intersecati: 1. “S’allunga il fiume nel golfo invetriato/ come una lingua nel miele”. 2. “Pugnala a freddo l’azzurro/ la scia di ghiaccio di un Phantom”. 3. “Affondi nel cuore il tuo sguardo …” “come una lama nel miele”22. Si osservi come, lungo l’incrocio metaforico fra un percorso d’acqua e un percorso d’aria, entrambe le traiettorie ritrovino, poi, – come in uno scambio di binari – un preciso snodo comune in un unico significato: lo slittamento del miele nell’azzurro e della lingua nella lama – fino alla “lama nel miele”. Si veda, ora – in due movimenti – la lirica “In attesa d’imbarco”23: 22 23 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 25. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 23. 36 1. “Scogli, macigni confinari della costa. Per chi siede tra essi come un masso resta dietro la nuca il retroterra: c’è, come il tempo, uno spazio passato”. [Si noti la finezza di questa intuizione fenomenologica: c’è uno spazio che non è puramente fisico, ma spazio vissuto]. “Davanti agli occhi, a tutto campo, è il mare.” “La riva non s’appaga di tracciare solo i contorni della terraferma: si sforza di seguire oltre ogni segno e circondare come un lago il mare”. Nello splendore dell’endecasillabo finale è suggellata, qui, la prima immagine. Vediamo, ora, la seconda. 2. “Forse è un imbarco dal quale non torno: ma voglio tendere, immensa, una rete fino a accerchiare la tua giovinezza”. Si noti, qui, in primo luogo, nel verso finale, il prolungarsi delle ‘a’ nell’abbraccio del ‘fino a accerchiare’. E si osservi, soprattutto: la riva circonda il mare; l’io, la giovinezza del tu. Non c’è un ‘come’, in un tale rimando, perché non deve esserci. L’una cosa è assolutamente l’altra. La pasta, infatti, che le fa identiche, è la stessa. Il linguaggio si pone come l’unico corpo simbolico di una sola realtà. 37 Quindi: il mare, il vento, le luci, le inquietudini d’amore sono declinazioni linguistiche di una medesima cosa. Perché sono pieghe molteplici del ‘medesimo’ – nel paese mai uguale dell’Idem. Esse appartengono a una grammatica comune – sparsi corpi dislocati di un essere e di un genus comuni. Siamo all’interno del vissuto di un universo, di un lessico e di un essere percepiti nella loro unità. Linguaggio uno di una patria una. Che non è la natura e/o l’amore e/o la donna, ma l’essere in quanto tale – e quel vivere, pagato di persona, che ne è una esemplare forma narrativa. 9. Una tale considerazione ci consente, a nostro avviso, d’introdurci alla seconda scoperta platonica di Corrado Calabrò, declinata all’altezza dell’oggi. Abbiamo già sottolineato come noi – parafulmini della necessità oscura di un ‘essere’ che ci dilania in pezzi per farci, poi, ancora reciprocamente cercare – noi, in una tale vicenda, manchiamo ed eccediamo. E non nel senso che eccediamo nonostante il mancare. Ma nel preciso senso che lo stesso mancare è l’eccedere. Proprio mentre è lo stesso eccedere ad essere il mancare. Ma come di ciò possiamo avvederci? E’ nella cifra d’amore che, più che altrove, ciò a noi – quasi in una gigantografia e come in una folgorazione senza scampo – si rivela. Perché il nostro 38 mancare dell’essenziale diventa anche l’‘eccedere’ che gli risponde. ‘Mancare è eccedere’. Si tratta, infatti, di quell’ ‘eccedere’ che è, nel tempo d’amore, l’indicare una direzione. E che costituisce la tensione mai vinta a ri-toccare una meta – vissuta senza posa come costitutiva metà. Così come l’ago magnetico manca del Nord e continuamente eccede da sé indicando il suo Nord. Senza un tale ‘eccedere’ e senza un tale ‘mancare’ noi non coglieremmo, in noi, mai alcuna traccia dell’essere che siamo. Né ci sarebbero, forse, ‘persone’. Una parola – ‘persona’ – in cui risuona, non a caso, fin dalle radici teologali più antiche, il suo essere – al tempo stesso – tre cose: un indivisibile e inconfondibile ‘esserci’, l’essere parte di un movimento profondo e il gravitare verso un possibile ‘altro’. Non a caso la ‘persona’ è, al tempo stesso, un mancare e un eccedere, un eccedere e un mancare. 10. Si guardi come Corrado Calabrò dissemini nelle sue pagine intuizioni come frammenti di vetro in un terreno in cui senza sosta si ridisegnano, al sole, vissuti di pensiero. Appare altamente significativo, in un simile gioco, il progressivo embricarsi di identità fratte e diffuse, come in mappe di partícole perdute, come in un rincorrersi di sovrapposizioni transitive: “E’ come l’amore 39 l’anima”24. “E’ un po’ come l’amore la poesia”25. E, come l’amore, è il mare. E l’anima spinge, infatti, senza sosta al mare, come fanno coloro che s’amano, per catturarlo in un secchiello d’acqua, sempre inutilmente rubato alla sua immensità. L’immagine agostiniana ha – qui – una sua propria declinazione essenziale. Tutto il mondo della vita si dà come un rincorrersi di forme transitive, che si richiamano in segreto, in un celato corrispondersi di contorni e di rime, che prescindono dalla visibilità. Corrado Calabrò lo sa. Il mare è come l’anima. Eppure, l’anima non si vede26. Come non si vede l’amore. E, ciò nonostante, una tale invisibilità non è prova di inesistenza. Anzi, è proprio questa invisibilità la radice di un’esistenza primordiale – esistenza imprendibile, certo: metafisica resistenza a ogni forza che intenda sopprimerne la forza. Del resto, chi direbbe mai che l’amore, poiché non è visibile, non esiste? E chi lo direbbe del vissuto? E chi oserebbe dirlo della poesia? Per quanto invisibile, non c’è nulla di più reale dell’anima – nulla di più reale dell’amore. Perché l’amore è ciò che, pur invisibile, ci resiste senza tregua dentro, nonostante ogni negazione. Al punto tale che, negato, riemerge. In Giambattista Vico, come è noto, la ‘natura’ è proprio un tale incessante 24 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. 26 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. 25 40 riemergere alla scala della storia27. Essa è ciò che, negato, ritorna28. Come, alla scala della persona, sono l’amore e la poesia. Ogni uomo ha dentro sé stesso, celati, i segni profondi di un essere che, stenogrammi di un fondo, ne rivelano le stimmate e i tesori. Eugenio Montale ha scritto: “La mia venuta era testimonianza/ di un ordine che in viaggio mi scordai”. E Melville avrebbe detto, forse, dell’uomo come della nave: che egli custodisce in sé stesso ordini sigillati. Quali sono questi segni celati – questi ordini sigillati? Essi girano tutti intorno al mancare. Si pensi all’amore come immagine riflessa nello specchio (San Paolo); o alla figura imprigionata nello specchio29; o al possibile viaggio dell’uomo oltre lo specchio, come nell’universo di Alice30, entrando nella quinta dimensione31. Sperimentiamo, così, nel rapporto con l’amore, intermittenze d’essere. Come nelle proustiane intermittenze del cuore. Si pensi al destino del vivere a singhiozzo32. O all’apparire intermittente 27 Ci permettiamo, qui, rinviare a Giuseppe Limone, Fra Grozio e Vico. Il problema del “diritto naturale” come teoresi rigorosa, in AA.VV., Il diritto naturale della socialità, Giappichelli, Torino, 2004. 28 Sul tema di ciò che, negato, ritorna – sull’‘anipotetico logico’ e sull’‘anipotetico esistenziale’ – preferiamo rinviare, qui a Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, p. 135 ss., p. 161 ss e passim. 29 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 82. 30 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. P122, p. 90. 31 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 90. Vedi anche Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, Mondadori, Milano, 2002, p. 77. 32 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 84. Vedi anche p. 46. 41 delle forme che, a giochi alterni, si costituiscono e scompaiono nel buio sotto i fari in una notte33. 11. L’eccedere – dicevamo – è cifra del mancare. Ma è anche, nella liricità di Corrado Calabrò, l’atto poetico di una militanza precisa contro un feticcio del nostro tempo – feticcio invisibile e strutturato. Che è la sua esiziale pretesa a una ‘conoscenza’ del reale che realizzi la ‘trasparenza’ del suo ‘oggetto’, fino alla possibile sua manipolazione assoluta. Trasparenza degli altri a noi, di noi a noi, di noi agli altri, degli altri a sé stessi. Persino della società a sé medesima e del cittadino al potere. Si tratta di un antico mito della modernità, ormai arrivato al capolinea – al suo pericoloso capolinea. In questo senso, la sapienza poetica di Corrado Calabrò costituisce, a nostro avviso, anche una risposta alta contro il nichilismo contemporaneo: sia dato alla poesia ciò che è della poesia e si apprenda dalla poesia ciò che la sua muta sapienza da sempre insegna e custodisce. Si tratta, in realtà, di demistificare, qui, quel nichilismo invisibile che, in nome della ‘conoscenza oggettiva’ come ‘oggettivazione totale’, tutto vorrebbe – in una epistemologica rete esaustiva – catturare senza residui: per consumare un tale ‘sapere’ in quell’estremo artificio – in quell’estremo sacrificio 33 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 56. Vedi anche Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, Mondadori, p. 51. 42 mondano che è il conoscere come riprodurre, manipolare e dissacrare. Perché, a ben vedere, il nichilismo è null’altro che l’idea di poter sottrarre alla vita una dimensione essenziale: quella sua dimensione invisibile e forte – simbolica – che è il senso di un ‘più’, di un altrove. La sua ‘profondità’. Il nichilismo è negare quell’eccedere del vero che resiste a ogni conoscenza che si ponga come semplicemente repertoriatrice. Anche l’essere – soprattutto l’essere dell’uomo – ha un suo ‘eccedere’ lo sguardo che l’incontra – ed è il pudore delle cose. E’ l’altro nome delle ‘lacrimae rerum’ di Virgilio? Si tratta, in realtà, di un ‘pudore’ su cui l’eros ha cose cruciali da dire – perché è quell’eros che è ricerca, sapienza, sentimento dell’altrove e poesia. Platone e Vico, qui, ci attendono dal futuro. Parliamo di una ‘sapienza’ che appare in filigrana nell’intero mondo poetico di Corrado Calabrò. Si pensi a quando egli, rivolgendosi a quella ‘lei’ che vive senza sentire i legami, chiusa nella sua divina atarassía, ne decanta la “verginale disumanità”34. Situazione che, in forme diverse, sembra risuonare anche nell’altra in cui il poeta, guardando all’argilla di Eva, dispera di poterne scalfire un giorno l’anima, che essa porta nel cuore “levigata come un ciottolo”35. Potremmo dire che dove non c’è presa non c’è amore. Ma, anche e al tempo stesso, che, dove c’è 34 35 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 59. Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., pp. 66-67. 43 troppa presa, l’amore paradossalmente interrompe la sua dimensione sapienziale. Un uomo ha bisogno – sempre, nella presenza e nell’assenza – di elaborare e rielaborare legami. Si tratta, a ben guardare, del mito di Sisifo, altrimenti declinato. E’ la felicità infelice di quella separazione necessaria che, negata, perennemente rigenera presenza e di quella ricongiunzione invocata che, ancora negata, perennemente rigenera il bisogno di un’assenza insaziata. Nec tecum, nec sine te vivere possum. Ciò, in una riemersione interminabile di mondi in cui la mancanza sempre eccede: aspirando, attraendo, vincolando in un nodo imprescindibile e antico, fatto di cercare e fuggire. La verità si rivela, pertanto, natura, amore, scissione, essere, mancare: un ‘apparire’ e uno ‘sparire’ senza sosta nel firmamento del bisogno. Ed è la donna – ogni donna – custode di questa celata, e mai sufficientemente rivelata, verità. Lei, Musa segreta di un soffrire essenziale che è anche l’anima del senso. E’ per rispondere a una simile sfida che la poesia del Nostro elabora una precisa strategia: il suo stile. 12. L’uomo vorrebbe, in un gesto audace e imperioso, poter spiare e cogliere a sorpresa il suo stesso essere: il suo mancare d’essere e il suo essere del mancare. Ma ci si domanda: può un uomo guardare al suo laccio guardandolo ‘da fuori’? 44 Eppure, anche a questa seconda potenza, l’uomo s’interroga sul proprio laccio, cui non può rinunciare. Egli è, pertanto, in una condizione di legame essenziale col laccio da cui vorrebbe liberarsi e con la domanda-laccio a cui non può sottrarsi. Egli non può liberarsi della domanda e non può liberarsi del suo bisogno della domanda. E, nell’uomo, s’interroga senza sosta il poeta. Quali le forme espressive di un tale mancare? Non è la stessa poesia un aspirare a cogliere in flagrante quel mancare che è l’eros dell’esprimersi? Quali, nella poesia di Calabrò, le forme per dire un tale mancare? Vediamone alcune. A. Una delle guise espressive di questa poesia è la forma cava. Perché in essa si dà la proiezione d’un’assenza che si rivela in forma di presenza: “Se non sei tu l’amore,/ forse ne serbi il suo ricordo inconscio”36. “…Nelle visceri serbo il tuo tepore/ come il pesce cuoce occultamente/ sotto una crosta di sale”37. “Suona cava la scala mentre scendo”38. “… cosa resta di te/ 36 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, Pagine, Roma, 2000, p. 22. Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 44. 38 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 47. 37 45 dentro gli specchi appostati per casa”39. B. Una seconda forma espressiva dell’assenza è il gioco degli specchi. Si guardi, in questo senso, alle – citate – figure ricorrenti della quinta dimensione. Dei vetri. Dello specchio. Di Alice. O si pensi alla lirica in cui si dà “quasi una dea che sta uscendo dal marmo”40. Si noti. C’è, a ben guardare, nella poesia del Nostro, anche un reciproco di questa figura. E’ il gioco subliminale, lungo lo scorrere del testo, delle identificazioni progressive. Se è vero, infatti, che nella quinta dimensione si replica l’esistente in altra guisa, è altresì vero che tutte le repliche possono tendere ad essere – talvolta – un’unica cosa. Si vedano, ad esempio, gli slittamenti di senso nella lirica Entra negli occhi senza farmi male41: “Secca gli occhi l’assenza d’amore/ come la pelle la mancanza d’acqua”42. “Entra – se puoi – nell’anima./ Entra nei miei occhi senza farmi male”43. Che cosa può scoprirsi, qui? Che gli occhi sono l’anima e che l’assenza d’amore secca gli occhi. Perché l’anima (l’amore) e il corpo (gli occhi) sono un’unica cosa. 39 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 109. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 95. 41 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 39-41. 42 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39. 43 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39. 40 46 E’ la medesima logica della fantasia per cui le navi s’introducono incorporee44 nella vetrata dell’Hotel Naxos45. Perché l’hotel è il mare. E perché le sue stesse vetrate si transustanziano nel mare, azzurre come lui. Anche le navi, infatti, sono mare. Al punto da poter traversare incorporee i corpi e le vetrate. E’, questo, solamente un indizio di ciò che accade, nel testo, anche altrove: “Fammi specchiare – una volta! – la tua anima/ fammi varcare la linea sfuggente/ tra il bisogno di credere e l’amore”46. Nella materialità d’uno specchio può, quindi, senza interruzioni di realtà, specchiarsi l’anima, fino al punto da toccare, come nell’“incurvarsi del mare verso il nulla”47, la linea – tutta interiore – fra il bisogno di credere e l’amore. Tutte le immagini sembrano tendere, così, verso un solo risultato: l’anima è il corpo. Come in un tutto che unicamente ne risuoni. E di questo tutto la sintassi è il mare. C. Una terza forma espressiva dell’assenza è l’immagine del correre all’indietro – del risalire verso l’origine celata: “… ma è da solo che debbo tentare/ 44 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 39-40. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 39-40. 46 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. 47 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. 45 47 di risalire il torrente del mio sangue”48. “Contro natura e contro le sue leggi/ il fiume, a un tratto, scorrerà all’inverso”49. “Potessi rimontare l’indolenza/delle tue membra/come risalgo il corso dei millenni/qui lungo il Nilo!”50. D. Una quarta forma espressiva dell’assenza è l’avvitarsi. Importante appare, infatti, in questa poesia, il perenne avvitarsi del mare. Un ‘avvitarsi’ rinvenibile anche altrove, nelle forme dell’esistenza – e che allude, non a caso, alla spirale. “… Scatta qua dentro un pendolo e l’aspetta/ Avvitandosi sopra se stesso / per agganciarsi all’istante che arriva”51. “… e seguo con l’orecchio l’ascensore; con lui, con te discende in parallelo quella cosa da niente ch’è l’amore. M’intreccio alla spirale Delle scale 48 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 62. Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 67. 50 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit, p. 54. 51 Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., p. 28. 49 48 Come un tempo alla danza Del tuo passo”52. A ben vedere, quindi, un tale avvitarsi è null’altro che il movimento della spirale. Il movimento d’un’elica che sale, lungo livelli e metalivelli, dall’essere empirico del proprio ‘stare qui’ alla sofferenza che riflette – e metariflette – sulla sua realtà. E. Una quinta forma espressiva dell’assenza è l’acutissimo anelito a sorprendere perfino sé stessi: per catturare la propria ombra, per cogliersi a sorpresa nel proprio stesso inafferrabile mancare. E il poeta può e sa farlo, forse, con un gesto disperato e geniale: “Svolterò a ogni angolo a sorpresa/ fino a lasciare surplace la mia ombra”53. E’ come cercar di snidare, all’improvviso, sotto il proprio letto, il dio che celatissimo ci spia. O il pensiero laterale che ci sfugge. O come inseguire, in ogni angolo, il proprio stesso pensiero, per catturarlo di colpo a sua insaputa. E’ l’inesausto e impossibile cogliere il pensare negl’interstizi del pensare. E’ il conato dell’agire in modo tanto fulmineo da precedere il fulmine pensato. Come in un atto teologico imperioso verso un senso che da sempre ci precede. 52 53 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 92. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 110. 49 F. Una sesta forma espressiva del mancare è il labirinto. E il suo filo. Il filo, infatti, è una presenza costante nella lirica del Nostro54. Ma ci si accorge presto che esistono tanti possibili fili. C’è il filo che ti conduce a lei; c’è il filo che si allunga col tuo peso; c’è il filo che più si conficca se più ti dimeni; c’è il filo che ti salva finché hai filo da filare…55. Ossia, c’è un labirinto di specie di fili. Un labirinto di labirinti. Come un labirinto al quadrato. Ma “… solo una volta t’è dato filarlo:/ e quando un giorno ne verrai a capo/lì troverai che il filo è terminato”56. 13. L’eros è solo nell’assenza? Ma, a ben vedere, nella poesia del Nostro, non manca l’eros diretto. Anche se, nella stessa logica della sua liricità, si tratta di un eros diretto espresso pur sempre in forme oblique. Si guardi, per esempio, a una sua precisa modalità espressiva, che si dà nella strategia di un reiterarsi vocalico mirato. Si veda, in proposito, la lirica “Gambarie”57. Qui l’eros si rivela in forme stilistiche sapientemente celate. Vi si coglie la festa serrata di un rincorrersi di ‘a’ toniche che 54 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 120 e passim. Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 78 ss. 56 Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., p. 128. 57 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 29. 55 50 segnano – lungo l’inerpicarsi dei loro squilli aperti e attraverso uno squadernarsi di forme segretamente allusive – tutte le pieghe del cercare, dello scalare, del penare, del darsi in direzione dell’amore, fino a propiziarsi il terreno a uno spalancarsi liberatorio e finale: “… tagliàmmo … giràvano, …inclinàndo, …franànti, … strappàte, … ràmpa, … materàssi, … pressàti, … le pàlme … le pàlme, … zagagliàva, … la vàlle, … cavàva, … rullàvano …” – fino all’ultimo verso che – in brevità improvvisa – conclude: ‘verso Montàlto’. Così, indugiando sulla lunghezza della sua ‘a’ più prolungata e segreta, il verso apre allo sguardo estatico d’un paesaggio improvvisamente maturo sull’estasi finale. E si veda, ancora, l’eros vissuto come uno staccarsi essenziale: “In bílico sull’ultimo pontíle” – dice il poeta58. Dove il rincorrersi delle due ‘i’ toniche apre all’ultimo addio d’un imbarco dal quale non si torna. Un addio d’amore. Altra modalità stilistica appare, inoltre, nel gioco del reiterarsi consonantico. Si guardi alla lirica “Sole di maggio”59. Vi si può osservare il rinnovarsi delle ‘t’ che alludono al piacere del tatto. E delle ‘d’ che ne precedono il contatto: 58 59 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 23. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 22. 51 “Come un uccello caduto dal nido/ è tiepido/ il tuo seno di fanciulla./ Stringo nel pugno il battito del polso…”60. Altra importante modalità espressiva è rinvenibile nel ruolo strategico degli slittamenti metaforici, il cui eros si rivela anche, a un secondo livello, nel pudore linguistico celato. Si veda in “Contro Natura”61. Vi circola, in un clandestino serpeggiare sotto mille maschere lessicali, un eros segreto. Si guardino le metafore cangianti come pesci62 in un testo in cui incessantemente lavora l’arte di scivolamenti figurativi che alludono in forme inconfessate, salvo in quel civettare segreto del pube delle ragazze alla ringhiera. Pudore e spudoratezza (quasi come nel falò del tramonto63) vivono insieme. E si guardino ancora: “…La chiave magnetica/ch’apra la serratura del tuo tantra”; l’ostia di cera; il levarsi donna innanzi a sé stessa; l’insinuazione del serpente; l’ambiguo dire ‘natura’ e i percorsi che la riguardano. E la “lacrima di sale entrata in vena”, quasi perla nascente dalla sofferenza dell’ostrica per la goccia che vi entrò. Corrado Calabrò conosce l’arte fine di svegliare il dèmone celato dentro il mondo del lessico – per farne serpeggiare e slittare i significati come anguille. Si tratta di un esercizio medianico e 60 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 22. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 32 ss. 62 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 32-33. 63 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39. 61 52 sapiente, simile – nell’universo del linguaggio – a quello di un agente provocatore (per usare una metafora impiegata dallo stesso Calabrò in un diverso contesto64). Si veda come in questa poesia ritorni, in altri frangenti, il guizzo del desiderio nella forma della serpe (“Come un rettile guizza il desiderio”65). Né si dimentichino le aguglie che “raccogli frementi dentro il coppo”66, o il testo, ricco di slittamenti lessicali, di “Fattura”67, in cui ci sembra vedere un liquido eros solare che circola, insinuante e confessato. O si guardi, ancora, al testo di “Compresenza”68, dove l’eros sembra affinarsi nel tono di un brevissimo Cantico dei cantici. E’ un gioco, quello degli slittamenti, in cui Calabrò è maestro. Si pensi, fra gli altri, al particolarissimo snodo di metafore e rimandi cui si assiste nella poesia del sortilegio69 (“L’esorcismo di Arcilussurgiu”), là dove l’eros appare paradossalmente celato sotto un gioco di tempi (passato, presente, futuro) e sotto il raggelante sguardo d’un imprevedibile Destino. Non c’è da stupirsi, quindi, che, nel contesto di una simile poesia, che sa far slittare così bene materie e significati, possa acquistare, a un certo punto, un particolarissimo valore poetico 64 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 27. Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 42. 66 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 27. 67 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 52. 68 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 98. 69 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 66 ss. 65 53 l’apparire della luna. Essa infatti può darsi come il destarsi improvviso d’un’assenza che, per un istantaneo trasmutarsi tra figura e sfondo, compare: là dove è lo stesso ‘esistere’ a invertirsi70 - in un colpo inatteso – di significato (“Tiepida è la carezza dell’acqua/che ci voltola nella battigia;/e soffice come borotalco/è ai corpi nudi la sabbia di pomice./ E’ buio, ma presto sorgerà la luna/e la spiaggia sarà d’un bianco latte”). Le metafore si sovrappongono in sequenza. Le parole sdrucciole, collocate in simmetria, ne accompagnano lo scorrimento. E, a un tratto, la luna. Ciò che era, non è. E, quel che non era – sullo sfondo buio – improvvisamente emergendone è. In un gioco ‘figura/sfondo’ – che potrebbe essere anche ‘punto/linea’ e ‘pieno/vuoto’ – ciò che era sfondo, si è fatto improvvisamente figura. Non va dimenticato, in proposito, che il mondo poetico di Corrado Calabrò, quando tocca l’eros diretto, tende a nasconderlo sempre: non solo con slittamenti lessicali, ma anche nelle pieghe della notte. E’ una strategia che possiamo osservare, ad esempio, in “La luna nel pozzo”71. 14. C’è un altro inesauribile ‘topos’ nella poesia del Nostro. E’ il lessico della scienza. E non a caso. Come in Pindaro il linguaggio dei giochi olimpici, come nella narrazione omerica il 70 71 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 40. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 47-48. 54 lessico delle scoperte del mare, nella lirica di Corrado Calabrò il paese linguistico della scienza appare come il nuovo alfabeto di risorse fantastiche nella navigazione del pensare. Perché la scienza, oggi, è la forma narrativa ed eroica del mondo – il nuovo luogo di Ulisse. Nella sua miniera estrattiva può darsi un thesaurus di approcci, di immagini, di conoscenze, di intuizioni senza fine. E, forse, il ‘quanto’ dell’amore72. A ben osservare, infatti, il ‘quanto’ dell’amore (Quanto mi ami? Quanto mi amasti? Quanto mi amerai?) può rivelarsi in una complessa spettroscopia di significati. Perché il ‘quanto’ che costituisce l’eterna domanda d’amore è, al tempo stesso, per così dire, il ‘quanto’ della teoria quantistica nel luogo dell’amore. E noi sappiamo come il ‘quanto’ abbia, nel quantismo dei fisici, due livelli di esistenza: quello ‘energetico’ e quello ‘corpuscolare’ e sappiamo quanto questo pesi nella bi-logica che vi si apre. Occorre, pertanto, capire, in un tale contesto di discorso, i vari ‘quali’ del ‘quanto’ d’amore. E i vari ‘quanti’ di questi ‘quali’. Qui, la metafora scientifica può generare una straordinaria resa ermeneutica. Perché la stessa domanda sul ‘quanto’ d’amore si rivela, in realtà, radicandosi nell’insopprimibile bisogno di pronunciare il legame, anch’essa un quanto dell’amore. La metafora scientifica diventa, perciò, una grande risorsa espressiva. Si guardi ad alcune forme. Alla transfluenza dei 72 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., pp. 22 ss. 55 ghiacciai73. Al transfinito74. Agli elettroni75. Alla forza attrattiva fra le galassie76. All’entrare in risonanza fra il cane e la sua attesa77. All’asteroide78. Alla sistole e alla diastole dell’amore. All’equazione di Dirac79. Ai modelli quantistici (energetico e corpuscolare) e, di qui, ai corrispettivi livelli di esistenza e di scambio nel luogo dell’amore. E, di qui ancora, all’effetto Doppler e a quelle variazioni di frequenza che rivelano, quasi, livelli recessivi di esistenza80. Esiste, a ben vedere, nell’ispirazione di Corrado Calabrò, una duplice lettura del mondo, che risponde a due opposte coordinate. Da un lato, “Come nell’equazione di Dirac/ devo pensare che il mancante esiste/ perché altrimenti non mi quadra il conto”81 (si noti che un’altra esemplificazione potrebbe essere data, qui, dalla tavola periodica di Mendeleev, che, per così dire, ‘prevede’ – a partire dalla sequenza ordinata dei pesi atomici degli elementi – l’esistenza del mancante). Ma, a ben vedere, dall’altro lato, la concezione quantistica e il principio d’indeterminazione fanno pensare e sentire che qualcosa 73 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 133. Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 22. 75 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 22. 76 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., pp. 84-85. 77 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 144. 78 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 77. 79 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 40. 80 Vedi anche l’acuto discorso del Nostro sulla poesia e sulla sua poesia: Corrado Calabrò, L’attesa del mancante, in ID., Una vita per il suo verso, cit, Mondadori, Milano, p. LI ss. 81 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 40. 74 56 possa sfuggire alla rete dei determinismi. Esattamente, potremmo qui dire, come nel mondo dell’amore, che annuncia sempre il suo inafferrabile clinamen quale evento di svincolo da reti: “così il fotone è il messo svincolato/ dall’attrazione delle stesse forze/ che, per tensione, l’hanno generato”82. Donde la possibile domanda: Dio gioca a dadi?83. Una domanda che, forse, sempre rinasce, anche davanti al rimbalzo del ciottolo sull’acqua84. Ma c’è, a nostro avviso, una terza coordinata a interferire con le due che dicevamo. E’ la coordinata del gioco ‘pieno/vuoto’. Si tratta di quel possibile gioco duale che potremmo collocare fra la Gestaltpsychologie e l’informatica: ‘pieno’ e ‘vuoto’, ‘linea’ e ‘punto’, ‘figura’ e ‘sfondo’. Si tratta di quel gioco di cui è rinvenibile, nella lirica del Nostro, un impiego corposo e originale, come in quella corsa dell’auto nella notte (“Intermittenze”) o nel rapporto con un telefono che chiama (“Chiamata non risposta”85). Non tutto è determinismo. La vita ci ricorda, infatti, anche col Rig-Veda, che la bellezza è come il clinamen che sospende86. Ed è come l’amore che, anch’esso, senza tregua interrompe ogni catena. Ma, a ben vedere, il gioco ‘pieno/vuoto’ può conoscere – 82 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit, p. 22. Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., p. XXXIII, in particolare la bella introduzione di Dante Maffìa. 84 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 94. 85 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 136. 86 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 106. 83 57 qui – un nesso costitutivo con il collocarsi dell’amore fra la presenza e l’assenza, fra il legame e la scissione, fra la vicinanza e la separazione, fra la linea e il punto, fra la luce e lo spento, tra lo sfondo e la figura. Può pensarsi, certo, al modo matematico con cui Robert Musil voleva comprendere il mondo dell’‘uomo senza qualità’ e può pensarsi, certo, al modo geniale e straniante con cui Leonardo Sinisgalli connetteva matematica e poesia, ma qui deve potersi, innanzitutto, pensare alla vicenda in cui l’eros è collocato – in un rapporto ‘figura/sfondo’ ad alterno scatto – sul crinale fra il prevedibile e l’imprevedibile, fra il decidibile e l’indecidibile, fra il certo e il rischio, fra il previsto e l’avventura. Imparando, intanto, qualcosa dall’istinto che somiglia al caso87. O dalla rottura della rete. O dal rimbalzo del ciottolo sull’acqua. 15. Siamo, quindi, nella lirica di Corrado Calabrò, senza sosta coinvolti fra le metaforiche dell’assenza e le metaforiche della trasformazione. Vediamone qualche esempio. Una specifica strategia espressiva del Nostro è stata da alcuni rinvenuta – secondo una linea che richiama le coordinate di Gaston Bachelard – nella metaforica dell’acqua, interpretata come dominante88. 87 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 83. Si veda la bella introduzione di Dante Maffía a Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit. 88 58 Certamente, il mare ha, nel lessico del Nostro, un rilievo motore essenziale. Ma non ci si lasci influenzare dalla pura ricorrenza linguistica del richiamo al mare. Diremmo, infatti, che sotto la metaforica del mare un’altra metaforica, forse anche più forte, preme. E’ quella del fuoco. Quella delle forze che, lingue di fiamma perenne, senza sosta distruggono e rifoggiano le forme e i colori del mare. Il fuoco, infatti, è eros incessante. Che divora e trasforma. Che, dal pieno, fa cenere e vuoto. Generando, prima o dopo, altri pieni. Certo, come dicevamo, il mancare è essere. Perché si esprime in quell’eccedere che è, come nell’ago magnetico, direzione. Vediamolo, qui, nel linguaggio del poeta: “La privazione di te/ è un faro nero che mi fa da guida; risente, nelle notti senza luna, il mare di un’oscura calamita”89. Il volto dell’altro opera su me come la luna sul mare – come la luna solleva le maree. Così come dal cannocchiale aperto nel terreno – pozzo sul mare – appare, sotto la luna, crescere la linea d’acqua, mentre tu sei in compagnia con la straniera90. 89 90 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 58. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 47. 59 “Manca la tua mano/ a guidare il buio” [versi, dice il poeta, di F.B.]91. Si tratta di un’espressione in cui sembra operare, nel fondo, un doppio significato, che allude sia al mancare della mano nel guidare, sia al mancare stesso in quanto è guida. Il ‘mancare’ di Calabrò, infatti, ha sempre, poeticamente, un suo ‘essere’ – al punto che può rivelarsi “Ostaggio del tuo corpo/ la mia attesa”92. Si tratta di un ‘mancare’ in cui possono rinvenirsi due poli. Il primo. La presenza nell’assenza. Il laccio cede il posto all’altro – perché interminabilmente lo índica: “La penuria di te mi affolla l’anima”93. Il secondo. L’assenza nella presenza. L’altro cede il posto al suo laccio, in cui paradossalmente si snatura e si nasconde – perché al suo laccio si riduce. “Non è me che detesti/ ma questo laccio così dolce e tenace./Non è te che – forse – amo/ ma questo laccio sottile e tenace/che ci strangola insieme, a occhi aperti”94. L’assenza colma. La presenza strozza. L’assenza dà tormento e gioia. La presenza, calore e infelicità. Siamo nell’altalenarsi senza tregua – quello interminabile del mare: “… così dentro di me la 91 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 31. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 61. 93 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 30. 94 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 91. 92 60 tua presenza/ mi sfugge e al tempo stesso mi pervade … /ogni spinta e sostegno mi abbandona/ ed a te mi riporta la deriva”95. Ma, a ben guardare, questa mancanza radicale è, nel suo fondo, presenza della radice. Che, pur colmando, può straziare: “Dall’inizio mi manchi/come l’acqua alla sete del deserto./ Mi manchi quando ti cammino a fianco:/ … mi manchi quando sono con un’altra,/come manca la freccia alla ferita/che per la sua estrazione si dissangua./Ogni giorno mi manchi: e in ogni dove/perché al silenzio di te/non c’è un altrove”96. Se il mancare è ‘essere’, il suo ‘essere’ è più presente dello stesso ’essere che manca. Ciò vale anche per il nome che ricorda un’assenza: come una porta che il vento ha sbattuto97. E ciò fa ancor meglio comprendere quanto sia misura d’essere il mancare98. “Quanto ti amo?/Quanto ti discosti…”99. E può accadere, a un certo punto apicale, una stupefacente scoperta, che dice la ricchezza – ma anche l’inedia – dell’amore. Perché l’amore non ha bisogno della presenza nemmeno se si trattasse di una presenza che si rifiuta di darsi100. E’ inscritta, infatti, la possibilità di un furto inevitabile nello statuto del suo darsi: 95 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 81. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 132. 97 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 65. 98 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 125. Vedi anche Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 14 e p. 68. 99 Corrado Calabrò, Le ancore infeconde, cit., p. 22. 100 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 118. 96 61 “Ma c’è una cosa che non puoi riprenderti:/l’amore che al di là del capolinea/dei miei percorsi inconsci,/quest’amore che al margine estremo/della mia identità hai spalancato,/non ha bisogno della tua presenza./Io me lo stringo addosso col lenzuolo/che mi fa da vela e da coperta./ C’è una soglia per ogni privazione:/l’eccesso, di per sé, ci anestetizza”101. Si parla, qui, dell’amore radicale. Quello che prende più radicalmente che al cuore. Alle viscere102, alla gola: “Amore che alla gola mi sorprendi”103. Lo stesso bisogno di Dio può esserne una forma104. Come lo è quel bisogno dell’altro – dell’interlocuzione con l’altro – di cui è traccia essenziale quell’ improvviso entrare di voci altrui nella tessitura della propria105. Nasce, da un tale periplo nell’essere dell’anima, una matura consapevolezza poetica, sigillata nella magistrale formula con cui il Nostro ricorda un grande maestro, Antonio Machado: ‘Ti amo per dimenticarti Ti dimentico per amarti”106. Si tratta di un luogo espressivo in cui può cogliersi una delle forme più compiute della strategia stilistica di Corrado Calabrò. 101 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 118. Vedi anche Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 69. 103 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 148. 104 Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., p. 90 e passim. 105 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 31 e passim. 106 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 130; ID., Le ancore infeconde, cit., p. 11. 102 62 Se osserviamo, infatti, il gioco del Vuoto e del Pieno, della Linea e del Punto, del Mancante e del Presente, dello Spento e della Luce107, qui un tale gioco può acquistare un suo forte e ulteriore significato. Si tratta, come si diceva, di una prospettiva che sta fra la Gestalpsychologie e l’informatica. Fra il vissuto percettivo e l’esperienza logico-tecnologica. E si tratta, a ben guardare, di quel gioco del ‘due’ che riesce a superare anche il Tutto perché tende ad andare oltre l’illusione di un ‘Tutto’ pieno ed esaustivo che pretenda di vivere senza un Altrove che, da un inattingibile fondo, lo faccia risuonare. Pieno, vuoto. Vuoto, pieno. Linea, spazio. Spazio, linea. Spento, luce. Luce, spento. Si osservi. Se collochiamo i versi dedicati dal Nostro ad Antonio Machado lungo il rallentarsi e l’accelerarsi del respiro – come è nella tecnica sapienziale orientale – possiamo trovare: Ti amo (pieno, figura, linea, rallentarsi, luce) – per dimenticarti (vuoto, sfondo, punto, accelerarsi, spento). Ti dimentico (pieno, figura, linea, rallentarsi, luce) – per amarti (vuoto, sfondo, punto, accelerarsi, spento). Non solo. Ognuna delle due espressioni potrà impostarsi anche all’inverso, secondo un opposto articolarsi del pieno e del vuoto. E la forma combinata delle due espressioni potrà, a sua volta, essere guardata anch’essa – da chi la viva come oggetto 107 Vedi Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 56 ss. 63 d’esperienza – secondo un alternarsi del pieno e del vuoto: in un gioco transfinito di forme che rigenerino senza fine, nella vita, altre figure della vita. La vicenda della presenza e dell’assenza può convertirsi, pertanto, nel solco dell’esperienza d’amore, in un'invenzione sempre nuova – ignea – di forme. E’ come nel testo di “Intermittenze”108: là dove, lungo la corsa dell’auto che scolpisce forme nel buio, per sciabolate di fari, “affonda[ndo] i denti nel collo della notte”, il guidatore sperimenta – in un permanente dialogo con sé e con l’amata assente – un’inversione continua di forme fra la presenza e l’assenza, in cui si commutano fra loro, senza sosta, le percezioni di esistenza e di vuoto. Il mancare è essere e l’essere è mancare. E la poesia, sapienza poietica e contemplativa del mondo simbolico, può realizzare, pertanto, un miracolo inatteso: conferire essere all’assenza – e proprio a partire dal punto in cui l’essere sta convertendosi in assenza. Come può un tale evento accadere? Esso accade perché il dire poetico, per suo originale statuto, muta la soglia delle percezioni d’essere e di vuoto. Specialissimo organo di commutazione di 108 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 56 ss. 64 banda, la poesia può e sa trasformare le percezioni di esistenza alla radice109. Se è vero, quindi, che la coscienza del legame è infelice, essa è anche, attraverso la poesia – come il mare del poeta –, eucaristica. Perché, nella sua capacità di commutare senza tregua l’essere e il non essere, apre alla salvezza del mancare. Rivelando l’uomo a sé stesso – nell’orizzonte del suo mito. Che è quello di Sisifo: mito dell’essenzialità inutile e dell’essenziale inutilità – senza il quale l’uomo non sarebbe più tale e di cui l’inconcludenza del mare è figura cruciale. Camus è, qui, più vicino che mai. E’ una situazione ontologica, questa, di cui può darsi un ulteriore mito, inventato in modo inconsapevole, forse, dallo stesso poeta (“Senza spessore”110) attraverso la metafora forte di una condizione universale. Guardiamo questi versi. Essi ci raccontano che siamo, nei nostri incontri occasionali, come corpi celesti: troppo fragili e sottili per non forarci all’impatto, fallendo paradossalmente l’incontro nel realizzarlo e proseguendo, poi, mútili nel vuoto. 16. Quale il modo, dunque, per rendere alla poesia ciò che è della poesia? Forse è il riconoscimento del suo inesausto abitare 109 Vedi Corrado Calabrò, “L’attesa del mancante”, in ID., Una vita per il suo verso, cit., p. LI ss. 110 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 77. 65 in quell’eros che la rende immortale perché confessione della sua inedia essenziale. Perché è nell’eros che si dà l’apparire del simbolo, sua carne, quasi bolla d’aria che resta – nell’acqua – quando qualcosa ne è uscito111. Come un’embolia dell’esistere. Virtuosa embolia. Di cui l’arte poetica può farsi figura cruciale. E’ in quest’arte, infatti, che accade ciò che Corrado Calabrò ha chiamato la commutazione di banda112. E che è la potenza capace di fungere da nuovo rivelatore di esistenza. Come attraverso una cartina di tornasole. Come attraverso un frottage. Come attraverso un rilevatore elettromagnetico. Come nelle variazioni di frequenza del Doppler. Come in una nuova macchina di Wells che faccia apparire, in esistenza altra, ciò che, pur non ancora apparso, in altra esistenza già è. Non a caso, il poeta richiama espressamente l’effetto Doppler e il suo far emergere, dalle variazioni di frequenza, l’oggetto113. Analogamente, il ‘commutatore di banda’, nella misura in cui 111 Per questo nesso costitutivo fra carne e simbolo si veda il nostro contributo sulla poesia di Franco Ferrara in Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, spc. pp. 63-79 e passim. Vedi anche Giuseppe Limone, La carne del simbolo come vertigine fondata, introduzione a Franco Ferrara, Fino al mattino di un altro mondo, Ripostes, Salerno-Roma, 1991. E ancora: Giuseppe Limone, Fra il sigillo e la voce; <<Poiesis>> e luoghi del simbolo; La <<poiesis>> fra strategie dello stile e ritmi del tempo, tutti in Tre Convegni, Salerno-Roma, Ripostes, 1999. 112 Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, cit., p. LI ss. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 27. Si tratta, in realtà, di un discorso che concerne anche l’approccio mediante modelli epistemologici: sul punto, vedi Giuseppe Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997, pp. 101 ss. e pp. 161 ss. 113 66 inverte ‘essere’ e ‘non essere’, può dar figura d’essere al non essere – attraverso il commutare: “Forse sei altrove o forse sei qui accanto”114. Accade proprio così che le cose, mancando, lascino in loro vece specifiche loro postille: “Sono passeri implumi/ come facce sbarbate, i ricordi”115. 17. Nella foresta in cui Dante incontra Pier delle Vigne, staccare un ramo è generare sangue e parole. Nella poesia di Corrado Calabrò, staccare una figura dall’eros è rigenerarla come presenza. E, al tempo stesso, rigenerare la perenne domanda su quel legame essenziale. Su quel legame che, nel dare varco a uno sfondo, lo costituisce come figura. Stando nel legame con l’assenza e nella separazione da ogni presenza, la poesia di Corrado Calabrò si pone, perciò, come una poesia che gronda – non natura o amore ma – essere. Essa gronda, senza mai smettere, l’essere fecondo del mancare. L’essere del mancare d’essere. Che è essere anch’esso – ma che tale può apparire soprattutto a un commutatore di banda a ciò adeguato. E’ il destino fragile e forte della poesia. C’è, a ben guardare, un agostinianesimo profondo in questo pensare il difettivo. L’uomo è, per Agostino, come è noto, la sua 114 115 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 109. 67 privazione metafisica. Si tratta, nella liricità del Nostro, di un agostinianesimo consapevole, se è vero, come è vero, che essa, a un certo punto, si correda di un’immagine agostiniana precisa: quella dell’acqua raccolta nel secchiello, dopo averla sottratta con un gesto al mare. Ma si tratta di un agostinianesimo diverso: declinato secondo l’idea della duplice ferita di cui – nel legame e nell’assenza – è testimone il viatico d’amore. Corrado Calabrò sa che tutti i segmenti del vivere – il bisogno dell’altro, il bisogno di esprimersi, il bisogno di allontanarsi, il bisogno di Dio – sono percorsi d’amore. La sua poesia, in questo senso, esprime – anzi sigilla – in una grammatica lirica comune il doppio laccio dell’esistere nel mondo. Là dove Orfeo, Sisifo e Ulisse sono la triplice forma di un unico vivere. Di un unico vivere la radice. La poesia di Corrado Calabrò si pone perciò, in un senso sapiente e celato, come poesia ontologica. O, meglio, come poesia dell’ontologia del mancare. Perché dice, senza dirla, l’Atlantide simbolica sommersa che, come rete metafisica, sottende il vissuto del mancare. E lo dice attraverso un respiro lirico in cui si dà l’eclittica di un eros che non è solo contemplazione del creato, ma creazione del contemplato. Si tratta di una poesia in cui si tagliano e si miscelano, a specchi, i colori dell’anima. Si guardi all’uso sapiente dell’endecasillabo. Al verso breve e all’immagine nuova che 68 rompono percorsi all’improvviso116. Si guardi al ritmo. Ora pacato, ora contratto, ora espanso, ora epigrammatico, ora narrativo ed effuso, ora intenso e accelerato. Sono i modi in cui poeticamente si dànno i lacci dell’esistenza. E si guardi ad alcune composizioni vocaliche. Alle intermittenze dell’alfabeto morse117. Alla introduzione di altre voci poetanti nel tessuto della propria voce, come per il bisogno dialogico di inserire, nella propria storia, altri punti della rete. E si pensi alle improvvise immagini, taglienti e geniali. O alle stesse metafore scientifiche, scavate come risorsa di poesia. Corrado Calabrò, nell’istinto intelligente del creatore, sa che poesia e pensiero non possono essere separati. Perché la poesia è l’irriflesso del pensiero. E il pensiero, l’irriflesso della poesia. E il poeta, se è vero poeta, il paradossale medium di tutti e due. E’ forse questa la segreta ragione per cui ci è dato scoprire, nelle pagine del Nostro, insieme innestati, un’ardua ghigliottina del tempo e il sentimento delle stelle. Che, alte, riflettono il cammino – pur movendosi anch’esse, insieme con ciò che guidano dalla loro sommità. Si coglie, qui, una liricità di colori in cui un’intera ontologia poetica parla – anzi si narra, perché poeticamente tràcima figure e le disloca. Come in quel mare che, nel livellare i suoi picchi, 116 Vedi ad esempio: “ma come una vite spanata”, che rompe la struttura ritmica del testo con un suono altro: in Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 92. 117 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 56. 69 perennemente trasforma il ‘prima’ e il ‘poi’. Perché il mare è come il tempo118 e può consumare, alla fine, ogni picco in un “immenso bacile d’olio grigio”119. E come il mare è l’anima. E, come il mare, sono l’amore e la poesia. Perché tutte queste realtà, come le infinite figure dell’erranza, siamo noi stessi, che sempre tendiamo – se riusciamo – a navigare alla ricerca d’un senso. La poesia di Corrado Calabrò sa contemplare, dal suo mondo, più mondi. Potremmo forse qui dire che, così come, nel guardare il cielo stellato, noi vediamo in un unico spazio più tempi, la poesia è, da sempre, una delle custodi viventi di questa straordinaria verità. Essa, infatti, sa raccogliere tutti i tempi del vivere in un unico spazio: la vòlta espressiva del poeta. Perché solo il poeta sa quanto splendore di tempi si concentri nel sasso che ha “sfiorato il volto d’una stella”120. E perché solo il poeta sa quanto sia dolce, per un naufrago, “essere risvegliato da Nausicaa”121. “Non troverai mai i confini dell’anima” – potrebbe dirsi con Eraclito. L’itinerario di Corrado Calabrò, nel suo legame interminabile con l’eros del vivere e del senso, è un commentario 118 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 23. Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 39 e p. 23. 120 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 85. 121 Corrado Calabrò, Poesie d’amore, cit., p. 122. 119 70 lungo – di pacata ansia poetica – a questa mai veramente compresa e navigata verità. 71