OpenLab http://hep.fi.infn.it/wyp2005/openlab/ Docente di riferimento Prof. Renato Fani Dip.to di Biologia Animale e Genetica, Via Romana 19, 50125 Firenze Tel 055 2288244 Email: [email protected] Coordinatore Dr. Samuele Scappini Dip.to di Biologia Animale e Genetica, Via Romana 19, 50125 Firenze Tel 055 2288308 Email: [email protected] Operatori Dr. Emanuele Bonelli Dr. Matteo Brilli Dr.ssa Sara D’ambrosio Dr. Marco Fondi Dr.ssa Valentina Millarini Dr.ssa Valentina Nucciotti Dr. Francesco Pini Dr. Samuele Scappini Dr.ssa Valentina Sparvoli Dr. Antonio Frandi Dr. Cristiana Papaleo Isabel Maida Laura Giagnoni Elena Perrin Edda Russo Cellula: variazioni sul tema Nel mondo vivente si conoscono fondamentalmente due tipi di cellule, le cellule eucariotiche (dal greco “vero nucleo”) e le cellule procariotiche (dal greco “prenucleari”). Perciò gli organismi si possono suddividere in Procarioti, gruppo a cui appartengono tutti i batteri, ed Eucarioti. Eucarioti Le cellule eucariotiche (a sinistra cellule di lievito, al centro un globulo rosso, una piastrina e un globulo bianco) hanno morfologia tondeggiante e possono presentare, sulla loro superficie, ciglia o appendici accessorie. Il cambiamento morfologico di una cellula eucariotica è associato alla funzione che essa svolge, per esempio, le cellule muscolari sono allungate e di dimensioni più grandi rispetto alle altre. E’ il caso anche delle cellule del sistema nervoso (a destra), conosciute anche con il nome di cellule stellate, che presentano prolungamenti citoplasmatici per stabilire connessioni con cellule vicine o parti del corpo molto distanti. Negli Eucarioti la compartimentazione è spiccata: sono presenti all’interno del citoplasma compartimenti racchiusi da membrana, ognuno dei quali deputato ad una diversa funzione. Indichiamo i più importanti: reticolo endoplasmatico (rete di comparti e canalicoli con la funzione di costituire una sorta di rete per il trasporto dei materiali all'interno della cellula, mitocondri (le centrali energetiche della cellula), lisosomi (vescicole che assolvono alla funzione digestiva primaria), tilacoidi (sede della fase luminosa della fotosintesi nelle cellule vegetali), apparato del Golgi (sistema di membrane da cui si staccano vescicole implicate nel trasporto di sostanze e materiali all’interno della cellula). Nella cellula eucariotica il materiale genetico non è libero, ma raccolto da una membrana che delimita il nucleo. All’interno del nucleo si trova il DNA legato a proteine ancorate sul versante interno della membrana nucleare. Questa è costellata di pori che permettono il passaggio dell’informazione dal centro di controllo alla parte dove viene decodificata e assemblata. Procarioti La cellula procariota presenta diverse morfologie, le più frequenti sono: Bacilli (a bastoncino a sinistra), Cocchi (sferici al centro), Vibrioni (a forma di virgola) e Spirilli (simili alla vite di un cavatappi). In più, possono essere dotate di appendici accessorie come il flagello (a destra) che conferisce motilità e le fimbrie: le cilia che servono per l’adesione ad un substrato o tra cellule, ed il pilus una struttura sessuale che serve per il trasferimento di materiale genetico tra due batteri. Per quanto riguarda l’organizzazione sub-cellulare, la cellula procariota è piuttosto semplice. Partendo dall’esterno, troviamo la parete, composta da uno strato di peptidoglicano o mureina circondata da una membrana esterna. Tra mureina e membrana citoplasmatica si trova lo spazio periplasmico che ha diverse funzioni tra cui facilitare l’assunzione di nutrienti grazie anche alla presenza di enzimi. All’interno della cellula procariota non c’è compartimentazione. Nel citoplasma di una cellula procariotica troviamo il nucleoide che rappresenta la zona dove si addensa il materiale genetico che non è racchiuso da membrana. Tuttavia il nucleoide è attaccato alla membrana citoplasmatica in modo da dividersi equamente durante il ciclo cellulare. Come sono fatte le molecole della vita Il materiale genetico di tutti gli esseri viventi conosciuti è il DNA (acido deossiribonucleico). Fanno eccezione alcuni virus, in cui la funzione di custode dell’informazione genetica può essere assolta anche dalla molecola di RNA (acido ribonucleico). Un acido nucleico (RNA o DNA) consiste di una sequenza di subunità unite tra loro da legami chimici. Ogni subunità è formata da una base azotata (un anello eterociclico di atomi di carbonio e di azoto), un pentoso (uno zucchero a forma di anello formato da cinque atomi di carbonio) ed un gruppo fosfato. Una base legata ad un pentoso costituisce una unità detta nucleoside. Quando si aggiunge a questa unità anche un gruppo fosfato, l’insieme prende il nome di nucleotide. I nucleotidi sono le unità costitutive degli acidi nucleici. Gruppo fosfato Sia DNA che RNA portano sulla parte esterna della molecola gruppi fosfato ripetuti, costituiti ciascuno da un atomo di fosforo (P) a cui sono legati covalentemente quattro atomi di ossigeno (O), che conferiscono la carica negativa alla molecola dell’acido nucleico. Pentoso I pentosi, gli zuccheri che si ritrovano nelle molecole di DNA e RNA, possono essere di due tipi. Lo zucchero della molecola di DNA è il 2-deossiribosio mentre lo zucchero della molecola di RNA è il ribosio. Basi azotate Le basi azotate possono essere di due tipi: pirimidiniche, con struttura ad anello a sei atomi di carbonio, oppure puriniche, la cui struttura deriva dalla fusione di due anelli, l’uno di sei, l’altro di cinque atomi. Le basi puriniche che si ritrovano nelle molecole di DNA ed RNA sono adenina e guanina, le pirimidiniche timina, citosina e uracile. Ogni tipo di acido nucleico contiene quattro tipi di basi: le stesse due purine (adenina e guanina) sono presenti sia nel DNA sia nell’RNA. Per quanto riguarda invece le pirimidine, il DNA contiene citosina e timina mentre nell’RNA quest’ultima è sostituita dall’uracile (uracile e timina differiscono solo per la presenza, in quest’ultima, di un gruppo metile CH3 nella posizione C5). Questi sono i “pezzi” che si ritrovano in una molecola di acido nucleico, ma come si assemblano fra loro tutte le componenti per dar luogo ad una molecola “funzionante”? Nel 1953 J.Watson e F.Crick arrivarono alla formulazione di un modello sulla possibile struttura della molecola di DNA. Tre precedenti scoperte avevano spianato la strada alla delucidazione della struttura della molecola: 1) dati provenienti da studi con i raggi X avevano mostrato che la struttura del DNA a doppia elica è regolare e che compie un giro completo su se stessa ogni 3,4 nm, con un diametro di circa 2 nm. Poiché la distanza fra due nucleotidi adiacenti è di circa 0,34 nm, devono esservi 10 nucleotidi per ogni giro d’elica; 2) studi condotti sulla densità di questa molecola hanno suggerito che questa dovesse possedere due catene polinucleotidiche. Il diametro costante dell’elica si poteva spiegare assumendo che le basi su ciascuna catena fossero affacciate verso l’interno e avessero possibilità limitate di combinazione, di modo che una purina si trovasse sempre di fronte ad una pirimidina, e fossero invece evitate combinazioni purina-purina (troppo larga) o pirimidina-pirimidina (troppo stretta); 3) si era inoltre osservato che, indipendentemente dalla quantità in cui ciascuna base è presente all’interno del DNA, la proporzione di G è sempre uguale a quella di C e la proporzione di A è uguale a quella di T. Ne conseguiva che in una molecola di DNA il numero di G avrebbe dovuto essere sempre uguale al numero di C e lo stesso sarebbe dovuto accadere per l’altra coppia A, T. Il modello che J.Watson e F.Crick proposero sulla base di queste nuove scoperte prevedeva inoltre che: 1) le due catene polinucleotidiche della doppia elica fossero unite da legami ad idrogeno fra le basi azotate. Gli unici legami possibili erano quelli che prevedevano l’accoppiamento di A con T e di G con C. (dette appunto basi complementari). 2) I due filamenti fossero orientati in direzioni opposte (antiparallele) e lo scheletro di fosfato e pentosi fosse orientato verso l’esterno, mentre le strutture piatte e organizzate delle basi accoppiate fossero rivolte verso l’interno. Queste idee portarono alla scoperta della struttura a doppia elica della molecola di DNA. I plasmidi I procarioti possono contenere informazione genetica non solo a livello del loro DNA nucleare (o cromosomico), ma anche in altre molecole di DNA, chiamate plasmidi, le cui dimensioni sono variabili, da poche migliaia di basi fino a quelle di piccoli cromosomi (in rari casi oltre un milione di basi, ma generalmente intorno alle 10-20 mila basi). I plasmidi possono contenere un numero di geni variabile, dipendente perlopiù dalla lunghezza del plasmide stesso, e questi possono essere coinvolti in diversi processi metabolici. Fra questi i più noti sono sicuramente le resistenze agli antibiotici, utilizzati comunemente come medicinali o integratori alimentari per gli animali d’allevamento. Le funzioni codificate a livello plasmidico possono inoltre permettere ai microrganismi di utilizzare come fonte di energia composti xenobiotici, introdotti nell’ambiente dall’attività umana, particolarità sfruttata nella cosiddetta bioremediation. L’importanza di tali funzioni è perfettamente supportata dalla capacità dei plasmidi di essere trasferiti non solo fra microrganismi di gruppi tassonomici vicini, ma anche fra specie lontanamente imparentate. Le grosse variazioni che sussistono fra organismi lontani, soprattutto a livello delle sequenze di regolazione (fondamentali per la trascrizione dei geni), generalmente non influiscono sull’espressione dei geni plasmidici. Questo permette la trasmissione di geni (e quindi di attività metaboliche) fra organismi diversi, garantendo contemporaneamente l’espressione dell’informazione contenuta anche quando il donatore e l’ospite appartengano a gruppi tassonomici distinti. Questa trasmissione di geni per via orizzontale (contrapposta alla modalità più nota, il trasferimento di informazione genetica alla prole, di tipo verticale) ha un ruolo fondamentale in natura: essa ha raggiunto in alcuni casi una specializzazione tale da permettere ad alcuni organismi (ad es. Agrobacterium tumefaciens ed i batteri appartenenti al gruppo dei rizobi) di instaurare interazioni complesse con i loro ospiti (vedi Box 1), ma anche i casi di semplice trasferimento dei pochi geni presenti su un plasmide, sembrano aver rappresentato uno dei motori trainanti per l’evoluzione delle forme di vita e dei procarioti in particolare. Questo potente veicolo di novità evolutive, che è servito nelle prime fasi dell’evoluzione della Vita a garantire la sopravvivenza delle prime cellule permettendo l’acquisizione rapida di nuove attività metaboliche, può ritorcersi contro l’uomo, come nel caso delle frequenti resistenze batteriche agli antibiotici di uso più comune, che si risolvono nella difficoltà di eliminare infezioni che spesso hanno luogo proprio all’interno dei centri ospedalieri. I plasmidi dunque contengono informazione genetica eterogenea e poiché si replicano nella cellula batterica in modo indipendente rispetto alla duplicazione cellulare, sono generalmente presenti in numerose copie. In questo modo viene garantita la possibilità che, con la divisione, ciascuna delle cellule figlie possa acquisire, casualmente, almeno una molecola del plasmide. Un’altra particolarità dei plasmidi è che essi non portano informazioni per funzioni essenziali, ma generalmente solo per funzioni accessorie. Tali funzioni risultano necessarie solo in certe condizioni di crescita, è quindi il mantenimento dei plasmidi recanti queste informazioni all’interno delle cellule dipende dalla utilità delle informazioni accessorie. Se l’utilità viene a mancare (termina ad esempio il trattamento con antibiotico), allora è possibile che anche il plasmide, nel termine di poche generazioni, venga perso. Questo fenomeno, noto come curing, è importante perché difficilmente plasmidi diversi possono coesistere all’interno della stessa cellula batterica; in questo modo la perdita dei plasmidi divenuti inutili permette alla cellula di acquisirne di nuovi, magari più importanti in quel momento (ad esempio perché il trattamento antibiotico è cambiato). Tutte le caratteristiche che i plasmidi hanno acquisito in miliardi di anni di evoluzione, e che permettono loro di ricoprire ruoli di primaria importanza nell’evoluzione dei batteri, vengono oggi sfruttate nelle tecniche di laboratorio per introdurre specifici geni all’interno di organismi modello (Box 2), fornendo una via relativamente semplice per lo studio genetico e funzionale dei geni e dei loro prodotti in un ambiente cellulare, molto migliore rispetto alle tecniche in vitro dove le informazioni ottenute sono sempre falsate dall’utilizzo di condizioni sensibilmente diverse rispetto a quelle reali che caratterizzano l’ambiente intracellulare. Box 1: Il batterio Agrobacterium tumefaciens possiede un plasmide, detto Ti che può essere trasferito alle cellule di una pianta (con un meccanismo specifico che si attiva in condizioni particolari). L’informazione presente nel plasmide viene poi espressa all’interno delle cellule vegetali dopo che il DNA plasmidico è stato integrato nel DNA cromosomico, garantendo l’invasione e lo sviluppo di un tumore chiamato galla, sul tronco della pianta. I batteri appartenenti al gruppo dei rizobi sono generalmente capaci di fissare l’azoto atmosferico in forma assimilabile dalle piante, promuovendo la crescita vegetale in molti ambienti dove il fattore nutritivo limitante è proprio l’azoto fissato. I rizobi sono inoltre in grado di instaurare relazioni complesse con le piante ospiti, inducendo la pianta a produrre a livello delle radici, grazie ai prodotti dei geni nod (che si trovano su di un plasmide), apposite strutture che accolgono i batteri e sostanze che li nutrono. All’interno di queste strutture, dette noduli, i batteri trovano un habitat ottimale per la crescita e per la fissazione dell’azoto, di conseguenza sia la pianta (tramite l’azoto fissato dai batteri) sia i rizobi (grazie alla crescita in un ambiente protetto e rifornito di un gran numero di nutrienti ad opera della pianta), possono trarre vantaggio reciproco dalla situazione (una relazione chiamata simbiosi). Vediamo dunque che i plasmidi naturali non solo possono servire come semplice veicolo per il trasporto di geni, ma anche come veicolo dell’informazione necessaria all’interazione fra organismi di gruppi tassonomici distanti, come nei due casi riportati. Box 2: Il plasmide pBR322, comunemente utilizzato in tecniche di biologia molecolare, mostrato a titolo esemplificativo per descrivere schematicamente alcune delle caratteristiche dei plasmidi utilizzati in laboratorio; regioni importanti: • • bla (ApR), corrisponde al gene codificante un enzima capace di conferire alla cellula che ospita il plasmide la resistenza all’antibiotico ampicillina. tet (Tc R), gene che conferisce la resistenza all’antibiotico tetraciclina. I geni per la resistenza ad antibiotico permettono di controllare l’esito della procedura di inserimento del plasmide all’interno delle cellule batteriche in modo rapido ed economico: dato che il plasmide conferisce resistenza all’antibiotico, mentre le cellule prive del plasmide sono sensibili all’antibiotico, che ne blocca la crescita, allora in un terreno di coltura che contiene l’antibiotico soltanto quelle cellule (minoritarie rispetto al totale) riusciranno a crescere, potendo essere immediatamente riconosciute come candidate per l’analisi successiva. • • rep: corrisponde alla regione che serve alla replicazione, e quindi al mantenimento, del plasmide, in sua assenza il plasmide viene perso perché non può più essere replicato. i punti indicati dalle scritte blu corrispondono a specifici siti al cui interno è possibile inserire il DNA da analizzare. Estrazione del DNA plasmidico • • • • • • • • • Si inocula il ceppo dal quale si vuole estrarre il DNA in 3 ml di terreno liquido e lo si fa crescere in agitazione a 37°C fino al mattino successivo. Al mattino si centrifuga per 2 minuti a 12000 rpm un volume variabile tra 1,5 e 3 ml della coltura della sera prima e si risospende delicatamente il pellet in 0,3 ml di tampone P1 (50mM Tris-HCl pH8, 10mM EDTA pH 8.0 + RNasiA 100 mg/ml). Si aggiungono quindi 0,3 ml di tampone P2 (200mM NaOH, 1% SDS). Si agita delicatamente per inversione e si incuba a temperatura ambiente per 5 minuti. Si aggiungono 0,3 ml di tampone P3 (2,55 M Potassio acetato pH 4,8), si mescola ancora per inversione e si centrifuga a 13000 rpm per 10 minuti. Si recupera il sopranatante con una micropipetta e lo si trasferisce in un tubo sterile da 1,5 ml. Si precipita il DNA aggiungendo 0,8 volumi di isopropanolo (preequilibrato a temperatura ambiente per evitare la precipitazione di sali) mediante centrifugazione a 12000 rpm per 10’. Si elimina il sopranatante versandolo direttamente. Si aggiungono 0,7 ml di etanolo 70%, si centrifuga a 12000 rpm per 2 minuti e si elimina il sopranatante. Si risospende il pellet di DNA in un volume opportuno (20 µl) di TE. Conservare il DNA a 4°C per brevi periodi, oppure a -20°C per tempi più lunghi. Possiamo osservare il significato dei vari passaggi: nel primo tampone usato (P1) è presente l’ RNasi che permette la digestione di tutti gli RNA presenti nelle cellule, siano transfert, messaggeri, o ribosomali. Questo permetterà di visualizzare meglio la successiva corsa su gel del DNA estratto; nella soluzione successiva (P2) la presenza di un composto alcalino, NaOH, determinerà la lisi della cellula e la denaturazione del DNA, mentre quella di un detergente, SDS, permetterà di distruggere le membrane; l'ultimo tampone usato (P3) serve per far rinaturare il DNA. Solo quello cromosomico, essendo di dimensioni maggiori, è interessato dalla denaturazione e dalla rinaturazione, potendo quindi distinguersi dal plasmidico che rimane in soluzione Preparazione di un gel di agarosio 1. Pesare la quantità opportuna di agarosio (in base alle dimensioni dei frammenti da separare) ed aggiungerla al volume stabilito di tampone TEA 1 X. 2. Portare ad ebollizione il gel su piastra magnetica o in un forno a microonde e verificare il completo scioglimento dell'agarosio. 3. Aggiungere la giusta quantità di bromuro di etidio ATTENZIONE: agente mutageno 4. Versare il gel nella vasca elettroforetica all’interno della slitta, sulla quale sarà stato precedentemente sistemato un pettine vicino ad un'estremità della vaschetta. I denti del pettine formeranno, una volta solidificatosi il gel, i pozzetti in cui verranno caricati i campioni di DNA. E’ estrememente importante che i denti del pettine non tocchino la base della slitta, per evitare, al termine della preparazione, che i pozzetti risultino "bucati". 5. Quando il gel si è perfettamente solidificato (solitamente sono sufficienti per questo circa 30 minuti a temperatura ambiente), rimuovere delicatamente il pettine e i supporti per la slitta dalla vasca elettroforetica. 6. Aggiungere il tampone da elettroforesi (TEA 1X) fino a coprire il gel per almeno 2 mm. Preparazione e caricamento dei campioni 1. Aggiungere Blue di Bromofenolo ai campioni di DNA (ad esempio 2 µl di Blue per 10 µl di campione) e caricarli nei pozzetti con una micropipetta. 2. Applicare il coperchio alla vasca elettroforetica e inserire gli elettrodi in modo tale che il polo positivo (rosso) si trovi all'estremità del gel più lontana dai pozzetti. Utilizzando come riferimento la banda del Blue di Bromofenolo, continuare la corsa elettroforetica per il tempo desiderato. 3. Terminato il tempo spengere l'apparato, porre il gel su di un transilluminatore a raggi UV e documentare il risultato con una fotografia. Glossario AGAROSIO. Un polimero lineare estratto da alghe, solido a temperatura ambiente. BLU DI BROMOFENOLO (BBF). Il BBF è un colorante blu violaceo che viene aggiunto al campione che carichiamo su gel di agarosio in modo da visualizzarne la corsa. Di questo colorante sfruttiamo la mobilità in direzione dell’anodo, caratteristica analoga al DNA. La soluzione madre si prepara al 5% in acqua distillata ed ha consistenza molto densa. BROMURO DI ETIDIO. Il 3-8 diamino 5 etil-fenilfenantridio bromuro è un mutageno che si intercala tra le basi del DNA e per questo motivo va utilizzato con prudenza ed è necessario indossare i guanti quando si utilizzano materiali che lo contengono. Possiede la proprietà di illuminarsi per fluorescenza quando viene colpita da un fascio di luce ultravioletta. Viene preparato come soluzione a 10 mg/ml in acqua distillata e conservato a 4°C. CENTRIFUGA. Apparecchiatura da laboratorio utilizzata generalmente per separare composti con diversi pesi specifici o densità mediante forza centrifuga. Oltre ad essere un mezzo di separazione e precipitazione, distingueremo in quest’ultimo caso un SOPRANATANTE superiore ed un PELLET sottostante, è anche un mezzo efficiente di essiccazione di campioni ed evaporazione di solventi come avviene negli evaporatori centrifughi. Ha un campo di applicazioni compreso tra 14.000 rpm a 60.000 g. COLTURA. Insieme delle cellule cresciute in un terreno, sia esso liquido o solido. CROMOSOMI. Strutture presenti nel nucleo delle cellule in cui hanno sede i geni portatori dei caratteri ereditari. DNA. Acido desossiribonucleico. Materiale genetico di tutti gli organismi viventi. Nel nucleo degli eucarioti è complessato con proteine ed organizzato in strutture lineari dette CROMOSOMI. Nei procarioti il DNA è organizzato in un singolo cromosoma circolare al quale sono associate poche proteine. I mitocondri e i cloroplasti contengono materiale genetico sotto forma di molecola circolare a doppia elica, con associate poche o nessuna proteina. EDTA pH 8. Chelante degli ioni bipositivi cioè una molecola che sequestra ioni come magnesio (Mg++) e calcio (Ca++) indispensabile per il funzionamento di alcuni enzimi tra cui quelli che tagliano il DNA. ELUITO. Definiamo eluito una soluzione liquida che passa attraverso un filtro durante una centrifugazione. ETANOLO. Anche detto alcol etilico CH3CH2OH, favorisce la precipitazione del DNA. EUCARIOTI. Organismi le cui cellule hanno il nucleo provvisto di una membrana che lo delimita rispetto al citoplasma. INOCULO. Cellule fatte crescere in terreno liquido. MICROLITRO. Unità di misura di un volume pari a 10-6l (simbolo µl). NANOMETRO. Unità di misura di lunghezza pari a 10-9m (simbolo nm). NaOH. Comunemente detta soda aumenta il pH facilitando la rottura della cellula. NUCLEOSIDE. Zucchero e base. NUCLEOTIDE. Subunità di base delle molecole di DNA e di RNA costituita da zucchero, base azotata e gruppo fosfato. pH. Il pH è una scala di misura dell'acidità o dell'alcalinità di una sostanza o di una soluzione. Varia tra 1 e 14. POLIMERI. Composti ad elevato peso molecolare ottenuti a partire da monomeri tramite reazioni di polimerizzazione. PROCARIOTI. Organismi le cui cellule hanno il nucleo mancante di una membrana cellulare. PROTEINA. Le proteine sono composti costituiti di amminoacidi e formano gran parte del “materiale di costruzione” delle cellule e dell’organismo. Le proteine hanno anche la funzione di regolare o fare avvenire le reazioni biochimiche che hanno luogo in tutte le cellule: in questo ultimo caso si dicono enzimi. Ogni proteina viene costruita grazie all’informazione contenuta in uno o più geni. RAGGI UV. Radiazioni elettromagnetiche. RNA. Acido ribonucleico. Materiale di alcuni virus. RNasi. Enzima che taglia l’RNA. SDS (Sodio dodecil solfato). Sostanza detergente (sapone) che scioglie la membrana cellulare costituita in gran parte da lipidi (grassi). TAMPONE. Si definiscono tamponi tutti quei composti che mantengono il pH delle soluzioni ai valori di interesse. TE. E’ una soluzione contenete solitamente Tris-HCl 10 mM pH 8 e EDTA 1 mM pH 8 in acqua distillata. Si utilizzano TE a pH diversi. TEA 50X. E’ un tampone per elettroforesi e contiene Tris base, Acido Acetico glaciale ed EDTA pH8. Questo tampone viene diluito 50 volte al momento dell’uso: TEA 1X. Tris-HCl pH8. Soluzione tampone per mantenere il DNA nelle condizioni ottimali.