dalla Vita nova a Amor che nella mente mi ragiona

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Dante curioso, Dante studioso: dalla ‘Vita nova’ a
‘Amor che nella mente mi ragiona’
JUAN VARELA-PORTAS DE ORDUÑA
1.- È nostra intenzione proporre in queste pagine l’ipotesi di una narrazione – parziale, ovviamente – di quello che succede a Dante – tanto
nella finzione dei testi quanto nella realtà storica – nel periodo compreso
fra il primo anniversario della morte di Beatrice e l’abbandono delle
scuole di religiosi e l’inizio della sua attività politica. Di fronte al ‘rompicapo’ (Corti dixit) della donna pietosa-gentile-filosofia, vorremmo riprendere con nuovi argomenti – e qualche modifica che comunque non
cambia il midollo dell’ipotesi – la annosa narrazione di Etienne Gilson
(1967 [1939]: 86-96).1 Siamo profondamente coscienti del fatto che se si
facesse un sondaggio nell’ideale comunità dei dantisti sull’identificazione
– stabilita da Dante – fra la donna pietosa della Vita nova, la donna gentile
di Voi che ‘ntendendo, Voi che savete, Parole mie, O dolci rime, Amor
che nella mente mi ragiona e Le dolci rime, e infine la filosofia del Convivio, ci sarebbero due posizioni prevalenti, lasciando in terzo luogo
quella che noi difenderemo. Forse la più apprezzata sarebbe quella che –
da Barbi a Pernicone e a Fenzi – ammette l’originale valore allegorico
della donna gentile delle rime allegoriche ma non della donna pietosa
della Vita nova. Al secondo posto del ranking ci sarebbe, probabilmente,
quella – che ci si consenta chiamare ‘derobertisiana’ – di coloro che pensano che l’allegoria del Convivio è una sovrapposizione diremmo spuria
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all’originale testo poetico – una ‘ortopedizzazione’, nel provocatorio termine di Raffaele Pinto; «una straordinaria operazione di riciclaggio», con
parole di Emilio Pasquini (2006: 45) – e che le donne della Vita nova e
delle rime, anche se identificabili, sono letterariamente nulla più che
donne, o, al limite, nuove rappresentazioni del ‘fantasma femminile’
(Pinto). In coda nella classifica ci saremmo, con tutta probabilità, noi che,
nella provocatoria espressione del Nardi, diamo più retta a Dante che ai
dantisti, e pensiamo che dal capitolo XXXV in avanti – ma anche indietro,
per la verità – Dante non parli specificamente di amore per donna ma, attraverso di esso, dell’amore per la conoscenza e di altre questioni gnoseologiche – e perciò poetiche. È vero che, anche se oggi siamo in coda,
nella nostra squadra contiamo su dantisti di spicco come il menzionato
Bruno Nardi, Maria Corti, Umberto Bosco o Etienne Gilson, il che forse
ci consentirà di non retrocedere in serie B (e ci si permetta la battuta).2
Le idee portanti del nostro discorso saranno le seguenti:
–Dante nel Convivio non inventa, ma riflette una stagione intellettuale
storicamente avvenuta, e non soltanto per lui, ma per il comune fiorentino
a metà degli anni ’90 del Duecento, e rintracciabile in documenti dell’epoca.
–Non ci sono divergenze oggettive nei fatti narrati nella Vita nova, le
rime ‘allegoriche’ e il Convivio – sono anzi narrazioni del tutto coincidenti
quanto ai fatti –, ma sono soltanto diverse le prospettive – e le finalità –
da cui si narra.
–Ci troviamo di fronte a un periodo unitario, narrato nei capitoli dal
al XLII della Vita nova, e nelle rime da Voi che ‘ntendendo a Poscia
ch’Amor, caratterizzato dallo squilibrio psicologico riguardo al desiderio
di conoscenza e, conseguentemente, al rapporto fra l’amore verso Beatrice
– che nella Vita nova diventa vera icona della verità assoluta, e non semplice donna – e l’amore per la donna gentile, amori che coesistono in sofferto conflitto.
XXXV
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2.- Partiamo dai versi 73-86 di Amor che nella mente mi ragiona e dal
loro commento in Convivio III, X, 1-3:
Canzone, e’ par che tu parli contraro
al dir d’una sorella che tu hai,
ché questa donna che tanto umil fai
ella la chiama fera e disdegnosa.
Tu sai che ‘l ciel sempr’è lucente e chiaro,
e quanto in sé non si turba già mai;
ma li nostri occhi per cagioni assai
chiaman la stella talor tenebrosa.
Così, quand’ ella la chiama orgogliosa,
non considera lei secondo il vero,
ma pur secondo quel che.llei parea;
ché l’anima temea
e teme ancora, sì che mi par fero
quantunque io veggio là ‘v’ella mi senta.
(Amor che nella mente, vv. 73-86)
sì come li nostri occhi ‘chiamano’, cioè giudicano, la stella talora
altrimenti che sia la sua vera condizione, così quella ballatetta [Voi
che savete ragionar d’Amore] considerò questa donna secondo
l’apparenza, discordante dal vero por infermitade dell’anima, che
di troppo disio era passionata. E ciò manifesto quando dico: che
l’anima temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua presenza. Dov’è da sapere che quanto l’agente più al paziente sé unisce, tanto più forte è però la passione, sì come per la sentenza del
Filosofo in quello De generatione si può comprendere; onde,
quando la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo
desiderio è maggiore, e l’anima più passionata, più si unisce a la
parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non
giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur
secondo l’apparenza, non discernendo la veritade. E questo è
quello per che lo sembiante, onesto secondo il vero, mi pare disdegnoso e fero; e secondo questo cotale sensuale giudicio parlò
quella ballatetta (Convivio III, X, 1-3).
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L’argomento su cui Dante basa la sua palinodia riguardo a Voi che savete consiste nel separare, da una parte, l’atto in sé della conoscenza e il
suo oggetto, e, dall’altra, l’appetito o desiderio che porta ad esso. In modo
allegorico: una cosa sarebbe la donna che si ama, e un’altra cosa il tipo
di amore che si rivolge verso di lei.3 Questa distinzione fra l’aspetto
schiettamente intellettuale della conoscenza e l’aspetto sensitivo insito in
essa era la chiave per definire una virtus, la studiositas, e il suo vizio per
eccesso, la curiositas, che riguardavano appunto il desiderio di conoscenza indipendentemente dal suo oggetto. Oltre al fatto che, come cercheremo subito di mostrare, la casistica che descrive Tommaso nella sua
questione della Summa sulla curiositas si addice con precisione alla situazione di Dante – e a certe preoccupazioni intellettuali fiorentine a metà
degli anni ’90 –, crediamo che nella spiegazione del Convivio e nella similitudine relativa ai versi 77-80 della canzone c’è almeno un’eco, e forse
un riferimento più esplicito, alla detta questione tomistica, quando l’eccesso di desiderio di Dante si collega all’attività dialettica della filosofia
(il suo corpo) che Dante non riesce a decifrare (Convivio III, XV, 19) e
alla contemplazione eccessiva, troppo intensa, delle stelle (Convivio III,
IX, 11-13). Infatti l’argomentazione tomistica nella quaestio De curiositate
comincia con una citazione di San Girolamo che pone come esempio di
curiositas appunto il dialettico torturato giorno e notte, e il ‘fisico’ che
scruta il cielo in cerca di stelle:
Sed contra est quod Hieronymus dicit: «Nonne vobis videtur in
vanitate sensus et obscuritate mentis ingredi qui diebus ac noctibus
in dialectica arte torquetur, qui physicus perscrutator oculos trans
caelum levat?» Sed vanitas sensus et obscuritas mentis est vitiosa.
Ergo circa intellectivas scientias potest esse curiositas vitiosa
(Summa II-II, q. 167, a. 1, sed con.; citiamo da Tomas de Aquino
1950-1958).
Partiremo quindi dall’ipotesi che l’infermitade dell’anima di Dante –
quella che fa il suo intelletto non sano – che spiega la viltà del suo amore
verso la donna gentile-filosofia sia appunto il vizio della curiositas, che,
come dicevamo, è innanzi tutto un vizio che proviene non dall’oggetto
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della conoscenza ma dal modo in cui questo oggetto si insegue, con appetito eccessivo e superfluo. La curiositas è il vizio contrario per eccesso
alla virtù della studiositas, che riguarda la moderazione nell’appetito con
cui si applica la vis cognoscitiva:
Ad secundum dicendum quod actus cognoscitivae virtutis imperatur a vi appetitiva, quae est motiva omnium virium, ut supra habitum est (Summa I, q. 82, a. 4; cfr. I-II, q. 9, a.1).
Et ideo circa cognitionem duplex bonum potest attendi. Unum quidem, quamtum ad ipsum actum cognitionis. Et tale bonum pertinet
ad virtutes intelectuales: ut scilicet homo circa singula aestimet
verum. Aliud autem est bonum quod pertinet ad actum appetitivae
virtutis: ut scilicet homo habeat appetitum rectum applicandi vim
cognoscitivam sic vel aliter, ad hoc vel ad illud. Et hoc pertinet ad
virtutem studiositatis. Unde computatur inter virtutes morales
(Summa II-II, q. 166, a. 2, ad 2).
Una volta intesa la differenza fra l’atto di conoscere e l’appetito o desiderio che indirizza la forza conoscitiva verso quell’atto – la differenza,
insistiamo, su cui Dante basa la sua palinodia riguardo a Voi che savete ragionar d’amore – è da sapere che sia la studiositas come virtù sia la curiositas come vizio non riguardano «directe circa ipsam cognitionem, sed
circa appetitum et studium cognitionis acquirendae. Aliter autem est iudicandum de ipsa cognitione veritatis: et aliter de appetitu et studio veritatis cognoscendae» (Summa II-II, q. 167, a. 1, resp.). Se la conoscenza
della verità è per sé buona, «Sed ipse appetitus vel studium cognoscendae
veritatis potest habere rectitudinem vel perversitatem» (Ibidem).
La rettitudine o perversità dell’appetito di conoscere dipendeva da circostanze e fattori che vorremmo analizzare non come possibilità intellettuali attinenti in astratto al testo di Dante, ma come effettivamente
operanti nella Firenze di metà degli anni ’90, quando Amor che nella
mente mi ragiona viene scritta. Per fare ciò ci sia consentito leggere l’articolo primo della questione tomistica sulla curiositas incrociandolo con
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un testo ancora più vicino a Dante, testo però che dobbiamo presentare
tramite un excursus.
Ci riferiamo alla Quaestio de quodlibet messa in luce per il dantismo
da Sylvain Piron in un interessantissimo articolo pubblicato nel 2008. In
essa, un giovane fiorentino uditore esterno dei corsi svolti alla scuola di
Santa Croce rivolge al teologo Petrus de Trabibus una peculiare domanda,
diversa da quelle abituali in questo tipo di questioni – piuttosto di tipo
morale o riferite agli insegnamenti svolti durante il corso. La domanda,
secondo le convincenti conclusioni di Piron, fu fatta nella primavera di
1295, e il teologo mostra nella sua risposta di conoscere la persona che
l’ha fatta, e ne dà una risposta conciliatrice, anzi, riassicurante, che lascia
intravedere le preoccupazioni intellettuali che, in quel preciso momento,
assediano un uomo fiorentino, giovane, intellettualmente ben considerato,
e interessato alle belle lettere come alla filosofia. Piron argomenta acutamente la possibilità che sia stato proprio Dante a rivolgere questa domanda, ma al di là di questa ipotesi – tanto suggestiva quanto
indimostrabile –, è ovvio che domanda e risposta forniscono informazioni
preziose sulle questioni vive nell’ambiente letterario e filosofico fiorentino di metà anni ’90 del Duecento. E vedremo subito che la risposta di
Petrus de Trabibus punta proprio sulla questione della curiositas, con singolari coincidenze con l’impostazione tomistica del tema, questione che,
inoltre, si colloca al centro del dibattito ancora in corso – anche se non con
la violenza polemica di due decadi prima – fra filosofi e teologi.
Ma vediamo innanzi tutto la domanda, una domanda, come dice Piron,
da filosofante in una scuola di religiosi: «Utrum scientia litterarum humanarum vel bonitas intellectus conferat ad sanctitatem animae». La domanda, come si avverte subito, riprende l’accanito dibattito sui rapporti
fra filosofia e teologia, ma, con l’espressione ‘scientia litterarum humanarum’, invece di un riferimento preciso alla filosofia, si mostra l’ampiezza di interessi di chi domanda. Comunque, come spiega Piron,
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la portée exacte de la domande anonyme se révèle davantage dans
la seconde partie de l’interrogation. Le thème d’une “bonté de l’in-
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tellect” (bonitas intellectus) rend une tonalité passablement discordante dans un environnement franciscain, puisqu’il évoque une
tradition de mystique noétique d’origine albertinienne. Plus précisément, il paraît renvoyer à un debat qui agitait l’université parisienne depuis une trentaine d’année. À la faculté des arts, au cours
des années 1260, s’était répandue une conception de l’activité philosophique comme finalité propre destinée à mener la capacité intellective de l’être humain à son ultime perfection. Ses promoteurs
sont souvent qualifiés d’averroïstes mais cette appellation est
trompeuse; il est vrai que le terme, lancé par Thomas d’Aquin en
1270 dans un débat spécifique sur l’unicité de l’intellect possible,
a été rapidement employé, notamment par Olivi, en un sens plus
étendu pour viser l’ensemble des erreurs commises par les philosophantes. Mais dans la mesure où le lien technique avec les thèses
du philosophe arabe est souvent très faible, il est moins équivoque
de conserver ce second terme pour désigner une démarche caractérisée par la prétention à une autonomie de la recherche menée
par la seule raison naturelle (Piron 2008: 88).
Piron mette la domanda in diretto rapporto con il De summo bono di
Boezio di Dacia, adattato, come si sa, a Bologna da Giacomo da Pistoia
negli anni ’90 in una Quaestio de felicitate dedicata a Guido Cavalcanti
(si veda Corti 1983: 9-31). Ora, il fatto che la risposta di Petrus de Trabibus riprenda nozioni basiche sulla curiositas – anche se senza nominare
esplicitamente questo vizio – è fondamentale appunto perché l’accusa di
curiositas era quella rivolta ai filosofi da parte dei teologi nell’infuocata
polemica degli anni ’70 e ’ 80. «Sunt qui scire volunt tantum, ut sciant, et
turpis curiositas est», aveva scritto San Bonaventura nella sua critica della
vita filosofica rivolta ai maîtres della facoltà delle Arti. Negli anni ’90, lo
scontro è ormai pacificato, il che permette a Petrus de Trabibus una risposta conciliatrice nella quale, oltre a citare le autorità patristiche e canoniche favorevoli alla lettura di testi filosofici, adduce un ragionamento
negativo: «Respondeo dicendum quod omne illud est utile ad sanctitatem
anime cuius privatio impedit a promotione ipsius. Sed talis est scientia
humana» (Petrus de Trabibus, Quodlibet I, 18; in Piron 2008: 110). Ma
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ovviamente l’utilità degli studi filosofici dipenderà dal modo in cui siano
svolti, e Petrus de Trabibus continua ammonendo circa gli errori in cui
può cadere il filosofante. Prima di tutto, «propter fastuositatem elationis»,
cioè, l’insuperbirsi coi saperi: «sunt nonnulli qui, videntes quod talis notitia est vulgo difficilis, eas addiscunt ex suo bono ingenio, vel ut aliis supereminere videantur, et tamquam singulares inter alios habeantur, vel ne
inferior aliis reputentur» (in Piron 2008: 111). Che questo sia uno dei tratti
principali della curiositas lo sappiamo grazie alla questione di Tommaso:
«Uno quidem modo, prout aliquis tendit suo studio in cognitionem veritatis prout per accidens coniungitur ei malum: sicut illi qui student ad
scientiam veritatis ut exiade superbiant» (Summa II-II, q. 167, a. 1, resp.).
Comunque, le parole di Petrus de Trabibus, pronunciate e sentite nella
chiesa della Santa Croce nella primavera del 1295, acquisiscono per il
dantista una risonanza molto particolare. Piron non può non pensare a
Guido Cavalcanti:
Or, a ce sujet, dans le contexte florentin de 1295, il serait difficile,
de ne pas évoquer le nom de Guido Cavalcanti [...] on peut retenir
de ce paragraphe que Pierre de Trabibus mette en garde son auditoire contre un comportament dans lequel une bonne part de l’assistance aurait pu reconnaître le profil de Guido (Piron 2008:
92-93).
Anche se non con la forza dei decenni precedenti, l’ombra averroista
si proiettava ancora su Firenze con la figura di Guido Cavalcanti, che probabilmente stimolò la curiositas dantesca – o la sua crisi di filosofismo
puro, per dirla col Gilson – con la scrittura di Donna me prega.
Il secondo pericolo di cui Petrus de Trabibus avverte è quello che punta
maggiormente sulla questione della curiositas, collegando l’infermitade
dell’anima di Dante con la voluptas speculandi averroista:
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Secundo potest quis studere et scire per vanitatem delectationis.
Animus enim naturaliter gaudet et delectatur in perceptione veritatis vel alicuius pulcritudinis [sic] et debite proportionis, et quia
in philosophicis et poeticis est quedam pulcritudo et sillabarum et
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dictionum conveniens proportio, et rationis deductio in philosophicis, potest homo in hiis nimis immorari (in Piron 2008: 111).
Petrus de Trabibus lo spiega più accuratamente in un commento alle
Sentenze che riprende la nostra questione de quodlibet in un modo ovviamente molto più articolato e che è databile alla fine degli anni ’90 o primissimi anni del ’300, quindi poco prima del Convivio:
Anima enim universaliter gaudet in apprenhensione pulchritudinis
et debitae proportionis [...] gaudet etiam in convenienti deductione
rationis [...] Cum igitur in poeticis sit quaedam pulchritudo et syllabarum et dictionum et conveniens proportio, in philosophicis
etiam sit conveniens rationis deductio, in horum apprehensione
habet anima naturaliter gaudere. Unde potest in huiusmodi vane
et inordinate delectari (Petrus de Trabibus, Ordinatio, in Piron
2008: 93).
Questo «vane et inordinate delectari» si deve, da un lato, mettere in
rapporto con l’«appetitus non debito modo ordinatus ad cognitionem summae veritatis» (Summa II-II, q. 167, a. 1, ad 1) o con l’«inordinate cognitionem veritatis appetere [quia etiam oportet appetitum boni debito modo
regulatum esse]» (Summa II-II, q. 167, a. 1, ad 2) che caratterizzano la curiositas secondo Tommaso. Ma, dall’altro lato, come spiega Piron, ha di
mira, di nuovo il De summo bono di Boezio di Dacia:
Pierre de Trabibus a véritablement en ligne de mire l’apologetique
des philosophantes parisiens et sans doute plus particulièrement
l’opuscule de Boèce de Dacie. Celui-ci, en effet, ne se contente
pas d’affirmer que le philosophe est le seul à vivre une vie droite
et conforme à l’ordre naturel; il répète en outre à loisir que le philosophe jouit du plus haut plaisir accessible en cette vie, une volupté intellectuelle incommensurable aux plaisirs sensuels qui
s’offre à qui peut atteindre le bien suprême accessible en cette vie.
De façon très remarquable, le théologien ne nie pas ce plaisir de
l’intellect, mais le remet à sa place: il est vain et risquerait de nuire
à la recherche des vérités ultimes si on lui accordait trop d’importance et de temps. Mais en réalité, Pierre de Trabibus fait bien da-
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vantage que de ne pas nier ce plaisir. Il ajoute aux délices de la
contemplation métaphysique du vrai e du bon, les seuls dont parle
l’apologie de Boèce, un plaisir qui naît des deductions de la raison.
Et cette reconnaissance de la beauté des syllogismes est en outre
redoublée d’une comparaison encore plus inhabituelle avec la poésie (Piron 2008: 94).
Infatti, nell’accostare ai piaceri della filosofia quelli della poesia, Petrus
de Trabibus mette a segno una mossa intellettuale realmente stimolante
per noi dantisti, che porta a Piron a ipotizzare la possibilità di trovarci di
fronte a una risposta ad hominem:
On peut donc penser qu’il n’a pas mené cette explicitation inattendue du champ des “lettres humaines” en exposant ses propres
intérêts, mais plutôt en fonction de ceux de son interlocuteur, que
la singularité de la demande aurait pu suffire à identifier. Le lector
lui répond avec une évidente sympathie (Piron 2008: 95).
È ovvio, in ogni modo, che la risposta si addice perfettamente alla stagione poetica della donna gentile e delle rime aspre e sottili in cui Dante
si trova proprio in quei anni, ma, vedremo fra poco, si addice anche al
modo con cui questo processo intellettuale viene rappresentato nella Vita
nova sotto la bella menzogna della donna pietosa.
In ogni caso, il pericolo più grosso per chi si dà completamente agli
studi filosofici è quello di dimenticare la loro vera utilità, cioè il loro carattere propedeutico alla vera conoscenza: la conoscenza di Dio e della
somma verità «in qua consistit summa felicitas» (Summa II-II, q. 167, a.
1, ad 1). Petrus de Trabibus lo spiega con un atteggiamento positivo:
Ille qui voluntatem Dei querit in sacris Scripturis debet prius sollicite querere naturas rerum, ne hereat ubi non debet, quia posset
contingere quod acciperet creaturam pro creatore, si naturam
rerum ignoraret, que docetur in tali scientia (in Piron 2008: 110).
Mentre Tommaso avverte circa la curiositas che si produce
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quando homo appetit cognoscere veritatem circa creaturas non referendum ad debitum finem, scilicet ad cognitionem Dei. Unde
Agustinus dicit, in libro De vera relig., quod «in consideratione
creaturarum non est vana et peritura curiositas exercenda, sed gradus ad immortalia et semper manentia faciendus» (Summa II-II,
q. 167, a. 1, resp.).4
Et ideo potest esse vitium in cognitione aliquorum verorum, secundum quod talis appetitus non debito modo ordinatur ad cognitionem summae veritatis, in qua consistit summa felicitas (Summa
II-II, q. 167, a. 1, ad 1).
Petrus de Trabibus, da parte sua, aggiunge che tale utilità è possibile
solo «si est persona iuvenis et non grossi ingenii», che Piron legge di
nuovo come un messaggio personale.
In ogni caso, è chiaro che, anche se non è stato Dante colui il quale ha
posto la domanda a Santa Croce nella primavera di 1295, deve essere
stato qualcuno dal profilo intellettuale molto vicino al suo. Di conseguenza la risposta di Petrus de Trabibus mostra che il pericolo della curiositas, collegato all’esercizio filosofico e all’influenza averroista
esisteva veramente fra i giovani letterari fiorentini, e che la spiegazione
dantesca del Convivio fatta anni più tardi non sta inventando nulla ex nihilo, ma sta riflettendo una stagione intellettuale – personale e collettiva
– effettivamente trascorsa.5 Che questa stagione intellettuale sia immersa
nell’ampio campo di una questione fondamentale (forse la questione fondamentale) nel mondo del pensiero europeo di quel periodo storico – la
questione delle limitazioni della conoscenza umana, del suo desiderio e
della conseguente felicità dell’essere umano in questa vita – è stato di recente chiaramente spiegato da Paolo Falzone (2010), in un panorama
ricco e articolato che non lascia dubbi sull’importanza che per Dante
aveva un argomento che non soltanto premeva agli intellettuali del periodo ma che era anche basilare per lo sviluppo della sua poesia. Dobbiamo chiarire in questo senso che la visione teologica di Petrus de
Trabibus o di Tommaso sulla curiositas può essere intesa dal punto di
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vista filosofico – come fa Dante in Convivio IV, XV, 9, secondo l'analisi
di Falzone (2010: 185-197) – come
il divario tra l’appetitus naturalis, o desiderio naturale, e l’appetitus animalis, o desiderio animale: il primo, traendo impulso dalla
natura stessa del soggetto desiderante, è immune da errore e sempre rivolto a beni raggiungibili; il secondo, mosso o da un phantasma (se è appetito sensibile) o da un giudizio di ragione (se è
appetito razionale, o volontà), entrambi fallibili, è esposto viceversa al rischio dell'errore e può tendere a fini irrealizzabili (Falzone 2010: 186-187).
Siamo quindi davanti a una questione chiave nel dibattito intellettuale
dell’epoca, e quello che vorremmo mostrare nelle prossime pagine è che
l’arrivo di Dante a una soluzione propria è tutt’altro che pacifico e suppone una dura ‘battaglia’ personale combattuta nel campo del desiderio intellettuale che lascia una profonda traccia nella Vita nova (capitoli
XXXV-XXXIX) e nelle cosiddette rime allegoriche.
3.- Ritornando al nostro testo di partenza, vediamo che Dante, nella similitudine dei versi 77-80, usa una strategia di allegorizzazione non molto
complessa, fondata, come non potrebbe essere altrimenti, sul parallelismo
fra mondo sensibile e mondo intelligibile: la percezione sensibile di una
stella – o delle lettere sulla carta umida – e la percezione sensibile di una
donna, allegorizzano la percezione intellettuale della filosofia. In questo
passaggio dal mondo sensibile al mondo intelligibile, crediamo che anche
la curiositas serva a Dante come modello mentale per dispiegare la sua
strategia allegorica.
Perché è da sapere che accanto alla curiositas circa cognitionem intellectivam, della quale abbiamo parlato fino adesso, esiste la curiositas
circa sensitivam cognitionem, conosciuta anche come consupiscentia oculorum, il che, come vedremo, porta all’episodio della donna pietosa della
Vita nova. In altre parole, sia nella Vita nova sia nella spiegazione del
Convivio la curiositas sensitiva allegorizza la curiositas intellettiva. La
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curiositas sensitiva è dannosa «in quantum cognitio sensitiva non ordinatur in aliquid utile» (Summa II-II, q. 167, a. 2, resp.) ma anche «in quantum cognitio sensitiva ordinatur ab aliquo noxium: sicut inspectio mulieris
ordinatur ad concupiscendum» (Ibidem). Si tratta perciò di una allegorizzazione non troppo ardita il fatto che la curiositas sensibile rivolta a una
donna stia per la curiositas intellettiva rivolta alla filosofia, come nel caso
di Voi che savete ragionar d’amore e dell’episodio della donna pietosa
della Vita nova, specialmente per i capitoli XXXVII e XXXVIII.6
Si ricorderà il protagonismo degli occhi nell’episodio, che narra la storia appunto di una concupiscentia oculorum. Nei capitoli XXXV e XXXVI,
Dante ha ancora verso la donna pietosa un atteggiamento passivo, lasciandosi guardare da lei anche se a volte comincia già a cercarla attivamente:
«E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia tristizia,
io andava per vedere questa pietosa donna» (2). È il momento della propassio, come ha recentemente spiegato Vittorio Bartoli (Bartoli 2010),
cioè il momento nel quale la passione resta confinata alla sfera sensoriale
e vegetativa e, anche se il soggetto non ne è ancora cosciente, incomincia
la delectatio, che porta al peccato quando non è immediatamente respinta
(Bartoli 2010: 2007). In altre parole:
in questi due paragrafi [24 e 25 dell’edizione Gorni, cioè capitoli
XXXV e XXXVI nella tradizione editoriale] il poeta descrive l’insorgere e l’affermarsi della propassio. La percezione visiva è del tutto
casuale e, secondo la scienza medica e la dottrina patristica, non
può esser elusa. Non vi è peccato nell’iniziale valutazione positiva
della Pietosa conseguente alla percezione, al massimo può esservi
errore, perché l’opinione che la mente ricava dall’analisi della sensazione è vera o falsa. Il peccato, veniale ed inavvertito insorge
nel momento in cui il poeta propone la prima giustificazione al desiderio di rivedere la donna che tira fuori dagli occhi le lacrime di
compianto per Beatrice (Bartoli 2010: 211).
Nel capitolo XXXVII c’è un cambiamento di intensità importante e gli
occhi di Dante diventano protagonisti dell’azione, alla ricerca del diletto
dato dal vedere la donna. Le frasi iniziali del capitolo sono punti chiave
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nella spiegazione della concupiscentia oculorum che assorbe Dante: «Io
venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro
a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio
cuore ed aveamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade
de li occhi miei» (1). Sarebbe questo il momento del consensus interpretativus – l’insorgere appunto del peccato veniale con la presa di coscienza
della crescente delectatio –, quando «avvertendo il pericolo, la mente non
respinge la delectatio e permette al pensiero di immergersi in essa» (Bartoli 2010: 207). Inizia quindi la colpa, anche se veniale:
È in questo momento che Dante diviene consapevole del diletto
che gli dà la vista della Pietosa e, siccome non vuole o non può reprimerlo, inizia la colpa; il cuore, «magione» d’Amore, ne è turbato, rammaricato ed afflitto. Trattasi della condizione, descritta
da S. Bonaventura, di consensus interpretativus, perché il pericolo
della colpa è avvertito dal cuore, che nello specifico ha la funzione
della Ragione [la ragione inferiore, come vedremo], ma non è né
soffocato né respinto cosicché il pensiero può immergersi nella delectatio che offrono gli occhi e persino ricercarla (Bartoli 2010:
211-212).
La concupiscentia oculorum porta, nel capitolo successivo, al fatto che
il cuore, cioè l’appetito o desiderio, resti attaccato alla donna in modo eccessivo e vile, nel modo cioè tutto appetitivo o sensitivo proprio della curiositas e coincidente con quello spiegato nel Convivio a proposito
dell’atteggiamento verso la donna gentile in Voi che savete: «Ricovrai la
vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava
sì come di persona che troppo mi piacesse [...] E molte volte pensava più
amorosamente, tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel suo ragionare» (XXXVIII, 1). Si tratta, come indicano le prime parole del capitolo,
di una «nuova condizione» caratterizzata dal consenso del cuore ma non
di quello della ragione (anima), cioè dalla dissociazione fra la parte intellettuale e l’oggetto dell’appetito, da un parte, e, dall’altra, il desiderio che
si rivolge a esso. La duplicità è la stessa che spiega la divergenza fra Voi
che savete ragionar d’Amore e Amor che nella mente mi ragiona, e, così
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
come nel Convivio l’errore non si trova nella donna-filosofia ma nel desiderio rivolto ad essa, la stessa dissociazione – base, come sappiamo,
della curiositas, sia sensitiva che intellettiva, ovvero dell’errore dell’appetitus animalis – si trova nell’episodio della Vita nova: «dico ‘gentile’ in
quanto ragionava di gentile donna, ché per altro era vilissimo» (XXXVIII,
4). L’apparente contraddizione fra un amore negativo nella Vita nova e un
amore positivo nel Convivio non è tale se consideriamo che la Vita nova
narra – come Voi che savete o l’inizio di Le dolci rime – lo stato di curiositas nel rapporto di Dante con la filosofia, un rapporto segnato dall’appetito o desiderio eccessivo e disordinato (appetitus animalis) e che perciò
provoca che il ragionare d’amore si dia nel cuore e non ancora nell’anima:
«tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel suo ragionare» (XXXVIII, 2).
Ci troviamo quindi nel momento del consensus, «cioè in pieno peccato
mortale perché vi è sicuramente la voluntas delectandi in cogitatione»
(Bartoli 2010: 212), cosicché Dante ha percorso di grado in grado le tre
fasi della concupiscenza secondo Pietro Lombardo (propassio, delectatio,
consensus), probabilmente attraverso gli sviluppi di Bonaventura e Tommaso, come ha spiegato Bartoli (ma si veda anche Vecchio 2009).
Comunque, se andiamo ancora avanti nella considerazione tecnica
della vicenda narrata, vedremo che la dissociazione cuore-anima che ne
è il punto di arrivo e che la contraddistingue – e che, insistiamo: è la base
della curiositas – va al di là della dissociazione appetito-ragione, portandoci a capire che Dante in questo episodio si trova davanti a una donna
molto particolare, che di conseguenza è anche peculiare la sua concupiscentia. Accettando, come sembra d’obbligo, il fondamentale contributo
di Bartoli, si deve necessariamente dedurre che nell’episodio il cuore non
è soltanto il luogo dell’appetito sensitivo. Perché se c’è voluntas, e quindi
responsabilità da parte di Dante, ci deve essere necessariamente un consentimento in qualche modo razionale – come accenna Bartoli quando afferma che il cuore «nello specifico ha la funzione della Ragione» (Bartoli
2010: 212) –, attuato cioè dopo una deliberazione (Summa I-II, q. 15, a.
3, resp.) come quella appunto che si produce nel capitolo XXXVII. In altre
parole, se c’è consenso, cioè voluntas delectandi, allora il cuore non è
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sede soltanto dell’appetito sensitivo ma anche dell’appetito razionale, ovvero ragione inferiore.
Infatti, quello che succede a Dante nel capitolo XXXVIII è la dissociazione
fra ragione inferiore e ragione superiore, che sono le due potenze che, secondo Tommaso, che riprende una distinzione fatta da Agostino nel De
Trinitate, sono le due parti della ragione che attuano nel consensus:
Ad tertium dicendum quod ratio superior, per considerationem
legis aeternae, sicut potest dirigere vel cohibere actum exteriorem,
ita etiam delectationem interiorem. Sed tamen antequam ad iudicium superioris rationis deveniatur, statim ut sensualitas proponit
delectationem, inferior ratio, per rationes temporales deliberans,
quandoque huiusmodi delectationem acceptat: et tunc consensus in
delectationem pertinet ad inferiorem rationem. Si vero etiam consideratis rationibus aeternis, homo in eodem consensu perseveret,
iam talis consensus ad superiorem rationem pertinebit (Summa III, q. 74, a. 7, ad 3).
Ad quartum dicendum quod apprehensio virtutis imaginativae est
subita et sine deliberatione [propassio, capitoli XXXV-XXXVI]: et
ideo potest aliquem actum causare, antequam superior vel inferior
ratio etiam habeat tempus deliberandi [«E certo molte volte non
potendo lagrimare né disfogare la mia tristizia, io andava per vedere questa pietosa donna», Vita nova XXXVI]. Sed iudicium rationis inferioris est cum deliberatione, quae indiget tempore, in quo
etiam ratio superior deliberare potest. Unde si non cohibeat ab actu
peccati per suam deliberationem, ei imputatur (Summa I-II, q. 74,
a. 7, ad 4).
Si vede chiaro ormai perché Dante si preoccupa di precisare che il consenso del suo cuore si era protratto soltanto per «alquanti die» (Vita nova
XXXIX, 2), cioè un tempo non sufficiente perché l’anima – ovvero la ragione superiore – cedesse, evitando così di passare dal consensus semiplenus, che si produce solo nell’intimità della persona – in cogitatione –, al
consensus plenus, in cui si esegue il desiderio con atti esteriori.7 Si comprende anche l’importanza del tempo – cioè della gradualità – nell’episo126
JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
dio, necessario per l’insorgere della deliberazione – la battaglia del capitolo XXXVII – che porta al consensus.
Si noti che la funzione della ragione inferiore – come maggiormente
collegata all’immaginazione e all’appetito – è quella di deliberare secondo
le ragioni temporali («per rationes temporales deliberans»), il che è appunto quello che Dante fa nel capitolo XXXVIII, quando considera i benefici pratici, immediati, dell’amore per la gentile: trovare il riposo e
scappare dall’amarezza. D’altra parte, la ragione superiore considera le
cose secondo i valori eterni:
Dicit [Agostino: De Trinitate XII, 4, 4] enim ratio superior est
«quae intendit aeternis conspiciendis aut consulendis» […] Ratio
vero inferior ab ipso dicitur «quae intendit temporalibus rebus»
(Summa I, q. 79, a. 9, resp.).
Per questo motivo, la ragione inferiore si occuperà della scienza e la ragione superiore della saggezza. Ci si consenta di riprodurre la chiarificatrice nota di Fernando Soria Herrera a questa questione nell’edizione
spagnola della Summa (Tomás de Aquino 1988-1994):
La distinción que establece S. Agustín en el De Trinitate entre
razón superior y razón inferior es equivalente a la que en otros lugares establece entre la inteligencia y la razón. La razón inferior se
ocupa de las cosas sensibles y corpóreas, de las verdades temporales; es el sujeto de la ciencia. La razón superior se aplica, en
cambio, a las verdades superiores, a la verdad intemporal, al
mundo inteligible; sobre ella recae inmediatamente la iluminación
de Dios y en ella se asienta la sabiduría. Sto. Tomás las equipara
a los hábitos de ciencia y sabiduría y a sus respectivos procesos inductivo o ascendente –via inventionis– y deductivo o descendente
–via iudiciis.
In altre parole, il contrasto fra la donna gentile e Beatrice non è altro
che l’opposizione fra scienza – che si sviluppa nella ragione inferiore – e
saggezza – che si sviluppa nella ragione superiore.8 La ragione inferiore
è, secondo le parole di Agostino, «illa parte rationis ad quam pertinet
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scientia, id est, cognitio rerum temporalium atque mutabilium navandis
vitae huius actionibus» (De Trinitate XII, 12, 17; citiamo da San Agustín
1985). Agostino spiega come questo tipo di ragione sia vicino all’appetito
e come possa portare al riposo in una falsa beatitudine:
Sensu quippe corporis corporalia sentiuntur: aeterna vero et incommutabilia spiritualia ratione sapientiae intelleguntur. Ratione
autem scientiae appetitus vicinus est: quandoquidem de ipsis corporalibus quae sensu corporis sentiuntur, ratiocinatur ea quae
scientia dicitur actionis; si bene, ut eam notitiam referat ad fimen
summi boni; si autem male, ut eis fruatur tanquam bonis talibus in
quibus falsa beatitudine conquiescat (De Trinitate XII, 12, 17).
La donna gentile, quindi, con la sua presenza fisica offre alla ragione
inferiore di Dante, o appetito razionale,9 l’illusione di una falsa felicità, di
un falso riposo, come fa la scienza, con la sua immediatezza ‘temporale’,
mondana, di fronte alla saggezza, che considera valori molto più lontani,
non presenti. Secondo noi, il contrasto fra la donna gentile e Beatrice nella
Vita nova trova il suo pieno senso soltanto se lo consideriamo non una ricaduta in concupiscenze sessuali (e si riveda la nota 4), ma uno scontro
fra l’appetito razionale che cerca la felicità e il riposo nella scienza mondana, e la ragione superiore che non si lascia illudere da questa falsa felicità non trascendente. In questo modo, se la nostra analisi è corretta,
Dante avrebbe fatto sua nella Vita nova una prospettiva sulla felicità
umana propria dei teologi. Mostreremo qui di seguito come questa prospettiva sia diversa in Voi che 'ntendendo e in Amor che nella mente, dove
troviamo posizioni più vicine a quella dei filosofi (dei magistri in artibus
parigini) in cui le due felicità – cioè i due desideri che sono alla base rispettivamente della scienza e della saggezza – trovano momentaneamente
un instabile equilibrio – quello che più avanti verrà ripreso nel Convivio
– e come quindi il divario fra Vita nova e canzoni non sia altro che una variante letteraria di un divario di prospettiva comune nel dibattito intellettuale di quel momento storico, anche se libello e poesie trattano lo stesso
tema e attraverso la stessa peripezia.
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
4. Voi che ‘ntendendo ragionar d’amore racconta infatti la stessa battaglia di pensieri che si racconta nel capitolo XXXVIII della Vita nova. La
novitate del cuore di cui tratta la canzone («Io vi dirò del cor la novitate»,
v. 11) non è altro che la «nuova condizione» di Vita nova XXXVIII, 1, e
cioè, come abbiamo spiegato, la situazione di consensus o consentimento
del cuore, ovvero della ragione inferiore, verso il nuovo amore (e quindi
dell’accettazione cosciente, dopo una prima deliberazione, del nuovo affetto). Questa nuova condizione di consensus ancora semiplenus porta a
un nuovo dibattito fra un «gentil pensero» e la ragione in Vita nova
XXXVIII, e uno «spiritel d’amor» e l’anima in Voi che ‘ntendendo – cioè fra
ragione inferiore e ragione superiore –, dove i primi difendono la parte
della nuova donna con argomenti, molto similari in entrambi i casi, che
puntano, come proprio della ragione inferiore, su ragioni temporali, di
pratica immediatezza, cioè il ricupero del riposo (Vita nova XXXVIII, 1) e
della salute (Voi che ‘ntendendo 24-25), il superamento della tribolazione
e l’amarezza (Vita nova XXXVIII, 3), mentre i secondi difendono la parte
di Beatrice. Inoltre, nei versi 33-39 di Voi che ‘ntendendo resta chiaro che
prima di questo secondo dibattito ce n’era stato un altro con gli occhi, che
comunque non era riuscito a convincerli, quello appunto narrato in Vita
nova XXXVII.10
D’altra parte, c’è anche coincidenza sull’esito, almeno momentaneo,
della battaglia di pensieri. In Vita nova XXXVIII, 4 si dice che in questo
momento del rapporto Dante-donna gentile «la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano», come può sembrare che succeda in
Voi che ‘ntendendo, come tra l’altro crede la maggioranza dei critici (tra
gli altri, Foster-Boyde, ad locum, in Alighieri 1967: «and clearly the latter
is gaining the upper hand.»), visto che l’ultimo a parlare è lo spiritel
d’amor, che prospetta un futuro dilettevole («pensa di chiamarla», «vedrai», «dirai»). Infatti, l’ordine degli interventi e il contenuto del dibattito
del sonetto Gentil pensero e della canzone sono quasi identici: nel sonetto
prima parla il pensiero favorevole alla donna gentile (anche se quello che
dice si trasmette in stile indiretto), poi risponde l’anima e finalmente il
cuore difende la parte dello spiritel d’amor; nella canzone parla lo spiritel
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d’amor, risponde l’anima e finalmente lo spiritel fa la loda della nuova
donna.
La differenza dunque fra Voi che ‘ntendendo e il capitolo XXXVIII della
Vita nova – ma non si dimentichi che si possono trovare soltanto delle
differenze fra di essi, perché sono in un chiaro e stretto rapporto testuale11
– non risiede nei fatti narrati, che sono rigorosamente gli stessi, ma nell’atteggiamento dell’io che narra, il quale in Vita nova si schiera decisamente contro il nuovo amore, giudicandolo come vilissimo (XXXVIII, 4),12
mentre in Voi che ‘ntendendo non si schiera nel dibattito fra anima e cuore
e si limita – come dichiara espressamente nel v. 2 – a lasciar uscire dal suo
cuore il «ragionar» che vi è dentro – cioè lo stesso ragionare a cui consentiva il cuore in Vita nova XXXVIII, 2 –, e a rappresentare drammaticamente
lo strappo fra anima-ragione, favorevole a Beatrice, e spiritel d’amorecuore, favorevole al diletto che produce il nuovo amore. C’è inoltre una
differenza di sfumatura, piccola ma importante, perché fa della canzone
la spiegazione della svolta narrativa che si produrrà nel capitolo XXXIX
del libello con la «forte imaginazione» di Beatrice che provocherà l’abbandono della donna gentile. La canzone lascia intravedere che nel momento del capitolo XXXVIII, del secondo dibattito, quello fra cuore e anima,
c’è uno stato di consensus, sì, ma semiplenus e non plenus, se, come
spiega il Convivio, «questa anima non è altro che un altro pensiero accompagnato di consentimento» (Convivio II, VI, 7; VII, 8) e come inoltre
dimostra il desiderio rilevato nel verso 19: «Io me .n vo’ gire», un desiderio quindi di trascendenza e di eternità, ovvero di morte, ancora come
quello espresso in Quantunque volte, lasso!, mi rimembra 10-13 (Vita
nova XXXIII). Lo stato di lutto, infatti, non è ancora superato, visto che
non si è arrivato al consensus plenus in cui l’anima, ovvero la ragione superiore, avrebbe dovuto anche consentire al nuovo amore e dimenticare
definitivamente quello per Beatrice. Ed e perciò che si può produrre la
«forte imaginazione» del capitolo XXXIX che riporterà Dante all’amore
verso la gentilissima.13
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
5. A nostro parere, il contrasto fra Voi che savete e l’episodio della
donna pietosa è così evidente che non si può non stabilire un rapporto diretto – palinodico – fra di essi. I versi 21-22 di Voi che savete ribaltano decisamente le caratteristiche principali della donna nell’episodio, in cui
ella possiede due tratti fondamentali: guarda o mira Dante (Vita nova
XXXV, 2; XXXVII, 2; L’amaro lagrimar 11) e sente pietà per lui. Invece, i
versi della ballata negano esplicitamente sia la pietà, sia lo sguardo della
donna: «Io non ispero che mai per pietate / degnasse di guardare un poco
altrui» (vv. 21-22). Si badi, però, al fatto che le nuove caratteristiche della
donna sono filtrate attraverso la soggettività dell’amante («Io non
ispero»), il che, tra l’altro, è tratto dominante della ballata («Par ch(e)»,
v. 13; «i’ credo che», v. 17) – in accordo con la ritrattazione di Amor che
nella mente e del Convivio –; o, in altre parole, il cambiamento da donna
pietosa a donna fera e disdegnosa si è realizzato – come si spiegherà anni
dopo nel Convivio – nella stessa percezione e nelle stesse aspettative del
poeta, e non necessariamente nella realtà esteriore.
D’altra parte, non può essere trascurato il fatto che nel sonetto O dolci
rime, la donna gentile – identificabile direttamente con quella di Voi che
‘ntendendo attraverso il rimando a catena da O dolci rime a Parole mie,
e da questo a Voi che ‘ntendendo, e quindi a Voi che savete e ad Amor che
nella mente – è definita come «il disio degli occhi miei» (v. 14), in modo
che la concupiscentia oculorum che segna l’episodio della Vita nova si
trova anche insita nel rapporto con la donna delle rime allegoriche.
Voi che savete diventa così, nella sua contiguità con l’episodio della
Vita nova, il componimento principale dello stato di curiositas (o appetitus animalis, nella sua versione filosofica) rapportato agli studi filosofici,
stato nel quale Dante cade dopo il periodo consolatorio, di ritorno al diletto, provocato all’inizio dalla donna pietosa-filosofia. Il passaggio dalla
percezione nella donna della pietà e della sua somiglianza con Beatrice
alla percezione del suo disdegno e della sua riluttanza e arduità va collegato alla nuova condizione che viene descritta nel capitolo XXXVIII della
Vita nova, in cui il cuore-appetito razionale si vede preso dal nuovo
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amore, in modo tale che Dante non può «quasi altro pensare» (XXXVIII, 2)
(caratteristica fondamentale della curiositas).14
Voi che savete descrive, come nell’episodio di Vita nova, quello che
avviene nel cuore-appetito razionale del poeta, cioè l’eccesso di desiderio
a cui ha portato il diletto provocato dalla nuova donna, che gli «ha tolto
il cor»:
Voi che savete ragionar d’Amore,
udite la ballata mia pietosa
che parla d’una donna disdegnosa,
la qual m’ha tolto il cor per suo valore (vv. 1-4).
La situazione però si è intensificata, nella direzione del disdegno della
donna e dell’eccesso di desiderio da parte del poeta, riguardo a Vita nova
XXXVIII o, in altre parole, Voi che savete descrive le conseguenze psichiche
alle quali porta il consensus di Vita nova XXXVIII, prima tra le quali la conversione del desiderio eccessivo in paura o timore (vv. 6, 28) – causa della
nuova apparenza disdegnosa e superba della donna –, che si riprende in
Amor che nella mente 84-86:
ché l’anima temea
e teme ancora, sì che mi par fero
quantunque io veggio là ‘v’ella mi senta.
Si ricordi che, nel commento del Convivio (III, II, 1-2), Dante stabilisce
un rapporto direttissimo fra il desiderio troppo appassionato, il timore e
la nuova apparenza fera della donna: «quella ballatetta considerò questa
donna secondo l’apparenza, discordante dal vero per infermitade de
l’anima, che di troppo disio era passionata. E ciò manifesto quando dico:
ché l’anima temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua presenza».
Il processo è chiaro: il desiderio eccessivo diventa timore, e il timore fa
cambiare la percezione della donna. Vorremmo mostrare come questo
rapporto fra desiderio eccessivo e timore sia più comprensibile all’interno
della logica della curiositas, intendendo cioè quel desiderio eccessivo
come desiderio di conoscenza e quel timore come stupore che paralizza
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
l’uomo sulla via della conoscenza. Ma per fare ciò dobbiamo riprendere
l’episodio dall’inizio, dal momento in cui Dante, sopraffatto dal dolore,
è preso dall’accidia nell’anniversario della morte di Beatrice.
Infatti la curiositas nasce appunto dall’accidia e dalla evagatio mentis
che essa provoca:
Omnia autem alia quinque [filias acediae] quae ponit [Isidoro] ex
acedia oriri pertinent ad evagationem mentis circa illicita. Quae
quidem secundum quod in ipsa arce mentis residet volentis importune ad diversa se diffundere, vocatur ‘importunitas mentis’; secundum autem quod pertinet ad cognitivam, dicitur ‘curiositas’
(Summa II-II, q. 35, a. 4, ad 3).
L’accidia – una variante della tristezza – è lo stato d’animo in cui si
trova Dante nel momento del suo incontro con la donna pietosa. Ricordiamo che l’immagine di Dante che disegna pensoso nell’anniversario
della morte di Beatrice (Vita nova XXXIV) è iconograficamente molto vicina alla rappresentazione dell’accidia; che Dante, come ‘intellettuale’,
si trovava nel gruppo più proclive a patire questo male; o che l’accidia
priva, come succede a Dante nell’episodio, della capacità di parlare. Ora,
la cosa importante, secondo noi, applicabile specificamente a Dante nel
periodo del lutto per la morte di Beatrice, è che l’accidia, quando arriva
alla ragione, è un rifiuto del bene divino, una tristezza e un dispiacere
verso di esso.15 È perfettamente logico, da un punto di vista psicologico,
che l’apparizione della filosofia, nella sua prima apparenza pietosa e consolatrice, provochi quello che abbiamo chiamato ‘ritorno al diletto’ (Varela-Portas 2011a: 177-179), non dimenticando che ‘con-solare’ implica
‘con-solatz’ e quindi il ricupero progressivo del sollazzo necessario per la
vita attiva – come ci insegna Poscia ch’Amor – e contemplativa, per la
poesia e per la filosofia; e che, una volta recuperato il principio del piacere, si produca un movimento a pendolo che porta all’estremo opposto,
cioè un eccessivo desiderio del diletto prodotto dall’appetito del bene divino, cioè dall’appetito intellettuale, facendo cadere nella curiositas.
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Ora, il disordine del desiderio provoca il disordine dell’immaginazione,
e la realizzazione di ‘sensuali giudizi’ – come quello di cui parla Voi che
savete, secondo Convivio III, X, 3 – che confondono l’apparenza sensibile
con la verità intellettuale. Se c’è un difetto di desiderio per il mondo intellettuale si cade nell’accidia, che giudica cattivo in apparenza quello
che realmente è buono, come si dice nella Summa di Tommaso (II-II, q.
35, a. 1, resp.);16 ma se c’è un eccesso di desiderio si produce anche un disordine immaginativo, come quello che Dante descrive accuratamente nel
Convivio, che porta all’immaginazione, erronea in questo caso, di un male
futuro che rattrista, che non è altro che la definizione aristotelica del timore, ripresa da Tommaso (Summa I-II, q. 41, a. 2, ad 3).17 È questa appunto la logica dei versi 84-86 di Amor che nella mente e del commento
del Convivio: il desiderio eccessivo (di conoscenza) porta all’immaginazione erronea di un male futuro, all’inaccessibilità o arduità – o fierezza
e disdegno – della donna-filosofia, e, di conseguenza, al timore di non
raggiungere l’oggetto desiderato (la conoscenza).
Dante, quindi, non è ancora uscito dalla tristezza, entro la quale il passaggio dall’accidia al timore conserva il disordine nell’appetito e nell’immaginazione, e la conseguente depressione d’animo (si veda Summa I-II,
q. 25, a. 1, resp.;18 II-II, q. 35, a. 1, resp.). Il quadro psicologico di chi
cerca di scappare dal lutto senza però riuscire a ritrovare l’equilibrio ci
sembra ricco e articolato:
accidia (depressione d’animo) > difetto di desiderio intellettuale > consolazione: riscoperta del piacere intellettuale > eccesso di desiderio intellettuale (curiositas) > disordine dell’immaginazione > timore (depressione
d’animo).
Il timore è una delle componenti principali di questo periodo erratico19
che comprende la battaglia di pensieri, cioè l’oscillazione fra curiositas
e studiositas, ed è la ‘passione’ principale collegata alla curiositas. Infatti,
il timore come passione si adatta perfettamente alla situazione di Dante
di fronte alla filosofia. Da una parte, il timore «non enim respicit malum
absolute, sed cum quadam difficultate vel arduitate ut ei resisti vix possit»
134
JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
(Summa I-II, q. 41, a. 2, ad 3); dall’altra, il timore è conseguenza dell’amore, della possibilità di perdere quello che si ama:
Sed contra est quod Augustinus dicit il libro Octoginta trium
quaest. [q. 33, n. 13; ML 40, 22]: «Nulli dubium est non aliam esse
metuendi causam, nisi re id quod amamus, aut adeptum amittamus,
aut non adipiseamur». Omnis ergo timor causatur ex hoc quod aliquid amamus. Amor igitur est causa timoris (Summa II-II, q. 43, a.
1, sed con.).
E infine il tremore di Voi che savete 28 («contra il disdegno che mi dà
tremore») è anche conseguenza diretta del timore (Summa I-II, q. 44, a.
3).
Ora, in Voi che savete troviamo un’indicazione su quale tipo di paura
patisca Dante. Il verso 6, «che fa chinare gli occhi di paura», è un esplicito
riferimento allo stupor,20 che è causato dall’immaginazione di qualcosa di
insolito (insolita imaginatione):
Malum autem quod exterioribus rebus consistit [...] ratione dissuetudinis: quia scilicet aliquod malum inconsuetum nostra considerationi offertur, et sic est magnum nostra reputatione. Et hoc modo
est ‘stupor’, qui causatur ex insolita imaginatione (Summa I-II, q.
41, a. 4, resp.).
In questo modo, lo stupore di Dante di fronte alla donna-filosofia diventa un ostacolo per la stessa ricerca filosofica: «stupens autem timet et
in praesenti iudicare, et in futuro inquirere. Unde [...] stupor est philosophicum considerationis impedimentum» (Summa I-II, q. 41, a. 4, ad 5).
Il difetto, come Dante conclude la sua spiegazione, era tutto suo (Convivio
III, XV, 19).
6.- Se Voi che savete è, come dicevamo, il componimento della curiositas e corrisponde a quanto viene narrato nel capitolo XXXVIII della Vita
nova (e a Convivio II, II, 2-5), ma con un grado ancora più intenso di ‘passione’, eccesso di desiderio, e diremmo, ossessione immaginativa, Amor
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che nella mente mi ragiona è invece la canzone della studiositas, e cioè
del desiderio di conoscenza ridimensionato, temperato e cosciente della
sua validità propedeutica – cioè non assoluta – verso un fine ulteriore. Innanzi tutto perché la donna è diventata «essemplo d’umiltate»:
Però, qual donna sente sua biltate
biasmar per non parer queta e umile,
miri costei ch’è essemplo d’umiltate.
Quest’è colei ch’umilia ogni perverso (vv. 68-71).
Ma anche il poeta, che alla fine di Voi che savete aveva ancora fiducia
– senz’altro eccessiva – nella forza dei propri desideri per superare il disdegno e la fierezza della donna – e quindi il proprio timore-tremore –,
adesso si è reso conto, umilmente, della debolezza dell’intelletto di fronte
alle bellezze paradisiache che la donna mostra. Come spiega John Scott,
con ammirevole anglosassone capacità de sintesi:
Una caratteristica degna di nota di Amor che nella mente mi ragiona è il modo in cui il poeta insiste ripetutamente sulle limitazioni dell’intelletto umano [vv. 1-4, 11, 16, 28-29, 43-44, 59-60],
sulla sua incapacità di comprendere appieno le verità trascendentali della filosofia – compito a maggior ragione impossibile, dato
che la ‘Filosofia’, la ‘gloriosa donna’ di Dante, è amalgama poetico
di filosofia e sapienza divina (cfr. Prov. VIII e Sap. VIII-IX) (Scott
2010: 131).
Il desiderio di conoscenza viene quindi moderato dalla coscienza delle
proprie limitazioni – come essere umano – di fronte alla donna-filosofia,
la quale, a sua volta, è cosciente delle proprie limitazioni in rapporto alle
verità rivelate e del suo ruolo di aiuto alla fede (vv. 51-54). E la moderazione nel desiderio di conoscenza è ciò che segna la virtù della studiositas
– contraria al vizio della curiositas – che regola questo desiderio e serve
ad indirizzarlo correttamente, ed è perciò parte della temperanza, che modera il movimento dell’appetito:
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
ad temperatiam pertinet moderari motum appetitus, ne superflue
tendat in id quod naturaliter concupiscitur. Sicut autem naturaliter
homo concupiscit delectationes ciborum et venereorum secundum
naturam corporalem, ita secundum animam naturaliter desiderat
cognoscere aliquid: unde et Philosophus dicit, in I Metaphys. [q. 1,
n. 1 (Bk 980a 21)], quod «omnes homines naturaliter scire desiderant». Moderatio autem huius appetitus pertinet ad virtutem studiositatis. Unde consequens est quod studiositas sit pars potentialis
temperantiae, sicut virtus secundaria ei adiuncta ut principali virtuti. Et comprehenditur sub modestia (Summa II-II, q. 166, a. 2,
rep.).
La studiositas, compresa nella modestia, è così molto vicina all’humilitas – diremmo quasi una variante di essa –, poiché mentre la studiositas
modera il «desiderium eorum quae pertinet ad cognitionem» (Summa IIII, q. 160, a. 2, resp.), la humilitas modera il «motus animi ad aliquam
excellentiam» (Ibidem). In fondo, la curiositas non è che un tipo di superbia intellettuale, in cui il curioso sente di avere forze intellettuali maggiori
di quelle che veramente possiede. Si produce allora un chiaro parallelismo
fra il soggetto e l’oggetto della conoscenza, fra il poeta-filosofo e la
donna-filosofia-sapienza: tutti e due mancano di umiltà e sono superbi
nei poemi della curiositas, mentre con la studiositas recuperano la coscienza del proprio posto fra cielo e terra nell’ordine universale. La ragione di questo parallelismo fra poeta e filosofia si spiega all’inizio del
quarto trattato del Convivio:
Amore, secondo la concordevole sentenza de li savi di lui ragionanti, e secondo quello che per esperienza continuamente vedemo,
è che congiunge e unisce l’amante con la persona amata; onde Pittagora dice: «Ne l’amistà si fa uno di più». E però che le cose congiunte comunicano naturalmente intra sé le loro qualitadi, in tanto
che talvolta è che l’una torna del tutto ne la natura de l’altra, incontra che le passioni de la persona amata entrano ne la persona
amante, sì che l’amore de l’una si comunica ne l’altra, e così l’odio
e lo desiderio e ogni altra passione (Convivio IV, I, 1-2).
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Si ricorderà che nello stato di curiositas il paziente era massimamente
unito all’agente (Convivio III, X, 2), per cui le loro qualità si trasmettevano
reciprocamente e l’uno entrava del tutto nella natura dell’altra. Da ciò deriva che se la donna era fera e disdegnosa, anche Dante lo era, rispondendo così all’immagine del filosofo averroista, del ‘curioso’ che, come
Cavalcanti, si credeva superiore – e si ricordi l’avvertimento di Petrus de
Trabibus – e credeva ‘ulissianamente’ di poter raggiungere con la sua sola
ragione delle verità invece troppo elevate (come tra l’altro succede a
Dante di fronte al problema della materia prima, secondo Convivio IV, I,
8). Allo stesso modo, se in stato ormai di studiositas – anche se, come vedremo, in modo provvisorio –, la donna gentile ha recuperato la humilitas
è perché Dante stesso ha recuperato, almeno momentaneamente, il perso
equilibrio dell’appetito di conoscenza, riconoscendo le proprie limitazioni, non lasciandosi trascinare dalla voluptas speculandi e, soprattutto,
non dimenticando il valore propedeutico del sapere filosofico.
Quest’ultima è, indubbiamente, l’altra più spiccata caratteristica della
donna gentile, dichiarata nei versi 51-54:
E puossi dir che ‘l suo aspetto giova
a consentir ciò che par maraviglia;
onde la nostra fede è aiutata.
Però fu tal da eterno ordinata.
Come si spiega nel commento conviviale, la donna filosofia è miracolo
quotidiano che serve a facilitare l’accesso a più alti miracoli realizzati da
Cristo e dai santi:
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E la nostra fede aiuta; però che, con ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano miracoli fatti per colui
che fu crucifisso – lo quale creò la nostra ragione, e volle che fosse
minore del suo potere –, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi;
e molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia
siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa visibilmente miraculosa, de la quale li occhi de li uomini
JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
cotidianamente possono esperienza avere, ed a noi faccia possibili
li altri; manifesto è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la
nostra fede aiuta (Convivio III, VII, 16).
A questo punto non si deve dimenticare che «ciò che par maraviglia»
è appunto la definizione di Beatrice come miracolo in terra (si ricordi
Tanto gentile 7-8), all’ammissione o accettazione della cui meraviglia
gioverebbe la nuova donna-filosofia. Ci troviamo quindi davanti a una filosofia che ha ritrovato nella mente e nel cuore del poeta, se non forse il
valore propedeutico, voluto dai teologi, verso una verità superiore che si
percepisce più direttamente sia nei miracoli di Cristo e dei santi, sia anche
in Beatrice, come vera icona di quella verità, almeno un ridimensionamento che dovrebbe trovare una convivenza non conflittuale con la fede
e quindi fare dello studio una via che potrebbe portare alla soglia delle verità rivelate (si veda Falzone 2010: 224-227 e 243-244). Si noti come
ormai la donna gentile non provoca il consentimento del poeta-filosofo
verso sé stessa, ma serve a procurare il consentimento – cioè l’applicazione non soltanto intellettiva, ma anche appetitiva-affettiva propria, come
vedremo subito, dello studio – verso qualcosa di più elevato e meraviglioso («a consentir ciò che par maraviglia», v. 52).21
Lo studio – elemento ovviamente fondamentale della studiositas – è,
come si sa, parola chiave del commento conviviale, nel quale l’amore che
ragiona nella mente è appunto lo studio – anche con i valori di ‘applicazione della mente’ e di ‘sollecitudine’ – dedicato alla filosofia:22
Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare
l’amore di questa donna: ove si vuole sapere che studio si può qui
doppiamente considerare. È uno studio lo quale mena l’uomo a
l’abito de l’arte e de la scienza; e un altro studio lo quale ne l’abito
acquistato adopera, usando quello. E questo primo è quello ch’io
chiamo qui Amore, lo quale ne la mia mente informava continue,
nuove e altissime considerazioni di questa donna che di sopra è
dimostrata: sì come suole fare lo studio che si mette in acquistare
un’amistade, che di quella amistade grandi cose prima considera,
desiderando quella. Questo è quello studio e quella affezione che
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suole procedere ne li uomini la generazione de l’amistade, quando
già da una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia d’altra (Convivio III, XII, 2-4).23
A nostro parere, questa situazione ricorda molto da vicino quella con
la quale termina la Vita nova:
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la
quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa
benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di
lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente (Vita nova XLII, 1-2).
In essa, secondo noi, ‘studio’ non significa soltanto ‘mi sforzo’, ‘mi
dedico con sollecitudine’, ma, innanzi tutto ‘applico la mia mente’, in un
senso vicinissimo non soltanto a quello del Convivio, ma anche al senso
che ‘studio’ ha nella questione tomistica sulla studiositas:
Studium praecipue importat vehementem applicationem mentis ad
aliquid. Mens autem non applicatur ad aliqui nisi cognoscendo
illud.
[...]
Et ideo studium per prius respicit cognitionem: et per posterius
quaecumque alia as quae operando directione cognitionis indigemus (Summa II-II, q. 166, a. 1, resp.).
La Vita nova, in questo modo, lascia Dante mentre sta applicando la sua
mente con fervore, con l’ulteriore finalità di «dicer di lei quello che mai
non fu detto d’alcuna». Sta studiando cioè con un atteggiamento propedeutico, senza perdere il senso ultimo di quello studio. Si badi che questa
situazione non è per nulla incompatibile con la loda alla donna gentile-filosofia. Dante ha deciso «non dire più di questa benedetta [Beatrice] infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei» e mettersi allo
studio fino a raggiungere lo scopo di un nuovo discorso su Beatrice. Se
la donna gentile può giovare all’ammissione e alla comprensione dei miracoli, come è la stessa Beatrice, allora l’amore per lei diventa via per la
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Dante curioso, Dante studioso
nuova finalità, a patto di considerarlo sempre non come valido di per sé
e di non gettarsi in esso con desiderio eccessivo e disordinatamente.24
L’abbandono di Beatrice è ormai volontario, consapevole, e limitato temporalmente, in chiaro contrasto con il forzato e angosciato abbandono
prodottosi nel momento della curiositas, del desiderio immoderato. D’altra parte, si tratta di un abbandono soltanto ‘mentale’ e non affettivo-appetitivo, visto che il consentimento è ormai ritornato a Beatrice. In questo
senso, la situazione si è sottilmente capovolta in riguardo al capitolo
XXXVIII della Vita nova e a Voi che savete, in modo che ora il cuore è di
nuovo dalla parte di Beatrice e la mente si occupa della donna gentile,
ma ormai senza conflitto. Mentre il ricordo, o piuttosto l’immaginazione
di lei in cielo, «parla al cor dolente», come si dice nei versi 9-11 del sonetto Oltre la spera, l’amore verso la donna gentile «ragiona nella mente»,
per cui, in virtù della dissociazione anima-cuore che presiede complessivamente l’episodio, si fa possibile la coesistenza di entrambe le donne in
rapporto con Dante, cioè la coesistenza dell’amore-studio per la filosofia
nella ragione, e del ricordo di Beatrice nel cuore-appetito razionale.25
Questa coesistenza, inoltre, viene ribadita nella canzone Poscia
ch’Amor del tutto mi ha lasciato, nella quale Dante afferma che, anche se
la leggiadria non esiste più in terra, egli potrà trattarne grazie al ricordo
«d’una gentile che.lla mostrava in tutti gli atti suoi»:
Ancor che ciel con cielo in punto sia
che leggiadria
disvia cotanto e più che quant’io conto,
ïo che le son conto
merzé d’una gentile
che.lla mostrava in tutti gli atti suoi,
non tacerò di lei...
(Poscia ch’Amor 58-64).
Secondo noi, ci sono elementi sufficienti per affermare che questa gentile sia Beatrice: innanzi tutto, perché la filosofia appartiene a un mondo
completamente distinto da quello della leggiadria, come si dice nei versi
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77-82 della canzone, ma anche perché la donna gentile non è leggiadra «in
tutti gli atti suoi», come sappiamo, perché caratterizzata anche da «atti
disdegnosi e feri» (Le dolci rime 5).26 E se è così, considerando che Poscia
ch’Amor, secondo tutti i pareri, è posteriore a Amor che nella mente mi ragiona in quanto rima dottrinale, non più allegorica,27 allora dobbiamo
concludere che il ricordo di Beatrice è sopravvissuto lungo tutto il periodo
di studi filosofici cha dà luogo alle rime allegoriche.
In altre parole, se Voi che ‘ntendendo narra gli stessi avvenimenti psicologici del capitolo XXXVIII della Vita nova, anche se da prospettive diverse, e Voi che savete le conseguenze del consenso di cui si tratta in
questo capitolo, Amor che nella mente mi ragiona rimanda allo stato psicologico descritto nel capitolo XLII del libello, lo stato di studiositas. E,
ammettendo questa ipotesi, non resta altro che concludere che il fatto che
segna la svolta dallo stato di curiositas a quello di studiositas è la «forte
immaginazione» di Beatrice che «si levoe un die» «contro questo avversario de la ragione», cioè l’appetito, come si narra nel capitolo XXXIX della
Vita nova. La riapparizione di Beatrice – anzi, le successive riapparizioni
di Beatrice – fa recuperare la medietas razionale nell’appetito di conoscenza ‘discacciando’ il ‘malvagio desiderio’ che l’aveva governato durante l’‘infermitade’ della curiositas:
lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a
cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima
Beatrice (Vita nova XXXIX, 2).
In altre parole, non più allegoriche: Dante recupera il senso propedeutico del sapere filosofico, che non serve per sé (per sé non è utile), ma in
funzione della conoscenza della somma verità, della quale Beatrice è vera
icona. Dimenticare questo aspetto fondamentale era uno dei rischi principali del vizio della curiositas, che porta a perdersi in un sapere a sé
stante, non utile. Con la riapparizione di Beatrice, Dante recupera la vera
finalità dello studio filosofico, rendendolo così razionale e umile. La no142
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stra proposta è quindi quella di considerare che fra Voi che ‘ntendendo e
Voi che savete, da una parte, e Amor che nella mente mi ragiona, d’altra,
si trovano gli avvenimenti narrati nei capitoli XXXIX-XLII della Vita nova,
grazie ai quali Dante concepisce il fine ultimo del suo percorso intellettuale e poetico, nel quale ormai lo studio è importantissimo, sì, ma soltanto in funzione di «più degnamente parlare di lei».28
7.- Ora, come sappiamo, la tensione fra curiositas e studiositas non finisce e non si pacifica con la stesura di Amor che nella mente mi ragiona,
come si dichiara nella stessa canzone: «ché l’anima temea / e teme ancora» (vv. 84-85). Il controllo razionale del desiderio di conoscenza sarà
sempre difficile per Dante, che, sotto la pressione averroista, si troverà
sempre a rischio di cadere di nuovo nella ‘vana tentazione’ della conoscenza disordinata e che si crede utile per sé, portando all’oblio di un’ulteriore e vera finalità, quella di cui Beatrice è segno come vera icona della
verità assoluta. Infatti, sappiamo dal racconto del Convivio che Dante,
dopo Amor che nella mente mi ragiona mostra ancora un eccessivo desiderio di superflua conoscenza e una eccessiva fiducia nelle proprie capacità intellettuali che lo portano a occuparsi di un tema che la nostra mente
non può raggiungere, «se la prima materia de li elementi era da Dio intesa»:
Per che, con ciò fosse cosa che questa mia donna un poco li suoi
dolci sembianti transmutasse a me, massimamente in quelle parti
dove io mirava e cercava se la prima materia de li elementi era da
Dio intesa – per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto
mi sostenni –, quasi ne la sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo difetto umano intorno al detto errore [la falsa
idea di nobiltà] (Convivio IV, I, 8).
Che questo tema non sia raggiungibile dall’intelletto umano lo sappiamo (oltre che dal documentatissimo percorso di Falzone 2010) dal
commento ai versi sull’umiltà della conoscenza in Amor che nella mente
mi ragiona (vv. 59-62):
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Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto
abbagliano, in quanto certe cose si affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima
materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; e
nullo se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza,
e non altrimenti (Convivio II, XV, 6).
Dante si è quindi lanciato con troppa foga e troppa fiducia in se stesso
in un tema raggiungibile soltanto attraverso la fede, il che mostra che il
vizio della curiositas non è sparito, portando così Dante all’abbandono
della filosofia nei suoi aspetti fisici (filosofia naturale) e metafisici, e alla
dedizione a temi di carattere che oggi definiremmo politico-sociale (filosofia morale) nelle cosiddette rime dottrinali.29 Dante ha perso lo slancio
trascendente e pare aver dimenticato la finalità ultima del suo ‘studio’:
«dire di lei quello che non fu detto di alcuna», e non, com’è ormai accettato, riformare la società umana mostrandone i vizi e indirizzandola sulla
strada della virtù; novità o vanità, alla fin fine, di breve uso.30 Ha tradito
così, in un certo senso, il progetto intellettuale e poetico formulato alla
fine della Vita nova, e se è vero che in Le dolci rime l’abbandono di questo
progetto è ancora provvisorio (vv. 3-4), in Poscia ch’Amor sembra definitivo, quando troviamo Dante del tutto ‘disamorato’ (vv. 1-7) mentre
Beatrice non è ormai che un lontano ricordo.31 La cosa interessante, per
quanto apparentemente paradossale – almeno secondo le letture tradizionali – è che l’abbandono della donna gentile-filosofia implica l’abbandono definitivo di Beatrice – sta per apparire la pargoletta – e all’inverso,
dato che i destini di ambedue, nella psiche di Dante, sono strettamente
collegati, anche se egli stesso non sa risolvere la tensione fra loro, che lo
dilania.
Amore, secondo il racconto di Poscia ch’Amor, si è finalmente mostrato pietoso nei riguardi della sua estrema sofferenza, cioè – come abbiamo detto sopra – dello stato di lacerazione come conseguenza della
tensione fra le due donne, o, in altre parole, fra curiositas e studiositas, la
sofferenza di fronte all’incapacità di controllare razionalmente la passione
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
della conoscenza e di indirizzarla a ‘lieto fine’. Le successive apparizioni
in imaginatione di Beatrice non hanno causato un effetto definitivo, non
hanno alla fine trionfato, come la gentilissima rinfaccerà a Dante nel Paradiso terrestre:
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
(Purgatorio XXX, 133-135)
Ci troviamo appunto all’inizio del definitivo traviamento di Dante,
dell’abbandono completo – fino al Convivio – di Beatrice – e con essa
della donna gentile –, momento in cui, accanto alle vanità/novità di breve
uso – cioè non trascendenti – politiche e sociali, appare l’inquietante pargoletta che sarà protagonista della poesia di Dante nell’ultimo lustro del
secolo. Ma ovviamente qui deve incominciare un altro discorso che esula
di molto da quanto qui ci proponevamo.
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NOTE
1. Per Gilson, non ci troviamo davanti a due donne diverse nella Vita nova e
nelle rime, ma a una stessa donna verso la quale Dante ha provato sentimenti
differenti. Nella Vita nova, la valutazione negativa si riferisce non alla donna ma
al desiderio verso di essa perché l’ha portato alla dimenticanza di Beatrice. Gilson
parla di una «crisi di filosofismo puro» (Gilson 1967: 91) nella quale la filosofia
non ha niente a che fare con la salvezza eterna e neanche con la beatitudine temporale: «Vi è dunque stato nella vita di Dante, e anche il Convivio lo testimonia,
un periodo di entusiasmo e di ardore appassionato per questa donna gentilissima
Filosofia. Entusiasmo per la pura bellezza intellettuale di una scienza che, grazie
all’amore che ispira, libera l’anima dal dolore; ardore per un sapere beatificante
che strappa alla lettera l’uomo dalle cure della vita materiale e gli concede a un
tempo la luce e la pace. Notiamolo bene: Dante non parla qui della filosofia come
se fosse capace di assicurare la salvezza eterna dell’uomo, e neppure come se
conferisse all’uomo una beatitudine temporale che lo dispensi dall’altra. Ciò che
è accaduto allora nel suo spirito è tutt’un’altra cosa: nella scoperta della filosofia
e nell’entusiasmo di cui questa scoperta lo riempì, Dante dimenticò tutto il resto»
(Gilson 1967: 94). Superata questa crisi di filosofismo puro, Beatrice torna alla
mente di Dante in uno stato nel quale l’amore per la filosofia non è più esclusivo,
ma perfettamente compatibile con l’immaginazione della Beatrice celestiale. La
filosofia si capisce allora essenzialmente come filosofia morale, e Dante arriva
a sostenere, contro Aristotele e Tommaso, il primato della morale sulla metafisica
(Gilson 1967: 97-108). È questo momento di coesistenza quello che si riflette
nel Convivio, in modo che Vita nova, rime e Convivio – ma anche la Commedia
– si possono situare in momenti diversi di uno stesso percorso intellettuale e poetico: morte di Beatrice - amore e lutto per la Beatrice celeste - ricerca di consolazione nella filosofia - crisi di filosofismo puro e esclusivo - riapparizione di
Beatrice e ricerca di compatibilità ed equilibrio fra i due amori - trionfo di Beatrice-teologia sulla donna gentile-filosofia (cfr. Molina 2005: 50-52, a cui ci
siamo ispirati per questo riassunto).
2. Per un riepilogo di questa spinosa questione si veda la voce «Donna gentile»
nell’Enciclopedia Dantesca (Petrocchi 1970). Più di recente, a noi piace particolarmente quello offerto da Fernando Molina nell’introduzione alla sua edizione
spagnola del Convivio (Molina 2005: 44-52), anche se, per la verità, anche noi
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JUAN VARELA-PORTAS
Dante curioso, Dante studioso
abbiamo cercato di riassumere il problema per i lettori spagnoli in Varela-Portas
2006: 63-65. In ambito italiano, si veda Pazzaglia 1976, Vasoli 1988: LVI-LXI,
Russo 1989: 219-223, e Fenzi 2009: 30-32. In inglese, Cervigni 2010 [2000].
Per le singole argomentazioni puntuali, si devono citare almeno Barbi 1934 e
1964 [1937], De Robertis 1961: 171-173, Simonelli 1967 e 1970: 195-196, Pernicone 1967: 708 -710, 1970: 218, 1984: 123-129 e 151-162, Corti 1983: 146155, D’Andrea 1989, Fenzi 1975 e 1994. La questione sul significato o
sull’identità della donna gentile è indissociabile dalla questione della stesura –
doppia o no – della Vita nova, per cui Pietrobono 1934, Nardi 1944b, Marti 1965,
Corti 1983, Gorni 2009: 137-139; e dalla questione cronologica e biografica, per
cui è ancora sufficiente Foster-Boyde 1967.
3. Questo aspetto è noto fin dalle origini del dibattito, anche in rapporto con
l’amore fra Dante e la donna pietosa della Vita nova. Ad esempio, Michele Barbi:
«La contraddizione fra le due opere [Vita nova e Convivio] non è tanto nel giudizio delle due donne, quanto nell’amore che il poeta sente per esse: anche nella
Vita Nuova la donna è gentile, ma il pensiero che fa consentire il cuore in lei è
vilissimo (Vita Nuova, XXXVIII), mentre è nobile nel Convivio. Nessuno ha detto
della donna gentile della Vita Nuova che sia rappresentata come avversaria della
ragione: ‘avversario della ragione’ è detto nell’opera più giovanile l’amore per
quella pietosa donna; e vien detto tale, non perché l’appetito sia, genericamente
e astrattamente parlando, avversario della ragione, ma perché siffatto amore è
avverso alla ‘costanza’ che qui deve avere la ragione stessa (op. cit. XXXIX)»
(Barbi 1934: 118). Anche Fenzi, sul rapporto con la donna pietosa della Vita
nova: «Non conta ciò che essa è. Conta il processo che la sua immagine scatena
nel protagonista: processo che sulla base di rischiose associazioni, si sviluppa
per linee interne e per questo abortisce in vanità» (Fenzi 1994: 204). Ci troviamo
quindi davanti alla prima grande coincidenza fra l’amore di Dante per la donna
pietosa della Vita nova e quello per la donna gentile delle rime: in tutti e due gli
amori si ha una chiara dissociazione fra l’oggetto d’amore e il desiderio rivolto
verso di esso.
4. In questo senso, la nostra ipotesi in nulla contravviene all’idea di partenza
di Enrico Fenzi: «Quello di vanità – di esperienza vana, di vaneggiamento – è un
concetto chiave per intendere il senso che Dante stesso attribuisce all’episodio
della ‘donna pietosa’» (Fenzi 1994: 198). La vanità è un tratto determinante dell’atteggiamento del curioso di fronte alla conoscenza; perciò, che «l’altra vanità
[quella di Purgatorio XXXI, 60, secondo la scelta testuale, contro ‘novità’, di
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Fenzi] corrisponda alla vanità che connota l’episodio della Vita Nuova» (Fenzi
1994: 199) non è soltanto argomento a favore dell’interpretazione di Fenzi, ma
anche di quella per la quale l’amore vano per la donna gentile è allegoria della
«vana et peritura curiositas», come vedremo più avanti.
D’altra parte, quando Fenzi caratterizza l’amore verso la donna gentile come
«L’illusione tentatrice contro la realtà: la vana fantasia dell’io malato è vittima
del proprio immediato desiderio di felicità, contro la responsabilità che l’Amore,
quello vero, impone» (Fenzi 1994: 201), non è chiaro che cosa si debba intendere
per ‘realtà’, visto che Beatrice è ormai in cielo, mentre quella che è ben presente
davanti agli occhi è la donna gentile, ma soprattutto che cosa si debba intendere
per ‘felicità’: quale felicità cerca di trovare Dante nella donna gentile, intesa
come donna reale? Quella sessuale-affettiva? L’articolo di Fenzi ha come scopo
fondamentale quello di conferire alla storia della donna pietosa una profondità filosofica e psicologica, in modo da allontanarla dalla breve dilettazione sensibile
del Barbi (sulla quale infatti fa una menzione polemica a pagina 205), cercando
quindi di evitare quel «limite della grossolanità» che egli percepisce in quelli che
non credono al valore allegorico della donna gentile nelle rime (Fenzi 2009: 3132), senza però con ciò cadere in velleità allegoriste, ma, a nostro parere, questo
compito – malgrado l’acuta e serrata argomentazione di Fenzi – urta comunque
contro l’evidenza del fatto che, se la donna pietosa è concepita solo come donna
reale, allora la consolazione che Dante cerca in lei non può non essere che una
«dilettazione sensibile», e la storia d’amore non è altro che «a merely erotic crisis» (Foster & Boyde 1967: 357), il che non permette di capire la riapparizione
di Beatrice come vera icona della verità, come figura Christi. Due amori così distanti nella loro natura non potrebbero, nella loro irriducibile alterità, succedersi
in continuazione né stabilire psicologicamente e letterariamente una ‘battaglia’
fra di loro. Con parole di Foster e Boyde: «it implies that D did not tell the truth
in Convivio II, about the VN; and that D’s memory of Beatrice now in heaven was
twice in succession threatened by a counter-attraction on earth, first by a carnal
and then by an intellectual one; and such a repetition of the same situation vis-àvis Beatrice, though not of course impossible, may seem a little odd» (Foster &
Boyde 1967: 358).
5. Gilson vede nella menzione che, in Purgatorio XXXIII, 85, fa Beatrice a
«quella scuola c’hai seguitata», un’allusione diretta a questa dottrina collettiva
che ha tanto attratto i giovani intellettuali fiorentini a metà degli anni ’90: «Beatrice ha formalmente accusato il suo penitente di aver un tempo seguito una falsa
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Dante curioso, Dante studioso
dottrina. Quando Dante le chiede perché le sue parole superino tanto la capacità
di comprensione del suo intelletto, Beatrice gli risponde: “Perché conoschi [...]
quella scuola / c’hai seguitata, e veggi sua dottrina / come può seguitar la mia parola; // e veggi vostra via da la divina / distar cotanto, quanto si discorda / da
terra il ciel che più alto festina” (Purg. XXXIII, 85-90). Poiché si tratta qui di una
scuola e di una dottrina, Beatrice non può aver parlato in questo passo di colpe
morali. In più, per spiegare il motivo per cui la ragione di Dante non può cogliere
le sue parole, Beatrice gli risponde che egli deve saperlo, perché ha seguito una
scuola il cui metodo – vostra via – è tanto inferiore a quello della parola divina
quanto la terra è inferiore al cielo: se questo non gli viene detto per ricordargli
che un tempo ha contato troppo sulle forze della ragione, non si vede davvero
cosa potrebbe significare» (Gilson 1967: 95).
6. In fondo, il fatto che non si veda nulla di allegorico nel racconto della Vita
nova, come fa ad esempio Fenzi («nella lettera dell’episodio non solo non c’è
nulla che possa indurre a una lettura allegorica, ma molte sono invece quelle che
vi si oppongono in modo irreparabile», Fenzi 1994: 216), che non si comprenda
cioè il valore allegorico della posizione della donna alla finestra – che López
Cortezo intende, seguendo Allain de Lille, come simbolo della mente contemplativa (López Cortezo 2011: 133) –, o del rapporto alto-basso, acutamente messo
in rilievo da Gorni (2009: 145) – anche se interpretandolo come parodia –, del
colore pallido – che invece in Donne ch’avete intelleto d’amore si mette in rapporto con la claritas conoscitiva –, della estrema rassomiglianza fra la donna
gentile e Beatrice, ecc., implica che si consideri che tutti questi motivi possiedono
una perfetta coerenza e autonomia a una semplice lettura letterale, il che, a nostro
avviso, è difficile da assumere dalla prospettiva di una narrazione solo vincolata
a criteri di verosimiglianza e a rapporti di causa-effetto. Questo problema ci porterebbe a un discorso troppo lungo sulla possibilità o impossibilità storica per
Dante di costruire una narrazione schiettamente letterale, e sull’operazione – questa sì un vero e proprio riciclaggio – che Dante fa nella Vita nova sui testi giovanili (per cui si veda l’edizione Barolini delle rime giovanili della Vita nova,
Alighieri 2009b, e Gragnolati 2010). Da parte nostra, siamo più vicini al modo
di leggere il libello di Maria Corti (1993b) o della sua allieva Manuela Colombo,
quando osserva che «l’episodio della gentile se non fosse schermo di una fase
della poesia dantesca, rappresenterebbe un hapax nel libello, essendo tutte le
altre donne ‘importanti’ del libro (si vedano le due donne-schermo, per esempio)
lo strumento umano con cui Dante rappresenta in forma narrativa l’inquieto pro-
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cedere della propria poesia» (Colombo ad locum in Alighieri 1993: 162). Un
modo similare di leggere la Vita nova sarebbe quello di Maria Luisa Ardizzone
(2011), che legge Donne che avete intelletto d'Amore (e Voi che 'ntendendo e
Amor che nella mente) come canzone costruita col metodo ‘transuntivo’, cioè
con tutta quella rete di tropi, figure e altre forme di ‘rasponere’ il significato – tra
le quali ovviamente l'allegoria – che le retoriche, anche nel campo della teologia,
denominavano transumptio.
7. Contro quanto affermato da Russo (1989: 225) e Pernicone, l’esegesi di
cuore come «il secreto dentro» di Convivio II, VI, 2, e VIII, 5 e 10 si adatta bene
a Voi che ‘ntendendo e all’episodio della Vita nova, in cui il cuore non è soltanto
la sede dell’appetito sensitivo, ma anche dell’appetito razionale e delle cogitationes che da esso derivano.
8. Questo spiega anche la «ricaduta cavalcantiana»che è stata avvertita nell’episodio (Gragnolati 2010: 22).
9. In un altro passo Agostino presenta diversi termini per spiegare la dualità
fra le due ragioni, fra i quali rationem per la ragione superiore e appetitum rationalem per la ragione inferiore: «Et sicut una caro est duorum in masculo e femina, sic intellectum nostro et actionem, vel consilium et exsecutionem, vel
rationem et appetitum rationalem, vel si quo alio modo significantius dici possunt, una mentis natura complectitur: ut quemadmodum de illis dictum est: Erunt
duo in carne una (Gen 2, 24), sic de his dici possit: “Duo in mente una”» (De Trinitate XII, 3, 3).
10. La coincidenza è così grande che infatti il verso 33 indica che la vista va
d’inizio dalla donna agli occhi: «“Qual ora fu che tal donna gli [gli occhi] vide»,
come è chiaro dalla narrazione di Vita nova XXXV, 2 e XXXVI, 1 : «ovunque questa
donna mi vedea».
11. Questa è, secondo noi, la difficoltà più grande con cui si devono confrontare coloro che pensano che l’episodio della Vita nova e le rime allegoriche parlano di amori non solo diversi ma addirittura opposti, uno tutto sensuale, l’altro
invece tutto intellettuale. Come si spiegano allora le evidentissime coincidenze,
somiglianze, rimandi ed echi fra di essi?
12. Al contrario, l’espressione «avversario della ragione» può essere considerata oggettiva o neutra, visto che anche in Voi che ‘ntendendo il nuovo amore è
avversario dell’anima, che vede la consolazione nel ricordo di Beatrice e non nel
nuovo desiderio.
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13. Questa nostra ipotesi è contraria all’affermazione di Fenzi secondo la quale
«le due canzoni allegoriche Voi che ‘ntendendo e Amor che nella mente presuppongono in modo certo il sonetto Oltre la spera, e insomma la situazione delineata nella parte finale della Vita Nuova» (Fenzi 1994: 216-217). Comunque,
Fenzi non può non riconoscere le coincidenze fra Gentil pensero (Vita nova
XXXVIII) e Voi che ‘ntendendo (si veda Scrimieri 2011a: 88-90), ma soltanto per
sottolineare immediatamente le divergenze fra di essi, senza quindi rendersi conto
che – come abbiamo detto – sono divergenze di prospettiva e valutazione ma
non di fatti, ma soprattutto senza porsi, secondo noi, l’inevitabile domanda sul
perché Dante avrebbe dovuto riprendere nelle rime, attraversando «il muro, altissimo, degli ultimi capitoli del libello» (Fenzi 1994: 220), elementi così concreti
e chiari – ma anche tutti quelli che stiamo cercando di mettere in rilievo in questo
lavoro –, stabilendo cioè un rapporto, anche se di contrasto, fra due amori che non
hanno niente in comune, uno che è una vana tentazione tutta sensibile «che illustra benissimo quale sia, agostinianamente, la forza corruttrice dei phantasmata,
le immagini terrene, che occupano l’anima e crescono su se stesse e lo fanno vaneggiare» (Fenzi 1994: 205-206) – base appunto del vizio della curiositas e delle
palinodie delle rime e del Convivio –, e l’altro un amore tutto intellettuale. E ancora, il contrasto non si stabiliva fra l’amore per Beatrice e l’amore per la donna
pietosa? Perché l’amore per Beatrice dovrebbe ora essere in contrasto anche con
quello per la donna gentile?
A nostro avviso, invece, lo ‘spesso’ del verso 13 di Oltre la spera («So io che
parla di quella gentile / però che spesso ricorda Beatrice») mostra che l’ascesa del
‘peregrino spirito’ che si narra nel sonetto è una delle successive ascese di cui si
parla in Voi che ‘ntendendo («Suol esser vita dello cor dolente / un soave penser
che.sse ne gìa / molte fïate al piè del vostro Sire, / ove una donna glorïar vedea»,
vv. 14-17), o che, addirittura, il sonetto è in presente abituale, come tra l’altro lo
è anche Voi che ‘ntendendo. Ciò che, a nostro parere, il sonetto indica è invece
che, dal momento che si narra nel capitolo XXXIX della Vita nova in poi, le ‘forti
immaginazioni’ di Beatrice infatti si succedono (prima e dopo il periodo della
curiositas) molte fiate (come tra l'altro indica Beatrice in Purgatorio XXX, 133135), e quindi non è che Voi che ‘ntendendo presupponga Oltre la spera ma che
Oltre la spera presuppone Voi che ‘ntendendo.
14. Si ricordi Gilson: «nella scoperta della filosofia e nell’entusiasmo di cui
questa scoperta lo riempì, Dante dimenticò tutto il resto» (Gilson 1967: 94).
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15. «Tristari de bono divino, de quo caritas gaudet, pertinet ad speciale vitium,
quod acedia vocatur» (Summa II-II, q. 35, a. 2, resp.). Non si deve quindi confondere questa accidia con l’accidia petrarchesca – antecedente primigenio dell’ennui, già fondato cioè in un’ideologia dell’io –, come in genere si deve stare
attenti, secondo noi, a non ‘petrarchizzare’ troppo Dante.
16. «Tristitia enim secundum se mala est quae est de eo quod est apparens
malum et vere bonum; sicut a contrario delectatio mala est quae est de eo quod
apparens bonum et vere malum». Si noti che l’accidia è un disordine per difetto
del senso della delectatio. E si ricordi che, dal punto di vista filosofico, l’origine
dell’errore dell’appetitus animalis può essere un giudizio di ragione (appetito razionale o volontà) che considera buono quello che invece non lo è, e raggiungibile quello che è invece irraggiungibile. Dante passa dunque dalla perdita
dell’appetito di conoscenza (l’appetito naturale) e conseguentemente dallo sperimentare un vero e proprio desiderio di morte all’avere un eccesso di appettito
che diventa appetitus animalis. Si rammentino le parole di Virgilio in Purgatorio
XVII, 94-96: «Lo [appetito] naturale è sempre sanza errore / ma l'altro [l’appetitus animalis] puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore»
[corsivo nostro].
17. «Dicitur enim timor esse tristitia, inquantum obiectum timoris est contristans, si praesens fuerit: unde et Philosophus dicit ibidem [Retorica I, q. 5, n. 1]
quod timor procedit “ex phantasia futuri mali corruptivi vel contristativi”».
18. «Timor addit supra fugam seu abominationem, quandam depressione
animi, propter difficultatem mali».
19. Secondo noi, l’ostacolo maggiore alla corretta comprensione di questa stagione intellettuale di Dante, e con essa del rapporto fra Vita nova e rime, è quello
di non considerarla un periodo unitario pieno di dubbi e cambiamenti, in cui
Dante cerca di controllare, non sempre con successo, il suo tendenzialmente eccessivo e disordinato desiderio di conoscenza; ma di concepirlo, invece, come
una successione di fasi in cui o trionfa Beatrice o trionfa la donna gentile. La
Vita nova non finisce col trionfo di Beatrice, come si suol affermare – oltre al
fatto che, in realtà, come vedremo, finisce col volontario abbandono della gentilissima e la piena dedizione allo ‘studio’, che non può non essere filosofico –,
ma con un momento di ridimensionamento del ruolo di Beatrice come fine ultimo
del percorso poetico-gnoseologico – e quindi di ridimensionamento in senso propedeutico del ruolo della donna gentile – che continuerà sempre a rischiare di
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essere trascurato ma mai del tutto dimenticato, almeno in questo periodo e nella
sua ripresa conviviale (si ricordi Convivio II, II, 1: «di quella beata che vive in
cielo con li angeli e in terra con la mia anima»): tutta un’altra cosa sarà invece
il periodo segnato dalla pargoletta in cui Beatrice sparisce completamente.
20. Si ricordi che, secondo Convivio IV, XXV, 5, «lo stupore è uno stordimento
d’animo per grandi cose vedere o udire o per alcun modo sentire: che, in quanto
paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente», e che, secondo Convivio
IV, VIII, 11, la reverenza «non è altro che confessione di debita subiezione per manifesto segno», in questo caso il «chinare gli occhi», molto somigliante all’abbassare la testa, gesto che Dante fa davanti ad Adamo in Paradiso XXVI, 85-90,
passando dall’essere «quasi stupefatto» (Paradiso XXVI, 81), all’essere completamente stupito (Paradiso XXVI, 89).
21. Ammettendo che Dante «ambisca ancora una volta a distinguere, di là dal
grado di coerenza interna, tra ragione e fede, ordine della natura e ordine della
grazia» (Falzone 2010: 226-227), non si deve trascurare che quel grado di coerenza interna è infatti molto minore di quanto scaturisca dal complessivo percorso
che Falzone fa delle idee dantesche, il cui naturalismo, se si contempla la traiettoria dantesca attraverso le rime e non soltanto le soluzioni conviviali (tra l’altro
rifiutate dal proprio Dante per la diffusione) è meno «intransigente» (Falzone
2010: 236) e più vacillante di quanto voglia l'autore. Infatti, se la soluzione di
Convivio III, xv fosse stata permanente e univoca avrebbe implicato la rinuncia
a Beatrice, cosa che si nega in Convivio II, II, 1 («quella Beatrice beata che vive
in cielo con li angeli e in terra con la mia anima»): in realtà, se è vero che Dante
ambisce a distinguere fra natura e grazia, ambisce anche a poter parlare sensibilmente di Beatrice in cielo.
22. Si veda la voce ‘studio’ nell’Enciclopedia Dantesca (Blasucci 1976). È
chiaro che il Convivio cerca di recuperare i momenti di studiositas, cioè di filosofia ridimensionata, dal periodo di squilibrio che succede alla morte di Beatrice,
ed è per questo che insiste tanto sulla nozione di ‘studio’, come elemento chiave
(così tanto da allegorizzarla tramite l’amore) di una filosofia infatti ‘studiosa’. Se
il periodo di tensione fra curiositas e studiositas finirà, come vedremo, con l’abbandono tanto della donna gentile quanto di Beatrice, i cui destini sono ormai collegati, nel Convivio, invece, si cercherà di riprendere l’amore per la donna gentile
nella sua dimensione diremmo più moderata e quindi compatibile con l’amore per
Beatrice come vera icona della verità. Il fatto che la filosofia possa portare l'uomo
alla felicità terrena con piena autonomia di fronte al sapere rivelato – come au-
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tonoma sarà nella Monarchia l’autorità dell’Imperatore per portare l’umanità alla
felicità politica di fronte all’autorità del Papa – non è d’ostacolo per concepire che
questa felicità e questa perfezione aiutino a raggiungere una felicità e una perfezione ulteriore, ‘trasumana’: infatti nella Commedia, senza prima arrivare allo
stato di perfezione psichica ed etica del Paradiso terrestre Dante non avrebbe potuto intraprendere il suo percorso astrale.
23. Questo significato si applica anche all’allegoria di Voi che ‘ntendendo:
«uno spiritel d’amore, s’intende uno pensiero che nasce del mio studio. Onde è
da sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s’intende esso studio, lo
quale è applicazione de l’animo innamorato de la cosa a quella cosa» (Convivio
II, XV, 10). Probabilmente qui lo studio di cui si parla è quello «lo quale mena
l’uomo a l’abito de l’arte e de la scienza», mentre in Convivio III, invece, sarebbe
quello «lo quale ne l’abito acquistato adopera».
24. In Convivio IV, XIII, Dante si mostra pienamente consapevole della necessità di ordine e moderazione – oggi si parlerebbe in pedagogia di una corretta
sequenziazione nel processo di apprendimento-insegnamento – nella via della
conoscenza. In opposizione all’eccesso e al disordine del desiderio di ricchezze,
Dante costruisce un’autentica teoria del desiderio di scienza regolato dalla studiositas che porta a un ordine perfetto nella successione delle conoscenze. Dante
mostra così di avere imparato bene la lezione – almeno nella teoria – dopo l’‘infermitade’ di curiositas che tanto l’aveva fatto soffrire: «crescere lo desiderio de
la scienza dire non si può, avvegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati.
Ché quello che propriamente cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non
è sempre uno, ma è molti, e finito l’uno, viene l’altro; sì che, propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande
cosa. Che se io desidero di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che
io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio
nuovo, né per l’avvenimento di questo non mi distoglie la perfezione a la quale
mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di
perfezione maggiore. [...] Ma conoscere che siano li principii de le cose naturali,
e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l’uno de l’altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma,
perfetto lo moto de l’una, succede lo moto de l’altra. E così appare che, dal desiderio de la scienza, la scienza non è da dire imperfetta, sì come le ricchezze
sono da dire per lo loro, come la questione ponea; ché nel desiderare de la scienza
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successivamente finiscono li desideri e viensi a perfezione, e in quello de la ricchezza no» (Convivio IV, XIII, 1-5). Per la dilatazione come effetto del diletto, si
veda Tommaso (Summa I, q. 33, a. 1, e III, q. 84, ad 2).
25. «Come quella del Convivio, la donna della Vita Nuova è gentile, bella
molto, pietosa; il suo amore è nobilissimo, e non solo Dante si chiede se questa
consolatrice non gli sia inviata dalla stessa Beatrice, ma ella le rassomiglia come
una beatitudine rassomiglia ad un’altra beatitudine: onde molte fiate mi ricordava
de la mia nobilissima donna (Vita Nuova, XXXVI). Ad essere in causa sono i sentimenti di Dante verso di lei; ora, la filosofia si è offerta di sostituire Beatrice, desiderio malvagio e contrario alla ragione quant’altri mai, ma Beatrice non si è mai
offerta di sostituire la filosofia nell’animo di Dante; non vi è dunque nessuna
contraddizione tra la condanna pronunciata da Dante contro le sue velleità di rinnegare Beatrice a vantaggio della filosofia e la sua esaltazione successiva di una
filosofia rispettosa dei diritti di Beatrice. Per potere amare contemporaneamente
ambedue, bastava a Dante trovare un posto per ciascuna di loro e mantenervele»
(Gilson 1967: 90-91). «Vi è stata, a un certo punto, un’inversione della gerarchia
di questi due amori nell’animo di Dante, e anche una temporanea dimenticanza
di Beatrice, ma il ritorno di Beatrice non comportò mai per lui l’esclusione della
donna gentile» (Gilson 1967: 95, n. 12).
26. Inoltre, i versi iniziali della canzone rimandano, a nostro avviso, allo stato
di totale sofferenza amorosa e vergogna che si esprime nel capitolo XXXIX della
Vita nova, e più specificamente nel sonetto Lasso! per forza di molti sospiri, dove
l’Amore si sente «tramortito» per il dolore che gli provocano i sospiri e i pensieri
dell’amante che sorgono dal suo cuore. Come in Poscia ch’Amor questo dolore
arriva alla pietà che permette all’amante di ‘disamorarsi’. Si noti il chiaro rimando – non avvertito però nei commenti – da «ma però che pietoso / fu tanto
del mio core / che non sofferse d’ascoltar suo pianto» (Poscia ch’Amor 4-6) a
«Questi pensieri, e li sospir ch’eo gitto, / diventan ne lo cor sì angosciosi, /
ch’Amor vi tramortisce, sì lien dole» (Lasso! per forza di molti sospiri 9-11).
27. Ricordiamo l’ordine cronologico delle canzoni accettato dalla tradizione
critica dopo le edizioni Barbi: Voi che ‘ntendendo-Amor che nella mente mi ragiona-Le dolci rime d’amor ch’io solia-Poscia ch’Amor del tutto mi ha lasciatoAmor che movi tua vertù dal cielo-Io sento sì d’Amor la gran possanza-petrose.
Ma su questo polemico tema si vedano le considerazioni di Natascia Tonelli
(2011: 213-218).
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28. A questo punto, diventa imprescindibile un accenno alla questione cronologica. Secondo noi, non c’è contraddizione ma soltanto imprecisione fra Convivio II, II, 1-2 e Convivio II, XII, 7, visto che in questo ultimo passo («Sì che in
picciol tempo, forse da trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza
che il suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero») non ci sono ostacoli
sintattici né di coerenza testuale per capire che il periodo di 30 mesi di cui si fa
menzione si deve contare dal momento in cui Dante inizia la consolazione con
la lettura di Boezio e di Cicerone, «alquanto tempo» dopo la morte di Beatrice.
La data di Voi che ‘ntendendo, secondo Convivio II, XII, 9, sarebbe allora il risultato della somma della data dell’ascesa di Beatrice in cielo, alquanto tempo + 30
mesi. In Convivio II, II, 1-5, la data di Voi che ‘ntendendo sarà il risultato della
somma alla data del trapasso di Beatrice, 38 mesi (due rivoluzioni de Venere:
Convivio II, II, 1) + il tempo della ‘battaglia di pensieri’, il che in ambedue i casi
ci porterebbe alla fine del 1293 o ai primi mesi del 1294, data generalmente accettata per Voi che ‘ntendendo. La successione degli avvenimenti risulterebbe
così: morte di Beatrice (giugno 1290) + alquanto tempo (Convivio II, XII, 2) + lettura di Boezio e Cicerone (Convivio II, XII, 2-5) + apparizione della donna gentile
(agosto di 1293: Convivio II, II, 1, Vita nova XXXV, Convivio II, XII, 6: «E imaginavo lei fatta come una donna gentile e non la poteva imaginare in atto alcuno
se non misericordioso») + tempo di progressiva dimestichezza con la donna gentile e ‘battaglia di pensieri’ (Convivio II, II, 2-4; XII, 7) + stesura di Voi che ‘ntendendo (Convivio II, II, 5; XII, 8; Vita nova XXXVIII) + possessione assoluta del
desiderio verso la donna gentile (Vita nova XXXIX, 2; Voi che savete) + riapparizione di Beatrice + finale della Vita nova + Amor che nella mente mi ragiona.
Da un altro punto di vista pensiamo che cercare coerenza fra le date di Convivio e della Vita nova non è necessario, considerando la differente natura del
biografismo nei due testi, e specificamente considerando che nella Vita nova la
lettera autobiografica è sempre in funzione del senso metapoetico o gnoseologico,
e perciò è opera «fervida e appassionata» in cui Dante non raggiunge ancora
quello che invece raggiungerà nella Commedia: la perfetta corrispondenza fra
senso letterale e senso allegorico e la perfetta autonomia del primo riguardo al secondo. Nella Vita nova il senso letterale manca ancora di coerenza interna nei
rapporti causa-effetto ed è tutto costruito in funzione di quello che con esso si
vuole trasmettere, in modo similare alla letteratura di visione, nella quale i diversi
motivi iconici mancavano completamente di coerenza letterale; anche se, con
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l’impalcatura autobiografica, Dante fa su questo aspetto un importantissimo
passo in avanti verso la Commedia.
Comunque, ritornando alla questione cronologica, in realtà la divergenza fra
Convivio e Vita nova è soltanto una: in Convivio II, II, 1, l’apparizione della donna
gentile segna il momento in cui s’inizia la ‘battaglia di pensieri’, dopo il periodo
di consolazione con la lettura di Boezio e Cicerone, mentre in Vita nova segna invece l’inizio del periodo consolatorio (XXXV-XXXVII) previo a quello della ‘battaglia di pensieri’ (XXXVIII). Perché, infatti, a pensarci bene, da dicembre 1293 a
febbraio 1294, meno 30 mesi, siamo proprio a «alquanto tempo» dopo il primo
anniversario della morte di Beatrice (Vita nova XXXV). Inoltre, l’«alquanto die»
di Vita nova XXXIX, 2, si deve riferire, come abbiamo già spiegato, non a tutto il
periodo di attrazione verso la donna gentile ma ai momenti in cui Dante è tutto
preso da questo desiderio, momenti compresi nell’ellissi che c’è fra Vita nova
XXXVIII e Vita nova XXXIX. La divergenza nel momento dell’apparizione della
donna gentile non sarebbe tale se in Convivio II, II, 1 si eliminasse la virgola fra
«primamente» e «accompagnata d’amore», in modo che «primamente» modificasse «accompagnata» e non «parve» (saremmo allora nel momento della «nuova
condizione» di Vita nova XXXVIII). In ogni caso, si deve ammettere che questa correzione non è evidentissima dal punto di vista sintattico (si veda Foster & Boyde
1967: 351), ma potrebbe venire favorita dal fatto che in questo momento la donna
gentile prende soltanto «luogo alcuno» nella mente di Dante (Convivio II, II, 1).
Fra Vita nova XXXV e Vita nova XXXVII invece, la donna ha luogo soltanto nel
cuore del poeta ed è in Vita nova XXXVIII, con la «nuova condizione», che
l’anima-ragione comincia a partecipare parzialmente al processo, dialogando col
cuore (Gentil pensero) e ascoltando lo ‘spiritel d’amor’ (Voi che ‘ntendendo).
In conclusione, possiamo proporre la seguente successione per i componimenti
di questo periodo: Voi che ‘ntendendo (primi mesi di 1294), Voi che savete, fine
della Vita nova (seconda metà di 1294), Amor che nella mente mi ragiona (Ultimi
mesi di 1294), senza escludere che questo finale della Vita nova possa essere una
seconda redazione (dopo quella di prima dell’inizio del 1293), viste le suggestive
indicazioni di Gorni circa la struttura novenaria del libello.
29. In questo senso, il primato della morale sulla filosofia spiegato da Gilson
(1967: 97-108) sarebbe caratteristico più del periodo politico di Dante (rime ‘dottrinali’ e cicli della pargoletta e le ‘petrose’) che del Convivio (Falzone 2010:
144, n. 72 e 219, n. 207).
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30. Queste due finalità, diciamo celeste e terrena, appaiono, nel periodo successivo alla morte di Beatrice, come differenziate e persino incompatibili, ma,
come si sa, verranno armonizzate, prima parzialmente nel Convivio (ed è d'obbligo rimandare di nuovo a Falzone 2010) e poi perfettamente nella Commedia.
In realtà, a pensarci bene, la tensione fra curiositas e studiositas, o fra la donna
gentile e Beatrice, non è che il primo sintomo o spia in Dante della tensione storica – che egli ha tanto intensamente vissuta – fra un sapere – come quello monastico tradizionale – alieno al mondo sociale – basilarmente perché non esisteva,
neanche nell’inconscio ideologico, la nozione di un mondo sociale diverso ontologicamente dal mondo naturale creato da Dio; e quindi qualsiasi riflessione sul
mondo umano non era che una riflessione sul mondo naturale specchio o vestigio
del mondo divino, e perciò filosofia morale e filosofia naturale non erano che
varianti inferiori della metafisica e della teologia – e l’ormai nascente necessità
di un sapere che servisse a regolare e indirizzare la vita nella città. Questa tensione è un nodo centrale del Convivio – ma anche del De vulgari eloquentia –,
in cui si cerca, ancora non del tutto armonicamente, una conciliazione tra essi,
mentre nelle rime e nella Vita nova si presenta, più letterariamente, come conflitto
interno dell’io, come problema della psiche.
31. E infatti in questo momento, verso il 1295, Dante smette di frequentare le
scuole di religiosi – forse dopo il corso seguito con Petrus de Trabibus? – e incomincia il suo lavoro – travaglio, piuttosto – politico comunale, che tanto lo
farà patire, appunto quando, con Amor che movi e Io sento sì d’Amor, la sua concezione dell’Amore cambia, entra in scena la misteriosa pargoletta, e sente per
lei un desiderio che fa nascere in lui un altro desiderio di servire, anzi di dare la
vita per ‘altrui’ (Io sento sì d’Amor).
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