Rocket men: Keith Richards, Il pilota, l’amante e l’immortale Rocket men: Keith Richards, Il pilota, l’amante e l’immortaledi Simone Ciccorelli del 15/10/2016 “Essere il passeggero di una Ferrari guidata da Keith Richards è un brivido secondo solo a scendere giù per una collina con Ray Charles al volante. Mi sono quasi ammazzato drogandomi con lui, ma andarci in auto era anche peggio” Dalle parole di Nick Kent iniziamo questa chiacchierata su Richards. Il critico seguita nella descrizione: “Spesso durante i tragitti Richards si dimenticava da che lato guidare e non aveva mai con sé la patente, la stessa che non ha mai nemmeno preso. O meglio, qualcuno l’ha presa per lui. Si perché, dopo due tentativi andati male, il chitarrista ha deciso che il terzo lo avrebbe fatto sostenere proprio al suo autista”. “Come minimo avrai ipnotizzato l’esaminatore” gli dice Tony Sanchez, il suo spacciatore di fiducia, quando Keith gli mostra con entusiasmo la patente appena conquistata. E’ l’otto gennaio del 1966. Richards è l’ultimo degli Rolling Stones a patentarsi e nelle trasferte precedenti, quando non guidava lui (perché guidare senza patente non è mai stato un problema), dormiva. Ma lo faceva come in nessun altro posto. Quel furgone che lo portava da una trasferta all’altra era il suo unico letto e si può dire che dormisse realmente solo a bordo di quelle quattro ruote. Keith Richards è un chitarrista, compositore e attore britannico, membro fondatore dei Rolling Stones. Una volta, nel 1964, nel bel mezzo delle Midlands, l’autista sbanda mentre lui dorme come un bambino su un amplificatore a ruote. Urtarono accidentalmente qualcosa e andarono a sbattere bruscamente. L’ amplificatore/materasso sfondò il portellone del furgone e rotolò giù per la collina, scivolando in mezzo ai prati, con ancora il chitarrista a bordo. Gli Stones, disperati e quasi certi che fosse morto, lo hanno cercato per un’ora urlando senza sosta e perlustrando ogni angolo della zona, fino a quando non lo hanno trovato. Era in una buca profonda, ancora sdraiato sull’amplificatore, che russava. La prima volta che Keith guidò fu quando rubò l’auto di Mike Jager, proprio quando il cantante aveva deciso di tenerla per qualche giorno a riposo dopo aver preso una multa e rischiato l’arresto. Così Keith gli prende le chiavi e insieme a James Phelge, il coinquilino, se ne vanno in giro per Londra per giorni, usando la patente di Tony Calder. E’ stato il giorno dell’inizio di un rapporto ai limiti del suicidio. Una delle sue prime auto è Blue Lena. Una Bentley S3 blu, una delle prime con cambio automatico. Centocinquanta all’ora come fossero per legge e sempre sotto gli effetti di qualche stupefacente. Il suo colpo preferito è quello verso i cordoli. Li prendeva tutti, matematico. Di classe. Keith Richards e la sua Bentley blue-lena E’ il Natale del 1967 e Keith è in macchina con Michael Cooper, direzione Marrakesh. Più di sette ore di viaggio al volante per le stradine colme di curve dell’Atlante. Una Peugeot noleggiata è strozzata dalla volontà di Keith, più spericolato che mai e con il desiderio di arrivare a destinazione il prima possibile, stanco dalle troppe ore di viaggio e impaziente. Il piede è pesante, gli occhi anche, ma tutto fila liscio tra un tornante e l’altro, fino a quando sbucano due moto militari che occupano tutta la carreggiata. Una ha fatto in tempo a scansarsi per evitarlo mentre lui da parte sua ha cercato di non colpirle finendo quasi nel precipizio e salvandosi con un controsterzo da stuntman. Superate le moto è il turno del camion militare ma questa volta Keith va dritto, non si sposta e urta una moto che precedeva il camion. Finisce contro il cordolo e mentre affianca il camion si accorge che trasporta un missile enorme, lungo quasi quanto il convoglio. Prepara la curva evitando tutto il possibile e finendo con una ruota nel precipizio, ma anche questa volta riesce a tenere la macchina e a rimettersi nella carreggiata. Keith, scosso dall’aver rischiato la vita una quarantina di volte in tre curve, ha deciso quindi di accelerare e di fermarsi alla prima officina per cambiare auto, ormai molestata al punto di averla consumata. Accelerando si è lasciato dietro di sé un enorme boato, un’esplosione che non aveva mai sentito prima di quel momento e una nube nera sollevarsi dallo specchietto retrovisore. Il giorno dopo ha letto tutti i giornali per rintracciare qualche notizia, ma niente. Nessuno ha parlato di un grosso boato causato dall’esplosione di qualcosa, magari proprio di un missile, nel mezzo dei monti del Marocco. E’ salvo, ma qualcun altro no. Se fosse stato lui a morire forse se ne sarebbe parlato di più, forse. Ma lui non bada a questo e nella sua autobiografia scrive: “Precipitare in un dirupo a cavallo di un razzo del terzo mondo sarebbe stato un triste epilogo ma forse era l’unico congedo che si addicesse all’erede della fortuna degli armamenti Krupp”. Si, perché questo Krupp era un erede della dinastia di fabbricanti di armi tedesche ed era in macchina con lui proprio mentre prendeva a sportellate una montagna ed evitava convogli con missili e moto militari, facendoli poi saltare in aria. Una delle migliori avventure è senza dubbio quella del 27 marzo 1971. Il giorno prima aveva partecipato alle registrazioni al Marqee Club per un famoso programma televisivo. Si era disintossicato da poco e aveva anche lasciato Anita in clinica per la cura del sonno. Tre giorni a dormire, questo è quello che prevedeva la terapia; non sentire il dolore dell’astinenza attraverso il sonno prolungato per giorni. Keith Richards e Anita Pallenberg Keith era da poco andato a far riparare la Bentley visto che il giorno prima aveva perso le chiavi e ha dovuto chiamare la polizia per farsela aprire. Proprio in quel momento Tony Sanchez riceve una telefonata da Anita, dominata da un attacco isterico a causa dei sonniferi; non facevano effetto. Si sentiva malissimo, al punto di impazzire. Infatti impazzì. Strillò al telefono fino a quando Tony non si decise e le promise che sarebbero andati a riprenderla. In qualche modo Tony riesce a rintracciare Keith che, ignaro dello stato di Anita, era andato a bere all’Hilton. Dopo tre ore scandite dai Margarita insieme a Michael Cooper, che nel frattempo lo aveva convinto a rifarsi di eroina, i due si lanciarono sulla Bentley, appena riverniciata di rosa . “Così la trovo più facilmente”, ha risposto Keith quando gli è stata chiesta la motivazione di quel colore. L’ha subito ribattezzata “Pink Lena”. Dopo una serie di Margarita, però, non ci si può mettere al volante, sarebbe da incoscienti. Quindi Keith e Michael ricorrono alla coca per tirarsi un po’ su. Saggi. Il motore si accende e al volante c’è uno dei migliori chitarristi al mondo; pieno di alcool, con i postumi di eroina e ora anche sotto l’effetto di cocaina. Una sicurezza. Sticky Fingers al massimo volume possibile e si vola da Anita. Michael durante il tragitto pensa che forse quelli saranno i suoi ultimi minuti da vivo. La macchina è come una pallina in un flipper e passa da un lato all’altro della strada come se non ci fossero regole e confini. Sorpassi in ogni direzione, clacson ripetuto a chiunque gli intralci la strada, litigi e urla, insulti all’ultimo grido con altri automobilisti. Che equilibrio. Un camion di fronte a lui non ne vuole sapere di spostarsi, viene dalla direzione opposta e Keith, contromano, la prende come una questione personale. Strano. Il camion sta per andargli addosso ma lui non si sposta. Vive come se fosse immortale, fino all’ultimo metro, fino a quando capisce che il camionista non si sarebbe mosso e che a rimetterci sarebbe stato soltanto lui. Per evitarlo si schianta senza nemmeno frenare contro una rotonda e si ferma soltanto quando batte contro una cancellata sfondando tutta la parte anteriore della Pink Lena. I giornali di quel tempo parlano di “disastro stradale” e “danni per migliaia di dollari”. Una folla di curiosi sono subito accorsi per vedere cosa fosse successo, temendo forse per la sua incolumità. Qualcuno ha anche chiamato la polizia, ma nessuno è riuscito a trattenerli. Keith e Michael sono scesi dall’auto e sono corsi, zoppicando, a casa di Nicky Hopkins, il pianista che ha collaborato più volte con i Rolling Stones e che viveva a duecento metri da lì. Il suo aiuto è stato fondamentale. I due si sono nascosti a casa sua e si sono medicati il medicabile, prima di salire su una limousine chiamata dallo stesso pianista e ripartire in direzione Anita. Keith però prima di partire ha deciso di chiamare la sua amata e le ha raccontato della folle corsa per andare da lei e dell’incidente, ancora eccitato, rassicurandola e dicendole che ci avrebbero messo poco; che presto sarebbe uscita di lì tra le sue braccia. La reazione di Anita è la solita strillata isterica per telefono “Portami un po’ di eroina e me ne vado di qui subito!” “Ok ok, te ne porterò un po. Ma soltanto un po‘”. E così andò. Anita uscì dalla clinica e riprese a farsi dopo nemmeno due giorni. Anche Keith era di nuovo nel vortice, ma poco gli importava. Lui voleva vivere così e ogni restrizione era un reprimere se stesso e il suo senso alla vita: la spericolatezza, l’incoscienza, il nichilismo e l’eccesso. Tutto può essere racchiuso nell’immagine di una Bentley Rosa contro una cancellata, senza più la parte anteriore, fumante e presto abbandonata. Siamo ai primi di ottobre del 1974 e Richards deve recarsi agli studi della BBC per un intervista sul suo ultimo album “It’s Only Rock and Roll”, che sarebbe uscito nelle due settimane successive. E’ passato del tempo ma lui è sempre lo stesso scalmanato incosciente di qualche anno prima. Solo con la pelle un po’ più dura e la mente un po’ più libera e distesa grazie ai successi ottenuti. Ovviamente, per andare agli studi, la velocità era sempre la stessa, uno standard di centocinquanta chilometri all’ora che quasi potremmo ribattezzare “Velocità Richards”. Standard mantenuto dalla sua enorme coerenza anche nelle curve strette delle province inglesi. L’arrivo agli studios gli illumina un viso pallido e stanco, con i riflessi rallentati di chi da giorni non chiude occhio. E’ scomposto, trasandato e con un buco al posto di un incisivo. Le pupille sono dilatate e buie, come fossero una galleria da attraversare in fretta, magari proprio a centocinquanta all’ora. Per i più curiosi, è possibile trovare l’intervista a questo link: (https://www.youtube.com/watch?v=3knLO2sM-6o). Guardatela in fretta, ma non troppo. Guardatela come se non doveste morire mai, ma allo stesso tempo come se aveste soltanto più oggi a disposizione. Più o meno come ha vissuto lui. Come vive lui. Uno spericolato a bordo di una Bentley rosa, che dorme sugli amplificatori in mezzo ai rovi e fa esplodere missili militari proprio mentre è in macchina con un ereditario di fabbriche di armi. Un amante degli eccessi e dell’autodistruzione controllata ma allo stesso tempo fuori controllo. Un controsenso vivente, contromano. Guardatela così. Come se riesciste ad entrare nella galleria dei suoi occhi, attraversandola. Ma fatelo in fretta. Fatelo alla “Velocità Richards”. Come si fa? Non lo so, non posso saperlo. Altrimenti sarei Keith Richards, l’uomo che guida e suona come se stesse per morire, in eterno. Per approfondimenti: _Keith Richards, Life (autobiografia) _Renzo Stefanel, Sesso Droga e calci in bocca © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata La musica nel mondo antico occidentale La musica nel mondo antico occidentaledi Giuseppe Baiocchi del 12/10/2016 Se poniamo il quesito sul dove proviene la musica classica, dobbiamo porci alcune importanti riflessioni. La disciplina musicale ha avuto un destino storico profondamente diverso rispetto alle altre arti. Se si parte dalla grandezza della cultura greca, la disciplina musicale – anche se ben presente – possiede scarse fonti scritte, lasciando spesso fonti extramusicali dei grandi filosofi greci. Non si riteneva che la musica fosse un’arte da tramandare alla posterità e di conseguenza questa non è stata accompagnata da una precisa coscienza storica, rendendo precluso a tale disciplina un principio di dinamico sviluppo. La tradizione classica della civiltà musicale occidentale può iniziare partendo dalla parola greca Musichè (μουσική). Questo termine non comprendeva solo la musica, ma altre discipline umanistiche quali: la poesia, la danza e la ginnastica. Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) – Saffo e Alceo, 1881 Olio su tela 66×122 cm Dunque gli antichi preferiscono portare per iscritto inizialmente solo la poesia e così viene spiegata la mancanza di testi prima del III secolo a.C. La stessa Musichè greca ha avuto forti influenze dalla civiltà mesopotamica e ne risulta (nonostante una distinta via culturale/musicale) fortemente contaminata fra le varie etnie e culture presenti. Tutti gli strumenti musicali antichi come l’arpa, la cetra, il flauto, il sistro erano tutti già sviluppati in altre aree non elleniche. Se per le civiltà egizie, ebraiche, fenicie e babilonesi la musica era strettamente legata al rito religioso, di contro nella civiltà greca la Musichè assume un carattere più laico/ricreativo e successivamente anche educativo. Nel periodo del VII secolo a.C. la musica sembra abbia un potere medico-religioso per acquistare successivamente una dimensione edonistica (concezione filosofica secondo cui il piacere è il bene sommo dell’uomo e il suo conseguimento il fine esclusivo della vita). Nel tardo-citaredo (epoca che prende il nome dall’uso del poeta, il quale cantava accompagnandosi sempre con la cetra) si abbandona la pratica magico/religiosa/curativa e la musica diviene elemento per le attività ricreative. Si forma la figura del “cantore” che si accompagna sempre con la lira, il fhorminx o il kitharis, tutti elementi di derivazione greca che si alternano spesso ad elementi musicali di tipica derivazione asiatica, come l’aulos e la syrinx. da sinistra a destra: Lira, Cedra, L’aulòs e il flauto, il Flauto di Pan, Sistri, Cembalo, Tamburelli, Lira Cretese. Nel VI secolo in Grecia con la scuola di Pitagora detta appunto “pitagorica”, la storia del pensiero musicale ha una svolta importante. La scuola che adempiva alle funzioni di setta religiosa-filosofico-politica apre alla musica il concetto di armonia. Filolao dal greco antico Φιλόλαος, è stato un filosofo, astronomo e matematico greco antico. Esponente della corrente pitagorica, asseriva come i rapporti musicali esprimono nel modo più tangibile ed evidente la natura dell’armonia universale e di conseguenza i rapporti tra i suoni, esprimibili in numeri, possono essere assunti come modello di armonia universale. Di interesse, fu parallelamente, lo studio della musica prodotta dagli astri che ruotano nel cosmo secondo leggi numeriche e proporzioni armoniche. Lo studio matematico degli intervalli musicali, così come la divisione della scala, fa nascere proprio il concetto di armonia e di numero. I pitagorici asserivano che “l’animo è armonia”, avvicinando la musica per la prima volta all’essere dell’uomo. La musica può contribuire a ricostruire “l’armonia dell’anima”, turbata da qualche fattore esterno, poiché essa stessa è armonia. Una sorta di purificazione interiore, una “catarsi” che si riallaccia fortemente alla musica e alla medicina, creando il sentimento della “musica, come medicina dell’anima”. Questa possiede così una carica etica e pedagogica che sino ad allora non era stata teorizzata. Fëdor Bronnikov, Pitagorici celebrano il sorgere del sole 1869 Il VI secolo è di grande rilievo anche per la creazione della Tragedia. Questa nasce da un antico canto orgiastico (di carattere rituale) che si riservava al Dio Dionisio e prendeva il nome di Ditirambo o Tragodia. Tragedia (τραγῳδία, trago(i)día o canto del capro che nasce, appunto, dai canti diritambici. A grandi linee, la codificazione rituale dovette avvenire in questi termini: il coro, o meglio i due semicori (con a capo il Corifeo), celebrando le lodi del Dio, venendo ad agire intorno all’altare, (la timelè o Ara) in uno spazio semicircolare che assunse il nome di orchestra (dal greco orkeomai che significa “danzare”). La timelè conserva comunque il centro dello della rappresentazione scenica. Aumentando progressivamente il numero dei personaggi (suddivisi in menadi, ovvero uomini con maschere da donna e da satiri, uomini mascherati da uomini-bestia) si presenta di pari passo l’esigenza di un riparo cui l’attore possa celarsi durante i cambi d’abito. Questo luogo deputato, costituito agli inizi da un semplice siparietto, dal termine greco skené (che significa appunto tenda) assumerà la definizione teatrale di “scena” e verrà ad assumere un ruolo centralizzante nella rappresentazione teatrale, che successivamente verrà sopraelevata sfruttando, in un primo tempo, un rialzo naturale del terreno, o costruendo una pedana in legno. Il rialzo della skené e dello spazio circostante, ancora oggi è definito col termine di proscenio. Questo assetto dello spazio scenico verrà corredato dalla presenza di due corridoi laterali aperti verso l’orchestra, che servivano per le entrate e le uscite dei semicori e che prendevano il nome di paradoi. Trattandosi quindi di rendere partecipi migliaia di spettatori che dovevano, non solo vedere, ma anche ascoltare, il problema poteva essere risolto solo con una sopraelevazione del pubblico stesso. Da questa semplice considerazione nasce la struttura plateale ad anfiteatro chiamato oggi “teatro greco“. Il teatro greco si è sviluppato in forma compiuta solo dopo l’età periclea. Gli elementi suoi caratteristici sono la cavea, area semicircolare a gradoni, dove sedevano prima due scale laterali e infine, da una serie di scalinate radiali chiamate cunei. Nella foto di destra: Odeon di Erode attico sul versante sud dell’Acropoli di Atene. Grecia 161 a.C. Nei primitivi teatri la cavea era formata in terra battuta (teatro di Siracusa, 470 a.C,), solo nel IV secolo a. C. viene realizzata interamente in pietra (Teatro di Epidauro, 370 a. C.). L’orchestra è la zona nella quale in origine e durante tutto il periodo classico agivano i danzatori e i coristi. Più tardi la rappresentazione si sposta in un piano sopraelevato. La sckené, in origine era un fondale di tela posto nell’orchestra, di fronte alla cavea, più tardi costruita in legno per accogliere gli attori durante il cambio dei costumi, fu posto dapprima a fianco dell’orchestra, poi costruita in muratura, fu posta di fronte alla cavea di modo che la parete sull’orchestra serviva da fondale. Un’ultima modifica portò alla formazione del proskenion che consiste in una articolazione a forma di “U” della sckené. Tornando alla storiografia musicale greca, non si può ignorare la scuola platonica. Il filosofo greco Platone (427-347 a.C.) darà un carattere (ethos) diverso alla musicalità. Il filosofo condannando aspramente la musica dei teatri con il loro divertimento che porta: “l’animo umano verso la disgregazione e il caos“, esalta l’ethos della musica che invece, appartiene alla tradizione. Nella, ormai prossima, rivoluzione musicale del V secolo a.C. il conservatore Platone afferma come la musica deve essere una scienza – non più dei sensi – ma della ragione. Se questa operazione si compie e la musica si identifica con la filosofia, si può giungere sino alla massima rappresentazione filosofica in forma di sophia (sapienza). Dunque “filosofare” – se si prende ad esempio il Fedro con il suo mito delle Cicale – significa rendere onore alla musica e la sua appropriazione umana può avvenire solo quando si arriva alla sophia. Conservare la tradizione, dunque, sembra essere lo scopo platonico, poiché attraverso la tradizione si tutela il suo Nomos (valore di legge). Platone basa le sue tesi sull’invenzione del VII secolo a.C. di Terpandro poeta e musicista, il quale genera secondo una rigida legge melodica i Nomoi – termine derivante dalla legge che Platone difende fin dalla prima ora. I Nomoi sono degli schemi melodici composti, da quanto afferma lo Pseudo-Plutarco, per la cetra e la lira: due strumenti consoni alla tradizione dorica di ethos (carattere) pacato e saggio. Aprendo una piccola parentesi, nel III secolo a.C. lo pseudo-Plutarco (per pseudo-Plutarco si intende una fonte attribuita a Plutarco, poi smentita) nel suo trattato del “De Musica” aggiungeva come la musica poteva anche essere fondamento dell’educazione aristocratica, aprendo la via per una musicalità non solo ricreativa, ma etico/conoscitiva. Alla scuola Pitagorica-Platonica si affianca anche il commediografo Aristofane del III secolo a.C., ma è chiaro che siamo in piena lotta accademica per quanto concerne la cultura di riferimento musicale. Si deve a Platone la rottura tra una musica puramente pensata e perciò più apparentata alla matematica in quanto scienza armonica filosofica e dall’altra parte una musica realmente udita ed eseguita. La corrente platonica sarà legata all’etica musicale, ma con un’accentuazione più spiccatamente mistica e religiosa avvicinandosi per certi aspetti alla nuova cultura del neoplatonismo cristiano. Allievo di Platone, Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) ritiene la musica uno strumento sociale ed educativo prendendo una posizione intermediaria tra le due correnti che si venivano formando e stabilizzando. Per Aristotele la musica ha come fine il piacere e come tale rappresenta l’ozio, cioè qualcosa che si oppone al lavoro e alla attività – da comprendere come il concetto di “ozio” non aveva i connotati negativi che possiede oggi, essendo considerato il modo più appropriato di passare il tempo per l’uomo libero e non schiavo. Dunque la musica veniva definita dal filosofo greco come “attività nobile e liberale”. Attività non manuale, quindi degna di un uomo libero. Aristotele, rimane però nella storia musicale per alcune operazioni di grande rilievo. Innanzi tutto definisce meglio l’ethos suddividendo con precisione le categorie che rispecchiano i vari caratteri musicali: _la dorica, equivale ad una armonia di carattere composto e moderato _la frigia, di carattere melodico entusiasmante _la misolidia, melodia caratteriale che induce al dolore e raccoglimento _la lidia, equivale ad un carattere melodico di voluttuosità Unisce la musica ancor più al sentimento umano, inserisce nella tragedia tre unità fondamentali per l’inquadramento teatrale: _luogo: unico con la non ammissione del cambio/scena _tempo: l’esistenza di un unico arco temporale _azione: l’esistenza di un unico fatto In conclusione Aristotele intendeva la pratica musicale come un arte nobile solo quando si fermava alla soglia del virtuosismo che porta fatiche eccessive, non degne di un uomo libero. Nel IV secolo si sviluppa anche la notazione. La prima scrittura musicale greca aveva inizialmente solo una funzione privata per i musicisti e si suddivideva in vocale e strumentale. La prima impiegava i segni dell’alfabeto greco maiuscolo, la seconda segni derivati dall’alfabeto fenicio usati diritti, inclinati o capovolti. Alla scuola pitagorico/platonica si oppone quella definita peripatetica, letteralmente di coloro che passeggiano ragionando e filosofando. Questa corrente accademica opposta, capitanata da Aristosseno (allievo di Aristotele), vedrà protagonisti molti commediografi e filosofi tra cui Democrito, Euripide (spaziamo intorno al IV e III secolo a.C.) e successivamente i suoi allievi Teofrasto e Cleonide (II e I secolo a.C.). Euripide fu tra i tragediografi il più fervente sostenitore di questa riforma: trasfigura la tragedia da rito solenne civile-religioso a spettacolo. Inoltre ridimensiona fortemente il ruolo del Coro per far conquistare spazi di grande autonomia alla musica slegandosi dalla rigorosa corrispondenza tra sillaba e nota musicale. Introduce gli intervalli anarmonici (quarti di tono) e cromatici spezzando la concezione rigidamente razionale della musica e dando al musicista la libertà di variare l’armonia per tutta la durata della composizione rendendo il melodizzare più flessibile. In pieno ellenismo nasce la figura del musicologo, il quale si occupa di musica non più all’interno di un percorso filosofico e pedagogico, ma specialista. Si presta attenzione alla percezione uditiva e si osservano gli aspetti pratici dell’esperienza musicale. Con Aristosseno si apre la strada verso una considerazione estetica della musica, che viene intesa oltre il suo carattere etico. Si definisce definitivamente il concetto di armonia: l’organizzazione ordinata di suoni denominati teleion (perfetto) i quali avevano per base l’estensione della voce umana e degli strumenti. Il teleion sostituisce i nomoi. Questo ingegnoso sistema consisteva in una serie di quattordici suoni disposti in successione discendente, con l’aggiunta al “grave” di un suono supplementare. L’Organizzazione delle ottave era suddivisa in frazioni di quattro suoni o “tetracordi” (quattro note insieme). Oltrepassando la grecità ed arrivando nella penisola italiana, dobbiamo agli etruschi l’invenzione di alcuni strumenti a fiato (archetipi della tromba) come la Tuba, il Cornu e la Bucina. Anche gli Etruschi prima di essere influenzati nel III secolo a.C. dai Greci lo erano stati, sempre a livello musicale, dai popoli mediterranei di derivazione asiatica. Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) – Bacchanale, 1871 La Repubblica romana e successivamente l’Impero ha acquisito totalmente la musicalità dai greci, essendo i romani una civiltà che si fonda sul diritto e non sulla filosofia. L’ideale classico con i suoi significati etici e pedagogici fu del tutto estraneo alla mentalità romana, che si limitò ad ereditare del mondo greco gli usi, le forme e la teoria della musicalità. I Romani prediligevano l’uso della musica sia come strumenti di raccordo-militare, sia come elementi di intrattenimento essenziali per feste e banchetti dove la predominanza di strumenti a fiato e a percussione,rispetto a quelli a corda, era evidente. Per approfondimenti: _Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi _Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°) © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Rocket men: suonare alla famiglia Devil, piano terra Rocket men: suonare alla famiglia Devil, piano terradi Simone Ciccorelli del 16/09/2016 Ringo Star, Jimi Hendrix, John Lennon e Yoko Ono hanno abitato nella stessa casa. Oggi sono personaggi entrati nel culto del Rock e questa abitazione signorile, in una bella zona di Londra (perfetta per novelli sposi benestanti), è diventata nel tempo una Cattedrale del Rock’nRoll tra eccessi e storie controverse che sfiorano ogni catastrofica previsione. Cosa ci fa un binocolo senza custodia e sporco di vernice, in mezzo a buste di eroina, chitarre e quaderni? da sinistra verso destra: Ringo Star, Jimi Hendrix, John Lennon e Yoko Ono. Londra, 34 Montagu Square. Appartamento in zona Westminster, primo piano e seminterrato. Due livelli. E’ una residenza di lusso in cui hanno abitato banchieri, parlamentari e anche una contessa. Un giorno, dopo aver fatto colazione, Ringo Star (il batterista dei Beatles) vede l’annuncio della casa in affitto e decide di visionarla. E’ il febbraio del 1965. Gli dà un’occhiata, si guarda intorno, chiede qualche informazione sul vicinato ed esclama soddisfatto: “La prendo”. E’ la casa perfetta da condividere con Miss Maureen Cox, sposata appena da un mese. Avviene così il loro ingresso in quella che, a loro insaputa, di lì a poco sarebbe diventata una Cattedrale del Rock. I due rimangono per poco nell’appartamento. Si, perché decidono presto di trasferirsi e di subaffittare a quattro ragazzi che si facevano chiamare i “The Fool”; coloro che hanno disegnato i famosi abiti psichedelici dei Beatles in Magical Mistery Tour. Dopo qualche mese e qualche festa ai limiti, se ne vanno anche loro. Zona Westminster, Londra Così Ringo si rivolge a Paul McCartney. “Ti interessa?” “Si, mi ci voleva” Le novità lo hanno sempre attirato e poi viveva lì vicino, dai genitori della sua fidanzata. Era il momento di cambiare aria. Ci ha messo poco a trasformare l’appartamento in uno studio di registrazione casalingo, ed è qui, appunto, che viene registrata “I’m loosing through you”. Paul McCartney vuole rendere l’appartamento un luogo di incontro tra poeti e musicisti, un circo dell’imprevedibilità, senza regole, dove le parole e la musica dominano su qualunque altra cosa. Tutto si svolge all’interno di quelle quattro mura rivestite di una carta da parati verde, di seta. Feste e musica, droga, musica, feste, musica, musica e ancora musica. Fino allo sfinimento, fino a consumarne l’atmosfera e a decidere, pochi mesi dopo, di abbandonarla. A dicembre fa il suo ingresso un semisconosciuto di nome Jimi Hendrix insieme alla sua allora fidanzata Miss Kathy Mary Etchingham. Con loro dividono l’appartamento il bassista degli Animals, Chas Chandler, e la sua donna, Miss Lotta Null. Una sera, a cena, una discussione tra Jimi e Kathy scatena l’inferno. Lei ha passato un intero pomeriggio in cucina a preparare la cena con cura. A tavola, però, Jimi definisce “grumoso” il purè. Lei; equilibrata, pacata, riflessiva e assolutamente razionale, parte come un razzo e tra le urla incontrollabili, decide di scaraventargli addosso tutto il servizio di pentole e di piatti, distruggendo la cucina. Colpendolo alla testa lo lascia steso a terra e scendendo di casa fugge via ancora tra le urla. Finirà anche per cedere alle lusinghe, ormai tanto insistenti, di Eric Burdon il “raccattafemmine” e nel tempo libero cantante degli Animals. Jimi, in preda alla gelosia più estrema, barcollante, prova a correrle dietro fino a raggiungerla e trattenendola per la gonna gliela strappa di dosso con la speranza che si fermi. Niente affatto, Kathy continua il suo tragitto in giarrettiere e mutande, come se nulla fosse. Così, rimasto solo, Jimi rientra a casa afflitto, come ogni uomo rimasto con una gonna in mano, guarda la propria donna correre dalla parte opposta; in giarrettiere, in mutande e in compagnia di un altro uomo. Quella sera scriveràThe wind cryes Mary, dedicandola a lei. Nel frattempo i vicini cominciano a lamentarsi sempre più vivacemente del rumore proveniente dall’appartamento. Questo non basta a fermare Jimi che un pomeriggio travolto dalla musica e dagli effetti dell’LSD, che ormai consuma come fosse caffeina, lancia un barattolo pieno di vernice nera sul muro del salotto ricoprendo con una macchia enorme quella che prima era una parete verde di seta. Una macchia nera in un deserto di seta. Forse lui si sentiva proprio così, prima di diventare un’icona. A questo punto Ringo è costretto a cacciare tutti di casa. Tutti fuori. Per un po’ continua ad affittare ugualmente l’appartamento, ma solo per pochi giorni alla volta e solo ad amici a cui serviva un posto temporaneo a Londra. Tra questi, anche la suocera di John Lennon, che però si ferma un po’ più del previsto. Il 21 giugno del 1968 viene infatti raggiunta anche dalla moglie di John con la figlia, andate via dalla loro casa quando lei, rientrando in appartamento, scopre Lennon con la sua nuova compagna: Miss Yoko Ono. Decidono però di scambiarsi le case: così John Lennon e Yoko Ono si trasferiscono nell’appartamento di Montagu Square, mentre la moglie, con la suocera e la figlia, prendono il suo posto nella vecchia casa coniugale. John Lennon e Yoko Ono sono in un periodo di coppia fantastico. In estasi per tutto quello che condividono: il loro amore, la composizione di nuovi brani e, ovviamente, l’eroina. Un tornado di passioni pronte a risucchiarti l’anima, in quello che lui stesso definisce “uno strano cocktail di amore, sesso e oblio”(il tanto temuto nichilismo), mentre lei sintetizzava la sua vita con “una dieta a base di champagne, caviale ed eroina”. Insomma una bella fotografia: una casa senza dubbio ordinata e pulita. “Amoreeee, sono tornato!” No, devo avere sbagliato scena, genere, vita, pianeta. Ma forse, pensandoci, chi entra in quella casa ha smesso di badare all’ordine interiore già da un po’. Questo è l’appartamento in cui è stata scattata la foto che ritrae i due visti da dietro mentre si voltano, in piedi uno di fianco all’altro nudi, mostrando in primo piano i loro volti e i loro fondoschiena bianchi. Se la sono scattata da soli, con un autoscatto. Gli è stata data la fotocamera e “Fate come volete”. Ed eccoli. Lo scatto è ancora oggi ovunque si parli di musica ed è stato pionieristico e sfacciato, altrimenti non avrebbe fatto tutto quello scandalo al momento della pubblicazione. Ci fu un bombardamento mediatico sulla questione durato mesi. In ogni caso, come ogni piacere e dispiacere nella vita, tutto ha una fine. Il 18 ottobre, in un giorno di eccessi qualunque, qualcuno suona al campanello. “Saranno dei fan” si dicono i due. Non aprono, non ne hanno le forze, sono sdraiati a letto da chissà quante ore. A bussare insistentemente alla porta c’è un agente di polizia con un mandato di perquisizione, accompagnato da altri 6 uomini. Sono la squadra antidroga di Scotland Yard, con al seguito due cani, chiamati Yogi e Bubu. Lennon in un primo momento non crede che i cani abbiano davvero quei nomi e pensa sia tutto uno scherzo di qualche amico, ma non è così. Nonostante questo, Lennon e Yoko Ono sono stati avvertiti qualche giorno prima della retata da un loro amico giornalista e hanno nascosto tutto in tempo. L’arresto di John Lennon. “E’ sua questa custodia di binocolo signor Lennon?” “Si, è mia” Due etti e mezzo di hashish. Arresto. Yoko Ono perde il bambino, il figlio di John Lennon, che nel frattempo si è preso la colpa per l’hashish trovato nella custodia della sua amata. Nemmeno dieci giorni dopo, il proprietario di casa vieta a Ringo di affittare l’appartamento a chiunque. Una notizia bruttissima per Ringo, che ha sempre visto in quella casa la sua Isola del Rock. Non ha avuto scelta e ha rescisso il contratto all’istante. Probabilmente, si è chiuso la porta alle spalle guardando per l’ultima volta quella chiazza enorme di vernice nera e pensando a quanto il mondo abbia bisogno di cose così. Di macchie nere su pareti di seta. Di ascoltare buona musica mentre tutto intorno è un frastuono incomprensibile. Di provocare il tempo. Sfuggente come una donna in giarrettiere e mutande, che se ne va con un altro uomo mentre tu, barcollante, rientri a casa e componi la tua melodia. Quella che ti accompagnerà, prima che tutto finisca. Per approfondimenti: _Renzo Stefanel, Sesso droga e calci in bocca, Giunti © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Emigranti del Jazz: Joe Pass Emigranti del Jazz: Joe Passdi Giovanni Amadio del 01/07/2016 “My father thought I showed signs of being able to play” dichiarò Joe Pass alla Down Beat, e non c’è frase migliore che possa presentare meglio un artista di tale calibro. Parte 1: La Formazione e la Caduta Giuseppe Passalaqua o Joseph Antony Jacobi Passalaqua classe 1929, meglio noto come Joe Pass, era figlio di un Siciliano emigrato negli States. Per l’appunto il signor Mariano Passalacqua, lavoratore di un’acciaieria del New Jersey regalò una chitarra da 17$ al piccolo Giuseppe, di anni nove, auspicandogli una vita migliore della sua. Ci riuscì. Per un Italo-Americano, la prima cosa da fare negli Stati Uniti era “riadattare” il proprio nome così poco “anglofono” e così poco socialmente accettato, quindi Joseph divenne Joe e Passalacqua divenne Pass. Da lì Joe Pass. All’età di quattordici anni Joe militò tra i Gentlemen of Rhythm che si rifacevano alla musica di Django Reinhardt. Swing da ballo e feste, facevano intascare ben 5 dollari a serata, un’enormità per un ragazzino che non poteva ancora lasciare la scuola figuriamoci andare in tourné con Tony Pastor, che voleva strutturarlo nella sua Orchestra. I genitori di Joe presero in pugno la situazione lo mandarono a New York a studiare nella prestigiosa scuola di musica del chitarrista Harry Volpe, anch’egli Italo-Americano. Harry Volpe capì con una certa celerità che la sua scuola di musica non era così poi prestigiosa, infatti, Joe era più bravo di lui a suonare e con la scusa che il sign. Mariano Passalacqua era gravemente malato abbandonò la scuola. “That was my chance to get out. I came to New York, and I was here in 1944 hangin’ around, played some gigs. Then, I got involved in drugs.” (Joe Pass, Rolling Stones) Con la morte del sign. Mariano Passalacqua, comincia il tracollo di Joe: sbando, droga fino al suo arresto e scompare dalla scena. Parte 2: 1963 “nasce” Joe Pass “I spent most of those years just being a bum, doing nothing. It was a great waste of time”. dichiarò alla Down Beat. Non molto soddisfatto dei suoi trascorsi, nel 1963, Joe Pass esce dalla comunità di Synanon a Santa Monica, ripulito. Finalmente decide di lasciarci qualche traccia documentabile del suo straordinario talento. Qui “Sounds of Synanon” 1962, un giovane Joe Pass si affaccia al grande pubblico, con un disco firmato Down Beat: https://www.youtube.com/watch?v=ClK4aVQQu30 La carriera di Joe decolla, la Down Beat lo incorona “nuova stella” e nei successivi dieci anni fino a metà degli anni settanta, incide dischi e collabora con decine di artisti di elevato calibro (Earl Bostie, Julie London, Eddie “Cleanhead” Vinson, Chet Baker, Carmen McRae, Frank Sinatra, Donald O’Connor, Della Reese, Leslie Uggams, Steve Allen, e Johnny Mathis). 1973, Joe è implacabile, un’annata doro per lui che incide al Concord Jazz Festival “Seven, come Eleven” con Herb Ellis, un disco che verrà ricordato per la sintonia tra i diversi approcci allo strumento dei due chitarristi. Il Bebop di Joe si fonde con il blues di Herb: https://www.youtube.com/watch?v=BjCsTmeSUW8 Le sue performance non passano inosservate: a una “nuova stella” si addice un’appena formata etichetta, la Pablo, di Norman Granz, con cui firma una record deal. E’ il 1974 e Joe, molto umilmente, ci lascia una pietra miliare del guitar-solo: “Virtuoso”, un disco incredibile, che mischia poesia, musica e genio di Pass. https://www.youtube.com/watch?v=u1hv0tzrrsg Virtuoso lo mette in mostra trasformandolo nel “Golden Boy” del Jazz. Alla fine del 1974, è “costretto” a condividere il premio per la migliore perfomance Jazz ai Grammy Award con nientepopodimeno che Oscar Peterson e Neils H.O. Pedersen, per il loro lavoro “The Trio”. Un disco tanto appassionante quanto esilarante è la copertina che vede i loro volti posti a scacchiera in maniera casuale. Questo è un estratto di una loro performance di qualche anno dopo, nel 1980, che vede gli artisti protagonisti di The Trio, in un incredibile versione di Just Friends, che ricordiamo per il loro eccezionale talento e la loro sintonia nell’armonia e ritmica. https://www.youtube.com/watch?v=yEu0ULY21UI Parte 3: The most recorded Jazz Guitarist Negli anni 70 e 80 Pass era indubbiamente tra i più influenti artisti dell’epoca, oltre a essere considerato il più produttivo musicalmente tra i chitarristi, sia come solo-guitar sia in gruppo. Il suo stile che mischiava il bebop di Charlie Parker e i fraseggi di Django Reinhardt lo rendevano un chitarrista all’avanguardia nei tempi e unico. Spiccano tra le sue collaborazioni importanti: Duke Ellington, Count Basie, Sarah Vaughan, Stephane Grappelli, Oscar Peterson, Milt Jackson, Zoot Sims, Ray Brown, e Ella Flitzgerald. Parte 4: 1992 lotta contro il cancro Come molti suoi coetanei di fine Novecento, Pass scoprì un tumore al fegato che nel 1994, dopo anni di lotta, gli fece suonare la sua ultima nota. Pass ci lascia un’eredità incredibile sotto tutti i punti di vista sia qualitativi che quantitativi. Una sterminata discografia di dischi interessanti. A quasi 30 anni dell’uscita di “For Django”, un ormai malato Joe Pass riunisce tutti i suoi primi musicisti e amici, ormai arzilli vecchietti, John Pisano (guitar), Jim Hughart (bass) e Colin Bailey (drums) per registrare un ultimo indimenticabile disco: Appassionato. Qui una stupenda versione di Tenderly, dove un ormai sessantenne Joe Pass e i suoi, temprati da anni di esperienza, creano un eccelso interplay. https://www.youtube.com/watch?v=zQHjsaiMk3w Parte 5: Joe Pass e Ella Flitzgerald Pass e Ella Fitzgerald registrarono quattro album insieme per la Pablo Records, verso la fine della carriera della Fitzgerald: Take Love Easy (1973), Fitzgerald and Pass… Again (1976), Speak Love (1983) e Easy Living (1986). La loro sintonia e l’atmosfera che riuscivano a creare assieme era unica, tanto da meritare un’apposita sezione di questo articolo. Collegate il vostro laptop alla tv, mettetevi comodi e spegnete la luce. Signori e Signore, Duets in Hannover. https://www.youtube.com/watch?v=2olBE4C5_Gk © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Crisi della musica colta e chiusura delle orchestre – un periodo di passaggio Crisi della musica colta e chiusura delle orchestre – un periodo di passaggiodi Giuseppe Lori del 01/07/2016 La musica sta attraversando da molti anni ormai un momento molto particolare; potrei usare gli aggettivi “difficile” o “triste” per definire l’attuale situazione ma non sarei giusto nè oggettivo. La realtà è che l’arte (e la musica di conseguenza), si evolve in fasi che gli studiosi amano distinguere, racchiudere, delimitare e poi descrivere. Sono sicuro che questa fase in cui ci troviamo, musicalmente, sia in realtà molto importante, in quanto -passaggio- tra una fase e l’altra. Attualmente i giovani sono attratti in ogni arte, e nella musica più che in altre, da qualunque forma che esibisca…cosa? Forse dovrei chiudere il mio precedente periodo con “esibisca”. Non c’è bisogno di specificare il complemento oggetto perchè il verbo parla da sè di ciò che potrebbe venire dopo. Ci tengo sia chiaro che il mio non vuole essere un giudizio ma una semplice constatazione dei fatti attuali: la musica che viene maggiormente ascoltata è quella che viene fatta ascoltare nelle radio principali, i cui video sono trasmessi sulle maggiori emittenti; i cantanti più famosi sono negli ultimi dieci anni semplicemente quelli che vengono presentati in televisione tramite i format -talent-, quali “Amici”, “X-Factor”, “The Voice”o tramite concorsi ancora importanti come “Sanremo”. Non è certamente un caso che ognuno di questi cantanti, ciascuno di questi musicisti abbia un proprio personaggio particolare e ben definito. Potremmo pensare ad Arisa, Giovanni Allevi, i No Braino (e tutta la banda dei gruppi folk), il cantante dei Modà, Emma Marrone e una lunga lista di colleghi. Tra gli alunni di tutte le età che ho avuto in questi quattro anni di lavoro, ho riscontrato una crescente attenzione, al diminuire dell’età, a ciò che è “spettacolo”. Le iscrizioni ai corsi di canto moderno sono decuplicate nel giro di qualche anno; questa che ai miei occhi è solo una conseguenza delle mosse effettuate in ambito televisivo, mostra una crescente voglia di esibizione, palese volontà di essere al centro dell’attenzione; e quest’ultima considerazione è applicabile non solo in campo musicale. L’ascolto di questo tipo di musica, generalmente definita “Pop”, con poche fuoriuscite da questo macrogenere, hanno portato anche a un aumento delle iscrizioni ai corsi di chitarra elettrica, basso elettrico, pianoforte/tastiera e batteria. Generalmente, tutti questi corsi, condividono un fattore comune non da poco: con poco tempo si possono ottenere risultati tangibili e soddisfacenti. Questa è una cosa bellissima perchè avvicina alla musica molti bambini e ragazzi. Il problema è che sono stati abbandonati altri strumenti che servivano per suonare un altro tipo di musica e non solo. Moltissimi miei alunni scoprono solo a lezione con me come si chiamano, che suono hanno e come sono fatti, strumenti quali l’oboe, il fagotto, il corno, la viola o il violoncello. La musica classica in Italia è di fronte a una vera e propria crisi di braccia e orecchie; l’orchestra sinfonica di Roma ha chiuso i battenti, così molte altre negli ultimi due anni. Così succede che in una delle nazioni dove la musica classica è nata e cresciuta, essa vada a scomparire, laddove in paesi dove essa non era nemmeno mai stata, ora prosperi. Per la maggior parte dei ragazzi, musica classica è sinonimo di “noia”. E non posso certo criticarli: la musica moderna offre enormi attrattive oltre al fatto di essere condivisa da tutti i loro compagni di classe, dalle ragazze che guardano e dai loro amici. Non credo la situazione sia reversibile e non è questa la sede per discutere di come questo sia potuto accadere nello specifico. La sempre più usuale pratica di ottenere molto in poco tempo, applicata ormai in tutti i campi, sta contribuendo a creare nei giovani la convinzione che la meta, altissima, sia davvero la cosa più importante; dimenticando completamente il percorso e la cultura. Lassità e pigrizia, apatia e voglia di perder tempo sono sempre più presenti nei bambini e nei ragazzi, con rarissime eccezioni fortunate che fuoriescono da questo modus operandi. Vorrei fare però un appello importante: le orchestre fanno ancora parte della nostra vita e per molto tempo non ne potremo fare a meno, vi spiego meglio. Quando ascoltiamo una canzone, se essa è davvero bella, è perchè dei professionisti arrangiatori, compositori e orchestrali vi hanno collaborato e hanno creato quel bel prodotto finale di cui il pubblico fruisce. Sotto la osannata voce del cantante, troviamo raffinati tappeti di archi e vibranti stacchi di ottoni che rendono quella particolare canzone così piacevole. Se andiamo al cinema a vedere un film, la potenza delle emozioni che esso può sprigionare è direttamente proporzionale alla qualità e all’adeguatezza della musica orchestrale che ormai le nostre orecchie sono abituate ad associare a determinate scene; per ogni emozione, un tipo di musica. Ed essa viene realizzata ancora grazie a professionisti come quelli sopra nominati. Lo stesso discorso vale per la televisione dove fiction e giochi a premi includono stabilmente temi e musiche famose od originali che contribuiscono al nostro divertimento. Concludo affermando che è vero, siamo in un periodo di passaggio, in cui la musica colta è in crisi, soppiantata, proprio Darwinianamente, come una nuova forma di vita, dalla musica che piace al pubblico. Come ho scritto, tutto questo fa parte di un naturale processo di evoluzione artistico-musicale. Trovo bellissimo che sempre più bimbi si avvicinino alla musica e grazie alla musica pop, noi insegnanti facciamo molta meno fatica a fare in modo che le note non abbandonino più le loro vite, con un conseguente miglioramento della qualità delle stesse. Allo stesso modo, trovo importante che la musica continui a regalarci grandi emozioni e che come tali emozioni vengano infuse in noi, sia scelto dalle persone stesse che la ascoltano. Però va ricordato come insegnanti, alunni, ragazzi, adulti e istituzioni, non dimentichino il nostro patrimonio culturale e musicale. Le meccaniche socio-pedagogiche che sono sempre in movimento dietro a fenomeni come questo, stanno già ponendo in parte rimedio, perchè come sempre succede, arrivati sull’orlo del baratro, ci si ricorda sempre di quanto una cosa sia importante. Non dimentichiamo la dolcezza del suono di un violino e un pianoforte quando guardiamo un film dove nasce un amore, un meraviglioso stacco orchestrale quando due amanti sono costretti a salutarsi o un roboante attacco di una sezione di ottoni quando osserviamo una scena di azione. Tutti gli strumenti moderni cooperano magistralmente con gli antichi strumenti e ne abbiamo prova ogni giorno, anche inconsapevolmente; lo scopo è quello di preservare e rinnovare, contemporaneamente. Come una sorta di virtuale “passaggio di testimone” da un’epoca all’altra, da giovani e meno giovani genitori, ricordiamo ai nostri figli che possono scegliere il loro strumento: la batteria ma anche un delicato oboe come quello di “Gabriel’s Oboe” di Ennio Morricone. Il nostro dovere, come insegnanti, istituzioni e genitori è quello di far “conoscere“, perchè dove c’è conoscenza, si sviluppa “sete“ di altra conoscenza e infine “consapevolezza“. © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Joseph Joachim, quando la perfezione si fa spirito Joseph Joachim, quando la perfezione si fa spiritodi Carlotta Travaglini 02/02/2017 Joseph Joachim fu un violinista, didatta, direttore d’orchestra e compositore ungherese, vissuto tra la prima metà dell’ottocento e gli inizi del novecento. A seguito del trasferimento con la famiglia nella città di Pest, iniziò gli studi col primo violino del teatro dell’opera della sua città, Serwaczynski (più tardi anche maestro di Wieniavski), il miglior violinista della città. Nonostante i suoi genitori non fossero esperti nel settore, furono istruiti nella scelta di un maestro “non ordinario”. All’età di otto anni fa la sua prima esecuzione pubblica, a seguito della quale si sposterà a Vienna, dove seguiterà gli studi al locale Conservatorio sotto la guida di M. Hauser, uno dei violinisti di maggior virtuosismo dell’epoca e George Hellmesberger. In seguito ebbe modo di perfezionarsi più a fondo con Joseph Bohm, fondatore della moderna scuola violinistica ungherese. Allievo dell’insigne Pierre Rode a Budapest, fu particolarmente impegnato come camerista; faceva parte di un quartetto che collaborò anche con Ludwig Van Beethoven, del quale eseguì la prima del Quartetto d’archi op.12. Di lui Joachim ricorda in particolare ed elogia l’innata capacità nell’arte del fraseggio: aveva infatti una straordinaria ed immediata comprensione dell’idea musicale che gli si proponeva, ed era perfettamente in grado di rendere le intenzioni di qualunque autore, il suo violino aggirava qualunque impedimento tecnico o lacuna interpretativa. Adolph von Menzel, Clara Schumann e Josep Joachim in concerto – 1854 Sua cugina, Fanny Figdor, lo ospita a Lipsia: qui Felix Mendelssohn è direttore della Gewandhausorchester Lepzig, orchestra tra le più antiche e prestigiose del mondo. Il maestro, che ne nota le precocissime doti e ne rimane strabiliato, sceglie di seguirlo personalmente, rendendolo un suo protetto. Joseph Joachim si esibirà così svariate volte sotto la direzione del maestro, come insigne solista. La sua prima esecuzione è quella del Concerto per violino di Heinrich Wilhelm Ernst, ma sarà quella del Concerto per violino – op. 61 in re maggiore – di Beethoven a Londra nel 1844, che gli consegnerà gloria imperitura. Negli anni in cui si distinse nell’attività orchestrale, come primo violino di spalla, iniziò a dedicarsi anche alla composizione, in particolare di brani virtuosistici per violino: i primi brani risalgono al 1848 ed arrivano fino agli ultimi anni della sua vita. Dopo la morte di Mendelssohn è al primo leggio della Gewandhausorchester Leipzig assieme al violinista Ferdinand David. In seguito, a Weimar, ha modo di suonare anche nell’orchestra di Franz Liszt, con la cui musica avrà esperienze contrastanti. Liszt infatti è attualmente uno degli esponenti più agguerriti della “Nuova Scuola Tedesca”, assieme ad Hector Berlioz e Richard Wagner, la quale, in sostanza, si faceva promotrice e sostenitrice dell’estetica del contenuto, della volontà di subordinare, in ambito musicale, la forma al contenuto. Ciò consisteva nel prediligere il carattere descrittivo della musica, la sua capacità di rappresentare elementi di varia natura, da aspetti del concreto a concetti elevati oggetto di altre arti. La conseguenza di questo rivoluzionario modo di pensare sarebbe stato un rinnovamento totale e subitaneo dell’intero sistema musicale, nella modifica radicale del lascito delle tradizioni e nell’abbandono di musiche ormai considerate obsolete perché troppo rigide per rispondere a questo imperativo morale. Una forma statica non avrebbe potuto rappresentare nulla: le strutture portanti del passato si sgretolano – in nome della fusione delle arti – dei generi, dei tempi all’interno di un singolo brano, ed il futuro della musica sembra non essere altro se non quello di una “corrente impetuosa e continua”, caratterizzata dalla perenne generazione e rigenerazione. Nella immagine, tre particolari di dipinto rappresentanti: Franz Liszt, Hector Berlioz, Richard Wagner. Joachim dapprima sembrerà apprezzarne le nuove idee musicali: ne è la prova – ad esempio – un Concerto per violino in un movimento, in sol minore, da lui composto nel 1851 e dedicato a Franz Liszt. In seguito – tuttavia – si schiera dalla parte opposta, assolutamente a favore della cosiddetta “musica del passato”. In una lettera al maestro dell’agosto 1857 troviamo scritto: «Non mi è assolutamente simpatica la tua musica; contraddice tutto ciò che dalla prima giovinezza ho appreso come nutrimento per la mente dallo spirito dei nostri grandi maestri». Assieme al compositore Johannes Brahms e ad altri redige un manifesto, nel 1860, portavoce del loro pensiero contro le nuove tendenze progressive. Ad Hannover, nel 1853, avviene uno degli incontri più significativi della sua vita: quello con Johannes Brahms, impegnato in una tournée europea con il violinista Eduard Reméniy. Con il maestro, già noto pianista ed astro nascente della composizione, nasce subito un’intesa, destinata a consolidarsi negli anni. In questo periodo riceve numerosi stimoli alla composizione: tipologie di brani e numerose Cadenze scritte per i più famosi concerti; celebre è quella del Concerto per violino e orchestra di Johannes Brahms, da lui eseguita per la prima volta nel 1879 ed ora frequentemente ripresa dai moderni esecutori. Si distingue anche come camerista: nel 1869 fonda il celebre Quartetto Joachim, che ottiene una risonanza a livelli europei. Fu il primo violinista a registrare brani per una casa discografica; nel 1903 incise due lati per la Grammophone Company, lascito utilissimo per avere un’idea concreta della maniera di suonare il violino ottocentesca. Si dedicò, fin da giovane, anche alla didattica violinistica: fu insegnante al Conservatorio di Lipsia e fondatore della Royal Academy of Music a Berlino (1866). È infatti una delle figure centrali della moderna scuola violinistica tedesca insieme a Ludwig Spohr, che ne è il fondatore. Quartetto Joachim: Joseph Joachim, Heinrich de Ahna, Emanuel Wirth, Robert Hausmann È autore di un’apprezzatissima Violinschule, compilata con Arthur Moser, insegnante di violino particolarmente interessato ai problemi dei bambini. L’opera rappresenta il primo tentativo di fornire all’allievo un metodo “globale”, dove tecnica pura ed arte del fraseggio vengono insegnati ed appresi di pari passo come facenti parte di un unico meccanismo, e non separatamente ed in contesti differenti. Musica e prassi rigorosa fanno parte insieme del dialogo tra maestro ed allievo, che va necessariamente costruito in modo sequenziale e progressivo. Ludwig Spohr, nel suo metodo, considerando tutti gli aspetti necessari ad una ‘buona’ esecuzione musicale, esigeva dal violinista una perfetta intonazione, un rispetto rigoroso del tempo e del valore delle note, la resa dei piano e dei forti; qualora si volesse eccellere in una “bella” esecuzione, allora la si doveva arricchire di un suono gradevole e corposo senza cedimenti, di frasi ben caratterizzate e variegate in ciascuna minuta sfumatura e nella maestria nell’esplorazione degli infiniti timbri dello strumento; un lavoro complesso, al quale lo studente-virtuoso poteva arrivare con zelo e con una spiccata capacità creativa, importantissima nel Romanticismo. Queste indicazioni risultano utili per comprendere come si suonasse il violino ai tempi di Joachim. Il maestro assimila ed amplia considerevolmente la lezione del predecessore: educa infatti fin da subito l’allievo all’interpretazione del pezzo, insegnandogli non una serie di regole obbligate, ma una gradualità che lo elevi dalla meccanica alla musica. Dettagliatamente troviamo il percorso da seguirsi del giovane musicista, espletato da esempi ed immagini. La prassi musicale viene spiegata nei primi due volumi. Leopold Auer, violinista ed importante didatta ungherese, ricorda le massime del maestro come spesso “caotiche”, ed il suo metodo di insegnamento “sempre con il violino in mano”. Da una lettura del suo volume non si notano però tali incongruenze; d’altronde, tra i violinisti che si sono formati nella sua scuola, si parla di un numero maggiore di 400 elementi. Lo stesso Auer non poté non ricordare il maestro con i massimi elogi. Nel secondo volume, in particolare, vengono trattate anche problematiche specifiche dell’intonazione, per definire i quali Joachim stesso si impegnò in studi di acustica applicata con il fisico J. Helmholtz. Vi sono, poi, descrizioni di aspetti dell’esecuzione tipici della musica romantica, come ad esempio i portamenti, piccoli glissati usati a fini espressivi, a cui dedica particolare attenzione, ed il vibrato, che distingue in tipologie diverse a seconda dell’intenzione e della dinamica musicale richiesta allo specifico suono. Johannes Brahms, nel suo “Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler”, scrisse testualmente: “metti per iscritto tutto ciò che senti essere divenuto vero in te, foss’anche solo una reminiscenza“. Joachim dedica il terzo volume interamente all’interpretazione: segno tangibile dell’importanza di questo aspetto nella formazione del musicista. I suoi saggi si incentrano su svariati autori; a partire da Bach, proseguono fin nell’analisi minuta dei più grandi concerti romantici per violino e orchestra, fornendo all’esecutore una delle più sicure fonti sulle originarie intenzioni degli autori dell’epoca. Riporto alcuni estratti dal saggio sul Concerto in mi minore op.64 di Felix Mendelssohn: “All’età di sedici anni ho avuto molte volte il privilegio di eseguire molte volte questo concerto accompagnato dall’autore: conosco quindi bene le sue intenzioni, poiché quando se ne presentava l’occasione egli non risparmiava la critica. Il 1° tema è un tenero lamento, deve essere reso con emozione, ma piano. Si eviteranno accenti troppo marcati, pur disegnando le linee ondulate e le sfumature di colore della melodia. Se volessimo precisare queste linee per mezzo di segni, subito diverrebbero troppo evidenti. […] Si dovrà anche evitare un ritardo troppo pronunciato dove la melodia termina […] (si arriva all’abuso di esagerare la sospensione del tempo, e di opporre subito un allegro ad un adagio!) […] In un estratto dal saggio sul Concerto in re maggiore op.77 di Johannes Brahms: “Il violinista solista fa il suo ingresso con un audace passo ascendente in minore che prosegue con fervore. Gli accordi in ottavi che iniziano alla 9a misura del solo, devono essere realizzati con un suono pieno, ma breve ed energico; il passaggio in quintina si esegue con estrema vivacità ma diminuendo fino alle semicrome con dinamica “piano” che, in una sonorità sempre più eterea, devono giungere al “pianissimo”. Si dovrà tener ben presente l’accompagnamento ricco di temi, ed unirvisi il più strettamente possibile. Dalle terzine dove Brahms scrive “espressivo” è concessa una maggiore libertà interpretativa, senza che per questo il “ritardando” che precede il trillo degeneri in un adagio. […] appare un nuovo episodio, colmo di fascino, che deve essere reso con uno stato d’animo intimo e raffinato, anche nelle decime, pur difficili che siano. Per l’interpretazione di queste ultime è illuminante l’indicazione “lusingando”. […] Dalle analisi del repertorio romantico emerge come la creatività del musicista abbia un ruolo fondamentale nell’esecuzione e nella lettura del pezzo, e come si suonasse in un clima di “libertà” individuale, del cui dispiegamento una maggiore chiarezza dell’architettura del pezzo e una padronanza tecnica senza pari non possono che essere soltanto le basi. Anche il musicista fa parte del processo creativo, al pari del compositore. Ad Hannover, dove il maestro conosce Johannes Brahms, ha a più riprese l’occasione di suonare lui e con Clara Schumann, in occasioni pubbliche e private. Significativo sarà il legame artistico che si salderà in questi anni in casa Schumann, culla di uno dei più pittoreschi e fruttiferi prodotti della convivialità romantica ottocentesca: Robert Schumann è uno dei più grandi compositori dell’epoca romantica; pianista, si dedica anche all’attività giornalistica ed alla critica musicale, fondando una propria rivista, la Neue Zeitschrift für Musik (Nuova Rivista di Musica); sua moglie, Clara Wieck Schumann, è una delle più importanti e talentuose pianiste dell’epoca, impegnata in tournée internazionali. A questa dimora sono legati vari aneddoti, tra i quali la stesura della celebre Sonata F.A.E. In occasione di una visita di Joseph Joachim, Robert Schumann, Albet Dietrich e Johannes Brahms decidono di comporre una sonata per violino e pianoforte in suo onore: di ognuno dei tempi il violinista dovrà riconoscere l’esecutore, e per farlo gliene sarà portata una copia, per non avere indizi dall’originale manoscritta. Schumann si dedica al II ed al IV movimento, Dietrich al I e Brahms al III (il celebre Scherzo). Il titolo richiamerebbe la sequenza di note fa-la-mi (F, A, E, in notazione alfabetica), utilizzate più o meno direttamente dai compositori, ma fa in realtà riferimento, in sigla, al motto di Joachim «Frei aber einsam», “Libero ma solo”. Nuovamente troviamo questa sigla nel taccuino personale di Brahms (Album letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler), prestato per un periodo all’amico Joachim. Al suo interno, tra le citazioni di autori e filosofi noti, il violinista inserisce delle proprie riflessioni ed osservazioni scrivendo, ai piedi di ciascuna, il suo f.a.e. a mo’ di firma, o esprimendolo in lettere o con la corrispettiva sigla musicale: “Quando avvertiamo in noi un embrione di idea, sovente ci sforziamo solo, e con troppa ansia, di farlo venire al mondo il più velocemente possibile, e così si atrofizza prima che si sia riusciti a farlo crescere robusto in noi al punto che da solo, squarciando il nostro petto, come canto aneli verso il cielo”. L’unione artistica, dapprima concretizzatasi nella stesura a quattro mani del manifesto contro la musica “progressista” della Nuova Scuola Tedesca, confluisce in una fedele amicizia. Joachim segue sempre più da vicino l’attività e la ricerca musicale del compositore, e ne incentiva e valuta il processo creativo. Significative saranno le nozioni di tecnica violinistica nel repertorio strumentale. Da questo sodalizio nascerà il celebre Concerto per violino op.77 in re maggiore (1878) del quale Joachim stesso fornirà un utile saggio di estetica e di stile nel III volume della sua Violinschule. Nel 1884 Joachim divorzia dalla moglie Amalie, convinto di una sua presunta relazione con Fritz Simrok, l’editore di Brahms; quest’ultimo interviene con una lettera amichevole scritta a lei, ma i rapporti tra i due si raffreddano ugualmente. Verrà ripristinata solo in seguito, quando Brahms scriverà il Concerto per violino e violoncello op.102 come “offerta di pace” a Joachim. Ogni artista è un Edipo: se si ferma, senza risolverli, dinnanzi agli enigmi del tempo: la Sfinge lo getta nell’abisso dell’oblio ed egli non le transita innanzi verso il futuro dell’immortalità. Joseph Joachim muore nel 1907 a Berlino, dopo una gloriosa carriera di interprete, didatta ed acuto studioso, consacratosi per sempre come leggendario virtuoso del violino. Da fonte di ispirazione e sostegno all’amico Brahms si fece straordinario dispensatore di consigli per tutti gli altri interpreti e compositori a venire, affermandosi come uno dei protagonisti indiscussi del secolo scorso: un musicista a tutto tondo, il cui lascito è destinato ad essere in ogni tempo oggetto di confronto ed arricchimento. “Non elogiate, non ammirate: amate, imitate!“ Per approfondimenti: _Johannes Brahms, Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler, EDT, 2007 _Enciclopedia della musica Garzanti _Enzo Porta, Il violino nella storia: maestri, tecniche, scuole, EDT, 2000 _Renato di Benedetto, Storia della musica: L’Ottocento I, EDT, 1985 Christian Schmidt, Brahms, EDT, 1990 © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata