Rocket men: suonare alla famiglia Devil, piano terra

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Rocket men: Keith Richards, Il pilota,
l’amante e l’immortale
Rocket men: Keith Richards, Il pilota, l’amante e l’immortaledi Simone Ciccorelli del
15/10/2016
“Essere il passeggero di una Ferrari guidata da Keith Richards è un brivido secondo solo a
scendere giù per una collina con Ray Charles al volante. Mi sono quasi ammazzato
drogandomi con lui, ma andarci in auto era anche peggio”
Dalle parole di Nick Kent iniziamo questa chiacchierata su Richards. Il critico seguita nella
descrizione: “Spesso durante i tragitti Richards si dimenticava da che lato guidare e non
aveva mai con sé la patente, la stessa che non ha mai nemmeno preso. O meglio, qualcuno
l’ha presa per lui. Si perché, dopo due tentativi andati male, il chitarrista ha deciso che il
terzo lo avrebbe fatto sostenere proprio al suo autista”.
“Come minimo avrai ipnotizzato l’esaminatore” gli dice Tony Sanchez, il suo spacciatore di
fiducia, quando Keith gli mostra con entusiasmo la patente appena conquistata. E’ l’otto
gennaio del 1966. Richards è l’ultimo degli Rolling Stones a patentarsi e nelle trasferte
precedenti, quando non guidava lui (perché guidare senza patente non è mai stato un
problema), dormiva. Ma lo faceva come in nessun altro posto. Quel furgone che lo portava da
una trasferta all’altra era il suo unico letto e si può dire che dormisse realmente solo a bordo
di quelle quattro ruote.
Keith Richards è un chitarrista, compositore e attore britannico, membro fondatore dei
Rolling Stones.
Una volta, nel 1964, nel bel mezzo delle Midlands, l’autista sbanda mentre lui dorme come un
bambino su un amplificatore a ruote. Urtarono accidentalmente qualcosa e andarono a
sbattere bruscamente. L’ amplificatore/materasso sfondò il portellone del furgone e rotolò giù
per la collina, scivolando in mezzo ai prati, con ancora il chitarrista a bordo.
Gli Stones, disperati e quasi certi che fosse morto, lo hanno cercato per un’ora urlando senza
sosta e perlustrando ogni angolo della zona, fino a quando non lo hanno trovato. Era in una
buca profonda, ancora sdraiato sull’amplificatore, che russava.
La prima volta che Keith guidò fu quando rubò l’auto di Mike Jager, proprio quando il cantante
aveva deciso di tenerla per qualche giorno a riposo dopo aver preso una multa e rischiato
l’arresto.
Così Keith gli prende le chiavi e insieme a James Phelge, il coinquilino, se ne vanno in giro per
Londra per giorni, usando la patente di Tony Calder.
E’ stato il giorno dell’inizio di un rapporto ai limiti del suicidio.
Una delle sue prime auto è Blue Lena. Una Bentley S3 blu, una delle prime con cambio
automatico. Centocinquanta all’ora come fossero per legge e sempre sotto gli effetti di
qualche stupefacente. Il suo colpo preferito è quello verso i cordoli. Li prendeva tutti,
matematico. Di classe.
Keith Richards e la sua Bentley blue-lena
E’ il Natale del 1967 e Keith è in macchina con Michael Cooper, direzione Marrakesh.
Più di sette ore di viaggio al volante per le stradine colme di curve dell’Atlante. Una Peugeot
noleggiata è strozzata dalla volontà di Keith, più spericolato che mai e con il desiderio di
arrivare a destinazione il prima possibile, stanco dalle troppe ore di viaggio e impaziente. Il
piede è pesante, gli occhi anche, ma tutto fila liscio tra un tornante e l’altro, fino a quando
sbucano due moto militari che occupano tutta la carreggiata.
Una ha fatto in tempo a scansarsi per evitarlo mentre lui da parte sua ha cercato di non
colpirle finendo quasi nel precipizio e salvandosi con un controsterzo da
stuntman. Superate le moto è il turno del camion militare ma questa volta Keith va dritto,
non si sposta e urta una moto che precedeva il camion. Finisce contro il cordolo e mentre
affianca il camion si accorge che trasporta un missile enorme, lungo quasi quanto il
convoglio.
Prepara la curva evitando tutto il possibile e finendo con una ruota nel precipizio, ma anche
questa volta riesce a tenere la macchina e a rimettersi nella carreggiata.
Keith, scosso dall’aver rischiato la vita una quarantina di volte in tre curve, ha deciso quindi
di accelerare e di fermarsi alla prima officina per cambiare auto, ormai molestata al punto di
averla consumata. Accelerando si è lasciato dietro di sé un enorme boato, un’esplosione che
non aveva mai sentito prima di quel momento e una nube nera sollevarsi dallo specchietto
retrovisore.
Il giorno dopo ha letto tutti i giornali per rintracciare qualche notizia, ma niente. Nessuno ha
parlato di un grosso boato causato dall’esplosione di qualcosa, magari proprio di un missile,
nel mezzo dei monti del Marocco. E’ salvo, ma qualcun altro no.
Se fosse stato lui a morire forse se ne sarebbe parlato di più, forse. Ma lui non bada a questo
e nella sua autobiografia scrive: “Precipitare in un dirupo a cavallo di un razzo del terzo
mondo sarebbe stato un triste epilogo ma forse era l’unico congedo che si addicesse
all’erede della fortuna degli armamenti Krupp”.
Si, perché questo Krupp era un erede della dinastia di fabbricanti di armi tedesche ed era in
macchina con lui proprio mentre prendeva a sportellate una montagna ed evitava convogli
con missili e moto militari, facendoli poi saltare in aria.
Una delle migliori avventure è senza dubbio quella del 27 marzo 1971.
Il giorno prima aveva partecipato alle registrazioni al Marqee Club per un famoso programma
televisivo.
Si era disintossicato da poco e aveva anche lasciato Anita in clinica per la cura del sonno. Tre
giorni a dormire, questo è quello che prevedeva la terapia; non sentire il dolore dell’astinenza
attraverso il sonno prolungato per giorni.
Keith Richards e Anita Pallenberg
Keith era da poco andato a far riparare la Bentley visto che il giorno prima aveva perso le
chiavi e ha dovuto chiamare la polizia per farsela aprire.
Proprio in quel momento Tony Sanchez riceve una telefonata da Anita, dominata da un
attacco isterico a causa dei sonniferi; non facevano effetto. Si sentiva malissimo, al punto di
impazzire. Infatti impazzì. Strillò al telefono fino a quando Tony non si decise e le promise che
sarebbero andati a riprenderla.
In qualche modo Tony riesce a rintracciare Keith che, ignaro dello stato di Anita, era andato a
bere all’Hilton.
Dopo tre ore scandite dai Margarita insieme a Michael Cooper, che nel frattempo lo
aveva convinto a rifarsi di eroina, i due si lanciarono sulla Bentley, appena riverniciata di
rosa .
“Così la trovo più facilmente”, ha risposto Keith quando gli è stata chiesta la motivazione di
quel colore. L’ha subito ribattezzata “Pink Lena”.
Dopo una serie di Margarita, però, non ci si può mettere al volante, sarebbe da incoscienti.
Quindi Keith e Michael ricorrono alla coca per tirarsi un po’ su. Saggi.
Il motore si accende e al volante c’è uno dei migliori chitarristi al mondo; pieno di alcool, con
i postumi di eroina e ora anche sotto l’effetto di cocaina. Una sicurezza.
Sticky Fingers al massimo volume possibile e si vola da Anita.
Michael durante il tragitto pensa che forse quelli saranno i suoi ultimi minuti da vivo. La
macchina è come una pallina in un flipper e passa da un lato all’altro della strada come se
non ci fossero regole e confini. Sorpassi in ogni direzione, clacson ripetuto a chiunque gli
intralci la strada, litigi e urla, insulti all’ultimo grido con altri automobilisti.
Che equilibrio. Un camion di fronte a lui non ne vuole sapere di spostarsi, viene dalla
direzione opposta e Keith, contromano, la prende come una questione personale.
Strano. Il camion sta per andargli addosso ma lui non si sposta. Vive come se fosse
immortale, fino all’ultimo metro, fino a quando capisce che il camionista non si sarebbe
mosso e che a rimetterci sarebbe stato soltanto lui.
Per evitarlo si schianta senza nemmeno frenare contro una rotonda e si ferma soltanto
quando batte contro una cancellata sfondando tutta la parte anteriore della Pink Lena. I
giornali di quel tempo parlano di “disastro stradale” e “danni per migliaia di dollari”.
Una folla di curiosi sono subito accorsi per vedere cosa fosse successo, temendo forse per la
sua incolumità. Qualcuno ha anche chiamato la polizia, ma nessuno è riuscito a trattenerli.
Keith e Michael sono scesi dall’auto e sono corsi, zoppicando, a casa di Nicky Hopkins, il
pianista che ha collaborato più volte con i Rolling Stones e che viveva a duecento metri da lì.
Il suo aiuto è stato fondamentale. I due si sono nascosti a casa sua e si sono medicati il
medicabile, prima di salire su una limousine chiamata dallo stesso pianista e ripartire in
direzione Anita.
Keith però prima di partire ha deciso di chiamare la sua amata e le ha raccontato della folle
corsa per andare da lei e dell’incidente, ancora eccitato, rassicurandola e dicendole che ci
avrebbero messo poco; che presto sarebbe uscita di lì tra le sue braccia.
La reazione di Anita è la solita strillata isterica per telefono
“Portami un po’ di eroina e me ne vado di qui subito!”
“Ok ok, te ne porterò un po. Ma soltanto un po‘”.
E così andò. Anita uscì dalla clinica e riprese a farsi dopo nemmeno due giorni. Anche Keith
era di nuovo nel vortice, ma poco gli importava. Lui voleva vivere così e ogni restrizione era
un reprimere se stesso e il suo senso alla vita: la spericolatezza, l’incoscienza, il nichilismo e
l’eccesso. Tutto può essere racchiuso nell’immagine di una Bentley Rosa contro una
cancellata, senza più la parte anteriore, fumante e presto abbandonata.
Siamo ai primi di ottobre del 1974 e Richards deve recarsi agli studi della BBC per un
intervista sul suo ultimo album “It’s Only Rock and Roll”, che sarebbe uscito nelle due
settimane successive.
E’ passato del tempo ma lui è sempre lo stesso scalmanato incosciente di qualche anno
prima. Solo con la pelle un po’ più dura e la mente un po’ più libera e distesa grazie ai
successi ottenuti.
Ovviamente, per andare agli studi, la velocità era sempre la stessa, uno standard di
centocinquanta chilometri all’ora che quasi potremmo ribattezzare “Velocità Richards”.
Standard mantenuto dalla sua enorme coerenza anche nelle curve strette delle province
inglesi. L’arrivo agli studios gli illumina un viso pallido e stanco, con i riflessi rallentati di chi
da giorni non chiude occhio. E’ scomposto, trasandato e con un buco al posto di un incisivo.
Le pupille sono dilatate e buie, come fossero una galleria da attraversare in fretta, magari
proprio a centocinquanta all’ora.
Per
i
più
curiosi,
è
possibile
trovare
l’intervista
a
questo
link:
(https://www.youtube.com/watch?v=3knLO2sM-6o).
Guardatela in fretta, ma non troppo. Guardatela come se non doveste morire mai, ma allo
stesso tempo come se aveste soltanto più oggi a disposizione.
Più o meno come ha vissuto lui. Come vive lui. Uno spericolato a bordo di una Bentley rosa,
che dorme sugli amplificatori in mezzo ai rovi e fa esplodere missili militari proprio mentre è
in macchina con un ereditario di fabbriche di armi.
Un amante degli eccessi e dell’autodistruzione controllata ma allo stesso tempo fuori
controllo. Un controsenso vivente, contromano. Guardatela così.
Come se riesciste ad entrare nella galleria dei suoi occhi, attraversandola. Ma fatelo in fretta.
Fatelo alla “Velocità Richards”.
Come si fa? Non lo so, non posso saperlo.
Altrimenti sarei Keith Richards, l’uomo che guida e suona come se stesse per morire, in
eterno.
Per approfondimenti:
_Keith Richards, Life (autobiografia)
_Renzo Stefanel, Sesso Droga e calci in bocca
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
La musica nel mondo antico occidentale
La musica nel mondo antico occidentaledi Giuseppe Baiocchi del 12/10/2016
Se poniamo il quesito sul dove proviene la musica classica, dobbiamo porci alcune importanti
riflessioni.
La disciplina musicale ha avuto un destino storico profondamente diverso rispetto alle altre
arti. Se si parte dalla grandezza della cultura greca, la disciplina musicale – anche se ben
presente – possiede scarse fonti scritte, lasciando spesso fonti extramusicali dei grandi
filosofi greci. Non si riteneva che la musica fosse un’arte da tramandare alla posterità e di
conseguenza questa non è stata accompagnata da una precisa coscienza storica, rendendo
precluso a tale disciplina un principio di dinamico sviluppo.
La tradizione classica della civiltà musicale occidentale può iniziare partendo dalla parola
greca Musichè (μουσική). Questo termine non comprendeva solo la musica, ma altre
discipline umanistiche quali: la poesia, la danza e la ginnastica.
Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) – Saffo e Alceo, 1881 Olio su tela 66×122 cm
Dunque gli antichi preferiscono portare per iscritto inizialmente solo la poesia e così viene
spiegata la mancanza di testi prima del III secolo a.C.
La stessa Musichè greca ha avuto forti influenze dalla civiltà mesopotamica e ne risulta
(nonostante una distinta via culturale/musicale) fortemente contaminata fra le varie etnie e
culture presenti. Tutti gli strumenti musicali antichi come l’arpa, la cetra, il flauto, il sistro
erano tutti già sviluppati in altre aree non elleniche.
Se per le civiltà egizie, ebraiche, fenicie e babilonesi la musica era strettamente legata al rito
religioso, di contro nella civiltà greca la Musichè assume un carattere più laico/ricreativo e
successivamente anche educativo.
Nel periodo del VII secolo a.C. la musica sembra abbia un potere medico-religioso per
acquistare successivamente una dimensione edonistica (concezione filosofica secondo cui il
piacere è il bene sommo dell’uomo e il suo conseguimento il fine esclusivo della vita).
Nel tardo-citaredo (epoca che prende il nome dall’uso del poeta, il quale cantava
accompagnandosi sempre con la cetra) si abbandona la pratica magico/religiosa/curativa e la
musica diviene elemento per le attività ricreative.
Si forma la figura del “cantore” che si accompagna sempre con la lira, il fhorminx o il kitharis,
tutti elementi di derivazione greca che si alternano spesso ad elementi musicali di tipica
derivazione asiatica, come l’aulos e la syrinx.
da sinistra a destra: Lira, Cedra, L’aulòs e il flauto, il Flauto di Pan, Sistri, Cembalo,
Tamburelli, Lira Cretese.
Nel VI secolo in Grecia con la scuola di Pitagora detta appunto “pitagorica”, la storia del
pensiero musicale ha una svolta importante. La scuola che adempiva alle funzioni di setta
religiosa-filosofico-politica apre alla musica il concetto di armonia.
Filolao dal greco antico Φιλόλαος, è stato un filosofo, astronomo e matematico greco antico.
Esponente della corrente pitagorica, asseriva come i rapporti musicali esprimono nel modo
più tangibile ed evidente la natura dell’armonia universale e di conseguenza i rapporti tra i
suoni, esprimibili in numeri, possono essere assunti come modello di armonia universale.
Di interesse, fu parallelamente, lo studio della musica prodotta dagli astri che ruotano nel
cosmo secondo leggi numeriche e proporzioni armoniche.
Lo studio matematico degli intervalli musicali, così come la divisione della scala, fa nascere
proprio il concetto di armonia e di numero.
I pitagorici asserivano che “l’animo è armonia”, avvicinando la musica per la prima volta
all’essere dell’uomo. La musica può contribuire a ricostruire “l’armonia dell’anima”, turbata
da qualche fattore esterno, poiché essa stessa è armonia.
Una sorta di purificazione interiore, una “catarsi” che si riallaccia fortemente alla musica e
alla medicina, creando il sentimento della “musica, come medicina dell’anima”.
Questa possiede così una carica etica e pedagogica che sino ad allora non era stata
teorizzata.
Fëdor Bronnikov, Pitagorici celebrano il sorgere del sole 1869
Il VI secolo è di grande rilievo anche per la creazione della Tragedia. Questa nasce da un
antico canto orgiastico (di carattere rituale) che si riservava al Dio Dionisio e prendeva il
nome di Ditirambo o Tragodia. Tragedia (τραγῳδία, trago(i)día o canto del capro che nasce,
appunto, dai canti diritambici.
A grandi linee, la codificazione rituale dovette avvenire in questi termini: il coro, o meglio i
due semicori (con a capo il Corifeo), celebrando le lodi del Dio, venendo ad agire intorno
all’altare, (la timelè o Ara) in uno spazio semicircolare che assunse il nome di orchestra (dal
greco orkeomai che significa “danzare”).
La timelè conserva comunque il centro dello della rappresentazione scenica.
Aumentando progressivamente il numero dei personaggi (suddivisi in menadi, ovvero uomini
con maschere da donna e da satiri, uomini mascherati da uomini-bestia) si presenta di pari
passo l’esigenza di un riparo cui l’attore possa celarsi durante i cambi d’abito. Questo luogo
deputato, costituito agli inizi da un semplice siparietto, dal termine greco skené (che significa
appunto tenda) assumerà la definizione teatrale di “scena” e verrà ad assumere un ruolo
centralizzante nella rappresentazione teatrale, che successivamente verrà sopraelevata
sfruttando, in un primo tempo, un rialzo naturale del terreno, o costruendo una pedana in
legno.
Il rialzo della skené e dello spazio circostante, ancora oggi è definito col termine di proscenio.
Questo assetto dello spazio scenico verrà corredato dalla presenza di due corridoi laterali
aperti verso l’orchestra, che servivano per le entrate e le uscite dei semicori e che
prendevano il nome di paradoi.
Trattandosi quindi di rendere partecipi migliaia di spettatori che dovevano, non solo vedere,
ma anche ascoltare, il problema poteva essere risolto solo con una sopraelevazione del
pubblico stesso. Da questa semplice considerazione nasce la struttura plateale ad anfiteatro
chiamato oggi “teatro greco“.
Il teatro greco si è sviluppato in forma compiuta solo dopo l’età periclea. Gli elementi suoi
caratteristici sono la cavea, area semicircolare a gradoni, dove sedevano prima due scale
laterali e infine, da una serie di scalinate radiali chiamate cunei.
Nella foto di destra: Odeon di Erode attico sul versante sud dell’Acropoli di Atene. Grecia 161
a.C.
Nei primitivi teatri la cavea era formata in terra battuta (teatro di Siracusa, 470 a.C,), solo nel
IV secolo a. C. viene realizzata interamente in pietra (Teatro di Epidauro, 370 a. C.).
L’orchestra è la zona nella quale in origine e durante tutto il periodo classico agivano i
danzatori e i coristi. Più tardi la rappresentazione si sposta in un piano sopraelevato. La
sckené, in origine era un fondale di tela posto nell’orchestra, di fronte alla cavea, più tardi
costruita in legno per accogliere gli attori durante il cambio dei costumi, fu posto dapprima a
fianco dell’orchestra, poi costruita in muratura, fu posta di fronte alla cavea di modo che la
parete sull’orchestra serviva da fondale.
Un’ultima modifica portò alla formazione del proskenion che consiste in una articolazione a
forma di “U” della sckené.
Tornando alla storiografia musicale greca, non si può ignorare la scuola platonica. Il filosofo
greco Platone (427-347 a.C.) darà un carattere (ethos) diverso alla musicalità.
Il filosofo condannando aspramente la musica dei teatri con il loro divertimento che porta:
“l’animo umano verso la disgregazione e il caos“, esalta l’ethos della musica che invece,
appartiene alla tradizione. Nella, ormai prossima, rivoluzione musicale del V secolo a.C. il
conservatore Platone afferma come la musica deve essere una scienza – non più dei sensi –
ma della ragione.
Se questa operazione si compie e la musica si identifica con la filosofia, si può giungere sino
alla massima rappresentazione filosofica in forma di sophia (sapienza).
Dunque “filosofare” – se si prende ad esempio il Fedro con il suo mito delle Cicale – significa
rendere onore alla musica e la sua appropriazione umana può avvenire solo quando si arriva
alla sophia. Conservare la tradizione, dunque, sembra essere lo scopo platonico, poiché
attraverso la tradizione si tutela il suo Nomos (valore di legge).
Platone basa le sue tesi sull’invenzione del VII secolo a.C. di Terpandro poeta e musicista, il
quale genera secondo una rigida legge melodica i Nomoi – termine derivante dalla legge che
Platone difende fin dalla prima ora.
I Nomoi sono degli schemi melodici composti, da quanto afferma lo Pseudo-Plutarco, per la
cetra e la lira: due strumenti consoni alla tradizione dorica di ethos (carattere) pacato e
saggio.
Aprendo una piccola parentesi, nel III secolo a.C. lo pseudo-Plutarco (per pseudo-Plutarco si
intende una fonte attribuita a Plutarco, poi smentita) nel suo trattato del “De Musica”
aggiungeva come la musica poteva anche essere fondamento dell’educazione aristocratica,
aprendo la via per una musicalità non solo ricreativa, ma etico/conoscitiva.
Alla scuola Pitagorica-Platonica si affianca anche il commediografo Aristofane del III secolo
a.C., ma è chiaro che siamo in piena lotta accademica per quanto concerne la cultura di
riferimento musicale. Si deve a Platone la rottura tra una musica puramente pensata e perciò
più apparentata alla matematica in quanto scienza armonica filosofica e dall’altra parte una
musica realmente udita ed eseguita. La corrente platonica sarà legata all’etica musicale, ma
con un’accentuazione più spiccatamente mistica e religiosa avvicinandosi per certi aspetti
alla nuova cultura del neoplatonismo cristiano.
Allievo di Platone, Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) ritiene la musica uno strumento sociale ed
educativo prendendo una posizione intermediaria tra le due correnti che si venivano
formando e stabilizzando. Per Aristotele la musica ha come fine il piacere e come tale
rappresenta l’ozio, cioè qualcosa che si oppone al lavoro e alla attività – da comprendere
come il concetto di “ozio” non aveva i connotati negativi che possiede oggi, essendo
considerato il modo più appropriato di passare il tempo per l’uomo libero e non
schiavo. Dunque la musica veniva definita dal filosofo greco come “attività nobile e liberale”.
Attività non manuale, quindi degna di un uomo libero.
Aristotele, rimane però nella storia musicale per alcune operazioni di grande rilievo. Innanzi
tutto definisce meglio l’ethos suddividendo con precisione le categorie che rispecchiano i vari
caratteri musicali:
_la dorica, equivale ad una armonia di carattere composto e moderato
_la frigia, di carattere melodico entusiasmante
_la misolidia, melodia caratteriale che induce al dolore e raccoglimento
_la lidia, equivale ad un carattere melodico di voluttuosità
Unisce la musica ancor più al sentimento umano, inserisce nella tragedia tre unità
fondamentali per l’inquadramento teatrale:
_luogo: unico con la non ammissione del cambio/scena
_tempo: l’esistenza di un unico arco temporale
_azione: l’esistenza di un unico fatto
In conclusione Aristotele intendeva la pratica musicale come un arte nobile solo quando si
fermava alla soglia del virtuosismo che porta fatiche eccessive, non degne di un uomo libero.
Nel IV secolo si sviluppa anche la notazione. La prima scrittura musicale greca aveva
inizialmente solo una funzione privata per i musicisti e si suddivideva in vocale e
strumentale. La prima impiegava i segni dell’alfabeto greco maiuscolo, la seconda segni
derivati dall’alfabeto fenicio usati diritti, inclinati o capovolti.
Alla scuola pitagorico/platonica si oppone quella definita peripatetica, letteralmente di coloro
che passeggiano ragionando e filosofando. Questa corrente accademica opposta, capitanata
da Aristosseno (allievo di Aristotele), vedrà protagonisti molti commediografi e filosofi tra cui
Democrito, Euripide (spaziamo intorno al IV e III secolo a.C.) e successivamente i suoi allievi
Teofrasto e Cleonide (II e I secolo a.C.).
Euripide fu tra i tragediografi il più fervente sostenitore di questa riforma: trasfigura la
tragedia da rito solenne civile-religioso a spettacolo. Inoltre ridimensiona fortemente il ruolo
del Coro per far conquistare spazi di grande autonomia alla musica slegandosi dalla rigorosa
corrispondenza tra sillaba e nota musicale. Introduce gli intervalli anarmonici (quarti di tono)
e cromatici spezzando la concezione rigidamente razionale della musica e dando al musicista
la libertà di variare l’armonia per tutta la durata della composizione rendendo il melodizzare
più flessibile.
In pieno ellenismo nasce la figura del musicologo, il quale si occupa di musica non più
all’interno di un percorso filosofico e pedagogico, ma specialista.
Si presta attenzione alla percezione uditiva e si osservano gli aspetti pratici dell’esperienza
musicale.
Con Aristosseno si apre la strada verso una considerazione estetica della musica, che viene
intesa oltre il suo carattere etico. Si definisce definitivamente il concetto di armonia:
l’organizzazione ordinata di suoni denominati teleion (perfetto) i quali avevano per base
l’estensione della voce umana e degli strumenti. Il teleion sostituisce i nomoi. Questo
ingegnoso sistema consisteva in una serie di quattordici suoni disposti in successione
discendente, con l’aggiunta al “grave” di un suono supplementare. L’Organizzazione delle
ottave era suddivisa in frazioni di quattro suoni o “tetracordi” (quattro note insieme).
Oltrepassando la grecità ed arrivando nella penisola italiana, dobbiamo agli etruschi
l’invenzione di alcuni strumenti a fiato (archetipi della tromba) come la Tuba, il Cornu e la
Bucina. Anche gli Etruschi prima di essere influenzati nel III secolo a.C. dai Greci lo erano
stati, sempre a livello musicale, dai popoli mediterranei di derivazione asiatica.
Alma-Tadema, Sir Lawrence (1836-1912) – Bacchanale, 1871
La Repubblica romana e successivamente l’Impero ha acquisito totalmente la musicalità dai
greci, essendo i romani una civiltà che si fonda sul diritto e non sulla filosofia. L’ideale
classico con i suoi significati etici e pedagogici fu del tutto estraneo alla mentalità romana,
che si limitò ad ereditare del mondo greco gli usi, le forme e la teoria della musicalità. I
Romani prediligevano l’uso della musica sia come strumenti di raccordo-militare, sia come
elementi di intrattenimento essenziali per feste e banchetti dove la predominanza di
strumenti a fiato e a percussione,rispetto a quelli a corda, era evidente.
Per approfondimenti:
_Baroni, Fubini, Petazzi, Santi, Vinay – Storia della musica – edizioni Piccola biblioteca Einaudi
_Elvidio Surian – Manuale di storia della musica, vol.1 – edizioni Rugginenti (6°)
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
Rocket men: suonare alla famiglia Devil,
piano terra
Rocket men: suonare alla famiglia Devil, piano terradi Simone Ciccorelli del 16/09/2016
Ringo Star, Jimi Hendrix, John Lennon e Yoko Ono hanno abitato nella stessa casa. Oggi sono
personaggi entrati nel culto del Rock e questa abitazione signorile, in una bella zona di
Londra (perfetta per novelli sposi benestanti), è diventata nel tempo una Cattedrale del
Rock’nRoll tra eccessi e storie controverse che sfiorano ogni catastrofica previsione. Cosa ci
fa un binocolo senza custodia e sporco di vernice, in mezzo a buste di eroina, chitarre e
quaderni?
da sinistra verso destra: Ringo Star, Jimi Hendrix, John Lennon e Yoko Ono.
Londra, 34 Montagu Square. Appartamento in zona Westminster, primo piano e seminterrato.
Due livelli. E’ una residenza di lusso in cui hanno abitato banchieri, parlamentari e anche una
contessa. Un giorno, dopo aver fatto colazione, Ringo Star (il batterista dei Beatles) vede
l’annuncio della casa in affitto e decide di visionarla. E’ il febbraio del 1965.
Gli dà un’occhiata, si guarda intorno, chiede qualche informazione sul vicinato ed esclama
soddisfatto: “La prendo”. E’ la casa perfetta da condividere con Miss Maureen Cox, sposata
appena da un mese. Avviene così il loro ingresso in quella che, a loro insaputa, di lì a poco
sarebbe diventata una Cattedrale del Rock.
I due rimangono per poco nell’appartamento. Si, perché decidono presto di trasferirsi e
di subaffittare a quattro ragazzi che si facevano chiamare i “The Fool”; coloro che hanno
disegnato i famosi abiti psichedelici dei Beatles in Magical Mistery Tour. Dopo qualche mese e
qualche festa ai limiti, se ne vanno anche loro.
Zona Westminster, Londra
Così Ringo si rivolge a Paul McCartney.
“Ti interessa?”
“Si, mi ci voleva”
Le novità lo hanno sempre attirato e poi viveva lì vicino, dai genitori della sua fidanzata. Era
il momento di cambiare aria. Ci ha messo poco a trasformare l’appartamento in uno studio di
registrazione casalingo, ed è qui, appunto, che viene registrata “I’m loosing through
you”. Paul McCartney vuole rendere l’appartamento un luogo di incontro tra poeti e musicisti,
un circo dell’imprevedibilità, senza regole, dove le parole e la musica dominano su qualunque
altra cosa.
Tutto si svolge all’interno di quelle quattro mura rivestite di una carta da parati verde, di
seta. Feste e musica, droga, musica, feste, musica, musica e ancora musica.
Fino allo sfinimento, fino a consumarne l’atmosfera e a decidere, pochi mesi dopo, di
abbandonarla.
A dicembre fa il suo ingresso un semisconosciuto di nome Jimi Hendrix insieme alla sua allora
fidanzata Miss Kathy Mary Etchingham. Con loro dividono l’appartamento il bassista degli
Animals, Chas Chandler, e la sua donna, Miss Lotta Null. Una sera, a cena, una discussione
tra Jimi e Kathy scatena l’inferno.
Lei ha passato un intero pomeriggio in cucina a preparare la cena con cura. A tavola, però,
Jimi definisce “grumoso” il purè.
Lei; equilibrata, pacata, riflessiva e assolutamente razionale, parte come un razzo e tra le
urla incontrollabili, decide di scaraventargli addosso tutto il servizio di pentole e di piatti,
distruggendo la cucina. Colpendolo alla testa lo lascia steso a terra e scendendo di casa
fugge via ancora tra le urla. Finirà anche per cedere alle lusinghe, ormai tanto insistenti, di
Eric Burdon il “raccattafemmine” e nel tempo libero cantante degli Animals. Jimi, in preda alla
gelosia più estrema, barcollante, prova a correrle dietro fino a raggiungerla e trattenendola
per la gonna gliela strappa di dosso con la speranza che si fermi. Niente affatto, Kathy
continua il suo tragitto in giarrettiere e mutande, come se nulla fosse. Così, rimasto solo, Jimi
rientra a casa afflitto, come ogni uomo rimasto con una gonna in mano, guarda la propria
donna correre dalla parte opposta; in giarrettiere, in mutande e in compagnia di un altro
uomo. Quella sera scriveràThe wind cryes Mary, dedicandola a lei. Nel frattempo i vicini
cominciano a lamentarsi sempre più vivacemente del rumore proveniente dall’appartamento.
Questo non basta a fermare Jimi che un pomeriggio travolto dalla musica e dagli effetti
dell’LSD, che ormai consuma come fosse caffeina, lancia un barattolo pieno di vernice nera
sul muro del salotto ricoprendo con una macchia enorme quella che prima era una parete
verde di seta. Una macchia nera in un deserto di seta. Forse lui si sentiva proprio così, prima
di diventare un’icona.
A questo punto Ringo è costretto a cacciare tutti di casa. Tutti fuori.
Per un po’ continua ad affittare ugualmente l’appartamento, ma solo per pochi giorni alla
volta e solo ad amici a cui serviva un posto temporaneo a Londra. Tra questi, anche la
suocera di John Lennon, che però si ferma un po’ più del previsto. Il 21 giugno del 1968 viene
infatti raggiunta anche dalla moglie di John con la figlia, andate via dalla loro casa quando lei,
rientrando in appartamento, scopre Lennon con la sua nuova compagna: Miss Yoko Ono.
Decidono però di scambiarsi le case: così John Lennon e Yoko Ono si trasferiscono
nell’appartamento di Montagu Square, mentre la moglie, con la suocera e la figlia, prendono
il suo posto nella vecchia casa coniugale. John Lennon e Yoko Ono sono in un periodo di
coppia fantastico. In estasi per tutto quello che condividono: il loro amore, la composizione di
nuovi brani e, ovviamente, l’eroina. Un tornado di passioni pronte a risucchiarti l’anima, in
quello che lui stesso definisce “uno strano
cocktail di amore, sesso e oblio”(il tanto temuto nichilismo), mentre lei sintetizzava la sua
vita con “una dieta a base di champagne, caviale ed eroina”.
Insomma una bella fotografia: una casa senza dubbio ordinata e pulita. “Amoreeee, sono
tornato!” No, devo avere sbagliato scena, genere, vita, pianeta.
Ma forse, pensandoci, chi entra in quella casa ha smesso di badare all’ordine interiore già da
un po’. Questo è l’appartamento in cui è stata scattata la foto che ritrae i due visti da dietro
mentre si voltano, in piedi uno di fianco all’altro nudi, mostrando in primo piano i loro volti e i
loro fondoschiena bianchi.
Se la sono scattata da soli, con un autoscatto. Gli è stata data la fotocamera e “Fate come
volete”. Ed eccoli. Lo scatto è ancora oggi ovunque si parli di musica ed è stato pionieristico e
sfacciato, altrimenti non avrebbe fatto tutto quello scandalo al momento della pubblicazione.
Ci fu un bombardamento mediatico sulla questione durato mesi. In ogni caso, come ogni
piacere e dispiacere nella vita, tutto ha una fine. Il 18 ottobre, in un giorno di eccessi
qualunque, qualcuno suona al campanello.
“Saranno dei fan” si dicono i due. Non aprono, non ne hanno le forze, sono sdraiati a letto da
chissà quante ore.
A bussare insistentemente alla porta c’è un agente di polizia con un mandato di
perquisizione, accompagnato da altri 6 uomini. Sono la squadra antidroga di Scotland Yard,
con al seguito due cani, chiamati Yogi e Bubu. Lennon in un primo momento non crede che i
cani abbiano davvero quei nomi e pensa sia tutto uno scherzo di qualche amico, ma non è
così. Nonostante questo, Lennon e Yoko Ono sono stati avvertiti qualche giorno prima della
retata da un loro amico giornalista e hanno nascosto tutto in tempo.
L’arresto di John Lennon.
“E’ sua questa custodia di binocolo signor Lennon?”
“Si, è mia”
Due etti e mezzo di hashish. Arresto. Yoko Ono perde il bambino, il figlio di John Lennon, che
nel frattempo si è preso la colpa per l’hashish trovato nella custodia della sua amata.
Nemmeno dieci giorni dopo, il proprietario di casa vieta a Ringo di affittare l’appartamento a
chiunque.
Una notizia bruttissima per Ringo, che ha sempre visto in quella casa la sua Isola del Rock.
Non ha avuto scelta e ha rescisso il contratto all’istante.
Probabilmente, si è chiuso la porta alle spalle guardando per l’ultima volta quella chiazza
enorme di vernice nera e pensando a quanto il mondo abbia bisogno di cose così. Di macchie
nere su pareti di seta. Di ascoltare buona musica mentre tutto intorno è un frastuono
incomprensibile. Di provocare il tempo. Sfuggente come una donna in giarrettiere e mutande,
che se ne va con un altro uomo mentre tu, barcollante, rientri a casa e componi la tua
melodia. Quella che ti accompagnerà, prima che tutto finisca.
Per approfondimenti:
_Renzo Stefanel, Sesso droga e calci in bocca, Giunti
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Emigranti del Jazz: Joe Pass
Emigranti del Jazz: Joe Passdi Giovanni Amadio del 01/07/2016
“My father thought I showed signs of being able to play” dichiarò Joe Pass alla Down Beat, e
non c’è frase migliore che possa presentare meglio un artista di tale calibro.
Parte 1: La Formazione e la Caduta
Giuseppe Passalaqua o Joseph Antony Jacobi Passalaqua classe 1929, meglio noto come Joe
Pass, era figlio di un Siciliano emigrato negli States.
Per l’appunto il signor Mariano Passalacqua, lavoratore di un’acciaieria del New Jersey regalò
una chitarra da 17$ al piccolo Giuseppe, di anni nove, auspicandogli una vita migliore della
sua. Ci riuscì.
Per un Italo-Americano, la prima cosa da fare negli Stati Uniti era “riadattare” il proprio nome
così poco “anglofono” e così poco socialmente accettato, quindi Joseph divenne Joe e
Passalacqua divenne Pass. Da lì Joe Pass.
All’età di quattordici anni Joe militò tra i Gentlemen of Rhythm che si rifacevano alla musica
di Django Reinhardt. Swing da ballo e feste, facevano intascare ben 5 dollari a serata,
un’enormità per un ragazzino che non poteva ancora lasciare la scuola figuriamoci andare in
tourné con Tony Pastor, che voleva strutturarlo nella sua Orchestra.
I genitori di Joe presero in pugno la situazione lo mandarono a New York a studiare nella
prestigiosa scuola di musica del chitarrista Harry Volpe, anch’egli Italo-Americano.
Harry Volpe capì con una certa celerità che la sua scuola di musica non era così poi
prestigiosa, infatti, Joe era più bravo di lui a suonare e con la scusa che il sign. Mariano
Passalacqua era gravemente malato abbandonò la scuola.
“That was my chance to get out. I came to New York, and I was here in 1944 hangin’ around,
played some gigs. Then, I got involved in drugs.” (Joe Pass, Rolling Stones)
Con la morte del sign. Mariano Passalacqua, comincia il tracollo di Joe: sbando, droga fino al
suo arresto e scompare dalla scena.
Parte 2: 1963 “nasce” Joe Pass
“I spent most of those years just being a bum, doing nothing. It was a great waste of
time”. dichiarò alla Down Beat.
Non molto soddisfatto dei suoi trascorsi, nel 1963, Joe Pass esce dalla comunità di Synanon a
Santa Monica, ripulito.
Finalmente decide di lasciarci qualche traccia documentabile del suo straordinario talento.
Qui “Sounds of Synanon” 1962, un giovane Joe Pass si affaccia al grande pubblico, con un
disco firmato Down Beat:
https://www.youtube.com/watch?v=ClK4aVQQu30
La carriera di Joe decolla, la Down Beat lo incorona “nuova stella” e nei successivi dieci anni
fino a metà degli anni settanta, incide dischi e collabora con decine di artisti di elevato
calibro (Earl Bostie, Julie London, Eddie “Cleanhead” Vinson, Chet Baker, Carmen McRae,
Frank Sinatra, Donald O’Connor, Della Reese, Leslie Uggams, Steve Allen, e Johnny Mathis).
1973, Joe è implacabile, un’annata doro per lui che incide al Concord Jazz Festival “Seven,
come Eleven” con Herb Ellis, un disco che verrà ricordato per la sintonia tra i diversi approcci
allo strumento dei due chitarristi. Il Bebop di Joe si fonde con il blues di Herb:
https://www.youtube.com/watch?v=BjCsTmeSUW8
Le sue performance non passano inosservate: a una “nuova stella” si addice un’appena
formata etichetta, la Pablo, di Norman Granz, con cui firma una record deal.
E’ il 1974 e Joe, molto umilmente, ci lascia una pietra miliare del guitar-solo: “Virtuoso”, un
disco incredibile, che mischia poesia, musica e genio di Pass.
https://www.youtube.com/watch?v=u1hv0tzrrsg
Virtuoso lo mette in mostra trasformandolo nel “Golden Boy” del Jazz.
Alla fine del 1974, è “costretto” a condividere il premio per la migliore perfomance Jazz ai
Grammy Award con nientepopodimeno che Oscar Peterson e Neils H.O. Pedersen, per il loro
lavoro “The Trio”.
Un disco tanto appassionante quanto esilarante è la copertina che vede i loro volti posti a
scacchiera in maniera casuale.
Questo è un estratto di una loro performance di qualche anno dopo, nel 1980, che vede gli
artisti protagonisti di The Trio, in un incredibile versione di Just Friends, che ricordiamo per il
loro eccezionale talento e la loro sintonia nell’armonia e ritmica.
https://www.youtube.com/watch?v=yEu0ULY21UI
Parte 3: The most recorded Jazz Guitarist
Negli anni 70 e 80 Pass era indubbiamente tra i più influenti artisti dell’epoca, oltre a essere
considerato il più produttivo musicalmente tra i chitarristi, sia come solo-guitar sia in gruppo.
Il suo stile che mischiava il bebop di Charlie Parker e i fraseggi di Django Reinhardt lo
rendevano un chitarrista all’avanguardia nei tempi e unico. Spiccano tra le sue collaborazioni
importanti: Duke Ellington, Count Basie, Sarah Vaughan, Stephane Grappelli, Oscar Peterson,
Milt Jackson, Zoot Sims, Ray Brown, e Ella Flitzgerald.
Parte 4: 1992 lotta contro il cancro
Come molti suoi coetanei di fine Novecento, Pass scoprì un tumore al fegato che nel 1994,
dopo anni di lotta, gli fece suonare la sua ultima nota.
Pass ci lascia un’eredità incredibile sotto tutti i punti di vista sia qualitativi che quantitativi.
Una sterminata discografia di dischi interessanti.
A quasi 30 anni dell’uscita di “For Django”, un ormai malato Joe Pass riunisce tutti i suoi primi
musicisti e amici, ormai arzilli vecchietti, John Pisano (guitar), Jim Hughart (bass) e Colin
Bailey (drums) per registrare un ultimo indimenticabile disco: Appassionato.
Qui una stupenda versione di Tenderly, dove un ormai sessantenne Joe Pass e i suoi, temprati
da
anni
di
esperienza,
creano
un
eccelso
interplay.
https://www.youtube.com/watch?v=zQHjsaiMk3w
Parte 5: Joe Pass e Ella Flitzgerald
Pass e Ella Fitzgerald registrarono quattro album insieme per la Pablo Records, verso la fine
della carriera della Fitzgerald: Take Love Easy (1973), Fitzgerald and Pass… Again (1976),
Speak Love (1983) e Easy Living (1986).
La loro sintonia e l’atmosfera che riuscivano a creare assieme era unica, tanto da meritare
un’apposita sezione di questo articolo.
Collegate il vostro laptop alla tv, mettetevi comodi e spegnete la luce.
Signori e Signore, Duets in Hannover.
https://www.youtube.com/watch?v=2olBE4C5_Gk
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Crisi della musica colta e chiusura delle
orchestre – un periodo di passaggio
Crisi della musica colta e chiusura delle orchestre – un periodo di passaggiodi Giuseppe Lori
del 01/07/2016
La musica sta attraversando da molti anni ormai un momento molto particolare; potrei usare
gli aggettivi “difficile” o “triste” per definire l’attuale situazione ma non sarei giusto nè
oggettivo.
La realtà è che l’arte (e la musica di conseguenza), si evolve in fasi che gli studiosi amano
distinguere, racchiudere, delimitare e poi descrivere.
Sono sicuro che questa fase in cui ci troviamo, musicalmente, sia in realtà molto importante,
in quanto -passaggio- tra una fase e l’altra.
Attualmente i giovani sono attratti in ogni arte, e nella musica più che in altre, da qualunque
forma che esibisca…cosa?
Forse dovrei chiudere il mio precedente periodo con “esibisca”. Non c’è bisogno di specificare
il complemento oggetto perchè il verbo parla da sè di ciò che potrebbe venire dopo.
Ci tengo sia chiaro che il mio non vuole essere un giudizio ma una semplice constatazione dei
fatti attuali: la musica che viene maggiormente ascoltata è quella che viene fatta ascoltare
nelle radio principali, i cui video sono trasmessi sulle maggiori emittenti; i cantanti più famosi
sono negli ultimi dieci anni semplicemente quelli che vengono presentati in televisione
tramite i format -talent-, quali “Amici”, “X-Factor”, “The Voice”o tramite concorsi ancora
importanti come “Sanremo”.
Non è certamente un caso che ognuno di questi cantanti, ciascuno di questi musicisti abbia
un proprio personaggio particolare e ben definito.
Potremmo pensare ad Arisa, Giovanni Allevi, i No Braino (e tutta la banda dei gruppi folk), il
cantante dei Modà, Emma Marrone e una lunga lista di colleghi.
Tra gli alunni di tutte le età che ho avuto in questi quattro anni di lavoro, ho riscontrato una
crescente attenzione, al diminuire dell’età, a ciò che è “spettacolo”. Le iscrizioni ai corsi di
canto moderno sono decuplicate nel giro di qualche anno; questa che ai miei occhi è solo una
conseguenza delle mosse effettuate in ambito televisivo, mostra una crescente voglia di
esibizione, palese volontà di essere al centro dell’attenzione; e quest’ultima considerazione è
applicabile non solo in campo musicale.
L’ascolto di questo tipo di musica, generalmente definita “Pop”, con poche fuoriuscite da
questo macrogenere, hanno portato anche a un aumento delle iscrizioni ai corsi di chitarra
elettrica, basso elettrico, pianoforte/tastiera e batteria.
Generalmente, tutti questi corsi, condividono un fattore comune non da poco: con poco
tempo si possono ottenere risultati tangibili e soddisfacenti. Questa è una cosa bellissima
perchè avvicina alla musica molti bambini e ragazzi. Il problema è che sono stati abbandonati
altri strumenti che servivano per suonare un altro tipo di musica e non solo.
Moltissimi miei alunni scoprono solo a lezione con me come si chiamano, che suono hanno e
come sono fatti, strumenti quali l’oboe, il fagotto, il corno, la viola o il violoncello.
La musica classica in Italia è di fronte a una vera e propria crisi di braccia e orecchie;
l’orchestra sinfonica di Roma ha chiuso i battenti, così molte altre negli ultimi due anni.
Così succede che in una delle nazioni dove la musica classica è nata e cresciuta, essa vada a
scomparire, laddove in paesi dove essa non era nemmeno mai stata, ora prosperi.
Per la maggior parte dei ragazzi, musica classica è sinonimo di “noia”. E non posso certo
criticarli: la musica moderna offre enormi attrattive oltre al fatto di essere condivisa da tutti i
loro compagni di classe, dalle ragazze che guardano e dai loro amici.
Non credo la situazione sia reversibile e non è questa la sede per discutere di come questo
sia potuto accadere nello specifico.
La sempre più usuale pratica di ottenere molto in poco tempo, applicata ormai in tutti i
campi, sta contribuendo a creare nei giovani la convinzione che la meta, altissima, sia
davvero la cosa più importante; dimenticando completamente il percorso e la cultura.
Lassità e pigrizia, apatia e voglia di perder tempo sono sempre più presenti nei bambini e nei
ragazzi, con rarissime eccezioni fortunate che fuoriescono da questo modus operandi.
Vorrei fare però un appello importante: le orchestre fanno ancora parte della nostra vita e per
molto tempo non ne potremo fare a meno, vi spiego meglio.
Quando ascoltiamo una canzone, se essa è davvero bella, è perchè dei professionisti
arrangiatori, compositori e orchestrali vi hanno collaborato e hanno creato quel bel prodotto
finale di cui il pubblico fruisce.
Sotto la osannata voce del cantante, troviamo raffinati tappeti di archi e vibranti stacchi di
ottoni che rendono quella particolare canzone così piacevole.
Se andiamo al cinema a vedere un film, la potenza delle emozioni che esso può sprigionare è
direttamente proporzionale alla qualità e all’adeguatezza della musica orchestrale che ormai
le nostre orecchie sono abituate ad associare a determinate scene; per ogni emozione, un
tipo di musica.
Ed essa viene realizzata ancora grazie a professionisti come quelli sopra nominati.
Lo stesso discorso vale per la televisione dove fiction e giochi a premi includono stabilmente
temi e musiche famose od originali che contribuiscono al nostro divertimento.
Concludo affermando che è vero, siamo in un periodo di passaggio, in cui la musica colta è in
crisi, soppiantata, proprio Darwinianamente, come una nuova forma di vita, dalla musica che
piace al pubblico. Come ho scritto, tutto questo fa parte di un naturale processo di evoluzione
artistico-musicale.
Trovo bellissimo che sempre più bimbi si avvicinino alla musica e grazie alla musica pop, noi
insegnanti facciamo molta meno fatica a fare in modo che le note non abbandonino più le
loro vite, con un conseguente miglioramento della qualità delle stesse.
Allo stesso modo, trovo importante che la musica continui a regalarci grandi emozioni e che
come tali emozioni vengano infuse in noi, sia scelto dalle persone stesse che la ascoltano.
Però va ricordato come insegnanti, alunni, ragazzi, adulti e istituzioni, non dimentichino il
nostro patrimonio culturale e musicale.
Le meccaniche socio-pedagogiche che sono sempre in movimento dietro a fenomeni come
questo, stanno già ponendo in parte rimedio, perchè come sempre succede, arrivati sull’orlo
del baratro, ci si ricorda sempre di quanto una cosa sia importante.
Non dimentichiamo la dolcezza del suono di un violino e un pianoforte quando guardiamo un
film dove nasce un amore, un meraviglioso stacco orchestrale quando due amanti sono
costretti a salutarsi o un roboante attacco di una sezione di ottoni quando osserviamo una
scena di azione.
Tutti gli strumenti moderni cooperano magistralmente con gli antichi strumenti e ne abbiamo
prova ogni giorno, anche inconsapevolmente; lo scopo è quello di preservare e rinnovare,
contemporaneamente.
Come una sorta di virtuale “passaggio di testimone” da un’epoca all’altra, da giovani e meno
giovani genitori, ricordiamo ai nostri figli che possono scegliere il loro strumento: la batteria
ma anche un delicato oboe come quello di “Gabriel’s Oboe” di Ennio Morricone.
Il nostro dovere, come insegnanti, istituzioni e genitori è quello di far “conoscere“, perchè
dove c’è conoscenza, si sviluppa “sete“ di altra conoscenza e infine “consapevolezza“.
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Joseph Joachim, quando la perfezione si fa
spirito
Joseph Joachim, quando la perfezione si fa spiritodi Carlotta Travaglini 02/02/2017
Joseph Joachim fu un violinista, didatta, direttore d’orchestra e compositore ungherese,
vissuto tra la prima metà dell’ottocento e gli inizi del novecento. A seguito del trasferimento
con la famiglia nella città di Pest, iniziò gli studi col primo violino del teatro dell’opera della
sua città, Serwaczynski (più tardi anche maestro di Wieniavski), il miglior violinista della città.
Nonostante i suoi genitori non fossero esperti nel settore, furono istruiti nella scelta di un
maestro “non ordinario”. All’età di otto anni fa la sua prima esecuzione pubblica, a seguito
della quale si sposterà a Vienna, dove seguiterà gli studi al locale Conservatorio sotto la
guida di M. Hauser, uno dei violinisti di maggior virtuosismo dell’epoca e George
Hellmesberger.
In seguito ebbe modo di perfezionarsi più a fondo con Joseph Bohm, fondatore della moderna
scuola violinistica ungherese. Allievo dell’insigne Pierre Rode a Budapest, fu particolarmente
impegnato come camerista; faceva parte di un quartetto che collaborò anche con Ludwig Van
Beethoven, del quale eseguì la prima del Quartetto d’archi op.12. Di lui Joachim ricorda in
particolare ed elogia l’innata capacità nell’arte del fraseggio: aveva infatti una straordinaria
ed immediata comprensione dell’idea musicale che gli si proponeva, ed era perfettamente in
grado di rendere le intenzioni di qualunque autore, il suo violino aggirava qualunque
impedimento tecnico o lacuna interpretativa.
Adolph von Menzel, Clara Schumann e Josep Joachim in concerto – 1854
Sua cugina, Fanny Figdor, lo ospita a Lipsia: qui Felix Mendelssohn è direttore della
Gewandhausorchester Lepzig, orchestra tra le più antiche e prestigiose del mondo. Il
maestro, che ne nota le precocissime doti e ne rimane strabiliato, sceglie di seguirlo
personalmente, rendendolo un suo protetto. Joseph Joachim si esibirà così svariate volte sotto
la direzione del maestro, come insigne solista. La sua prima esecuzione è quella del Concerto
per violino di Heinrich Wilhelm Ernst, ma sarà quella del Concerto per violino – op. 61 in re
maggiore – di Beethoven a Londra nel 1844, che gli consegnerà gloria imperitura.
Negli anni in cui si distinse nell’attività orchestrale, come primo violino di spalla, iniziò a
dedicarsi anche alla composizione, in particolare di brani virtuosistici per violino: i primi brani
risalgono al 1848 ed arrivano fino agli ultimi anni della sua vita. Dopo la morte di
Mendelssohn è al primo leggio della Gewandhausorchester Leipzig assieme al violinista
Ferdinand David. In seguito, a Weimar, ha modo di suonare anche nell’orchestra di Franz
Liszt, con la cui musica avrà esperienze contrastanti. Liszt infatti è attualmente uno degli
esponenti più agguerriti della “Nuova Scuola Tedesca”, assieme ad Hector Berlioz e Richard
Wagner, la quale, in sostanza, si faceva promotrice e sostenitrice dell’estetica del contenuto,
della volontà di subordinare, in ambito musicale, la forma al contenuto. Ciò consisteva nel
prediligere il carattere descrittivo della musica, la sua capacità di rappresentare elementi di
varia natura, da aspetti del concreto a concetti elevati oggetto di altre arti. La conseguenza
di questo rivoluzionario modo di pensare sarebbe stato un rinnovamento totale e subitaneo
dell’intero sistema musicale, nella modifica radicale del lascito delle tradizioni e
nell’abbandono di musiche ormai considerate obsolete perché troppo rigide per rispondere a
questo imperativo morale. Una forma statica non avrebbe potuto rappresentare nulla: le
strutture portanti del passato si sgretolano – in nome della fusione delle arti – dei generi, dei
tempi all’interno di un singolo brano, ed il futuro della musica sembra non essere altro se non
quello di una “corrente impetuosa e continua”, caratterizzata dalla perenne generazione e
rigenerazione.
Nella immagine, tre particolari di dipinto rappresentanti: Franz Liszt, Hector Berlioz, Richard
Wagner.
Joachim dapprima sembrerà apprezzarne le nuove idee musicali: ne è la prova – ad esempio –
un Concerto per violino in un movimento, in sol minore, da lui composto nel 1851 e dedicato
a Franz Liszt. In seguito – tuttavia – si schiera dalla parte opposta, assolutamente a favore
della cosiddetta “musica del passato”. In una lettera al maestro dell’agosto 1857 troviamo
scritto: «Non mi è assolutamente simpatica la tua musica; contraddice tutto ciò che dalla
prima giovinezza ho appreso come nutrimento per la mente dallo spirito dei nostri grandi
maestri».
Assieme al compositore Johannes Brahms e ad altri redige un manifesto, nel 1860, portavoce
del loro pensiero contro le nuove tendenze progressive. Ad Hannover, nel 1853, avviene uno
degli incontri più significativi della sua vita: quello con Johannes Brahms, impegnato in una
tournée europea con il violinista Eduard Reméniy. Con il maestro, già noto pianista ed astro
nascente della composizione, nasce subito un’intesa, destinata a consolidarsi negli anni.
In questo periodo riceve numerosi stimoli alla composizione: tipologie di brani e numerose
Cadenze scritte per i più famosi concerti; celebre è quella del Concerto per violino e orchestra
di Johannes Brahms, da lui eseguita per la prima volta nel 1879 ed ora frequentemente
ripresa dai moderni esecutori. Si distingue anche come camerista: nel 1869 fonda il celebre
Quartetto Joachim, che ottiene una risonanza a livelli europei.
Fu il primo violinista a registrare brani per una casa discografica; nel 1903 incise due lati per
la Grammophone Company, lascito utilissimo per avere un’idea concreta della maniera di
suonare il violino ottocentesca.
Si dedicò, fin da giovane, anche alla didattica violinistica: fu insegnante al Conservatorio di
Lipsia e fondatore della Royal Academy of Music a Berlino (1866). È infatti una delle figure
centrali della moderna scuola violinistica tedesca insieme a Ludwig Spohr, che ne è il
fondatore.
Quartetto Joachim: Joseph Joachim, Heinrich de Ahna, Emanuel Wirth, Robert Hausmann
È autore di un’apprezzatissima Violinschule, compilata con Arthur Moser, insegnante di
violino particolarmente interessato ai problemi dei bambini. L’opera rappresenta il primo
tentativo di fornire all’allievo un metodo “globale”, dove tecnica pura ed arte del fraseggio
vengono insegnati ed appresi di pari passo come facenti parte di un unico meccanismo, e
non separatamente ed in contesti differenti. Musica e prassi rigorosa fanno parte insieme del
dialogo tra maestro ed allievo, che va necessariamente costruito in modo sequenziale e
progressivo. Ludwig Spohr, nel suo metodo, considerando tutti gli aspetti necessari ad una
‘buona’ esecuzione musicale, esigeva dal violinista una perfetta intonazione, un rispetto
rigoroso del tempo e del valore delle note, la resa dei piano e dei forti; qualora si volesse
eccellere in una “bella” esecuzione, allora la si doveva arricchire di un suono gradevole e
corposo senza cedimenti, di frasi ben caratterizzate e variegate in ciascuna minuta sfumatura
e nella maestria nell’esplorazione degli infiniti timbri dello strumento; un lavoro complesso, al
quale lo studente-virtuoso poteva arrivare con zelo e con una spiccata capacità creativa,
importantissima nel Romanticismo.
Queste indicazioni risultano utili per comprendere come si suonasse il violino ai tempi di
Joachim. Il maestro assimila ed amplia considerevolmente la lezione del predecessore: educa
infatti fin da subito l’allievo all’interpretazione del pezzo, insegnandogli non una serie di
regole obbligate, ma una gradualità che lo elevi dalla meccanica alla musica.
Dettagliatamente troviamo il percorso da seguirsi del giovane musicista, espletato da esempi
ed immagini. La prassi musicale viene spiegata nei primi due volumi. Leopold Auer, violinista
ed importante didatta ungherese, ricorda le massime del maestro come spesso “caotiche”,
ed il suo metodo di insegnamento “sempre con il violino in mano”. Da una lettura del suo
volume non si notano però tali incongruenze; d’altronde, tra i violinisti che si sono formati
nella sua scuola, si parla di un numero maggiore di 400 elementi. Lo stesso Auer non poté
non ricordare il maestro con i massimi elogi.
Nel secondo volume, in particolare, vengono trattate anche problematiche specifiche
dell’intonazione, per definire i quali Joachim stesso si impegnò in studi di acustica applicata
con il fisico J. Helmholtz. Vi sono, poi, descrizioni di aspetti dell’esecuzione tipici della musica
romantica, come ad esempio i portamenti, piccoli glissati usati a fini espressivi, a cui dedica
particolare attenzione, ed il vibrato, che distingue in tipologie diverse a seconda
dell’intenzione e della dinamica musicale richiesta allo specifico suono.
Johannes Brahms, nel suo “Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler”, scrisse
testualmente: “metti per iscritto tutto ciò che senti essere divenuto vero in te, foss’anche
solo una reminiscenza“.
Joachim dedica il terzo volume interamente all’interpretazione: segno tangibile
dell’importanza di questo aspetto nella formazione del musicista. I suoi saggi si incentrano su
svariati autori; a partire da Bach, proseguono fin nell’analisi minuta dei più grandi concerti
romantici per violino e orchestra, fornendo all’esecutore una delle più sicure fonti sulle
originarie intenzioni degli autori dell’epoca.
Riporto alcuni estratti dal saggio sul Concerto in mi minore op.64 di Felix Mendelssohn:
“All’età di sedici anni ho avuto molte volte il privilegio di eseguire molte volte questo
concerto accompagnato dall’autore: conosco quindi bene le sue intenzioni, poiché quando se
ne presentava l’occasione egli non risparmiava la critica. Il 1° tema è un tenero lamento,
deve essere reso con emozione, ma piano. Si eviteranno accenti troppo marcati, pur
disegnando le linee ondulate e le sfumature di colore della melodia. Se volessimo precisare
queste linee per mezzo di segni, subito diverrebbero troppo evidenti. […] Si dovrà anche
evitare un ritardo troppo pronunciato dove la melodia termina […] (si arriva all’abuso di
esagerare la sospensione del tempo, e di opporre subito un allegro ad un adagio!) […]
In un estratto dal saggio sul Concerto in re maggiore op.77 di Johannes Brahms:
“Il violinista solista fa il suo ingresso con un audace passo ascendente in minore che
prosegue con fervore. Gli accordi in ottavi che iniziano alla 9a misura del solo, devono essere
realizzati con un suono pieno, ma breve ed energico; il passaggio in quintina si esegue con
estrema vivacità ma diminuendo fino alle semicrome con dinamica “piano” che, in una
sonorità sempre più eterea, devono giungere al “pianissimo”. Si dovrà tener ben presente
l’accompagnamento ricco di temi, ed unirvisi il più strettamente possibile. Dalle terzine dove
Brahms scrive “espressivo” è concessa una maggiore libertà interpretativa, senza che per
questo il “ritardando” che precede il trillo degeneri in un adagio. […] appare un nuovo
episodio, colmo di fascino, che deve essere reso con uno stato d’animo intimo e raffinato,
anche nelle decime, pur difficili che siano. Per l’interpretazione di queste ultime è illuminante
l’indicazione “lusingando”. […]
Dalle analisi del repertorio romantico emerge come la creatività del musicista abbia un ruolo
fondamentale nell’esecuzione e nella lettura del pezzo, e come si suonasse in un clima di
“libertà” individuale, del cui dispiegamento una maggiore chiarezza dell’architettura del
pezzo e una padronanza tecnica senza pari non possono che essere soltanto le basi. Anche il
musicista fa parte del processo creativo, al pari del compositore.
Ad Hannover, dove il maestro conosce Johannes Brahms, ha a più riprese l’occasione di
suonare lui e con Clara Schumann, in occasioni pubbliche e private. Significativo sarà il
legame artistico che si salderà in questi anni in casa Schumann, culla di uno dei più
pittoreschi e fruttiferi prodotti della convivialità romantica ottocentesca: Robert Schumann è
uno dei più grandi compositori dell’epoca romantica; pianista, si dedica anche all’attività
giornalistica ed alla critica musicale, fondando una propria rivista, la Neue Zeitschrift für
Musik (Nuova Rivista di Musica); sua moglie, Clara Wieck Schumann, è una delle più
importanti e talentuose pianiste dell’epoca, impegnata in tournée internazionali. A questa
dimora sono legati vari aneddoti, tra i quali la stesura della celebre Sonata F.A.E. In occasione
di una visita di Joseph Joachim, Robert Schumann, Albet Dietrich e Johannes Brahms decidono
di comporre una sonata per violino e pianoforte in suo onore: di ognuno dei tempi il violinista
dovrà riconoscere l’esecutore, e per farlo gliene sarà portata una copia, per non avere indizi
dall’originale manoscritta. Schumann si dedica al II ed al IV movimento, Dietrich al I e Brahms
al III (il celebre Scherzo).
Il titolo richiamerebbe la sequenza di note fa-la-mi (F, A, E, in notazione alfabetica), utilizzate
più o meno direttamente dai compositori, ma fa in realtà riferimento, in sigla, al motto di
Joachim «Frei aber einsam», “Libero ma solo”.
Nuovamente troviamo questa sigla nel taccuino personale di Brahms (Album letterario o Lo
scrigno del giovane Kreisler), prestato per un periodo all’amico Joachim.
Al suo interno, tra le citazioni di autori e filosofi noti, il violinista inserisce delle proprie
riflessioni ed osservazioni scrivendo, ai piedi di ciascuna, il suo f.a.e. a mo’ di firma, o
esprimendolo in lettere o con la corrispettiva sigla musicale:
“Quando avvertiamo in noi un embrione di idea, sovente ci sforziamo solo, e con troppa
ansia, di farlo venire al mondo il più velocemente possibile, e così si atrofizza prima che si sia
riusciti a farlo crescere robusto in noi al punto che da solo, squarciando il nostro petto, come
canto aneli verso il cielo”. L’unione artistica, dapprima concretizzatasi nella stesura a quattro
mani del manifesto contro la musica “progressista” della Nuova Scuola Tedesca, confluisce in
una fedele amicizia.
Joachim segue sempre più da vicino l’attività e la ricerca musicale del compositore, e ne
incentiva e valuta il processo creativo. Significative saranno le nozioni di tecnica violinistica
nel repertorio strumentale. Da questo sodalizio nascerà il celebre Concerto per violino op.77
in re maggiore (1878) del quale Joachim stesso fornirà un utile saggio di estetica e di stile nel
III volume della sua Violinschule.
Nel 1884 Joachim divorzia dalla moglie Amalie, convinto di una sua presunta relazione con
Fritz Simrok, l’editore di Brahms; quest’ultimo interviene con una lettera amichevole scritta a
lei, ma i rapporti tra i due si raffreddano ugualmente. Verrà ripristinata solo in seguito,
quando Brahms scriverà il Concerto per violino e violoncello op.102 come “offerta di pace” a
Joachim.
Ogni artista è un Edipo: se si ferma, senza risolverli, dinnanzi agli enigmi del tempo: la Sfinge
lo getta nell’abisso dell’oblio ed egli non le transita innanzi verso il futuro dell’immortalità.
Joseph Joachim muore nel 1907 a Berlino, dopo una gloriosa carriera di interprete, didatta ed
acuto studioso, consacratosi per sempre come leggendario virtuoso del violino. Da fonte di
ispirazione e sostegno all’amico Brahms si fece straordinario dispensatore di consigli per tutti
gli altri interpreti e compositori a venire, affermandosi come uno dei protagonisti indiscussi
del secolo scorso: un musicista a tutto tondo, il cui lascito è destinato ad essere in ogni
tempo oggetto di confronto ed arricchimento. “Non elogiate, non ammirate: amate, imitate!“
Per approfondimenti:
_Johannes Brahms, Album Letterario o Lo scrigno del giovane Kreisler, EDT, 2007
_Enciclopedia della musica Garzanti
_Enzo Porta, Il violino nella storia: maestri, tecniche, scuole, EDT, 2000
_Renato di Benedetto, Storia della musica: L’Ottocento I, EDT, 1985
Christian Schmidt, Brahms, EDT, 1990
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