Le azioni revocatorie. I rapporti preesistenti di Ghia Lucio, S

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CAPITOLO IV
L’AZIONE REVOCATORIA FALLIMENTARE
di ANTONIO DI IULIO
SOMMARIO: 1. Caratteri generali. 1.1. Brevi riflessioni sulla riforma. 1.2. I termini per l’esercizio dell’azione. 1.3. La consecuzione di procedure. 1.4. Questioni di diritto intertemporale. 1.5. Natura ed
effetti della sentenza. 2. Gli atti sproporzionati. 3. I pagamenti con mezzi anormali: A) La datio in solutum; B) La compensazione; C) La cessione di credito ed il mandato in rem propriam; D) Altri mezzi di
pagamento anormali. 4. Le garanzie: A) Il pegno; B) L’ipoteca volontaria; C) L’ipoteca legale. 5. Il 2o co.
dell’art. 67 l. fall.: A) Gli atti a titolo oneroso; B) I pagamenti di debiti liquidi ed esigibili. 6. I pagamenti
eseguiti dal terzo. 7. La conoscenza dello stato di insolvenza.
1. Caratteri generali
L’azione revocatoria fallimentare è un’azione giudiziale personale tipica 1. Essa va annoverata, al pari di quella ordinaria, tra i mezzi di conservazione della
garanzia patrimoniale 2 ed è finalizzata a richiamare nel patrimonio del debitore
fallito tutti i beni che ne siano usciti in violazione del principio della par condicio
creditorum, al fine di assoggettarli alla esecuzione forzata concorsuale. Tale funzione viene perseguita attraverso la dichiarazione di inefficacia di tutti quegli
atti e pagamenti posti in essere dal debitore poi fallito nel corso del periodo
sospetto.
1 Cfr. PROVINCIALI, Manuale di Diritto Fallimentare, I, Milano, 1955, 504; PACCHIONI, Trattato delle
obbligazioni, Torino, 1927, 92; PACIFICI, Revocatoria fallimentare e subacquirenti, DF, 1947, I, 64.
2 Cfr. PROVINCIALI, op. cit., 510, il quale aderisce alla concezione esclusivamente processuale della
revocatoria elaborata da CARNELUTTI, in Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, nel Sistema del
diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 848 ss., fondandosi sulla distinzione tra debito e responsabilità. Nella teoria elaborata dal Carnelutti la revocatoria sarebbe un caso di responsabilità senza debito
e l’azione giudiziaria sarebbe tesa ad accertare il presupposto dell’azione esecutiva sul bene acquistato dal terzo. Si veda inoltre DE SEMO, Diritto fallimentare, Padova, 1961, 280 ss., il quale ritiene il fallimento come la condicio juris per rendere inefficaci gli atti di riduzione del patrimonio del debitore poi
fallito, pregiudizievoli per la massa, che lo stato di insolvenza rendeva indisponibile.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
1.1. Brevi riflessioni sulla riforma
Il d.l. 14.3.2005, n. 35 3, convertito nella l. 14.5.2005, n. 80 4, recante «Disposizioni
in materia fallimentare, processuale e civile e di libere professioni», è stato il primo significativo intervento di riforma della legge fallimentare dalla sua emanazione.
Tale riforma, come è noto, ha riguardato due istituti centrali della legge fallimentare: il concordato preventivo e la revocatoria fallimentare.
Lo scopo di tale riforma è stato, da un lato, quello di favorire le soluzioni negoziali della crisi attraverso la rivisitazione dell’istituto del concordato preventivo e, dall’altro, quello di ridurre quanto più possibile il ricorso all’azione revocatoria fallimentare in quanto ritenuta lesiva del principio della stabilità e della
certezza degli atti giuridici e dei traffici commerciali.
Sul ricorso alla decretazione di urgenza la giurisprudenza 5 ha escluso ogni
sospetto di incostituzionalità derivante dal fatto che nella fattispecie mancherebbero i presupposti della straordinaria necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77
Cost., ritenendo che la valutazione della sussistenza di tali presupposti rientri
nella discrezionalità del legislatore.
Parte minoritaria della dottrina ritiene, invece, che la disciplina transitoria sia
in contrasto con l’art. 77 Cost. 6.
Il sistema banche ha sempre visto la revocatoria fallimentare come un istituto
avverso. Sembra tuttavia rilevabile che l’attenzione riservata dalle curatele alle
banche possa trovare ragione, per la parte preponderante, nella frequente violazione da parte di queste ultime a quanto disposto dal d.lg. 385/1993 (t.u. l. banc.)
e dalle disposizioni della Banca d’Italia in tema di obbligatorietà della forma
scritta nella redazione dei contratti e, quindi, anche nelle aperture di credito. Tale attenzione è stata anche incoraggiata, seppure in minima parte, da una interpretazione normativa estremamente rigorosa che alcuni giudici di merito hanno
3
In G.U. 16.3.2005, n. 62.
In Suppl. ordinario n. 91 alla G.U., 14.5.2005, n. 111.
5 Cass., 7.3.2008, n. 6190, GCM, 2008, 3, 376 la quale ha cosı̀ rilevato: « Né può il sospetto di
incostituzionalità essere riguardato sotto il profilo dell’art. 77 cpv. Cost., poiché il presupposto della
necessità e dell’urgenza trova conferma proprio nella esigenza, divenuta ineludibile e cosı`apprezzata
dalla discrezionalità del legislatore, di sollecitare nuove intraprese economiche valide allo sviluppo dell’economia, e non ha trovato ragione di essere riguardata in passato, non avendo le vicende pregresse,
culminate nella insolvenza dichiarata, alcun interesse ad essere regolate secondo la logica della promozione della ‘‘competitività’’ ».
6 CASTIELLO D’ANTONIO, Profili problematici della disciplina transitoria della riforma della legge fallimentare, DF, 2006, I, 721. Per maggiori approfondimenti si veda anche SPIOTTA, Articolo 2, 2o co., dl
35/2005. Disposizioni in materia fallimentare, civile e processuale civile nonché in materia di libere
professioni, di cartolarizzazione dei crediti e relative alla Consob, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, 2772.
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adottato. C’è poi però da dire che mentre la giurisprudenza di legittimità è stata
in grado di dettare principi di diritto che potessero orientare le interpretazioni
eccessivamente rigorose, ponendo al riparo dalle azioni revocatorie le rimesse
effettuate su conti correnti passivi e quelle oggetto di partite bilanciate, nonché
privilegiando il saldo disponibile rispetto al saldo per valuta ovvero al saldo
contabile 7, non altrettanto sembra aver saputo fare parte del mondo bancario
il quale ha continuato a concedere o estendere i finanziamenti senza un contratto
scritto ovvero senza data certa, ha continuato a gestire rapporti di conto corrente
scoperti o extrafido, ha effettuato partite bilanciate senza tuttavia premunirsi di
documenti aventi data certa che potessero dimostrare la finalità della rimessa.
Nella realtà, salvo casi sporadici, vi è stata nel mondo bancario una diffusione
quasi capillare di prassi poco virtuose che hanno generato i presupposti perché
le curatele potessero agire in revocatoria.
L’azione revocatoria fallimentare è stata quindi ritenuta, a torto, il nemico da
abbattere per consentire al Paese di crescere ed essere più competitivo rispetto
7
Il riferimento è alla differenza tra conto scoperto e conto passivo ai fini della revocabilità delle rimesse bancarie (cfr. Cass., 18.10.1982, n. 5413, DF, 1982, II, 1313; FI, 1983, I, 69; Fa, 1982, 1429;
1983, 428; GI, 1983, I, 1, 42; BBTC, 1983, II, 8; GCo, 1983, II, 179; DF, 1983, II, 387. Tale sentenza
stabilı̀ che: sono revocabili le sole rimesse effettuate sul conto corrente scoperto, ossia sul conto corrente che abbia saldo negativo e non sia affidato ovvero sul conto corrente con saldo negativo superiore
all’affidamento concesso); alla differenza tra saldo disponibile, saldo contabile e saldo per valuta sempre ai fini della revocabilità delle rimesse bancarie (cfr. Cass., 22.3.1994, n. 2744, DF, 1995, II, 39;
GCo, 1995, II, 325) ed ancora, il principio delle natura ripristinatoria e non solutoria delle operazioni
bilanciate (cfr. Cass., 17.7.1997, n. 6558, CorG, 1998, 90, con nota di TARZIA; Fa, 1998, 50, con osservazione di OLIVA; GC, 1998, I, 1128. Tale sentenza stabilı̀ che la rimessa bancaria tesa a precostituire la provvista per effettuare un pagamento successivo non è revocabile). In forza di tali principi, si
impongono alcune considerazioni. Ed invero, se sono revocabili le sole rimesse bancarie effettuate
su conti correnti scoperti le banche non possono lamentarsi se poi subiscono la revocatoria fallimentare, posto che se si verifica uno scoperto di conto e ciò nonostante la banca incassa le rimesse a decurtazione del proprio credito ciò significa che in quel momento la banca è o comunque dovrebbe essere
consapevole di porre in essere un’operazione che non solo si presta al rischio di revocatoria fallimentare (sempre che ricorra anche l’elemento soggettivo) ma anche ad eventuali rilievi da parte della Banca
d’Italia per aver autorizzato lo scoperto di conto concedendo cosı̀ credito senza alcun contratto scritto
(cfr. l’art. 117 t.u. l. banc. secondo il quale tutti i contratti bancari devono necessariamente stipularsi
per iscritto a pena di nullità). Tutto ciò senza considerare anche le ulteriori responsabilità a carico della
banca nel caso in cui sia omessa anche la segnalazione alla Centrale Rischi presso la Banca d’Italia di
eventuali posizioni a sofferenza. Peraltro, consentire al correntista lo scoperto di conto molto spesso ha
determinato anche l’incremento della esposizione delle banche, posto che nella larga maggioranza dei
casi tali situazioni si sono concluse perlopiù con la dichiarazione di fallimento. In altri termini, qualora le
banche avessero operato correttamente, l’ordinamento giuridico aveva individuato forme di tutela in
grado di esentare le banche dalle azioni revocatorie fallimentari di rimesse bancarie. Ma i principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza evidentemente non sono bastati e cosı̀ grazie ad una politica distratta e ad una situazione economica difficile coloro che gestiscono le leve finanziarie del Paese hanno imposto la riforma della revocatoria fallimentare con l’obiettivo precipuo di eliminarne ogni effetto.
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agli altri, anche sotto il profilo giuridico. Una competizione tra ordinamenti giuridici tesa a un diritto quanto più possibile a servizio dell’economia.
Sarebbe stato forse più opportuno bilanciare il dimezzamento del periodo sospetto e l’allungamento della fase istruttoria con un intervento sulla decorrenza
del periodo sospetto, magari ancorandola, come avviene ad esempio in Germania 8, alla data di presentazione della domanda di fallimento oppure stabilendo
che il periodo sospetto inizi a decorrere a ritroso dall’ultimo pagamento da accertare giudizialmente oppure ancora a decorrere dal momento in cui si è verificata l’insolvenza, data da accertare a cura del tribunale nella sentenza di fallimento.
La visione preconcetta volta alla difesa di interessi particolaristici ha fatto sı̀
che la riforma fosse incentrata sull’abbattimento dell’azione revocatoria fallimentare, omettendo di considerare che l’incremento di tali azioni è solo uno
degli effetti della ritardata apertura della procedura concorsuale.
Tale ottica parziaria ha, poi, impedito di considerare che in realtà la revocatoria fallimentare è per sua natura tesa a proteggere, non solo i creditori, ma anche l’azienda, dagli atti dispersivi del patrimonio posti in essere dal debitore insolvente e che, pertanto, essa poteva costituire un supporto importante proprio
al fine di salvare il complesso produttivo.
L’accanimento del legislatore contro le azioni revocatorie non si giustifica
neppure in ragione delle lungaggini che i processi con le stesse incardinati
avrebbero potuto provocare per il fallimento, atteso che è stata introdotta la possibilità di cedere tali azioni (art. 106 l. fall.), neutralizzando cosı̀ di fatto la loro
incidenza negativa sulla durata dei fallimenti.
1.2. I termini per l’esercizio dell’azione
Come è noto con l’art. 1, 5o co., l. 14.5.2005, n. 80 il legislatore ha delegato il
Governo ad adottare « con l’osservanza dei principi e dei criteri direttivi di cui al comma 6, uno o più decreti legislativi recanti la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 ». Precisando al successivo 6o co. dell’art. 1, l. 80/2005 i seguenti « principi e criteri direttivi: a) modificare la disciplina del fallimento, secondo i seguenti principi: ... 6) ridurre il termine di
decadenza per l’esercizio dell’azione revocatoria; ...» 9.
8 Cfr. §§ 130 e 131 Insolvenzordnung i quali distinguono le ipotesi di copertura congrua (§ 130
InsO.) da quelli di copertura incongrua (§ 131 InsO.) ove il periodo sospetto inizia a decorrere dalla
presentazione della domanda di apertura del procedimento.
9 Sul principio direttivo della legge delega in materia di azione revocatoria v. MONTANARI, Riduzione
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Tale delega è stata esercitata dal Governo attraverso l’art. 55, d.lg. 9.1.2006,
n. 5 con il quale è stato introdotto nella legge fallimentare l’art. 69 bis rubricato
« Decadenza dall’azione » che recita testualmente: « Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione
di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell’atto».
Si tratta forse del primo e certamente benvenuto intervento posto in essere dal
legislatore sui termini per l’esercizio dell’azione revocatoria. I termini introdotti
sono due: il primo, di tre anni, con decorrenza dalla dichiarazione di fallimento
ed il secondo, di cinque anni, con decorrenza dal compimento dell’atto oggetto
di revocatoria.
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione della norma in esame, seguendo
una interpretazione rigorosa fondata essenzialmente sul dato letterale, sembra
corretto ritenere che essa abbia riguardo alle sole azioni revocatorie disciplinate
nella Sezione III del Capo III e del Titolo II con esclusione, quindi, delle azioni di
inefficacia disciplinate dagli artt. 64 e 65 l. fall. 10. La inefficacia degli atti e pagamenti derivante dall’applicazione di tali due norme è conseguenza automatica
della dichiarazione di fallimento e, pertanto, la sentenza che accoglie la relativa
domanda è una sentenza avente natura dichiarativa e non costitutiva come quella relativa all’azione revocatoria, con la conseguenza che l’azione giudiziale tesa
alla dichiarazione di inefficacia deve ritenersi non soggetta ad alcun termine di
prescrizione 11.
I termini dell’art. 69 bis l. fall. riguardano dunque gli artt. 66, 67, 67 bis, 68 e 69
l. fall. sia con riferimento alla procedura di fallimento che alle altre procedure
concorsuali che richiamano espressamente le disposizione del Titolo II, Capo III,
Sezione III, ossia la liquidazione coatta amministrativa in forza dell’art. 203 l. fall.
e l’amministrazione straordinaria in forza degli artt. 49 e 91, d.lg. 270/1999
e art. 6, d.l. 23.12.2003, n. 347 conv., con modificazioni, in l. 18.2.2004, n. 39 e
successive modificazioni e integrazioni.
Ma, al di là dell’ambito di applicazione, il dato più interessante introdotto dal
legislatore della riforma con l’art. 69 bis l. fall. è senza dubbio quello di aver qualificato tale termine come termine di decadenza piuttosto che di prescrizione come invece il legislatore del codice civile aveva qualificato con l’art. 2903 c.c. il
termine quinquennale per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria. A ben ve-
del termine di decadenza per l’esercizio dell’azione revocatoria, Fa, 2005, 1029 ss.; CASTAGNOLA, La
delega sulle procedure concorsuali, RDPr, 2005, 998.
10 Cass., 16.3.2003, n. 4466, Fa, 2003, 1088, con nota di FABIANI.
11 Cfr. GUGLIELMUCCI, Lezioni di diritto fallimentare, Torino, 2001, 165; Trib. Treviso, 15.10.1996,
DF, 1997, II, 1016, con nota di PAVAN; Cass., 16.1.1970, n. 93, DF, 1970, 766.
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dere però detta qualificazione non costituisce una novità assoluta, anzi, al di là
del dato letterale dell’art. 2903 c.c., anche con riferimento alla revocatoria ordinaria, la dottrina 12 largamente prevalente aveva già ritenuto che si trattasse di
decadenza e non di prescrizione 13 e, ciò, in linea con la natura costitutiva dell’azione revocatoria sia ordinaria che fallimentare 14. La espressa qualificazione
come decadenziale del termine per l’esercizio dell’azione revocatoria sia ordinaria che fallimentare deve dunque essere accolto positivamente.
E, del resto, come è noto, la sentenza di accoglimento della domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica « ex post » una situazione giuridica preesistente, privando di effetti giuridici atti che altrimenti avevano già conseguito la piena efficacia e condannando l’accipiens alla restituzione
dei beni o delle somme oggetto della revoca alla funzione di garanzia generale
ed alla soddisfazione dei creditori. Pertanto, la situazione giuridica vantata dalla
massa ed esercitata dal curatore non attiene alla tutela di un diritto di credito
(alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento, né, tantomeno, alla tutela di un diritto di credito che sorge all’atto della dichiarazione
del fallimento e indipendentemente dall’esercizio dell’azione giudiziale bensı̀ attiene alla tutela di un diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria c.d.
a carattere formativo necessariamente giudiziale, nel senso che tale diritto potrà
essere attuato solo attraverso la presentazione di una domanda giudiziale, e rispetto al quale non è quindi configurabile l’interruzione del termine per l’esercizio dell’azione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943, ult.
co., c.c.).
Come è noto, infatti, il diritto potestativo è il potere in virtù del quale il suo
titolare può influire su situazioni giuridiche preesistenti mutandole, estinguendole o creandone di nuove, mediante una propria ed autonoma attività unilate-
12 Cfr. CONSOLO, La revocatoria ordinaria nel fallimento fra ragioni individuali e ragioni di massa,
RDPr, 1998, 409; CONSOLO-MONTANARI, La revocatoria ordinaria nel fallimento e le questioni di prescrizione (recte, decadenza), CorG, 2005, 400; MONTANARI, Riduzione del termine di decadenza, cit., 10311032.
13 Cfr. secondo quanto osservato da Consolo e Montanari nelle opere citate nella nota precedente, il
fatto che il legislatore del 1942 abbia configurato – con l’art. 2903 c.c. – come prescrizionale il termine
per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria piuttosto che quello di decadenza sarebbe dovuto alla
introduzione nel codice civile del 1942 delle norme sulla decadenza solo alla fine e senza alcun coordinamento con le altre norme. Questo spiegherebbe perché, nel disciplinare il fenomeno della estinzione delle varie situazioni giuridiche soggettive per il mero decorso del tempo, il legislatore abbia fatto
indistintamente riferimento al concetto di prescrizione, già regolato nel codice civile del 1865, e non
a quello « nuovo» di decadenza.
14 In giurisprudenza per la natura costitutiva della pronuncia di revoca v. Cass., Sez. Un., 13.6.
1996, n. 5443, CorG, 1996, 1017, con nota di GIO. TARZIA; Cass., Sez. Un., 9.7.1996, n. 6225, Fa,
1996, 999; Cass., sez. I, 11.6.2004, n. 11097, Fa, 2004, 1279.
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rale, che può essere costituita in linea generale da un atto reale, da un negozio
giuridico ovvero da una domanda giudiziale. Per quanto attiene all’azione revocatoria, la tutela avanzata dalla curatela attraverso l’esercizio del diritto potestativo deve passare necessariamente per una pronuncia giudiziale che realizza la
modificazione della situazione giuridica preesistente e la costituzione di una
nuova.
Dalla natura costitutiva dell’azione revocatoria e dalla qualificazione della situazione giuridica fatta valere dalla curatela come diritto potestativo deriva che
il termine per l’esercizio dell’azione sia qualificato come termine di decadenza e
non di prescrizione. Invero, mentre la decadenza attiene ad un termine entro il
quale il titolare del diritto deve compiere una determinata attività, in difetto della quale l’esercizio del diritto deve ritenersi definitivamente precluso a prescindere da ogni situazione soggettiva che abbia determinato tale inutile decorrenza
del termine e, conseguentemente, esso non è soggetto a possibile interruzione o
sospensione, la prescrizione attiene al mancato esercizio del diritto entro un termine stabilito dalla legge il quale può essere interrotto, anche a mezzo di un atto
di costituzione in mora (cfr. art. 2943, 3o co., c.c.) oppure a seguito del riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale può essere fatto valere
(cfr. art. 2944 c.c.) e può essere anche sospeso in virtù dei rapporti tra le parti (cfr.
art. 2941 c.c.) ovvero della condizione di colui che può esercitare il diritto
(cfr. art. 2942 c.c.) 15.
Pertanto, atteso che il diritto fatto valere dalla curatela nell’azione revocatoria
(sia fallimentare che ordinaria) è un diritto potestativo e non di credito la cui tutela richiede necessariamente l’azione giudiziale, il termine fissato dalla norma
per il suo esercizio va letto come un termine all’azione giudiziale tesa a modificare la situazione giuridica preesistente e, conseguentemente, esso non potrà essere né sospeso, né interrotto se non attraverso la notifica dell’atto introduttivo
del giudizio. Proprio in virtù delle considerazioni sopra indicate, si ritiene che
15 Sul punto GAZZONI, Diritto Privato, Napoli, 2006, 110, prende una posizione critica sul riferimento
operato dall’art. 2934 c.c. alla estinzione del diritto, osservando che se cosı̀ fosse non si comprenderebbe il senso dell’art. 2940 c.c. secondo cui non ammessa la ripetizione di quanto corrisposto in
adempimento di un debito prescritto. Se infatti il diritto di credito fosse estinto per intervenuta prescrizione il pagamento non sarebbe più dovuto e dunque ripetibile in quanto indebito oggettivo ex art. 2033
c.c. Da qui, sempre secondo l’Autore sopra citato, si dovrebbe ritenere che a seguito della intervenuta
prescrizione nascerebbe una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. con conseguente soluti retentio in
caso di pagamento spontaneo. Il diritto prescritto, pertanto, non si estingue ma « perde la propria forza »,
nel senso che, se si agisce in giudizio, il terzo potrà eccepire la intervenuta prescrizione entro i termini
prescritti dall’art. 167 c.p.c., ma se tale eccezione non viene sollevata o viene sollevata tardivamente, il
diritto potrà essere fatto valere ad ogni effetto. In altri termini, la dottrina in esame ritiene che la prescrizione produca effetti preclusivi e non già estintivi del diritto.
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bene abbia fatto il legislatore della riforma a precisare che il termine per l’azione
revocatoria è un termine di decadenza e non di prescrizione.
Passando ad esaminare l’operatività dei due termini introdotti dall’art. 69 bis
l. fall. sembrerebbe che vi sia un rapporto di alternatività tra i due e ciò anche
sulla base del dato letterale della norma il quale precisa che le azioni revocatorie
non possono essere intraprese decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento
«... e comunque... » decorsi cinque anni dal compimento dell’atto. Come a dire che
per l’esercizio dell’azione revocatoria non devono essere decorsi nessuno dei
due termini indicati dalla norma in esame. Si tratta tuttavia di termini che appaiono avere campi di applicazione distinti ma non esclusivi e, soprattutto, sembrerebbero tesi ad eliminare alcune anomalie del nostro ordinamento che obiettivamente risultavano gravemente lesive del principio di certezza e stabilità dei
rapporti giuridici.
La sensazione è dunque che il legislatore della riforma, al fine di conferire
maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici, abbia prestato attenzione a tutti quei casi particolari in cui era possibile arrivare ad ottenere la revocatoria di
atti anche al di là del quinquennio. Il riferimento è a tutte quelle ipotesi in cui
il periodo sospetto viene esteso in modo indeterminato, come quella disciplinata
dall’art. 69 l. fall. ove è prevista la revocabilità di tutti gli atti indicati dall’art. 67
l. fall. durante l’intero arco temporale in cui il coniuge ha esercitato un’impresa
commerciale; ovvero a quelle ipotesi in cui il periodo sospetto viene esteso per
un arco temporale forse troppo ampio ed è il caso dell’art. 91, d.lg. 8.7.1999,
n. 270 sulla revocatoria aggravata infragruppo nelle Amministrazioni Straordinarie
ove si prevede che la revocatoria nei confronti delle « imprese del gruppo » 16 possa
essere proposta avverso atti indicati nei nn. 1, 2, e 3 del 1o co. dell’art. 67 l. fall.
compiuti nei cinque anni anteriori alla dichiarazione di fallimento e avverso atti
indicati nel n. 4 e nel 2o co. dello stesso articolo compiuti nei tre anni anteriori 17.
Ma il riferimento ai casi particolari per i quali dovrebbe trovare applicazione
il termine quinquennale introdotto dall’art. 69 bis l. fall. sono anche quelli in cui il
Per una definizione delle « imprese del gruppo » si veda l’art. 80, 1o co., lett. b), mentre per la definizione della impresa dichiarata insolvente si veda l’art. 88, 1o co., lett. a), d.lg. 270/1999.
17 Ancorché il citato art. 91 non faccia un espresso rinvio alla Sezione III, Capo II, Titolo II della legge
fallimentare ma solo all’art. 67 l. fall. sembrerebbe comunque applicabile anche al caso di specie la
disposizione dell’art. 69 bis l. fall. sui termini di decadenza, posto che tale ultima norma è sistematicamente e logicamente collegata all’art. 67 l. fall. E, del resto, qualora ritenessimo che il richiamo all’art. 67 l. fall. operato dall’art. 91, d.lg. 270/1999, vada letto in modo rigoroso e dunque non ritenendo
applicabile per tale ipotesi l’art. 69 bis l. fall. si arriverebbe alla conclusione che l’azione revocatoria
fallimentare è soggetta ai termini di decadenza previsti dall’art. 69 bis l. fall. solo nella ipotesi in cui
la stessa è esercitata dal fallimento e ciò con una palese violazione del principio costituzionale di eguaglianza.
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dies a quo per il computo a ritroso del periodo sospetto viene spostato ad una data antecedente rispetto a quella della dichiarazione di fallimento, ed è il caso della consecuzione di procedure, ovvero il caso delle liquidazioni coatte amministrative qualora vi sia un ampio arco temporale tra il decreto ministeriale di
apertura della procedura e la successiva dichiarazione di insolvenza, posto
che il computo a ritroso del periodo sospetto decorre dalla dichiarazione di insolvenza e non dal decreto ministeriale di apertura della procedura 18.
Certamente si potrebbe avanzare qualche dubbio di legittimità costituzionale
con riferimento alla lesione del diritto di difesa, laddove, ad esempio, sia il curatore fallimentare, nel caso di consecuzione di procedure, sia il commissario liquidatore, nel caso di liquidazioni coatte amministrative, per effetto dello spirare del termine quinquennale dal compimento dell’atto, si troverebbero ad essere
decaduti dall’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare prima ancora che siano maturate le condizioni di diritto per poterla esercitare o, ancora più precisamente, prima ancora che il diritto da esercitare sia sorto. Il problema non si pone
per l’azione revocatoria ordinaria che, come è noto, può essere intrapresa, ai sensi dell’art. 2901 c.c., anche prima che sia aperta una procedura concorsuale da
parte dei singoli creditori e, pertanto, anche per il curatore vale il termine quinquennale previsto dall’art. 2903 c.c. 19. Il problema resta invece con riferimento
all’azione revocatoria fallimentare che, come è noto, è un’azione tipica del fallimento e che, pertanto, non potrà essere esercitata se non a seguito di una dichiarazione di fallimento. La domanda che dovremmo porci è quindi la seguente: si
può applicare il principio generale indicato nell’art. 2935 c.c. 20, valido per i termini di prescrizione, anche per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare
per la quale l’art. 69 bis l. fall. ha espressamente previsto che detta azione è soggetta a due termini di decadenza? ovvero, in altri termini, il principio portato
dall’art. 2935 c.c. è un principio generale del nostro ordinamento applicabile anche al di là della disciplina sulla prescrizione?
La risposta, a rigore, dovrebbe essere negativa e ciò principalmente perché il
dato letterale non sembra lasciare spazio ad una diversa interpretazione, peraltro se il legislatore avesse voluto che tale principio operasse al di là della disci-
18
Cfr. Cass., 18.7.2007, n. 15960, GCM, 2007, 7-8; Cass., 24.7.2007, n. 16383, GC, 2008, 3, 696.
Cfr. Cass., 5.12.2003, n. 18607 « l’azione revocatoria ordinaria, esercitata dal curatore a norma
dell’art. 66 legge fallimentare, si identifica con quella che i singoli creditori, prima della dichiarazione di
fallimento, avrebbero potuto esperire, a norma degli artt. 2901 e segg. cod. civ., contro gli atti pregiudizievoli compiuti dal debitore e che la prescrizione (quinquennale), anche nei confronti della curatela
fallimentare, decorre ai sensi dell’art. 2903 cod. civ. dalla data dell’atto impugnato (cfr. in tal senso
cass. n. 1041 del 1977; cass. n. 4279 del 1978; cass. n. 322 del 1980) ».
20 L’art. 2935 c.c. rubricato « Decorrenza della prescrizione» recita testualmente « La prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere».
19
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
plina sulla prescrizione lo avrebbe collocato in altra sede e non tra le norme sulla
prescrizione. In ogni caso poi, per quanto abbiamo visto sopra, esistono delle
profonde differenze tra il termine di decadenza e quello di prescrizione laddove
la natura stessa del primo, la cui decorrenza prescinde da ogni elemento soggettivo, non sembra collimare con il principio di diritto dell’art. 2935 c.c. che attiene
proprio alla esistenza di un impedimento di diritto di esercitare l’azione.
Va però segnalato che l’orientamento della giurisprudenza di legittimità 21,
prima della riforma, riteneva che il termine quinquennale previsto dall’art.
2903 c.c. andasse letto in relazione all’art. 2935 c.c. e, pertanto, che l’azione revocatoria fallimentare fosse soggetta al termine di prescrizione quinquennale con
decorrenza dalla data di dichiarazione di fallimento perché solo a partire da tale
data il diritto sostanziale poteva essere esercitato dal curatore. Tale orientamento
quindi riteneva applicabile il principio dell’art. 2935 c.c. anche alle revocatorie
fallimentari, ancorché il termine per l’esercizio dell’azione era ritenuto, al di là
del dato letterale dell’art. 2903 c.c., di decadenza. Vi era dunque stata da parte
della giurisprudenza di legittimità un’apertura rilevante in tal senso. L’applicazione pratica di tale orientamento era quella di calcolare il termine quinquennale
entro il quale esercitare l’azione revocatoria fallimentare a partire dalla sentenza
dichiarativa di fallimento mentre non era previsto nessun termine con decorrenza dalla data di compimento dell’atto. Anche quindi in caso di consecuzione di
procedure, il termine entro il quale il curatore poteva esercitare l’azione revocatoria fallimentare era di cinque anni a decorrere dalla data di dichiarazione di
fallimento e ciò a prescindere dalla data in cui l’atto oggetto di revocatoria era
stato posto in essere.
Oggi, con l’introduzione dell’art. 69 bis l. fall. tale principio non risulta più applicabile, sembrerebbe allora porsi un problema di legittimità costituzionale. Invero, la risposta negativa alla domanda sopra formulata, non risulta soddisfacente lasciando aperti alcuni interrogativi afferenti la legittimità costituzionale
dell’art. 69 bis l. fall. rispetto all’art. 24 Cost. nella parte in cui prevede il termine
di decadenza di cinque anni per le azioni indicate negli artt. 66-69 l. fall. a decorrere dalla data di compimento dell’atto, potendo verificarsi che, per effetto dello
spirare del termine quinquennale, gli organi della procedura legittimati ad agire
in revocatoria fallimentare di fatto sarebbero impediti all’esercizio di tale diritto
prima ancora che siano maturate le condizioni di diritto perché ciò possa accadere. Si pensi alla dichiarazione di fallimento o di insolvenza intervenuta oltre il
quinquennio e comunque a seguito di una procedura minore, quale potrebbe es-
21 Cfr. Cass., 5.12.2003, n. 18607, GI, 2004, 786; Cass., 5.11.1999, n. 12317, Fa, 2000, 1340;
Cass., 15.5.1997, n. 4296, Fa, 1997, 1187.
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L’azione revocatoria fallimentare
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sere il concordato preventivo ovvero a seguito di un decreto di apertura della
procedura, quale potrebbe essere nel caso della liquidazione coatta amministrativa. Si tratterebbe di un diritto il cui esercizio è decaduto prima ancora che sia
sorto.
Di fronte a tale dubbio di legittimità costituzionale parte della dottrina 22 ha
ritenuto che, al solo fine di fornire una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 69 bis l. fall., il termine quinquennale debba essere letto come un termine
riferito esclusivamente all’azione revocatoria ordinaria ex artt. 66 l. fall. e 2901
c.c., mentre il termine triennale debba essere riferito alle azioni revocatorie fallimentari ex artt. 67, 68 e 69 l. fall.
A ben vedere però nel nostro ordinamento vi sono anche altri casi in cui un
soggetto diventa titolare di un diritto nel momento in cui il termine per il suo
esercizio è già spirato. Si tratta, ad esempio, dell’ipotesi in cui un soggetto diventa creditore dopo cinque anni che il debitore ha posto in essere atti dispositivi
del proprio patrimonio in violazione dell’art. 2741 c.c., soggetti a revocatoria
ordinaria. Anche per tale ipotesi, come è noto, il diritto di agire in revocatoria
ordinaria verrebbe a sorgere dopo che il termine per il suo esercizio è spirato.
Anche per tale ipotesi, il creditore sarebbe titolare di un diritto « nato morto » 23
22 Cfr. FARINA, L’azione revocatoria nella nuova legge fallimentare, FARINA-DI IULIO-GIO. TARZIA, Milano,
2006, 81 ss. In particolare, Farina precisa che «... i due termini di decadenza previsti dall’art. 69-bis L.F.
non possano porsi, tra di loro, in un rapporto di alternatività rispetto a qualsiasi azione revocatoria tale
per cui a venire in rilievo è, in ogni caso, quello dei due destinato a scadere per primo; appare, invece,
più giustificato e sicuramente preferibile ritenere che i due termini in questione non interferiscano tra di
loro e abbiano un diverso e separato ambito applicativo. Il primo, di durata triennale con decorrenza fissata alla data della dichiarazione di fallimento, è destinato ad operare, da solo ed esclusivamente, per
le azioni revocatorie fallimentari – id est per quelle azioni revocatorie a cui corrisponde l’esercizio in
forma giudiziale di un potere che nasce ed è attribuito al curatore (o al commissario straordinario) in
seguito proprio alla dichiarazione di fallimento –, il secondo, di durata quinquennale con decorrenza
fissata alla data di compimento dell’atto, è destinato ad operare, da solo ed esclusivamente, per l’azione revocatoria ordinaria che il curatore (o il commissario straordinario) può proporre ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 66 L.F.». Tale lettura non merita di essere condivisa nella parte in cui omette di considerare che il termine quinquennale potrebbe trovare applicazione anche per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, ad esempio nel caso di consecuzione di procedure, ove tra l’atto da impugnare e
la dichiarazione di fallimento vi sia un arco temporale inferiore a cinque anni. A ben vedere, infatti, il
termine quinquennale potrebbe non trovare applicazione perché è già maturato quello triennale e questo è l’ipotesi più frequente e normale; potrebbe trovare applicazione prima del termine triennale laddove vi sia consecuzione di procedure o anche vi sia un atto tra coniugi compiuto, ad esempio, tre o
quattro anni prima della dichiarazione di fallimento; potrebbe trovare applicazione prima che sia dichiarato il fallimento, precludendo ogni possibilità di esercizio da parte del curatore. Ipotesi quest’ultima
che se da un lato apre interrogativi sulla legittimità costituzionale della norma, dall’altro non sembra
costituire argomentazione sufficiente per ritenere che vi siano due diversi ambiti applicativi per i termini
decadenziali introdotti dall’art. 69 bis l. fall.
23 Cfr. espressione usata da FARINA, op. cit., 82.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
al pari del curatore fallimentare nominato, a causa della consecuzione di procedure, dopo cinque anni dal compimento dell’atto revocabile.
Del resto, però, salva l’ipotesi della revocatoria ordinaria in sede fallimentare
per la quale, peraltro, esisteva già prima della riforma l’art. 2903 c.c. che impone
all’esercizio della stessa il termine di cinque anni dal compimento dell’atto, a
fronte di un periodo sospetto ridotto ad un massimo di un anno (cfr. art. 67,
1o co., nn. 1, 2, 3, l. fall.) dalla dichiarazione di fallimento, l’introduzione di un
termine triennale dalla dichiarazione di fallimento avrebbe precluso ogni possibilità applicativa al termine quinquennale dal compimento dell’atto, spirando
evidentemente sempre prima di quest’ultimo. Invero, aggiungendo un anno
che, come è noto, rappresenta l’estensione massima del periodo sospetto di
cui all’art. 67 l. fall., ai tre anni che costituiscono il termine di decadenza per
l’esercizio dell’azione a decorrere dalla dichiarazione di fallimento arriveremmo
al massimo a quattro anni dal compimento dell’atto oggetto di revocatoria e
quindi tale termine verrebbe a scadere sempre prima di quello quinquennale
dal compimento dell’atto. Sicché, sembra possibile concludere che il termine
quinquennale decorrente dalla data di compimento dell’atto trovi applicazione
solo per l’azione revocatoria ordinaria e, in talune ipotesi, anche per l’azione revocatoria fallimentare tra coniugi (art. 69 l. fall.), nonché in caso di consecuzione
di procedure, di liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria.
1.3. La consecuzione di procedure
La consecuzione di procedure è stata una questione molto dibattuta, soprattutto in dottrina.
La discussione aveva ed ha per oggetto la individuazione del dies a quo, a decorrere dal quale andrebbe calcolato (a ritroso) il periodo sospetto, nel caso in cui
via sia una consecuzione di procedure concorsuali, o meglio, nel caso in cui l’imprenditore sia stato ammesso ad una procedura concorsuale minore prima di
essere dichiarato fallito.
La questione non era regolamentata nel precedente regime né lo è oggi a seguito della riforma 24.
Prima della riforma fallimentare, si erano formati due diversi orientamenti 25.
24 Il riferimento alla riforma va inteso come il richiamo al d.l. 35/2005 convertito nella l. 80/2005,
il d.lg. 5/2006 ed il d.lg. 169/2007.
25 Per una dettagliata e puntale ricostruzione delle diverse tesi contrapposte in tema di consecuzione di procedure prima della riforma si veda SEVERINI, Revocatoria nella consecuzione di procedure, in
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L’azione revocatoria fallimentare
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Il primo sosteneva che nell’ipotesi in cui vi fosse stata una consecuzione di procedure il periodo sospetto andasse calcolato con decorrenza dal decreto di ammissione della società alla procedura minore (concordato preventivo o amministrazione controllata); mentre il secondo orientamento riteneva che la consecuzione di procedure non avesse effetti sul calcolo del periodo sospetto e, pertanto,
che lo stesso andasse calcolato sempre a decorrere dalla dichiarazione di fallimento. A sostegno della consecuzione di procedure militava l’orientamento largamente prevalente della dottrina 26 e quello pressoché univoco della Corte di
Cassazione 27 secondo il quale nell’ipotesi in cui vi sia consecuzione di procedure
il periodo sospetto andava calcolato prendendo quale dies a quo la data di apertura della procedura minore. Più in particolare, tale orientamento si fondava sul
convincimento che la sequenza delle procedure concorsuali non comporta una
successione di procedimenti ma la costituzione di una unica procedura concorsuale le cui singole procedure rappresentano delle fasi prive di rilevanza ed
autonomia. Sicché, il fallimento rappresenta lo sviluppo della condizione di dissesto che diede causa alla procedura minore 28.
A sostegno della tesi secondo la quale in caso di consecuzione di procedure il
dies a quo debba coincidere con la data di dichiarazione di fallimento e non con
quella di apertura della procedura minore, militava parte della giurisprudenza
di merito 29 e della dottrina 30. Più in particolare, tale orientamento si divideva
Diritto Fallimentare, Milano, 1994, 271 ss.; GIO. TARZIA, Le azioni revocatorie nelle procedure concorsuali, Milano, 2003, 51 ss.
26 Cfr. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, II, 1023; LO CASCIO, L’Amministrazione controllata, Milano, 1989, 249; LO CASCIO, Consecuzione di procedimenti e decorrenza dei termini
per l’azione revocatoria, Fa, 1992, 1013; MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare,
Padova, 1991, sub art. 67, VII; GUGLIELMUCCI, Fallimento consecutivo ad amministrazione controllata
e decorrenza dei termini a ritroso per l’esercizio delle azioni revocatorie, Fa, 1990, 473; PANZANI, Consecuzione di procedure e dies a quo per l’esercizio dell’azione revocatoria, Fa, 1993, 129; APICE, La
consecuzione delle procedure concorsuali, Fa, 1997, III, il quale rilevava che: « a ben vedere, il computo
dei termini a ritroso non è un problema di retrodatazione degli effetti del fallimento, ma piuttosto di interpretazione (non analogica, il che porrebbe interrogativi di ammissibilità in questa materia, ma dichiarativa-estensiva) dell’art. 67 l. fall. ».
27 Cfr. Cass., 27.10.1956, n. 3981, FI, 1957, I, 2114; Cass., 7.12.1966, n. 2872, FI, 1967, I, 756;
Cass., Sez. Un., 14.12.1977, n. 4370, FI, 1978, 397; Cass., 18.7.1990, n. 7339, Fa, 1990, con nota
di BOZZA; Cass., 19.10.1993, n. 10353, FI, 1994, I, 1807, con nota di FABIANI; Cass., 16.4.2003,
n. 6019, Fa, 2004, 644, con nota di DE VIRIGILIIS; Cass., 14.3.2006, n. 5527, GCM, 2006, 3.
28 Cfr. Cass., 6019/2003, cit.
29 Cfr. Trib. Genova, 2.10.1986, Fa, 1987, 1172, con nota di GIO. TARZIA; Trib. Milano, 7.4.1988, Fa,
1988, 1239; Trib. Milano, 2.7.1992, Fa, 1993, 213; Trib. Milano, 16.9.1993, FI, 1994, I, 1808, con
nota di FABIANI.
30 Cfr. BONSIGNORI, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca l. fall., Bologna-Roma,
1979, sub art. 173, 299 ss.; GIUS. TARZIA, Successione di procedimenti concorsuali e termini per la re-
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
tra coloro che si limitavano a contestare il principio della consecuzione solo nel
caso in cui si fosse passati dalla procedura di amministrazione controllata al fallimento e coloro che invece contestavano integralmente il principio della consecuzione di procedure. Le argomentazioni portate dagli interpreti più rigorosi si
fondavano esclusivamente sul dato letterale espresso dall’art. 67 l. fall. il quale,
come è noto, prevede testualmente che il periodo sospetto decorra dalla data di
dichiarazione di fallimento 31. Tale orientamento negava inoltre ogni interpretazione estensiva o analogica dell’art. 67 l. fall. in considerazione della diversità
delle procedure e dei relativi presupposti. L’orientamento sostenuto dagli interpreti più moderati riteneva invece che non vi potesse essere consecuzione solo
tra amministrazione controllata e fallimento. Tale posizione era basata sul rilievo
che il presupposto oggettivo per accedere alle due diverse procedure minori era
diverso e solo per il concordato preventivo esso era coincidente con quello del
fallimento. Invero, mentre il presupposto oggettivo per accedere al concordato
preventivo era lo « stato di insolvenza », quello per accedere alla procedura di
amministrazione controllata era la « temporanea difficoltà ad adempiere ». Ebbene, l’orientamento in esame riteneva che non potesse esservi unificazione tra
procedure sorte su presupposti diversi e che tale diversità consisteva nel fatto
che mentre nel caso di stato di insolvenza il debitore versava in una crisi irreversibile nel caso di temporanea difficoltà ad adempiere lo stesso aveva le potenzialità per poter reagire e risanare la situazione, atteso che la crisi era reversibile e
temporanea.
Alle contestazioni mosse dagli interpreti contrari alla consecuzione di procedure, la giurisprudenza di legittimità rispondeva che nel caso di consecuzione
vocatoria, RDPr, 1967, 503; GIO. TARZIA, Consecuzione di procedure concorsuali e revocatoria fallimentare, Fa, 1987, 1173; AZZOLINA, Sul computo del biennio di cui all’art. 67 l. fall. nel caso di fallimento
preceduto da concordato preventivo, GI, 1956, I, 2, 619.
31 L’art. 67 l. fall., anche nella formulazione novellata dal d.l. 35/2005, prevede che il periodo
sospetto inizi a decorrere dalla dichiarazione di fallimento. Si riportano di seguito i primi due commi
dell’art. 67 l. fall. novellato: « Sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato
d’insolvenza del debitore: 1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso; 2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non
effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento; 3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno anteriore alla
dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti; 4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.
Sono altresı̀ revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di
prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla
dichiarazione di fallimento ».
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L’azione revocatoria fallimentare
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tra concordato preventivo e fallimento il presupposto oggettivo dello stato di insolvenza era il medesimo e che il riferimento contenuto nell’art. 67 l. fall. alla dichiarazione di fallimento, quale termine per il calcolo a ritroso del periodo sospetto, andava interpretato come un richiamo al mezzo legale con il quale viene
normalmente accertato lo stato di insolvenza e, pertanto, la medesima efficacia
prodotta in tal senso dalla sentenza di fallimento doveva essere attribuita anche
al decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo che, come è
noto, operava lo stesso tipo di accertamento 32. Per quanto attiene alla consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento, la giurisprudenza di legittimità 33 ha invece superato le contestazioni contrarie all’istituto in questione, ritenendo che i presupposti oggettivi richiesti dalle due diverse procedure, a ben
vedere, non erano diversi e che l’unica differenza tra essi consisteva nella reversibilità del fenomeno. Pertanto, secondo tale orientamento, anche la temporanea
difficoltà ad adempiere rientrava nel fenomeno della insolvenza e si differenziava dallo stato di insolvenza indicato dall’art. 5 l. fall. solo sotto il profilo quantitativo ma non anche sotto quello qualitativo. Anche l’imprenditore che accedeva alla procedura di amministrazione controllata era insolvente, anche se il suo
stato di insolvenza presentava indicazioni tali da poter presumere il superamento dello stesso ed il ritorno ad uno stato di equilibrio economico e finanziario
tale da consentire il soddisfacimento dei propri creditori con mezzi normali di
pagamento.
A partire dalla sentenza 27.10.1956, n. 3981 34 l’orientamento della Suprema
Corte in tema di consecuzione di procedure è stato quindi sempre teso al riconoscimento dell’istituto e ciò sulla base del principio che il presupposto per l’ammissione alle procedure di concordato preventivo e di amministrazione controllata fosse il medesimo rispetto a quello del fallimento, e che, pertanto, lo stato di
insolvenza indicato per il concordato preventivo dal previgente art. 160 l. fall.
cosı̀ come la temporanea difficoltà indicata per l’amministrazione controllata
dal previgente art. 187 l. fall. fossero coincidenti con lo stato di insolvenza indicato dall’art. 5 l. fall., nel momento in cui l’impresa non fosse riuscita a superare
le proprie difficoltà durante la procedura minore.
32
Cfr. Cass. 3981/1956, cit.
Cass. 2872/1966, cit.; Cass., Sez. Un., 4370/1977, RDCo, 1978, II, 78, con nota di G. FERRI;
Cass. 5527/2006, cit.
34 In DF, 1957, II, 117; Cass., 26.11.1960, n. 3147, DF, 1961, II, 280; Cass., 19.6.1972, n. 1938,
BBTC, 1973, II, 100; Cass., 28.7.1972, n. 2579, BBTC, 1973, II, 31; Cass., 30.3.1981, n. 1816, GCo,
1982, II, 290; Cass., 22.6.1985, n. 3757, Fa, 1985, 1093; Cass., 19.10.1993, n. 10353, FI, 1994, I,
1807; Cass., 22.5.1994, n. 4240, DF, 1995, II, 238 e Cass., 22.6.1994, n. 5966, Fa, 1994, 1147, con
nota di FABIANI.
33
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
La consecuzione di procedure è stata inoltre ritenuta esistente dalla giurisprudenza di legittimità 35 anche nel caso in cui vi sia stato un intervallo di tempo tra
la procedura minore ed il fallimento, sempre che vi sia stata «... correlazione logica
tra le varie situazioni e sulla costanza dei due presupposti essenziali dei vari procedimenti: identità di qualificazione imprenditoriale; identità di situazione di crisi qualificabile
come insolvenza». Pertanto, secondo tale sentenza, anche in difetto di continuità
materiale tra le due procedure era comunque possibile applicare l’istituto della
consecuzione, sempre che la dichiarazione di fallimento fosse intervenuta sulla
base dei medesimi presupposti oggettivi e soggettivi che avevano dato luogo alla prima delle procedure. In altri termini, la ratio della retrodatazione del periodo sospetto aveva come presupposto la continuità causale e non necessariamente anche quella temporale.
Il contrasto interpretativo sorto tra la giurisprudenza di legittimità e parte di
quella di merito fu sottoposto all’esame della Corte costituzionale la quale, con
sentenza 6.4.1995, n. 797 36 ritenne che non vi fosse alcuna illegittimità costituzionale nella interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione sulla consecuzione di
procedure.
Successivamente all’intervento della Consulta, almeno nella giurisprudenza
edita 37, non sembra esservi stata più alcuna interpretazione difforme da quella
suggerita dalla Corte di Cassazione.
Va peraltro precisato che l’istituto della consecuzione non deriva da una retrodatazione degli effetti del fallimento ma solo dalla interpretazione estensiva
dell’art. 67 l. fall. 38. Sicché, nell’ipotesi di consecuzione di procedure mentre il
divieto di azioni esecutive persiste nella procedura di fallimento, in tema di rapporti giuridici pendenti non opera la consecuzione di procedure e quindi non vi
è retroattività degli effetti disciplinati dalla legge fallimentare (cfr. artt. 72 ss.
l. fall.) a decorrere dall’apertura della procedura minore bensı̀ dalla dichiarazione
di fallimento 39. Per quanto riguarda il calcolo degli interessi sul credito chirografario la sospensione prevista dall’art. 55 l. fall., in caso di consecuzione, secondo
parte della giurisprudenza andrebbe considerata con riferimento alla dichiara-
35 Cfr. Cass. 12536/1998, Fa, 1999, 658; Cass., 26.6.1992, n. 8013, Fa, 1992, 1027; Cass.,
2.6.1988, n. 3741, Fa, 1988, 972.
36 In Fa, 1995, 797, con nota di LO CASCIO ed FI, 1995, I, 1405, con nota di FABIANI.
37 La Suprema Corte ha infatti confermato il proprio orientamento in più occasioni. A tal proposito, si
veda Cass., 21.2.1997, n. 1612, Fa, 1997, 1101; Cass., 19.10.1997, n. 958, RDCo, 1997, II, 449;
Cass., 12.12.1998, n. 12536, cit.; Cass., 16.4.2003, n. 6019, cit.; Cass., 14.3.2006, 5527, cit.
38 Cfr. GUGLIELMUCCI, Fallimento consecutivo ad amministrazione controllata e decorrenza dei termini a ritroso per l’esercizio delle azioni revocatorie, cit., 474.
39 Cfr. LO CASCIO, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 549.
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L’azione revocatoria fallimentare
133
zione di fallimento e non alla data di apertura della procedura concorsuale minore 40 mentre secondo altra parte della giurisprudenza 41 il termine di riferimento per il calcolo degli interessi ex artt. 54, 3o co., e 55 l. fall. è costituito dalla data
di apertura della procedura minore.
Ciò detto, vediamo se la riforma della legge fallimentare ha fornito elementi
utili per confermare o mutare detto univoco orientamento della Suprema Corte.
Le prime e più evidenti novità introdotte dalla riforma fallimentare, rispetto
alla questione in esame, sono costituite dal mutamento del presupposto oggettivo per accedere al concordato preventivo che, come è noto, non è più lo « stato di
insolvenza » ma lo « stato di crisi »; l’abrogazione della procedura di amministrazione controllata, nonché l’introduzione di nuovi istituti: gli accordi di ristrutturazione (art. 182 bis l. fall.) ed i piani di risanamento [richiamati all’art. 67, 3o co.,
lett. d ), l. fall.].
Se dovessimo verificare la tenuta dell’istituto della consecuzione in relazione
alla ratio ispiratrice della riforma della revocatoria fallimentare che, come è noto,
è stata incentrata fortemente sulla necessità di conferire maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici, la sensazione immediata è senza dubbio quella che
tale istituto non possa più trovare cittadinanza nel nuovo assetto di interessi imposto dalla riforma fallimentare. A ben vedere però, approfondendo la ricerca,
sembrerebbe che la conclusione più corretta, pur nella opinabilità della interpretazione appresso prospettata, sia diametralmente opposta a quella che poteva essere data sulla base di una sensazione iniziale.
Ad un primo esame emerge infatti da subito che una eccessiva retrodatazione
dei termini per l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare collide con il principio della stabilità e della certezza degli atti e dei traffici commerciali. V’è poi
da osservare che l’abrogazione del fallimento d’ufficio e la eterogeneità dei presupposti oggettivi richiesti dalla nuova legge fallimentare per accedere alle singole procedure costituiscono elementi ulteriori a sostegno della sostanziale abrogazione dell’istituto della consecuzione di procedure.
A seguito dell’abrogazione del procedimento di amministrazione controllata,
il problema della consecutio può essere posto solo con riferimento al concordato
preventivo. Non risulta infatti applicabile detto istituto anche agli accordi di
ristrutturazione ed ai piani attestati di risanamento e ciò in considerazione del
fatto che questi ultimi non sembrano configurabili come procedure concorsuali,
40 Cfr. Cass. 7339/1990, cit. per l’ipotesi di consecuzione tra amministrazione controllata e fallimento.
41 Cfr. Cass., 30.8.2007, n. 18312, GCM, 2007, 7-8; Cass., 30.5.1994, n. 5284, GC, 1995, I,
1056.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
essendo fortemente caratterizzati sotto il profilo contrattuale ed essendo pressoché svincolati da ogni controllo da parte del Tribunale 42.
La compatibilità dell’istituto della consecuzione con il diritto fallimentare riformato passa quindi necessariamente attraverso l’esame dei presupposti oggettivi richiesti per accedere alle due diverse procedure concorsuali: concordato
preventivo e fallimento.
Ebbene, come è noto, l’art. 160, 1o co., l. fall., prevede che il presupposto oggettivo per accedere al concordato preventivo sia lo « stato di crisi » e che tale concetto, non avendo un preciso significato giuridico, ha dato spazio a critiche tali
da indurre lo stesso legislatore ad intervenire 43 aggiungendo un 2o co. all’art. 160
l. fall. con il quale ha precisato che « Ai fini del primo comma, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza ». Si tratta, quindi di verificare se tale precisazione
abbia voluto indicare che lo stato di crisi e lo stato di insolvenza sono sinonimi
per cui possono essere utilizzati indifferentemente per indicare la medesima situazione dell’imprenditore, oppure se entrambi sono riconducibili ad un fenomeno più ampio differenziandosi esclusivamente sotto il profilo quantitativo.
Questa seconda soluzione sembra quella adottata, in larga prevalenza, dalla dottrina e dalla giurisprudenza 44. Tale interpretazione si fonda sul dato letterale
della norma, ritenendo che ove si legge che lo stato di crisi comprende « anche »
lo stato di insolvenza, ma non il contrario, andrebbe interpretato nel senso che lo
stato di crisi abbia una portata più ampia rispetto allo stato di insolvenza. È come se ci trovassimo di fronte a due cerchi concentrici ove il cerchio più ampio è
costituito dallo stato di crisi mentre quello più piccolo dallo stato di insolvenza.
Sicché, la congiunzione « anche » sarebbe stata utilizzata per specificare qualcosa
di sottointeso, ossia che lo stato di insolvenza può rappresentare una forma di
manifestazione dello stato di crisi in un rapporto di species a genus. Lo stato di
crisi per accedere alla procedura di concordato preventivo rappresenta quindi
non solo qualcosa di più ampio rispetto allo stato di insolvenza ex art. 5 l. fall.
ma anche antecedente ad esso, atteso che a seguito della dichiarazione di fallimento il dissesto non è più reversibile.
42 In tal senso si veda APICE, L’abolizione del fallimento d’ufficio e la consecuzione delle procedure
concorsuali, Fa, 2008, 136; PATTI, Codice Commentato del Fallimento, Milano, 2008, 553.
43 Il riferimento è all’art. 36, d.l. 30.12.2005, n. 273, convertito con l. 23.2.2006, n. 51.
44 Per l’inclusione del concetto di insolvenza in quello di crisi, si veda DE CRESCENZIO -PANZANI, Il nuovo
diritto fallimentare (dal maxiemendamento alla legge n. 80 del 2005), Milano, 2005, 11; PACCHI, I presupposti del nuovo concordato preventivo, in Ead., Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, 62;
CENSONI, Il nuovo concordato preventivo, GCo, 2005, I, 731. In senso contrario, per l’autonomia del concetto di crisi da quello di insolvenza, si veda: BOZZA, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato preventivo, Fa, 2005, 954; PATTI, I diritti dei creditori nel nuovo concordato preventivo, in FABIANIPATTI, La tutela dei diritti nella riforma fallimentare. Scritti in onore di G. Lo Cascio, Milano, 2006, 276.
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L’azione revocatoria fallimentare
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Va peraltro osservato, sotto il profilo pratico, che l’operatività dell’istituto
della consecuzione non è più automatica, come lo era prima della riforma, a seguito dell’insuccesso della procedura minore. Invero, a seguito dell’abrogazione
del fallimento d’ufficio, una volta rigettata la proposta di concordato, ovvero revocato, risolto o annullato il concordato preventivo la procedura di fallimento
potrà essere aperta solo in forza di espressa istanza in tal senso da parte dei creditori o del pubblico ministero 45.
Sulla base delle considerazioni sopra sviluppate, sembrerebbe quindi che il
presupposto oggettivo per accedere al nuovo concordato preventivo ossia lo
« stato di crisi » costituisca un concetto affatto lontano dal presupposto oggettivo
che esisteva per accedere alla procedura di amministrazione controllata, ossia la
«... temporanea difficoltà di adempiere alle proprie obbligazioni...». Entrambi tali concetti sembrano riconducibili a quello più generale di insolvenza ed entrambi
sembrerebbero indicare una situazione di insolvenza reversibile. Peraltro, anche
le prime pronunce della giurisprudenza di merito hanno accolto la nozione di
crisi come una situazione patrimoniale, economica o finanziaria che pur comprendendo l’insolvenza irreversibile non si esaurisce in essa ma possa attenere
anche a situazioni di squilibrio economico o di difficoltà finanziaria non ancora
sfociate nell’insolvenza irreversibile 46.
Il principio di consecuzione di procedure, elaborato dalla giurisprudenza di
legittimità 47 per l’ipotesi di dichiarazione di fallimento nel corso della procedura
di amministrazione controllata, sembrerebbe, dunque, oggi applicabile all’ipotesi di dichiarazione di fallimento nel corso della procedura di concordato preventivo, atteso che sia il concetto di « stato di crisi » (presupposto oggettivo per ac-
45 Cfr. APICE, L’abolizione del fallimento d’ufficio e la consecuzione delle procedure concorsuali, cit.,
132. L’Autore mette in evidenza come il legislatore abbia escluso « apertis verbis la configurabilità di un
fallimento d’ufficio. Infatti: a) nell’art. 162 è stato soppresso il comma che prevedeva tout court la pronuncia di fallimento d’ufficio da parte del tribunale (nell’ipotesi in cui verificava la insussistenza delle
condizioni di ammissibilità); b) nello stesso articolo si prevede che il tribunale possa dichiarare il fallimento del debitore (ove ne ricorrano le condizioni), ma sempreché il debitore sia sentito in camera di
consiglio e che ci sia un’istanza del creditore o una richiesta del pubblico ministero; c) ugualmente l’art.
173, che, a proposito di comportamenti dolosi e fraudolenti da parte del debitore, prevedeva che il giudice delegato promuovesse dal tribunale la dichiarazione di fallimento, come del pari quando il debitore
durante la procedura compiva atti non autorizzati, prevede ora che il Tribunale, revocato il concordato,
possa dichiarare il fallimento, ma alle stesse condizioni indicate nell’ipotesi di riscontro dell’inesistenza delle condizioni di ammissibilità».
46 In tal senso si veda ZOCCA, Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e relazioni del professionista, SO, Milano, 2006, 8. In giurisprudenza si veda: Trib. Pescara, 20.10.2005, Fa, 2006, 56; Trib.
Bologna, 15.11.2005, GCo, 2006, 5 891, con nota di GALLETTI; Trib. Sulmona, 6.6.2005, Fa, 2005,
796; Trib. Bari, 7.11.2005, Fa, 2006, 52.
47 Cfr. nt. 3.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
cedere al nuovo concordato preventivo) che quello di « temporanea difficoltà di
adempiere » (presupposto oggettivo che veniva richiesto per accedere alla procedura di amministrazione controllata) sembrano riconducibili al più generale
concetto di insolvenza, differenziandosi entrambi dal concetto di « stato di insolvenza » ex art. 5 l. fall. su base quantitativa ma non anche su base qualitativa. E,
del resto, l’istituto della consecuzione di procedure sembra maggiormente aderente alla ratio del periodo sospetto ed alla revocabilità degli atti e pagamenti posti in essere dal debitore poi fallito. È infatti evidente che se vi è stata dispersione
della garanzia patrimoniale da parte dell’imprenditore poi fallito essa non può
che essere avvenuta prima che lo stesso sia stato sottoposto ad una procedura
concorsuale, considerato che successivamente, gli atti ed i pagamenti sono, in
parte, soggetti al controllo degli organi concorsuali e, in parte, sono compiuti direttamente dagli stessi. Né, d’altra parte, vale, a contrario, dedurre che l’abrogazione del fallimento d’ufficio abbia interrotto quella automaticità della dichiarazione di fallimento che costituiva il presupposto della consecuzione. Invero, è di
tutta evidenza che la sopravvivenza dell’istituto della consecuzione prescinda
da tale aspetto, trattandosi di una disciplina la cui applicazione presuppone
l’esistenza del fallimento. Si potrà infatti discutere di consecuzione solo laddove
sia dichiarato il fallimento di una società già soggetta alla procedura di concordato preventivo. L’abrogazione del fallimento d’ufficio ha quindi inciso negativamente sull’applicazione della consecuzione solo in termini statistici, posto che
venendo meno l’automaticità della dichiarazione di fallimento è possibile assistere al rigetto, revoca o annullamento di concordati preventivi senza che ciò
comporti, in difetto di apposita istanza da parte di creditori o del pubblico ministero, la dichiarazione di fallimento. Non appare essere di ostacolo alla consecuzione neanche la possibilità che vi sia una interruzione temporale tra le due
procedure concorsuali, posto che la ratio della retrodatazione del periodo sospetto non è la continuità temporale tra le procedure bensı̀ quella causale 48, come peraltro l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza di legittimità
aveva già avuto modo di precisare prima della riforma dell’azione revocatoria
fallimentare 49.
Ulteriori argomentazioni a sostegno della consecuzione 50 si troverebbero anche nell’art. 67 l. fall. novellato. Il riferimento è alla lett. g) del 3o co. dell’art. 67
l. fall. il quale, introducendo l’esenzione da revocatoria di tutti quei « pagamenti
48 Cfr. NARDECCHIA , Il periodo sospetto nella nuova disciplina della revocatoria fallimentare, Fa, 11,
2008, 1249.
49 Cfr. nt. 12.
50 Cfr. PATTI, Codice Commentato del Fallimento, cit., 555.
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L’azione revocatoria fallimentare
137
di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi
strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di concordato preventivo », avrebbe
implicitamente disposto che i pagamenti di debiti che non abbiano le caratteristiche (liquidità ed esigibilità) e le finalità (accesso al concordato preventivo) indicate sarebbero soggetti a revocatoria fallimentare. Si tratta di pagamenti eseguiti in epoca antecedente all’apertura della procedura di concordato preventivo
e, pertanto, sarebbero revocabili solo ove si dovesse aderire alla tesi della consecuzione di procedure di cui si confermerebbe cosı̀ la sua esistenza e validità. Certamente, tale osservazione sposta sensibilmente il peso della bilancia dalla parte
della sopravvivenza del principio della consecuzione nella legge fallimentare
novellata e ciò, ancor di più, se la predetta esenzione la si legge in combinato
con quando previsto dall’art. 111, 2o co., l. fall. che attribuisce natura prededucibile ai crediti « sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla
presente legge ».
Altra parte della dottrina 51 ritiene invece che l’istituto della consecuzione di
procedure non abbia più cittadinanza nel diritto fallimentare riformato. Le argomentazioni a sostegno di tale interpretazione sono essenzialmente tre. Le prime
due sono incentrate sul dato letterale dell’art. 67 l. fall. e sulla diversità dei presupposti oggettivi 52. Si tratta di argomenti già sostenuti anche prima della riforma da quella parte della giurisprudenza di merito che negava la consecuzione di
procedure e che, tuttavia, come abbiamo già visto sopra, sono stati largamente
superati sia dalla dottrina che dalla Corte di Cassazione 53.
Il terzo argomento sul quale si fonda la tesi contraria alla sopravvivenza dell’istituto della consecuzione di procedure trae spunto dalla esenzione indicata
alla lett. e), 3o co. dell’art. 67 l. fall. la quale prevede che non siano revocabili
gli atti ed i pagamenti posti in essere in esecuzione del concordato. Secondo la
dottrina in esame, dalla predetta esenzione deriverebbe, implicitamente, che il
legislatore ritiene che detti atti e pagamenti in difetto di tale espressa esenzione
sarebbero revocabili cosı̀ come gli atti ed i pagamenti che non sono stati posti « in
esecuzione » del concordato preventivo seppure nel corso di tale procedura. Dal-
51 Cfr. NIGRO , La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro-Sandulli, Torino, 2006, 371 ss.;
BOZZA, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, Fa, 2005, 959 ss.; GUGLIELMUCCI,
La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 118 ss.; ALESSI, Il nuovo concordato
preventivo, DF, 2005, I, 1152; BONFATTI, La disciplina della revocatoria fallimentare nella nuova legge
fallimentare, Milano, 2005, 187 ss.
52 Cfr. BOZZA, Le condizioni soggettive, cit., 960; GUGLIELMUCCI, La riforma in via d’urgenza della
legge fallimentare, cit., 119; ALESSI, Il nuovo concordato preventivo, cit., 1153; BONFATTI, La disciplina
della revocatoria fallimentare, cit., 190.
53 Cfr. ntt. 3 e 4.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
le considerazioni appena svolte deriverebbe che essendo revocabili solo gli atti
posti in essere nel periodo sospetto, gli atti ed i pagamenti posti in essere nel corso del concordato preventivo ma non in esecuzione di esso, in quanto revocabili,
rientrano nel periodo sospetto e, quindi, ciò significherebbe che tale periodo non
potrà che decorrere dalla data della dichiarazione di fallimento e non dalla data
di apertura della procedura minore che è ovviamente antecedente al compimento di tali atti.
Quella appena esposta è indubbiamente una interpretazione che merita attenzione ma che non appare insuperabile. Già prima della riforma, infatti, per gli
atti ed i pagamenti posti in essere nel corso della procedura minore, si discuteva
della loro efficacia ed opponibilità al fallimento e non anche di revocabilità o meno degli stessi 54. Non vi era quindi un problema di determinazione del periodo
sospetto, in quanto la eventuale inefficacia avrebbe fatto riferimento all’art. 44
l. fall. e non all’art. 67 l. fall. e ciò secondo una interpretazione estensiva fondata
sul presupposto che a seguito della consecuzione vi sarebbe stata un’unica procedura concorsuale: il fallimento. E, pertanto, sulla base di tale linea interpretativa, l’esenzione prevista dall’art. 67, 3o co., lett. e), l. fall., non sembrerebbe
decisiva nell’orientare l’interprete sulla sopravvivenza della consecuzione di
procedure e, quindi, nella individuazione del dies a quo per il calcolo del periodo
sospetto 55.
La questione chiaramente non è piana, né il legislatore ha fatto alcunché perché lo fosse, cadendo ripetutamente in contraddizioni, probabilmente non volute
ed in parte non sempre agevolmente superabili, generando cosı̀ nuove incertezze
interpretative che, a fatica, sembravano essere state superate prima della riforma, grazie all’orientamento univoco della Corte di Cassazione.
La sensazione è che il legislatore della riforma non abbia tenuto conto dei
riflessi che le esenzioni introdotte con l’art. 67, 3o co., l. fall., avrebbe avuto sull’assetto oramai consolidato della legge fallimentare. L’urgenza che ha animato il
legislatore nella introduzione della riforma della revocatoria fallimentare non ha
consentito di poter valutare attentamente tutti gli aspetti e le ricadute che le
esenzioni dalla revocatoria fallimentare avrebbero generato. E, d’altronde, dal
tenore delle considerazioni sopra svolte e dalla contraddittorietà di alcune esenzioni appare evidente che il legislatore della riforma non abbia affatto considerato i riflessi delle stesse sulla consecuzione di procedure.
54
Cfr. SEVERINI, op. cit., 280 ss.
Il problema rimarrebbe aperto per tutti quegli atti posti in essere successivamente all’apertura del
concordato preventivo autorizzati dal giudice delegato. Per tali atti infatti anche nel passato si riteneva
che la loro efficacia non potesse essere inficiata dal successivo fallimento.
55
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L’azione revocatoria fallimentare
139
Invero, con la normativa vigente quelle poche certezze acquisite prima della
riforma sull’applicazione della consecuzione non appaiono più cosı̀ salde, tanto
che solo a seguito di un bilanciamento delle opposte argomentazioni sopra esaminate, sembra possibile concludere per la sopravvivenza dell’istituto della consecuzione nel diritto fallimentare riformato. Tale conclusione risulta adeguatamente supportata sia dalla sostanziale omogeneità dei presupposti oggettivi
indicati dagli artt. 5 e 160 l. fall. per accedere alle due diverse procedure, sia
dalla esenzione della lett. g) del 3o co. dell’art. 67 l. fall. sia, in parte, dal tenore
dell’art. 69 bis l. fall. 56.
Ad oggi, sul tema in esame non risultano enunciate specifiche sentenze di legittimità, va però segnalato che pur decidendo su una questione del tutto diversa
dall’azione revocatoria fallimentare e quindi in via del tutto incidentale, con sentenza 18.2.2009 57 la Suprema Corte ha manifestato chiaramente un orientamento
favorevole alla consecuzione tra concordato preventivo e fallimento ai fini del
computo del periodo sospetto, anche dopo la riforma del diritto fallimentare.
1.4. Questioni di diritto intertemporale
Il regime transitorio dell’azione revocatoria fallimentare è disciplinato dall’art. 2, 2o co., d.l. 35/2005 convertito con modificazioni nella l. 80/2005, il quale
prevede che « le disposizioni del comma 1, lettere a) e b) si applicano alle azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore del pre-
56 Vedi APICE, L’abolizione del fallimento d’ufficio e la consecuzione delle procedure concorsuali,
cit., 129 ss., secondo l’Autore il fatto che il legislatore abbia introdotto il termine quinquennale di decadenza per « le azioni revocatore disciplinate nella presente sezione...» costituisce una conferma della
sopravvivenza del principio della consecuzione di procedure, in quanto detto termine sarebbe stato inserito proprio per evitare che attraverso la consecuzione si realizzasse una eccessiva dilatazione dei
tempi nell’applicazione dell’azione revocatoria fallimentare. L’Autore sostiene infatti che sommando
il termine di decadenza di tre anni dalla dichiarazione di fallimento (introdotto sempre dell’art. 69 bis
l. fall.) al periodo sospetto più esteso previsto dalla legge fallimentare ossia quello di due anni afferente
gli atti a titolo gratuito (cfr. art. 64 l. fall.) ed i pagamenti anticipati (cfr. art. 65 l. fall.) non si andrebbe
mai oltre i cinque anni dal compimento dell’atto oggetto di revocatoria e, pertanto, l’introduzione del
termine di decadenza quinquennale ad opera dell’art. 69 bis l. fall. sarebbe pleonastico, considerato
anche che in tema di revocatoria ordinaria in sede fallimentare la giurisprudenza è da tempo orientata
univocamente nell’applicare il termine quinquennale di prescrizione (rec. decadenza) dal compimento
dell’atto e non dalla dichiarazione di fallimento.
Sicché, fatta salva l’ipotesi della revocatoria degli atti tra coniugi, se il legislatore non avesse ritenuto applicabile l’istituto della consecuzione di procedure non avrebbe introdotto il termine di decadenza quinquennale previsto dall’art. 69 bis l. fall.
57 Cfr. Cass., sez. I, 18.2.2009, n. 3901 (c. rel. Plenteda) in tema di compenso al commissario giudiziale in Fa, 1163, 2009, con nota di NISIVOCCIA.
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140
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
sente decreto ». L’art. 16 del medesimo d.l. 35/2005 prevede che « il presente decreto
entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e sarà presentato alla Camera per la conversione in legge ».
Pertanto, atteso che detto decreto legge è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16.3.2005, n. 62, ne deriva che la nuova normativa è entrata in vigore a partire dal 17.3.2005 e che la stessa possa essere applicata ogniqualvolta l’azione
revocatoria fallimentare sia stata esercitata da procedure concorsuali iniziate a
partire dal 17.3.2005. Nella individuazione della disciplina applicabile, non si
dovrà tenere conto, pertanto, della data in cui è stata promossa l’azione revocatoria fallimentare bensı̀ della data in cui è iniziata la procedura concorsuale che
ha promosso detta azione.
La norma in esame è stata oggetto di insistenti critiche sia perché non applicabile ai giudizi pendenti sia perché asseritamente lesiva del principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 Cost. per aver disciplinato in modo diverso situazioni
uguali.
Al fine di supportare l’interpretazione tesa all’applicazione immeditata e,
dunque, retroattiva della nuova disciplina dell’azione revocatoria fallimentare,
parte della dottrina 58 ha sostenuto che tale disciplina non abbia innovato la normativa già esistente ma che abbia solo fornito una interpretazione autentica della
stessa 59 e che l’art. 2, 2o co., d.l. 35/2005, in quanto norma transitoria, non abbia
riguardo alle norme di interpretazione autentica quale sarebbe la disciplina prevista dagli artt. 67, 3o co., lett. b) e 70, 3o co., l. fall. Il tema sensibile è sempre lo
stesso: la revocatoria delle rimesse bancarie.
Ebbene, al riguardo, l’orientamento della giurisprudenza 60 formatosi in que-
58 CASTIELLO D’ANTONIO, Profili problematici della disciplina transitoria della riforma della legge fallimentare, DF, 2006, I, 722; BONFATTI-CENSONI, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006, 18.
59 Tale interpretazione autentica riguarderebbe il principio del c.d. massimo scoperto. Tale principio
introdotto dall’art. 70, 3o co., l. fall., era infatti già ritenuto applicabile sulla base della previgente disciplina da parte della giurisprudenza di merito (App. Milano, 16.1.1979, GCo, 1980, II, 118; App. Bologna, 3.11.1981, GCo, 1982, II, 839; Trib. Roma, 9.7.1982, DF, 1982, II, 1602; App. Milano, 27.1.
1984, Fa, 1984, 1209; App. Milano, 17.1.1986, RFI, 1987, 356; Trib. Milano, 12.5.1986, BBTC,
1987, II, 405; Trib. Milano, 21.3.1988, RFI, 1990, 410; Trib. Pavia, 13.10.1989, RFI, 1990, 407) degli
anni ’80, recentemente ripreso da una sentenza della Corte d’Appello di Firenze (28.1.2004, BBTC,
2005, II, 24). Tale orientamento della giurisprudenza di merito non ha mai trovato riscontro nella giurisprudenza di legittimità la quale ha sempre mantenuto un orientamento univoco e contrario al principio
del c.d. massimo scoperto.
60 Cass., 7.3.2008, n. 6192, FI, 2009, 2, 395, con nota di FABIANI; Cass., 7.3.2008, n. 6190, la
quale sulla pregiudiziale costituzionale stabilisce quanto segue: « L’affermazione che il legislatore abbia disciplinato situazioni analoghe in modo non uniforme, perché possa giovare a sostenere il sospetto
di incostituzionalità, suppone che sia riferita a situazioni identiche anche ratione temporis, identità che
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L’azione revocatoria fallimentare
141
sti pochi anni dalla riforma è stato costantemente contrario sia alla natura interpretativa della nuova disciplina sia alla illegittimità costituzionale della norma
transitoria.
Le motivazioni addotte dalla giurisprudenza di legittimità possono essere
riassunte come di seguito: (i ) la nuova disciplina della revocatoria fallimentare
ha carattere innovativo 61 e non meramente interpretativo e ciò la rende ‘‘ragionevolmente coerente con la regola generale della irretroattività delle nuove norme’’; (ii) il principio di eguaglianza non collide con un differenziato trattamento
applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, essendo la conseguenza del naturale trascorrere del tempo come affermato anche
dalla Corte costituzionale 62; (iii) il legislatore ordinario ha piena discrezionalità
nella eventuale fissazione di una disciplina transitoria, con l’unico limite della
ragionevolezza 63 che nella specie non risulterebbe violato, posto che « la accennata riduzione del periodo sospetto, a fronte del tempo già maturato per la prescrizione dell’azione in riferimento alle procedure in corso non rende irragionevole che sia stata prevista l’applicabilità della L. Fall., nuovo art. 67, comma 1,
n. 2, soltanto nell’ambito di procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore
nella materia della disciplina transitoria ».
Nell’opera ermeneutica di individuazione del momento in cui le procedure
concorsuali possono ritenersi iniziate, la larga maggioranza della dottrina 64 ritiene che esso debba essere ricondotto, nel caso di fallimento, alla data di deposito
della sentenza; nel caso di liquidazioni coatte amministrative e amministrazioni
non va però considerata sotto il solo profilo della contemporaneità degli atti revocandi, ma va integrata
dalla loro inerenza alle procedure di insolvenza, essendone elemento costitutivo la insolvenza in quel
modo databile; sicché l’analogia viene meno ove, pur trovando la medesima collocazione temporale,
alcuni atti siano stati compiuti da un’impresa dichiarata insolvente, in base a regole di diritto vigenti
all’atto della dichiarazione, ed altri invece provengano da imprese, la cui dichiarazione di fallimento
sia regolata da una normativa successiva, per essere intervenuta nel vigore di essa. In tal caso la diversità della disciplina trova fondamento nella successione delle leggi e nel principio di irretroattività della
nuova norma (art. 11 disp. gen.) e la diversità della fattispecie – che non è costituita soltanto dall’atto di
cui si chieda la inefficacia, ma anche dal procedimento con il quale si collega – esclude qualunque dubbio sulla disparità di trattamento e sull’applicabilità dell’art. 3 Cost.».
61 App. Bologna, 24.1.2007, Juris data, 2007; Trib. Torino, 2.4.2008, n. 2434, Il merito, 2008,
11, 34.
62 C. cost., ord., 27.10.2006, n. 342, FI, 2006, 12, 3273; C. cost., ord., 26.6.2007, n. 234, GiC,
2007, 3.
63 C. cost., 12.4.2002, n. 108, GiC, 2002, 896.
64 RUBINO, Disciplina transitoria, in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, 1a ed.,
Milano, 2008, 1903; BELLÈ, Disciplina transitoria, in La legge fallimentare, Commentario teorico pratico, a cura di Ferro, Padova, 2008, 408; SPIOTTA, Norme transitorie, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007, 2759; PATTI, Riforma della revocatoria
fallimentare: disposizione transitoria, Fa, 2005, 961.
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142
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
straordinarie al decreto di apertura emesso dal Ministero dello sviluppo economico, ciò soprattutto per un’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici.
L’esatta individuazione del momento di inizio della procedura concorsuale riveste carattere preminente anche in ipotesi di consecuzione di procedure in cui
la procedura minore si sia aperta prima del 17.3.2005 mentre quella maggiore (il
fallimento) si sia aperto dopo detta ultima data. Al riguardo, ai fini della individuazione della normativa applicabile andrebbero fatte le seguenti considerazioni. La teoria della consecuzione delle procedure si basa sul principio per cui,
quando ad una procedura concorsuale minore segua il fallimento, gli effetti di
questo retroagiscono alla data di apertura della prima procedura e ciò anche
ai fini del periodo sospetto.
Dal tenore letterale della norma: «... procedure iniziate... », sembrerebbe che in
caso di consecuzione si debba avere riguardo alla data di inizio della prima procedura e, pertanto, se questa sia o meno anteriore al 17.3.2005. Sicché solo in caso
di risposta positiva si applicherà la disciplina previdente della revocatoria fallimentare.
Altra parte della dottrina 65 ritiene che nel caso di consecuzione tra concordato
preventivo e fallimento si debba tenere distinto il problema di diritto processuale relativo a quale sia la norma applicabile in un determinato momento rispetto a
quello di diritto sostanziale relativo alla decorrenza degli effetti. Pertanto, considerato che l’azione revocatoria fallimentare è ammessa solo nella ipotesi di fallimento e non anche nelle procedure minori, ne consegue che se la procedura
concorsuale minore – ove non è ammessa la revocatoria fallimentare – è iniziata
prima del 17.3.2005 mentre il fallimento – della stessa società sottoposta alla procedura concorsuale minore – è dichiarato successivamente al 17.3.2005, gli effetti
del fallimento decorrono dall’inizio della procedura concorsuale minore ma la
revocatoria fallimentare sarà quella prevista e disciplinata dal nuovo art. 67
l. fall., in quanto la norma in vigore al momento in cui detta azione si è resa possibile è quella riformata. Solo infatti con la dichiarazione di fallimento la curatela
sarà legittimata ad agire con la revocatoria fallimentare. La prima interpretazione appare più convincente, atteso che in caso di consecuzione la procedura va
intesa in modo unitario con inizio dall’apertura di quella minore, sicché proprio
in forza della consecuzione e della relativa unitarietà delle procedure, si deve ritenere applicabile la normativa vigente al momento in cui è iniziata la procedura
minore 66.
65
66
961.
BONFATTI, La disciplina dell’azione revocatoria, Milano, 2005, 60.
In tal senso PATTI, Riforma della revocatoria fallimentare: disposizione transitoria, Fa, 2005,
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L’azione revocatoria fallimentare
143
Per quanto concerne l’ipotesi di chiusura e successiva riapertura di un fallimento a cavallo della data di entrata in vigore della novella, secondo parte della
dottrina 67 si dovrebbe applicare la normativa vigente alla data di riapertura del
fallimento, richiamando a supporto di tale interpretazione quanto disposto dall’art. 123 l. fall. secondo il quale per tali ipotesi il periodo sospetto ai fini dell’applicazione degli artt. 65, 67 e 67 bis l. fall. va calcolato dalla data della sentenza di
riapertura.
A ben vedere però tale interpretazione non appare convincente, dovendo ritenersi, in linea con l’orientamento prevalente 68, che il fallimento riaperto costituisca la prosecuzione di quello precedentemente chiuso e che, pertanto, in virtù
della unitarietà della procedura, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, si dovrebbe avere riguardo a quella vigente alla data di apertura del
fallimento poi chiuso. Del resto la stessa giurisprudenza di legittimità ha stabilito che « l’accoglimento dell’istanza proposta ex art. 121 l. fall., non equivale ad
una nuova dichiarazione di fallimento ma, al contrario, determina la reviviscenza dell’originario procedimento concorsuale, come si desume sia dall’uso del
termine ‘‘riapertura’’ sia dalla non necessità di riesaminare i requisiti soggettivi
ed oggettivi di accesso alla procedura, a nulla rilevando, ai fini della continuità
ed unicità del procedimento chiuso e successivamente riaperto, che possano essere ammessi a partecipare anche creditori divenuti tali dopo la precedente chiusura e che gli atti compiuti ‘‘medio tempore’’ dall’imprenditore possano essere
revocati » 69.
Per quanto concerne l’ipotesi di fallimento in estensione, secondo la parte
maggioritaria della dottrina 70 e della giurisprudenza 71 la sentenza dichiarativa
67 PATTI, Riforma della revocatoria fallimentare: disposizione transitoria, cit., 964; CHIOZZI, La riapertura del fallimento, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da Panzani, IV, Torino, 1999,
155 ss.
68 LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 2007, 769; NORELLI, Sub art. 121
l. fall., in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, 1a ed., Milano, 2008, 1189; PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, III, 1974, 1963; DE SEMO, Diritto fallimentare, Padova, 1964, 462;
AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, II, 1059; TEDESCHI, Della chiusura del fallimento, in Commentario Scialoja-Branca l. fall., Bologna-Roma, 1977, 115; App. Catania,
19.9.1986, Fa, 87, 110.
69 Cass., Sez. Un., 2.11.2007, n. 23032, GCM, 2007, 11.
70 NIGRO, Sub art. 147 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, 2186; GUGLIEMUCCI, Diritto fallimentare, Torino, 2008, 297; BLATTI,
Sub art. 147 l. fall., in La legge fallimentare, Commentario teorico pratico a cura di M. Ferro, Padova,
2007, 1126.
71 Cass., Sez. Un., 7.6.2002, n. 8257, Fa, 2003, 382, con nota di DI AMATO; DF, 2002, II, 581, con
nota di DI LAURO, Irretroattività degli effetti del fallimento (in estensione) del socio occulto: l’intervento
delle sezioni unite; Cass., 23.5.2008, n. 13421, GCM, 2008, 5, 801.
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144
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
di fallimento del socio, intervenuta successivamente alla sentenza di fallimento
della società, ha carattere autonomo con efficacia costitutiva ex nunc, precisando
che gli effetti sostanziali e processuali delle due procedure sono separati. Orbene, nell’ipotesi in cui le due sentenze di fallimento (quella della società e quella
del socio) dovessero intervenire a cavallo dell’entrata in vigore della riforma della revocatoria fallimentare, sulla base dell’orientamento sopra richiamato, sembrerebbe corretto concludere per l’applicazione della disciplina vigente alla data
di dichiarazione di fallimento, anche se tale soluzione comporterebbe l’applicazione di una diversa disciplina tra le azioni revocatorie fallimentari promosse
dal fallimento della società rispetto a quelle promosse dal fallimento del singolo
socio.
1.5. Natura ed effetti della sentenza
Per quanto attiene alla natura della sentenza di revocatoria fallimentare, le
Sezioni Unite 72, ponendo fine ad un acceso dibattito, hanno più volte ribadito
la natura costituiva della stessa, precisando che l’obbligazione restitutoria dell’accipiens soccombente in revocatoria ha natura di debito di valuta e non di valore, atteso che l’atto posto in essere dal fallito è originariamente lecito e la sua
inefficacia sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della revocatoria, dovendosi ritenere la natura costitutiva di tale sentenza e perciò qualificare come diritto potestativo (e non come diritto di credito) la situazione giuridica
facente capo al curatore fallimentare che agisce in revocatoria. La sentenza di
revocatoria fallimentare comporta quindi il mutamento della situazione giuridica del destinatario dell’atto impugnato, prescindendo dalla sua collaborazione
(cfr. art. 2908 c.c.). Sotto il profilo pratico, se l’azione revocatoria ha per oggetto
il trasferimento di un bene, con il giudicato della sentenza l’atto di trasferimento
diviene inefficace rispetto ai creditori concorrenti e detto bene rientra nella garanzia patrimoniale generica del debitore fallito. Nel caso in cui non sia possibile far rientrare il bene nella garanzia patrimoniale del fallito, il convenuto in
revocatoria sarà condannato a corrispondere al fallimento una somma di denaro
pari al valore del bene, con riferimento non già al momento in cui è stato stipulato
l’atto revocato, ma con riferimento al momento in cui è stata proposta la domanda
giudiziale. Qualora invece la sentenza di revoca riguardi un pagamento, l’accipiens
viene condannato a restituire la somma ricevuta, con i conseguenti interessi legali
a decorrere dalla data di notificazione dell’atto di citazione in revocatoria.
72 Cfr. Cass., Sez. Un., 13.6.1996, n. 5443, Fa, 1996, 999; Cass., Sez. Un., 15.6.2000, n. 437, FI,
2000, I, 2724.
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L’azione revocatoria fallimentare
145
Ne consegue che per l’ipotesi di revocatoria di un atto di compravendita relativo ad un immobile, colui che agisce in revocatoria non potrà mettere in esecuzione la sentenza se non al passaggio in giudicato della stessa, perché solo a partire
da tale momento nasce il diritto e si ha l’effetto caducatorio dell’atto impugnato.
Maggiori difficoltà si incontrano quando la sentenza, oltre a pronunciare la
inefficacia dell’atto o del pagamento, condanna il convenuto anche alla restituzione di una somma di denaro. Per tale ipotesi dottrina e giurisprudenza si sono
a lungo interrogate sulla possibilità di applicare l’art. 282 c.p.c. anche a tali sentenze aventi natura costitutiva, ovvero se il credito del fallimento alla restituzione di quanto pagato dal debitore poi fallito sorge, in forza di quanto previsto
dall’art. 282 c.p.c. con la pubblicazione della stessa oppure, in considerazione
della natura costitutiva della stessa e del fatto che soltanto a partire dalla data
del passaggio in giudicato si produce l’effetto caducatorio dell’atto giuridico
impugnato, se detto credito sorge con il giudicato. Per questa seconda soluzione
si è già espressa la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 11.6.2004,
n. 11097 73, ma anche parte della giurisprudenza di merito 74.
73 Si riporta di seguito la massima della sentenza 11097/2004 della Corte di Cassazione: « Il carattere costitutivo della sentenza di revoca di pagamenti, ai sensi dell’art. 67 l. fall., comporta che soltanto
la sentenza stessa produce – dalla data del passaggio in giudicato – l’effetto caducatorio dell’atto giuridico impugnato e che soltanto a seguito di essa sorge il conseguente credito del fallimento alla restituzione di quanto pagato dal fallito, e finché non è sorto il credito (restitutorio) per capitale, neppure
sorge il credito accessorio per interessi; ne deriva che, sino alla sentenza di revoca del pagamento passata in giudicato, non può parlarsi di interessi scaduti e che non può, pertanto, farsi luogo all’anatocismo. (Nella fattispecie richiesto dal curatore anche sugli interessi primari maturati nel corso del giudizio
di primo grado, ai sensi dell’art. 345, comma 1, seconda parte, c.p.c.), perché l’art. 1283 c.c. presuppone l’intervenuta scadenza (e dunque esistenza del credito) degli interessi primari. Né rileva, in contrario, che gli interessi sul credito riconosciuto al fallimento rientrano tra gli effetti restitutori rispetto ai
quali la sentenza di revoca retroagisce alla data della domanda, perché la decorrenza degli interessi
(dalla data della domanda) non va confusa con la scadenza, la quale, nell’ipotesi di credito derivante
da pronuncia giudiziale costitutiva, non può che coincidere con la data della pronuncia stessa, ossia
con il passaggio in giudicato, giacché solo in tale data, perfezionatosi l’accertamento giudiziale ed il
suo effetto costitutivo, sorge la conseguente obbligazione restitutoria» (pubblicata in GCM, 2004, 6).
74 Cfr. App. Venezia, 3.6.1999 « La disciplina dell’esecuzione provvisoria delle sentenze di primo grado di cui all’art. 282 c.p.c. non trova applicazione con riferimento alla sentenza che accoglie la domanda
di revocatoria fallimentare, in quanto tale sentenza ha natura costitutiva e quest’ultima, risulta pertanto
inidonea a costituire titolo esecutivo, anche per ciò che riguarda tutte le pronunce accessorie o consequenziali alla pronuncia principale dell’atto revocato. Di conseguenza, è inammissibile, per mancanza
di interesse ad agire, l’istanza inibitoria ex art. 283 e 351 c.p.c., avverso l’esecuzione provvisoria di tale
sentenza » (in BBTC, 2000, II, 153, con nota di TUCCI); App. Torino, ord., 22.5.2006 (Pres. Gamba, rel.
Patti) « La sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria fallimentare, avendo natura costitutiva, è
inidonea ad acquistare efficacia esecutiva prima del passaggio in giudicato e cosı`pure tutte le statuizioni immediatamente e direttamente consequenziali alla stessa, come le condanne restitutorie, dipendenti dalla revocatoria, comportanti il ripristino della garanzia patrimoniale ai sensi dell’art. 2740 codi-
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146
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
In verità, il problema è ben più esteso ed investe la possibilità di applicare
l’art. 282 c.p.c. e quindi di ritenere provvisoriamente esecutive tutte le sentenze
di primo grado ovvero di ritenere tali solo quelle di condanna con esclusione sia
di quelle costitutive che di quelle di mero accertamento, i cui effetti dovrebbero
prodursi soltanto dopo il passaggio in giudicato. L’argomento merita ben altra
trattazione che non quella che si possa fare in questa sede senza andare fuori
tema ed infatti copiosa risulta la produzione dottrinale sul punto e tuttavia in
estrema sintesi appare utile riepilogare le due diverse posizioni assunte dagli
interpreti rispetto alla individuazione del momento in cui sorge il credito alla
restituzione da parte del fallimento.
Come è noto, prima della riforma del 1990, che ha modificato l’art. 282 c.p.c.,
la possibilità di concedere la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado era rimessa, in seguito all’istanza della parte, alla discrezionalità del giudice
accertati i presupposti del fumus boni iuris della domanda proposta e del relativo
periculum in mora 75. La riforma non ha offerto nessuna soluzione all’interprete
per risolvere il tradizionale problema dei limiti applicativi della provvisoria esecuzione delle sentenze. Anche dopo la riforma del 1990 è rimasto aperto il dibattito in dottrina ed in giurisprudenza sul campo di applicazione dell’art. 282
c.p.c., ossia se tale disposizione normativa possa essere applicata alle sole sentenze di condanna, in quanto suscettibili di esecuzione forzata, e non anche alle
sentenze di accertamento ed a quelle costitutive 76.
ce civile » (in Fa, 2, 2007, 179, con nota di FABIANI); App. Trento, 12.1.2001, FI, 2001, I, 1363; App.
Firenze, 4.5.2004, Fa, 2004, 1402.
75 Cfr. VACCARELLA, Dell’esecutorietà e della notificazione delle sentenze, in Commentario VerdeVaccarella, Torino, 1999, 527 ss.
76 In questo senso ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1956, 274 ss.;
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1981, 244; VACCARELLA, in Il processo civile
dopo la riforma, Torino, 1992, 281 ss. Secondo tale autorevole dottrina la provvisoria esecutorietà delle
sentenze, se si deve certamente escludere per le sentenze di mero accertamento, per le quali non è
configurabile la stessa possibilità di un’efficacia esecutiva, incontra, per le sentenze costitutive, un limite intrinseco indiscutibile, di natura logica prima che di disciplina giuridica, in quanto tali pronunce
producono di per sé e dall’interno l’adeguamento della realtà all’ordine giuridico dichiarato, senza necessità di qualsivoglia attività estrinseca di attuazione o di esecuzione. La delimitazione del principio
sancito nell’art. 282 c.p.c. alle sole sentenze di condanna non è pertanto un’arbitraria operazione interpretativa, ma deriva da un oggettivo limite intrinseco all’esecutorietà, in quanto quest’ultima postula
un’esigenza di adeguamento della realtà al decisum, che manca sia nelle sentenze di accertamento
che in quelle costitutive. L’esecutività, per il suo contenuto e per la sua funzione, si può attribuire solo
alle sentenze di condanna e non già alle sentenze di mero accertamento ed a quelle costitutive, per le
quali, qualora il legislatore ne consenta una produzione anticipata degli effetti rispetto al giudicato, si
tratterà sempre di effetti sostanziali anticipati e mai di efficacia esecutiva; sicché l’anticipazione che
l’art. 282 c.p.c. contiene riguarda solo ed unicamente l’efficacia esecutiva, mentre tutti gli altri effetti
della sentenza si ricollegano, di solito, al giudicato e prima di tale momento non possono mai realizzarsi.
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L’azione revocatoria fallimentare
147
Ebbene, da un lato, la giurisprudenza largamente prevalente 77, partendo
dalla premessa che la sentenza di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva
e che per tali sentenze non si possa applicare l’art. 282 c.p.c., ritiene che a fronte
di una pronuncia di revocatoria fallimentare di un atto o di un pagamento il
diritto di credito del fallimento alla restituzione di tale pagamento sorge soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza 78. Altra parte della dottrina 79, pur riconoscendo che la sentenza costitutiva non è provvisoriamente esecutiva, ritiene che si possa comunque avere una efficacia esecutiva immediata
con riferimento a pronunce di condanna correlate a pronunce costitutive, osservando come la produzione di effetti anticipati della decisione di merito prescinde dalla formazione del giudicato, in quanto è vero che l’art. 2909 c.c. prevede
che la realtà sostanziale diverrà definitivamente immutata soltanto dopo il passaggio in giudicato ma con ciò non esclude che sino al giudicato la decisione
possa produrre effetti.
Altro orientamento 80 ancora, pur negando la provvisoria esecutorietà alle
sentenze costitutive, ritiene che i capi di sentenza che contengano condanne accessorie a capi costitutivi abbiano efficacia esecutiva immediata.
L’orientamento secondo il quale il diritto di credito del fallimento sorge soltanto dopo il giudicato della sentenza costitutiva appare preferibile in virtù del
fatto che la sentenza di revocatoria fallimentare non determina alcun effetto traslativo né alcuna restituzione del bene nel patrimonio del fallito, essendo tesa al
ripristino della garanzia generica, prevista dall’art. 2740 c.c. Quello che, generalmente, viene qualificato come capo autonomo di condanna alla restituzione della somma di denaro a suo tempo percepita, in realtà, non appare affatto autonomo, costituendo un capo di condanna strettamente consequenziale alla pronuncia costitutiva dell’inefficacia relativa dell’atto impugnato e come tale non certa-
77
Cfr. ntt. 17 e 18.
Sul punto vale richiamare l’ordinanza della Corte d’Appello di Torino citata con la quale vengono
distinti i capi autonomi di condanna, ancorché accessori dai capi consequenziali di condanna, retti soltanto dalla previa indispensabile pronuncia costitutiva, ritenendo che solo i primi, tra i quali vanno annoverate le condanne alle spese di lite, possono godere della provvisoria esecuzione mentre per i secondi (capi consequenziali) l’art. 282 c.p.c. non risulta applicabile. Il diritto di credito del fallimento a
seguito della pronuncia di revocatoria fallimentare viene compreso dalla Corte d’Appello di Torino tra
i capi di condanna consequenziali, ossia capi di condanna caratterizzati da uno stretto collegamento
con il capo costitutivo che determina l’effetto caducatorio.
79 Cfr. FABIANI, Provvisoria esecutorietà dei capi condannatori nelle sentenze revocatorie e interferenze con la riforma fallimentare, Fa, 2007, 2, 180 ss.
80 Cfr. in giurisprudenza: Cass., 19.11.2009, n. 24438, GCM, 2009, 11, 1609; Cass., 3.8.2005,
n. 16262, GI, 2006, 1, 85 e Cass., 10.11.2004, n. 21367, GCM, 2005, 4. In dottrina: CONSOLO-LUISOSASSANI, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996, 263; LUISO, Diritto processuale
civile, Milano, 2000, II, 197.
78
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148
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
mente connotata da quel carattere di autonomia che qualora le fosse riconosciuto
le consentirebbe senz’altro di acquisire efficacia esecutiva immediata.
Sotto il profilo pratico la interessante discussione perde molta della sua importanza se solo si considera che a prescindere dal recupero forzoso o meno
di pagamenti oggetto di revocatoria fallimentare nessun organo fallimentare diligente procede alla distribuzione di somme acquisite provvisoriamente alla
massa fintantoché l’acquisizione delle stesse non diventa definitiva. Peraltro, tale prassi è stata recepita anche dal legislatore della riforma al quale va dato merito di aver introdotto l’obbligo di accantonamento di somme acquisite alla massa provvisoriamente. Il novellato art. 113 l. fall. prevede infatti che nelle ripartizione dell’attivo devono essere trattenute e depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato le somme ricevute dalla procedura per effetto di provvedimenti
provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato.
2. Gli atti sproporzionati
L’art. 67, 1o co., l. fall., prevede la revocatoria fallimentare degli atti cc.dd.
anomali, ossia di quegli atti compiuti nel periodo sospetto e secondo modalità
tali da far presumere – iuris tantum – che il terzo contraente fosse a conoscenza
dello stato di insolvenza del debitore poi fallito, traendone un qualche vantaggio economico a danno degli altri creditori e, quindi, in violazione della par condicio creditorum. Si tratta, quindi, di atti e pagamenti che per le condizioni ed i
termini in cui sono stati posti in essere dal debitore poi fallito si presumono
fraudolenti e connotati da un accentuato disvalore sociale. Tale negativa connotazione attribuita dal legislatore a detti atti e pagamenti giustifica, sotto il profilo
processuale: a) la presunzione relativa che il terzo fosse a conoscenza dello stato
di insolvenza, ossia per tali azioni la scientia decoctionis si presume con onere a
carico del convenuto in revocatoria di dimostrare la inscientia decoctionis; b) l’ampliamento del periodo sospetto che viene raddoppiato rispetto alle ipotesi di
revocatoria disciplinate dal 2o co. che attiene alla revocatoria degli atti cc.dd.
normali.
Per quanto attiene alla revocatoria degli atti con prestazioni sproporzionate
disciplinata dal 1o co., n. 1 dell’art. 67 l. fall., va osservato che, come è noto, detta
disposizione normativa è stata modificata dall’art. 2, 1o co., lett. a), d.l. 14.3.2005,
n. 35 convertito con l. 14.3.2005, n. 80 in forza della quale il testo vigente risulta
essere il seguente « 1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso ».
Due sono state le modifiche introdotte: a) dimezzamento del periodo sospet-
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L’azione revocatoria fallimentare
149
to che è cosı̀ passato da due a un anno; b) sostituzione del criterio originario
di valutazione della sproporzione che passa da « notevole » a « di oltre un
quarto ».
Per quanto attiene all’onere probatorio, è possibile osservare che sul curatore
incombe la prova che l’atto a titolo oneroso sia stato compiuto entro l’anno antecedente la dichiarazione di fallimento e che sussista una sproporzione di oltre
un quarto tra le reciproche prestazioni e/o obbligazioni assunte.
Sulle novità introdotte, va osservato che mentre il dimezzamento del periodo
sospetto per tali fattispecie non merita di essere condiviso perché, comunque, la
norma ha per oggetto atti a titolo oneroso a carattere gravemente fraudolento e
per il quale, si auspicava quantomeno una conferma della durata del periodo sospetto, viceversa per la determinazione della sproporzione l’intervento del legislatore deve essere accolto positivamente, nonostante ciò abbia determinato una
minore elasticità nell’applicazione della norma.
In verità, la sostituzione di « notevole » con « di oltre un quarto » non fa che
riprendere l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza 81 laddove l’elemento vero di novità è costituito dalla eliminazione di un parametro
elastico nella valutazione della sproporzione in favore di uno predeterminato
tassativamente. A ben vedere però la sostituzione di un criterio discrezionale
in favore di uno matematico, se da un lato comporta una maggiore certezza della
legge, dall’altro non consente all’interprete di valutare la fattispecie in concreto
rischiando di dover emettere decisioni che non tengano conto della natura del
rapporto, della qualità e del tipo di prestazione, nonché dell’andamento del
mercato 82. Il riferimento è, ad esempio, ai contratti aleatori per i quali la sproporzione tra le prestazioni, anche di un quarto, rientra nella natura del contratto e
non può ritenersi anormale 83. Secondo altra parte della dottrina 84, tali contratti
non possono essere assoggettati all’art. 67, 1o co., n. 1, l. fall., ma, in quanto atti
a titolo oneroso solo all’art. 67, 2o co., l. fall., giacché se l’elemento costitutivo ed
identificativo di tali negozi è l’alea, diventa impossibile, su un piano strettamente
giuridico, stabilire se e quando le prestazioni sono sproporzionate tra loro.
In termini pratici, sembra che allo stato non sia più richiesta una valutazione
81
Trib. Torino, 27.6.1997, Fa, 1997, 1038.
Vedi FABIANI, L’alfabeto della nuova revocatoria fallimentare, Fa, 2005, 583, nonché in ID.,
Appunti sulla riforma della revocatoria fallimentare per prestazioni squilibrate con una lente sul mercato
immobiliare, FI, 2005, I, 1425.
83 Sul punto vi veda anche BONFATTI, ‘‘La disciplina dell’azione revocatoria’’, in La Riforma del diritto
fallimentare, collana diretta da Panzani, Milano, 2005, 27 ss.
84 Cosı̀ RAGO, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, 2006, 636; negli stessi termini MAFFEI
ALBERTI, Il fallimento, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1978, II, 220.
82
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150
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
giuridica al fine di determinare se vi sia stata o meno sproporzione bensı̀ una valutazione matematica fondata sostanzialmente sugli elaborati tecnici dei periti.
Le innovazioni appena viste non mutano il quadro di riferimento in cui detta
disposizione normativa è stata applicata.
Invero, l’onere probatorio spetta al curatore che agisce in revocatoria, il quale
non potrà limitarsi a sostenere la sproporzione confidando nella nomina del consulente tecnico d’ufficio da parte del giudice, giacché come è noto la c.d. consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo di prova ma è uno strumento nella disponibilità
del giudice al quale lo stesso ricorre per avere una migliore valutazione tecnica di
elementi necessari ai fini del decidere. Sicché, l’onere del curatore di provare detta
sproporzione sarà adempiuto solo allorquando produrrà una consulenza tecnica
dalla quale emerge il prezzo mediamente applicato per atti della stessa specie ed
in quel determinato periodo e la relativa sproporzione di oltre un quarto.
Altro aspetto rilevante è rappresentato dal momento in cui detta valutazione
debba essere effettuata. Ebbene, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza, la sproporzione deve esistere e va verificata alla data di compimento
dell’atto impugnato, e non successivamente 85. Sicché, ogni eventuale eliminazione della sproporzione, dopo il compimento dell’atto non assume alcun rilievo ai
fini della revocatoria 86.
Numerosissima è la casistica degli atti revocabili ai sensi dell’art. 67, 1o co.,
n. 1, l. fall.
Tra le ipotesi più ricorrenti vi è quella della sproporzione tra contratto preliminare di compravendita e contratto definitivo. Per l’ipotesi in cui il contratto
definitivo sia preceduto da un preliminare, l’accertamento della sproporzione riguarda il prezzo complessivo con riferimento alla data in cui è stato sottoscritto
il primo 87. Tale orientamento giurisprudenziale è tuttavia destinato a mutare,
quanto meno con riferimento ai diritti reali di godimento di immobili da costruire, per i quali l’art. 10, d.lg. 122/2005, recita testualmente che: « gli atti a titolo oneroso che hanno come effetto il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di go-
85 Cfr. tra le altre Cass. 15142/2003, Soc, 2004, 725; Cass. 12317/1999, Fa, 2000, 1340; Cass.
4408/1995, Fa, 1995, 494.
86 Cfr. Cass. 18570/2004, FI, 2005, I, 1421, con nota di FABIANI; App. Napoli, 15.4.1969, DG,
1971, 460; Trib. Napoli, 7.2.1985, Fa, 1985, 571; Cass., 19.4.1995, n. 4408, GI, 1996, I, 1, 648;
App. Napoli, 9.8.1996, Fa, 1997, 109. La soluzione al problema interpretativo dipende dalla risposta
che di da al quesito posto a monte, ossia se il danno fa parte o meno degli elementi strutturali della
revocatoria. Se la risposta a questo ultimo quesito è positiva è chiaro che anche un intervento successivo che elimini la sproporzione è idoneo ad esentare il terzo dall’azione revocatoria; se la risposta è
negativa ogni intervento successivo è irrilevante. La giurisprudenza sopra citata condivide detto ultimo
orientamento.
87 Cfr. Cass., 30.3.1994, n. 3165, Fa, 1994, 1036; Cass., 11.3.1993, n. 2967, Fa, 1993, 1018.
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L’azione revocatoria fallimentare
151
dimento di immobili da costruire, nei quali l’acquirente si impegni a stabilire, entro dodici
mesi dalla data di acquisto o di ultimazione degli stessi, la residenza propria o dei suoi
parenti o affini entro il terzo grado, se posti in essere al giusto prezzo da valutarsi alla
data della stipula del preliminare non sono soggetti all’azione revocatoria prevista dall’art. 67 r.d. 16.3.1942 n. 267 e successive modificazioni ».
Altra fattispecie ricorrente nella pratica è costituita dai contratti di compravendita oggetto di simulazione relativa. Come è noto, nelle compravendite immobiliari, fino a quando le tasse si pagavano sul corrispettivo della vendita e
non sul valore catastale, le parti dichiaravano nell’atto di compravendita un
prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente corrisposto. Ebbene, per tali ipotesi la sproporzione tra le prestazioni era solo formale ed apparente, tuttavia, era
onere del convenuto-acquirente dimostrare con documento avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento il prezzo effettivamente corrisposto al
venditore poi fallito. Per lungo tempo la giurisprudenza, in virtù del rinvio all’art. 1416 c.c., ha affermato la inopponibilità alla curatela della simulazione relativa del prezzo, negando che l’acquirente potesse provare il maggior prezzo
pagato. Invero, a partire dalla sentenza 29.3.1977, n. 1216, la Suprema Corte ha
ritenuto che la prova della simulazione relativa del prezzo convenuto e corrisposto può essere fornita dal convenuto in revocatoria, ma soltanto a mezzo di una
controdichiarazione scritta avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento 88. A tal proposito, è stata esclusa anche la possibilità di provare la proporzionalità tra le prestazioni producendo gli assegni versati dall’acquirente e
regolarmente incassati dal venditore fallito prima della dichiarazione, in quanto
gli assegni sono titoli astratti e, pertanto, non riconducibili al pagamento del corrispettivo della vendita impugnata.
3. I pagamenti con mezzi anormali: A) La datio in solutum; B) La
compensazione; C) La cessione di credito ed il mandato in rem propriam; D) Altri mezzi di pagamento anormali.
I pagamenti eseguiti dal debitore poi fallito con mezzi anormali, come è noto,
sono soggetti all’azione revocatoria fallimentare disciplinata dall’art. 67, 1o co.,
n. 2, l. fall. 89.
88
Cfr. Cass., 17.7.1997, n. 6577, FI, 1997, I, 2819; Cass., 15.9.2000, n. 12172, GCM, 2000, 1935.
Il testo della norma in esame è stato modificato dal d.l. 14.3.2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella l. 14.5.2005, n. 80, limitatamente al periodo sospetto che è cosı̀ passato da due ad un
anno. L’art. 67, 1o co., n. 2, l. fall., recita testualmente: « sono revocati ... 2) gli atti estintivi di debiti
pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con denaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento ».
89
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152
Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
La ratio della norma si basa sulla presunzione che laddove si verifichi il pagamento di una obbligazione pecuniaria con mezzi anormali ciò è dovuto o al fatto
che colui il quale riceve detto pagamento anormale (sul concetto di normalità
torneremo in seguito) lo faccia solo perché è consapevole dello stato di insolvenza del proprio debitore e, pertanto, accetta tale pagamento nel convincimento
che altrimenti rischierebbe di rimanere insoddisfatto, oppure è dovuto al fatto
che l’imprenditore poi fallito abbia subito pressioni da parte del creditore per effettuare tale pagamento anche con mezzi diversi da quelli concordati o comunque diversi da quelli abitualmente utilizzati. In ogni caso, la norma desume dal
tipo di pagamento la presunzione relativa che l’accipiens fosse a conoscenza dello
stato di insolvenza del proprio debitore, tant’è che per tale azione la scientia
decoctionis si presume e non è oggetto di prova da parte del fallimento attore bensı̀
è onere della parte convenuta provare la inscientia decoctionis.
Invero, sotto il profilo probatorio, dalla lettura della disposizione in esame
emerge chiaramente un certo favor per il fallimento attore, favor che si manifesta
proprio nella rilevante agevolazione probatoria a favore della curatela. Per tale
azione, l’onere posto a carico del curatore fallimentare dalla norma in esame
consiste infatti nel fornire la prova che l’atto estintivo posto in essere dall’imprenditore poi fallito sia avvenuto entro l’anno antecedente la dichiarazione di
fallimento, con mezzi diversi dal danaro o simili, ed abbia riguardato un debito
pecuniario scaduto ed esigibile.
La norma in esame prende come riferimento i soli pagamenti di debiti scaduti
ed esigibili e, pertanto, secondo una interpretazione letterale della norma non
dovrebbero essere soggetti all’azione revocatoria disciplinata dall’art. 67, 1o co.,
n. 2, l. fall., i pagamenti di debiti non scaduti ovvero non esigibili al momento
del pagamento, tuttavia, l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza e della dottrina 90 ha ritenuto di dare una interpretazione della norma meno rigorosa e comunque tale da applicarla anche a quei pagamenti di debiti non
ancora scaduti nel momento in cui viene posto in essere l’atto estintivo, purché
tali debiti siano scaduti ed esigibili anteriormente alla sentenza dichiarativa di
fallimento. Qualora, invece, tali debiti dovessero scadere contemporaneamente
o dopo la declaratoria di fallimento, il relativo pagamento sarebbe soggetto alla
inefficacia disciplinata dall’art. 65 l. fall. La ratio di una tale interpretazione
90 App. Bologna, 15.4.1986, GCo, 1987, II, 347, in giurisprudenza: Cass., 30.3.1981, n. 1816, Fa,
1981, 641; Cass., 7.2.1955, n. 347, GI, 1955, I, 1, 1055; Cass., 9.9.1959, n. 2573, DF, 1960, II, 80;
App. Bologna, 15.4.1986, GCo, 1987, II, 785; App. Firenze, 6.2.1967, ivi, 1967, II, 642; Trib. Roma,
29.2.1968, ivi, 1969, II, 302; e in dottrina: PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1969,
382; PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, 1101; APICE, Mezzi anormali di pagamento e revocatoria fallimentari nei confronti delle banche, DF, 1999, 575.
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L’azione revocatoria fallimentare
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estensiva della norma in esame è da ricercarsi nel fatto che, trattandosi di pagamenti con mezzi anormali eseguiti ancor prima della scadenza del debito e, perciò, del tutto volontari, sarebbe ancora più forte la presunzione di conoscenza,
da parte del creditore, dello stato di insolvenza del debitore.
Sotto il profilo dell’applicazione pratica della norma in esame, il problema interpretativo di maggiore rilievo riguarda senz’altro la delimitazione del concetto
di « mezzo normale di pagamento ».
Ebbene, nel 1942, il legislatore della legge fallimentare nel sanzionare con la
revocatoria i pagamenti eseguiti con mezzi anormali, probabilmente, si è voluto
riferire a tutti quegli strumenti diversi dal danaro o mezzi similari, intesi come
tali gli effetti di commercio richiamati dall’art. 709 c. comm. 91 ossia gli assegni, le
cambiali, i vaglia postali, bonifici, giroconti.
Perlopiù la linea interpretativa che si è fatta strada dal 1942 in poi ha cercato
di individuare i mezzi normali di pagamento piuttosto che quelli anormali, cosı̀
da ritenere revocabili ai sensi del 1o co., n. 2, dell’art. 67 l. fall., tutti i pagamenti
che non erano eseguiti attraverso il danaro o gli assegni.
Tale interpretazione è stata però criticata da quella parte della dottrina 92 che
rifiutava una delimitazione preconcetta della normalità del mezzo di pagamento
utilizzato, ritenendo che la normalità fosse un concetto relativo e che l’interprete
dovesse, di volta in volta, verificare in concreto la normalità o meno del mezzo
di pagamento utilizzato. Detta soluzione interpretativa ancorché non largamente
condivisa merita attenzione, anche se cosı̀ operando si rischia di incidere negativamente sul principio di certezza del diritto. Del resto però ritenere che si possa dare una definizione di normalità o di anormalità, relativamente al mezzo di
pagamento utilizzato, significa non tenere conto della continua evoluzione del
traffico commerciale e con essa dei mezzi di pagamento, rischiando di ingessare
il mercato o, comunque, di creare una frattura tra la realtà commerciale e quella
normativa.
È proprio dall’esame del caso concreto, infatti, che emergono alcuni parametri
a cui l’interprete può ricorrere nell’accertamento della normalità o meno del pagamento oggetto di revocatoria. Tra questi, meritano senz’altro di essere menzionati: a) la coincidenza tra il mezzo di pagamento concordato in contratto e
91 L’art. 709 c. comm. disponeva infatti che «Si presumono fatti in frode ai creditori e in mancanza
della prova contraria sono annullati rispetto alla massa dei creditori, qualora siano avvenuti posteriormente alla data della cessazione dei pagamenti: 3) i pagamenti di debiti scaduti ed esigibili che non
siano stati eseguiti con danaro o con effetti di commercio... ».
92 Cfr. BIGIAVI, Cessione di contributi statali per la ricostruzione e revocatoria fallimentare dei pagamenti, BBTC, 1958, I, 287 ss.; REDENTI, La cessione dei contributi statali come mezzo di pagamento,
DF, 1957, II, 281.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
quello effettivamente utilizzato dal debitore; b) i pagamenti utilizzati dalle parti
in epoca non sospetta cosı̀ da poter ritenere normale anche un pagamento che
seppure diverso dal danaro e da mezzi similari sia abitualmente utilizzato tra
le parti 93 ovvero rientri negli usi o nella consuetudine 94; c) l’accertamento sulla
bilateralità dell’anormalità ossia se essa si riferisce ad entrambe le parti ovvero
ad una sola di esse 95.
In giurisprudenza, l’orientamento largamente dominante non risulta molto
elastico, ritenendo che sono mezzi di pagamento normali soltanto il danaro e
i titoli di credito comunemente considerati nel campo commerciale equivalenti
al danaro (assegni circolari e bancari, cambiali, vaglia, ecc.), mentre sono considerati anormali tutti gli altri mezzi ed anche il danaro ogni volta che esso è utilizzato non quale strumento d’immediata e diretta soluzione, ma in via mediata
e indiretta come effetto di altre forme negoziali 96. Il riferimento è, per lo più, alle
operazioni bancarie rispetto alle quali la giurisprudenza è intervenuta sanzionando non solo il pagamento normale ma anche l’operazione complessiva 97.
In questo quadro, assume particolare rilievo il negozio indiretto ossia l’operazione commerciale con la quale due o più parti pongono in essere una serie
di negozi giuridici, singolarmente validi ed efficaci, che hanno però come risultato finale il soddisfacimento di un creditore. Al riguardo, la casistica è ricca di
spunti. Si pensi alla risoluzione di un contratto per effetto della quale il venditore – creditore rientra in possesso del bene alienato al compratore insolvente,
ovvero l’acquisto, da parte di un creditore, di un bene del proprio debitore,
con contestuale compensazione. Per tali ipotesi, è di tutta evidenza che l’oggetto
della revocatoria non potrà essere il pagamento (che non esiste) bensı̀ il negozio
in forza del quale il creditore ha depauperato il patrimonio del debitore poi fallito, sicché una volta revocato il negozio il creditore sarà obbligato a restituire il
bene.
93 Si pensi all’ipotesi in cui due società hanno adempiuto, fin da epoca non sospetta e comunque in
modo continuativo alle reciproche obbligazioni a mezzo lo scambio dei beni rispettivamente prodotti.
A tal proposito, si veda Trib. Milano, 20.9.1990, Fa, 1991, 501.
94 Si pensi alla vendita di terreno edificabile pagato dal costruttore con appartamenti che saranno
costruiti.
95 Si pensi al pagamento effettuato con beni che non rientrano nell’oggetto sociale del creditore,
come ad esempio il pagamento a mezzo macchine agricole ad una società che produce mangime per
animali.
96 Cfr. Cass., 8.3.1995, n. 2706, Fa, 1995, 1038; Cass., 22.11.1996, n. 10347, Fa, 1997, 299;
Cass., 25.7.1997, n. 6467, Fa, 1997, 1013.
97 A tal proposito la Suprema Corte con sentenza 25.7.1997, n. 6467 ha stabilito che «... l’anormalità del pagamento, può ben essere individuata nella complessità, di un meccanismo satisfattorio posto
in essere; del tutto estraneo alle comuni ed usuali relazioni commerciali ».
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L’azione revocatoria fallimentare
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Sono quindi mezzi normali di pagamento i titoli di credito e ciò a prescindere
dalla regolarità formale degli stessi. A tal proposito, va infatti richiamata quella
giurisprudenza 98 secondo la quale non costituisce mezzo anormale di pagamento l’assegno bancario posdatato e ciò in considerazione del fatto che la indicazione sull’assegno di una data successiva a quella di emissione attiene ad un profilo
di regolarità formale del titolo di credito e non alla normalità o meno del mezzo
di pagamento.
I casi più frequenti di applicazione dell’art. 67, 1o co., n. 2, l. fall., sono: A) la
datio in solutum; B) la compensazione; C) la cessione di credito ed il mandato in
rem propriam.
A) La datio in solutum
Tra i mezzi anormali di pagamento va annoverata anzitutto la datio in solutum
o res pro pecunia, cioè il pagamento effettuato non con danaro, ma tramite la consegna di merci o di altri beni che possono esser costituiti da beni immobili, mobili e mobili registrati.
Se in ambito civilistico, il debitore, con il consenso del creditore, può adempiere alla propria obbligazione anche eseguendo una prestazione diversa da
quella pattuita (cfr. art. 1197 c.c.) in sede fallimentare tale fattispecie costituisce
elemento idoneo a far presumere che l’atto sia fraudolento e che il debitore sia in
stato di insolvenza.
Tuttavia, se la datio in solutum rappresenta il pagamento anormale per antonomasia, in concreto non sempre è agevole accertarne la sussistenza. Il riferimento
è all’ipotesi in cui il debitore poi fallito restituisca al creditore i beni precedentemente acquistati da quest’ultimo. Infatti, mentre nell’ipotesi di risoluzione per
inadempimento ex art. 1453 c.c. la restituzione del bene costituisce un effetto
di legge (cfr. art. 1458 c.c.) rispetto al quale il depauperamento del patrimonio
del debitore non è conseguenza di un pagamento anormale ma di un negozio solutorio, diversamente, qualora vi sia la restituzione del bene, allo scopo di estinguere l’obbligazione precedentemente assunta per l’acquisto di quello stesso bene, ovvero di altro, saremo di fronte ad un pagamento anormale ovvero della fattispecie anche nota come res pro pecunia. La differenza più rilevante tra la risoluzione contrattuale ed il pagamento della obbligazione pecuniaria a mezzo della
restituzione del bene oggetto di compravendita, consiste nel fatto che mentre
quest’ultima configura un pagamento anormale e quindi revocabile ai sensi del-
98
Cass., 6.12.1974, n. 4033, BBTC, 1975, II, 57.
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Atti e pagamenti pregiudizievoli per i creditori
l’art. 67, 1o co., n. 2, l. fall. 99, la risoluzione contrattuale potrebbe essere soggetta
al più all’azione revocatoria prevista dall’art. 67, 2o co., l. fall.
Il compito dell’interprete sarà pertanto quello di cercare di comprendere la
concreta volontà delle parti, ossia capire se, attraverso la restituzione dei beni,
le parti abbiano voluto mantenere in vita il negozio ovvero risolverlo. Nella prima ipotesi saremo di fronte ad un pagamento anomalo revocabile ex art. 67,
1o co., n. 2, l. fall., nella seconda ipotesi saremo di fronte ad un atto a titolo oneroso
revocabile ex art. 67, 2o co., l. fall. 100.
Per quanto riguarda l’oggetto della revocatoria, il petitum, nella ipotesi di datio
in solutum consiste nella restituzione del bene, mentre il tantundem potrà essere
richiesto solo in caso di impossibilità di restituzione. In ogni caso, per la giurisprudenza, ciò che interessa ai fini della revocatoria è il risultato raggiunto. Sicché, « Qualora un debito pecuniario, scaduto ed esigibile, venga estinto dall’obbligato mediante una prestazione diversa, consistente nel trasferimento di una res pro pecunia, la
ricorrenza di una datio in solutum, ed il suo conseguente assoggettamento, in considerazione della non normalità del mezzo di pagamento, ad azione revocatoria fallimentare a
norma dell’art. 67, co. I, n. 2, l. fall., va riconosciuta indipendentemente dallo strumento
negoziale adottato dalle parti per attuare il suddetto trasferimento, e, quindi, anche quando il trasferimento medesimo sia effetto di un valido contratto di compravendita, che
evidenzi l’indicato intento dei contraenti per la mancata corresponsione del prezzo di
vendita » 101.
Altre ipotesi di datio in solutum, ritenute revocabili in quanto integranti un pagamento anormale, si realizzano, generalmente, quando l’imprenditore, essendo
debitore di danaro a seguito di una fornitura di beni, anziché versare la somma
dovuta, estingua la propria obbligazione mediante la prestazione di servizi 102.
La soluzione favorevole alla revocatoria ha in effetti incontrato non poche critiche da parte di autorevole dottrina 103 che ha ritenuto non revocabile la prestazione di un servizio, in quanto essa non costituisce un bene economico patrimoniale, non viola la par condicio creditorum, né depaupera il patrimonio del debitore.
In verità, sembrerebbe che se la prestazione rientri nell’oggetto sociale del-
99 Cfr. Cass., 2.6.1999, n. 5356, DPSoc, 1999, 17, 78; Fa, 2000, 738; DF, 2000, II, 757; Cass.,
24.7.2000, n. 9690, GCM, 2000, 1612.
100 Questo è l’indirizzo largamente prevalente in dottrina ed in giurisprudenza: Cass. 5356/1999,
Fa, 2000, 738; Cass. 2912/1994, Fa, 1994, 1015; App. Bologna, 2.9.1997, Fa, 1997, 1241/1242;
Trib. Torino, 31.7.1996, Fa, 1997, 109; in dottrina: PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano,
1969, 384; SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1990, 241; FERRARA, Il fallimento, Milano, 1995, 449.
101 Cass., 21.12.2004, n. 23714, DPSoc, 2005, 17, 89.
102 Trib. Torino, 9.6.1995, GIUS, 1995, 3988.
103 RAGUSA MAGGIORE, Contributo alla teoria unitaria della revocatoria fallimentare, Milano, 1960,
144; D’ALESSANDRO, La revoca dei pagamenti nel fallimento, Milano, 1972, 33.
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L’azione revocatoria fallimentare
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l’impresa debitrice, certamente ci troveremo di fronte ad una datio in solutum ed
allora direzionando tale attività in favore di un creditore il patrimonio del debitore potrebbe subire un danno che nella fattispecie potrebbe assumere le vesti
del mancato guadagno ovvero di un lucro cessante. Pertanto, se il creditore
che ha ricevuto la prestazione dovesse essere condannato dovrà restituire il valore della prestazione ricevuta.
B) La compensazione
Se la datio in solutum costituisce un mezzo anormale di pagamento diretto, la
compensazione è un mezzo anormale di pagamento indiretto.
Come è noto, la compensazione è disciplinata dagli artt. 1241 ss. c.c. e rientra
tra gli strumenti di estinzione della obbligazione diversi dall’adempimento.
La norma codicistica prevede tre diverse ipotesi di compensazione: legale, volontaria e giudiziale. La legge fallimentare ne prevede una quarta (cfr. art. 56
l. fall.).
Per quanto concerne la compensazione legale, i presupposti di legge sono noti: a) che vi sia reciprocità dei debiti; b) che i rispettivi crediti siano certi, liquidi
ed esigibili; c) che vi sia autonomia dei rapporti. Quando ricorrono detti presupposti, anche in sede fallimentare, si assiste alla compensazione dei reciproci debiti. Detta compensazione può, tuttavia, essere realizzata anche attraverso negozi fraudolenti. Si pensi all’ipotesi in cui il creditore, resosi conto del grave stato
di dissesto in cui versa il proprio debitore, stipula un contratto con quest’ultimo
in forza del quale esso creditore diventa debitore del fallendo, si da poter eccepire la compensazione legale tra il proprio originario credito e quello artatamente costituito in capo al fallendo 104. Ebbene, in tali ipotesi il curatore potrà chiedere la revoca dell’atto in forza del quale il creditore ha potuto compensare il
proprio credito 105.
Per quanto concerne la compensazione volontaria, ossia quella oggetto di un
accordo tra le parti che sia stato concluso quando i reciproci debiti siano già sorti
ovvero prima che essi sorgano, sembrerebbe che, per entrambe tali ipotesi, trat-
104 Ad esempio, X è creditore di Y per 500.000 euro ma quest’ultimo non è in grado di pagare il proprio debito perché versa in stato di insolvenza. X e Y si mettono d’accordo perché il secondo ceda il proprio immobile di valore pari al debito in favore del primo, il quale avendo assunto l’obbligazione nei confronti di Y potrà eccepire la compensazione legale, vedendosi cosı̀ integralmente soddisfatto in danno
della par condicio creditorum.
105 Trib. Piacenza, 22.10.1997, DF, 1998, II, 132; Trib. Monza, 22.12.1998, Fa, 1999, 1150, con
nota di MONTALDO.
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