QUESTIONI SULLA VALIDITÀ E SULL'EFFICACIA DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO NEL TEMPO (*) Dir. amm. 2003, 01, 1 GIANDOMENICO FALCON SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Questioni di base attinenti alla efficacia nel tempo. - 3. Questioni di base attinenti alla validità nel tempo. - 4. I cosiddetti atti di conferma. 1. Vorrei in primo luogo precisare il significato qui attribuito ai termini che definiscono l'oggetto di questo contributo. Per «efficacia» del provvedimento si intende qui l'idoneità di esso a qualificare direttamente o indirettamente (1) comportamenti in termini giuridici, di modo che, in relazione a quanto disposto dal provvedimento, determinati comportamenti appaiano vietati (e dunque, ove tenuti, illeciti), consentiti (e dunque leciti) ovvero addirittura prescritti. Per «validità» si intende qui lo stato di assenza di vizi del provvedimento, considerato sia come fattispecie costitutiva di effetti giuridici che come specifico contenuto regolativo, in relazione alle norme e ai principi giuridici che lo riguardano. Benché efficacia e validità siano concettualmente distinti, mi sembra chiaro che ogni questione relativa alla validità in tanto ci interessa, in quanto sia suscettibile di tramutarsi - mediante l'uso degli opportuni strumenti giuridici - in questione relativa alla efficacia. Il tema centrale è dunque quello dell'efficacia del provvedimento, mentre il tema della validità rileva come uno dei maggiori fattori che possono portare alla perdita dell'efficacia. Il nesso potenziale e prospettico tra validità ed efficacia spiega anche la ragione per la quale, benché sia usuale parlare di «validità», ciò che realmente ci interessa è la invalidità del provvedimento, in quanto essa sia suscettibile di portare in qualche modo alla cessazione dell'efficacia. Desidero inoltre precisare che ho limitato qui la trattazione del tema della efficacia e validità «nel tempo» alle ipotesi in cui una efficacia iniziale si è prodotta, e ho quindi considerato le possibili vicende di tale efficacia misurate sull'asse temporale, sia che esse siano influenzate dalle questioni attinenti alla validità (su cui ci si soffermerà più tardi) sia che riguardino la valutazione degli effetti prodotti dall'atto in sé e per sé. Rimangono dunque al di fuori della prospettiva di questa riflessione tutte le ipotesi in cui nessuna efficacia iniziale si sia prodotta, vuoi in relazione a vizi del provvedimento che direttamente precludano l'acquisizione dell'efficacia, vuoi in relazione a stati e fasi del procedimento anteriori alla acquisizione dell'efficacia. Tuttavia, non mi soffermerò su tutte le questioni inerenti al tema, anche così delimitato, ma solo su quelle che mi sono sembrate più signficative o sulle quali mi è parso di poter aggiungere qualcosa alle nozioni consolidate. 2. È usuale nella letteratura giuridica (2), e non solo in quella italiana (3), distinguere tra provvedimenti ad efficacia istantanea e provvedimenti ad effetto durevole. Naturalmente, non intendo affatto contestare l'utilità e la fondatezza di tale distinzione. Alcune precisazioni potranno tuttavia essere utili ai fini dell'esame del nostro tema. Se consideriamo l'efficacia dal punto di vista del momento in cui essa interviene, determinando il passaggio dalla condizione di atto inefficace a quella di atto efficace, non possiamo che constatare che l'efficacia del provvedimento (come quella di qualunque atto giuridico) è sempre istantanea, nel senso che essa si produce tutta in un determinato istante, che è appunto il momento di acquisizione dell'efficacia (4). Posto dunque che dal punto di vista del momento in cui si produce l'efficacia del provvedimento è sempre istantanea (e che perciò da questo punto di vista nessuna distinzione temporale è possibile), quello che può cambiare è il rapporto tra l'oggetto del provvedimento, inteso come suo contenuto dispositivo, e la dimensione temporale. A seconda delle circostanze muta, cioè, la qualità di questo effetto. Senza pretesa di esaurire la questione, si possono distinguere diverse ipotesi. 1) Provvedimenti relativi a fattispecie prive di dimensione temporale. - Si tratta essenzialmente di provvedimenti produttivi di autonome qualità giuridiche, cioè di qualità giuridiche che non esprimono una disciplina propria del provvedimento. Quando un provvedimento crea una nuova persona giuridica il suo effetto si limita a questo, mentre tutto ciò che accade sulla base della personalità giuridica non può dirsi disposto dal provvedimento in quanto tale, né costituire sua «attuazione». Lo stesso accade, mi sembra, per la condizione di proprietario creata dall'espropriazione, nel senso che, mentre tale condizione deriva dal provvedimento, le facoltà ad essa inerenti non si possono dire proprie del contenuto dispositivo del provvedimento (5). S'intende che la persona giuridica agirà giuridicamente, e il nuovo proprietario creato dall'espropriazione eserciterà le sue facoltà di proprietario, in una dimensione tutta temporale: ma tali azioni non sono ormai collegate al provvedimento, ma alla sola qualità giuridica da esso creata. Questi provvedimenti sono interessanti per noi perché rappresentano, per così dire, il minimo della dimensione temporale dell'efficacia, una sorta di suo grado zero. Essi non solo acquistano efficacia (come tutti gli atti giuridici) in un determinato istante, ma nello stesso istante la esauriscono, in quanto la fattispecie che essi disciplinano è priva di una dimensione temporale. Infatti, anche se ovviamente le qualità giuridiche immesse nell'ordinamento dal provvedimento si mantengono nel tempo, ciò si verifica, mi sembra, in virtù delle regole generali sulla conservazione dei valori giuridici, e in virtù in particolare della disciplina relativa alle specifiche qualità create dal provvedimento, senza alcun collegamento con i disposti del provvedimento stesso. Se pure un giorno occorresse con nuovo provvedimento estinguere la persona giuridica o riespropriare il bene, ciò costituirebbe una vicenda del tutto nuova, non collegata alla precedente (6). 2) Provvedimenti relativi a fattispecie che hanno una dimensione temporale. - Anche se siamo partiti dalla considerazione di fattispecie prive di una dimensione temporale, credo si debba constatare che normalmente i provvedimenti si riferiscono a fattispecie dotate di dimensione temporale. Essi cioè si riferiscono, consentendoli, vietandoli o prescrivendoli, a comportamenti che debbono svolgersi nel tempo, mediante una attività in senso lato di «attuazione» o almeno di «uso» del provvedimento. Se è, mi sembra, impropria l'idea che in questo caso al momento dell'efficacia gli effetti possano semplicemente «iniziare» a prodursi (7), è innegabile che il comportamento cui il provvedimento si riferisce può, esso sì, iniziare a prodursi. Mi sembra interessante notare, a questo proposito, che non si tratta soltanto dei provvedimenti che sono normalmente qualificati come atti ad efficacia durevole. Il permesso edilizio di certo non è un atto ad efficacia durevole nel comune senso del termine: e tuttavia è innegabile che l'attività di costruzione di un edificio privato o di un'opera pubblica si protragga nel tempo, talvolta assai a lungo. Rilevando ciò non voglio certo assimilare sotto ogni profilo atti che hanno un significato diverso, ma semplicemente osservare che in tutti i casi in cui un comportamento considerato dal provvedimento si svolge nel tempo può ad un certo punto porsi il problema della congruità di quel comportamento, in relazione a sopravvenienze di fatto o di diritto: e dunque del problema della conservazione o della rimozione di quella disciplina del provvedimento, nella quale si esprime la sua efficacia. Sembra utile, in questo contesto, una ulteriore distinzione, che non mi pare frequente nella letteratura giuridica. a) Provvedimenti che si riferiscono ad una singola e determinata azione o evento. - Ci sono provvedimenti che regolano comportamenti o fattispecie specificamente e concretamente individuati, costituenti un unicum. Il permesso di costruire un determinato edificio in un determinato luogo, di cui si è appena detto, è un esempio di tali atti. Altri esempi, diversi tra loro, possono essere l'autorizzazione alla esportazione di un determinato bene vincolato, la dichiarazione di pubblica utilità volta a consentire l'espropriazione di un determinato immobile, l'assegnazione di una determinata borsa di studio o sovvenzione, l'aggiudicazione di un determinato appalto, l'ordine di demolizione di un determinato edificio, l'occupazione di urgenza di un determinato immobile, ecc. L'azione o il comportamento considerato in tali atti può anche essere in se stesso «istantaneo», come quando sia autorizzato il compimento di un atto giuridico, ma tale atto comunque si svolge a distanza di tempo dall'autorizzazione. Altre volte è l'azione in se stessa che richiede «tempo», come nel caso della costruzione di un edificio privato. Comune agli atti di questo tipo, tuttavia, è che essi si riferiscono, legittimandoli o prescrivendoli, ad una determinata azione, ad un singolo «evento». Anche se l'azione è composta di molte «sottoazioni» (come l'attività di costruzione o di demolizione), il provvedimento la considera nella sua unità complessiva e determinata. È chiaro che se un provvedimento disciplina una specifica azione, un evidente principio di coerenza dell'azione amministrativa dovrà rendere estremamene cauti verso l'ipotesi che - in assenza di problemi di validità - la qualificazione che il provvedimento ha dato a tale azione possa in seguito venire meno: ciò almeno in relazione agli atti favorevoli al destinatario. Infatti, ove l'azione sia già stata compiuta, il mutamento di qualificazione potrebbe avvenire soltanto con un provvedimento retroattivo, il che già di per sé porterà ad escluderne la possibilità. Ma anche ove l'azione oggetto del provvedimento non sia ancora stata compiuta, sembra chiaro che colui che ha ottenuto il provvedimento ha acquisito alla sua sfera giuridica qualcosa di più di una semplice aspettativa: sicché l'ipotesi di un successivo venire meno di quanto disposto - quando pure non si debba escludere per diritto positivo - non può che dirsi (prima ancora di entrare nell'esame del diritto positivo) eccezionale (8). Si noti tuttavia che molto spesso la legislazione si fa anticipatamente carico dell'intervallo temporale che possa intercorrere tra il provvedimento ed il verificarsi dell'azione in esso prefigurata, stabilendone fin dall'inizio i limiti massimi, ad evitare che l'effetto pratico del provvedimento, cioè lo svolgimento dell'azione consentita o prescritta, si svolga ad eccessiva distanza di tempo dal provvedimento stesso (con tutti gli inconvenienti che possono derivare dal mutamento della situazione di fatto o di diritto), stabilendo che l'azione prefigurata dall'atto sia consentita solo in quanto si svolga entro un determinato termine, ovvero che essa debba essere compiuta entro un determinato termine. Così si prevede che la costruzione autorizzata dal permesso edilizio possa ultimarsi entro una certa data, o che ugualmente entro una certa data debba compiersi l'espropriazione. Trascorsi i termini, si ha decadenza dalla possibilità di compiere l'azione. Metaforicamente si può affermare che l'efficacia del provvedimento «cessa», ma in realtà è proprio l'efficacia del provvedimento, nella sua specificazione temporale, a far sì che ove compiuta oltre il termine l'azione non sia più qualificata dal provvedimento stesso, e divenga perciò illecita. b) Provvedimenti che si riferiscono a tipi o classi di azioni. - Si tratta degli atti che regolano comportamenti per classi o tipi, cioè per modelli di comportamenti destinati ad essere ripetuti nel tempo. Gli esempi sono la patente di guida, il porto d'armi (e in genere le autorizzazioni di polizia), la licenza di commercio, la concessione di bene o di servizio pubblico. Qui viene sì in considerazione una determinata azione, ma non nella sua unicità o determinatezza storica, bensì nel suo tipo: si autorizza in generale il guidare l'automobile, il portare l'arma, il compiere attività commerciale (sia pure in relazione ad un determinato esercizio), l'usare un bene o il gestire un servizio pubblico. In questi casi è evidente che l'efficacia del provvedimento ha una dimensione di durata o continuativa, non nel senso che essa si produca non «istantaneamente» ma in modo «continuo» (come una sorta di rubinetto dal quale continui a fluire acqua), ma nel senso che la disciplina contenuta nel provvedimento legittima azioni ripetibili in modo indefinito e prolungato nel tempo, ciascuna delle quali sarà lecita, anche a distanza di tempo, in quanto ricompresa nella legittimazione fornita dal provvedimento. Nella stessa categoria, con gli opportuni adattamenti, rientrano anche i regimi di divieto di tipi di azione, come ad esempio i vincoli di inedificabilità derivanti dai piani urbanistici o dai provvedimenti di tutela dei beni storico artistici o paesaggistici. Gli atti c.d. ad efficacia durevole sono dunque atti che legittimano comportamenti ripetibili individuati nel tipo. Ed è evidente che è in particolare in relazione a tali atti che si pone in modo critico il problema del sopraggiungere di circostanze, in relazione alle quali la prosecuzione dell'attività consentita dal provvedimento risulta incongrua, sia che ciò accada per ragioni di interesse pubblico (di regola, per il mutamento della situazione), sia che ciò accada perché l'interessato non ha più i requisiti richiesti e posseduti al momento del provvedimento, o perché (più in generale) la situazione non è più quella che ha reso possibile o dovuto il provvedimento. Ed in questo caso si pone la questione dell'affermazione o della negazione del potere (o addirittura del dovere) della pubblica amministrazione di ritornare sulla propria decisione, chiudendo, per così dire, l'arco temporale già lasciato aperto dal provvedimento. Va osservato che, come e più che nel caso precedentemente esaminato di compimento nel tempo di una determinata azione, consentita dal provvedimento, anche in questo caso di regola il legislatore si cautela in anticipo, stabilendo una durata legale al provvedimento, cioè delimitando nel tempo la durata del comportamento consentito (9): sicché nell'occasione dei successivi eventuali rinnovi trovano occasione di valutazione tutte le sopravvenienze (10). Al tempo stesso, l'esistenza di un termine legale comporta che si guardi con maggiore diffidenza all'affermazione di un potere generale innominato di troncare l'efficacia del provvedimento. Altre volte la legge espressamente prevede, spesso in aggiunta alla limitazione legale della durata del provvedimento, il potere di porne nel nulla anticipatamente gli effetti (11). Rimane tuttavia la questione di sapere se e quando, in assenza di una specifica previsione, sussista in capo all'amministrazione il potere o persino il dovere di porre fine all'efficacia durevole del provvedimento. Sembra pacifico che, ove nel corso del tempo vengano meno i requisiti legali alla cui esistenza il provvedimento era subordinato, nel senso che in assenza di essi la sua emanazione sarebbe risultata in origine illegittima, l'autorità amministrativa abbia non solo il potere ma altresì il dovere di porre nel nulla gli effetti del provvedimento. Questo risulta evidente nel caso si tratti di provvedimento sfavorevole per il destinatario (12); ma è difficile vedere ragioni per dire diversamente nel caso si tratti di atti favorevoli (13). Chiamare tale atto con il nome generico di revoca (secondo un uso anche normativo alquanto consolidato), o attribuirgli un nome dottrinale diverso - quale rimozione o abrogazione per limitare l'uso del termine revoca soltanto alle ipotesi di ritiro per ragioni di interesse pubblico costituisce, mi sembra, questione di puro dizionario. Il vero problema, in ogni modo, è costituito dalla revoca per sopravvenute ragioni di interesse pubblico (in relazione a mutamenti della situazione di fatto), o per mutata valutazione dell'interesse pubblico (mutamento di indirizzo amministrativo). Sul punto, il dibattito è vivo tra coloro che fanno valere un'esigenza di tassatività dei poteri di revoca e coloro che la fanno risalire ad un principio generale di tutela dell'interesse pubblico (14), sia pure ancorato a fondamenti di diritto positivo (15). Questa seconda posizione sembra tuttora dominante in dottrina e giurisprudenza. D'altronde, non si tratta certo di un problema soltanto italiano. Il diritto inglese, ad esempio, è sul punto «in a state of flux» (16). Ma nell'attesa che il fluido si solidifichi si può constatare che al momento, e come di consueto, l'ordinamento inglese è tra i maggiori europei quello più generoso con l'amministrazione (o se si vuole con l'interesse pubblico) e quello che meno tutela le aspettative private: valendo in esso quale regola generale la libera revocabilità di tutte le decisioni che non si limitino a riconoscere preesistenti diritti (17). L'ordinamento tedesco, che su questo come su altri dei punti che ci interessano dispone di una disciplina legislativa nella legge generale sul procedimento (§ 49), è anch'esso assai generoso di poteri di revoca, che divengono generali quando si tratti di impedire «gravi svantaggi per l'interesse pubblico» (Abs. 2, n. 5): esso però bilancia questa generosità con la garanzia di un indennizzo a protezione del legittimo affidamento (Abs. 6). Nell'ordinamento francese, in assenza di un diritto scritto, la giurisprudenza afferma in linea di principio l'irrevocabilità di tutti gli atti che generano diritti. Salvo che non esiste un criterio generale, ma solo uno casistico, per l'individuazione di tali atti (18): sicché, come è stato osservato, quella dell'atto creatore di diritti finisce per essere semplicemente l'etichetta con la quale si definiscono gli atti ritenuti irrevocabili (19). Resta inoltre ferma la libera revocabilità, anche per cambio di policy, nell'ampio campo delle autorisations de police(20). Ritornando al diritto italiano, a me sembra che una posizione soddisfacente non possa limitarsi a postulare «principi generali»: non principi generali di derivazione tradizionale, o riconducibili al nucleo puramente concettuale della nozione di autotutela, nella quale si traduce una posizione di generale sovraordinazione dell'amministrazione che non si può oggi riconoscere, ma neppure principi generali come quello della generale «inesauribilità» del potere amministrativo (21) intesa come potere di riprovvedere d'ufficio sulla stessa fattispecie sulla quale si era provveduto su domanda che non sembra potere essere affermata in astratto, ma piuttosto deve essa stessa dimostrata come regola di diritto positivo. In questa direzione, un ancoraggio generale proprio nella direzione della inesauribilità del potere potrebbe essere rinvenuto - come è stato recentemente suggerito (22) - nella regola dell'art. 11, co. 4, della legge n. 241 del 1990, ove si stabilisce il possibile recesso dell'amministrazione dagli accordi volti a precisare il contenuto discrezionale del provvedimento, o sostitutivi di esso, quando lo esigano sopravvenute ragioni di interesse pubblico. Se ciò vale quando l'amministrazione si sia specificamente vincolata in un accordo, ed anche per gli accordi che incorporino in sé il provvedimento - si potrebbe dire - perché non dovrebbe valere quando l'amministrazione ha agito unilateralmente? Può essere la situazione derivante da provvedimento unilaterale giuridicamente più stabile di quella derivante dall'accordo relativo al provvedimento o sostitutivo di esso? Si consideri tuttavia che l'art. 11 non si limita a stabilire il potere di recesso, ma pone altresì il principio dell'indennizzo, che a sua volta ha fondamento proprio nella rottura del vincolo generato dall'accordo. In questi termini, e nella duplicità dei suoi disposti, la figura dell'art. 11 potrebbe non risultare adatta alla disciplina generale dei poteri di revoca (23). Più sicuro risulta allora affermare che il potere di revoca - e con esso la specifica inesauribilità del potere amministrativo cui ci si riferisce - esiste per tutte le situazioni (e solo per le situazioni) in cui la ricostruzione positiva della normativa relativa ad un determinato provvedimento conduca a riconoscerli, rifuggendo tuttavia da una concezione «legalista» o «formalista» che ammetta la revoca soltanto ove essa sia prevista e disciplinata in termini espliciti dalla legge, ed ammettendo la pluralità di linee argomentative consuete nell'esperienza giuridica dell'elaborazione dei materiali del diritto positivo (24). 3. Fondamentalmente, le questioni relativa all'invalidità nel tempo sembrano consistere nella risposta alle seguenti domande: può un provvedimento nato valido divenire successivamente invalido? Può un provvedimento nato invalido divenire successivamente valido? Può l'amministrazione porre nel nulla successivamente un atto nato invalido, sulla base di quali presupposti e con quali effetti? Per tali domande esistono in dottrina e giurisprudenza risposte correnti, sulle quali cercherò ora di soffermarmi per verificare in quale misura esse siano soddisfacenti. 1) Se un provvedimento valido possa nel tempo divenire invalido. - La prima questione è quella che riguarda la c.d. «invalidità sopravvenuta». Che in generale una invalidità possa sopravvenire non è nel nostro diritto contestabile. Il fenomeno è ben conosciuto per le leggi, rispetto alla Costituzione ed alle leggi costituzionali, nell'esperienza del giudizio di legittimità costituzionale: si ritiene infatti che il fenomeno puramente negativo della abrogazione non sia sufficiente a contenere la ricchezza dei possibili rapporti di incompatibilità tra legge e Costituzione. In particolare, è evidente che il solo strumento dell'abrogazione non consente le soluzioni «additive» o «manipolative» alle quali le pronunce di illegittimità costituzionale ci hanno abituato, e che possono essere sufficienti a ristabilire l'armonia tra disposizione di legge e norma costituzionale (25). Il punto da discutere è se si possa parlare di invalidità sopravvenuta del provvedimento amministrativo, intendendo qui riferirsi al provvedimento individuale, ad esclusione degli atti «amministrativi» normativi. Si noti che il problema non è solo teorico, ma ha risvolti pratici importanti. Se infatti realmente esistesse una invalidità sopravvenuta, si dovrebbe ammettere che in relazione a tale invalidità i termini di impugnazione non possano che decorrere dal momento della sopravvenienza. In generale, poiché il provvedimento costituisce disciplina di una fattispecie determinata, si direbbe che la sua validità non può che riguardarsi con riferimento alla situazione normativa del momento della perfezione dell'atto: e ciò sia con riguardo alla disciplina del modo di formazione dell'atto (26), sia in relazione al suo contenuto regolativo considerato in termini oggettivi. In questo senso, di invalidità sopravvenuta del provvedimento non potrebbe parlarsi, come ritenuto da un filone dottrinale risalente (27). A questa stregua, tanto i «fatti» sopravvenuti quanto il nuovo «diritto» non potrebbero rilevare per la valutazione della legittimità o illegittimità del provvedimento (28). Tuttavia, non raramente si ritiene che almeno in talune situazioni sia invece corretto e necessario ricorrere al concetto di illegittimità sopravvenuta: anche se si tratterebbe pur sempre di eccezioni e non della regola. Se si considerano gli esempi portati in dottrina di invalidità sopravvenuta, ci si avvede che essi trovano in genere spiegazione in fenomeni di retroattività. La prima ipotesi che talora viene formulata è quella della sopravvenuta invalidità del provvedimento a seguito di annullamento o dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge istitutiva o regolativa del potere amministrativo (29). A me sembra tuttavia che tale ipotesi non risulti affatto convincente per una ragione, per così dire, assorbente e preclusiva. In questo caso, infatti, mi sembra si debba semplicemente affermare che l'invalidità risulta chiaramente originaria e non sopravvenuta, se la si considera - come mi sembra doveroso - in relazione all'ordinamento complessivo, ed in particolare rispetto alle norme della Costituzione. D'altronde, nello stesso giudizio amministrativo a quo, dal quale di regola sorge la questione incidentale che porta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge, il provvedimento viene impugnato proprio in quanto illegittimo. Ciò risulterebbe chiarissimo se il giudice fosse dotato del potere di disapplicare autonomamente le leggi incostituzionali, secondo il modello oggi in uso per le leggi che violano normativa europea. Poiché invece al giudice è precluso il far autonomamente valere la legalità costituzionale contro la legalità ordinaria mediante la diretta disapplicazione della legge, esso non può che spostare la sua decisione ad un momento successivo alla pronuncia della Corte, che in ipotesi determini la caducazione della legge. Ma non è certo tale caducazione che rende invalido l'atto, sin dall'inizio contrario alle regole maggiori del sistema giuridico. Solo in relazione al carattere originario dell'invalidità, d'altronde, risulta costituzionalmente ammissibile che dopo la pronuncia di illegittimità costituzionale non si riaprano termini di impugnazione, ma che al contrario proprio la mancata tempestiva impugnazione impedisca ad altri soggetti potenzialmente interessati di avvalersi della sentenza, se non nei casi in cui a seguito di essa il provvedimento debba qualificarsi come nullo, con diretta perdita di efficacia e conseguente possibilità di far valere il vizio nei termini di prescrizione. La seconda ipotesi prospettata di invalidità sopravvenuta del provvedimento (30) si riferisce all'eventuale invalidità derivante dalla sopravvenienza di una legge retroattiva, che renda invalido il provvedimento sulla base di un giudizio ora per allora. A me sembra che, ove l'ipotesi si potesse ammettere, si dovrebbe poi distinguere un punto di vista teorico da un punto di vista pratico ed operativo. Mi sembra infatti che anche in questo caso in linea puramente teorica dovrebbe affermarsi che l'invalidità, che sotto il profilo fattuale sarebbe innegabilmente sopravvenuta, dal punto di vista giuridico sia originaria, dato che essa deriva dal confronto tra il provvedimento e la normativa che per il vincolo giuridico della retroattività dobbiamo assumere già allora esistente (31). Tuttavia, da un punto vista pratico ed operativo non si può in questo caso negare il rilievo della sopravvenienza ai fini del termine di impugnazione. Diversamente dall'ipotesi esaminata prima, infatti, non esisteva all'epoca del provvedimento alcun elemento per affermarne l'invalidità, né evidentemente si può pretendere che gli interessati impugnino provvedimenti attualmente legittimi nella speranza che essi divengano illegittimi in relazione a successive norme retroattive: senza dire che se anche volessero non potrebbero farlo, per difetto dei motivi di impugnazione. È dunque giocoforza ammettere che in caso simile i termini di impugnazione comincerebbero o ricomincerebbero a decorrere dall'entrata in vigore delle nuove norme retroattive: in applicazione, d'altronde, della stessa ratio ispiratrice della regola che fa decorrere i termini dalla conoscenza del provvedimento, la quale sottintende che chi conosce il provvedimento sia anche in grado di valutarne i vizi. Tuttavia, questa considerazione non può chiudere l'esame dell'ipotesi considerata. Infatti, al di là dell'osservazione che potrebbe trattarsi di una ipotesi scarsamente esistente sul piano reale (per quanto mi riguarda non saprei ricordarne esempio), mi sembra che anche sul piano del diritto ci si debba chiedere se norme di legge retroattive quali quelle ipotizzate - norme che trasformerebbero in illegittimi atti perfettamente legittimi - siano ammissibili nel sistema costituzionale, o se invece simili disposizioni non sarebbero esse stesse incostituzionali. Infatti il legislatore che desideri porre nel nulla, anche retroattivamente, gli effetti di un provvedimento amministrativo a suo tempo legittimamente emanato non ha che da disporlo, intervenendo in via diretta sull'efficacia del provvedimento. Per quale ragione dovrebbe farlo per la via incerta e contorta della invalidazione del provvedimento? Il risultato non sarebbe affatto equivalente, dato che il regime di invalidazione non comporterebbe immediatamente il venir meno dell'efficacia, e che corrispondentemente coloro che volessero far valere la (di fatto) sopraggiunta invalidità avrebbero l'onere di una impugnazione, sempre che l'amministrazione non intendesse, con proprio atto discrezionale, provvedere all'annullamento d'ufficio. In definitiva, a me sembra che si tratterebbe di una via del tutto irrazionale, contraria al principio della certezza del diritto e, su un piano più positivo, contestabile in nome del principio di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. Né si potrebbe sostenere che tale soluzione è l'unica possibile quando le regole di garanzia dei privati impediscano l'intervento retroattivo del legislatore sugli effetti del provvedimento: perché in questo caso con tutta evidenza le stesse regole contrasterebbero allo stesso modo la possibilità di una retroattiva invalidazione del provvedimento. Sicché, in conclusione, a me sembra che l'invalidità sopravvenuta in relazione al sopraggiungere di nuove norme retroattive sia fenomeno che forse non esiste, e che comunque non dovrebbe legittimamente esistere (32). Una ulteriore fattispecie di invalidità sopravvenuta è stata prospettata per l'ipotesi di un «atto ad efficacia prolungata», che sia stato emanato «sulla base di un presupposto non più esistente», come nel caso di una «requisizione in uso di un bene (art. 7, l. n. 2248/1865, all. E) disposta per uno stato di necessità venuto meno» (33). In questo scritto tale ipotesi è già stata esaminata sopra, in relazione al problema della cessazione dell'efficacia, ammettendo che vi sia in tal caso non solo il potere ma altresì il dovere di revocare l'atto emanato, ormai privo di giustificazione. Si tratta ora di valutare se la stessa ipotesi possa essere meglio inquadrata come illegittimità sopravvenuta: con la conseguenza che il provvedimento che rimuove gli effetti del precedente dovrebbe più precisamente qualificarsi come annullamento piuttosto che come revoca o rimozione. E la questione potrebbe avere risvolti pratici, dal momento che con l'annullamento la cessazione degli effetti potrebbe retroagire sino al momento del venire meno del presupposto, mentre con la semplice rimozione ciò non avverrebbe (34). Tuttavia, mi sembra preferibile ritenere che di illegittimità sopravvenuta non si possa in questa ipotesi parlare. Certamente, è ovvio, sarebbe contrastante con la lettera e con gli scopi dell'ordinamento giuridico che quanto disposto dal provvedimento continuasse a giustificare o imporre comportamenti, per i quali non esistono più i presupposti di legge. A ben vedere, tuttavia, tale sopravvenuta mancanza dei presupposti di legge può presentarsi in forme diverse. Infatti, può darsi che la cessazione dei presupposti sia da un lato incontestabile, dall'altro di natura tale da rendere il prolungarsi dell'efficacia del provvedimento privo di senso. Si pensi, ad esempio, al vincolo di inedificabilità posto a tutela di una villa da tempo crollata (35), o alla requisizione di una automobile disposta per inseguire criminali in fuga, una volta cessata la fuga. In simili casi, più che di invalidità sopravvenuta dovrebbe parlarsi di perdita di efficacia del provvedimento (36): nel primo caso per l'evidente impossibilità di tutelare un bene inesistente, nel secondo in quanto esso era fin dall'inizio inteso come limitato alla sola azione dell'inseguire. Per lo più, tuttavia, la situazione sarà piuttosto di natura tale, da richiedere una nuova valutazione da parte dell'autorità competente, al fine di accertare, d'ufficio o su sollecitazione dei soggetti interessati, se il mutamento imponga la cessazione dell'efficacia del provvedimento: e se le circostanze siano in realtà tali da imporre come atto giuridicamente dovuto la rimozione del precedente provvedimento, invalido sarà - piuttosto che il provvedimento originario - il diniego dell'autorità di addivenire alla sua rimozione. Nè questa impostazione lascia, mi sembra, vuoti di tutela. Da un lato, la rimozione del provvedimento potrà essere disposta, in favore dell'interessato, anche retroattivamente; dall'altro, in caso di illegittimo diniego di rimozione l'interessato potrà ottenerne l'annullamento, e potrà altresì ottenere il risarcimento degli eventuali danni che dal diniego fossero derivati, secondo un principio di risarcibilità recente ma ormai acquisito. Altre volte, infine, si è ritenuto che vi sia «illegittimità sopravvenuta» quando «v'è una successione di leggi nel tempo e l'atto emanato in precedenza risulti in contrasto con la legge nuova» (37). Ma lo stesso autore che ha prospettato tale ipotesi ritiene che se la legge nuova «non stabilisce nulla, si deve in principio ritenere che la sopravvenuta illegittimità comporti soltanto che l'atto amministrativo non possa essere portato ad ulteriori conseguenze». Sembra perciò di poter dire che in questo caso l'espressione illegittimità sopravvenuta è utilizzata piuttosto come sinonimo di fatto estintivo dell'efficacia per sopravvenienza normativa, nel senso che il comportamento già disciplinato dal provvedimento risulta ora direttamente disciplinato dalla legge. E non v'è ragione, dunque, per non parlare direttamente e semplicemente di cessazione dell'efficacia: anche perché di regola - come noto - l'invalidità non comporterebbe affatto in quanto tale l'immediata cessazione degli effetti (38). L'esame qui compiuto, dunque, non ha portato alla individuazione di ipotesi nelle quali si possa dire in modo convincente che un provvedimento valido è in seguito - giuridicamente in seguito - divenuto invalido. Certamente l'esame compiuto è insufficiente per affermare che l'invalidità sopravvenuta del provvedimento amministrativo non esiste, ma esso mi sembra sufficiente per affermare che la nozione è fortemente problematica. 2) Se un provvedimento invalido possa nel tempo divenire valido. - La seconda questione riguarda la possibilità che un provvedimento originariamente invalido divenga nel tempo valido. Preciso subito tuttavia che non intendo qui riferirmi a quella che talora viene chiamata convalescenza dell'atto per mero decorso del tempo: la quale, come sembra pacifico, non rende affatto l'atto valido, ma semmai costituisce ostacolo efficace al suo annullamento d'ufficio (39). Se si volesse evitare la metafora insita nell'espressione, si potrebbe sostituirla con l'idea di una sopravvenuta irrilevanza dell'invalidità. Mi riferisco, invece, ai fenomeni tradizionalmente noti nel diritto amministrativo come convalida e come sanatoria. a. La convalida. - Secondo l'opinione consolidata, la convalida sarebbe un provvedimento di secondo grado espressamente rivolto a sanare, nei casi in cui ciè è possibile, un vizio del provvedimento, con effetto retroattivo. Individuato così il fenomeno, a me sembra che la teoria della convalida si trovi attualmente in uno stato complessivamente insoddisfacente. Insoddisfacente mi sembra l'indicazione del fondamento del potere, insoddisfacente quella dei casi di convalida (quando la si trova), insoddisfacente la teoria degli effetti, come pure la dottrina del momento in cui essa sia possibile, e dei modi in cui si possa addivenirvi (40). Nell'insieme, non risulta neppure chiara quale sia la funzione che l'istituto adempie nel sistema. Quanto al fondamento, è frequente il richiamo all'art. 1444 del codice civile (41). Sennonché, come esaurientemente già rilevava Giannini nel 1970, nel diritto privato «la convalida possiede, come sostanza caratterizzante, il fatto che la parte interessata non si vuole avvalere, a proprio vantaggio, degli effetti della fattispecie invalida», mentre nel diritto amministrativo «questa c.d. convalida non promana dall'interessato potenziale ad avvalersi degli effetti dell'atto invalido, bensì dalla parte opposta, cioè dall'autorità, che dovrebbe subire ... l'iniziativa dell'interessato ... volta ad utilizzare i rimedi contro l'atto invalido» (42). Si prendano poi i casi di convalida usualmente indicati, lasciando per ora da parte quello più noto e, mi sembra, più frequente nella prassi, cioè la convalida-ratifica del vizio di competenza. Secondo esempi correnti nella manualistica, vi sarebbe convalida in altri casi quali l'irrituale o la mancata convocazione di organo collegiale (43), il voto palese in luogo del voto segreto (44), l'errato computo o il mancato raggiungimento del quorum(45), la successiva introduzione o completamento della motivazione (46). Ma si tratta davvero di atti convalidabili? Se è stata fatta in modo palese una votazione che doveva per legge essere segreta davvero si potrà porre successivamente in votazione segreta la «convalida» della precedente, o non si dovrà piuttosto ripetere la votazione nei termini originari? A me pare che la seconda risposta sia obbligata, almeno nei casi in cui nella votazione originaria ci fossero più alternative di voto (per lo più, infatti, il voto segreto è richiesto per elezioni): infatti la scelta a voto segreto tra più alternative non pare sostituibile da una semplice adesione confermativa ad una scelta già fatta. Se parliamo del mancato raggiungimento del quorum dobbiamo precisare se parliamo del quorum funzionale o di quello strutturale: ma nella prima ipotesi l'atto non può dirsi assunto, sicché neppure può essere convalidato; nella seconda, a me sembra che se l'organo neppure poteva dirsi costituito la deliberazione irritualmente assunta non gli sia imputabile, e dunque non sia sanabile, o almeno non lo sia con effetto retroattivo. Quanto alla motivazione, suona strano il suo intervento «postumo», sempre che non si tratti non della vera e sostanziale motivazione dell'atto, ma della formale esternazione nel provvedimento di una motivazione nella sostanza già esistente: nel qual caso ci si chiede se davvero l'atto fosse invalido. Ed anche il primo esempio (mancata convocazione di organo collegiale) suona strano, dal momento che non si intende come un collegio non convocato possa riunirsi. Si può supporre, tuttavia, che il collegio abbia assunto una deliberazione al di fuori dell'ordine del giorno, e dunque su un punto per il quale non c'era convocazione. Questo, tra quelli indicati, è il caso più semplice, dato che ben può supporsi che in una successiva riunione il punto possa essere riportato all'ordine del giorno per «sanare» l'illegittimità. Ma con quali effetti? Qui veniamo all'aspetto a mio avviso più critico della teoria della convalida, quella dell'effetto retroattivo. Sul punto dottrina e giurisprudenza non sembrano avere dubbi (47). Quando non viene assunta come un dato naturale, la retroattività viene giustificata osservando che «se la convalida non retroagisse ... risulterebbe inutile, giacché si verificherebbe una vicenda identica alla sostituzione con un nuovo provvedimento di quello illegittimo»; e dunque «proprio perché ha efficacia consolidativa degli effetti la convalida ha necessariamente effetto retroattivo» (48). In termini simili, si è rilevato che «la convalida produce, come tutte le altre misure di riesame, effetti retroattivi» per la ragione che si tratta di un atto che «ha come scopo quello di sanare i vizi dell'atto precedente, che resta ciò non di meno l'atto di esercizio del potere sostanziale» cui sono riconducibili gli effetti (49). Sia consentito osservare che si tratta di argomenti non soddisfacenti. Quanto alla presunta inutilità, sembra evidente che la sostituzione con un nuovo atto implicherebbe lo svolgimento ex novo del procedimento, e dunque sarebbe un onere ben più grave, laddove per la convalida basta il venire in essere di un singolo atto; e che inoltre, se pure tale inutilità vi fosse, ciò non implicherebbe per ciò solo la necessità di ammettere l'effetto retroattivo, potendosi in alternativa porre in dubbio la stessa nozione di convalida. Quanto al carattere «accessorio» del provvedimento convalidante, esso implica evidentemente che gli effetti di base vengano ricondotti al provvedimento originario, ma non implica affatto che l'effetto sanante, quello proprio dell'atto di convalida, retroagisca anch'esso: e se pure implicasse ciò, non implica certamente che un siffatto provvedimento ad effetto retroattivo sia ammissibile. Inoltre, il ricondurre gli effetti esclusivamente all'atto originario, e non anche all'atto di convalida, non è un dato naturale, ma un elemento di costruzione giuridica che può essere messo in discussione. Con ciò veniamo ad altri due aspetti della convalida che evidentemente interagiscono con la questione della dimensione temporale degli effetti: il problema del rapporto tra convalida e situazioni soggettive ed il connesso problema del momento entro il quale o dopo l'amministrazione possa addivenire alla convalida. È evidente, infatti, che la principale conseguenza della asserita retroattività della convalida (e d'altronde la sua principale ragione pratica) è, come già rilevato nel passo di Giannini ora citato, di precludere all'interessato la possibilità di far valere a suo favore il vizio del provvedimento (50). Ma questa conseguenza rappresenta anche il maggiore problema della convalida: non solo infatti essa urta contro il principio di irretroattività dei provvedimenti sfavorevoli, ma urta anche, in modo specifico, contro gli articoli 24 e 113 della Costituzione, che assicurano il diritto di far valere dinanzi al giudice diritti e interessi legittimi, senza possibili limitazioni. Di qui un disagio che induce dottrina e giurisprudenza ad attenuare in qualche modo il riconoscimento del potere di convalida. Cosè è ricorrente in dottrina e giurisprudenza l'affermazione che «alla convalida di un provvedimento illegittimo non può procedersi in pendenza di un ricorso giurisdizionale» (51). Tuttavia, questa attenuazione è solo a prima vista appagante. In primo luogo, stranamente alla regola farebbe eccezione proprio il caso teoricamente più sicuro e praticamente più importante, cioè la convalida del vizio di incompetenza, prevista in modo espresso dalla legge n. 249 del 1968, che all'art. 6 dispone appunto che «alla convalida degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale». Si tratterebbe di una eccezione che rende marginale la regola generale, un'eccezione della quale inoltre non si saprebbe spiegare il fondamento costituzionale: sicché, a questo punto, dovrebbe a mio avviso seriamente dubitarsi della stessa legittimità costituzionale della disposizione. In secondo luogo, non può non apparire arbitrario che la tutelabilità della situazione soggettiva sia legata non alla scadenza del termine di impugnazione, ma ad una scelta unilaterale dell'amministrazione; sicché sembra evidente che la lesione degli artt. 24 e 113 della Costituzione non verrebbe del tutto meno. All'evidente fine di rimediare a tale incongruenza, parte della dottrina ha sostenuto che «la convalida va esclusa non solamente in presenza di un ricorso ma, più in generale, fintantoché l'atto che si vorrebbe convalidare non sia divenuto inoppugnabile, per essere trascorsi i termini fissati per la sua impugnativa» (52). La soluzione così proposta è certamente più appagante della precedente comunemente accolta; ma anch'essa presenta inconvenienti, che spiegano forse perché non abbia trovato generale accoglimento, quanto meno nella prassi giurisprudenziale. In primo luogo, mentre l'avvenuta impugnazione è un fatto relativamente certo, la effettiva decorrenza del termine non lo è altrettanto, o almeno può non esserlo sempre e non esserlo per tutti i soggetti interessati. Sicché la stessa amministrazione, ed allo stesso modo il giudice, potrebbero non sapere se in effetti l'atto sia convalidabile, e se sia convalidabile rispetto a tutti gli interessati: con la necessità di rinunciare alla convalida o di ammettere una convalida «relativa», che sembra fuori di luogo. Inoltre, un secondo inconveniente praticamente risulta anche maggiore del primo: se si dovessero convalidare solo atti inoppugnabili, per quale ragione, e con quale utilità, convalidarli, dal momento che essi sarebbero già stabili di fronte ai soli soggetti interessati a contestarli (53)? Ancora, anche questa soluzione subirebbe pur sempre l'eccezione espressa prevista dalla legge n. 249 del 1968 per il caso più importante di convalida. È stato anche affermato che la retroattività della convalida troverebbe un limite nei diritti soggettivi (54). Tuttavia, mentre non si intende la ragione per la quale gli interessi legittimi, a parità di riconoscimento costituzionale, potrebbero essere sacrificati più dei diritti, non è poi neppure chiaro come esattamente tale limite funzionerebbe. A questo punto, tuttavia, a me sembra più semplice e più esatto ragionare in termini diversi. Da un lato, è innegabile l'interesse dell'amministrazione a rimuovere vizi dell'atto che siano rimuovibili. Essa potrebbe comunque raggiungere tale risultato, come è stato osservato (55), mediante il ritiro dell'atto e la sua sostituzione con un altro di identico contenuto: e non si vede per quale ragione precludere la possibilità di ottenere lo stesso effetto mediante un più semplice provvedimento di convalida, ove tutte le rimanenti circostanze del procedimento e del provvedimento appaiano legittimamente svolte. Dall'altro, tale attività di convalida non può privare gli amministrati del diritto costituzionalmente riconosciuto di far valere l'illegittimità del provvedimento per il periodo in cui essa sia esistita, sin tanto che essi abbiano a ciò un interesse. Se si accetta questo punto di vista, i maggiori problemi relativi alla convalida sembrano dissolversi. Da una parte, il disposto dell'art. 6 della legge n. 249 del 1968 non appare più una incostituzionale eccezione ad una regola di inconvalidabilità ma la conferma di un principio generale, che ammette la convalida ove possibile: ed una volta che si tenga ferma l'invalidità, per il periodo in cui essa esisteva, risulta evidente che non c'è più ragione di vietare la convalida in corso di giudizio, allo stesso modo in cui sarebbe assurdo impedire all'amministrazione di porre nel nulla l'atto viziato e sostituirlo con un nuovo atto legittimo. Dall'altra, ai ricorrenti presenti e futuri - sin tanto che i termini non siano decorsi, e per tutto ciò per cui l'invalidità eventualmente rilevi al di fuori dei termini - è consentito di avvantaggiarsi della temporanea invalidità, nella misura in cui vi abbiano interesse. La convalida potrà dunque farsi in ogni tempo, vicino o lontano dal provvedimento, prima o dopo la scadenza dei termini di impugnazione o la stessa impugnazione; ma essa renderà incontestabile (sotto il profilo in questione) il provvedimento dal solo momento della convalida, mentre l'ammissibilità dell'azione eventualmente proposta (prima o dopo la convalida) avverso il provvedimento originario potrà portare (sempre in relazione al profilo oggetto di convalida) al solo annullamento per gli effetti prodotti prima della convalida, previa verifica che il ricorrente vi abbia interesse. Né l'evenienza dell'eventuale annullamento del provvedimento, limitatamente al periodo precedente la convalida, appare giuridicamente inspiegabile: tra le possibili, mi sembra da preferire quella che veda nella convalida non solo la esplicita volontà di sanare il vizio, ma anche, inevitabilmente, la implicita o esplicita volontà di mantenere la regolazione propria del provvedimento, la quale dunque troverebbe la sua base nell'atto di convalida anche dopo l'annullamento della prima volizione. b. La sanatoria. - Il termine sanatoria è usato correntemente in dottrina per indicare «la vicenda dell'atto strumentale che segue l'emanazione del provvedimento cui si riferisce», quando al successivo sopraggiungere dell'atto che avrebbe dovuto invece precedere il provvedimento possa riconoscersi «effetto sanante sull'invalidità di questo» (56). Si tratta della vicenda usualmente esemplificata con l'ipotesi del nulla osta che segue, anzichè precedere, il provvedimento finale del procedimento. Correttamente, si avverte che «la sanatoria così intesa differisce intrinsecamente dalla convalida», per la ragione che «esiste non un autonomo provvedimento di secondo grado, sibbene l'effetto di una particolare vicenda di collegamento tra atti dell'amministrazione pubblica» (57). In altre parole, non esiste alcun atto rivolto a produrre un effetto sanante, ma un effetto sanante generato da un atto che ha una sua distinta ragion d'essere nel procedimento. Poichè è sottinteso che in questo caso l'effetto sanante si produce ab origine - di modo che nessun aspetto di invalidità passata rimane azionabile - ci si deve qui chiedere se le obbiezioni rivolte alla asserita efficacia retroattiva della convalida abbiano ragione d'essere anche in relazione alla sanatoria. A mio avviso, tali obbiezioni non hanno qui ragione di porsi, ma questo a causa della circostanza che il c.d. «effetto sanante» può (e deve) in questo caso essere spiegato senza ricorso alla nozione di retroattività. Soccorre qui piuttosto una distinzione, che può essere tracciata, tra invalidità comminata per sanzionare una sicura lesione dei valori protetti dalle norme, e invalidità comminata per sanzionare una lesione solo potenziale di tali valori. Rimanendo all'esempio del provvedimento da assumere previo nulla osta, si ipotizzi che esso venga emanato nonostante il nulla osta sia stato espressamente negato: è evidente in questo caso la lesione effettiva del valore tutelato dalla norma. Ma se il provvedimento è stato emanato in assenza del nulla osta - ma non in contrasto con un espresso diniego l'innegabile invalidità è posta a tutela non di una lesione certa, ma di una lesione potenziale di quel valore. Il tardivo sopraggiugere del nulla osta attesta che una lesione sostanziale non c'è e non c'è mai stata. Di conseguenza, dopo che sia venuto in essere il nulla osta la violazione dell'ordine procedurale appare, retrospettivamente ma non retroattivamente, dequotata a mera irregolarità (58). Il cosiddetto effetto sanante sembra qui doversi dunque definire in termini di sopravvenuta irrilevanza del vizio, nel senso che l'atto sopraggiunto mostra che nella sostanza l'assetto di interessi determinato dal provvedimento era sotto il profilo considerato (quello dell'interesse tutelato dall'atto in origine mancante) corretto, che cioè non è stato leso l'interesse alla cui protezione era finalizzato l'atto (prima) mancante. Non si tratta di un vero fenomeno di «retroattività» di un effetto costitutivo specifico di un provvedimento. Semplicemente, l'invalidità era comminata in relazione ad un rischio potenziale (la lesione dell'interesse protetto dall'atto mancante) e il sopraggiungere dell'atto rivela che tale rischio non era reale (59). Vorrei qui solo aggiungere che andrebbe apprezzato se dietro taluna delle vicende che talvolta vengono ipotizzate come esempi di convalida non si nasconda in realtà una sanatoria, nel senso sopra indicato. Ad esempio, il «difetto di motivazione» è tipicamente una fattispecie di invalidità comminata a tutela della lesione potenziale dei principi che impongono un corretto e ragionato percorso decisionale: sicché il suo «sopraggiungere» può essere inteso - più che come atto di volontà rivolto alla convalida - quale dimostrazione che la lesione potenziale indicata come possibile dal difetto di motivazione non corrispondeva ad una lesione reale (60). Complessivamente, la risposta alla domanda se un provvedimento nato invalido possa divenire valido sarebbe nel senso che ciè è possibile in determinati casi, ma mai con effetto retroattivo quando si tratti di provvedimenti con effetti (anche) restrittivi, e che è importante distinguere la vera convalida dalla sopravvenuta irrilevanza della violazione delle norme. 3) Può l'amministrazione porre nel nulla successivamente un atto nato invalido, sulla base di quali presupposti e con quali effetti? - La risposta che nella dottrina e nella giurisprudenza amministrativa italiane è data a questa domanda forma la nota teoria dell'annullamento d'ufficio. L'annullamento d'ufficio ha un ruolo importante nel sistema soprattutto perché consente di eliminare un provvedimento e i suoi effetti al di là di quanto consentirebbe il potere di revoca: sia in quanto permette di porre nel nulla gli effetti di un provvedimento non revocabile, sia in quanto permette di eliminare gli effetti già prodotti, che la revoca non potrebbe eliminare. Come è ben noto, la giurisprudenza riconosce senza esitazioni tale potere, subordinando tuttavia l'annullamento all'esistenza di un interesse pubblico specifico da tutelare - diverso dal generico interesse al rispetto della legalità (61) - che prevalga sugli interessi o affidamenti degli eventuali beneficiari del provvedimento. L'istituto ha un suo margine di ambiguità, non solo perché non è riconosciuto dalla legislazione se non in modo frammentario (62), ma soprattutto perché non è chiaro se il suo vero scopo sia di eliminare atti illegittimi (a condizione che siano inopportuni) o di eliminare atti inopportuni (a condizione che siano illegittimi) (63). In ogni modo, la possibilità per l'amministrazione di sopprimere un proprio atto invalido è ammessa in un modo o nell'altro nei maggiori ordinamenti europei, come (oltre che in Italia) in Francia, Inghilterra, Germania e nella stessa Comunità europea. Il fondamento del potere - che solo in Germania ha una disciplina legislativa espressa, mentre negli altri ordinamenti ricordati è riconosciuto dalla tradizione giurisprudenziale - viene spesso ricondotto al principio di legalità (nel senso di necessario rispetto della legge, non nel senso di necessario fondamento legale del potere), ma la soluzione non sembra del tutto soddisfacente: perché mentre è molto chiara la ragione per la quale tale principio esige di per sé la rimozione dell'atto illegittimo, non è affatto chiaro perché il pricipio di legalità debba implicare che si riconosca all'amministrazione una particolare autorità nel decidere se un atto che essa prima riteneva legittimo sia in realtà illegittimo. Se l'istituto appare comune a molti ordinamenti, vi sono tuttavia equilibri diversi tra le esigenze della legalità e quelle della certezza delle situazioni giuridiche. In Francia la soluzione era codificata dal Conseil d'Etat - conformemente alle tradizioni di tale ordinamento - nell'arrêt Dame Cachet del 1922, secondo il quale l'annullamento d'ufficio era possibile nel (breve) termine concesso ai privati per l'impugnazione, sulla base di una condizione di naturale discutibilità del provvedimento: prima del termine erano dunque prevalenti le esigenze della legalità, dopo il termine quelle della stabilità, divise in modo (in teoria) chiaro e distinto. Di fronte alle complicazioni che il tempo aveva rivelato nell'applicazione di una regola apparentemente così semplice (i casi in cui il termine non decorre per mancanza di pubblicità dell'atto, i casi in cui l'atto è effettivamente stato impugnato da taluno) con il nuovo arrêt Ternon del 26 ottobre 2001 lo stesso Conseil d'Etat ha modificato tale criterio, seguendo tuttavia lo stesso principio ispiratore, meglio servito ora dalla nuova regola secondo la quale l'amministrazione può annullare d'ufficio i propri provvedimenti entro quattro mesi dalla loro assunzione, senza più alcun rapporto con il termine di impugnazione (64). In Inghilterra l'ordinamento riconosce tale potere nella massima estensione, conferendo così un netto privilegio alle istanze della legalità, come viste dall'amministrazione, la quale può in linea di principio sempre ritirare una decisione illegittima, senza significative limitazioni legate a possibili affidamenti (65). Sicché, in attesa di una evoluzione talora auspicata (66), l'Inghilterra appare per ora l'ordinamento nel quale maggiormente le aspettative individuali devono cedere dinanzi ad una legalità concepita come «sacrosanta» (67). In Germania vige sul punto l'analitica disciplina del § 48 della legge sul procedimento amministrativo, i cui punti essenziali sono: i provvedimenti illegittimi possono essere eliminati anche dopo che sono divenuti inoppugnabili (Abs. 1); tuttavia, i provvedimenti che riconoscono o conferiscono diritti o vantaggi giuridicamente rilevanti non devono venire eliminati se il beneficiario ha un affidamento degno di tutela, ponderato rispetto all'interesse pubblico (Abs. 1 e 2); se nonostante l'affidamento degno di tutela l'atto viene eliminato, il danneggiato ha diritto all'indennizzo (Abs. 3). Può essere interessante notare che né l'ordinamento francese, né quello inglese né quello tedesco utilizzano la terminologia dell'annullamento per indicare il fenomeno della soppressione del provvedimento invalido da parte della stessa amministrazione. La terminologia usata allude, più che a ciò che accade all'atto in sé, alla circostanza che è l'amministrazione che lo «riprende indietro»: il diritto francese parla di retrait, quello inglese sembra utilizzare il nome generico di revocation, il diritto tedesco usa il termine Rücknahme(68). Ciò distingue nettamente, anche sul piano della terminologia, l'atto dell'amministrazione dall'atto del giudice. La netta distinzione, anche terminologica, tra l'eliminazione del provvedimento illegittimo per ragioni di garanzia dei diritti ed interessi dei singoli e l'eliminazione del provvedimento illegittimo da parte della stessa pubblica amministrazione consente di affrontare diversamente anche il tema degli effetti dell'atto con cui il provvedimento viene eliminato, in particolare sotto il cruciale profilo della retroattività o irretroattività. Infatti, gli ordinamenti che pongono l'accento sul «riprendere indietro» l'atto illegittimo consentono in genere di modulare gli effetti dell'atto di ritiro: per cui l'eventuale estensione di tali effetti al passato non corrisponde ad una ineluttabile natura dell'atto, ma ad eventuali esigenze di pubblico interesse concretamente riscontrato (69). In Italia, l'avere inquadrato il fenomeno come annullamento ed il parallelo con ciò inevitabile con le altre forme di annullamento (ed in primo luogo, ovviamente, con l'annullamento giurisdizionale) hanno portato alla affermazione della identità delle due figure sotto il profilo degli effetti. In concreto, ciò si è tradotto nella affermazione della necessaria o naturale retroattività dell'annullamento d'ufficio (70). La sola attenuazione che si ammette è legata al principio factum infectum fieri nequit, che tuttavia opera, appunto, sul piano del fatto e non su quello del diritto (71). A me sembra che ci possa essere un errore di prospettiva nel guardare, anziché alla sostanza del problema, alle implicazioni della parola annullamento. Se si guarda alla sostanza, mi pare evidente che nelle decisioni di tipo giustiziale (giurisdizionali e amministrative) la retroattività è collegata alla funzione di protezione e di garanzia verso il ricorrente, più che alla «natura» dell'atto. Nella decisione amministrativa di ritiro dell'atto illegittimo, invece, non si vede perché escludere - soprattutto in relazione all'affidamento dei privati - la possibilità di eliminare l'atto per il futuro, senza toccarne gli effetti passati. Del resto, la stessa esistenza di tale possibilità in diversi ordinamenti europei mostra che non si tratta di un problema dogmatico, ma di una regola che può riconoscersi in un senso o nell'altro. Ora, se sulla base della tradizione e di pur frammentari elementi di diritto positivo si ammette la possibilità che l'amministrazione elimini propri atti illegittimi retroattivamente, mi pare sia difficile trovare ragioni per non ammettere la possibilità di farlo non retroattivamente, con una soluzione meno drastica che potrebbe non raramente favorire l'equilibrio tra le esigenze di tutela della legalità e dell'interesse pubblico con quella di non penalizzare eccessivamente chi abbia pur sempre agito sulla base di un provvedimento esistente ed efficace. Quando poi alla denominazione da riservare a tale possibilità, potrebbe riuscire anche relativamente indifferente la conservazione della terminologia dell'annullamento (puntando allora su una sorta di scindibilità temporale della disciplina recata dall'atto) o l'uso di un diversa terminologia. 4. Per connessione con la problematica sin qui affrontata mi sembra opportuno qui, infine, almeno un cenno alla problematica della c.d. conferma, che secondo nozioni divulgate si riferirebbe ai casi in cui un procedimento di riconsiderazione di un provvedimento sfavorevole, aperto sulla base di una istanza dell'interessato, si conclude con la constatazione che non vi era illegittimità né altra ragione di ritornare sul provvedimento originario. A questo proposito sia consentito di notare che - nonostante attente analisi compiute nel passato dalla dottrina (72) - si è diffusa nel diritto amministrativo una strana teoria, che distingue l'atto confermativo dall'atto «meramente confermativo», ponendo la differenza nel fatto che nel primo caso l'atto originario sarebbe confermato da un nuovo provvedimento a seguito di una riapertura dell'istruttoria e di un riesame delle circostanze di fatto o di diritto, mentre nel secondo l'autorità amministrativa ribadirebbe il precedente provvedimento senza riaprire l'istruttoria: e traendone la cruciale conseguenza che nel primo caso il «nuovo» atto (che si sostituirebbe negli effetti al precedente) sarebbe impugnabile, nel secondo invece no (73). In questi termini, tuttavia, tale dottrina mi sembra del tutto inaccettabile. Essa si riduce ad affermare che l'amministrazione diligente, che prima di rispondere negativamente prende in considerazione l'istanza del privato, si espone alla nuova impugnazione, mentre l'amministrazione neghittosa ed impudente rimane protetta dall'inoppugnabilità del provvedimento originario. A me sembra evidente, invece, che se l'istante allega fatti astrattamente idonei a far sorgere nell'amministrazione il dovere di riconsiderare il precedente provvedimento, saranno in primo luogo illegittimi ed impugnabili sia la semplice inerzia dell'amministrazione sia l'atto con il quale essa, più o meno sbrigativamente, neghi tale idoneità (74) (il che non comporta affatto, ovviamente, l'impugnabilità del provvedimento originario divenuto inoppugnabile). Quando d'altronde sulla base dell'istanza l'amministrazione provveda a riconsiderare il provvedimento originario e la situazione da esso generata, a me sembra si debba affermare che per l'amministrazione tornare a provvedere avrà un senso soltanto quando a seguito della riconsiderazione della fattispecie vi sia da modificare in tutto o in parte quanto prima disposto. Quando invece l'amministrazione ritenga che la considerazione non debba portare a modificare quanto già disposto, non si vede per quale ragione essa dovrebbe tornare a provvedere nel merito, con una «conferma» della quale non c'è nessun bisogno, e che non produrrebbe alcun autonomo effetto giuridico se non quello di dare un nuovo termine di impugnazione al ricorrente che ha perduto quello relativo all'originario atto lesivo. In questo caso, al contrario, la c.d. «conferma», ma più esattamente l'atto conclusivo del procedimento di riconsiderazione, non sarà altro, in generale, che la dichiarazione che non sussistono elementi per tornare a provvedere: ed una simile dichiarazione, comunque motivata, sarà sicuramente per se stessa impugnabile (per far valere che tali elementi in realtà esistono), ma altrettanto certamente non riapre i termini per l'impugnazione del provvedimento originario (75), e meno ancora - a mio avviso - si sostituisce ad esso come provvedimento determinativo degli effetti giuridici. Se quanto qui osservato è da condividere, risulterà evidente che la singolare teoria secondo la quale il mancato esame genera un atto non impugnabile, mentre un nuovo approfondito esame rinnova in sostanza l'impugnabilità dell'atto originario, risulta inaccettabile in entrambi i suoi punti (76). Giunti alla fine di questa esposizione, rimane da trarne la conclusione. Ma sui singoli punti affrontati non vi possono essere conclusioni diverse da quelle già esposte, che non sarebbe certo utile sintetizzare ulteriormente. La conclusione più generale che potrebbe essere tratta dalle considerazioni che precedono è che non poche delle teorie che riguardano le vicende del provvedimento nel tempo, in relazione alla sua efficacia e soprattutto in relazione alla sua validità, si trovano in uno stato non del tutto soddisfacente, e meritano di essere riconsiderate. So bene di avere discusso in termini troppo rapidi e troppo netti questioni complesse, che meriterebbero un riesame approfondito. Mi auguro che le riflessioni qui svolte possano considerarsi come un contributo a tale riesame. NOTE (*) Questo scritto costituisce la formalizzazione della relazione svolta sul tema nell'ambito del Convegno su Tempo, spazio e certezza nell'azione amministrativa, Varenna 19-21 settembre 2002. (1) «Indirettamente» nel caso in cui il provvedimento abbia a diretto oggetto una mera qualificazione giuridica in quanto tale (ad esempio, la condizione di proprietario nell'espropriazione), mentre il comportamento effettivo risulta poi qualificato direttamente proprio dalla qualità giuridica costituita dal provvedimento. (2) Cfr. tra i tanti CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Ristampa aggiornata al 31 dicembre 2001, Torino, 2002, 528 s. Tuttavia, tale distinzione non sempre è chiara, nè è sempre chiaro il criterio di classificazione. Ad esempio, secondo GIANNINI (Istituzioni, 2 ed., Milano, 2000) «vi sono provvedimenti ad effetto istantaneo (p. es. l'espropriazione: il diritto espropriato si estingue al momento dell'efficacia del provvedimento), a durata determinata (p. es. concessione trentennale), a durata permanente (p. es. attribuzione della personalità giuridica), a durata perpetua (l'effetto si estingue con l'avverarsi di un fatto futuro ed incerto)» (319). Ma la durata «istantanea» e quella «permanente» si assomigliano notevolmente, dato che in entrambi i casi lo status creato dal provvedimento (di proprietario, di persona giuridica) nascono in un solo istante e si prolungano nel tempo, senza che vi siano evidenti differenze nel collegamento di tale status con il provvedimento. D'altronde, il nascere in un solo istante e il prolungarsi nel tempo caratterizza anche i provvedimenti a durata determinata e quelli a durata perpetua: sicché la sola differenza sarebbe che mentre quelli c.d. istantanei e quelli permanenti non sono soggetti a cessare nel tempo, i rimanenti sarebbero istituzionalmente destinati a cessare, gli uni in un momento predefinito, gli altri in un momento eventuale ed incerto. Di conseguenza, ne risulterebbe - in un certo senso paradossalmente - che gli atti comunemente considerati ad efficacia durevole sono in realtà quelli la cui efficacia nel tempo è destinata a scomparire, mentre gli atti considerati normalmente ad efficacia istantanea sarebbero quelli il cui effetto è destinato a perpetuarsi senza limitazioni di tempo. (3) V. ad esempio, con riferimento ai diritti inglese, francese e della Comunità europea SCHØNBERG, Legitimate expectations in administrative law, Oxford, 2000, 65 s. («it is important to distinguish between decisions which have a continuous temporal dimension (such as a licence or a pension) and temporally complete decisions the effects of which are exhausted at the time of the decision itself (such as an award of compensation)». (4) Naturalmente, può bene essere (anche se non è frequente) che diverse parti di un provvedimento scindibile divengano efficaci in momenti differenti: ma ciò nulla ha a che fare con il prolungarsi nel tempo dell'efficacia di un provvedimento. (5) Al contrario, ad esempio, delle facoltà proprie del concessionario. Si noti tuttavia che l'espropriazione, o piuttosto l'appropriazione del bene al (nuovo) proprietario è ovviamente strumentale ad un determinato uso delle facoltà proprietarie. Troviamo dunque nel provvedimento anche un elemento modale, consistente nel collegamento tra l'acquisizione della proprietà e la realizzazione dell'opera pubblica alla quale l'espropriazione è finalizzata. Tale nesso rimane rilevante nel tempo, dato che in virtù di esso il bene è soggetto - su richiesta dell'avente diritto - alla retrocessione nell'ipotesi in cui entro un certo tempo l'opera non venga realizzata (se la retrocessione è limitata ad una sola ipotesi tipica - esclusa, ad esempio, la cessazione dell'attività della fabbrica per la cui costruzione l'espropriazione era stata realizzata, o l'abbandono della strada costruita -, ciò costituisce una scelta del legislatore legata forse ad esigenze di semplicità del sistema giuridico e di certezza delle situazioni proprietarie). (6) Salvo ovviamente quanto detto alla nota precedente, in relazione alla retrocessione. (7) Cfr. ancora CERULLI IRELLI, op. cit., 528. (8) Naturalmente la problematica è diversa per gli atti sfavorevoli. Se si tratti di atti non ancora eseguiti è ovviamente consentita all'amministrazione una diversa valutazione, salvo il dovere di coerenza dell'azione amministrativa e di rispetto per l'interesse pubblico. Se si tratti di atti già eseguiti, l'ipotesi di una successiva volontaria soppressione da parte dell'amministrazione sembra invece alquanto teorica. (9) Così le autorizzazioni di polizia hanno durata di un anno (art. 13 TU), e limiti di durata sono ugualmente stabiliti per la patente di guida, per le licenze di commercio, per le concessioni di beni e servizi. Si osservi che talora la stessa legislazione - oltre che la lingua comune - usa in questo contesto parlare di periodo di «validità» dell'atto: in un senso che tuttavia corrisponde qui alla problematica della mera efficacia. (10) La cessazione dell'effetto non implica che dopo di essa il destinatario del provvedimento si trovi esattamente nella situazione di partenza. Così ovviamente diversa può essere, sotto alcuni profili, la situazione di chi richieda per la prima volta una autorizzazione commerciale dalla situazione di chi ne chieda il rinnovo dopo la scadenza. Le verifiche richieste per il rinnovo possono essere più semplici o di ambito più limitato di quelle previste per il primo rilascio, ed ovviamente differente è la situazione in relazione alla tutela cautelare. (11) Così l'art. 11, u.c., TUPS dispone che «le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare in tutto o in parte le condizioni alle quali sono subordinate e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego dell'autorizzazione». Ma risultano documentati almeno centonovantanove casi in cui le leggi prevedono poteri di revoca (cfr. GHETTI, Brevi note in ordine alla revoca dell'atto amministrativo, in Scritti in onore di Aldo Piras, Milano, 1996, 305 ss., citato da IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, Torino, 1999, 110): ancorché - come rileva IMMORDINO, op. cit., 110, nota 115 - si tratti il più delle volte di atti diversi dalla revoca per interesse pubblico. (12) Accanto alle ipotesi ricordate ad esempio da VILLATA (L'atto amministrativo, in MAZZAROLLI, PERICU, ROMANO, ROVERSI MONACO, SCOCA, Diritto amministrativo, 2 ed., Bologna, 1998, II, 1539), cioè il venire meno dei presupposti di fatto di una requisizione, di un divieto di uso di acque o di balneazione, può farsi quella di un vincolo di inedificabilità posto a tutela della visuale di una villa, nel frattempo andata distrutta. (13) Si supponga, ad esempio, la perdita di un requisito di abilità fisica nel titolare di un'autorizzazione. L'ipotesi è meno presente nella letteratura, probabilmente perché, mancando un interesse privato a far rilevare il venire meno del requisito, di regola l'amministrazione si accorge della nuova situazione soltanto nell'occasione del rinnovo. Per un caso pratico giurisprudenziale si v. comunque quello deciso da Cons. St., V, 22 maggio 2001, n. 2823, ove espressamente si afferma che «l'accertamento della sopravvenuta inefficacia della concessione di passo carrabile» in relazione ad un sopravvenuto «difetto del suo presupposto essenziale» (nel caso, l'edificazione di un manufatto ove prima era lo spazio per lo stazionamento degli autoveicoli) costituisce «atto dovuto e vincolato per l'amministrazione». (14) Come ritiene nella trattatistica generale, ad esempio, VILLATA, op. cit., 1535 s., e soltanto con riferimento alla revoca per sopravvenienza. Si veda comunque la ricostruzione analitica del dibattito dottrinale in IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, cit., in particolare, 95 ss. (15) Cfr CERULLI IRELLI, Corso, cit., 557 s. (16) SCHØNBERG, op. cit., 69. (17) Come documenta lo stesso SCHØNBERG, op. cit., 66 ss., 73 ss., 102 ss. (18) Cfr. CHAPUS, Droit administratif général, 5 ed., Paris, 1995, I, 1028 s. (19) Così SCHØNBERG, op. cit., 71. (20) Cfr. ancora SCHØNBERG, op. cit., 86 s. (21) Per la tesi v. CORSO, L'attività amministrativa, Torino, 1999, 185 ss. (il che ovviamente non significa che l'autore ritenga revocabile qualunque atto, data l'esistenza di limitazioni dovute all'affidamento). A me sembra che i poteri amministrativi siano in genere inesauribili, se con ciò si intenda che possono o devono essere esercitati tutte le volte che se ne verifichino i presupposti di fatto e di diritto. Ma in questo senso l'inesauribilità è quasi una tautologia, e comunque non distingue il potere amministrativo da qualunque altro potere pubblico. Se invece per inesauribilità del potere si intende la possibilità di disporre ulteriormente dell'effetto prodotto dal provvedimento mediante successivi provvedimenti, occorre constatare che per innumerevoli poteri amministrativi ciò non corrisponde affatto al vero, e che dunque in questo senso essi non sono affatto inesauribili. Espropriazione, permessi edilizi, iscrizioni scolastiche, titoli di studio e professionali, sanzioni amministrative e disciplinari, ecc., licenze di esportazione di beni artistici, permessi di modificare beni sottoposti a tutela paesistica, sono esempi di provvedimenti in relazione ai quali l'effetto prodotto dall'atto legittimo non è più disponibile da parte dell'amministrazione il cui provvedimento ha prodotto quell'effetto. Il problema si pone invece quando l'azione disciplinata dal provvedimento si prolunga nel tempo (v. sopra nel testo). Di qui il doppio rimedio della scadenza e del potere di disporre dell'effetto (revoca). A questa famiglia si collega anche la decadenza, come automatico venire meno dell'effetto prodotto dal provvedimento (anche se c'è poi la complicazione dell'accertamento della decadenza). La c.d. inesauribilità del potere non è dunque il punto di partenza, ma il punto di arrivo di un ragionamento relativo a singoli poteri, quale riflesso del carattere duraturo e ripetitivo nel tempo di una attività che è stata permessa sulla base di un atto localizzato nel passato, e della necessità di dotare l'amministrazione di un potere di verifica che i requisiti soggettivi e oggettivi permangano nel tempo, e di disporre la cessazione del permesso in caso contrario. (22) Accenna al possibile fondamento nell'art. 11 della l. 241 CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1994, 578. La tesi è poi sostenuta, più decisamente, da IMMORDINO, Revoca, cit., in particolare, 121 ss. (ove la tesi è anche fondata sul «principio di efficacia» posto come obiettivo dell'azione amministrativa, che tuttavia sembra troppo generico per trarne qualunque specifica indicazione). Sul punto cfr. altresì ora, dubitativamente, anche SORACE, Diritto delle pubbliche amministrazioni. Una introduzione, Bologna, 2002, 342. Anche CORPACI, Revoca e abrogazione nel diritto amministrativo, in Dig. discipl. pubblcistiche, XIII, Torino, 1997, 332 s. espone la tesi qualificandola come «una interpretazione estensiva, più o meno lata, dell'art. 11, 4º co., della legge n. 241». Non mi sembra comunque decisivo l'argomento portato nel senso che, se non si ammettesse l'estensione del dovere di indennizzo alla revoca unilaterale, non si capirebbe il perché di una rinuncia «a un regime che consente di far pagare la sopravvenienza di motivi di interesse pubblico all'altra parte» (così MARZUOLI, Le privatizzazioni fra pubblico come soggetto e pubblico come regola, in Diritto pubblico, 1995, 408, cit. in CORPACI, op. cit., 332): perché la convenzione è stipulata in vista degli impegni che l'altra parte assume, e che non vi sarebbero nel solo atto unilaterale (sicchè è forse in tali impegni assunti a fronte dell'impegno dell'amministrazione, più che negli effetti del provvedimento, che va cercata la ragione dell'indennizzo). (23) In altre parole, la facoltà di cui all'art. 11 si riferirebbe soltanto a quanto di vincolo derivi dal patto, e non inciderebbe di per sé sul regime dei provvedimenti posti in essere attraverso il patto (se si tratta di patto sostitutivo di provvedimento) o in esecuzione del patto (se si tratta di patto procedimentale). (24) Vi sono situazioni in cui è evidente che l'amministrazione ha un potere di disposizione esso stesso «continuo», che può portare alla revoca di precedenti disposizioni. Così ad esempio quando la l. n. 537 del 1993 prevede la revoca dei provvedimenti che hanno comportato lo spostamento di dipendenti al servizio di amministrazioni diverse dalla propria «se sono cessate le ragioni di pubblico interesse per le quali i provvedimenti sono stati adottati» (art. 30, co. 1, ricordato da IMMORDINO, op. cit., 119) non si può affermare che la norma fondi un potere di revoca altrimenti inesistente, perché essa in realtà si limita a sancire la doverosità dell'esercizio di un potere che è ovviamente compreso nel potere di disporre del lavoro dei dipendenti. Sotto altro profilo, la revoca delle autorizzazioni di polizia, se pure non fosse espressamente prevista, dovrebbe ammettersi comunque nel momento in cui l'autorità di pubblica sicurezza ha comunque il potere, in caso di grave necessità pubblica, di «adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica» (art. 2 TU), e per la stessa descrizione dei compiti dell'autorità di polizia e degli specifici poteri, che lascia intendere, ad esempio, come il porto d'armi non possa mai considerarsi un «diritto» acquisito. (25) Più problematico invece è il rapporto tra abrogazione e sopravvenuta illegittimità quando si tratti di giudicare della pura e semplice sopravvivenza della norma, per contrasto con una sopravvenuta regola o principio costituzionale. In questo caso, il «vantaggio» offerto dal giudizio consiste nella specializzazione del giudice e soprattutto nell'effetto erga omnes immediatamente proprio della pronuncia di illegittimità costituzionale, a fronte del lungo percorso talvolta necessario affinché la constatazione di una avvenuta abrogazione (soprattutto quando il contrasto non sia evidente) si consolidi nell'ordinamento. (26) Ferma la possibile utilizzabilità di atti procedimentali compiuti secondo discipline anteriori, secondo principi sui quali non occorre qui soffermarsi. (27) Lo osserva, tra gli altri, MAZZAROLLI, Gli atti, cit., 99 nota 7, con indicazione dei precedenti dottrinali di Romanelli, Zanobini e Alessi. Nella letteratura più recente si veda enunciato il principio ad esempio in CAVALLO, Atti e provvedimenti amministrativi, Padova, 1993, 310 s., nonché (peraltro criticamente), da VILLATA, L'atto amministrativo, in MAZZAROLLI ed altri, Diritto amministrativo, II ed. 1998, II, 1466 ss., con richiamo di Cons. St., VI, 20 maggio 1995, n. 498. (28) Ciò peraltro non implica che non possano risultare importanti sotto altri profili, ad esempio sulla rilevanza del vizio, o sull'interesse a farlo valere: il che può contribuire a spiegare (al di là della sola ipotesi della retroattività della nuova legislazione) la ragione per la quale la Corte costituzionale, investita dal giudice amministrativo della questione di legittimità costituzionale di normative che disciplinano provvedimenti nel corso di giudizi aventi ad oggetto la validità di tali provvedimenti, sia solita restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza quando sopravvenga una nuova disciplina legislativa. (29) Così, tra gli altri, VILLATA, L'atto, cit., 1468, prospetta questa ipotesi con richiamo a Cass., S.U., 10 dicembre 1993, n. 12160. (30) Vedi ancora VILLATA, op. cit., 1467. (31) Viene qui in considerazione la constatazione che «la norma retroattiva ... impone sempre una rivalutazione, compiuta ora per allora, di situazioni formatesi sulla base di precetti diversi», secondo l'osservazione di TARCHI, Le leggi di sanatoria nella teoria del diritto intertemporale, Milano, 1990, ricordato anche da PERONGINI, La formula, cit., 198. (32) Nell'ambito del Convegno che ha ospitato la relazione qui formalizzata si è osservato in sede di sintesi (Morbidelli) che l'ipotesi di invalidità sopravvenuta per sopravvenienza normativa retroattiva si potrebbe realizzare sia in caso di legge di interpretazione autentica che in caso di emanazione di un decreto-legge non seguito dalla legge di conversione. Sia consentito di osservare, quanto al primo caso, che secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale la legge di interpretazione autentica non ha contenuto libero, ma deve necessariamente codificare uno dei significati possibili della disposizione originaria: ed in questo senso non mi sembra si possa affermare che l'invalidità sia realmente «sopravvenuta», neppure da un punto di vista fattuale (semmai è sopravvenuta la certezza di quella determinata interpretazione). Quanto al decreto-legge non convertito, non si può in effetti negare che la mancata conversione, comportando il venire meno della disposizione fin dall'inizio, possa rendere a seconda dei casi nullo o annullabile il provvedimento emanato sulla sua base o da esso in parte regolato. Posto però che anche in questo caso l'invalidità sarà giuridicamente originaria, proprio in virtù della stessa retroattività, sarà anche difficile che si ponga in concreto il problema pratico dei termini di impugnazione, essendo poco frequente l'ipotesi di un provvedimento attuativo del decreto legge emanato lo stesso giorno o nei giorni immediatamente successivi al decreto stesso. Se ciò accadesse, la natura istituzionalmente precaria del decreto-legge comporta la possibilità di un ricorso cautelativo: anche se è evidente che in singoli casi ragioni di equità sostanziale potrebbero portare a considerare scusabile l'eventuale mancato rispetto del termine. Nella stessa sede di sintesi si è anche ritenuto che ulteriore fenomeno di invalidità sopravvenuta potrebbe verificarsi in relazione alla potenziale illegittimità costituzionale sopravvenuta di disposizioni regolatrici di provvedimenti. Mi pare però che, proprio in quanto in ipotesi l'illegittimità costituzionale sarebbe sopravvenuta, essa non potrebbe influire sulla validità del provvedimento amministrativo già emanato, come argomentato di seguito nel testo per l'ipotesi di successivi mutamenti normativi. (33) Per vero si è parlato di una «sorta» di invalidità sopravvenuta dell'atto (SORACE, Il diritto, cit., 342), manifestando già nell'espressione il dubbio che il fenomeno si manifesti realmente in quei termini. (34) La distinzione tra le due ipotesi potrebbe avere rilievo anche in campi diversi dal diritto amministrativo, ad esempio in campo penale: crollata la villa, commette reato colui che viola il vincolo paesistico posto a tutela di essa e non ancora rimosso? Può il giudice penale «disapplicare» a questi fini il provvedimento? (35) Da tempo crollata, perché in effetti nell'immediatezza del crollo non si può escludere una decisione di ricostruzione, che potrebbe a mio avviso giustificare la conservazione del vincolo. Il tempo trascorso varrebbe ad attestare il carattere ormai definitivo dell'inesistenza del bene protetto, e dunque l'impossibilità concettuale e pratica di un vincolo a sua protezione. (36) Conferma di ciò può trarsi, in giurisprudenza, dalla decisione del Consiglio di Stato n. 2823 del 2001, nella fattispecie ricordata sopra, nota 13. (37) Così CAPACCIOLI, Manuale di diritto amministrativo, I, Padova, 1983, 421. (38) Ad una condizione di inefficacia sopravvenuta mi sembrano da riportare anche le vicende del provvedimento reso famoso nella giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee dal caso Ciola (sentenza del 29 aprile 1999, in causa 224/97, Erich Ciola c. Land Voralberg), vicende che taluno ritiene, a mio avviso non a ragione, come dimostrative della regola secondo la quale i provvedimenti invalidi per violazione del diritto comunitario andrebbero disapplicati dal giudice amministrativo a prescindere dalla loro impugnazione. Nel famoso caso si trattava di una autorizzazione data in Austria per una darsena, con la clausola che i posti barca non sarebbero stati affittati a stranieri oltre una certa percentuale. Dopo l'adesione dell'Austria alla Comunità europea tale limite venne violato da un contratto stipulato in favore di un cittadino di altro Stato membro, ed a seguito di ciò fu irrogata una sanzione. La Corte, investita in via pregiudiziale in sede di impugnazione della sanzione, sancì che il giudice nazionale doveva «disapplicare» il provvedimento, ormai in contrasto con il principio di non discriminazione stabilito nel diritto comunitario. A me sembra che la ricostruzione più lineare del fenomeno porti a constatare che la disciplina recata dal provvedimento non poteva essere più applicata, e dunque era divenuta inefficace, a causa della sopravvenienza normativa costituita dal Trattato CE. (39) Tanto è vero che lo stesso atto, ove fosse stato impugnato, sarebbe invece immancabilmente annullato dal giudice, alla stessa distanza di tempo, se il giudizio si fosse protratto. (40) Poiché questo punto non è oggetto di trattazione nel testo, sia consentito qui soltanto di osservare che, essendo il provvedimento di convalida comunque idoneo ad interferire con gli interessi già toccati dal provvedimento, sembra debbano essere rispettate le regole relative alla partecipazione. (41) Tra gli altri CERULLI IRELLI, Corso, cit., 604, VILLATA, L'atto, cit., 1541 (tuttavia con avvertenza della diversità della situazione in diritto amministrativo), SORACE, Diritto, cit., 338 (che peraltro si limita a ricordare la comunanza del nome tra l'istituto civilistico e quello di diritto amministrativo). (42) Diritto amministrativo, Milano, 1970, II, 1049; la differenza è sottolineata altresì - ma senza trarne particolari conseguenze - da VILLATA, op. cit., 1541, nonché, in termini molto netti, da CAVALLO, op. cit., 406. (43) Così rispettivamente CAVALLO, op. cit., 405, e VILLATA, op. cit. (44) Così ancora CAVALLO, op. cit., VILLATA, op. cit., nonché CERULLI IRELLI, Corso, cit., 604. (45) Nel primo senso CAVALLO, op. cit., nel secondo VILLATA, op. cit. e CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 2 ed., Milano, 2000, 518. (46) MAZZAROLLI, Convalida, in Enc. Giur., IX, Roma, 1988, 2, nonché BASSI, Lezioni di diritto amministrativo, 5 ed., Milano, 1998, 132. (47) Se si eccettua la voce isolata di VIRGA, Il provvedimento amministrativo, 3 ed., Milano, 1968, 526, puntualmente rilevata da MAZZAROLLI, Convalida, cit., 3. (48) Così VILLATA, op. cit., 1542 s. (49) CERULLI IRELLI, Corso, cit., 605. (50) Non varrebbe replicare che permane l'impugnabilità tanto dell'atto convalidato quanto dell'atto di convalida, dato che si ammette che la convalida faccia legittimamente «venire meno» il vizio di cui l'interessato potrebbe avvalersi. (51) Tra gli altri CERULLI IRELLI, Corso, cit., 605; VILLATA, op. cit., 1543 s. In senso opposto CAVALLO, Atti e provvedimenti, cit., 405, che ritiene la tesi «definitivamente liquidata dal legislatore con una normativa ad hoc» (presumibilmente riferendosi alla legge n. 249 del 1968, che peraltro si riferisce solo al vizio di incompetenza). (52) Così MAZZAROLLI, Convalida, in Enc. Giur., Roma, 1988, 3, seguito, dubitativamente, da VILLATA, op. cit., 1544. (53) Non mi sembra si possa ritenere che la convalida servirebbe a rendere impossibile un futuro annullamento governativo o un futuro annullamento d'ufficio, non solo perché l'ipotesi è remota, ma anche per la ragione che se vi fosse un vero interesse all'annullamento ciò escluderebbe di per sé la convalida, che presuppone il contrario interesse alla conservazione; né che potrebbe servire ad evitare la disapplicazione dell'atto per il periodo anteriore alla convalida, perché ciò porrebbe gli stessi problemi di retroattività che si vorrebbero evitare limitando la convalida agli atti inoppugnabili. (54) Così SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1989, 708, MAZZAROLLI, Convalida, cit., entrambi con richiamo alla giurisprudenza, CAVALLO, Atti, cit., 407, BREGANZE, Sanatoria, in Enc. giur., Roma, 1991, 4. (55) MAZZAROLLI, Convalida, cit., 3. (56) Così VILLATA, op. cit., 1546, con indicazioni della dottrina anteriore. (57) Così ancora VILLATA, op. cit., 1546, con riferimento a CAVALLO, Atti e provvedimenti, cit., 411. (58) Non fa parte dell'economia del presente lavoro soffermarsi sulla classica questione se quanto si dice per il nulla osta debba estendersi al parere favorevole sopraggiunto, ma ovviamente non utilizzato per la decisione, essendo questa già stata presa. L'argomento svolto nel testo mi sembra possa condurre a condividere la tesi affermativa espressa da CAVALLO (op. cit., 423), almeno per i casi in cui il parere sia espresso (come di regola il nulla osta) da autorità del tutto indipendenti da quella che provvede (si pensi, tipicamente, ai pareri del Consiglio di Stato), e nei quali dunque non possa ragionevolmente ipotizzarsi il mantenimento della invalidità a protezione dell'imparzialità del parere. (59) Non a caso il § 45, Abs. 1, della legge tedesca sul procedimento amministrativo, nel disciplinare l'effetto del successivo sopraggiungere di atti che invece avrebbero dovuto precedere, non utilizza termini che alludano al venire meno dell'illegittimità, ma si limita ad affermare che la violazione delle norme sulla forma e sulla procedura diviene in tale caso unbeachtlich, non degna di attenzione. La teoria della sanatoria mostra che almeno in certi limiti risulta operante anche nel diritto italiano il principio secondo il quale i vizi di forma e procedura determinano l'annullabilità del provvedimento «nur unter der weiteren Voraussetzung, daß sie in bestimmter Weise für die getroffene Entscheidung erheblich waren» (BADURA, in ERICHSEN, MARTENS, Allgemeine Verwaltungsrecht, 8 ed., 1998, § 41 III 2, 428), e che dunque «ein angefochtener Verwaltungakt, der rechtmäßig nicht anders hätte ergehen könnte» (sic, anche se alla pagina dopo si legge la normale frase hätte ergehen können"), «verletzt den Betroffener nicht deshalb in seinen Rechten im Sinne des § 113 Abs. 1 VwGO, weil er unter Verstoß gegen di ganannten Verfahrensregeln zustande gekommen ist» (430). (60) Il già citato § 45 della legge tedesca sul procedimento amministrativo annovera anche la motivazione successiva tra le cause di irrilevanza della violazione di regole procedurali e formali. Il tema è certamente delicato, perché non si può ammettere che la motivazione sostanziale di un provvedimento sia cercata in un momento successivo: sicché ciò che può sopraggiungere non è la vera motivazione del provvedimento, ma soltanto l'indicazione degli elementi che la dimostrano. (61) Vale la pena di ricordare che secondo una meno recente tradizione dottrinale «non vi è interesse pubblico più alto di quello, a che l'Amministrazione rispetti la legge» (GUICCIARDI, L'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato dei tribunali, in Arch. dir. pubbl. 1938, 264 n. 1). (62) Tra i frammenti il più rilevante è forse il riconoscimento di tale potere espressamente contenuto nell'art. 20, comma 1, della legge n. 241 del 1990. Benché infatti la specifica regola prevista sia agevolmente spiegabile proprio per la circostanza che l'illegittimo provvedimento si sarebbe formato per l'operare del fatto giuridico dell'inerzia, e che è dunque normale che all'amministrazione sia dato proprio perciò il potere di intervenire, bisogna tuttavia ammettere che il legislatore sembra richiamarsi ad un istituto di carattere generale (diversamente, ad esempio, avrebbe avvertito l'esigenza di porre un termine al possibile esercizio del potere). (63) Su alcuni tratti comuni a revoca e annullamento attira l'attenzione in particolare E. FERRARI, Revoca nel diritto amministrativo, in Dig. discipl. pubbl., XIII, Torino, 1997, 335 s. (64) Si veda la decisione, insieme con le conclusioni del Commissaire du Gouvernement, in RFDA, 2002, 77 ss., con nota di DEVOLVÉ, 88 ss., ove si sottolinea il «découplage du retrait et du recours». Si noti che l'arrêt Ternon si riferisce ai provvedimenti veri e propri, mentre per le «decisioni implicite» (in sostanza frutto di silenzio assenso) valgono le diverse disposizioni dell'art. 23 della legge 12 aprile 2000. (65) «Faced with the choice between legality and individual fairness, the English courts have generally preferred to uphold legality», nel senso che «the administration can in principle alwais revoke an unlawful decision, prospectively as well as retroactively, without being subject to any time limit»: così SCHØNBERG, op. cit., 89 s., il quale conclude che, allo stato, «English law grants the administration unlimited power to revoke (replace) unlawful decision» (104). (66) Ad esempio dallo stesso SCHØNBERG, op. cit., 104 ss. (67) «The British courts perceive the principle of legality (ultra vires) as sacrosant» (così sempre SCHØNBERG, cit., 104). La specifica considerazione dell'ordinamento inglese rende a mio avviso priva di fondamento l'ipotesi suggerita da CONTIERI, Il riesame del provvedimento amministrativo, Napoli, 1991, secondo cui «il potere che consente alla pubblica amministrazione di intervenire unilateralmente con effetti demolitori nell'ambito di un rapporto da essa stessa posto in essere con un precedente provvedimento» darebbe luogo ad un «privilegio» che troverebbe spiegazione nei «caratteri propri dell'attività amministrativa nei cosiddetti paesi a diritto amministrativo» (74): non nel senso che tale privilegio non vi sia, bensì nel senso che non è lecito distinguere in ciò alcuna contrapposizione tra i paesi dell'Europa continentale ed il sistema inglese, se non per il fatto che in questo hanno tardato di più ad emergere le istanze di tutela dell'affidamento che il cittadino può riporre nella stabilità del rapporto. (68) Un termine dunque distinto, ma dal significato non molto differente da Widerruf, utilizzato invece per la revoca di un atto legittimo. Il termine usato per l'annullamento giustiziale, ex art. 113.1 VwGO, è Aufhebung (soppressione, rimozione). (69) Se ciò non vale per la Francia è per la ragione che il termine breve imposto all'eliminazione dell'atto impedisce il consolidamento degli effetti. In Germania invece la possibilità di eliminare l'atto con effetto per il futuro o per il passato (mit Wirkung für die Zukungft oder für die Vergangenheit) è espressamente prevista dal § 48, Abs. 1, della legge sul procedimento. Per l'Inghilterra si veda quanto già ricordato alla nota 65. Anche in diritto europeo sembra pacifica la possibilità di un ritiro non retroattivo di decisioni illegittime, in circostanze nelle quali la decisione non potrebbe essere ritirata se non fosse illegittima: cfr. Hoogovens c. Alta Autorità, in causa 14/61, Racc. 1962, 253, par. 5 (secondo la quale nel valutare gli interessi confliggenti dai quali dipende la scelta tra ritiro ex nunc o ex tunc di una decisione illegale è importante tenere presente la reale situazione delle parti coinvolte). (70) Così ad esempio secondo Corso «sono retroattivi per natura gli atti di annullamento d'ufficio (o le decisioni di accogimento dei ricorsi amministrativi)» in quanto «è nella natura dell'annullamento che gli effetti dell'atto annullato vengano demoliti e rimossi a partire dal momento in cui questo fu emanato: se così non fosse, l'annullamento lascerebbe in vita gli effetti fino ad ora prodotti dall'atto annullato senza adempiere alla sua funzione di radicale demolizione giuridica» (L'attività amministrativa, cit., 162). Similmente CERULLI IRELLI, Corso, Nuova ed., Torino, 2001, 531, nonché CAVALLO, Atti e provvedimenti, cit., 372. (71) Di questo tipo, ad esempio, sembrano i dubbi sulla necessaria retroattività dell'annullamento affacciati da CONTIERI, Il riesame, cit., 131 ss. (72) In particolare da MAZZAROLLI, Gli atti amministrativi di conferma, II, Provvedimenti e meri atti, Padova, 1969, 24 nota 29. (73) La manualistica riprende queste nozioni apparentemente consolidate, in termini più o meno simili a quelli esposti. Si vedano ad esempio, con varie sfumature e differenziazioni, CAVALLO, Atti e provvedimenti, cit., 419 ss., CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 2 ed., Milano, 2000, 517 s., CERULLI IRELLI, Corso, cit., 603 s., SORACE, Diritto, cit., 338 s., VILLATA, op. cit., 1548 s., VIRGA, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, 5 ed., Milano, 1999, 150 s. (74) Sulla «doverosità, per l'Amministrazione, di compiere qull'attività amministrativa che possa metterla in grado di rendersi conto e di apprezzare il mutamento intervenuto», in relazione ad una istanza di revisione, cfr. MAZZAROLLI, Gli atti, cit., 103 (v. altresì p. 106). (75) In questo senso nella sostanza già MAZZAROLLI, Gli atti, cit., 36 s. (76) Mi sembra che il punto di vista qui seguito trovi conferma, nel diritto comunitario, nella curiosa ma paradigmatica vicenda chiusa con la sentenza della Corte di giustizia del 14 settembre 1999 (in causa C-310/97), di annullamento della sentenza del Tribunale di primo grado 10 luglio 1997 (in causa T-227/95). Sanzionate numerose imprese produttrici di carta per comportamento anticoncorrenziale, a seguito di un unico procedimento, con decisione della Commissione, alcune di tali imprese impugnarono la decisione con ricorso giurisdizionale, mentre altre pagarono la sanzione senza ricorrere. La Corte di giustizia con sentenza 31 marzo 1993 accolse i ricorsi presentati, per ragioni che investivano l'intera istruttoria e che avrebbero potuto applicarsi anche alle imprese non ricorrenti. Su questa base tali imprese chiesero alla Commissione di riesaminare le sanzioni loro inflitte, al fine di vederle annullate. La Commissione con lettera 4 ottobre 1995 replicò di non essere tenuta a riesaminare, ed inoltre di non avere né obbligo né potere di restituire le somme pagate. A questo punto le imprese che avevano pagato senza ricorrere contro la sanzione ricorsero al Tribunale di primo grado, affermando che l'art. 176 (ora 233) del Trattato CE (secondo il quale «le istituzioni da cui emana l'atto annullato... sono tenute a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta») obbligava la Commissione a riesaminare la sanzione emanata, a seguito della sentenza resa in favore delle imprese ricorrenti. Nella ricordata sentenza il Tribunale di primo grado ritenne di dovere valutare se vi fosse o meno obbligo per la Commissione di riesaminare, interpretò l'art. 176 nel senso che esso imponesse tale obbligo, anche a favore di soggetti che non erano parti del giudizio reso con la sentenza del 1993, ed a seguito di ciò annullò la decisione della Commissione espressa dalla lettera 4 ottobre 1995. Avverso questa sentenza la Commissione interpose appello alla Corte di giustizia, la quale con la sentenza del 14 settembre 1999 escluse che l'art. 176 imponesse provvedimenti nei confronti di soggetti diversi da quelli che erano stati parti del giudizio di cui alla sentenza da eseguire, negò di conseguenza che vi fosse un dovere di riesame dei provvedimenti al fine di verificare il diritto al rimborso e respinse il ricorso come infondato. Benché i due giudici europei siano giunti nel merito a conclusioni opposte, né l'uno né l'altro si è mai chiesto se l'amministrazione avesse riaperto l'istruttoria o esaminato più o meno a fondo la richiesta, ritenendo (a mio avviso correttamente) che il solo punto rilevante fosse l'esistenza o la non esistenza di un dovere di riconsiderare la situazione delle imprese che avevano pagato senza ricorrere, a seguito della sentenza che nel 1993 aveva accolto le ragioni delle imprese che avevano fatto ricorso. LA CADUCAZIONE DEGLI ATTI AMMINISTRATIVI PER NESSO DI PRESUPPOSIZIONE (*) Dir. proc. amm. 2003, 03, 633 ERNESTO STICCHI DAMIANI 1. La riflessione di carattere sistematico che il tema della caducazione dell'atto amministrativo immediatamente induce è quella circa l'esistenza, a fronte del principio di tipicità del provvedimento e del suo processo di formazione, di un simmetrico principio di tipicità delle sue vicende estintive (1). Se possa cioè ritenersi concettualmente ammissibile che alla presenza, incontestabile, del principio di tipicità nella fase genetica del provvedimento possa corrispondere una parziale atipicità delle fattispecie estintive, quale scaturirebbe dal riconoscere, accanto a quella dell'annullamento giurisdizionale e dell'annullamento amministrativo, che derivano la loro tipicità, rispettivamente dalle previsioni legali in forza delle quali operano il potere giurisdizionale e quello amministrativo latamente inteso (2), un'ulteriore e peculiare fattispecie estintiva riconducibile al c.d. principio della caducazione automatica dell'atto amministrativo, a seguito dell'annullamento di un suo atto presupposto all'interno o all'esterno del procedimento (3). Che di fattispecie estintiva si tratti appare indubitabile atteso che alla caducazione si riconnettono i medesimi effetti, sostanziali e processuali, dell'annullamento. Che si tratti di vicenda priva di ogni tratto di tipicità è agevolmente deducibile dal fatto che la sua origine è e non può che essere di natura strettamente giurisprudenziale (4), legata com'è ad un principio esclusivamente pretorio quale quello dell'economia processuale (5). Principio cui si è legata nel tempo una vasta serie di deroghe al sistema delle regole del diritto amministrativo, non ultima quella della ritenuta persistenza dell'obbligo della diffida a provvedere anche dopo la riforma della disciplina processuale dei rimedi contro l'inerzia delle pubbliche amministrazioni (6). 2. È incontestabile, infatti, che l'istituto della caducazione automatica ha rappresentato storicamente uno strumento per consentire di perseguire (nel sistema processuale anteriore alla riforma operata dalla l. n. 205 del 2000) esigenze di economia processuale a tutela delle posizioni del ricorrente. Appariva ingiustificatamente gravoso e vessatorio, infatti, costringere il soggetto che avesse impugnato tempestivamente un atto amministrativo - il quale si configurasse quale presupposto logico-giuridico di una serie di altri atti all'interno della stessa catena procedimentale tipizzata ex lege - ad impugnare autonomamente di volta in volta, con distinti ricorsi, tutti i successivi provvedimenti «consequenziali»: in tale prospettiva, onde evitare un'inutile duplicazione di giudizi sullo stesso rapporto processuale e sollevare il ricorrente dall'onere di ricercare tutti i «controinteressati successivi», la giurisprudenza aveva ammesso l'operatività del fenomeno del travolgimento ipso iure basato sul nesso logico, prima ancora che giuridico, di «presupposizione necessaria» tra provvedimenti (7). La dottrina, tuttavia, aveva subito avvertito come l'istituto della caducazione automatica si ponesse in potenziale contrasto con alcuni principi fondamentali del sistema di giustizia amministrativa, in particolare: a) con quello dell'inoppugnabilità degli atti amministrativi, corollario della necessaria certezza delle manifestazioni dell'attività della pubblica amministrazione, in base al quale la possibilità di impugnare l'atto amministrativo lesivo è consentita ai privati solo entro un breve termine di decadenza, per non lasciare indefinitamente esposti i provvedimenti amministrativi alla possibilità della loro caducazione (8); b) con quello del contraddittorio, portato del diritto costituzionale alla difesa nel processo consacrato dall'art. 24 Cost., giacché i destinatari degli atti amministrativi «consequenziali» non sono, di regola, parti necessarie del giudizio di impugnazione avverso l'atto preparatorio e, in tal guisa, operando indiscriminatamente il meccanismo della «caducazione automatica», verrebbero ad essere pregiudicati da statuizioni giurisdizionali rese in giudizi inter alios(9). Proprio perché consapevole della portata derogatoria a tali principi fondamentali da parte del meccanismo della «caduca-zione automatica», la stessa giurisprudenza ha coerentemente, da un lato, affermato a chiare lettere la natura di «figura eccezionale» dell'istituto (10) e, dall'altro, teso a restringere le ipotesi di configurabilità del nesso di presupposizione giustificativo, affiancando al requisito della «necessarietà» quello dell'«unicità» del provvedimento presupposto (11). Non risulta, invece, essere stato sufficientemente considerato, nell'elaborazione dottrinale (12) e giurisprudenziale dell'istituto,il vulnus che la sua introduzione induce nei confronti di un possibile principio di tipicità delle fattispecie estintive del provvedimento amministrativo, cui si accennava in precedenza. Mantenendo per ora l'analisi sul versante specifico dei principi processuali e tralasciando quindi gli aspetti più generali e sistematici, può già assumersi che l'applicazione giurisprudenziale dell'istituto, praticamente costante ed uniforme sino ad anni recenti, deve tuttavia confrontarsi, oggi, con due fondamentali novità, l'una portato dell'elaborazione della Corte costituzionale, l'altra di natura normativa. 3. La prima è rappresentata dalla sentenza di carattere additivo n. 177 del 1995, con la quale la Corte ha introdotto, tra i mezzi di impugnazione delle sentenze amministrative, l'opposizione di terzo ordinaria ex art. 404 c.p.c. (13). Tale gravame si è, infatti, da subito configurato come strumento giurisdizionale utilizzabile dai «controinteressati successivi», in relazione a sentenze di annullamento di atti amministrativi presupposti rese nell'ambito di giudizi ai quali tali soggetti fossero rimasti estranei e dai quali fosse derivato, proprio a cagione dell'operatività dell'istituto della caducazione automatica, un pregiudizio consistente nel travolgimento ipso iure degli atti consequenziali per essi favorevoli (14). In questo modo, l'istituto della caducazione automatica ha visto ridimensionarsi i profili di attrito costituzionale con il principio del contraddittorio ed il diritto di difesa dei «controinteressati successivi», in passato sostanzialmente privi di tutela; dall'altro lato, tuttavia, proprio la possibilità della proposizione dell'opposizione di terzo anche successivamente alla formazione del giudicato sull'atto presupposto ha comportato una drastica e vistosa compromissione della stessa ratio giurisprudenziale posta originariamente a base dell'istituto della «caducazione automatica», da ravvisarsi, come si è detto, nella tutela di esigenze di economia processuale in favore dei soggetti ricorrenti. È evidente, infatti, che questi ultimi non potranno sottrarsi, oggi, alla partecipazione (o, comunque, alla soggezione, in termini di efficacia oggettiva del giudicato) al giudizio di opposizione di terzo instaurato dal beneficiario dell'atto consequenziale travolto, ipso iure, dalla sentenza di annullamento del (solo) atto presupposto, laddove il controinteressato «successivo» non abbia partecipato a tale primo giudizio. Da ciò deriva una moltiplicazione di giudizi (controversia sull'atto presupposto/successivi giudizi di opposizione di terzo) che è mutatis mutandis equivalente, in termini di diseconomia processuale, a quella (controversia sull'atto presupposto/successivi giudizi sugli atti consequenziali) che la giurisprudenza aveva ritenuto di poter evitare legittimando in via pretoria il meccanismo (peraltro «eccezionale» ed in deroga al sistema) della caducazione automatica. Proprio la problematicità del rimedio rappresentato dall'opposizione di terzo nell'ambito del processo amministrativo (fonte di notevoli dubbi ed elementi di criticità, come ripetutamente sottolineato dalla dottrina) (15) spinge, oggi, fortemente nel senso di ritenere che un ridimensionamento o, comunque, una rivisitazione in chiave restrittiva delle ipotesi di «caducazione automatica», ripristinando il consueto principio secondo cui l'interessato è comunque onerato dell'impugnazione entro il termine decadenziale di tutti i provvedimenti per esso lesivi, con obbligo di notifica ai controinteressati, consentirebbe di ridimensionare, corrispondentemente, la concreta operatività del rimedio dell'opposizione di terzo, quanto meno riducendo la platea dei soggetti ad essa legittimati (16). Allo stato, la coesistenza e l'interazione processuale tra l'istituto della caducazione automatica ed il rimedio dell'opposizione di terzo ingenera una vera e propria «doppia lesione» del principio di inoppugnabilità degli atti amministrativi e di certezza dell'attività della p.a., assolutamente esorbitante rispetto ai limiti che tale principio, pur in una prospettiva di bilanciamento con altre esigenze, può tollerare (17). E, infatti, l'incertezza deriva, in primo luogo, dal fatto che la «caducazione automatica» fa sì che un provvedimento consequenziale, mai impugnato nel termine decadenziale (e, pertanto, divenuto inoppugnabile anche ai fini dell'«affidamento» dei cittadini), venga travolto, al di fuori di ogni prevedibilità, per la definizione successiva di un precedente giudizio relativo ad un atto presupposto; ma tale incertezza è ulteriormente ed abnormemente dilatata dal fatto che neppure il giudicato formatosi sull'annullamento dell'atto presupposto è idoneo ad ingenerare (almeno esso) una certezza, giacché l'ordinamento consente una sorta di «nemesi» ai controinteressati successivi attraverso la proposizione, anch'essa al di fuori di ogni prevedibilità temporale (decorrendo il termine per il gravame dalla conoscenza della sentenza pregiudizievole), dell'opposizione di terzo avverso la sentenza dispositiva della «caducazione automatica». L'efficacia dell'atto consequenziale resta, con assoluta evidenza, sospesa, in tale prospettiva, in una sorta di limbo, in una situazione di precarietà inaccettabile, ove si consideri che ciò significa frustrare del tutto, a tacer d'altro, il principio dell'affidamento dei soggetti i cui interessi sono coinvolti dall'atto (principio che assurge ormai a rilevanza fondamentale non solo alla stregua del diritto interno, ma anche dell'ordinamento comunitario) (18). 4. Né può ritenersi che un drastico ridimensionamento dell'istituto della caducazione automatica da parte della giurisprudenza riproporrebbe i problemi di «vessatorietà» per i ricorrenti dell'onere di attivare, per ciascun atto consequenziale, distinti giudizi. Al proposito deve infatti sottolinearsi la fondamentale rilevanza della seconda novità, di natura normativa, cui si accennava, vale a dire l'introduzione della possibilità per il ricorrente, ad opera della l. n. 205 del 2000, di impugnare tutti gli atti consequenziali e successivi a quello originariamente gravato attraverso la proposizione di motivi aggiunti nello stesso giudizio, da notificarsi nel termine di decadenza, a pena di inammissibilità, ai soggetti controinteressati (19). Oggi, pertanto, le esigenze di economia processuale a tutela del ricorrente sono garantite attraverso un istituto (i «motivi aggiunti») che appare destinato dal legislatore proprio a prendere il posto dell'ormai recessiva «caducazione automatica». Ciò si evince da una lettura dello stesso art. 1 della l. n. 205 del 2000, che prevede la proponibilità dei «nuovi» motivi aggiunti nell'ipotesi di «provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso stesso». Si tratta di una definizione talmente ampia da comprendere evidentemente le ipotesi di provvedimenti legati da «nesso di presupposizione necessaria» (20), che, fino ad oggi, hanno legit-timato l'operatività del diverso istituto della «caducazione automatica»: in tali fattispecie, il legislatore della riforma, lungi dal fare alcun riferimento al meccanismo giurisprudenziale della «caducazione automatica» (e viene qui in gioco il noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) (21), ha, di contro, inteso affermare perentoriamente (con una formulazione che ha lasciato perplessi molti commentatori) che i provvedimenti connessi «sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti». La formulazione letterale della norma in termini di «obbligo» non ha il significato di negare al ricorrente la possibilità di proporre nei termini un nuovo ed autonomo giudizio, senza incorrere in alcuna decadenza, piuttosto che avvalersi dello strumento dei motivi aggiunti: sul punto la dottrina è concorde, anche se ciò lascia insoluto il problema di ricollegare alla formulazione «perentoria» della norma un significato cogente (22). Alla luce di quanto esposto, tuttavia, sembra possibile, con riferimento alla questione in esame, avanzare, con ragionevole fondamento, una prima osservazione: il legislatore della l. n. 205 del 2000, nel disciplinare l'istituto dei «motivi aggiunti» per l'impugnazione (anche) dei provvedimenti legati da un nesso di necessaria consequenzialità logico-giuridica rispetto a quello originariamente gravato, ha probabilmente inteso proprio «archiviare» definitivamente o, quanto meno, ridimensionare fortemente l'operatività dell'istituto, emerso nella prassi, della «caducazione automatica». In tale prospettiva, la disposizione «i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti» sembra da interpretarsi, a parte quanto si dirà più oltre, nel senso che, laddove il ricorrente, pur avendone la facoltà, non ritenga di impugnare i provvedimenti consequenziali all'atto presupposto (già gravato) con motivi aggiunti, notificando questi ultimi ai controinteressati entro il termine di decadenza, né ritenga di attivare un nuovo ed autonomo giudizio, non potrà poi lamentare alcuna esigenza di tutela meritevole di protezione da parte del sistema processuale invocando l'operatività, in via automatica ed ipso iure, della caducazione degli atti consequenziali non tempestivamente impugnati per la sola circostanza dell'annullamento dell'atto presupposto (23). 5. Le argomentazioni surriferite hanno trovato di recente riscontro in una sentenza del Consiglio di Stato (24), la quale, pur riprendendo principi enunciati in altrettanto recenti pronunce (25), può individuarsi come fondamentale «punto di svolta» sul dibattuto tema della caducazione automatica. La sentenza succitata afferma, nella parte motiva: «La possibilità di immediata impugnazione dell'atto lesivo non si deve però tradurre, ad avviso del Collego, almeno di regola, in un esonero dal dovere di impugnare anche l'atto finale. Infatti, da un lato, l'anticipazione della tutela di impugnazione costituisce un ampliamento degli strumenti di tutela degli interessati, ma non costituisce una deroga alla regola generale secondo cui va impugnato l'atto finale e conclusivo del procedimento. Dall'altro lato, la circostanza che l'atto finale sia affetto da invalidità derivata dai vizi dell'atto preparatorio, non esclude che tale invalidità derivata debba essere fatta valere con i rimedi tipici del processo impugnatorio. In mancanza, l'atto viziato da invalidità derivata si consolida e non è più impugnabile. Ancora, militano a favore di tale soluzione le esigenze di tutela dei controinteressati, che di solito non sono individuabili in relazione all'atto preparatorio, ma solo in relazione a quello finale... Sostenere che basta l'impugnazione dell'atto preparatorio ed il suo annullamento giurisdizionale a far cadere il provvedimento finale, ancorché non impugnato, significa: 1) precludere la tempestiva tutela giurisdizionale del controinteressato; 2) consentire processi amministrativi in assenza dei veri controinteressati; 3) negare il principio che il provvedimento conclusivo del procedimento diventa inoppugnabile se non è tempestivamente impugnato. Né la necessità di impugnare anche il provvedimento finale dopo l'impugnazione dell'atto preparatorio grava eccessivamente la posizione del ricorrente, il quale può avvalersi dell'istituto dei motivi aggiunti in corso di causa, proponibili ai sensi della l. n. 205 del 2000, anche avverso atti diversi da quello originariamente gravato. Siffatta soluzione appare da preferire anche per ragioni di economia processuale. La tesi opposta, che esonera il ricorrente avverso l'atto preparatorio dall'impugnazione anche del provvedimento finale urta, infatti, contro le ragioni di economia processuale perché comporta che... il terzo beneficiario dell'atto finale, che ne subisce l'annullamento quale conseguenza di un giudizio cui non è stato posto in condizione di partecipare, dovrà avvalersi dell'opposizione di terzo; con il giudizio di opposizione di terzo, dopo la fase rescindente, si dovrà rinnovare nel merito l'originario giudizio. È evidente, così operando, la moltiplicazione dei processi, e dei conseguenti costi e tempi in relazione ad un'unica vicenda procedimentale». La sentenza de qua, pur svolgendo le argomentazioni già riportate, non giunge ad affermare il totale superamento dell'istituto giurisprudenziale della «caducazione automatica». Essa, tuttavia, in base ai principi affermati, segna una drastica riduzione dell'area della concreta configurabilità dell'istituto, delineando in termini rigorosissimi ed assolutamente restrittivi il «nesso di presupposizione» tra provvedimenti legittimante la caducazione. Afferma la pronuncia che «si può consentire alla non necessità di impugnazione dell'atto finale, quando sia stato già impugnato quello preparatorio, solo quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l'atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell'atto presupposto, né di altri soggetti. Diversamente, quando l'atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l'atto preparatorio, non ne costituisce conseguenza inevitabile, perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di terzi soggetti, l'immediata impugnazione dell'atto preparatorio non fa venire meno la necessità di impugnare l'atto finale, pena l'improcedibilità del primo ricorso». Alla luce di tale motivazione, la sentenza in esame fornisce una soluzione nuova alla vexata quaestio della natura del rapporto di presupposizione, ai fini dell'operatività della caducazione automatica, tra l'atto di esclusione da una procedura d'appalto ed il provvedimento finale di aggiudicazione della medesima gara, affermando che «tanto accade, con riferimento al procedimento di gara di appalto, nel rapporto tra esclusione ed aggiudicazione, e tra aggiudicazione provvisoria e definitiva. Invero, l'aggiudicazione ad un concorrente, rispetto alla esclusione di altro concorrente, non si pone in rapporto di consequenzialità immediata e diretta. L'esclusione coinvolge solo l'interesse del concorrente escluso... l'aggiudicazione, invece, comporta una valutazione di dati ed interessi più ampia rispetto all'esclusione, in quanto tiene conto della posizione di tutti i concorrenti, e non solo di quello escluso. Sicché l'aggiudicazione coinvolge anche l'interesse dell'aggiudicatario... Va pertanto dichiarata l'improcedibilità del ricorso contro l'originaria esclusione... per la mancata impugnazione dell'aggiudicazione». 6. Non può non rilevarsi come all'esattezza delle premesse (rilevanza dell'intervenuta esperibilità dell'opposizione di terzo e dell'introduzione dei motivi aggiunti) non consegua, tuttavia, la pienezza dei corollari a quelle premesse collegabili. Non v'è dubbio che il passaggio, ai fini dell'operatività della caducazione automatica, dal criterio dell'unicità e necessarietà dell'atto presupposto a quello dell'inevitabilità dell'atto consequenziale restringe ulteriormente l'ambito di applicabilità dell'istituto, lasciandone fuori, come si è visto, la coppia esclusione-aggiudicazione (26). È altrettanto vero, però, che, analizzate in tutte le loro concrete applicazioni, le stesse premesse conducono a conseguenze più ampie, ossia alla stessa abrogazione implicita dell'istituto. Non si vede, infatti, come i rilievi circa la sostanziale sterilizzazione di ogni economia processuale collegabile alla caducazione ipso iure a seguito dell'introduzione dell'opposizione di terzo e la riconducibilità allo schema dei motivi aggiunti dell'impugnazione dell'atto consequenziale possano non valere per escludere radicalmente la sopravvivenza stessa dell'istituto, risultando gli stessi riferibili nella stessa misura anche, ad esempio, alla coppia bando-aggiudicazione (27). In tale ambito anche l'individuazione di un criterio più restrittivo non riesce a sottrarsi a un forte sospetto di arbitrarietà rispetto a regole processuali che, per le conseguenze che inducono (inammissibilità/improcedibilità di un ricorso), sembrano doversi caratterizzare in termini di maggiore certezza. Da ciò lo stimolo a riconsiderare l'intera vicenda in termini sistematici. 7. L'ipotesi concettuale cui va ricondotta la figura della caducazione è sostanzialmente quella del «venir meno» di un atto a contenuto provvedimentale in ragione del venir meno di altro atto, anche endoprocedimentale, che ne costituisce il presupposto unico e necessario e rispetto al quale l'atto stesso si atteggia nei descritti termini di inevitabilità. Si tratterà, quindi, come nell'esempio dell'aggiudicazione, di provvedimento del tutto tipico adottato nell'esercizio di un potere amministrativo. Provvedimento, quindi, perfettamente idoneo a dispiegare gli effetti anch'essi tipici che l'ordinamento gli connette e rispetto al quale si assume che il venir meno di un atto presupposto, provvedimentale o endoprocedimentale, costituisca ex post fattispecie idonea a farne cessare l'esistenza, si suppone ex tunc. Un tale assunto è assai difficile da inquadrare negli ordinari canoni regolativi della patologia dell'atto. Tali difficoltà si connettono, fin troppo ovviamente, tanto alla distinzione tra annullabilità e inesistenza quanto a quelli che sono pacificamente considerati gli ordinari effetti dei vizi procedimentali. A ben vedere, l'annullamento - successivo all'adozione dell'atto consequenziale - dell'atto presupposto non ha altro effetto se non quello di eliminare tale atto dal procedimento o dalla sequenza provvedimentale con efficacia retroattiva e quindi produrre una situazione simile a quella in cui tale atto preliminare sia stato ab origine assente. Tale ulteriore situazione non priva, di norma, l'organo decidente del potere di provvedere, ma fa sì, piuttosto, che esso provveda illegittimamente, onde l'annullabilità dell'atto adottato in assenza di atto (anche endoprocedimentale) presupposto. La teoria della caducazione automatica contiene, invece, il vizio logico di equiparare indebitamente una vicenda siffatta a quelle qualificabili in termini di nullità o inesistenza. Il che appare del tutto illogico (28). Si avrebbe, infatti, che l'essere un provvedimento inficiato da vizi del procedimento o della serie provvedimentale precedente comporta, di norma, la sua annullabilità, salvo, appunto, che nell'ipotesi di atto presupposto o atto endoprocedimentale immediatamente lesivi, impugnati e successivamente annullati: ipotesi che, per tale sua specificità, produrrebbe, invece, sull'atto successivo effetti di inesistenza-nullità, privando in definitiva retroattivamente l'organo decidente del potere di provvedere. Onde, per restare all'esempio sin qui considerato, si giunge al paradosso per cui l'aggiudicazione di un appalto in assenza del necessario procedimento concorsuale è annullabile, mentre la medesima aggiudicazione, in presenza dell'annullamento successivo del solo bando, sarebbe da considerarsi inesistente. L'incoerenza di un siffatto processo logico è del tutto evidente, né la situazione muta allorché si sia in presenza, anziché di atti appartenenti alla stessa serie procedimentale, di provvedimenti distinti legati dal rapporto di presupposizioneconsequenzialità. Anche in tale ipotesi il successivo venir meno dell'atto presupposto condurrebbe non alla mera illegittimità dell'atto consequenziale, ma alla sua inesistenza. In tal modo si opererebbe un'indebita equiparazione di tale ipotesi a quelle, di carattere eccezionale, in cui - come nel caso del venir meno della dichiarazione di pubblica utilità rispetto all'aggiudicazione - la perdita del potere di provvedere per il venir meno di un atto presupposto è inequivocabilmente deducibile dalla disciplina normativa di settore. 8. L'istituto della caducazione ipso iure appare, quindi, del tutto asistematico, onde la necessità di sottoporlo, in sede giurisprudenziale, ad una profonda rimeditazione, al fine di pervenire alla sua radicale eliminazione. E ciò per le tre ragioni che si sono indicate. Anche ad ammettere (a questo punto, tutto sommato, per assurdo) che ragioni metagiuridiche quali quelle dell'economia processuale possano incidere sull'assetto del sistema dei poteri e dei provvedimenti amministrativi, caratterizzato da regole di formalità e tipicità, tali ragioni sembrano, comunque, del tutto recessive a seguito dell'introduzione dell'opposizione di terzo e ciò per tutte le ragioni che si sono già precisate. L'introduzione dell'istituto dei motivi aggiunti sembra poi possedere una valenza «codificatrice», ai fini della vicenda in esame, ben più ampia di quella già considerata e attribuita ad esso dalla giurisprudenza. L'obbligo di impugnare con motivi aggiunti i provvedimenti «connessi all'oggetto del ricorso stesso» attiene all'alternativa tra impugnazione autonoma ed impugnazione con motivi aggiunti, non all'alternativa tra obbligo di impugnazione ed esenzione da tale obbligo. La portata della novella ai fini della vicenda in esame non è quindi, a ben vedere, tanto quella di ricondurre nell'ambito dei motivi aggiunti le fattispecie di caducazione, altrimenti esonerabili da ogni onere impugnatorio, quanto quella, assai più radicale, di determinare implicitamente, ma inequivocabilmente, l'obbligo di impugnazione di qualsiasi tipologia di provvedimento sopravvenuto, determinando la connessione o meno con l'oggetto del ricorso la sola alternativa processuale tra impugnazione autonoma e motivi aggiunti. Nè è possibile una diversa lettura, a meno di non voler sostenere, con evidente forzatura logica, che la connessione con l'oggetto del ricorso funga da criterio ai fini della configurabilità dell'an dell'obbligo di impugnazione, per cui per i provvedimenti successivi non connessi si possa supporre un esonero da tale obbligo. Il criterio della connessione appare, invece, più correttamente da intendersi come attinente alle modalità di un'impugnazione comunque obbligatoria. La terza ragione per rivisitare nel senso sopra indicato l'istituto della caducazione sta nella citata indebita equiparazione tra annullabilità e inesistenza, tra vizi produttivi di annullabilità e perdita del potere di provvedere, con ciò assimilandosi la vicenda dell'atto adottato anteriormente all'annullamento dell'atto presupposto alla ben più grave e radicale fattispecie, anch'essa di origine pretoria, dell'atto adottato in diretta violazione del giudicato (29). Si risponde in tal modo al quesito iniziale. Il principio di tipicità regola, e non potrebbe essere diversamente, anche le vicende estintive del provvedimento. Potrebbe sostenersi il contrario solo alterando il sistema sino al punto che, non potendosi configurare una terza ipotesi di annullamento accanto a quello giurisdizionale ed a quello amministrativo, si venga ad ipotizzare l'ammissibilità di un'«inesistenza sopravvenuta» del provvedimento, giustificata da una sorta di «violazione di giudicato successivo». Ciò a parte il valore di norma di chiusura comunque attribuibile alla nuova disciplina dei motivi aggiunti. NOTE (*) Il presente lavoro è destinato agli Scritti in memoria di Franco Ledda. (1) Sul principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, corollario del principio di legalità quale «principio costituzionale che regge l'attività delle amministrazioni pubbliche» (GIANNINI M.S., Diritto amministrativo, II, Milano, 1988, 699), restano insuperate le pagine di GIANNINI M.S., Sulla tipicità degli atti amministrativi, in Scritti in memoria di A. Piras, Milano, 1996, 319 ss. Sul tema, la bibliografia è comunque amplissima; tra gli altri, occorre segnalare almeno ZANOBINI G., L'attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl., 1924, 281; OTTAVIANO V., Poteri dell'amministrazione e principi costituzionali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1964, 913 ss.; SATTA F., Principio di legalità e pubblica amministrazione nello Stato democratico, Padova, 1969; GUARINO G., Atti e poteri amministrativi, in Dizionario amministrativo, I, 1983, 140 ss.; CAVALLO PERIN R., Potere di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità ed urgenza, Milano, 1990; PISCITELLI L., Sulla nozione di tipicità dell'atto amministrativo. Introduzione ad uno studio sui problemi della legalità nel diritto amministrativo, Genova, 1992; TRAVI A., Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, in Dir. pubbl., 1995, 91; RESCIGNO G.U., Sul principio di legalità, ivi, 247; LEDDA F., Dal principio di legalità al principio di infallibilità dell'amministrazione, in Foro amm., 1997, 3303; LOLLI A., L'atto amministrativo nell'ordinamento democratico. Studio sulla qualificazione giuridica, Milano, 2000; BASSI N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001; SAITTA F., Il potere cautelare della pubblica amministrazione tra principio di tipicità ed esigenze di tempestività dell'azione amministrativa, Torino, 2003, in particolare 60 ss. Si veda, tuttavia, la posizione fortemente critica espressa da CAVALLO B., Provvedimenti e atti amministrativi, in Tratt. dir. amm. (a cura di SANTANIELLO), III, 35 ss. L'attenzione della dottrina si è generalmente concentrata sulla tipicità della fattispecie legali costitutive dei provvedimenti amministrativi, affrontando il correlato problema della tipicità o meno delle fattispecie estintive limitatamente alla specifica problematica del fondamento normativo del potere di riesame «in autotutela» dei provvedimenti di primo grado ad opera della stessa amministrazione: sul punto si rinvia, per i necessari riferimenti bibliografici, alla nota che segue. (2) In ordine alla rimozione del provvedimento da parte della stessa amministrazione all'esito di un procedimento di secondo grado, attraverso l'annullamento d'ufficio o la revoca, è noto il dibattito in dottrina in ordine alla riconducibilità di tale potere alla stessa norma attributiva del potere esercitato con l'atto di primo grado ovvero ad un potere diverso, irriducibile a quello esercitato in primo grado con riferimento ai diversi fini perseguiti: il «potere di autotutela». Gli autori che sostengono l'autonomia, anche in termini di fonte normativa legittimante, del potere di autotutela rispetto al potere esercitato con l'atto di primo grado fanno per lo più riferimento al principio costituzionale di buon andamento della p.a., evidenziando come il principio di autotutela «contraddistinguerebbe in modo peculiare l'attività amministrativa rispetto a quella giurisdizionale... e permetterebbe di individuare come appartenente al patrimonio giuridico dell'Amministrazione un potere ontologicamente distinto da quello esercitato con il provvedimento oggetto di ritiro e la cui esistenza troverebbe fondamento giuridico nella supposta presenza di una clausola generale dell'ordinamento abilitante una volta per tutte l'autorità a modificare le proprie statuizioni, in nome della necessaria costante corrispondenza dell'azione amministrativa a ciò che nelle contingenze concrete richiede il pubblico interesse» (così, in senso critico, BASSI N., Principio di legalità, cit., 368); per tale tesi, in particolare: BENVENUTI F., voce Autotutela, in Enc. dir., IV, 1959, 539 ss.; CAVALLO B., Provvedimenti, cit., 351 ss.; GHETTI G., voce Annullamento d'ufficio dell'atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., I, 1987, 267 ss.; SALVATORE P., voce Revoca degli atti amministrativi, in Enc. giur., XXVII, 1991. È stato correttamente rilevato, tuttavia, come tale impostazione ponga seri problemi di compatibilità con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, in quanto «il richiamo al principio di autotutela non giustifica l'esercizio di un potere, quello di revoca, non previsto o non sempre previsto dall'ordinamento positivo... un'implicazione del principio di legalità è costituita dalla tipicità e nominatività degli atti amministrativi; il provvedimento di revoca, in quanto esercizio di un potere non previsto, non trova così nell'ordinamento positivo né la sua fonte né la sua disciplina»; da ciò si è tratta la conclusione, pienamente condivisibile, in virtù della quale «non si ritiene di poter concordare con l'affermazione fatta dalla giurisprudenza, dell'esistenza, nella specie, di una potestà di autotutela della pubblica amministrazione e con l'opinione volta a volta manifestata dalla dottrina in ordine alla configurabilità di poteri negativi consistenti in facoltà e potestà dirette all'eliminazione di un atto o di un rapporto della vita giuridica... sembra infatti che la sede del cosiddetto potere di revoca vada individuata nella sfera di competenza, positivamente definita, dell'autorità amministrativa e che il potere medesimo si identifichi con il potere di provvedere alla cura degli interessi pubblici ricompresi nelle sue cure» (così PAPARELLA F., voce Revoca (dir. amm.), in Enc. dir., XL, 1989, rispettivamente 209 e 229). Maggiormente coerente dal punto di vista sistematico con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi appare dunque l'opposta tesi dottrinale secondo cui «gli atti di ritiro costituiscono esercizio di un potere di amministrazione attiva e precisamente vengono emanati nell'esercizio di quello stesso potere che è stato esercitato nell'emanare l'atto da ritirare» (VIRGA P., Diritto amministrativo - Atti e ricorsi, cit., 129), per la quale vedi, oltre gli autori citati: SANDULLI A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 720; CORAGGIO G., voci Autotutela (dir. amm.) e Annullamento d'ufficio degli atti amministrativi, in Enc. giur. rispettivamente IV, 1989 e II, 1988; CONTIERI A., Il riesame del provvedimento amministrativo. I. Annullamento e revoca tra posizioni «favorevoli» e interessi sopravvenuti, Napoli, 1991; nonché, da ultimo, anche per un'ampia ricostruzione del dibattito, BASSI N., Principio di legalità, cit., 363 ss. (3) L'istituto, di origine ed elaborazione pretoria, della caducazione automatica (o travolgimento) del provvedimento amministrativo consequenziale per intervenuto annullamento dell'atto presupposto, inquadrato nello schema patologico dell'invalidità derivata ad effetto non già «viziante», bensì «caducante», ha formato oggetto di rari studi monografici, risultando generalmente trattato in termini sommari e generali nelle opere dedicate allo studio dell'invalidità degli atti amministrativi ovvero agli effetti del giudicato. Tra i contributi più specifici, vedi: VIRGA P., Caducazione dell'atto amministrativo per effetto travolgente dell'annullamento giurisdizionale, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, 1975, 687 ss.; CORSO A.M., Atto amministrativo presupposto e ricorso giurisdizionale, Padova, 1990, in particolare 107 ss.; ACQUAFRESCA G., Invalidità caducante ed effettività della tutela giurisdizionale, in questa Rivista, 1990, 139 ss.; GATTAMELATA S., Effetti dell'annullamento sugli atti consequenziali, ivi, 1991, 308 s.; GAROFALO L., Impugnazione dell'atto presupposto e onere di impugnazione dell'atto consequenziale, ivi, 2000, 344 ss.; da ultimo, significativo il contributo di MARUOTTI L., Il giudicato, in Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo speciale, vol. IV, Milano, 2000, 3363 ss., in particolare par. 6 («I limiti oggettivi del giudicato e la questione se la sentenza di annullamento possa caducare gli effetti di un atto non impugnato»). Per un inquadramento sistematico delle «ragioni» del problema, sotto profili ed angoli visuali diversi, si vedano: GUICCIARDI E., Giustizia amministrativa, Padova, 1954, 285 ss.; LUBRANO F., L'atto amministrativo presupposto, Milano, 1967; STELLA RICHTER P., L'inoppugnabilità, Milano, 1970; CANNADA BARTOLI E., voce Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, 1958, 496 ss.; SANDULLI A.M., L'effettività delle decisioni giurisdizionali amministrative, in Atti del Convegno celebrativo del 150º anniversario dell'istituzione del Consiglio di Stato tenuto a Torino nel 1981, Milano, 1983, in particolare 306 ss.; ID., Il problema dell'esecuzione delle pronunce del giudice amministrativo, in Dir. e soc., 1982, in particolare 21 ss.; VIPIANA P.M., Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, 1990, 319 ss.; SATTA F., Giustizia amministrativa, 1993, 460 ss.; CAIANIELLO V., Diritto processuale amministrativo, 1994, 832 s.; sotto altro profilo, l'inquadramento giurisprudenziale del fenomeno in quello dell'invalidità derivata o (secondo altra dottrina) «successiva» impone il rinvio a: ROMANO S., Osservazioni sull'invalidità successiva degli atti amministrativi, in Raccolta di studi di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli, Milano, 1938, 431 ss.; GASPARRI P., L'invalidità successiva degli atti amministrativi, Pisa, 1939; PIRAS A., voce Invalidità (diritto amministrativo), in Enc. dir., XXII, 1972, 598 ss.; ACQUARONE L., Attività amministrativa e provvedimenti amministrativi, Genova, 1985, in particolare 167 ss.; PAGLIARI G., Contributo alla studio della cd. invalidità successiva dei provvedimenti amministrativi, Padova, 1991; CAVALLO B., Provvedimenti e atti, cit., 310 ss. Per un'analisi favorevole all'operatività del fenomeno nell'ambito di uno studio sull'invalidità «parziale» dei provvedimenti amministrativi, vedi CAPOZZI S., L'invalidità parziale dell'atto amministrativo, Napoli, 1987, 44 ss., il quale opera un parallelismo tra il fenomeno del «collegamento negoziale» proprio del diritto civile ed il nesso di presupposizione tra atti amministrativi posto a base dell'istituto della caducazione. (4) L'origine della distinzione tra invalidità derivata «ad effetto viziante» e «ad effetto caducante» risale a Cons. St., Ad. plen., 19 ottobre 1955, n. 17, in Cons. Stato, 1955, 990 ss. e, con ancora maggiore nettezza, a Cons. St., Ad. plen., 27 ottobre 1970, n. 4, ivi, 1970, 1543 ss. Tali pronunce segnano lo spartiacque tra l'orientamento giurisprudenziale precedente, favorevole all'obbligo dell'autonoma impugnazione dell'atto consequenziale ed alla configurabilità, in mancanza di essa, dell'inammissibilità/improcedibilità del ricorso avente ad oggetto l'atto presupposto per sopravvenuta carenza di interesse (vedi, in ordine a tale orientamento, VIRGA P., Caducazione, cit., 689 ss.), e l'attuale orientamento, ormai invalso, secondo cui, «allorché viene annullato un atto, gli effetti dell'annullamento si estendono a tutti gli atti... che sono con il primo strettamente connessi o che in esso trovano il loro logico presupposto... lo stretto nesso di consequenzialità fra l'atto annullato e quello successivo esonera il soggetto destinatario dall'onere di presentare una nuova impugnazione contro il provvedimento consequenziale» (ancora VIRGA P., Diritto amministrativo - Atti e ricorsi, II, Milano, 2001, 91). A titolo meramente esemplificativo, in giurisprudenza è stata riconosciuta la configurabilità dell'invalidità derivata «ad effetto caducante», con conseguente esonero dall'onere di impugnazione del provvedimento consequenziale, nel rapporto: tra bando di gara e successivi atti della procedura concorsuale (vedi nota 27); tra esclusione ed aggiudicazione (vedi nota 26); tra annullamento in autotutela dell'aggiudicazione e dell'intera procedura d'appalto e nuovo bando di gara indetto per il medesimo oggetto (Cons. St., sez. V, 14 aprile 2000, n. 2237, in Foro amm., 2000, 1310); tra atto di adozione del p.r.g. e provvedimento regionale di approvazione (Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 1990, n. 314, in Cons. Stato, 1990, 537); tra atto di approvazione della graduatoria concorsuale ed atto di nomina dei vincitori (Cons. St., sez. IV, 21 aprile 1994, n. 348, in Cons. Stato, 1994, n. 550); tra variante comunale al p.r.g. per la localizzazione di un campeggio e successivi atti espropriativi per la realizzazione dell'opera (Cons. St., Ad. plen., 21 ottobre 1980, n. 37, in Foro it., 1981, 144); tra concessione edilizia originaria e concessione in variante (T.A.R. Lazio, sez. Latina, 7 dicembre 1988, n. 848, in Foro amm., 1989, 2197). È stato, di contro, configurato il diverso schema dell'invalidità derivata «ad efficacia viziante», che non esonera il ricorrente dall'impugnazione autonoma dell'atto consequenziale, con riferimento al rapporto: tra revoca dell'aggiudicazione di un appalto di servizi e affidamento successivo del servizio all'azienda comunale (Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2000, n. 672, in Giur. it., 2000, 1300); tra gli atti del procedimento di assegnazione di una sede farmaceutica di nuova istituzione e gli atti di revisione della pianta organica delle sedi e di dichiarazione di sede vacante, nonché tra distinti provvedimenti di revisione della pianta organica delle stesse sedi farmaceutiche (Cons. St., sez. IV, 7 dicembre 1979, n. 1130, in Ragiufarm, 1998, fasc. 44-45); tra ruolo di anzianità di un ufficiale e atto di promozione disposto in base a quest'ultimo (Cons. St., sez. III, 23 gennaio 1996, n. 650, in Cons. Stato, 1997, 452); tra aggiudicazione provvisoria (ove impugnata) ed aggiudicazione definitiva (Cons. St., sez. V, 3 aprile 2001, n. 1998, in Riv. giur. edil., 2001, 650). Di recente, di grande interesse Cons. St., sez. IV, 8 luglio 2002, n. 3774, in Foro amm. - CDS, 2002, 1641, che sembra introdurre una sorta di «presunzione» ancorata al parametro soggettivo della diversità delle amministrazioni autrici degli atti in rapporto, affermando che «non è ipotizzabile il cd. effetto caducante sull'atto consequenziale (che ne determina l'automatico travolgimento senza bisogno di apposita impugnativa) quando il provvedimento annullato (presupposto) ed il provvedimento che si sostiene caducato siano stati adottati da amministrazioni diverse». In realtà, i frequenti contrasti giurisprudenziali nell'individuazione della linea di confine tra invalidità viziante ed invalidità caducante (si pensi al caso emblematico del rapporto tra esclusione ed aggiudicazione) si spiegano proprio ove si consideri che, in definitiva, il criterio discretivo utilizzato è quello del carattere più o meno «intimo» (come sottolinea GATTAMELATA S., Effetti, cit., 325) del nesso logico-giuridico di presupposizione, sicché la soluzione finisce per dipendere da soggettivismi ricostruttivi e sensibilità differenti. In questo senso, nel tentativo di individuare i presupposti del nesso «stretto» che giustificherebbe la caducazione (piuttosto che la mera invalidazione viziante), la giurisprudenza ha, a volte, fatto riferimento al «carattere meramente esecutivo» degli atti consequenziali rispetto a quelli presupposti (cfr. Cons. St., sez. IV, 20 maggio 1991, n. 398, in Cons. Stato, 1991, 871), altre volte, al «collegamento non già meramente occasionale, bensì genetico, cioè tale da descrivere il primo atto come quello che giustifica e delimita la produzione degli effetti di quello che lo segue» (Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2000, n. 672, cit.), o, ancora, ad uno «stretto nesso di causalità» (Cons. St., sez. IV, 7 dicembre 1979, n. 1139, cit.) più spesso, alla circostanza che l'atto antecedente si configuri come presupposto non solo necessario, ma altresì «unico» del provvedimento consequenziale (Cons. Stato, sez. VI, 11 ottobre 1989, n. 1329, in Cons. Stato, 1989, 1236; Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 1999, n. 307, in Foro amm., 1999, 764). Si tratta, come è evidente, di criteri non univoci, utilizzando i quali «si finisce per introdurre elementi di indeterminatezza» (GAROFALO L., Atto presupposto, cit., 349), minando, in primo luogo, il principio di certezza del diritto, data l'abissalità della differenza tra gli effetti che si connettono all'invalidità, se configurata, rispettivamente, come viziante o caducante. (5) Vedi la nota 7. Sul principio di economia processuale, in generale, vedi CARNACINI T., Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Studi in onore di Enrico Redenti nel XL anno del suo insegnamento, Milano, 1951, 693 ss., nonché COMOGLIO P., Il principio di economia processuale, I, Padova, 1980. (6) In ragione dell'asserita valenza «deflattiva» del contenzioso giurisdizionale assegnata alla previa diffida rispetto al ricorso avverso il silenzio-rifiuto: sul punto, STICCHI DAMIANI E., La diffida a provvedere nel giudizio avverso il silenzio dell'amministrazione, in Foro amm. - TAR, 2002, 4213 ss., in corso di pubblicazione negli Studi in onore di Giorgio Berti. (7) Sulle «ragioni di ordine pragmatico» che hanno condotto la giurisprudenza ad accogliere la prospettiva dell'esonero dall'impugnazione degli atti consequenziali, assumendo l'operatività del meccanismo della caducazione automatica, vedi, in particolare, SANDULLI A.M., Il problema dell'esecuzione, cit., 21, nonché CORLETTO D., voce Opposizione di terzo nel diritto processuale amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIV, 1999, 570 ss. Chiaro, sul punto, Cons. St., sez. V, 24 maggio 1996, n. 592, in Foro amm., 1996, 1555, secondo cui «la sentenza d'annullamento del provvedimento amministrativo impugnato, creando l'obbligo per la p.a. soccombente di ripristinare la situazione anteatta, ha effetto caducante nei confronti di tutti gli atti che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario, per cui il ricorrente vittorioso non è tenuto a seguire tutti gli sviluppi del procedimento amministrativo e ad impugnare gli atti consequenziali, né ha l'onere di ricercare tutti i cd. controinteressati successivii - ossia quei soggetti che, per effetto di quegli atti medesimi, vengono a trovarsi in una situazione giuridica di vantaggio - pur se la mancata impugnazione può determinare l'eventuale opposizione di terzo proprio da parte di questi soggetti che non hanno partecipato al giudizio sul provvedimento antecedente e vengono privati del loro vantaggio in virtù dell'annullamento di quest'ultimo». (8) Per tutti, vedi gli incisivi rilievi di SATTA F., Giustizia amministrativa, cit., 461, secondo cui «nel caso di una pluralità di provvedimenti successivi a quello annullato... se sono stati tutti impugnati, nulla quaestio: cadono tutti per illegittimità derivata. Ma se questo zelo è mancato, gli atti successivi hanno acquistato una propria autonoma inoppugnabilità, consolidando la lesione provocata con il primo atto impugnato ed annullato... in questi casi, il sistema degli atti disciplinatori di una certa fattispecie si è formato; non solo, ma di norma creando anche posizioni particolari in capo a terzi. La situazione è certamente paradossale: gli atti successivi sono logicamente condizionati dal primo e quindi dal giudizio negativo di legittimità pronunciato su di esso; godono per altro di un regime giuridico autonomo, in quanto hanno acquistato una propria inoppugnabilità... è chiaramente impossibile superarla: l'inoppugnabilità c'è o non c'è». (9) Per questi rilievi, vedi in particolare, CORLETTO D., voce Opposizione di terzo, cit., 571 ss. e GAROFALO L., Atto presupposto, cit., 351 ss. Tale posizione critica è stata fatta propria da un significativo orientamento giurisprudenziale, che trova forse la sua più compiuta espressione in Cons. St., sez. V, 30 marzo 1994, n. 212, e 7 maggio 1994, n. 447 (in Cons. Stato, 1994, 393 e 762), ove si è affermato che «l'art. 24 della Costituzione non consente che una pronuncia giurisdizionale (anche del giudice amministrativo) possa arrecare pregiudizio a colui che non ha potuto difendersi nel corso del processo... pertanto... il principio della portata caducante della sentenza di annullamento non è invocabile quando l'atto consequenziale abbia conferito un bene, un'utilità o uno status ad un soggetto che non è qualificabile come parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l'atto presupposto... la caducazione degli effetti della nomina o dell'aggiudicazione si ha dunque quando il giudice amministrativo annulla la graduatoria finale del concorso anche perché i soggetti utilmente inseriti nella graduatoria, in quanto controinteressati, possono operare le loro difese nel corso del giudizio proposto avverso la graduatoria, e non anche quando l'impugnativa concerne esclusivamente il bando di concorso... l'annullamento del bando di concorso o di una gara non ha alcuna portata caducante della successiva graduatoria e degli atti di nomina dei vincitori, che non possono essere pregiudicati dall'esito di un giudizio nel quale essi non sono stati parti... l'annullamento del bando, stante la portata retroattiva della sentenza del giudice amministrativo, comporta il venir meno di un presupposto che ha dato luogo all'approvazione della graduatoria ed alla nomina ovvero all'aggiudicazione, e dunque consente che l'Amministrazione possa (e non debba) esercitare i propri poteri di autotutela nei confronti degli atti (non caducati) che sono considerabili privi del necessario presupposto... tale ricostruzione consente che i vincitori del concorso, non intimati nel giudizio avente per oggetto il bando e nei cui confronti non ha alcun rilievo il giudicato di annullamento, possano esercitare pienamente le proprie difese nei confronti degli eventuali atti di rimozione della graduatoria e delle nomine». Come si vede, si tratta di un'opinione che si schiera in senso decisamente critico rispetto all'idea dell'operatività «normale» dell'istituto della caducazione automatica, escludendone tuttavia l'invocabilità non in assoluto, bensì solo a due condizioni: a) la natura «favorevole» del provvedimento consequenziale («l'atto consequenziale abbia conferito un bene, un'utilità o uno status»); b) la non configurabilità del soggetto destinatario dell'atto consequenziale come «parte necessaria nel giudizio che ha per oggetto l'atto presupposto» (sulla nozione di «parte necessaria» del processo amministrativo, si rinvia a STICCHI DAMIANI E., Le parti necessarie nel processo amministrativo, Milano, 1988), a prescindere dalla circostanza che poi, in concreto, il terzo non controinteressato in senso stretto sia stato comunque evocato in giudizio attraverso la notifica del ricorso ovvero abbia spontaneamente partecipato al giudizio attraverso lo strumento dell'intervento ad opponendum (sul punto, vedi ampiamente GAROFALO L., Atto presupposto, cit., 352 ss.). Ne consegue, tuttavia, la conferma della caducazione automatica, laddove il provvedimento consequenziale non attribuisca un'utilità ovvero nel caso in cui il soggetto destinatario del giudizio sia giuridicamente qualificabile come «parte necessaria» del processo: tale orientamento giurisprudenziale, condivisibile negli intenti, ma, in definitiva, non pienamente appagante sotto il profilo teorico, in quanto limita la propria critica del fenomeno della caducazione alla sola prospettiva del rispetto del principio del contraddittorio, è stato successivamente ribadito da numerose pronunce, tra cui: Cons. Giust. Amm. Sic. 18 maggio 1996, n. 154, in Cons. Stato, 1996, 1026; Cons. Giust. Amm. Sic. 14 ottobre 1997, n. 398, in Cons. Stato, 1997, 1469; Cons. St., sez. V, 3 settembre 1998, n. 1287, in Foro amm., 1998, 2349; Cons. St., sez. VI, 30 ottobre 2001, n. 5677, in Dir. e formazione, 2001, 1043; T.A.R. Lazio, sez. III, 10 luglio 2002, n. 6257, in Foro amm. - TAR, 2002, 2528. In dottrina, l'orientamento giurisprudenziale citato è stato difeso con convinzione da MARUOTTI L., Il giudicato, cit., in particolare 3372 ss. La posizione dell'Autore va segnalata per la sua condivisibile critica alle contraddizioni e controindicazioni dell'istituto della caducazione automatica, sebbene alle serrate e convincenti argomentazioni non corrisponda, nelle conclusioni, l'affermazione di un integrale rigetto dell'istituto giurisprudenziale dal punto di vista sistematico. Secondo la dottrina citata, «per alcune decisioni, fondate sull'esigenza di evitare la proliferazione delle liti, sarebbe insussistente l'onere di impugnare anche il provvedimento finale, perché (nel caso di fondatezza del ricorso contro l'atto di attivazione del procedimento o intermedio, quale il bando o l'esclusione), il giudice amministrativo dovrebbe disporre l'annullamento dell'atto impugnato, con la caducazione (ipso iure ovvero accertata nella stessa sentenza) degli effetti del provvedimento finale, anche se questo non è stato impugnato ed ha attribuito un beneficio ad altri... la soluzione suesposta urta con alcuni principi fondamentali (sostanziali e processuali) del diritto amministrativo... l'art. 24 della Costituzione non consente che una pronuncia del giudice amministrativo arrechi diretto pregiudizio a chi non si sia potuto difendere: non può ammettersi che il vincitore di un concorso o di una gara subisca un pregiudizio, a seguito di una lite di cui non è parte necessaria e di cui può anche non avere conoscenza. Non vi sono ragioni sufficienti per negare la correttezza dell'antico principio per cui sussiste l'onere di impugnare il provvedimento lesivo, conclusivo di un procedimento... a maggior ragione i principi suesposti si applicano quando non si tratta di un unico procedimento amministrativo, ma di provvedimenti riferibili a due procedimenti distinti, ma collegati, l'uno strettamente consequenziale all'altro... ha ancora un rilievo attuale la regola tradizionale (fondamentale e garantista) per cui la mancata impugnazione del provvedimento consequenziale rende improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso proposto per l'annullamento di un atto presupposto» (3374-3377). E, tuttavia, dopo tali considerazioni, l'Autore conclude nel senso che, «tenendo conto delle osservazioni che precedono, può affermarsi che una sentenza del giudice amministrativo di annullamento di un provve-dimento presupposto (interno o finale di un procedimento) può avere portata caducante di un provvedimento consequenziale (rispettivamente, conclusivo del procedimento o conseguente ad un successivo procedimento collegatoo) solo quando nel giudizio (proposto contro l'atto presuppostoo) siano state intimate le parti, pubbliche e private, cui dovrebbe riconoscersi la qualità di parte necessaria nel caso di annullamento del provvedimento consequenziale» (3378-3379). La caducazione automatica, insomma, è ammissibile, purché sia rigorosamente rispettato il principio del contraddittorio: resta in ombra, anche in questa analisi, il profilo dogmatico relativo al principio di tipicità delle fattispecie estintive di provvedimento. (10) In terminis la citata Cons. St., sez. IV, 7 dicembre 1979, n. 1130. (11) Vedi nota 4. (12) Deve essere segnalata, per la sua autorevolezza, la posizione più volte espressa da SANDULLI, a giudizio del quale l'operatività del fenomeno della caducazione automatica dovrebbe essere esclusa, senza che, tuttavia, ciò comporti l'onere per il ricorrente di impugnare autonomamente, dopo l'atto presupposto, anche l'atto consequenziale. La «quadratura del cerchio» viene infatti rinvenuta dall'Autore nella doverosità dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio da parte della p.a.: più precisamente, a seguito della sentenza di annullamento dell'atto presupposto, configurandosi un'invalidità derivata del provvedimento consequenziale, sorgerebbe l'obbligo per l'amministrazione di rimuovere d'ufficio quest'ultimo, dando attuazione al decisum giurisdizionale. A questo punto, le ragioni di entrambi le parti in conflitto troverebbero tutela, poiché, in caso di inerzia della p.a., l'obbligo dell'autoannullamento sarebbe suscettibile di essere portato ad esecuzione dall'originario ricorrente nelle forme del giudizio di ottemperanza; d'altro canto, il destinatario dell'atto consequenziale potrebbe impugnare gli atti di annullamento d'ufficio, instaurando un nuovo giudizio nel quale avrebbe la possibilità di difendersi. Per questa tesi, vedi SANDULLI A.M., Il problema, cit., 21 ss. nonché ID., L'effettività delle decisioni, cit., 307, ove si legge che «per chi non aderisca a tale orientamento (vale a dire alla teoria della caducazione automatica) l'estensione degli effetti caducatori e ripristinatori a siffatti atti consequenziali non potrà essere prodotta se non da ulteriori interventi dell'Amministrazione e, occorrendo, del giudice dell'ottemperanza (senza peraltro che a tal fine occorrano nuove impugnative). Quest'ultima a me pare la soluzione più corretta, non sembrandomi condivisibile l'idea che atti non nulli, e non caducati né dal Giudice né dall'Amministrazione, vengano meno ex se». La tesi di SANDULLI è stata ripresa, sebbene con alcune precisazioni, da GATTAMELATA S., Effetti dell'annullamento, cit., 327 ss., secondo cui «l'interesse al ricorso non si concentra solo sul risultato formale dell'annullamento dell'atto impugnato, ma anche sulla legittima aspettativa del ricorrente in ordine all'attività di esecuzione del giudicato da parte della P.A.. Quest'ultima perè è tenuta a rimuovere (oltreché l'atto annullato dal Giudice) solo gli atti che, fondando la loro stessa esistenza sull'atto annullato (unico atto presupposto) sono travolti dalla sentenza... il ricorso al giudizio di ottemperanza, nelle ipotesi in argomento, non solo è auspicabile ma è certamente più corretto rispetto ad un'estensione incontrollata del principio della caducazione automatica. Da un lato, infatti, il giudizio di ottemperanza garantisce stabilità all'ordinamento in quanto la soluzione del problema in argomento è individuata pur sempre nell'ambito di questo stesso e per di più attraverso un'azione la cui ratio è proprio quella dell'adeguamento della situazione di fatto al disposto del Giudice; dall'altro lato salvaguarda gli interessi del singolo, allo stesso modo della caducazione automatica, il cui ambito di applicazione verrebbe in tal modo circoscritto». La maggioranza della dottrina, tuttavia, è condivisibilmente critica nei confronti della suesposta tesi. In primo luogo, desta perplessità l'idea della doverosità dell'annullamento d'ufficio: vedi sul punto VIPIANA P.M., Contributo, cit., 323 s. Come osserva incisivamente SATTA F., Giustizia amministrativa, cit., 461 e 464, «l'unico modo per... superare l'inoppugnabilità dell'atto consequenziale... sarebbe affermare l'esistenza di un dovere dell'amministrazione di annullare d'ufficio i propri atti, fondati su un altro provvedimento presupposto e dichiarato illegittimo. Ma per proposizioni di questo genere non vi è fondamento alcuno, né nella legge né nella Costituzione; vi è se mai una specifica indicazione in senso inverso nella legge sui T.A.R. e sul Consiglio di Stato, là dove dispone che il ricorso non sospende l'esecutività dei provvedimenti impugnati... in realtà, nei termini in cui è posto, il problema è insolubile. I due elementi che vengono a conflitto - sicura illegittimità di un atto conseguente ad altro illegittimo; sua acquisita inoppugnabilità sono espressione di principi che operano su piani diversi, sostanziale l'uno e processuale l'altro, ma dotati di un pari valore giuridico. Un dovere generale di annullamento d'ufficio di qualunque atto illegittimo non esiste; l'inoppugnabilità costituisce invalicabile preclusione alla denuncia di qualsiasi violazione di norme e principi di diritto». A tale corretto rilievo, tuttavia, l'Autore fa seguire delle riserve in ordine al principio della necessità, per il ricorrente avverso l'atto presupposto, di impugnare l'atto consequenziale, affermando che «del pari non convince però la soluzione opposta, che, dando esclusivo rilievo all'inoppugnabilità acquisita dagli atti successivi al primo, annullato, esclude l'influenza su di essi del giudicato relativo a quell'atto... vi è qui infatti una manifesta ingiustizia, nel senso che da un lato si impone al ricorrente l'onere di impugnare una serie indeterminata di atti, che ha difficoltà a conoscere e che non sono per lui immediatamente lesivi e, dall'altro, si consente all'amministrazione di privare il giudicato di effetti sostanziali, con propri provvedimenti» (462). Di fronte alla ritenuta «equivalenza», in termini di controindicazioni, tra la prospettiva della caducazione automatica e quella dell'onere di impugnazione plurima, l'Autore finisce per approdare alla seguente soluzione: l'inoperatività della caducazione automatica a cagione dell'inoppugnabilità dell'atto consequenziale dovrebbe, comunque, comportare una forma di compensazione per l'originario ricorrente, attraverso il risarcimento del danno per equivalente, in quanto «il problema si pone quando dall'atto ulteriore, non impugnato, derivi un pregiudizio grave ed irreparabile a chi aveva conseguito l'annullamento del primo atto. Sotto questo profilo, la situazione è identica a quella che scaturisce da un'irreversibile modificazione della situazione di fatto. La sentenza, in quanto concretamente ineseguibile, può non recare vantaggio alcuno al ricorrente vincitore. Il vero problema è dunque diverso dalla mera questione di un conflitto tra diversi principi di diritto. Di fronte al risultato concreto, per cui il corso della vita e degli eventi priva di significato la sentenza, si tratta di dare effettività e compiutezza alla tutela giurisdizionale amministrativa, al di là dei meri provvedimenti ulteriorii dell'amministrazione... là dove, quasi per forza di cose, non giungono il giudice amministrativo e l'amministrazione, deve poter essere invocata la tutela per equivalente, vale a dire il risarcimento del danno» (464). Per considerazioni analoghe, di recente, TRIMARCHI BANFI F., Considerazioni sull'opposizione alla sentenza di annullamento proposta dal terzo titolare di posizione «autonoma e incompatibile», in questa Rivista, 1998, 802; vedi anche MARUOTTI L., Il giudicato, cit., 3376, secondo cui, «nel caso di mancata impugnativa del provvedimento finale, un interesse a coltivare il ricorso proposto contro l'atto preparatorio può essere ravvisato solo in relazione alla domanda di risarcimento del danno, conseguente all'illegittimo esercizio del potere e che, per l'art. 103 Cost., rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo». Tornando alla tesi formulata da Sandulli, essa non appare convincente soprattutto sul piano della garanzia effettiva del principio del contraddittorio. Al terzo destinatario del provvedimento consequenziale, infatti, verrebbe riservata una tutela evidentemente deteriore ove quest'ultimo fosse costretto a difendersi solo in un giudizio successivo a quello sull'atto presupposto, ormai conclusosi con sentenza definitiva, ossia nel giudizio attivato sul provvedimento di annullamento d'ufficio «doveroso» adottato dalla p.a.; senza considerare, poi, la situazione ancora meno soddisfacente per il terzo nel caso di inerzia della p.a., dovendosi svolgere il contenzioso sulla rimozione dell'atto consequenziale nelle forme - certamente non idonee a garantire appieno l'effettività del principio del contraddittorio - del giudizio di ottemperanza. Per spunti in tal senso, vedi CORLETTO D., voce Opposizione di terzo, cit., 571. Anche MARUOTTI L., Il giudicato, cit., 3378, critica la suddetta tesi, osservando che «non può essere condivisa perché farebbe sorgere ulteriori questioni, anche processuali, in relazione all'impugnazione proposta dal beneficiario del provvedimento finale, annullato dall'Amministrazione in esecuzione di un giudicato che gli è inopponibile... peraltro, più radicalmente, va ribadito che non possono essere posti in contestazione gli effetti del provvedimento autoritativo finale o conclusivo di un ulteriore procedimento, non impugnato ritualmente... esso si consolida e diventa inoppugnabile, nel senso che la posizione giuridica del suo beneficiario diventa inattaccabile». (13) Sul tema, oltre alla citata voce di CORLETTO, vedi: ID., Opposizione di terzo e principio del contraddittorio nel processo amministrativo, in Giur. cost., 1995, 3769 ss.; SEMINARA N., L'istituto dell'opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo, ivi, 1437 ss.; BALDANZA A., L'opposizione di terzo nel processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 1995, 891 ss.; ID., Opposizione di terzo: situazione legittimante ed autorità giurisdizionale competente, ivi, 1998, 945 ss.; TRAVI A., L'opposizione di terzo e la tutela del terzo nel processo amministrativo, in Foro it., 1997, 22 ss.; OLIVIERI G., L'opposizione di terzo nel processo amministrativo. Oggetto ed effetti, in questa Rivista, 1997, 32 ss.; LORENZOTTI F., L'opposizione di terzo nel processo amministrativo, Napoli, 1997; CANNADA BARTOLI E., Vicende dell'opposizione di terzo, in Giur. it., 1998, 1955 ss.; TROISE MANGONI W., Controinteressati e opposizione di terzo nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1998, 667 ss: COEN L., Esecuzione e opposizione di terzo nei confronti della sentenza non definitiva del giudice amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 953 ss.; da ultimo, anche per un'ampia analisi giurisprudenziale, LOLLI A., I limiti soggettivi del giudicato amministrativo, Milano, 2002. (14) In tal senso Cons. Stato, sez. V, 24 maggio 1996, n. 592, citata alla nota 7. In dottrina, vedi ampiamente SPAMPINATO B., L'introduzione dell'opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo ed i suoi possibili riflessi sull'onere di impugnare gli atti sopravvenuti a carico del ricorrente avverso l'atto presupposto, in Scritti in onore di Antonio Pavone La Rosa, Milano, 1999, 2057 ss.; LOLLI A., I limiti soggettivi, cit., 257, secondo cui nel «considerare i destinatari del potere amministrativo... nessun problema si pone con riferimento ai controinteressati successivi, in quanto destinatari del potere emersi successivamente al momento in cui l'atto annullato è stato emanato. Si tratta comunque di destinatari del potere su cui il giudicato incide, in senso caducante o ripristinatorio, e perciò essi possono certamente essere ammessi alla contestazione del giudicato, ove siano titolari di una posizione autonoma ed incompatibile. Proprio a tale categoria di soggetti si riferiva la sentenza del Giudice delle leggi sull'opposizione di terzo»; MARUOTTI L., Il giudicato, cit., 3380 ss. (15) Le riserve più frequentemente espresse dalla dottrina attengono ad un duplice ordine di profili. Da un lato, si sottolinea la «non adeguatezza» della garanzia del principio del contraddittorio assicurata dall'opposizione di terzo, in quanto «non si può considerare realizzata un'adeguata garanzia del contraddittorio se non si consente, a chi sarà toccato dagli effetti di una decisione giurisdizionale, di partecipare a quella decisione e se si ignora il dato di esperienza che altro è partecipare... alla formazione della sentenza... altro è attaccare una decisione già presa e chiedere allo stesso giudice che l'ha pronunciata la modifica di valutazioni già compiute» (così CORLETTO D., voce Opposizione di terzo, cit., 570). Dall'altro lato, si opera una riflessione - che in questa sede appare molto significativa - sul pericolo per la certezza del diritto rappresentato dalla concezione dell'opposizione di terzo quale rimedio «normale», affermando che «un rimedio che, per una serie ampia di casi e come evenienza pressoché normale, si configura come una sorte di realizzazione tardiva del contraddittorio, consentendo la riapertura di processi che si presumevano già definitivamente chiusi, ha un tale prezzo in termini di certezza e in termini di tempo - elementi chiave per l'utilità sociale dell'attività giurisdizionale - che un suo uso generalizzato metterebbe in forse lo scopo e il senso stesso della giurisdizione amministrativa» (ID., ibidem). Per considerazioni analoghe, vedi: TROISE MANGONI W., Controinteressati, cit., 683 ss., il quale aggiunge agli argomenti riportati anche quello ulteriore (tratto sempre dall'analisi dell'opinione di CORLETTO) secondo cui «la sottoposizione della sentenza del giudice amministrativo alla costante (e tendenzialmente priva di limiti temporali) minaccia di una possibile impugnazione da parte di un terzo sarebbe senz'altro lesiva del diritto di azione che è costituzionalmente garantito»; RAMAJOLI M., La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, 122 ss.; LOLLI A., I limiti soggettivi, cit., 27 ss. La soluzione proposta dalla dottrina, tuttavia, al fine di circoscrivere l'ambito di operatività dell'opposizione di terzo, non è quella della riaffermazione dell'onere per il ricorrente avverso l'atto presupposto di gravare anche gli atti connessi/consequenziali, bensì quella della configurazione del potere-dovere del giudice di disporre la chiamata in causa del terzo, attraverso lo strumento processualcivilistico dell'intervento iussu iudicisex art. 107 c.p.c., per garantire un contraddittorio effettivo e preventivo rispetto alla sentenza ed impedire la successiva proposizione dell'opposizione di terzo. Vedi, sul punto, oltre alla citate opere di CORLETTO: COEN L., Esecuzione e opposizione di terzo, cit., 987, secondo cui «la dottrina ha già da tempo sottolineato la necessità di modificare le norme che disciplinano la notificazione del ricorso ai controinteressati. Ma, poichè è impensabile gravare il ricorrente dell'onere di individuare coloro che, pur non essendo direttamente menzionati nel provvedimento impugnato, vantano comunque un interesse uguale e contrario al suo, diventa necessario stabilire se ciò possa (e debba) essere disposto anche d'ufficio dal giudice nella fase introduttiva del giudizio»; CANNADA BARTOLI E., Per il litisconsorzio successivo su ordine del giudice nel processo amministrativo, in Giur. it., 1998, 1269 ss.; D'ORSOGNA M., L'intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in questa Rivista, 1999, 382 ss. In una prospettiva non molto distante sembra porsi GAROFALO L., Atto presupposto, cit., 360 s., secondo cui occorrerebbe «rivedere la categoria dei soggetti legittimati all'opposizione di terzo nel diritto processuale amministrativo, che dovrebbe includere sia... la parte estromessa dal giudizio, sia la parte che, pur non estromessa, per non essere parte necessaria (né un controinteressato in senso ampio) non abbia potuto modulare in maniera sufficiente le sue difese. Non solo questo rilievo, ma l'intero itinerario seguito sembra peraltro accompagnare ad una soluzione alternativa rispetto a quelle sin qui praticate in tema di impugnazione del provvedimento consequenziale: esso porta infatti a ritenere imprescindibile l'estensione del processo nel quale si discute intorno alla legittimità del provvedimento presupposto - grazie anche al potere del giudice di ordinare l'integrazione del contraddittorio- a tutti i terzi che potrebbero conseguire un beneficio da quello successivo che vi si collegherà (ad esempio, trattandosi di una gara dalla quale il ricorrente sia rimasto escluso, al novero degli ammessi), riconoscendo loro la qualifica di parti necessarie: il che, com'è palmare, postula un incisivo ripensamento, anche e soprattutto ad opera della giurisprudenza, della figura del controinteressato». Tali opinioni, tuttavia, per quanto condivisibili nelle premesse e nei contenuti, non convincono nella conclusione: infatti, nel momento in cui escludono la prospettiva della necessaria impugnazione dell'atto consequenziale da parte del ricorrente avverso l'atto presupposto - maggiormente rigorosa rispetto a quella della mera evocazione in giudizio del terzo e più idonea a circoscrivere con criteri sicuri e non empirici l'ambito di azionabilità dell'opposizione di terzo -, limitano, evidentemente, la propria analisi alle sole implicazioni del principio del contraddittorio, non attribuendo rilievo primario alla novità apportata dall'introduzione legislativa dell'istituto dei motivi aggiunti e, soprattutto, non ponendosi il problema del vulnus inferto nei confronti di un possibile principio generale di tipicità della fattispecie estintive del provvedimento amministrativo. (16) Vedi, sul punto, MARUOTTI L., Il giudicato, cit., 3380 ss. L'Autore, dopo aver rilevato che «la sentenza della Corte costituzionale n. 177 del 1995 non ha in alcun modo affermato che l'impugnazione dell'atto presupposto faccia venire meno l'onere di impugnare il provvedimento successivo e consequenziale... al contrario, la Corte costituzionale ha rimarcato che l'art. 24 della Costituzione non consente che una pronuncia del giudice amministrativo arrechi diretto pregiudizio a chi non si sia potuto difendere... In altri termini, la sentenza della Corte costituzionale ha aggiunto un rimedio di tutela in favore del cd. controinteressato che sia stato beneficiato dell'atto finale o consequenziale... essa non ha inciso sul principio garantista per cui gli effetti di un provvedimento amministrativo possono essere rimossi dal giudice amministrativo quando contro di esso è stato proposto un rituale e tempestivo ricorso, notificato ai controinteressati», sostiene che, «se il T.A.R. annulla erroneamente l'atto presupposto, in presenza dell'inoppugnabile atto favorevole al terzo, questi, in qualità di controinteressato... in sede di appello o di opposizione di terzo... può anche limitarsi a dedurre che è erronea la sentenza di annullamento (dell'atto preparatorio o finale del procedimento) perché essa avrebbe dovuto dichiarare l'improcedibilità del ricorso proposto, per la carenza di interesse conseguente alla mancata impugnazione dell'atto finale del procedimento o di quello consequenziale, ormai inoppugnabile e conclusivo di un ulteriore e derivato procedimento. In tal caso, all'opposizione di terzo va riconosciuta la natura di rimedio essenzialmente processuale». Alla luce di tali riflessioni, l'Autore conclude che «tale soluzione è solo apparentemente rigorosaa per chi abbia proposto il ricorso giurisdizionale contro l'atto preparatorio... poiché spetta la piena tutela giurisdizionale ai soggetti beneficiati da provvedimenti amministrativi... anche sotto il profilo dell'equità è preferibile rilevare, secondo le regole generali, l'onere di proporre un secondo ricorso o motivi aggiunti (ovviamente, nel rispetto dei principi sulla relativa decorrenza del termine), piuttosto che elaborare opinabili e poco chiare eccezioni al lineare principio per cui gli atti autoritativi perdono effetti in sede giurisdizionale solo a seguito di rituale, tempestiva e fondata impugnazione». Nel senso del testo sembra essere la giurisprudenza amministrativa più attenta: oltre a Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 2002, n. 785, citata infra (nota 24), vedi Cons. St., sez. VI, 30 ottobre 2001, n. 5677, cit., che, nel ribadire la validità dell'indirizzo giurisprudenziale contrario all'operatività della caducazione automatica nel caso di atto consequenziale attributivo di utilità a terzo non qualificabile come parte necessaria nel giudizio avente per oggetto l'atto presupposto (vedi nota 9), sottolinea: «tale indirizzo non è indebolito dall'introduzione nel processo amministrativo del rimedio dell'opposizione di terzo... in quanto proprio il riconoscimento di un rimedio successivo di reazione conferma la necessità di efficaci meccanismi preventivi di partecipazione, che evitino conflitti risolvibili con l'opposizione di terzo». (17) In una prospettiva di analisi opposta a quella qui accolta si pone SPAMPINATO B., L'introduzione dell'opposizione di terzo, cit., 2057 ss.: secondo l'Autore, proprio l'introduzione dell'opposizione di terzo giustificherebbe in maniera definitiva, sul piano processuale, l'esonero del ricorrente dall'impugnazione degli atti sopravvenuti all'atto presupposto, in quanto il terzo, se non intervenuto in giudizio spontaneamente o su chiamata del giudice, sarebbe comunque garantito dal rimedio «di chiusura» rappresentato, appunto, dall'opposizione di terzo. In tale prospettiva, assumendo che la tutela del terzo beneficiario dell'atto consequenziale sia oggi «adeguata», si giunge ad adombrare la possibile incostituzionalità dell'accollo al ricorrente avverso l'atto presupposto dell'onere di impugnazione anche degli atti consequenziali, in quanto - si sostiene - il ricorrente verrebbe così ad assumere una posizione deteriore rispetto a quella dei terzi collegati con gli atti sopravvenuti, tanto da configurare un probabile contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. Non si ritiene di condividere tale tesi, in quanto sembra doversi ribaltare l'argomento logico fondamentale ad essa sotteso: occorre infatti chiedersi, più correttamente, a che cosa «serva» l'istituto della caducazione automatica, sul piano dell'economia processuale, ora che il rimedio dell'opposizione di terzo esiste ed opera proprio vanificandone «specularmente» la ratio originaria di limite alla proliferazione dei giudizi. Inoltre, al di là delle considerazioni limitate al profilo del contraddittorio processuale, tale tesi non tiene conto: dei «limiti» evidenti del rimedio dell'opposizione di terzo; delle controindicazioni a cui espone l'individuazione di tale rimedio come «grimaldello» per forzare la certezza e la stabilità delle decisioni giurisdizionali sull'atto presupposto; della novità rappresentata dalla codificazione dei motivi aggiunti; sotto altro profilo, della ritenuta esigenza di tipicità nella configurazione delle fattispecie estintive del provvedimento amministrativo. (18) Sul principio della tutela dell'affidamento, coniugato alla salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici e della stessa azione amministrativa, si vedano, da ultimo, le illuminanti pagine di MERUSI F., La certezza dell'azione amministrativa fra tempo e spazio, in Dir. amm., 2002, 527 ss.; per ulteriori riferimenti: ID., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni «trenta» alla «alternanza», Milano, 2001; ID., L'affidamento del cittadino, Milano, 1970; sotto altro profilo, IMMORDINO M., Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, Torino, 1999. La Corte di Giustizia CE, d'altro canto, ha espressamente evidenziato il rango primario che il principio di tutela dell'affidamento assume nell'ambito dei principi fondamentali del diritto comunitario: «il motivo di gravame concernente il principio della tutela del legittimo affidamento è ammissibile nell'ambito di un ricorso ex art. 173 giacché il principio in questione fa parte dell'ordinamento giuridico comunitario e la sua inosservanza costituirebbe una violazione del Trattato e di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione» (sentenza Topfer, 3 maggio 1978, in causa 112/77, punto 19); sull'affermazione del rango di principio dell'ordinamento comunitario della tutela del legittimo affidamento cfr., altresì, le sentenze 26 aprile 1988, Krucken, in causa 316/86; 1º aprile 1993, Lageder ed altri, in cause da C-31/91 a C-44/91; 3 dicembre 1998, Belgocodex, in causa C-381/97; 8 giugno 2000, Schlobstrabe, in causa C-396/98). (19) Sull'istituto dei motivi aggiunti, a seguito della l. n. 205 del 2000, vedi i rilievi di: RAMAJOLI M., Impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti nel corso del giudizio e connessi con quello già impugnato - Art. 1 della legge n. 205 del 2000, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 567 ss.; ID., La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, spec. 132 ss.; SAITTA N., Sette note sui motivi aggiunti, in www.giust.it, n. 2/2001; FIGORILLI F., L'istituto dei motivi aggiunti alla luce delle modifiche introdotte dalla l. n. 205 del 2000, in AA.VV., La tutela dell'interesse al provvedimento, Trento, 2001, 83 ss.; ID., I motivi aggiunti, in SASSANI B.-VILLATA R., Il processo davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla l. n. 205 del 2000, Torino, 2001, 126 ss.; ABBAMONTE A., Introduzione del processo amministrativo (art. 1), in CERULLI IRELLI V. (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo. Commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, Torino, 2001, 203 ss.; MAMELI B., Atto introduttivo e attività istruttoria, in CARINGELLA F.-PROTTO M., Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2001, 3 ss.; BASSANI M., Art. 1. Disposizioni sul processo amministrativo, in AA.VV., La giustizia amministrativa - Commento alla l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2000, 7 s. (20) Sul punto, la lettera dell'art. 1 della l. n. 205 del 2000 sembrerebbe opporre un rilevante ostacolo formale all'accoglimento della tesi, sostenuta nel testo, dell'utilizzabilità dei motivi aggiunti per impugnare i provvedimenti consequenziali di cui siano destinatari soggetti terzi rispetto alle parti dell'originario giudizio avverso l'atto presupposto. La norma, infatti, prevede che siano impugnati con motivi aggiunti solo i provvedimenti «connessi all'oggetto del ricorso... in pendenza del ricorso tra le stesse parti». Sembrerebbe, dunque, che (come nota, seppur criticamente, SAITTA N., Sette note, cit.), nel caso in cui «l'utilizzo di motivi aggiunti comporta l'evocazione in giudizio anche di parti diverse da quelle originarie... potrebbe... escludersi l'applicabilità dei motivi aggiunti di nuovo conio e conservare lo strumento del ricorso autonomo, salva rimanendo la riunione per connessione quanto meno oggettiva». In tal senso, un primo orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che «sono inammissibili, salvo che non possano essere convertiti in ricorso autonomo, i motivi aggiunti notificati anche a soggetti diversi da quelli originariamente evocati in giudizio, non essendo ciò coerente con l'art. 21 della l. n. 1034 del 1971, così come modificato dall'art. 1 della l. n. 205 del 2000, che, nel consentire i motivi aggiunti con riferimento ai provvedimenti adottati in pendenza del ricorso, prevede la condizione che essi intervengano tra le stesse parti» (T.A.R. Lazio, sez. Latina, 19 aprile 2002, n. 423, in Foro amm. - TAR, 2002, 1318; T.A.R. Lazio, sez. Latina, 15 febbraio 2002, n. 154, ivi, 2002, 580). Tale opzione ermeneutica «restrittiva» della nuova norma sui motivi aggiunti, tuttavia, non è condivisibile, come ha sottolineato la maggioranza della dottrina. Secondo RAMAJOLI M., Impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti, cit., 571, «siffatta impostazione restrittiva risulta poco comprensibile... non solo perché il risvolto processuale della connessione oggettiva consiste sempre nel superare il dato formale per soddisfare l'esigenza di un giudizio unitario dal punto di vista funzionale... ma anche in ragione del fatto che l'articolo richiede che il provvedimento sopravvenuto da censurare mediante motivi aggiunti sia connesso non a quello impugnato con il gravame principale, bensì all'oggetto del ricorso. Ora, l'oggetto del ricorso non può essere riduttivamente risolto nella questione di legittimità di un determinato atto; altrimenti, il legislatore avrebbe adottato una terminologia diversa per indicare le due componenti tra cui sussiste la connessione, parlando direttamente e più semplicemente di provvedimenti connessi al provvedimento impugnato... Piuttosto, l'oggetto del ricorso deve essere identificato nella pretesa fatta valere in giudizio e il provvedimento sopravvenuto deve essere visto come elemento che specifica ulteriormente la lesione originaria». Le «stesse parti», in tale prospettiva, devono essere valutate non in rapporto all'atto impugnato, bensì al complessivo rapporto su cui l'atto incide, sicché il soggetto destinatario del provvedimento consequenziale, se è terzo rispetto all'atto presupposto, è parte dello stesso rapporto oggetto del giudizio: da ciò l'ammissibilità dei motivi aggiunti per estendere il processo anche all'atto consequenziale ed al relativo beneficiario. La stessa Autrice, ne La connessione nel processo amministrativo, cit., 136, ribadisce che «per i motivi aggiunti... la lettera della legge richiede... identità di parti processuali... la norma trascura il fenomeno secondo cui il potere amministrativo può precisarsi nel corso del suo divenire... può accadere che alcuni soggetti siano individuabili come controinteressati con riferimento al provvedimento sopravvenuto, ma non possano essere considerati tali in relazione all'originaria impugnazione. Si pensi al caso in cui sia stato proposto ricorso contro la deliberazione di indizione di una gara d'appalto... impugnato con motivi aggiunti il provvedimento di aggiudicazione, non si può disconoscere all'impresa aggiudicataria la posizione di controinteressata. In tale ipotesi escludere l'applicabilità della disposizione risulta un inutile e dannoso formalismo». In senso analogo, favorevoli all'ammissibilità dei motivi aggiunti per l'impugnazione di provvedimenti consequenziali di cui risultino beneficiari soggetti terzi rispetto a quelli originariamente coinvolti nel giudizio sull'atto presupposto (o - ipotesi simmetrica - che risultino adottati da un'amministrazione diversa da quella che ha assunto l'atto presupposto), ABBAMONTE A., Introduzione, cit., 204 s.; FIGORILLI F., L'istituto dei motivi aggiunti, cit., 89 ss., secondo cui, accogliendo l'interpretazione letterale, «è di tutta evidenza come una nutrita casistica di attività amministrative rimanga in pratica esclusa dalla possibilità di venire sindacata nell'arco di un unico procedimento giurisdizionale, sottoponendo gli interessati ad una duplicazione di giudizi e correndo altresì il rischio di dare vita ad un contrasto di giudicati... l'elemento decisivo ai fini di un superamento della formula utilizzata dal legislatore è l'effettiva osservanza del principio del contraddittorio in quanto, come si è visto, non necessariamente il provvedimento sopravvenuto in corso di causa ha come destinatari le medesime parti tra cui si sta svolgendo il giudizio pendente. Ne consegue che i controinteressati, ai quali è stato notificato il ricorso per motivi aggiunti, devono essere messi in condizione di controbattere pienamente su tutta la materia del contendere»; MAMELI B., Atto introduttivo, cit., 8 s.; MARUOTTI L., Il giudicato, cit., 3376. Il Consiglio di Stato, affrontando la peculiare questione di atto consequenziale adottato da un'amministrazione diversa da quella autrice dell'atto presupposto, ha in parte accolto la suesposta tesi dottrinale, ammettendo che «l'istituto dei motivi aggiunti in corso di causa avverso atti diversi... risponde ad esigenze di economia processuale ed è l'alternativa alla riunione di distinti ricorsi relativi ad atti connessi, sicché va interpretato in senso estensivo... l'art. 21, comma 1, l. n. 1034 del 1971, come novellato dalla l. n. 205 del 2000, laddove consente i motivi aggiunti... va interpretato nel senso che... l'identità delle parti, per quel che riguarda la parte pubblica, va intesa in senso lato, dovendosi ritenere la stessa parte pubblicaa come comprensiva di tutte le pubbliche amministrazioni, ancorché soggettivamente distinte, che intervengano nella medesima vicenda procedimentale per la cura del medesimo interesse pubblico o di interessi pubblici connessi perché inerenti al medesimo bene della vita appetito dalla parte privata» (sez. VI, n. 5813/2002, in www.giustizia-amministrativa.it). La peculiarità della fattispecie ha portato il Consiglio di Stato a circoscrivere al thema decidendum l'affermazione di principio in ordine alla possibilità di coinvolgere con i motivi aggiunti soggetti diversi rispetto alle parti originarie; pronunciandosi sui fatti di causa, il Collegio ha affermato che ciè è sicuramente possibile per altre amministrazioni che intervengano nella medesima vicenda procedimentale, senza, tuttavia, con ciò voler implicitamente escludere, a contrario, l'ammissibilità dei motivi aggiunti per impugnare provvedimenti consequenziali di cui siano beneficiari altri soggetti privati (i cd. controinteressati successivi). Che questa sia l'interpretazione più corretta da fornire alla pronuncia risulta non solo dalla considerazione secondo cui sarebbe irragionevole superare l'opzione ermeneutica restrittiva del testo normativo in maniera «discriminatoria», cioè distinguendo in ragione della sola natura «pubblica» o «privata» delle nuove parti da evocare in giudizio con i motivi aggiunti, ma anche dalla circostanza che il vero «principio di diritto» affermato dal Consiglio di Stato - questo sì di portata generale - e quello secondo cui, comunque, la norma, in ragione della sua ratio, va «interpretata in senso estensivo». Concludendo sul punto, appare opportuno un rilievo: la dottrina e la giurisprudenza, impegnate in un meritevole sforzo di valorizzazione della ratio legis (che indubbiamente spinge a privilegiare l'interpretazione estensiva), sembrano assumere come scontato il presupposto, che, in realtà, del tutto scontato non è, che la formulazione testuale della norma sui motivi aggiunti, secondo il canone dell'interpretazione letterale, depone, inequivocabilmente, a favore dell'opzione restrittiva, sicché solo attraverso l'interpretazione sistematica o adeguatrice si potrebbe giungere a dilatare l'ambito di operatività «soggettivo» dell'istituto dei motivi aggiunti. In realtà, si deve osservare che, anche da un punto di vista letterale, sembra possibile una lettura diversa, non necessariamente restrittiva: e, infatti, la norma può essere interpretata riferendo il sintagma «tra le stesse parti» non al sostantivo «provvedimenti», bensì al più prossimo termine «ricorso». Non si può negare che tale opzione ermeneutica, seppur letteralmente praticabile, dal punto di vista logico conduce ad assegnare una valenza pleonastica all'espressione «tra le stesse parti», in quanto è ovvio che il ricorso originario, anteriormente alla proposizione dei motivi aggiunti, penda tra le parti già costituite. Tuttavia, proprio il riconoscimento di tale valenza pleonastica consentirebbe di «elidere» la portata irragionevolmente limitativa della previsione, dequotandola a mero elemento testuale accidentale e non già essenziale, con ciò consentendo di incrementare le ipotesi di utilizzabilità dell'impugnazione per motivi aggiunti. (21) Occorre, tuttavia, segnalare la posizione di RAMAJOLI M., Impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti, cit., 573, la quale postula (senza, però, motivare sul punto) la sopravvivenza del principio giurisprudenziale della caducazione automatica anche a seguito della codificazione dei motivi aggiunti, esprimendosi nel senso della compatibilità operativa tra i due istituti. Secondo l'Autrice, «al fine di armonizzare lo strumento dei nuovi motivi aggiunti con i principi in materia di atti susseguenti, è da ritenersi che solo una relazione di consequenzialità in senso stretto giustifichi un'automatica caducazione del secondo atto, mentre una semplice relazione di connessione faccia sì che l'annullamento del primo provvedimento abbia un'efficacia semplicemente viziante nei confronti del secondo ed imponga pertanto l'utilizzo dei motivi aggiunti al fine di ottenere l'annullamento dell'atto connesso... la questione diviene di stretta interpretazione, in ultima istanza demandata al giudice». (22) Il carattere «facoltativo» del ricorso ai motivi aggiunti è espressamente evidenziato, tra gli altri, da RAMAJOLI M., Impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti, cit., 572, con ampie argomentazioni, sebbene l'Autrice rilevi (come fattore ermeneutico di segno contrario) che il testo del disegno di legge approvato dal Senato conteneva, originariamente, l'espressione «sono impugnabili», anziché quella - ben più perentoria - «sono impugnati», introdotta nel testo unificato della Commissione Giustizia e trasfusa nel testo attuale; nello stesso senso ABBAMONTE A., Introduzione, cit., 205. SAITTA N., Sette note, cit., propende, invece, per la soluzione opposta, affermando che «il dato lessicale non fornisce soluzioni certe... ma sembra... doversi privilegiare la soluzione di tipo obbligatorio»; l'Autore esclude, ciononostante, che dall'inosservanza di tale «obbligo» possa discendere alcuna decadenza o sanzione processuale, osservando che «teoricamente dovrebbe configurarsi un caso di inammissibilità-improcedibilità, non essendo stata osservata una prescrizione di carattere procedurale. Riteniamo, invece, che una sanzione del genere debba considerarsi eccessiva, dato che la scelta operata dal ricorrente, la diversa strada percorsa non comporta alcuna alterazione della par condicio tra le parti, nessun attentato al diritto di difesa dei resistenti, nessun appesantimento del percorso giudiziale (a parte l'esigenza dell'accorpamento di più ricorsi per una definizione unitaria, ossia uno actu, dei giudizi), nessun condizionamento del risultato finale del giudizio... in ogni caso, il rimedio, spesso praticato, della conversione degli atti processuali potrebbe valere a ricondurre entro i nuovi binari dei motivi aggiunti l'iniziativa di un nuovo giudizio». Su posizione analoga MAMELI B., Atto introduttivo, cit., 6 ss. (23) Su questa posizione sembra essere, sebbene dubitativamente, BASSANI M., Commento, cit., 7 s. L'Autore, infatti, in un primo momento, rileva criticamente che «l'innovazione processuale è quindi volta a contenere in un unico giudizio più processi derivanti dall'impugnazione di singoli atti o provvedimenti, ma non è tanto incisiva quanto potrebbe apparire alla prima lettura... vi è infatti da considerare che è ormai pacifica l'attribuzione dell'effetto devolutivo della pronuncia di annullamento di un atto amministrativo, in forza del quale vengono travolti anche gli atti che siano conseguenza di esso, o che ne costituiscano esecuzione, senza necessità di una loro impugnazione. In una parola, la mancata impugnazione di un atto consequenziale non significa acquiescenza rispetto all'impugnazione dell'atto presupposto». Immediatamente dopo, tuttavia, osserva che «la nuova indicazione del legislatore può apparire superflua, ma può significare qualcosa di più oneroso: l'introduzione dell'onere di impugnazione, sia pure con il più semplice strumento dei motivi aggiunti, di atti e provvedimenti che prima d'ora non era necessario impugnare... cosicché la mancata proposizione di motivi aggiunti può significare acquiescenza rispetto all'impugnazione principale con la conseguente pronuncia di improcedibilità di essa per sopraggiunta carenza di interesse». (24) Sez. VI, 11 febbraio 2002, n. 785, in www.giustizia-amministrativa.it. (25) Cfr., in particolare, Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2002, n. 698, in Foro amm. - Cons. Stato, 2002, 403. (26) Negano l'operatività della caducazione automatica nel rapporto esclusione-aggiudicazione, oltre alle citate Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 2002, n. 785, e Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2002, n. 698: Cons. St., sez. V, 27 marzo 2000, n. 1766, in Foro amm., 2000, 914; T.A.R. Toscana, sez. II, 1 marzo 2000, n. 400, in TAR Toscana, 2000. Contra: Cons. St., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218, in www.giust.it, n. 3/03; Cons. St., sez. V, 3 giugno 2002, n. 3064, in www.giust.it, n. 6/02; T.A.R. Basilicata, 13 maggio 2000, n. 280, in Ragiusan, 2000, 98; T.A.R. Veneto, sez. I, 3 aprile 1999, n. 436, in Foro amm., 2000, 543. (27) Di contro, per l'affermazione dell'invalidità caducante nel rapporto bando-aggiudicazione (o atto di nomina dei vincitori), ex multis: Cons. St., sez. V, 24 febbraio 2003, n. 989, in www.giust.it, n. 2/03; T.A.R. Puglia, sez. II, 30 gennaio 2002, n. 525, in Foro amm. - TAR, 2002, 229; Cons. St., sez. V, 2 marzo 1999, n. 211, in Foro amm., 1999, 673; T.A.R. Campania, sez. I, 25 febbraio 1997, n. 480, in Foro amm., 1997, 2487. Per l'orientamento giurisprudenziale opposto, favorevole all'onere di autonoma impugnazione degli atti consequenziali al bando (ma solo se attributivi di beni, utilità o status), vedi le pronunce citate alla nota 9. (28) Tale profilo era già stato sottolineato da SANDULLI A.M., L'effettività delle decisioni, cit., 307, il quale aveva espressamente affermato di ritenere «non condivisibile l'idea che atti non nulli, e non caducati né dal Giudice né dall'Amministrazione, vengano meno ex se». Sul punto, anche GATTAMELATA S., Effetti dell'annullamento, cit., 321, osserva, condivisibilmente: «un atto caducato potrebbe essere considerato alla stregua di un atto nullo; ma può essere dichiarato tale un atto nel corso del giudizio amministrativo? La (naturale) risposta negativa implica che una valutazione in tali termini sull'atto venga fatta in altra sede; ed infatti è nella fase procedimentale che l'atto è sottoposto ad un attento controllo da parte dell'Amministrazione e, a seguito della l. n. 241 del 1990, anche dei privati ad esso interessati. Nè è possibile dimenticare il fatto che (l'atto) una volta emanato può essere in qualunque momento ritirato dalla stessa Amministrazione. In base a tali considerazioni, il concetto di nullità sembra appartenere più al diritto civile che a quello amministrativo e trova delle difficoltà ad essere trasfuso da quello in questo; l'equiparazione tra atto caducato ed atto nullo non risulta quindi possibile. Diventa in tal modo necessario fare riferimento alla figura dell'annullamento... più precisamente, considerare un atto caducabile alla stregua di uno annullabile significa che la sua caducazione deve essere disposta dal Giudice in conseguenza di una sua specifica impugnazione». (29) Sulla nullità dell'atto amministrativo per violazione di giudicato, vedi FRACCHIA F., Violazione di giudicato e nullità del provvedimento, in Foro it., 1993, III, 216 ss.; nonchè VIPIANA P.M., Gli atti amministrativi: vizi di legittimità e di merito, cause di nullità e di irregolarità, Padova, 2003, 464 ss. Autotutela amministrativa e principio di legalità (*) Riv. it. dir. pubbl. comunit. 2007, 06, 1223 Bernardo Giorgio Mattarella SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. L'autotutela amministrativa. - 2.1. L'autotutela amministrativa e le altre forme di autotutela. - 2.2. Il duplice volto dell'autotutela amministrativa. - 3. Legalità e autotutela nell'ordinamento statale. 3.1. La legalità fondamento dell'autotutela. - 3.2. Il principio di legalità limite all'autotutela. - 4. Regola di diritto e autotutela nel crocevia degli ordinamenti. - 4.1. La regola di diritto fondamento dell'autotutela. - 4.2. La regola di diritto limite all'autotutela. 1. INTRODUZIONE. Il principio di legalità è solo una regola di distribuzione del potere amministrativo o anche una regola - o un complesso di regole - di esercizio del potere? Esso ha un'incidenza sostanziale o procedurale? L'ancoraggio del principio di legalità alla legge è ancora attuale? Esso esprime una forma di tutela dei cittadini basata solo sul principio democratico o anche su altri meccanismi? Per rispondere a questi interrogativi, sulla base dell'analisi dell'autotutela amministrativa, occorre esaminare i diversi possibili rapporti tra autotutela e legalità, che possono essere di convergenza o di contrapposizione. Per descrivere questi possibili rapporti occorre: delimitare il campo dell'autotutela amministrativa e individuare le sue due funzioni, corrispondenti a quei due possibili rapporti (par. 2); esaminare queste funzioni e questi rapporti nell'ordinamento statale, nell'ambito del quale il principio di legalità è nato (par. 3); esaminarli alla luce della frammentazione della legalità, derivante dall'evoluzione del diritto nazionale e di quello sopranazionale (par. 4). L'analisi dell'autotutela amministrativa e dei suoi sviluppi dimostrerà: che essa è sempre stata uno strumento di affermazione della legge e, più in generale, della legalità; che essa, peraltro, è spesso stata intesa come sintesi dei privilegi o della supremazia della pubblica amministrazione, contro la quale il principio di legalità si erge a tutela dei privati; che questo principio, che in Italia è stato per lo più inteso come regola relativa al fondamento legislativo del potere amministrativo, corollario del principio democratico, ha storicamente avuto una limitata capacità di assolvere il ruolo di tutela dei diritti individuali, che a esso è stato attribuito; che un più comprensivo principio della regola di diritto, diffusamente coltivato nell'esperienza giuridica europea, assolve questo ruolo in modo più efficace, imponendo regole sostanziali e procedurali di esercizio del potere; che il diritto, al quale questo principio rinvia, coincide sempre meno con la legge dello Stato e risulta sempre più da altre fonti, nazionali e sopranazionali; che l'autotutela amministrativa svolge un ruolo importante nell'affermazione di questo principio. 2. L'AUTOTUTELA AMMINISTRATIVA. 1. La definizione dei caratteri e dell'ambito dell'autotutela amministrativa è tra quelle che maggiormente dividono gli studiosi. Per rendersene conto, è sufficiente confrontare il modo in cui la nozione era intesa da Feliciano Benvenuti e da Massimo Severo Giannini: il primo riconduceva all'autotutela ogni ipotesi in cui l'amministrazione risolvesse conflitti reali e potenziali e vi includeva non solo ciò che normalmente definiamo autotutela "decisoria" ed "esecutiva", ma anche i controlli, le sanzioni amministrative, certe autorizzazioni e altro ancora (1). Per il secondo, l'autotutela era quasi sinonimo di esecutorietà del provvedimento amministrativo e designava solo le ipotesi di esecuzione forzata amministrativa (2). Non manca chi, tutto all'opposto, esclude dall'autotutela quella esecutiva e vi include solo quella decisoria (3), ed è diffusa la negazione della categoria unitaria (4). La questione del perimetro non è centrale ai fini di questo scritto, ma non è neanche indifferente, dato che esaminare il rapporto tra l'autotutela e il principio di legalità implica una concezione unitaria della prima o, almeno, l'individuazione dei suoi caratteri essenziali. È necessario, quindi, tentare di individuare questi caratteri: non per tracciare i confini dell'autotutela, ma per scoprire i punti critici del rapporto con quel principio e della sua evoluzione. 2.1. L'autotutela amministrativa e le altre forme di autotutela. 1. A questo scopo, può essere utile fare riferimento ad alcune forme di autotutela, proprie di altri settori del diritto: l'autotutela privata, l'autotutela sindacale, l'autodichia e l'autotutela conosciuta dal diritto internazionale (5). Anche alcune di queste espressioni scontano l'incertezza di definizione e delimitazione riscontrata per l'autotutela amministrativa (6). Tuttavia, si può dire che, indipendentemente da come si intenda ciascuna di queste espressioni, esse sembrano avere almeno un carattere in comune: ciascuna di esse designa il potere di un soggetto di fare a meno del giudice, di esercitare un potere normalmente riservato al giudice. Ogni ulteriore specificazione rischia di non tenere insieme le diverse ipotesi o di allargare troppo il campo: si può affermare che questo potere consiste nel risolvere un conflitto attuale o potenziale, ma a volte il conflitto è talmente potenziale da essere una possibilità remota (7); o, al contrario, che deve trattarsi di una controversia attuale, ma allora rimangono fuori ipotesi normalmente ricondotte all'autotutela (8); si può ritenere che si ha autotutela ogni volta che un soggetto può far prevalere il proprio interesse su quello altrui (9), ma così il concetto di autotutela rischia di appiattirsi su quello di potere; o, al contrario, che si ha autotutela solo quando si reagisce a un fatto illecito o a un comportamento illegittimo altrui, o che l'esercizio del potere di autotutela implica il sacrificio dell'interesse altrui, ma anche in queste ipotesi il campo si restringe troppo (10). Occorre, dunque, accettare il fatto che, come molti concetti giuridici, quello di autotutela - in assenza di una definizione normativa - è storicamente variabile: esso esprime l'esercizio, consentito a una "parte", di poteri normalmente propri del giudice, ma risente del fatto che i poteri normalmente propri del giudice variano da ordinamento a ordinamento, nelle diverse fasi storiche e tra i diversi settori della normazione. Il riferimento ai poteri normalmente esercitati dai giudici consente di mantenere la nozione più comune di autotutela amministrativa, nella quale rientrano sia i procedimenti di secondo grado (o alcuni di essi, secondo quanto si osserverà in seguito), sia l'esecuzione forzata amministrativa. Da un lato, si tratta di far valere l'illegittimità di un atto giuridico, per esempio annullandolo; dall'altro, si tratta di disporre dell'uso della forza. Entrambi sono poteri che gli ordinamenti statali tendono a monopolizzare e ad affidare a giudici. In questa nozione di autotutela amministrativa possono rientrare anche istituti di privilegio come il fermo amministrativo, che consente all'amministrazione di produrre effetti simili a quelli della compensazione giudiziale o della sentenza resa a seguito dell'esercizio dell'azione surrogatoria. Possono rientrarvi anche istituti ulteriori, come alcune sanzioni amministrative, salvo quanto si osserverà nelle pagine seguenti sui caratteri propri dell'autotutela amministrativa. Ne rimangono esclusi, invece, istituti che a volte vi si fanno rientrare, come i controlli amministrativi e i poteri sostitutivi. La validità di questa concezione relativamente ampia dell'autotutela amministrativa, comprendente quella decisoria e quella esecutiva, è confermata dal riferimento alle altre forme di autotutela menzionate. Vi è, infatti, un altro punto in comune tra esse: il fatto che ciascuna ha sia una dimensione giuridica, sia una dimensione fattuale, nel senso che l'oggetto del potere di autotutela è a volte la produzione di un effetto giuridico, a volte un comportamento materiale. Rientrano nell'autotutela privata sia atti produttivi di effetti giuridici, come l'eccezione di inadempimento, sia comportamenti materiali, come nel diritto di ritenzione del coerede, dell'usufruttuario e del possessore di buona fede (11); rientrano nell'autotutela collettiva sia il potere dei lavoratori e dei loro sindacati di rimettere in discussione quanto hanno concordato nel contratto collettivo, avanzando rivendicazioni ulteriori, sia quello di scioperare, cioè di esercitare legittimamente un potere di fatto (12); rientrano nell'autotutela conosciuta dal diritto internazionale sia atti che producono effetti giuridici, come il divieto di esportazione, sia azioni materiali, come gli interventi armati; rientrano nell'autodichia, infine, sia il potere degli organi costituzionali di risolvere le controversie, nelle quali siano coinvolti, sia il potere di eseguire le proprie decisioni, anche con la forza. Dunque, non solo nell'autotutela amministrativa, ma anche nelle altre forme di autotutela, vi sono una componente "decisoria" e una componente "esecutiva": la prima emerge quando l'autotutela consente di evitare il processo di cognizione, la seconda quando essa consente di evitare il processo di esecuzione (13). 2. Accanto a questi tratti, che accomunano le diverse forme di autotutela, vi sono anche ovvie differenze e possibili distinzioni, tra le quali una è particolarmente importante in questa sede. L'autotutela è ovviamente la possibilità di tutelarsi da sé, senza rivolgersi a un giudice, ma questa possibilità può dipendere da due circostanze diverse: il fatto che il giudice non c'è o il fatto che l'interesse, di cui un certo soggetto è portatore, è tutelato in modo particolarmente forte dall'ordinamento. La prima ipotesi - l'assenza di giudice - può derivare dal fatto che il giudice non esiste nel relativo ordinamento o dal fatto che nessun giudice ha giurisdizione su un certo soggetto dell'ordinamento. Il primo è il caso del diritto internazionale, o almeno di quello tradizionale (i giudici internazionali sono ormai numerosi, anche se nell'ordinamento internazionale continua a mancare un ordine giudiziario con competenze generali). Il secondo è il caso del diritto costituzionale, nel quale gli organi costituzionali sono, almeno in parte, sottratti ai giudici. La seconda ipotesi si traduce nell'inversione dell'onere di agire: il giudice c'è, ma il soggetto interessato alla produzione di un effetto giuridico o al compimento di un comportamento materiale non ha bisogno di rivolgerglisi; sarà eventualmente la controparte, nei confronti della quale il potere di autotutela viene esercitato, a farlo, per ottenere la rimozione degli effetti giuridici o di quelli materiali prodotti. Questa inversione dell'onere di agire è un vantaggio che viene dato a un soggetto o perché quest'ultimo è portatore di un interesse che gode stabilmente di una tutela particolarmente forte, o perché, in un singolo rapporto giuridico, egli si trova in una posizione giuridica protetta: il primo è il caso dei lavoratori e dei sindacati, che possono esercitare l'autotutela collettiva in qualunque controversia con i datori di lavoro; il secondo è il caso dell'autotutela privata, che è consentita dalla legge a chiunque, in singoli tipi di rapporto. Nella prima ipotesi, non vi è un giudice, quindi una delle parti supplisce, dichiarando il diritto e facendolo rispettare (con tutti i limiti che derivano da un simile modo di svolgere questa funzione): l'autotutela, quindi, ha un forte elemento di doverosità o il suo esercizio è addirittura obbligato. Nella seconda ipotesi, un giudice vi è ed è pronto a verificare l'esistenza del potere di autotutela e il suo corretto esercizio: l'autotutela, quindi, somiglia molto più a un potere che a un obbligo; più che di applicare il diritto, si tratta di tutelare un interesse. Da questa distinzione di fondo può trarsi anche un'altra indicazione importante. L'autotutela dà sempre luogo a un privilegio di un soggetto, ma questo privilegio può essere più o meno intenso: può consistere nel potere di adottare una decisione insindacabile o di porre in essere un comportamento insindacabile, producendo risultati definitivi (è la prima ipotesi); o nel potere di produrre effetti giuridici o materiali, la cui legittimità o liceità potrà essere verificata da un giudice (è la seconda ipotesi). Quest'ultima ipotesi è quasi una via di mezzo tra la prima e l'assenza di autotutela (che è l'ipotesi in cui non vi è alcuna inversione dell'onere di agire: chi vuole produrre un effetto giuridico o materiale, deve rivolgersi al giudice). Ciò dimostra che le diverse conformazioni del potere di autotutela si collocano in diversi punti di una linea continua, lungo la quale si collocano diversi modi attraverso i quali un ordinamento giuridico tutela gli interessi (pubblici e non). Si possono individuare almeno quattro modelli, la cui successione descrive diverse gradazioni di intensità della tutela: l'attribuzione di un semplice potere di azione, cioè della possibilità di rivolgersi a un giudice, perché produca un effetto giuridico o materiale; l'attribuzione del potere di produrre direttamente un effetto giuridico o materiale; l'attribuzione di un simile potere di produrre l'effetto, che corrisponda inoltre a un potere normalmente attribuito a un giudice, ma sia soggetto al sindacato di un giudice; l'attribuzione di un simile potere, che corrisponda a un potere normalmente attribuito a un giudice, e non sia soggetto al sindacato di alcun giudice. 2.2. Il duplice volto dell'autotutela amministrativa. 1. Quando la tutela di determinati interessi viene affidata a una pubblica amministrazione, i modelli utilizzati sono normalmente il secondo o il terzo: il secondo è quello dei normali poteri amministrativi; il terzo è il modello di quei poteri amministrativi che si fanno rientrare nell'autotutela amministrativa. Non mancano, peraltro, anche nel diritto amministrativo, esempi del primo e del quarto. Il primo - che implica l'onere dell'amministrazione di rivolgersi al giudice - è tradizionalmente tipico degli ordinamenti anglosassoni e, in parte, del diritto comunitario (come nel caso in cui la Commissione europea deve rivolgersi alla Corte di giustizia contro uno Stato membro inadempiente, non avendo direttamente il potere di imporgli obblighi o comminargli sanzioni). Si riscontra, inoltre, ogni volta che vi è una riserva di giurisdizione, per esempio a tutela di alcuni diritti (14). Il quarto modello era frequente prima che si imponesse il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi (in Italia, prima che l'articolo 113 della Costituzione lo escludesse). Un'ulteriore variante è data dall'ampiezza del potere, che può essere ben delimitato nei presupposti del suo esercizio, nelle modalità di esercizio e nel contenuto del relativo atto, o può essere ampio o innominato. Il principio di legalità, inteso in senso adeguatamente ampio o sostanziale, incide anche su questo aspetto. 2. Ma come si colloca l'autotutela amministrativa nella distinzione sopra delineata? Essa dipende dall'assenza di giudice o di giurisdizione o dalla particolare tutela che l'ordinamento riconosce all'interesse pubblico? E, di conseguenza, prevale la dimensione dell'applicazione del diritto (e, quindi, del generico interesse al rispetto della legge) o quella della tutela di uno specifico interesse da parte dell'amministrazione? Quelli dell'amministrazione, che agisce in via di autotutela, sono poteri o obblighi? La risposta a quest'ultima domanda, naturalmente, è che essi sono poteri a esercizio doveroso: la componente del potere e quella dell'obbligo coesistono in tutti i poteri amministrativi. Ma nei poteri di autotutela la dimensione dell'applicazione del diritto e, quindi, dell'obbligo, è più forte che negli altri poteri amministrativi. Lo dimostra chiaramente l'istituto dell'annullamento d'ufficio, che ha per presupposto non solo l'esistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, ma anche l'illegittimità del provvedimento: l'esigenza di restaurazione dell'ordine giuridico violato consente di produrre effetti altrimenti irraggiungibili. La giurisprudenza amministrativa in materia afferma spesso la natura doverosa dell'annullamento d'ufficio (15) e aggiunge che esso persegue l'interesse alla legalità (16) (anche se poi aggiunge che questo interesse non è sufficiente a determinare l'annullamento (17) e a volte lo fa soccombere di fronte ad altri interessi pubblici (18)). L'autotutela amministrativa, quindi, si colloca quasi a metà strada tra le due ipotesi di autotutela descritte: quella nella quale prevale l'applicazione del diritto e quella nella quale prevale il perseguimento di un interesse. Come scriveva Benvenuti, quelli di autotutela sono atti materialmente giurisdizionali, ma amministrativi con riferimento all'interesse perseguito (19). Piuttosto che di ascriverla all'una o all'altra ipotesi, quindi, il problema è di misurare l'intensità del profilo dell'applicazione del diritto e di quello della tutela di un interesse; di valutare l'influenza di ciascuno dei due profili nel concreto atteggiarsi dell'autotutela amministrativa. Influenza che appare variabile, in ragione delle diverse fasi storiche e dei diversi contesti giuridici. La duplice anima dell'autotutela amministrativa, volta all'affermazione del diritto ma anche al perseguimento di un interesse pubblico specifico, consente di delimitarne l'ambito con maggiore precisione. In particolare, mostra che l'istituto della revoca vi viene incluso abbastanza abusivamente, dato che esso ha poco a che fare con l'affermazione della legalità. In effetti, la revoca non è neanche un privilegio della pubblica amministrazione, dato che è una prerogativa di qualsiasi soggetto che eserciti una funzione: il potere delle pubbliche amministrazioni di revocare i propri atti - o, almeno, quelli a efficacia durevole - spesso non è diverso dall'analogo potere che hanno l'amministratore di una società o di un condominio, il genitore e il tutore. D'altra parte, la confusione che la giurisprudenza (20) e - da ultimo il legislatore (21) fanno tra annullamento d'ufficio e revoca mostra che l'applicazione troppo rigida di un criterio distintivo rischierebbe di tradire la realtà dell'ordinamento. Sulla questione, comunque, si ritornerà tra breve. 3. Che cosa c'entra il principio di legalità con tutto ciò? C'entra, perché esso si pone in termini molto diversi nei confronti delle due ipotesi di autotutela indicate e, quindi, nei confronti delle due dimensioni dell'autotutela amministrativa. Quando l'autotutela è il rimedio all'assenza di giudice o di giurisdizione ed è strumentale all'applicazione del diritto, il principio di legalità gioca ovviamente a favore di essa, ne è quasi il fondamento. Quando, invece, l'autotutela è un modo per rafforzare la tutela di un interesse, essa esprime un privilegio di un soggetto, il correlativo sacrificio dell'interesse di un altro soggetto e un'attenuazione del ruolo del giudice: di conseguenza, il principio di legalità opera da limite (22). Ecco, quindi, il problema del rapporto tra autotutela amministrativa e principio di legalità. In conseguenza del duplice volto della prima, anche questo rapporto si atteggia in modi diversi: il principio di legalità è ora il fondamento, ora il limite dell'autotutela amministrativa. Il modo in cui il primo incide sulla seconda, dunque, dipende da quale dei due profili - quello dell'applicazione del diritto o quello del perseguimento di un interesse - prevale in un dato momento o contesto. Nelle pagine che seguono, si ripercorreranno alcune vicende dell'autotutela amministrativa e del suo rapporto con il principio di legalità; si mostrerà che le oscillazioni della prima tra le sue due anime determina oscillazione del secondo tra convergenza e opposizione; si suggerirà anche che l'evoluzione del rapporto è dovuta non solo all'evoluzione dell'autotutela, ma anche a quella del principio di legalità; si cercherà, quindi, sulla base dell'analisi di queste vicende, di rispondere alle domande poste in apertura. 3. LEGALITÀ E AUTOTUTELA NELL'ORDINAMENTO STATALE. 1. L'ambivalenza del rapporto tra principio di legalità e autotutela amministrativa risale alle loro origini comuni: l'uno e l'altra, infatti, sono figli della Rivoluzione francese e dello Stato ottocentesco. Dalle vicende di fine Settecento e inizio Ottocento nacquero, contemporaneamente, le premesse della convergenza tra autotutela e legalità e i germi della loro contrapposizione. Da quando si studia il diritto amministrativo, i poteri che vengono normalmente ricondotti all'autotutela amministrativa sono sempre stati pacificamente riconosciuti all'amministrazione. Nel 1905, Umberto Borsi, citando Gneist, riconosceva che il potere delle autorità amministrative di procedere all'esecuzione forzata "viene ammesso come cosa di per sé intelligibile, senza alcun accenno al suo fondamento razionale. La base storica sembra supplire alla base teorica" (23). Similmente, pochi anni dopo, Federico Cammeo giustificava il potere dell'amministrazione di "revocare" i propri atti illegittimi facendo riferimento all'importanza degli interessi da essa tutelati, alla sovranità dello Stato, all'assenza di leggi che disponessero diversamente e a una "consuetudine costante" (24). Ma quale era l'origine di queste consuetudini? 3.1. La legalità fondamento dell'autotutela. 1. Nonostante l'autotutela costituisca una forma di esercizio amministrativo di poteri giurisdizionali, sbaglierebbe chi ne ricercasse l'origine nell'antico regime, nello stato giurisdizionale che si protrasse in Europa fino al diciottesimo secolo. L'autotutela è invece un frutto della modernità, perché deriva dalla centralità della legge e dalla concezione dell'amministrazione come esecuzione di legge. All'amministrazione spettava di eseguire la legge non diversamente che al giudice, e in questa funzione rientravano il potere di eseguire con la forza i propri atti e quello di accertarne la validità: è la "pienezza della competenza" (25) di cui parlava Benvenuti. L'affrancazione dell'amministrazione dal giudice e l'affermazione della specialità del diritto amministrativo, negli Stati dell'Europa continentale, determinarono poi il consolidamento di questi poteri (26). Ciò vale sia per l'autotutela decisoria, sia per quella esecutiva. In ordine alla prima, fin dagli albori della Rivoluzione fu riconosciuto all'esecutivo il compito di valutare la legittimità degli atti di amministrazione e di annullare quelli invalidi (27): potere coerente anche con l'ordinamento gerarchico dell'amministrazione napoleonica, che implicava "il diritto conferito a ogni amministrazione di annullare gli atti di quelle ad essa subordinate" (28). Il potere dell'amministrazione di annullare i propri atti, quindi, non nacque come eccezione all'analogo potere giurisdizionale. Semmai, se si considera l'origine della giurisdizione amministrativa negli ordinamenti continentali, è vero il contrario: è il potere di annullamento del giudice amministrativo che deriva da quello dell'amministrazione; l'autotutela decisoria fu un presupposto dello sviluppo della giustizia amministrativa e non viceversa. In ordine alla seconda, nell'antico regime il potere di disporre dell'uso della forza pubblica era rimasto saldamente nelle mani delle corti (29). Nello Stato continentale ottocentesco, invece, la sottrazione al controllo giurisdizionale consentì all'amministrazione di "confezionarsi da sola i suoi titoli esecutivi" (30): l'amministrazione, in quanto incaricata dell'esecuzione della legge, poté unire alla disponibilità materiale della forza la possibilità di decidere sull'uso della forza. L'esecutorietà costituisce "storicamente un prodotto della sottrazione dell'attività amministrativa al sindacato giudiziario" (31). 2. Dunque, l'autotutela deriva dal rapporto tra amministrazione e legge e non dal rapporto tra amministrazione e giudice. Essa si fonda su una sorta di equiparazione tra la soggezione dell'amministrazione alla legge e quella del giudice alla stessa legge. Equiparazione ovviamente alimentata, nel corso del Novecento, dalla dottrina kelseniana; suffragata dall'esistenza di atti amministrativi contro i quali non era dato ricorso giurisdizionale e, quindi, gli unici rimedi erano quelli amministrativi; sopravvissuta al declino della concezione dell'amministrazione come esecuzione di legge e al riconoscimento della discrezionalità (32); ancora oggi presente nel modo in cui viene trattato il principio di legalità (33). Quello della tutela o del ripristino della legalità, in effetti, è un profilo che l'autotutela amministrativa non ha mai perso, né nella sua componente esecutiva né in quella decisoria. 3. Per quanto riguarda la prima, è sufficiente considerare che l'ambito più naturale di applicazione dell'esecuzione forzata amministrativa è quello della polizia di sicurezza, cioè il settore nel quale le autorità amministrative vegliano, tra l'altro, sul rispetto della legge. È sufficiente, al riguardo, ricordare che, a norma dell'articolo 1 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (34), "l'autorità di pubblica sicurezza [...] cura l'osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle provincie e dei comuni, nonché delle ordinanze delle autorità". È anche questo compito di custodi del diritto che consente alle forze dell'ordine di disporre dell'uso della forza, anche in assenza di provvedimenti giurisdizionali. Anche al di là della materia della polizia di sicurezza, l'esecuzione forzata dei provvedimenti amministrativi è spesso legata alla commissione di illeciti - cioè alla violazione di norme giuridiche - e all'esigenza di restaurare la legalità violata: si pensi alla demolizione di edifici abusivi e alla requisizione di prodotti contraffatti. 4. Per quanto riguarda la seconda, l'aspetto della legalità è molto evidente nell'annullamento d'ufficio, meno evidente o assente nella revoca, almeno se si considera il modo in cui questi due istituti sono tradizionalmente concepiti. L'annullamento d'ufficio è indubbiamente una deviazione rispetto al normale regime dei poteri giuridici. Ogni soggetto, infatti, ha la possibilità di far accertare l'illegittimità di un atto giuridico che leda i suoi interessi, ma normalmente questo accertamento è operato da un giudice. La pubblica amministrazione, invece, può dichiarare essa stessa, e senza rigidi limiti di tempo, l'illegittimità dei propri provvedimenti e, quindi, rimuovere i loro effetti: si tratta di un potere che sfugge anche agli altri titolari di funzioni pubbliche (il Parlamento non può annullare la legge, né il giudice la sua sentenza) e private. Il privilegio consiste sia nel fatto di potere far valere l'illegittimità dei propri atti, sostituendosi al giudice (35), sia nella retroattività, che distingue il potere di annullamento dal potere di revoca (più ampiamente riconosciuto dall'ordinamento). L'annullamento d'ufficio, dunque, rientra a pieno titolo nell'autotutela, perché unisce il profilo del ripristino della legalità violata a quello del perseguimento dell'interesse pubblico specifico, affidato alla cura dell'amministrazione. Nell'ordinamento italiano, peraltro, questo secondo elemento è più forte di quanto lo sia in altri ordinamenti europei: in Francia, in particolare, ben presto prevalse il profilo del ripristino della legalità, determinando uno sviluppo dell'istituto in senso giustiziale (36). Diverso, come già notato, è il discorso per la revoca. Anche il potere della pubblica amministrazione di revocare i propri atti è sempre stato ammesso dalla giurisprudenza (37) ed è spesso stato considerato un privilegio rispetto al regime dei rapporti tra privati: uno jus poenitendi del quale i privati non sarebbero titolari. In effetti, però, la revocabilità degli atti unilaterali non è affatto estranea al diritto privato, nel quale essa tende a caratterizzare tutti gli atti di svolgimento di funzioni: per esempio, possono revocare e modificare i propri atti (o, almeno, quelli a efficacia durevole e quelli che non arrecano benefici a terzi) l'amministratore di una società o di un condominio, il tutore e il curatore di un incapace. La ragione di ciò è evidente: la cura di un interesse, pubblico o privato, non si esaurisce con l'emanazione del singolo atto, in quanto successive esigenze possono richiedere l'interruzione o la modifica dei suoi effetti. Naturalmente, vi sono limiti alla possibilità di revoca, dati innanzitutto dai diritti che altri soggetti abbiano acquistato sulla base dell'atto. Ma questi limiti riguardano il potere di revoca nel diritto pubblico come nel diritto privato: nell'uno e nell'altro, la revocabilità degli atti a efficacia durevole emanati nello svolgimento di funzioni è la regola, l'irrevocabilità l'eccezione (38). Come si vede, la revoca ha poco a che fare con il ripristino della legalità e con l'esercizio di poteri normalmente riservati al giudice. Il suo tradizionale inquadramento nell'autotutela amministrativa, quindi, è alquanto abusivo (39). Ma è spiegato, se non giustificato, dagli orientamenti della scienza giuridica, della giurisprudenza e, da ultimo, del legislatore. La scienza giuridica, all'inizio del Novecento, costruì la teoria dell'atto amministrativo sulla falsariga di quella del contratto, atto bilaterale e non unilaterale. Incorse, quindi, in un errore di prospettiva: invece di assimilare la revocabilità dell'atto amministrativo alla revocabilità dell'atto unilaterale privato, la contrappose all'irrevocabilità dell'adesione al contratto. Ciò che era normale sembrò così un privilegio. La giurisprudenza del Novecento, per parte sua, ha sempre più spesso confuso annullamento d'ufficio e revoca, li ha accomunati nella nozione di "ritiro" e ha elaborato regole sostanzialmente analoghe per l'uno e per l'altro istituto (40). Il legislatore, infine, dopo avere recepito nel 2005 la distinzione tradizionale tra annullamento d'ufficio e revoca - il primo conseguente a illegittimità, la seconda a valutazioni di merito; il primo retroattivo, la seconda operante ex nunc - con una novella del 2007 ha alterato la linearità della distinzione. Un comma aggiunto all'articolo dedicato alla revoca della legge sul procedimento (41), infatti, ammette la revoca di atti a efficacia istantanea, implicitamente ammettendo l'efficacia retroattiva della revoca; e contempla l'ipotesi che la revoca sia dovuta a una contrarietà del provvedimento all'interesse pubblico in qualche modo "oggettiva", in quanto conoscibile dagli interessati, situazione che sembra una via di mezzo tra illegittimità e inopportunità. Norma determinata da comprensibili e anche apprezzabili ragioni di interesse pubblico, ma piuttosto mal scritta, che manda al macero qualche scaffale di biblioteca relativo alla distinzione tra annullamento e revoca. Norma che, per quanto qui maggiormente interessa, arruola anche la revoca nella battaglia per la legalità, facendone un possibile rimedio - come l'annullamento d'ufficio - a una situazione di illegalità o di quasi illegalità. Si può dire che giurisprudenza e legislatore hanno in qualche modo legittimato l'errore iniziale degli studiosi, che avevano incluso la revoca del provvedimento nell'autotutela amministrativa: anche la revoca ha ormai sviluppato il profilo di tutela della legalità e anche di privilegio, che legittima quell'inclusione. Non è necessario soffermarsi sugli altri provvedimenti di secondo grado. Per alcuni di essi, come la convalida, potrebbe ripetersi, in tutto o in parte, quanto osservato con riferimento all'annullamento d'ufficio, essendo evidente l'elemento della tutela della legalità. Per altri, come la conferma, vale piuttosto quanto osservato per la revoca, essendo quell'elemento secondario o assente. Altri ancora, come la sospensione, oscillano tra i due estremi (42). Va ancora osservato che l'intensità dell'elemento del ripristino della legalità e dell'obbligo varia anche in relazione ai settori di normazione o tipi di provvedimento: per esempio, è particolarmente forte nell'autotutela tributaria, nella quale la discrezionalità appare molto ridotta. 5. Il nesso tra legalità e autotutela è stato alimentato anche da alcuni sviluppi degli ultimi decenni. Per esempio, la diffusione di modelli di controllo successivo, e non più preventivo, sulle attività private, come la denuncia di inizio di attività e il silenzio-assenso: nei quali la legge consente all'amministrazione di intervenire "in via di autotutela" (43) per rimuovere effetti prodotti non da un provvedimento amministrativo, ma dalla dichiarazione di un privato o da un fatto giuridico. Nel complesso, nel corso del Novecento vi sono state ottime ragioni per vedere nell'autotutela amministrativa un alleato, e non un nemico, della legalità. L'idea dell'amministrazione come esecuzione di legge poneva l'autorità amministrativa su un piano parallelo a quello del giudice e i poteri di autotutela riflettevano molto bene questo parallelismo, essendo simili ai poteri tipici del giudice, in quanto generali e atipici. Essi, però, erano esercitati in modo diverso da quelli del giudice. Il regime giuridico degli atti di autotutela era quello proprio di tutti i poteri amministrativi: segreto, assenza di garanzie procedurali, esclusione dell'obbligo di motivazione. Derivando dall'applicazione della legge, e non dall'esercizio della giurisdizione, l'autotutela amministrativa era coperta dall'autorità della legge e non era soggetta alle regole della giurisdizione, ispirate in linea di massima alla trasparenza e al contraddittorio. 3.2. Il principio di legalità limite all'autotutela. 1. Ciò si traduceva evidentemente in un privilegio per l'amministrazione, e come tale fu ben presto percepito. Ecco l'altro volto dell'autotutela amministrativa: quello del potere e dell'interesse pubblico che si impone sugli interessi privati; quello contro il quale il principio di legalità si erge a tutela dei diritti individuali. Che i poteri di autotutela diano corpo a privilegi dell'amministrazione, è evidente. Una buona dimostrazione è data, ancora una volta, dall'annullamento d'ufficio, provvedimento discrezionale che al profilo del ripristino della legalità affianca quello del perseguimento dell'interesse pubblico: mentre in sede di ricorso l'annullamento del provvedimento illegittimo è obbligatorio per l'autorità adita, nell'annullamento d'ufficio l'illegittimità è solo un presupposto dell'atto di annullamento, del quale deve comunque essere valutata la conformità all'interesse pubblico; l'atto di annullamento è un normale provvedimento amministrativo, al quale il presupposto dell'illegittimità del precedente provvedimento consente di esplicare efficacia retroattiva. E il profilo dell'interesse pubblico è talmente forte, che a volte non è nemmeno necessario motivare sulla sua sussistenza: come quando la giurisprudenza ammette la possibilità (44) - o la legge impone l'obbligo (45) - di annullare un provvedimento che comporti la spesa di denaro pubblico. In questi casi, l'illegittimità è un presupposto che consente un più efficace perseguimento dell'interesse finanziario dell'amministrazione: il profilo del ripristino della legalità viene piegato e strumentalizzato a questo diverso obiettivo e l'autotutela diventa, innanzitutto, un beneficio finanziario. La prevalenza del profilo del perseguimento dell'interesse pubblico specifico, rispetto a quello della tutela della legalità, emerge anche quando la giurisprudenza ammette che, in luogo di un provvedimento di autotutela, venga concluso un accordo sostitutivo di provvedimento, ai sensi dell'articolo 11 della legge 241 (46). 2. Ciò spiega perché, nella letteratura e nella giurisprudenza del Novecento (47), il concetto di autotutela sia stato spesso utilizzato per sintetizzare la specialità amministrativa e i privilegi della pubblica amministrazione: quelli reali e anche qualcuno apparente. Quelli reali, come quelli che Hauriou aveva chiamato privilège d'action d'office (che corrisponde all'autotutela esecutiva) e privilège du préalable (che, invece, non corrisponde all'autotutela decisoria, ma indica semplicemente la titolarità di poteri amministrativi e la conseguente inversione dell'onere di agire). Privilegi problematici, in ordine alla tutela dei cittadini, proprio per via dei caratteri di generalità e astrattezza appena rilevati, che facevano dell'autotutela un efficace strumento di affermazione della legalità ma anche una deviazione dal principio di tipicità, in cui si è spesso individuato un corollario del principio di legalità. Quelli apparenti, derivanti dalla costruzione di un concetto enfatico ed estensivo di autotutela, che riguardò sia quella decisoria, sia quella esecutiva. Per l'autotutela decisoria, l'ampia estensione data al concetto è mostrata dall'inclusione della revoca, oltre che dell'annullamento d'ufficio. La revoca, come già osservato, prima degli sviluppi di cui si è dato conto nelle pagine precedenti, non poteva essere considerata uno strumento di tutela della legalità né un privilegio dell'amministrazione: la sua inclusione nell'autotutela, come pure si è già osservato, fu dovuta a un errore di prospettiva derivante dall'applicazione della dogmatica del contratto agli atti amministrativi. Essa fu quindi intesa come un privilegio e inclusa nell'autotutela, anche se non corrispondeva ad alcun potere proprio del giudice. Questo privilegio apparente, peraltro, produsse un privilegio reale, perché la revocabilità fu estesa ad atti amministrativi che, dietro l'apparenza unilaterale, nascondevano una sostanza contrattuale, come molte concessioni (48). Anche per l'autotutela esecutiva l'ampiezza e la genericità della nozione conseguirono all'accostamento di fenomeni diversi. Mentre studiosi attenti come Borsi e Romano distinsero tra l'esecuzione e l'esecuzione forzata dell'atto amministrativo, altri studiosi furono meno precisi e fusero insieme due caratteri diversi dell'atto amministrativo: da un lato, l'immediata produzione dei suoi effetti giuridici, senza bisogno di una previa verifica giudiziale della sua legittimità (il privilège du préalable); dall'altro, la possibilità della sua esecuzione forzata (il privilège d'action d'office). La confusione, in effetti, era in parte determinata dalle norme, soprattutto quelle in materia di controlli sugli atti, che avevano sempre utilizzato il termine "esecutorietà" nel senso di efficacia (49). Inoltre, anche se i due fenomeni erano logicamente distinti, essi avevano la stessa estensione, essendo entrambi di portata generale: tutti gli atti amministrativi producevano effetti senza bisogno dell'intervento del giudice e tutti gli atti amministrativi erano considerati esecutori (50). A ogni modo, la nozione di esecutorietà venne a esprimere due fenomeni distinti: da un lato, l'immediata efficacia dell'atto amministrativo, il suo essere espressione di un potere non bisognoso della previa verifica giudiziale per il suo esercizio; dall'altro, la possibilità di portarlo a esecuzione coattivamente. Se il secondo fenomeno costituiva effettivamente un privilegio dell'amministrazione (dovendo i privati rivolgersi al giudice per ottenere l'esecuzione coattiva delle proprie pretese), il primo era comune a molti poteri privati (si pensi al potere di licenziare o a quello di recedere da un contratto). Al di là degli errori di prospettiva, peraltro, la realtà era intrisa di specialità e di privilegio. Per rendersene conto, basta confrontare l'evoluzione del diritto italiano con quella del diritto francese: mentre in Italia i poteri di autotutela decisoria venivano riconosciuti in termini generali e senza limiti di tempo, in Francia - come già accennato - essi venivano assimilati a quelli giurisdizionali e soggetti alle regole e ai limiti conseguenti; e negli stessi anni in cui Umberto Borsi teorizzava la generalità del potere di esecuzione forzata amministrativa, il commissarie du gouvernement Jean Romieu affermava il contrario (51). 3. Autotutela amministrativa, dunque, come sintesi dei privilegi della pubblica amministrazione (52): da questo punto di vista, la nozione di autotutela è stata una concorrente di quella di imperatività, che pure ha spesso indicato non solo fenomeni giuridici, ma anche concezioni generali del diritto amministrativo (53). L'una e l'altra hanno espresso l'idea della supremazia dell'amministrazione: così, per esempio, quando la giurisprudenza ha affermato la natura imperativa degli atti di autotutela decisoria, normalmente considerati espressione di un privilegio dell'amministrazione (54). O quando la scienza giuridica ha affermato che tutti gli enti pubblici hanno un "minimum di potestà pubblica", risultante da "poteri pubblici di autoorganizzazione", da una potestà di certificazione e dalla prerogativa dell'autotutela (55). In questo modo, tra l'altro, si può spiegare il rifiuto, da parte di Giannini, dell'ampia costruzione dell'autotutela data da Benvenuti (56): il ruolo che in questa era svolto dalla nozione di autotutela, nella costruzione di Giannini era svolto da quella di imperatività (57); è intorno a questa categoria che egli sintetizzava i privilegi dell'amministrazione, traducendoli in caratteri del provvedimento. Il percorso della prima metà del Novecento, dunque, aveva condotto l'autotutela amministrativa a rappresentare la specialità e il privilegio della pubblica amministrazione. Il profilo del potere e dell'interesse pubblico specifico tendeva a prevalere su quello del dovere e dell'interesse generico alla legalità. Era un percorso coerente con un diritto amministrativo caratterizzato dalla preminenza dello Stato rispetto ai cittadini (58): un diritto nel quale - per usare le espressioni dello stesso Giannini - il "momento dell'autorità" era decisamente prevalente sul "momento della libertà". 4. Ma intorno alla metà del ventesimo secolo questa prevalenza venne meno e il recupero della dimensione garantistica del diritto amministrativo, a scapito di quella autoritativa, passò anche per la contrapposizione tra principio di legalità e autotutela amministrativa. A ciò, naturalmente, non fu estranea l'entrata in vigore della Costituzione: essa impose una netta separazione tra amministrazione e giurisdizione, sospingendo l'autotutela verso la prima e allontanandola dalla seconda; garantì il diritto a ricorrere al giudice contro ogni decisione dell'amministrazione, comprese quelle adottate nell'esercizio dei poteri di autotutela, allontanando ulteriormente questi poteri dalla dimensione della legalità; impose la riserva di legge sulle prestazioni imposte, richiedendo un fondamento legislativo per i poteri di autotutela che incidessero restrittivamente su situazioni giuridiche dei privati (come quelli di esecuzione forzata). La soggezione dell'amministrazione alla legge fu declinata in termini diversi che in precedenza: non più come applicazione della legge da parte dell'amministrazione, ma come soggezione dell'amministrazione al controllo del giudice e come necessario fondamento legislativo dei poteri restrittivi, quando non di tutta l'attività amministrativa (59). Emerse l'altro aspetto della specialità del diritto amministrativo: non più quello dei privilegi e dei poteri esorbitanti, ma quello dei controlli e delle garanzie dei cittadini. L'impatto negativo del principio di legalità sull'autotutela amministrativa fu limitato e, comunque, diverso per l'autotutela esecutiva e per quella decisoria: maggiore per la prima, nella quale il profilo del perseguimento dell'interesse pubblico era forte e quello dell'affermazione della legalità era debole, e che si traduceva sempre nel sacrificio dell'interesse del privato; minore per la seconda, nella quale il profilo dell'affermazione della legalità era più evidente e il cui esercizio poteva andare a vantaggio del privato. La riserva costituzionale di legge separò i destini dei due tipi di autotutela: quella esecutiva ne fu investita e, quindi, venne limitata e sospinta nel campo amministrativo; quella decisoria continuò a essere ammessa in termini ampi e a mantenere una più forte componente giustiziale. 5. L'esecuzione forzata, da regola, divenne eccezione. Pochi anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, Benvenuti scrisse che "una deviazione così importante dai principi dello Stato di diritto, in cui vige la divisione dei poteri", non poteva che avere natura eccezionale (60). Il riferimento alla divisione dei poteri, che mai è stato vigente nell'ordinamento, era forse discutibile, così come quello allo stato di diritto: come si è riferito in precedenza, l'esecuzione forzata amministrativa era nata proprio dalla sottoposizione dell'amministrazione alla legge. Ma la sua affermazione, come principio generale, aveva generato un vulnus non solo alla tutela dei cittadini, ma anche alla sfera propria della giurisdizione: dopo tutto, l'esecuzione forzata presupponeva un conflitto, e la risoluzione dei conflitti spettava ai giudici. Questo vulnus andava sanato. La potestà generale di coazione della pubblica amministrazione fu negata (61) e, in omaggio al principio della riserva di legge, l'esecuzione forzata amministrativa fu ammessa solo nei casi previsti dalla legge. Il diniego fu suffragato dall'analisi della legislazione di settore (62). Mezzo secolo dopo, il legislatore (63) ha codificato questa tipicità dei casi di esecuzione forzata e anche quel minimo di proceduralizzazione che a volte era richiesto dalle norme e in via generale era teorizzato dalla scienza giuridica (64). E anche la legislazione di alcuni settori si è, sia pure faticosamente, adeguata ai nuovi principi: per esempio, quella in materia fiscale (65), dove l'esecuzione forzata delle pretese dell'amministrazione richiede ormai l'intervento del giudice (66). L'esecutorietà del provvedimento, dunque, non è più da tempo una regola generale dell'ordinamento. In singoli ma importanti settori, tuttavia, continua di fatto a esserlo, in forza di previsioni di portata molto ampia, delle quali occasionalmente la scienza giuridica mette in dubbio la legittimità costituzionale o l'applicazione concreta (67), ma che in effetti corrispondono spesso a esigenze innegabili. È il caso di ricordare, per esempio, la previsione generale del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza relativa all'esecuzione dei provvedimenti di sicurezza: "I provvedimenti della autorità di pubblica sicurezza sono eseguiti in via amministrativa indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale. Qualora gli interessati non vi ottemperino sono adottati, previa diffida di tre giorni, salvi i casi di urgenza, i provvedimenti necessari per la esecuzione d'ufficio. È autorizzato l'impiego della forza pubblica". Certamente si tratta di una previsione di rango legislativo, che soddisfa la riserva costituzionale di legge. E altrettanto certamente è una previsione necessaria per la sicurezza dei cittadini. Ma la sua genericità dimostra che il formale rispetto del principio di legalità è una garanzia insufficiente dei diritti individuali. Anche al di fuori del settore della polizia di sicurezza, il ricorso all'esecuzione forzata amministrativa avviene spesso sulla base di previsioni legislative altrettanto generiche, come quelle che prevedono le ordinanze d'urgenza o di necessità (68): esse costituiscono evidenti deviazioni rispetto al principio di tipicità, temperate dal legislatore e dalla giurisprudenza con vari meccanismi sostanziali e procedurali (69). Tutto ciò dimostra che il principio di legalità, come regola di distribuzione del potere, è una garanzia insufficiente per i diritti dei cittadini, essendo necessarie anche regole di esercizio dei poteri amministrativi. Ma dimostra anche l'astrattezza e la sterilità del dibattito tra i diversi modi di intendere il principio di legalità, come necessario fondamento legislativo di ogni potere amministrativo o come sua mera soggezione alla legge: concezioni apparentemente distanti, che nella pratica possono risultare equivalenti. 6. Meno forte, come accennato, l'impatto del principio di legalità sull'autotutela decisoria. Il ritiro del provvedimento amministrativo, anche nella seconda metà del ventesimo secolo, ha continuato a essere ammesso generosamente dalla giurisprudenza (70) e, ora, dalla legge (71): sia quello basato su ragioni di legittimità, sia quello basato su ragioni di merito (72). Con la stessa generosità hanno continuato a essere ammessi altri provvedimenti di secondo grado, come la sospensione e la convalida. Tutti questi provvedimenti, peraltro, sono stati assoggettati alle stesse regole e garanzie che hanno gradualmente completato il regime giuridico di ogni potere amministrativo: motivazione, comunicazione, trasparenza, partecipazione e così via. Essi, inoltre, sono stati assoggettati dalla giurisprudenza e, ora, dalla legge a regole ulteriori, come la valutazione dell'interesse del destinatario o controinteressato e l'esercizio entro un termine ragionevole. Ciò vale, in particolare, per l'annullamento d'ufficio e per la revoca. Anche qui, comunque, è il caso di distinguere tra questi due istituti, perché con riferimento all'uno e all'altra queste regole vanno valutate diversamente. L'annullamento d'ufficio è, come già rilevato, un vero privilegio della pubblica amministrazione. L'ampiezza con la quale esso era ammesso dalla giurisprudenza anteriore al 2005 e con la quale esso continua a essere ammesso dalla legge (che impone solo di considerare gli interessi dei destinatari o controinteressati e il fattore tempo), implica quindi, un ampio riconoscimento del privilegio. Vale la pena di rilevare che in altri ordinamenti la scelta è stata diversa e basata sulla distinzione tra atti favorevoli e sfavorevoli al destinatario (73): non solo in quello francese, al quale si è già accennato, ma anche in quello tedesco, nel quale l'annullabilità d'ufficio (e la revocabilità) di un atto amministrativo che abbia prodotto effetti favorevoli al destinatario sono l'eccezione e non la regola (74). Da questo punto di vista, dunque, la giurisprudenza e la legge italiane sono molto timide e il principio di legalità ha un effetto molto limitato. La revoca, invece, come pure si è osservato, non è - almeno in astratto, prescindendo dalla recente evoluzione normativa di cui si è riferito - un privilegio della pubblica amministrazione, ma un potere proprio di ogni soggetto che svolge una funzione, pubblica o privata. E, a ben vedere, la differenza tra il potere amministrativo di revoca e il corrispondente potere privato è che il primo risulta più limitato del secondo, in virtù della giurisprudenza e delle norme che impongono adempimenti procedurali e che richiedono la ponderazione di interessi e, ora, anche l'indennizzo: regole alle quali non sono soggetti i titolari di funzioni private, che vogliano revocare i propri atti. Queste regole si traducono, quindi, in una maggiore protezione dei privati nei confronti delle amministrazioni (75). Non è il caso di esaminare distintamente gli altri provvedimenti di secondo grado, che normalmente vengono inquadrati nell'autotutela amministrativa, ma l'esame della relativa giurisprudenza e delle relative previsioni legislative confermerebbe quanto appena osservato. La sospensione del provvedimento, per esempio, è ammessa in termini altrettanto ampi (76). È il caso di menzionare, invece, altri istituti, pure inquadrabili nell'autotutela, che dall'affermazione del principio di legalità sono stati notevolmente ridimensionati. Per esempio, il fermo amministrativo, in ordine al quale la differenza di toni e contenuti tra la giurisprudenza di qualche decennio fa e quella contemporanea è evidente: in una sentenza del 1972, la Corte costituzionale affermava che esso "non presenta natura eccezionale o di deroga ai principi fondamentali, ma ad essi si adegua, quale espressione di un potere di supremazia della pubblica Amministrazione" (77); in una sentenza del 2005, il Consiglio di Stato ha affermato che esso è un "un istituto di carattere eccezionale", che può "ammettersi solo in presenza di una espressa ed inequivoca disposizione normativa, non già in via di interpretazione estensiva od analogica" (78). Inoltre, la giurisprudenza ha progressivamente definito i limiti e le condizioni di utilizzo dell'istituto, assoggettando i relativi provvedimenti a uno scrutinio particolarmente attento. Come si mostrerà tra breve, peraltro, questo ridimensionamento dipende non solo dal principio di legalità, ma anche dalle trasformazioni dell'organizzazione amministrativa. 7. Nel complesso, si può dire che - dopo mezzo secolo di applicazione della Costituzione e dopo la codificazione dei principi giurisprudenziali in materia - la riserva di legge ha avuto un impatto alquanto limitato sull'autotutela amministrativa: quella decisoria continua a essere ammessa in termini generali; per quella esecutiva è richiesto un fondamento legislativo che può ben essere ampio e indeterminato; singoli istituti di autotutela sono stati parzialmente ridimensionati. Se, però, si considera non solo il fondamento normativo dei poteri di autotutela, ma anche le loro modalità di esercizio, si deve riconoscere che l'assoggettamento a regole di natura generale, sia procedurali (come quelle relative all'esecuzione forzata amministrativa) sia sostanziali (come quelle che impongono di considerare l'interesse del destinatario del provvedimento e, ora, quella che impone un indennizzo per la revoca), assicura garanzie importanti per i cittadini. Altrettanto può dirsi per le regole relative a singoli settori o tipi di provvedimento, come quelle relative alle ordinanze, alle quali si è accennato. Queste garanzie, però, non derivano dal principio di legalità in senso stretto, come fondamento legislativo dei poteri amministrativi: come appena osservato, questo principio, in materia di autotutela, ha un'incidenza molto limitata. Esse derivano, piuttosto, dal rispetto di regole di diritto poste in parte dalle leggi e da altri atti normativi, in parte dalla giurisprudenza. La preminenza della regola di diritto in senso ampio, rispetto a una concezione restrittiva del principio di legalità (79), sarà confermata, nel paragrafo che segue, dall'analisi dell'autotutela nell'intersezione e nell'integrazione tra ordinamenti giuridici. 4. REGOLA DI DIRITTO E AUTOTUTELA NEL CROCEVIA DEGLI ORDINAMENTI. 1. Come osservato in precedenza, il principio di legalità e l'autotutela amministrativa hanno radici comuni, che penetrano nell'epoca della costruzione dello stato ottocentesco. Il principio di legalità, inteso come soggezione dell'amministrazione alla legge, implicava il primato della legge sulle altre fonti, l'unicità della giurisdizione, il radicamento dell'amministrazione nello Stato e la sua piena soggezione al diritto statale: a queste condizioni, esso poteva spiegare la propria efficacia sull'autotutela amministrativa. È noto che queste condizioni vengono progressivamente meno: la legge dello Stato è vincolata al rispetto del diritto sopranazionale ed è soggetta a un giudizio di compatibilità con esso, che deve essere svolto dalle stesse amministrazioni, le quali possono disapplicarla; al di sopra di essa si pongono non solo i principi costituzionali, ma anche principi di diritto sopranazionale, come quelli del diritto europeo e quelli applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo; l'amministrazione ha perso i suoi caratteri di unità e compattezza ed è soggetta non solo a diversi statuti giuridici, ma anche a diversi e potenzialmente contrastanti indirizzi politici; le autorità amministrative degli Stati membri dell'Unione europea non applicano solo il diritto statale e non sono governate solo da esso, ma anche dal diritto sopranazionale; le amministrazioni pubbliche sono soggette non solo alla giurisdizione nazionale, ma anche a quella delle corti europee e globali. Come incidono questi sviluppi sul rapporto tra legalità e autotutela? A questa domanda si può rispondere che l'autotutela amministrativa conserva il suo duplice volto, di garante della legalità e di privilegio da limitare con la legalità. Ma si deve aggiungere che il principio di legalità, inteso in senso stretto, perde la capacità di indirizzare e di limitare l'esercizio dei poteri di autotutela, a favore di un più ampio principio della regola di diritto. Anche la dimostrazione di questo assunto richiede un'analisi distinta dell'autotutela come strumento di affermazione della legalità e della legalità come limite all'autotutela. Per quanto riguarda il primo punto, vanno considerati sia l'evoluzione del diritto nazionale, sia il suo rapporto con quello sopranazionale. 4.1. La regola di diritto fondamento dell'autotutela. 1. Nel diritto nazionale, l'autotutela amministrativa può costituire un fattore di uniformità del diritto sul territorio nazionale e un presidio della legalità nei confronti dell'autonomia degli enti e uffici pubblici. Ciò è vero in un duplice senso: sia nel senso che la materia dell'autotutela rientra abbastanza naturalmente nell'ambito della potestà legislativa statale; sia nel senso che l'esercizio di alcuni poteri di autotutela può costituire strumento di garanzia del rispetto del diritto statale da parte degli enti autonomi. Dal primo punto di vista, le norme della legge sul procedimento relative ai provvedimenti di secondo grado appaiono talmente intrecciate con quelle relative all'invalidità e, quindi, al sistema di giustizia amministrativa, da rendere problematica una diversa disciplina da parte del legislatore regionale o, a maggior ragione, dei regolamenti locali. Inoltre, alcune delle relative previsioni (come quelle relative alla necessaria ponderazione degli interessi dei destinatari e controinteressati e all'indennizzo per la revoca) corrispondono in buona parte a principi comuni del diritto amministrativo europeo (80), ai quali l'intera disciplina dell'attività amministrativa è ispirata: principi che vincolano non solo il legislatore nazionale, ma anche quello regionale. Esse potrebbero anche essere ricondotte alla potestà legislativa esclusiva in materia di "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (81), ove la si intendesse in senso sufficientemente ampio. Dal secondo punto di vista, assumono rilievo gli istituti di autotutela con i quali l'ordinamento reagisce alla frammentazione amministrativa e alla moltiplicazione dei centri decisionali come l'annullamento straordinario governativo "a tutela dell'unità dell'ordinamento" (82) e l'annullamento ministeriale di atti dirigenziali per ragioni di legittimità (83). Questi istituti sopravvivono alla compattezza dell'amministrazione e al principio gerarchico, sui quali erano fondati, e assumono un ruolo di coordinamento tra pubblici poteri, piuttosto che di episodi del rapporto tra autorità e libertà. Ma rimangono spiccatamente volti all'affermazione della legalità. 2. L'autotutela serve a garantire l'uniforme applicazione del diritto non solo nell'ordinamento statale, ma anche in quello europeo. E come, nell'ordinamento nazionale, lo Stato pone le regole per l'esercizio dei poteri di autotutela e le fa rispettare anche alle amministrazioni non statali, servendosi dell'autotutela come presidio della legalità nazionale; così, nell'ordinamento comunitario, l'Unione pone le regole e le fa rispettare anche alle amministrazioni nazionali, servendosi dell'autotutela come presidio della legalità europea. Europea nel senso più pieno, perché si tratta di regole che non derivano solo dal diritto positivo comunitario, ma in buona parte dal diritto nazionale: la giurisprudenza comunitaria, adottando un suo metodo consueto, induce - o dichiara di indurre - i principi dai diritti nazionali (84), li rielabora e li restituisce filtrati agli ordinamenti degli stati membri, producendo una omogeneizzazione dei loro diritti. 3. Ciò vale, in primo luogo, per l'autotutela decisoria, dato che una giurisprudenza comunitaria ormai chiaramente intelligibile provvede a conformare non solo il potere delle amministrazioni comunitarie di riformare i propri atti, ma anche quello delle amministrazioni nazionali di riformare i propri atti che violino il diritto comunitario. Questa giurisprudenza conferma il duplice volto dell'autotutela amministrativa e il conseguente duplice rapporto tra autotutela e legalità. Il primo volto è quello dell'affermazione o del ripristino della legalità e il primo tipo di rapporto è, quindi, di convergenza. Nel diritto comunitario, questo aspetto appare più forte che nel diritto italiano, perché l'autotutela decisoria di cui si occupa questa giurisprudenza ha un perimetro più limitato di quello conosciuto nell'ordinamento nazionale: coincide essenzialmente con quello che nel diritto italiano viene chiamato annullamento d'ufficio, mentre ne è esclusa quella che nel diritto italiano viene chiamata revoca. Nonostante le sentenze dei giudici comunitari usino il termine "revoca", infatti, esso è inteso genericamente nel senso di ritiro dell'atto: e il principio che la Corte di giustizia desume dai diritti degli Stati membri, per poi imporlo loro, è quello per cui l'atto amministrativo illegittimo è di regola "revocabile", mentre quello legittimo è di regola "irrevocabile". È vero, tuttavia, che nel diritto comunitario - come, peraltro già rilevato con riferimento a quello nazionale - la differenza tra le due ipotesi tende a volte a sfumare: soprattutto per quanto riguarda il problema dell'efficacia ex tunc o ex nunc, che tende a essere modulata in modo meno rigido di quanto, nel diritto nazionale, la tradizionale distinzione tra annullamento e revoca induca a fare (85). Dunque, in materia di autotutela il diritto europeo è più restrittivo di quello italiano: ammette il ritiro per ragioni di illegittimità, ma non - di regola - per ragioni di opportunità. In ciò, il diritto europeo è coerente, piuttosto, con il diritto di altri Stati membri. Si può dire che la tendenziale revocabilità (noi diremmo annullabilità) dei provvedimenti illegittimi e la tendenziale irrevocabilità di quelli legittimi sono principi del diritto amministrativo europeo (86). Queste regole valgono in primo luogo per i casi di esecuzione diretta, quando è in discussione la revocabilità degli atti delle istituzioni comunitarie (87); e anche per i casi di esecuzione indiretta, quando è in discussione il regime dell'atto amministrativo nazionale contrastante con il diritto europeo. L'elemento del ripristino della legalità è evidentemente rafforzato rispetto a quello del perseguimento di un interesse pubblico specifico. A volte, si ha l'impressione che quest'ultimo ne sia del tutto travolto. Come quando la Corte di giustizia afferma che "l'autorità nazionale competente è tenuta, in forza del diritto comunitario, a revocare la decisione di concessione di un aiuto attribuito illegittimamente, conformandosi alla decisione definitiva con cui la Commissione dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il recupero" (88): sembra che la revoca serva solo al rispetto del diritto comunitario, con esclusione di ogni valutazione inerente l'apprezzamento di interessi. Ma è un'impressione sbagliata: al di là dei casi - come quello del recupero di aiuti di stato - in cui l'amministrazione nazionale non deve far altro che eseguire la decisione di quella europea, l'incidenza di questa giurisprudenza sui poteri di autotutela dell'autorità nazionale è molto più limitato. Quando deve indicare alle amministrazioni nazionali come comportarsi a fronte di atti "comunitariamente illegittimi", infatti, la Corte di giustizia si mostra molto prudente (89). Il diritto comunitario non vuole travolgere principi che i diritti nazionali si sono sempre preoccupati di tutelare, come la certezza del diritto e la tutela del legittimo affidamento, i quali verrebbero compromessi se le autorità nazionali fossero sempre obbligate a ritirare gli atti adottati in violazione del diritto comunitario. Così, la Corte limita l'emersione della dimensione obbligatoria dell'autotutela in modo quasi chirurgico: le autorità nazionali hanno l'obbligo di adottare "tutti i provvedimenti, generali o particolari, atti a rimediare alla mancata valutazione dell'impatto ambientale" prevista dal diritto comunitario, ma "nell'ambito delle loro attribuzioni" e ferme restando le modalità processuali proprie del diritto statale (90); le autorità nazionali, investite di una richiesta in tal senso, devono "riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell'interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte", ma solo a condizioni molto particolari (91); le autorità nazionali, infine, sono tenute a ritirare le proprie decisioni manifestamente incompatibili con il diritto comunitario, ma solo se questo obbligo esiste in ordine alle decisioni manifestamente incompatibili con il diritto interno (92). Dunque, il diritto europeo non impone, se non in casi eccezionali, il ritiro degli atti a esso contrari. E non impone neanche, se non in casi altrettanto eccezionali, di avviare un procedimento per il riesame di essi. Tuttavia, questi casi eccezionali sono significativi, perché conformano l'esercizio dei poteri di autotutela in modo diverso da come essi vivono nell'ordinamento interno e danno loro una più forte connotazione nel senso della tutela della legalità. E, soprattutto, il diritto europeo impone che l'autotutela decisoria sia utilizzata non solo a tutela della legalità nazionale, ma anche di quella europea. Lo strumento non ne risulta snaturato, ma il fine sì. Lo strumento continua a risultare da una ponderazione di interessi, che la Corte di giustizia lascia alle amministrazioni nazionali. Il fine risulta da una ponderazione di principi, nella quale ai principi di certezza del diritto e tutela dell'affidamento si contrappongono quelli dell'effetto utile, di equivalenza, di effettività e di leale cooperazione, nonché il principio di legalità e quello del primato del diritto comunitario (93). Il diritto europeo, dunque, rivitalizza la funzione di affermazione e ripristino della legalità, che l'autotutela amministrativa ha sempre avuto. Ma la legalità non è più soltanto quella nazionale, ma anche quella sopranazionale. La quale, in base al principio di equivalenza (94), non può essere meno forte di quella nazionale. E, in base al principio di effettività (95), può essere più forte di essa. Se legalità nazionale e legalità europea sono in contrasto, la prima deve soccombere e i poteri di autotutela devono essere utilizzati dall'amministrazione nazionale a tutela della seconda (96). Ma la legalità nazionale non è, di regola, in contrasto con quella europea. Al contrario, essa si preoccupa in vari modi di non esserlo. E l'ordinamento nazionale si preoccupa esso stesso di utilizzare i poteri di autotutela per evitare il contrasto. Questa preoccupazione è propria della giurisprudenza, quando essa afferma la legittimità del provvedimento di annullamento d'ufficio, pronunciato per scongiurare l'irrogazione di sanzioni a carico dello Stato da parte delle istituzioni comunitarie, per violazione del diritto comunitario (97). Della stessa preoccupazione, a partire dal 2001, si fa carico anche la Costituzione, attribuendo al Governo un potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali per il caso, tra l'altro, "di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria" (98). Questa previsione implica anche un potere di annullamento di atti amministrativi e, quindi, colma il vuoto lasciato dalla sentenza della Corte costituzionale (99) che aveva dichiarato l'illegittimità della norma attributiva del potere governativo di annullamento straordinario, già menzionato, nella parte in cui prevedeva l'annullamento anche degli atti delle regioni e delle province autonome (100). La lacuna esponeva l'ordinamento nazionale alle conseguenze delle violazioni del diritto comunitario commesse dalle regioni. Contro questo rischio, e a tutela della legalità comunitaria, l'ordinamento nazionale stesso decide di giocare la carta dell'autotutela decisoria. Come si vede, l'autotutela continua a operare a favore della legalità. Ma il principio di legalità, come strumento di centralità della legge e corollario del principio democratico, è accantonato. La democrazia c'entra poco e la legge dello Stato ancora meno. Il principio di legalità che viene in rilievo è quello di cui parla la giurisprudenza comunitaria menzionata, che lo intende come soggezione dell'amministrazione alla regola di diritto (europeo). 4. Questa legalità europea è custodita non solo dall'autotutela decisoria, ma anche da quella esecutiva: anche essa viene indirizzata verso un nuovo oggetto di protezione. E, soprattutto, il potere di decidere l'esecuzione forzata amministrativa spetta a volte alle amministrazioni sopranazionali: il monopolio statale dell'uso legittimo della forza, di memoria weberiana, è messo in discussione. E le affermazioni relative all'indisponibilità di strumenti coercitivi da parte delle istituzioni comunitarie (101), giustificate nei primi anni successivi alla costituzione della Comunità, meritano oggi di essere riviste. Ciò avviene sia in forza di previsioni generali, sia in particolari politiche dell'Unione. In ordine alle prime, va menzionato l'articolo 256 del Trattato comunitario, a norma del quale "le decisioni del Consiglio o della Commissione che importano, a carico di persone che non siano gli Stati, un obbligo pecuniario costituiscono titolo esecutivo". È vero che "l'esecuzione forzata è regolata dalle norme di procedura civile vigenti nello Stato sul cui territorio essa viene effettuata", ma ciò vale per la procedura e non per la decisione sull'uso della forza: l'autorità nazionale competente deve apporre la formula esecutiva sulla base della "sola verificazione dell'autenticità del titolo" e "l'esecuzione forzata può essere sospesa soltanto in virtù di una decisione della Corte di giustizia". Dunque, sono nazionali le amministrazioni che procedono all'esecuzione forzata e il giudice che le controlla, ma è comunitaria la fonte del titolo esecutivo, che innesca il procedimento (102). Lo stesso può avvenire in base alle norme in materia di tutela degli interessi finanziari dell'Unione e quelle relative alle competenze dell'Ufficio per la lotta antifrode: le une e le altre contemplano, sia pure implicitamente, forme di esecuzione forzata nei confronti dei privati, quando richiedono alle autorità nazionali di prestare a quelle comunitarie l'assistenza necessaria allo svolgimento dei controlli, anche per superare le resistenze di chi si opponga (103). Ancora più significative sono le previsioni di provvedimenti comunitari suscettibili di esecuzione forzata amministrativa in singole politiche, relative a vecchi e a nuovi settori di intervento dell'Unione europea. Per mostrarlo, si possono considerare due distinte politiche comunitarie, una vecchia e una nuova: quella della concorrenza, che costituisce il classico esempio di amministrazione diretta; e quella della sicurezza, nella quale le modalità di esecuzione del diritto europeo vanno ben oltre la distinzione tra amministrazione diretta e indiretta. In materia di concorrenza, vengono in rilievo i poteri ispettivi della Commissione europea (104). Essa ha sempre avuto il potere di disporre ispezioni nei confronti delle imprese e delle associazioni di imprese. Ma i regolamenti emanati negli ultimi anni (105) hanno reso questi poteri ben più incisivi e hanno anche spostato l'equilibrio tra autorità nazionali e autorità comunitarie, in ordine alla decisione sull'uso della forza. In primo luogo, la Commissione ha ora non solo il potere di accedere ai locali dell'impresa e chiedere spiegazioni orali, ma anche quello di apporre sigilli, verbalizzare le dichiarazioni raccolte e, soprattutto, ispezionare il domicilio privato dei funzionari e dipendenti dell'impresa. In secondo luogo, sulle amministrazioni nazionali non grava più un generico obbligo di prestare assistenza ai funzionari della Commissione, ma un preciso obbligo di ricorrere alla forza pubblica per superare le resistenze di chi si opponga all'ispezione: il braccio armato è nazionale, ma la mente che decide sul suo utilizzo è sopranazionale. Infine, lo stesso controllo giurisdizionale sulla legittimità della decisione di ricorrere all'ispezione è in parte sottratto al giudice nazionale, che deve soltanto "controlla[re] l'autenticità della decisione della Commissione e verifica[re] che le misure coercitive previste non siano né arbitrarie né sproporzionate rispetto all'oggetto degli accertamenti", ma "non può né mettere in discussione la necessità degli accertamenti né chiedere che siano fornite informazioni contenute nel fascicolo della Commissione. Il controllo della legittimità della decisione della Commissione è riservato alla Corte di giustizia" (106). Dunque, è europeo il diritto in base al quale viene esercitata la forza; è europea l'amministrazione che decide sull'uso della forza; è europeo il giudice che controlla la corretta applicazione del primo da parte della seconda. Certo, la disponibilità materiale della forza rimane in capo alle amministrazioni nazionali. Ma, in primo luogo, negli ordinamenti in cui l'uso della forza è assoggettato al diritto, il potere più importante è quello giuridico di decidere, non quello materiale di eseguire. In secondo luogo, anche all'interno degli ordinamenti nazionali, la disponibilità materiale della forza spetta non a tutte le amministrazioni pubbliche, ma solo ad alcune di esse, alle quali le altre devono rivolgersi quando devono ricorrere all'esecuzione forzata: da questo punto di vista, la posizione delle amministrazioni comunitarie non è diversa da quella della maggior parte delle amministrazioni nazionali. Un ruolo ancora più forte è giocato dal diritto e dalle istituzioni europee in materia di sicurezza. L'Unione europea non è più soltanto una "Comunità di diritto", ma anche uno "Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia", nel quale il rispetto del diritto è un fine a sé stante, non strumentale ad altri, ed è assicurato con varie forme di cooperazione, che investono anche la giustizia penale e le forze di polizia. Le norme, rientranti nel primo e nel terzo pilastro, che danno corpo alla politica di sicurezza, fanno frequente riferimento alle "autorità incaricate dell'applicazione della legge" (dove, ovviamente, "legge" significa "diritto"). La stretta cooperazione di magistrati e funzionari di polizia dei diversi Stati membri, anche nell'ambito delle stesse amministrazioni (come l'Ufficio europeo di polizia - Europol), mostra che l'oggetto di questa politica è proprio l'affermazione della legalità. In questa materia, il diritto europeo disciplina ampiamente l'uso della forza da parte delle autorità di pubblica sicurezza. È vero che, nella maggior parte dei casi, si tratta di autorità nazionali, che rimangono soggette alle discipline nazionali (comprese le riserve di legge e di giurisdizione) e al controllo dei giudici nazionali. Tuttavia, in primo luogo, anche in questo caso si ha una dissociazione tra l'uso della forza, che continua a spettare alle autorità nazionali, e il diritto che lo disciplina, che è europeo: le norme europee disciplinano anche in dettaglio l'esecuzione di atti e lo svolgimento di attività materiali che richiedono spesso l'uso della coazione fisica, come la sorveglianza dei confini, i controlli alle frontiere, l'espulsione di cittadini di stati terzi, il divieto di accesso agli stadi per tifosi violenti. In secondo luogo, vi sono eccezioni, perché alle operazioni di polizia condotte sul territorio di uno stato membro possono partecipare agenti comunitari (di Europol) e di altri Stati membri, quando le operazioni sono condotte da squadre investigative comuni o da squadre di intervento rapido alle frontiere (107). E, soprattutto, il Trattato sull'Unione europea contempla l'ipotesi in cui le autorità di polizia di uno Stato membro operino sul territorio di un altro Stato membro d'intesa con le autorità di quest'ultimo (108). Ancora più in là, nella stessa direzione, si spinge la Convenzione di Prüm (109), convenzione internazionale tra Stati membri dell'Unione europea, alla quale l'Italia ha recentemente aderito e che il Consiglio europeo ha deciso di integrare nel quadro giuridico dell'Unione: essa prevede, tra l'altro, che funzionari di uno Stato possano portare armi e munizioni nel territorio di altri Stati, che essi possano oltrepassare il confine e adottare misure urgenti anche senza il preventivo consenso delle autorità dell'altro Stato, che i funzionari impegnati in operazioni congiunte sul territorio di un altro Stato possano indossare la propria uniforme. In pratica, un cittadino italiano può essere arrestato, sul territorio italiano, da un agente di polizia di un altro Stato membro, che risponde a un governo diverso da quello italiano e applica il diritto prodotto da un parlamento diverso da quello italiano, senza il previo assenso delle autorità italiane. Anche sul versante dell'autotutela esecutiva, dunque, è evidente che la legalità, protetta dai poteri di autotutela, ha sempre meno a che fare con il principio di legalità, come principio nazionale di distribuzione del potere, e con il processo democratico nazionale. Essa diventa funzionale anche all'attuazione del diritto sopranazionale, che protegge i cittadini in modi diversi da come quel principio li protegge nell'ordinamento statale. 5. Va infine osservato che, sia pure in modo ancora poco evidente, i poteri di autotutela si sviluppano anche al livello globale, e ciò vale sia per l'autotutela decisoria sia per quella esecutiva. Per entrambe, si assiste allo sviluppo di regole e principi propri del diritto amministrativo, che vengono applicati a poteri prima soggetti al regime proprio del diritto internazionale. Per quanto riguarda l'autotutela decisoria, si possono menzionare gli accordi conclusi nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio, in cui si sviluppa una sorta di autotutela assistita o controllata: per esempio, per reagire alle pratiche di dumping, una parte contraente può essere autorizzata a percepire dazi sui prodotti esportati da un'altra parte contraente (110). L'adozione di simili misure, volte ad assicurare il rispetto del diritto ma anche a tutelare l'interesse di chi le adotta, è soggetta a regole sostanziali (come il principio di proporzionalità) e procedurali (come il contraddittorio) e al controllo di organismi giurisdizionali (come i panels e l'Organo di appello dell'Omc). L'autotutela internazionale tende ad assomigliare a quella amministrativa. Per quanto riguarda l'autotutela esecutiva, anche a livello globale l'uso della forza tende sempre più spesso a essere regolato dal diritto amministrativo piuttosto - o oltre - che dal diritto internazionale, dato che essa serve sempre più a mantenere la pace e sempre meno a combattere le guerre. Per quanto riguarda l'Italia, il fatto che a essere utilizzato nelle missioni all'estero sia spesso il Corpo dei Carabinieri è di per sé significativo. Per quanto riguarda l'Europa, la costituzione della Gendarmeria europea, composta dai corpi di polizia militarizzati di alcuni Stati membri proprio per il controllo delle aree oggetto di missioni di pace, è altrettanto significativo. Anche in questo caso, vi sono amministrazioni - nazionali ed europee - che usano la forza per imporre il rispetto di un diritto che non è né nazionale né europeo, ma globale. Anche nelle ipotesi ora menzionate, i poteri di autotutela sono strumentali a una legalità che ha poco a che fare con il processo democratico nazionale. Il diritto globale vede un notevole sviluppo delle amministrazioni e del relativo diritto, ma uno sviluppo molto minore della componente costituzionale. Gli istituti del diritto amministrativo, di conseguenza, non hanno il radicamento costituzionale che è loro proprio negli ordinamenti nazionali e non possono essere ricondotti al circuito democratico (111). I poteri di autotutela, come gli altri poteri amministrativi, sono strumenti di affermazione del diritto, ma questo diritto non è il frutto della democrazia rappresentativa, né delle leggi statali. 4.2. La regola di diritto limite all'autotutela. 1. Gli sviluppi del diritto amministrativo interno e di quello sopranazionale incidono anche sull'altro volto dell'autotutela amministrativa, quello del potere e del perseguimento dell'interesse pubblico da parte dell'amministrazione, e sul secondo tipo di rapporto tra autotutela e legalità, quello di contrapposizione. Anche questi sviluppi conducono al superamento del principio di legalità, come fondamento legislativo del potere amministrativo, e all'approdo alla regola di diritto, sia nazionale sia sopranazionale, sia sostanziale sia procedurale. Anche sotto questo profilo, la dimostrazione richiede di esaminare distintamente gli sviluppi del diritto nazionale e di quello sopranazionale. 2. Nel diritto nazionale, la frammentazione amministrativa restringe l'ambito di applicazione dell'autotutela decisoria e, quindi, del relativo privilegio dell'amministrazione. La giurisprudenza ripete stancamente che gli atti di ritiro possono essere emanati solo dall'autorità che ha emanato il provvedimento "o da quella gerarchicamente sovraordinata" (112), ma questa seconda eventualità è ormai anche più rara del ricorso gerarchico. Della fuga dallo Stato di molte amministrazioni e delle tendenze alla privatizzazione e all'esternalizzazione risente anche il fermo amministrativo, istituto già menzionato che contribuisce a definire il regime di privilegio delle amministrazioni statali e non è applicabile ad altri enti pubblici (113). 3. Ben più importanti sono gli sviluppi dovuti al diritto sopranazionale, i quali mostrano la perdurante ambivalenza del rapporto tra legalità e autotutela: ora di convergenza, ora di contrapposizione. Come si è già osservato, il diritto europeo ammette l'autotutela decisoria in termini più ristretti di quanto faccia quello italiano: esso riconosce una particolare tutela al legittimo affidamento generato dagli atti delle amministrazioni e, in particolare, tende a escludere la revoca degli atti legittimi. Il diritto prodotto dalla giurisprudenza comunitaria, dunque, opera da limite nei confronti dei poteri di autotutela, a difesa delle situazioni giuridiche dei privati; la ponderazione di interessi operata al livello europeo si rivela più favorevole non solo al principio di certezza del diritto, ma anche a quello di tutela dell'affidamento (114). Anzi, quest'ultimo tende a volte a prevalere sul valore della certezza del diritto e sulla tutela della legalità, come suggerito dal fatto che in base a questa giurisprudenza - e a differenza di quanto tradizionalmente si afferma nell'ordinamento interno - l'annullamento non determina sempre la piena rimozione degli effetti giuridici del provvedimento, dovendosi piuttosto modulare gli effetti dell'annullamento in relazione agli interessi coinvolti: dunque, a tutela degli interessati, il diritto europeo limita non solo i presupposti degli atti di autotutela, ma anche i loro effetti. Questa giurisprudenza si applica ovviamente all'attività delle amministrazioni comunitarie e a quella attraverso la quale le amministrazioni nazionali eseguono il diritto europeo. Ma, come è noto, vi è anche un effetto ulteriore dei principi del diritto europeo sul diritto amministrativo nazionale: effetto ora affermato dall'articolo 1 della legge 241, a norma del quale l'attività amministrativa è retta, tra l'altro, dai principi dell'ordinamento comunitario. Come è stato notato, con questi principi stona "l'inusitata estensione del potere di revoca attribuito all'amministrazione" dalla più recente legislazione italiana in materia di revoca (115). Questa estensione dà certamente luogo a un'incoerenza del legislatore del 2005, che era libero di enunciare un principio e poi non seguirlo, ma probabilmente non determina un contrasto di questa legislazione con il diritto comunitario. Il contrasto, peraltro, potrebbe verificarsi ove la disciplina italiana della revoca dovesse essere applicata ad atti fondati sul diritto comunitario: in quel caso, potrebbe porsi il problema della sua disapplicazione (116). Il potere di revoca delle amministrazioni nazionali è limitato dal diritto comunitario non solo attraverso regole generali, ma anche con riferimento a singoli tipi di atto. A volte semplicemente perché quel diritto ha messo allo scoperto la natura contrattuale di determinati atti, conseguentemente soggetti alla disciplina dei contratti delle pubbliche amministrazioni piuttosto che a quella del provvedimento (117). Altre volte sulla base di specifiche previsioni normative, attraverso le quali il diritto europeo preclude o condiziona l'esercizio dei propri poteri di autotutela da parte delle amministrazioni nazionali (118). Il potere delle amministrazioni pubbliche di eliminare o modificare gli effetti delle proprie decisioni, poi, è limitato anche dal diritto applicato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. In effetti, né la Convenzione né alcuno dei suoi protocolli dettano norme in materia di autotutela amministrativa. Tuttavia, la giurisprudenza della Corte ha fatto significative applicazioni, in questa materia, di alcune norme in essi contenute (119). La relativa giurisprudenza ha molti punti di contatto con quella comunitaria, applicando frequentemente il principio di proporzionalità e quello della tutela del legittimo affidamento, e richiede alle amministrazioni un bilanciamento di interessi analogo a quello richiesto dai giudici comunitari. In applicazione di questi criteri, per esempio, la Corte ha affermato l'illegittimità di atti come la revoca di una concessione (120), la cancellazione dell'iscrizione all'albo degli avvocati (121) e la revoca di un permesso di esportazione (122). Tutto ciò riguarda la titolarità dei poteri di autotutela. Ma il diritto europeo incide anche sulle modalità di esercizio di questi poteri, attraverso principi procedimentali (123) come quelli del contraddittorio (124), della motivazione e della trasparenza, che si applicano ai procedimenti di autotutela come agli altri procedimenti amministrativi. Come si vede, il diritto europeo incide in vari modi sui poteri di autotutela dell'amministrazione: sia limitandone la titolarità, sia disciplinandone le modalità di esercizio e gli effetti. Questa incidenza deriva in parte dall'esigenza di regolare i rapporti tra diritto sopranazionale e diritto nazionale, ma deriva soprattutto dall'esigenza di tutelare i cittadini nei confronti dei pubblici poteri. È, naturalmente, una protezione che non si fonda sulla legge né sul principio democratico, ma su principi generali elaborati dai giudici. 4. I principi del procedimento amministrativo, naturalmente, si applicano anche ai procedimenti esecutivi: attraverso questi principi, i principi del diritto europeo e quelli applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo garantiscono i privati anche nei confronti dei poteri di autotutela esecutiva delle amministrazioni europee e di quelle nazionali. In effetti, è più su questo piano - quello delle modalità di esercizio - che su quello del fondamento del potere, che il diritto europeo limita e condiziona l'uso della forza da parte delle amministrazioni nazionali. Non che il principio della regola di diritto, nel senso di necessario fondamento normativo dei poteri amministrativi, sia estraneo al diritto europeo: esso è spesso fatto valere dinanzi ai giudici comunitari ed è rigorosamente rispettato proprio nei settori nei quali - come si è riferito in precedenza - le amministrazioni europee possono disporre dell'uso della forza. Ma il suo rispetto dipende più dall'esigenza di rispettare il riparto dei poteri tra Unione e Stati membri, che da esigenze di garanzia dei privati. Delle esigenze di garanzie dei privati, invece, il diritto europeo si preoccupa proprio quando disciplina il potere delle amministrazioni di disporre della forza. Per mostrarlo, si può fare riferimento agli stessi due settori, in ordine ai quali si è dimostrata la titolarità di poteri esecutivi in capo alle amministrazioni europee: il settore della concorrenza e quello della sicurezza. In ordine alle ispezioni in materia di concorrenza, delle esigenze di garanzia si fanno carico sia il legislatore comunitario, sia la giurisprudenza. Il legislatore stabilisce, per esempio, che la decisione che obbliga le imprese a sottoporsi alle ispezioni "precisa l'oggetto e lo scopo degli accertamenti, ne fissa la data di inizio ed indica le sanzioni previste [...], nonché il diritto di presentare ricorso dinanzi alla Corte di giustizia avverso la decisione" e aggiunge che, se l'assistenza da parte della forza pubblica "richiede l'autorizzazione di un'autorità giudiziaria ai sensi della legislazione nazionale, tale autorizzazione viene richiesta" (125): lungi dall'escludere le garanzie previste dai diritti nazionali, dunque, il diritto europeo le fa salve e, comunque, ne predispone di proprie. La giurisprudenza assicura il rispetto, nel corso dei procedimenti ispettivi, dei diritti fondamentali, dei principi procedurali del diritto amministrativo (contraddittorio, motivazione, accesso agli atti) e del principio di proporzionalità (126). Altrettanto avviene in materia di sicurezza, dove il ruolo di garante nei confronti dell'uso della forza spetta - al livello europeo - essenzialmente al legislatore, dato che i relativi provvedimenti amministrativi sono di regola soggetti al controllo dei giudici nazionali piuttosto che di quelli comunitari. In materia di controlli alle frontiere, per esempio, le norme europee si preoccupano, per esempio, del rispetto della dignità umana, del principio di proporzionalità, del divieto di discriminazioni, del diritto alla riservatezza e del diritto di informazione (127); in ordine al provvedimento di respingimento, impongono l'obbligo di motivazione e assicurano il controllo giurisdizionale (128). In questo modo, i cittadini sono garantiti dal diritto europeo non solo nei confronti delle amministrazioni europee, ma anche nei confronti di quelle nazionali. Nel complesso, la legalità europea è la fonte di rilevanti poteri esecutivi delle amministrazioni comunitarie e di quelle nazionali, ma anche di regole e limiti per l'esercizio di questi poteri. Regole e limiti che, per la loro origine, sono difficilmente riconducibili al processo democratico e non rispondono a una logica di distribuzione del potere tra pubblici poteri nazionali, ma di disciplina del suo esercizio. Non potrebbe essere diversamente: la soggezione dei soggetti di ciascun ordinamento nazionale a poteri di esecuzione, esercitati da autorità sopranazionali o di altri Stati membri, implica un allargamento dell'arena entro la quale devono essere assicurate le garanzie e, quindi, anche un allargamento degli strumenti di garanzia. 5. Queste conclusioni, infine, sono suffragate anche dagli sviluppi del diritto a livello globale. Anche qui, come si è osservato in precedenza, si sviluppano poteri aventi i caratteri essenziali dell'autotutela amministrativa e, parallelamente, regole di esercizio di questi poteri: regole che sono ancora meno riconducibili al principio democratico o a un circuito rappresentativo. Come è stato osservato, principi procedurali, come la partecipazione degli interessati, l'obbligo di motivazione e la trasparenza, e principi sostanziali, come il rispetto dei diritti umani e il principio di proporzionalità, appaiono sempre più come le componenti non solo di un diritto amministrativo comune ai diversi ordinamenti, ma anche di una "international rule of law(129)" o di una "rule of law globale" (130), che viene elaborata, oltre che applicata, più dai giudici che dai parlamenti e dai governi (131). L'affermazione di questi principi, relativi alle modalità di esercizio dei poteri amministrativi, supplisce all'assenza o insufficienza, a livello globale, di regole di attribuzione e distribuzione dei poteri. È in questo modo che, superate concezioni ormai insoddisfacenti del principio di legalità, il rispetto della regola di diritto può continuare a svolgere la sua funzione di garanzia degli individui. NOTE (*) Relazione al 53° Convegno di studi amministrativi, su "Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia" - Varenna, Villa Monastero, 20-22 settembre 2007. L'autore ringrazia Marco Macchia per i commenti a una precedente versione del testo. (1) F. BENVENUTI, voce Autotutela (diritto amministrativo), in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 537. (2) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II ed., Milano, Giuffrè, 1988, p. 1262. Si confronti il passo delle Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1981, p. 298 s. con quello, quasi identico, del Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1967, vol. III, 1, p. 148, dove in luogo di "esecutorietà" vi è "autotutela". (3) G. GHETTI, voce Autotutela della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, Utet, 1987, p. 80. (4) G. FALCON, voce Esecutorietà ed esecuzione dell'atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., VI, Torino, Utet, 1991, p. 147; A. CORPACI, voce Ritiro e rimozione del provvedimento amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino, Utet, 1997, p. 477; G. CORSO, Autotutela (dir. amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. CASSESE, Milano, Giuffrè, 2006, p. 609. (5) Non sembra utile invece, utilizzare l'autotutela tributaria come termine di paragone, dato che essa è una manifestazione dell'autotutela amministrativa decisoria. (6) Per l'autotutela privata, in particolare, si oscilla tra l'ampia nozione di E. BETTI, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 529, e la nozione più ristretta di L. BIGLIAZZI GERI, Profili sistematici dell'autotutela privata, vol. I, Milano, Giuffrè, 1971. (7) Come nel caso dell'autodichia o, per quanto riguarda il diritto amministrativo, del ritiro di un provvedimento favorevole. (8) Come alcune ipotesi di autotutela privata (quale il taglio delle radici) o, per quanto riguarda il diritto amministrativo, l'autotutela decisoria spontanea. (9) O può reagire alla lesione di un proprio interesse, come propone G. LIGUGNANA, Profili evolutivi dell'autotutela amministrativa, Padova, Cedam, 2004, p. 35 ss. (10) Si pensi, nel diritto privato, allo stato di necessità, e, nel diritto amministrativo, all'esecuzione forzata di un provvedimento di requisizione, che non implicano alcun illecito; all'autotutela tributaria e al ritiro di una sanzione amministrativa, che non implicano il sacrificio di un interesse specifico. (11) Artt. 748, 1006, 1011 e 1152 c.c. (12) Sul parallelo tra autotutela amministrativa e autotutela sindacale si rinvia a B.G. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, Milano, Giuffrè, 2003, p. 318 ss. (13) Secondo la nota formulazione di F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, ristampa con note di aggiornamento a cura di G. MIELE, Padova, Cedam, 1960, p. 656. (14) Artt. 13 ss. Cost. (15) Tra le decisioni più recenti, Cons. St., sez. V, 7 novembre 2006, n. 6526; T.A.R. Basilicata, Potenza, 11 luglio 2007, n. 491; T.A.R. Umbria, Perugia, 18 maggio 2007, n. 440. (16) Tra le decisioni più recenti, T.A.R. Friuli - Venezia Giulia, Trieste, 7 luglio 2006, n. 475; T.A.R. Trentino - Alto Adige, Bolzano, 7 ottobre 2006, n. 379; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 13 novembre 2006, n. 2198. (17) Tra le decisioni più recenti, Cons. St., sez. V, 19 giugno 2006, n. 3576; Cons. St., sez. V, 24 agosto 2006, n. 4961; Cons. St., sez. V, 25 settembre 2006, n. 5622; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 10 gennaio 2007, n. 76. (18) Cons. St., sez. IV, 2 dicembre 1999, n. 1769. (19) F. BENVENUTI, Autotutela, cit., p. 539 s. (20) La quale, a volte, riconosce anche figure ibride, nelle quali si sovrappongono ragioni di revoca e di annullamento: di recente, per es., T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 13 luglio 2007, n. 6369. (21) Nell'art. 21-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990, a cui si farà riferimento in seguito. (22) E gioca a difesa del "monopolio statale della tutela giuridica", di cui parla E. BETTI, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, p. 535. (23) U. BORSI, Fondamento giuridico della esecuzione forzata amministrativa, in Studi senesi, 1905, ora in Studi di diritto pubblico, vol. I, Padova, Cedam, 1976, p. 256. Borsi, come è noto, giustificava l'esecutorietà facendo riferimento alla sovranità dello Stato e ai caratteri del potere esecutivo. Ulteriori riferimenti bibliografici in B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, II ed., Diritto amministrativo generale, Milano, Giuffrè, 2003, t. I, p. 828 s. Sul fondamento dell'esecutorietà per i primi teorici, G. SACCHI MORSIANI, L'esecuzione delle pretese amministrative, Padova, Cedam, 1977, p. 48 ss. (24) F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 654. Non diversamente, nel primo ampio studio sulla revoca dell'atto amministrativo, L. RAGGI scriveva: "Che in genere possa parlarsi di una possibile revoca degli atti amministrativi non pare seriamente contestabile. La revoca si trova attuata frequentemente nella pratica, ammessa nella giurisprudenza e discussa dalla scienza come istituto non anomalo, e trova appoggio in qualche testo di legge" (La revocabilità degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 5, 1917, p. 317 s.). (25) Cioè il "potere di esercitare la propria competenza fino alla sua più esatta e completa realizzazione": F. BENVENUTI, Autotutela, cit., p. 539. (26) A ciò si aggiunse l'influenza della cultura giuridica tedesca, più propensa di quella francese ad ammettere in termini generali l'autotutela amministrativa: al riguardo, S. CASSESE, I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, Giuffrè, 1969, p. 434 ss. (27) L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 242 ss. (28) L. MANNORI-B. SORDI, op. cit., p. 229. (29) E nelle stesse mani rimase, nel corso del diciannovesimo secolo, nel Regno Unito, nel quale si sera protratto il modello dello stato giurisdizionale e, quando nuove esigenze regolatorie imposero l'attribuzione di esecuzione forzata ad alcune amministrazioni di poteri, si ricorse all'artificio di attribuire una qualifica giurisdizionale ai loro funzionari (così S. CASSESE, L'esecuzione forzata, in Dir. proc. amm., 1991, p. 174). (30) L. MANNORI-B. SORDI, op. cit., p. 261. (31) L. MANNORI-B. SORDI, op. cit., p. 285. Gli effetti di queste vicende sulle prime concezioni della polizia di sicurezza, nella scienza giuridica italiana, sono quelli descritti da G. CORSO, L'ordine pubblico, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 117 ss. (32) Sulla duratura tendenza della scienza del diritto amministrativo a concepire l'amministrazione come esecuzione di legge e sul principio di legalità come strumento di questa concezione, S. CASSESE, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 156 ss. (33) Si v., per es., di recente, M. D'AMICO, voce Legalità (dir. cost.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. CASSESE, cit., p. 3367 s. (34) Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. (35) Che di privilegio si tratti è dimostrato anche dalla comparazione giuridica: nel diritto spagnolo, per esempio, l'amministrazione non può annullare i propri atti invalidi, ma solo impugnarlo davanti al giudice amministrativo: art. 103, Ley 30/1992, de 26 de Noviembre, de Régimen Jurídico de las Administraciones Públicas y del Procedimiento Administrativo Común. (36) A partire da quando la giurisprudenza ha stabilito che, per i provvedimenti favorevoli al destinatario, l'annullamento deve essere pronunciato entro il termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale (Conseil d'Etat, 3 novembre 1922, Dame Cachet). (37) Ex multis: Cons. St., sez. IV, 2 marzo 1904, in Giur. it., 1904, III, col. 237; Cons. St., parere 18 novembre 1926, in Foro it., 1927, III, col. 96; Cons. St., sez. IV, 18 luglio 1930, in Foro amm., I, 1, col. 240; Cons. St., sez. V, 30 maggio 1931, in Giur. it., 1932, III, col. 7; Cons. St., sez. IV, 20 ottobre 1933, in Foro it., 1934, III, col. 179; Cons. St., sez. IV, 24 novembre 1933, in Giur. it., 1934, III, col. 233; Cons. St., sez. IV, 5 dicembre 1944, in Giur. it., 1945, III, col. 5. La revocabilità trovava anche un riscontro testuale nell'art. 4 della legge abolitiva del contenzioso. (38) Hanno struttura analoga, per esempio, la norma che esclude la revocabilità del mandato conferito anche nell'interesse del mandatario (art. 1723, secondo comma, c.c.) e quella che esclude la revocabilità della concessione edilizia (art. 4, comma 6, l. 28 gennaio 1977, n. 10). (39) Anzi, la revocabilità avrebbe potuto apparire in contrasto con l'esercizio di poteri giurisdizionali e con la nozione di autotutela: come era accaduto in Austria, dove proprio l'assimilazione dell'amministrazione alla giurisdizione e il concetto di Rechtskraft dell'atto amministrativo avevano indotto a volte la scienza giuridica a sostenere la sua irrevocabilità. La revocabilità dell'atto amministrativo era un ostacolo decisivo alla costruzione di una teoria unitaria degli atti di diritto pubblico, basati su una loro comune forza giuridica, costruzione tentata soprattutto da A. MERKL, Die Lehre von der Rechtskraft. Entwickelt aus dem Rechtsbegriff, Leipzig und Wien, Franz Deuticke, 1923, p. 245; si veda anche Zum Problem der Rechtskraft in Justiz und Verwaltung, trad. it., Il problema del giudicato nella giurisdizione e nell'amministrazione, in Il duplice volto del diritto, Milano, Giuffrè, 1987, p. 325. Su queste vicende concettuali, B. SORDI, Tra Weimar e Vienna. Amministrazione pubblica e teoria giuridica nel primo dopoguerra, Milano, Giuffrè, 1987, p. 186 ss.; si v. anche A. ROMANO TASSONE, Brevi note sull'autorità degli atti dei pubblici poteri, in Scritti per Mario Nigro, vol. II, Milano, Giuffrè, 1991, p. 372 ss. (40) Riferimenti giurisprudenziali in B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, cit., p. 933 ss. (41) Art. 21-quinquies, comma 1-bis, legge n. 241 del 1990, inserito dall'art. 12, comma 4, decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7. (42) Per un caso recente di sospensione di un provvedimento a tutela della legalità, T.A.R. Basilicata, Potenza, 30 agosto 2007, n. 511. (43) Art. 19, comma 3, e art. 20, comma 3, legge n. 241 del 1990. (44) Si v., per es., tra le più recenti, Cons. St., sez. VI, 2 maggio 2006, n. 2415; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-ter, 9 maggio 2006, n. 3388; T.A.R. Molise, Campobasso, 22 febbraio 2007, n. 106. (45) Come fa la legge finanziaria per il 2005: art. 1, comma 136, legge 30 dicembre 2004, n. 311. (46) Cons. St., sez. V, 3 giugno 1996, n. 621, in Foro amm., 1996, p. 1869. (47) Si v. per es. T.A.R. Sicilia, sez. I, Palermo, 27 gennaio 1989, n. 21, in Foro amm., 1989, p. 2503. (48) Si spiega, così, come anche in scritti recenti l'ammissione generalizzata della revoca sia percepita come un privilegio e una deviazione dal principio di legalità, più ancora dell'annullamento d'ufficio: A. TRAVI, Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, in Dir. pubbl., 1995, p. 117 ss. (49) Per esempio: l'art. 337, l. 20 marzo 1865, n. 2248 sulle opere pubbliche (in materia di contratti); l'art. 52, l. 17 luglio 1890, n. 6972 (in materia di deliberazioni delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza); l'art. 13, l. 7 luglio 1907, n. 429 (in materia di atti del Consiglio di amministrazione dell'Amministrazione delle ferrovie dello Stato). Altre norme parlavano invece di "esecutività": per esempio, l'art. 97 del regio decreto 3 marzo 1934 (legge comunale e provinciale), in materia di controlli sugli atti degli enti locali. In materia tributaria, le norme non hanno mai smesso di fare riferimento al "visto di esecutorietà" degli atti del procedimento di riscossione. (50) Ciò spiega perché anche gli studiosi più attenti, pur tenendo distinti i due aspetti, li esponevano insieme: per esempio, Cammeo, il quale invitava a non dare all'esecutorietà una "esagerata importanza", aveva scritto che gli atti amministrativi "sono di regola eseguibili direttamente dall'amministrazione senza che essa né sia costretta a far preventivamente dichiarare dinanzi ad organi giurisdizionali la fondatezza giuridica della sua pretesa, né sia costretta a ricorrere al concorso di organi giudiziari o dipendenti dai giudiziari per l'uso della coazione" (Commentario delle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, Vallardi, s. d., p. 97 s.). Similmente, A. DE VALLES, Elementi di diritto amministrativo, II ed., Padova, Cedam, 1951, p. 190. (51) Nelle conclusioni relative alla celebre decisione del Tribunal des conflicts, 2 dicembre 1902, Société immobiliare de Saint-Just, in Les grands arrêt de la jurisprudence administrative, 11e éd., Paris, Dalloz, 1996, p. 61. (52) E, quindi, bersaglio degli studiosi di ispirazione più liberale: come A. Klitsche de la Grange, che criticava il "dogma dell'autotutela amministrativa" (La giurisdizione ordinaria nei confronti delle pubbliche amministrazioni, Padova, Cedam, 1961, p. 55 ss.). (53) Al riguardo, B.G. MATTARELLA, L'imperatività del provvedimento amministrativo, Padova, Cedam, 2000, p. 121 s. e p. 235. (54) Cass., sez. un., 28 novembre 1981, n. 6328, in Foro it., 1982, I, col. 3046; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, 24 maggio 1985, n. 120, in Foro amm., 1985, p. 1666; Cons. St., sez. IV, 22 settembre 1987, n. 539, in Foro amm., 1987, p. 2171; Cons. St., sez. V, 19 marzo 1996, n. 277, in Foro amm., 1996, p. 883; Cons. St., sez. V, 25 maggio 1998, n. 677, in Cons.St., 1998, I, p. 891. (55) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, Jovene, 1989, p. 196. (56) A proposito della quale Giannini osservava, non senza qualche ragione: "si ha l'impressione che l'eleganza sistematica lo abbia portato a forzare le partizioni giuridiche" (Diritto amministrativo, cit., p. 1263). (57) Nel Discorso generalesulla giustizia amministrativa (I, in Riv. dir. proc., 1963, p. 529) egli scriveva che il "centro dogmatico" del discorso sull'autotutela è la nozione di imperatività. (58) Sulla quale lo statalismo proprio della cultura giuridica induceva a poggiare i poteri di autotutela: S. CASSESE, Cultura e politica, cit., p. 35. (59) Come è noto, G. ZANOBINI aveva precorso questa concezione: "mentre l'individuo può fare tutto ciò che non gli è espressamente vietato, l'amministrazione può fare soltanto ciò che la legge espressamente le consente di fare" (L'attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl., 1924, ora in Scritti vari di diritto pubblico, Milano, Giuffrè, 1955, p. 206 s.). (60) F. BENVENUTI, Autotutela, cit., p. 554. Similmente, A.M. SANDULLI, Note sul potere amministrativo di coazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1964, p. 317 ss. (61) Non senza resistenze: per es., ancora nel 1968 P. Virga enunciava quella dell'esecutorietà come regola generale, fondata sulla "natura stessa di pubblica potestà, giacché tutti gli atti emanati nell'esercizio di pubbliche potestà si impongono immediatamente all'obbedienza dei consociati" (Il provvedimento amministrativo, III ed., Milano, Giuffrè, 1968, p. 360). (62) In particolare di quella in materia di beni pubblici: S. CASSESE, I beni pubblici, cit., p. 392 ss. Si v. anche V. CERULLI IRELLI, Profili problematici dell'autotutela esecutiva, in Dir. proc. amm., 1986, p. 410. Più in generale, G. CORSO, L'efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1969, p. 437; S. CASSESE, L'esecuzione forzata, in Dir. proc. amm., 1991, p. 173. (63) Con l'art. 21-ter della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005. (64) A.M. SANDULLI, Note sul potere, cit., p. 856 ss.; S. CASSESE, L'esecuzione forzata, cit., p. 181 s. (65) Con riferimento alla quale il principio dell'esecutorietà era stato affermato, anche in tempi relativamente recenti, dalla giurisprudenza costituzionale: Corte cost., 31 marzo 1961, n. 21; Corte cost., 9 giugno 1961, n. 30; Corte cost., 7 luglio 1962, n. 87; Corte cost., 4 febbraio 1970, n. 13; Corte cost., 23 marzo 1970, n. 44; Corte cost., 25 maggio 1985, n. 176; Corte cost., 4 novembre 1987, n. 371. (66) Sia nel procedimento esattoriale, nel quale, a seguito della riforma della disciplina della riscossione mediante ruolo, operata con il d.lgs. 28 settembre 1998, n. 337, il contribuente è maggiormente tutelato che in precedenza, perché le opposizioni all'esecuzione o agli atti esecutivi si propongono al giudice e non più all'autorità amministrativa (nuovo testo dell'art. 57, d.lgs. 29 settembre 1973, n. 602; prima della riforma, G. FALCON definiva "francamente esecutoria" la riscossione esattoriale: Esecutorietà, cit., p. 148); sia nel più raro procedimento per ingiunzione (regio decreto 14 aprile 1910, n. 639). Entrambi si svolgono in modo parzialmente diverso dall'esecuzione di diritto comune, ma la disciplina del Codice di procedura civile si applica in modo residuale: in particolare, vi è un giudice dell'esecuzione. (67) Di recente, per es., in materia di beni pubblici, M. RENNA, La tutela dei beni pubblici, in corso di pubblicazione in La regolazione e la gestione dei beni pubblici, a cura di A. POLICE, Milano, Giuffrè, 2007. (68) Tra le previsioni di portata più generale: art. 2 e 216, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza; art. 54, comma 2, testo unico degli enti locali; art. 117, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112; art. 32, l. 23 dicembre 1978, n. 833; art. 8, comma 1, l. 12 giugno 1990, n. 146; art. 5, l. 24 febbraio 1992, n. 225. (69) Al riguardo, B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, cit., p. 840 s. (70) Nonostante l'assenza, fino al 2005, di previsioni normative, che rendeva arduo il compito di chi si sforzava di conciliare l'autotutela decisoria con il principio di legalità, inteso come necessario fondamento legislativo dei poteri amministrativi: N. BASSI, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, Giuffrè, 2001, p. 363 ss. (71) Art. 21-quinquies e art. 21-nonies, legge n. 241 del 1990, introdotti dalla legge n. 15 del 2005. (72) Da questo punto di vista, il diritto italiano si è distaccato da quello tedesco, dal quale era stato influenzato nell'ammettere indistintamente annullamento d'ufficio e revoca. In Germania, infatti, a partire dagli anni Cinquanta, la concezione del ritiro del provvedimento come strumento di ripristino della legalità si è attenuato e il ritiro di provvedimenti favorevoli è stato soggetto a limiti: tendenze poi codificate nella legge sul procedimento amministrativo: per ampi riferimenti, A. CASSATELLA, Il ritiro del provvedimento illegittimo. Un'indagine comparata, Tesi di dottorato, Università degli studi di Trento, anno accademico 2004-2005; si v. anche F. MERUSI, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni "trenta" all'"alternanza", Milano, Giuffrè, 2001, p. 85 ss. (73) Per un quadro generale e approfondito, A. CASSATELLA, Il ritiro, cit. (74) Artt. 48 e 49, Verwaltungsverfahrensgesetz. (75) Anche in ordine alla revoca, peraltro, in altri ordinamenti vi sono soluzioni diverse, che assicurano una tutela ancora più forte per gli interessati: come in quello spagnolo, che contempla la revoca solo per i provvedimenti sfavorevoli per il destinatario: art. 105, Ley 30/1992, de 26 de Noviembre, de Régimen Jurídico de las Administraciones Públicas y del Procedimiento Administrativo Común. (76) Nonostante i temperamenti giurisprudenziali di cui dà conto A. TRAVI, Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, cit., p. 118 s. (77) Corte cost., 19 aprile 1972, n. 67, in Giur. cost., 1972, p. 330, con nota di S. CASSESE, Il fermo amministrativo: un privilegio della pubblica amministrazione. (78) Cons. St., sez. VI, 9 marzo 2005, n. 967, in Giorn. dir. amm., 2005, p. 1059, con nota di B.G. MATTARELLA, Il fermo amministrativo: erosione di un privilegio. (79) Al riguardo, S. CASSESE, Le basi costituzionali, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE, II ed., Diritto amministrativo generale, cit., p. 213 ss. Sull'inadeguatezza della concezione "minimale e formale" del principio di legalità, "che lo risolve nell'idea della necessità e sufficienza di una autorizzazione legislativa all'esercizio del potere amministrativo", si v. anche G. SALA, Potere amministrativo e principi dell'ordinamento, Milano, Giuffrè, 1993, p. 148. (80) Codificati a cura del Consiglio d'Europa nel volume The administration and you. A handbook, Strasburgo, Council of Europe Publishing, 1996, che enuncia alcuni principi in materia di ritiro di atti amministrativi (p. 31 s.). (81) Art. 117, comma 2, lett. m, Cost. (82) Art. 138, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. (83) Art. 14, comma 3, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. (84) Come espressamente enunciato, in materia di ritiro del provvedimento, già da Corte giust. CE, 12 luglio 1957, cause riunite 7/56, 3/57 a 7/57, Algera. (85) Al riguardo, D.U. GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Il diritto amministrativo dei paesi europei. Tra omogeneizzazione e diversità culturali, a cura di G. FALCON, Padova, Cedam, 2005, p. 58 s. (86) Codificati nel già menzionato volume The administration and you. (87) Come nella già citata sentenza Algera, ove si afferma che "Da un esame di diritto comparato risulta che nei sei Stati membri un atto amministrativo creatore di diritti soggettivi non può, in linea di principio, venir revocato ove si tratti di atto legittimo". Similmente, Corte giust. CE, 22 marzo 1961, cause riunite 42 e 49/59, Snupat. (88) Corte giust. CE, 20 marzo 1997, causa C-24/95, Alcan. Per una recente decisione di un giudice nazionale, coerente con questo orientamento, T.A.R. Sicilia, Palermo, 28 settembre 2007, n. 2049. (89) Prudenza che appare ragionevole e coerente con il consueto rispetto dei sistemi e delle tradizioni giuridiche nazionali, da parte della Corte: in questo senso, anche D. DE PRETIS, "Illegittimità comunitaria" dell'atto amministrativo, certezza del diritto e potere di riesame, in Giorn. dir. amm., 2004, p. 723, le cui considerazioni appaiono più convincenti di quelle critiche di G. GRÜNER, L'annullamento di ufficio in bilico tra i principi di preminenza e di effettività del diritto comunitario, da un lato, ed i principi della certezza del diritto e dell'autonomia procedurale degli Stati membri, dall'altro, in Dir. proc. amm., 2007, p. 240; e di quelle di J.H. JANS e B.A.T. MARSEILLE, Competence Remains Competence?Reopening Decisions that Violate Community Law, in Review of European Administrative Law, vol. 0, n. 1, p. 75. (90) Corte giust. CE, 7 gennaio 2004, causa C-201/02, Delena Wells. (91) Corte giust. CE, 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz. (92) Corte giust. CE, 19 settembre 2006, cause riunite C-392/04 e C-422/04, i-21 Germany. (93) Così D.U. GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, cit., p. 54. (94) Invocato, per es., dalla sentenza i-21 Germany: "esso richiede che la complessiva disciplina dei ricorsi, termini compresi, si applichi indistintamente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto comunitario e a quelli per infrazione del diritto interno". (95) Invocato, insieme al precedente, dalla sentenza Delena Wells: le modalità di esercizio dei poteri di autotutela rimangono definite dalle norme nazionali, "purché, tuttavia, esse non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)". (96) "Uno Stato membro non può eccepire norme, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per sottrarsi all'esecuzione degli obblighi ad esso incombenti in base al diritto comunitario. In particolare, una disposizione che preveda un termine per la revoca di un atto amministrativo che sia fonte di diritti deve essere applicata, al pari di tutte le altre disposizioni pertinenti del diritto nazionale, in modo tale da non rendere praticamente impossibile la ripetizione in forza del diritto comunitario e da tener pienamente conto dell'interesse comunitario": Corte giust. CE, 20 settembre 1990, causa C-5/89, Commissione c. Germania. (97) Cons. St., sez. V, 18 aprile 1996, n. 447. Sull'annullamento d'ufficio di atti adottati in base a norme interne contrastanti con il diritto comunitario, Cons. St., sez. IV, 18 gennaio 1996, n. 54. (98) Art. 120 Cost. (99) Corte cost., 21 aprile 1989, n. 229, in Giur. cost., 1989, p. 977. (100) Così G. GRECO, L'incidenza del diritto comunitario sugli atti amministrativi nazionali, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M.P. CHITI e G. GRECO, pt. gen., t. II, II ed., Milano, Giuffrè, 2007, p. 983 s. (101) Si v. soprattutto G. SACCHI MORSIANI, Il potere amministrativo delle comunità europee e le posizioni giuridiche dei privati, I, Milano, Giuffrè, 1965, p. 70 ss. (102) Per una più ampia analisi dell'art. 256, che ne sottolinea il rilievo in ordine ai caratteri dell'Unione europea come apparato di potere e all'integrazione amministrativa, L.M. DÌEZ PICAZO, Esiste una teoria della coazione nel diritto dell'Unione europea?, in Lezioni di diritto amministrativo europeo, a cura di S. BATTINI e G. VESPERINI, Milano, Giuffrè, 2006, p. 69 ss. (103) Si v., in particolare, l'art. 9, Regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96 del Consiglio, dell'11 novembre 1996, relativo ai controlli e alle verifiche sul posto effettuati dalla Commissione ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee contro le frodi e altre irregolarità; l'art. 9, Regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità; gli artt. 3, 4 e 6, Regolamento (CE) n. 1073/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 maggio 1999, relativo alle indagini svolte dall'Ufficio per la lotta antifrode (Olaf); gli artt. 3, 4 e 6, Regolamento (Euratom) n. 1074/1999 del Consiglio, del 25 maggio 1999, relativo alle indagini svolte dall'Ufficio per la lotta antifrode (Olaf). (104) Che dispone di simili poteri anche in altre materie: al riguardo, J.-B. AUBY, I poteri ispettivi dell'Unione europea, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, p. 357 ss. (105) Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l'applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del trattato (si v., in particolare, gli artt. 20 e 21); Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio, del 20 gennaio 2004, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese ("Regolamento comunitario sulle concentrazioni") (si v., in particolare, l'art. 13). Sulle innovazioni da esse apportati, A. TONETTI, La dimensione autoritativa del diritto amministrativo europeo. I poteri ispettivi in materia di tutela della concorrenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2005, p. 83; M. MACCHIA, L'attività ispettiva dell'amministrazione europea in materia di concorrenza, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, p. 173. (106) Art. 20, regolamento n. 1/2003. Il ruolo limitato del giudice nazionale e quello preminente del giudice comunitario sono dimostrati da Trib. CE, 11 dicembre 2003, causa T-66/99, Minoan. Per una discussione dei poteri ispettivi della Commissione in materia di concorrenza e di questa sentenza, S. CASSESE e M. SAVINO, I caratteri del diritto amministrativo europeo, in Diritto amministrativo europeo. Principi e istituti, a cura di G. DELLACANANEA, Milano, Giuffrè, 2006, p. 210 ss. (107) Per i riferimenti normativi, si rinvia a E. CHITI e B.G. MATTARELLA, The Resources of European Security, Report for the Conference 2007 of the European Group of Public Law on "The European Security" - Legraina, 14-16 settembre 2007, in corso di pubblicazione negli atti della Conferenza e, nella versione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl. (108) Art. 32 Tr. UE. (109) Convenzione sul rafforzamento della cooperazione transfrontaliera di polizia, particolarmente in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera e all'immigrazione clandestina, conclusa nel 2005 a Prüm, artt. 18 ss. (110) Si v., in particolare, l'art. VI dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio del 1994. (111) "L'impalcatura costituzionale sulla quale si regge il diritto amministrativo domestico manca nell'arena globale": S. CASSESE, Il diritto amministrativo globale: una introduzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2005, ora in Oltre lo Stato, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 62 s. (112) Si v., per es., T.A.R. Lazio, Latina, 3 ottobre 1991, n. 817; Cons. St., sez. VI, 8 marzo 2004, n. 1080. (113) Come l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura - Agea, nel caso deciso dalla già menzionata decisione del Cons. St., VI, n. 967/2005. (114) Per riferimenti alla giurisprudenza comunitaria in materia di tutela dell'affidamento ragionevole, A. MASSERA, I principi generali, in Trattato di diritto amministrativo europeo, pt. gen., t. I, II ed., cit., p. 322 ss. (115) A. MASSERA, I principi generali, cit., p. 330 ss. (116) Come osservato da chi scrive in Le dieci ambiguità della legge n. 15 del 2005, in Giorn. dir. amm., 2005, p. 819. (117) Come le concessioni di lavori pubblici e le concessioni di servizi: art. 3, commi 11 e 12, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163. (118) Come l'art. 3, comma 1, direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi; e l'art. 16, direttiva 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri. (119) Non solo dell'articolo 6 della Convenzione, relativo al diritto a un equo processo, ma anche dell'articolo 8, relativo al diritto al rispetto della vita privata e familiare, e dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, relativo alla protezione della proprietà. (120) Bruncrona v. Finland, n. 41673/98 del 16 novembre 2004. (121) Buzescu v. Romania, n. 61302/00 del 24 maggio 2005. In altri casi, la Corte ha escluso la violazione dei principi della Convenzione: Tre Traktörer Aktiebolag v. Sweden, n. 10873/84 del 7 luglio 1989; Fredin v. Sweden, n. 12033/86 del 18 febbraio 1991. (122) Rosenzweig and Bonded Warehouses Ltd. v. Poland, n. 51728/99 del 28 luglio 2005. (123) Sui quali, per quanto riguarda il diritto comunitario, si v. in generale G. DELLA CANANEA, I procedimenti amministrativi dell'Unione europea, in Trattato di diritto amministrativo europeo, pt. gen., t. I, II ed., cit., p. 497. (124) Per un'applicazione di questo principio da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo a un caso di revoca di un'autorizzazione bancaria, Capital Bank AD v. Bulgaria, 49429/99 del 24 novembre 2005. (125) Art. 20, commi 4 e 7, Regolamento n. 1/2003; art. 13, commi 4 e 7, Regolamento n. 139/2004. (126) Al riguardo, con riferimenti giurisprudenziali, J.-M. AUBY, I poteri ispettivi, cit., p. 359 s.; si v. anche M. MACCHIA, L'attività ispettiva, cit., p. 190 ss. (127) Artt. 6, 7 e 15, Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen). (128) Art. 13, Regolamento n. 562/2006. (129) E.-U. PETERSMANN, How to promote the International Rule of Law?, in Journal of International Economic Law, 1 (1998), p. 25. (130) S. CASSESE, Oltre lo Stato, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 58 ss. e p. 109 ss. Sulla diffusione dei principi comuni del procedimento amministrativo nel diritto comparato, S. BATTINI-B.G. MATTARELLA-A. SANDULLI, Il procedimento, in Diritto amministrativo comparato, a cura di G. NAPOLITANO, Milano, Giuffrè, 2007, p. 107. (131) Come nel caso Juno Trader deciso dall'International Tribunal for the Law of the Sea (28 dicembre 2004, n. 13), che ha applicato il principio del due process al sequestro di una nave e alla detenzione dell'equipaggio da parte delle autorità di uno Stato. L'ADOZIONE DEGLI ATTI NON AUTORITATIVI SECONDO IL DIRITTO PRIVATO (*) Dir. amm. 2006, 02, 353 LUCIO IANNOTTA SOMMARIO: 1. Problematicità e difficoltà di un'interpretazione ancorché ipotetica del comma 1-bis, art. 1, l. n. 241. Scelta di un approccio ermeneutico per così dire applicativo (art. 12, comma 1 delle preleggi) sul presupposto della vigenza ed obbligatorietà della norma (art. 10 delle preleggi). - 2. Il comma 1-bis come norma relativa primariamente ad atti unilaterali: in particolare ad atti adottati dalla pubblica amministrazione nell'esercizio di un potere non autoritativo secondo il diritto privato. - 3. Correlazione dei tradizionali poteri non autoritativi con situazioni soggettive scaturenti da norme che vincolano l'azione amministrativa e tutelano direttamente ed immediatamente la posizione del privato. Estensione dottrinale della categoria ad atti correlati con interessi legittimi con ritenuta compatibilità di atto non autoritativo e azionabilità nel termine di decadenza. - 4. Diritti correlati con poteri non autoritativi dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004. Esclusione da tali diritti dei diritti soggettivi perfetti: p.a. solo obbligata; operante con capacità e poteri di diritto privato; senza potere. Il diritto correlabile con poteri non autoritativi è solo quello riconosciuto dalla legge ma la cui conformazione richiede in base alla legge anche l'intervento della pubblica amministrazione definibile come: diritto soggettivo dell'ordinamento amministrativo, buon diritto, diritto soggettivo amministrativo, interesse legittimo finale. - 5. Atti non autoritativi di diritto privato e di diritto pubblico. Possibili fattispecie di atti non autoritativi alla luce delle acquisizioni dottrinali e giurisprudenziali e della sentenza n. 204. La giurisdizione esclusiva come segno della presenza nella materia di tali diritti. - 6. I. Voluto rinvio delle valutazioni su utilità e opportunità della norma alla individuazione delle norme applicabili e delle loro implicazioni. II. Le norme applicabili. L'art. 1324 c.c.: applicazione agli atti unilaterali delle norme sui contratti; rilevanza delle norme su requisiti dell'oggetto dell'atto, nullità anche parziale per carenza degli stessi, ai fini della tutela del terzo. Applicazione delle norme su adempimento, inadempimento e relative azioni. Possibilità di tutelare tutte le posizioni coinvolte anche col diritto privato. Necessità di cercare nel diritto privato le forme di realizzazione delle insopprimibili esigenze pubblicistiche. Inapplicabilità diretta ad atti di diritto privato dei principi di imparzialità, legalità ed eguaglianza. Riferimento allo statuto della p.a. come persona giuridica per l'individuazione dell'impossibile giuridico: dare ciò che non spetta: con conseguente nullità degli atti ai sensi del codice civile. Obbligo dell'Amministrazione di dare ciò che spetta e conseguenze. - 7. Confronto tra atto non autoritativo e provvedimento: realizzazione piena nel primo delle esigenze di efficacia ed economicità sottostanti alla normativa della l. n. 15 del 2005 nonché delle esigenze di giustizia sostanziale ed effettiva. Ampliamento dell'interpretazione del comma 1-bis: possibile conversione dell'atto non autoritativo in contratto da sottoporre alle stesse norme e limiti dell'atto non autoritativo. Configurabilità secondo l'ordinamento privatistico di obblighi di negoziazione e rinegoziazione in presenza di attività non autoritativa. - 8. Confronto del comma 1-bis con la seconda novella della l. n. 241 (l. n. 80 del 2005). Estensione con la l. n. 80 a tutti gli interessi pretensivi del trattamento processuale ritenuto proprio dei diritti correlati con poteri non autoritativi: azionabilità della pretesa senza diffida; in un termine lungo; senza provvedimento a fronte di inadempimento. Ipotizzata eliminazione dell'autoritarietà in tutti i poteri provvedimentali. Ipotizzata persistenza dell'autoritarietà - ma limitata dai diritti degli amministrati - negli atti e nei comportamenti espressione dei poteri di indirizzo politico-amministrativo e dei poteri di autotutela. - 9. Possibile inutilità del comma 1-bis in rapporto alla trasformazione del giudizio amministrativo in giudizio di pieno accertamento e soddisfazione dei diritti degli amministrati in conformità alla Costituzione a fronte di atti non autoritativi di diritto privato o di diritto amministrativo con le rispettive tecniche di tutela. Sicura riconduzione dei diritti amministrativi alla giurisdizione amministrativa. Possibile rilevanza potenzialmente negativa del comma 1-bis in caso di arresto di tale processo di trasformazione con possibile recupero di spazio del giudice ordinario (giudice naturale dei diritti soggettivi in chiave risarcitoria e di lunga durata) legittimato dal comma 1-bis, ai danni del giudice amministrativo, giudice naturale dei diritti degli amministrati in termini finali, tempestivi ed efficaci. Prevalenza sociale e ordinamentale della giustizia finale su quella formale e risarcitoria. Capacità naturale del giudice amministrativo di conciliare accertamento di fondatezza della pretesa e autonomia dell'Amministrazione. 1. Oggetto della mia relazione è l'interpretazione del comma 1-bis dell'art. 1 della l. 7 agosto 1990, n. 241 introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 che così recita testualmente La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente. Un'interpretazione necessariamente ipotetica per la consapevolezza che un'interpretazione compiuta della norma potrà emergere solo a seguito della sua applicazione a vicende concrete e dipenderà (come quella di tutta la l. n. 15 del 2005 e delle successive modifiche alla l. n. 241 contenute nella l. 14 maggio 2005, n. 80) anche dalle opzioni degli operatori del diritto e dal sostegno che ad esse saprà dare la letteratura scientifica(1). Un'interpretazione che in quanto doverosamente finalizzata (2) ad individuare il senso e la portata applicativa del comma 1-bis, si presenta estremamente complessa per l'assenza nella norma di una definizione di atto di natura non autoritativa; per la mancata individuazione delle fattispecie di possibile applicazione; per le evidenti e al tempo stesso non considerate implicazioni processuali della previsione (3). Complessità confermata dalle divergenti e a volte opposte valutazioni della norma che oscillano tra i due estremi della negazione di una sua qualsiasi effettiva rilevanza (4) da un lato; e dell'attribuzione ad essa di una possibile portata eversiva e disgregatrice del sistema amministrativo fondato sull'interesse pubblico (5) dall'altro; passando attraverso varie posizioni intermedie (esplicitazione di un principio già operante nel sistema (6); innovatività del principio ma con ridotti margini di applicazione (7); penetrazione del diritto privato nel cuore dell'azione amministrativa (8); riduzione dell'area dell'autoritarietà ai soli atti restrittivi della sfera giuridica dei privati - art. 21-bis, l. n. 241) (9). La difficoltà e la complessità dell'operazione interpretativa mi inducono ad assumere l'approccio ermeneutico più semplice qual è quello delineato dall'art. 12 delle preleggi per il quale nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Tale approccio presuppone la considerazione del comma 1-bis come norma vigente ed obbligatoria (10) e quindi di doverosa applicazione ed implica la rinuncia, almeno in sede di primo esame, a giudizi valutativi ma non ovviamente alla lettura sistematica della disposizione, implicante anzi tra l'altro il necessario confronto con le statuizioni della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004 sulla giurisdizione esclusiva e con le altre modifiche apportate alla l. n. 241 sia dalla l. n. 15 sia dalla successiva l. n. 80 del 14 maggio 2005. 2. Le prime interpretazioni del comma 1-bis, pur con valutazioni fortemente diversificate, hanno in maggioranza visto nella sua formulazione la consacrazione del modulo contrattuale (11) piuttosto che del modulo degli atti negoziali unilaterali, ritenuto proprio essenzialmente della gestione del rapporto di impiego privatizzato (12): moduli secondo i quali si ritiene che si svolga fondamentalmente l'amministrazione secondo il diritto comune (13). Aderendo invece all'indirizzo interpretativo allo stato minoritario (14) parto dall'ipotesi che il comma 1-bis si riferisca primariamente al modulo di azione degli atti unilaterali. Atti aventi rilevanza esterna, adottati dall'amministrazione come soggetto pubblico, nell'esercizio di un potere amministrativo non autoritativo: e che quindi si tratti - secondo la previsione normativa - di atti amministrativi «secondo il diritto privato» e non direttamente e immediatamente «di diritto privato», anche se implicanti la normale applicazione delle norme civilistiche. A favore di tale interpretazione vi sono le parole usate dal legislatore (adozione, atti, agisce) che esprimono appunto un agire unilaterale manifestantesi in atti egualmente unilaterali; l'aggettivazione dell'amministrazione come pubblica; il mancato riferimento alla capacità di diritto privato (15); la medesima terminologia (adozione) adoperata dalla stessa l. n. 15 del 2005 per i provvedimenti e cioè per i tipici atti amministrativi unilaterali aventi rilevanza esterna (16). Secondo la lettura proposta, il comma 1-bis dà veste legislativa, elevandola a categoria generale, alla tipologia di atti emersa nella giurisprudenza amministrativa sul pubblico impiego (17) ed estesa ad altri settori ricompresi (come il pubblico impiego, fino al d.lgs. n. 80 del 1988) nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (18): quella degli atti c.d. paritetici (19) o di adempimento (20) ovvero non autoritativi (21). Si tratta di atti che (richiamando una non recente ma ancora attuale definizione) (22) pur consistendo, come i provvedimenti, in manifestazioni di volontà inerenti all'esercizio di un potere e dotati di una propria autonomia funzionale che li mette in grado di incidere unilateralmente e direttamente nella sfera giuridica altrui, operano tuttavia in modo non dissimile dalle dichiarazioni e dai comportamenti di un soggetto privato ai quali pertanto vengono assimilati sul piano sostanziale (23). Riferendo l'attributo della non autoritarietà, come quello dell'autoritarietà, al potere e non (solo) all'atto, qualificabile piuttosto come imperativo/non imperativo (24) emerge con maggior evidenza la riconducibilità dell'atto non autoritativo ad un potere amministrativo ed in particolare al potere dell'amministrazione di definire unilateralmente un rapporto, adempiendo ai propri obblighi a favore di un soggetto privato (25) ovvero ponendo in essere un comportamento al quale essa è tassativamente tenuta (26). In ragione di tali caratteristiche il potere manifestantesi in atti non autoritativi va ricondotto al novero dei poteri esecutivi (27) ovvero di messa in opera di scelte previe e di realizzazione dell'effetto prefigurato (28) e pertanto alla funzione amministrativa di attuazione, distinta da quella di indirizzo politico-amministrativo (29) e alla dimensione di servizio dell'amministrazione, non più sovrana (30). 3. Con gli evidenziati caratteri sostanziali dei tradizionali poteri non autoritativi si correlava la caratterizzazione delle situazioni giuridiche soggettive, che a tali poteri si contrappongono, in termini di diritti soggettivi e cioè di situazioni protette direttamente e immediatamente dalla legge, attraverso l'imposizione in capo all'Amministrazione di un obbligo specifico posto a loro diretta tutela: obbligo meglio evidenziato dalla formula atti di adempimento che, con parole di Massimo Severo Giannini sono appunto gli atti con cui l'autorità dà attuazione ad obblighi che le incombono quale che ne sia la fonte e che, se all'obbligo dell'autorità fa riscontro un diritto dell'altro soggetto, sono idonei a dare vita ad un inadempimento nel caso in cui l'atto sia sbagliato o ingiustamente negativo (31). La diretta tutela da parte dell'ordinamento e il carattere vincolato dell'attività sono considerati dalla giurisprudenza elementi entrambi essenziali per la configurabilità di diritti, non essendo sufficiente a tal fine la sola vincolatività in presenza di un potere comunque amministrativo (32). All'assimilazione sostanziale (ancorché non alla identificazione) degli atti non autoritativi agli atti di soggetti di diritto privato incidenti nella sfera giuridica altrui corrispondeva, nelle ricostruzioni giurisprudenziali e dottrinali, un trattamento processuale non dissimile da quello riservato agli atti di diritto comune consistente, secondo la giurisprudenza, nella esperibilità dell'azione nel termine di prescrizione a fronte di determinazioni espresse e nella proponibilità del ricorso anche in assenza di atto formale; ma implicante altresì la possibilità/necessità di un compiuto esame della vicenda portata all'esame del giudice amministrativo in tutte le componenti fattuali e giuridiche, con pieno esercizio dei poteri istruttori e cognitori (33) ai fini dell'accertamento della sussistenza o meno dell'inadempimento dell'amministrazione e correlativamente della spettanza o meno al privato del bene rivendicato. Peraltro, la non autoritarietà dei poteri è stata ritenuta compatibile anche con la loro non totale vincolatività e quindi con la correlazione con interessi legittimi (34) in relazione al riconoscimento della non necessaria autoritatività degli atti amministrativi (35) all'interno di un processo decostruttivistico della nozione di imperatività identificata con autoritarietà (36), che ha portato parte della dottrina prima a negare la sussistenza dell'autoritarietà a fronte di atti emanati su istanza del destinatario, ritenendola invece configurabile solo in rapporto ad atti ablatori (37) in grado, in quanto tali, di modificare o estinguere situazioni giuridiche soggettive; per poi negare completamente la natura di elemento caratterizzante degli atti amministrativi, con riconoscimento della persistenza di un privilegio della pubblica amministrazione solo a fronte di situazioni pretensive (38). Nello studio del 1984 dedicato agli atti non autoritativi evidenziavo peraltro il carattere normativo della ricostruzione giurisprudenziale degli atti amministrativi quali atti normalmente autoritativi e la necessità di verificare, caso per caso, attraverso un accurato esame della legislazione, se l'autoritarietà fosse stata effettivamente superata, pervenendo alla conclusione che si potesse palare di atti non autoritativi a fronte di interessi legittimi se questi fossero stati presi in considerazione direttamente ed immediatamente dalla legge o in ragione della previsione di una disciplina necessariamente convenzionale dei rapporti (licenze edilizie attuative di convenzioni di lottizzazioni: poteri di gestione del personale disciplinati da fonti contrattuali) ovvero di una sicuramente diretta ed immediata protezione legislativa della quale mi appariva emblematica la possibilità riconosciuta al privato di operare in forza di silenzio-assenso in alternativa al provvedimento. Non consideravo invece necessario corollario della pariteticità l'azionabilità delle pretese nel termine di prescrizione ritenendo che la preminente esigenza di pienezza di tutela non comportasse necessariamente l'esclusione dell'impugnazione nel termine di decadenza: e ciò anche in ragione della compatibilità di diritti soggettivi e decadenza, come viene riconosciuto anche da qualche significativa decisione (39). La norma del comma 1-bis, nella lettura che se ne è ipotizzata, va a questo punto confrontata con l'assetto normativo preesistente nel quale si è inserita (40) ed in particolare con l'interpretazione che del potere amministrativo e della giurisdizione amministrativa ha dato la Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004. 4. La sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004, com'è noto, ha ritenuto estranee alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia del tutto assente ogni profilo riconducibile all'Amministrazione come autorità, riferendosi in particolare: a rapporti strettamente contrattuali (41); ad attività e prestazioni anche patrimoniali rese nei pubblici servizi (42); a comportamenti non riconducibili neanche mediatamente all'esercizio di un pubblico potere (43). Si tratta in particolare di vertenze nelle quali, a fronte di diritti soggettivi perfetti, l'Amministrazione si presenta nelle vesti di soggetto totalmente obbligato in base alla legge (44) o al contratto; oppure operante con la capacità di diritto privato; ovvero ancora come autore di comportamenti privi di qualsiasi rilievo (anche indirettamente) pubblico: in sintesi, come soggetto che non esercita alcun potere amministrativo e che non pone in essere né atti né comportamenti amministrativi. Il comma 1-bis, nella lettura proposta, essendo intervenuto dopo la sentenza della Corte costituzionale, viene a riconfermare l'esistenza di poteri e di atti non autoritativi e tuttavia riconducibili all'Amministrazione come soggetto pubblico, non potendo la norma (alla luce della sentenza n. 204) aver ricompreso nelle sue previsioni attività, quand'anche tradotte in atti, rientranti totalmente, secondo l'interpretazione (normativa) della Corte, nel diritto privato e nella relativa tutela; e al tempo stesso interpreta la sentenza nel senso di ricondurre all'Autorità anche l'esercizio di poteri amministrativi non autoritativi. In quest'ottica gli atti di natura non autoritativa di cui al comma 1-bis vanno ricercati in fattispecie nelle quali l'Amministrazione si confronta non già con diritti soggettivi perfetti inconciliabili in quanto tali con l'esercizio del potere amministrativo (45); bensì con diritti di diversa natura che possano coesistere con l'esercizio del potere amministrativo dal quale sono, in qualche modo, condizionati e incisi (46). Un potere che sebbene definito non autoritativo resta amministrativo ed espressione, ancorché finale e esecutiva, di autorità; così come restano amministrativi e rientrano nell'esercizio di un potere amministrativo i comportamenti riconducibili alla funzione amministrativa e che ne accompagnano l'esplicazione (47). Deve trattarsi peraltro di diritti che, parafrasando la Corte costituzionale, partecipino in un certo qual modo della natura dell'interesse legittimo (con la dignità sostanziale e la pienezza ed effettività di tutela che oggi lo contraddistinguono: come riconosce la Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004) e che implicano non già l'assenza di autorità in capo all'Amministrazione bensì la consumazione di tutta la libertà lasciata all'Amministrazione dalla legge e l'esercizio previo di tutti i poteri che la contraddistinguono con la sua trasformazione in esecuzione. In altri termini, deve trattarsi di diritti riconosciuti dalla legge ma la cui conformazione finale dipende, in base alla legge, dalla pubblica amministrazione come autorità. Diritti riconducibili a quello che è stato definito diritto soggettivo dell'ordinamento amministrativo (48); buon diritto (49) o anche, riproponendo antiche terminologie, diritto soggettivo amministrativo (50) o interesse legittimo finale: diritto minore se ci si colloca nell'ottica del solo potere, ma vero diritto dal punto di vista dell'amministrato-beneficiario (ed anche del terzo leso e della stessa Autorità rettamente intesa), in quanto relativo a un bene della vita e in questo consistente, scaturente da un potere che si è trasformato in servizio e in dovere: dovere di dare o di non sottrarre ciò che spetta e di non attribuire ciò che non spetta, realizzando contemporaneamente (con l'efficacia richiesta all'Amministrazione in questa fase storico-istituzionale) (51) la giustizia effettiva nell'Amministrazione anche come giustizia dell'Amministrazione. 5. Gli atti amministrativi di natura non autoritativa adottati da una pubblica amministrazione in quanto tale e regolati dal diritto privato ed incidenti su situazioni tutelate dalla norma in funzione della loro soddisfazione, ancorché attraverso il previo esercizio di poteri autoritativi, non costituiscono, alla luce del comma 1-bis, l'unica tipologia di atti non autoritativi. La norma contiene infatti il riconoscimento della possibile esistenza anche di atti non autoritativi retti dal diritto amministrativo come si ricava dall'ultima parte del comma (... salvo che la legge disponga diversamente) dalla cui interpretazione (con la conseguente ricerca dei segni di pubblicità) dipenderà (anche) l'estensione dell'ambito di operatività del diritto privato nell'adozione di atti amministrativi (52). Gli atti non autoritativi retti dal diritto privato vengono, in tal modo, a collocarsi, per così dire, ai confini tra ambito pubblico e ambito privato, presentandosi come anello di congiunzione e di passaggio tra i due campi. Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, vanno esclusi dall'ambito di rilevanza del comma 1-bis, in quanto attratti totalmente nel diritto privato e rimessi sicuramente alla cognizione del giudice ordinario, gli atti espressione di poteri privati (quali sono oggi gli atti di gestione del personale nel rapporto di impiego privatizzato) (53) e, come si è già detto, gli atti nei quali l'Amministrazione si presenta come mero obbligato (54) o assuma obbligazioni e acquisti diritti nell'esercizio della capacità di diritto privato (55) ovvero in cui formalizzi comportamenti posti in essere in carenza di qualsiasi potere pubblico: atti tutti estranei alla logica del comma 1-bis in quanto riferito ad atti amministrativi. Alla luce delle acquisizioni giurisprudenziali e dottrinali precedenti alle ultime novelle della l. n. 241 e con le limitazioni derivanti dalla sentenza n. 204 della Corte costituzionale e senza soffermarsi sul relativo regime (di diritto privato o di diritto amministrativo), l'attenzione va quindi portata alle fattispecie nelle quali la legge, pur tutelando direttamente ed immediatamente la posizione dell'amministrato in funzione della sua soddisfazione ed individuando un obbligo specifico in capo all'Amministrazione in correlazione con il diritto (in senso ampio) dell'amministrato medesimo, lasci tuttavia spazi più o meno ampi all'Amministrazione come autorità ai fini - per così dire - del completamento della fattispecie descritta dalla norma di legge, collocando l'atto non autoritativo all'esito dell'esercizio di tutti gli altri poteri amministrativi (di indirizzo, normativo, pianificatorio, programmatorio, di scelta politicoamministrativa, di opportunità, tecnica riservata) come atto esecutivo non solo rispetto alla legge ma anche rispetto alle precedenti decisioni dell'Amministrazione come autorità. In questa prospettiva la parola Autorità, dal latino auctoritas, emerge nella sua corrispondenza alla radice augeo che significa aumentare, aggiungere. Nell'esercizio dei suoi poteri autoritativi l'Amministrazione completa la fattispecie delineata dalla legge, integrandola con gli elementi già individuati dalla stessa legge quali presupposti per il riconoscimento e la soddisfazione del diritto del privato. Una volta completata la fattispecie (56) l'Amministrazione non ha altro da aggiungere se non il riconoscimento della spettanza (o della non spettanza) del bene che si realizza (o non si realizza) appunto attraverso l'atto non autoritativo. Si potrebbe dire (richiamando un mio recente studio su merito e discrezionalità nell'amministrazione di risultato) (57) che l'atto non autoritativo, considerato comunque manifestazione di volontà dotata di autonomia funzionale, è un provvedimento senza orpelli, ridotto al suo dispositivo e al suo oggetto, costituito dalla res (in senso ampio: cose, persone, attività) attribuita, autorizzata, concessa, ecc., ovvero non attribuita, non autorizzata, non concessa, ecc. Alla luce di tali premesse si possono individuare alcune possibili fattispecie di atti non autoritativi (riconducibili al comma 1-bis) espressione di potere amministrativo correlato con diritti amministrativi: A) Vi rientrano innanzitutto i tradizionali atti di gestione del personale non privatizzato, anche se il carattere spiccatamente pubblico dei rapporti sembra portare, allo stato della giurisprudenza, alla restrizione dell'ambito della non autoritarietà (58). B) In alcuni casi c'è stato per così dire un riconoscimento legislativo «postumo» del carattere non autoritativo di taluni atti amministrativi: b1) nel rapporto di impiego privatizzato, il passaggio alla giurisdizione del giudice ordinario delle relative controversie ha confermato la già acquisita non autoritarietà, nel precedente assetto, degli atti di gestione del personale, dei quali molti a carattere non vincolato (promozioni, sanzioni, note di qualifica, ecc.), anche se la privatizzazione totale mostra profili di incongruenza che emergono soprattutto in fase di esecuzione, come sembrano dimostrare vicende nelle quali, nonostante i poteri del giudice ordinario (59) viene richiesta al giudice amministrativo l'esecuzione di sentenze del giudice del lavoro (60); b2) anche l'art. 19 della l. n. 241 sembra contenere il riconoscimento implicito della già acquisita non autoritarietà degli atti ivi indicati (frutto dell'esercizio di mera potestà accertativa) avendone previsto la sostituzione con un atto negoziale di diritto privato (la Dichiarazione di Inizio Attività), ove ne ricorrano i presupposti. C) L'art. 19 della l. n. 241, contiene sotto altro profilo la diretta tutela della posizione del privato che assume carattere di situazione soggettiva finale e quindi di diritto soggettivo amministrativo laddove sia conformata dal privato nel rispetto dei requisiti e presupposti stabiliti dalla legge o da atti amministrativi, con diritto comunque alla conservazione di ciò che è conforme alla legge o da questa conformato: con conseguente possibile caratterizzazione non autoritativa dei poteri previsti dalla norma, riconducibili allo schema proprio dei poteri sanzionatori di diritto comune in quanto collegati alla sola insussistenza dei presupposti della DIA. Il riferimento contenuto nell'ultima versione dell'art. 19 all'esercizio dei poteri di autotutela non sembra possa riferirsi alla DIA in sé che non è atto amministrativo (61) bensì ai presupposti sui quali la DIA si fonda. D) In ragione della possibilità riconosciuta al privato (art. 22 t.u. edilizia) di autoconformare la propria situazione soggettiva con Denuncia di Inizio di Attività in alternativa al permesso di costruire - nelle ipotesi di interventi edilizi anche di nuova costruzione disciplinati da piani attuativi o da strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni planovolumetriche - deve ritenersi non autoritativo il permesso di costruire essendo previsto da una norma che tutela direttamente e immediatamente anche la posizione del privato in funzione della sua realizzazione, in uno schema normativo che individua il «diritto» del privato quale frutto (anche) dei poteri propri dell'autorità amministrativa nel campo urbanistico-edilizio (diritto del privato che presenta un progetto conforme totalmente al piano a realizzarlo con DIA o con permesso di costruire). E) Al novero degli atti non autoritativi possono essere ricondotti gli atti amministrativi che l'Amministrazione si sia impegnata ad emanare a seguito di un accordo pubblicistico con il privato, stipulato in base all'art. 11 della l. n. 241 compreso l'accordo negoziale avente valore di piano attuativo in campo urbanistico, ai quali il citato art. 22 del t.u. estende la possibilità di ricorrere alla DIA (con doppia riduzione dell'autoritatività: per la fonte consensuale e per la possibilità di ricorrere alla DIA). Anche in questa ipotesi è configurabile un «diritto» non soggettivo perché non scaturente direttamente solo da legge bensì anche dall'esercizio di autorità ed in particolare dall'esercizio della potestà amministrativa confluita nell'accordo che in sé non è ascrivibile al novero degli atti non autoritativi proprio per la libertà che ne è alla base (62). La situazione del privato, interesse legittimo a fronte del potere pianificatorio, diventa diritto a seguito del suo completo esercizio essendo tutelata direttamente ed immediatamente dalla norma di legge in funzione della sua soddisfazione e dall'accordo che concretizza la fattispecie descritta dall'art. 11 della l. n. 241. F) Diritti soggettivi amministrativi e corrispondenti poteri di natura non autoritativa si hanno nelle fattispecie relative alla liquidazione dell'indennizzo per revoca di provvedimento e recesso dall'accordo; ed anche alla determinazione dell'indennizzo in caso di recesso dall'accordo (cfr. in tal senso già A.M. Sandulli) (63). G) Al novero degli atti non autoritativi dovrebbero essere ricondotte (sebbene costituiscano atti limitativi della sfera giuridica dei privati: cfr. art. 21-bis, l. n. 241) le sanzioni pecuniarie dell'Autorità antitrust, accomunate alle ipotesi sopra indicate perché al completamento delle fattispecie concorre la stessa Autorità amministrativa che applica la sanzione e al tempo stesso per la operatività dei principi generali (64) in tema di sanzione con sottoposizione delle sanzioni a un sindacato di merito (65). H) Tutte le ipotesi fin qui esaminate rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo che, in questa ottica, si presenta, per espressa previsione legislativa, come giurisdizione relativa non già a diritti soggettivi bensì a diritti amministrativi, a diritti dell'ordinamento amministrativo o, se si vuole, a interessi legittimi finali conformati anche attraverso il completamento della fattispecie legislativa che già li individua come situazioni di diritto di immediata protezione e meritevoli di soddisfazione. La giurisdizione esclusiva si presenta quindi come segno dell'esistenza di un ambito di non autoritatività pur in mancanza di diritti soggettivi perfetti e quindi della possibile coesistenza di poteri non autoritativi e diritti compatibili con l'esercizio dei poteri, come del resto ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale ritenendo conformi alla Costituzione, come interpretata nella sentenza n. 204, alcune delle ipotesi sopra indicate (accordi, atti delle autorità amministrative indipendenti, ecc.). Non sono invece ricomprese espressamente dalla legge nella giurisdizione esclusiva le sovvenzioni pur considerate dalla dottrina non solo di recente (66) alla luce del comma 1-bis, ma anche in passato (67) appartenenti al novero degli atti non autoritativi, in quanto scaturenti da norme che tutelano direttamente anche la posizione dei destinatari. E alla tipologia degli atti non autoritativi potrebbero essere riportate le sovvenzioni che scaturiscono non solo dalla legge (in questa ipotesi si resterebbe infatti nell'ambito delle obbligazioni ex lege e dell'adempimento) (68) ma anche dall'esercizio dei poteri amministrativi di integrazione della fattispecie (69). In questa prospettiva mi è parsa emblematica una recente decisione (70) che, a fronte di un provvedimento di sovvenzione esecutivo - essendo stata la discrezionalità consumata a monte - ha ricondotto la questione alla giurisdizione esclusiva in materia di concessioni ex art. 5 l. Tar, facendo scaturire la giurisdizione esclusiva dal carattere non autoritativo dell'atto pur qualificato provvedimento (forse un possibile atto non autoritativo secondo il diritto amministrativo). 6.I. A questo punto già si potrebbero trarre conclusioni ed esprimere valutazioni sulla opportunità e sulla utilità del comma 1-bis che avrebbe riattualizzato un istituto, quello degli atti non autoritativi, sorto per esigenze primarie di giustizia (71) che sembrerebbero già garantite non solo nella giurisdizione esclusiva (alla quale tali atti quasi totalmente appartengono) ma anche nel giudizio di impugnazione per le profonde trasformazioni verificatesi nel corso degli ultimi decenni, formalizzate ed accentuate dalla l. n. 205 del 2000 (accertamento del fatto, sindacabilità della tecnica, immediatezza della tutela, rimedi risarcitori con tendenziale prevalenza di quelli reintegratori) e che sembrano destinate ad accentuarsi ulteriormente dopo le riforme della l. n. 241 (ed in particolare delle sue nuove norme di rilievo processuale: pronuncia sulla fondatezza della pretesa in caso di silenzio e verifica della non infondatezza previa all'annullamento). Ed ancora, ci si potrebbe già interrogare sia sull'utilità della norma nella parte in cui ha richiamato, per gli atti non autoritativi, il diritto privato, la cui applicazione, sub specie di principi di diritto comune, già era riconosciuta dalla dottrina (72) e dalla giurisprudenza; sia sulla sua opportunità per gli effetti negativi che, da una sua lettura per così dire radicale, potrebbero derivare quanto alla tutela dei terzi e dello stesso destinatario dell'atto (a fronte della libertà privatistica) e, ancor di più, rispetto alla funzionalizzazione dell'attività amministrativa all'interesse pubblico. Ma ritengo opportuno procedere nella lettura della norma in coerenza con l'impostazione per così dire applicativa prescelta, per coglierne le implicazioni soprattutto di ordine processuale quanto alla titolarità della giurisdizione (73) e quanto alla intensità della tutela, nella consapevolezza che l'obiettivo della tutela piena, completa e finale (conseguibile a fronte di atti non autoritativi) non si ritiene ancora conseguito pienamente nel giudizio di impugnazione (74), al quale vengono ricondotti al di là della loro natura l'assoluta maggioranza degli atti amministrativi. II. Il legislatore, attraverso il comma 1-bis, ha voluto che la pubblica amministrazione nell'adozione degli atti di natura non autoritativa agisca secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente. In tal modo, gli atti di natura non autoritativa sono stati attratti nell'ambito del diritto privato con l'applicazione necessaria e diretta non già dei soli principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, in quanto compatibili com'è previsto dall'art. 11, comma 2 della stessa l. n. 241 per gli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti, bensì delle norme di diritto privato in generale e quindi delle norme del codice civile rapportate al carattere unilaterale degli atti non autoritativi. E il codice civile, all'art. 1324, stabilisce che: Salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano in quanto compatibili per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. L'assenza di riferimenti nel comma 1-bis al contenuto patrimoniale degli atti sembra comportare l'applicazione a tutti gli atti di natura non autoritativa adottati dalla pubblica amministrazione delle norme che regolano i contratti, vale a dire delle norme contenute nel libro quarto, titolo II del codice civile, ove compatibili con la natura degli atti unilaterali. Tra le norme compatibili di particolare rilievo vanno segnalate le norme che individuano l'oggetto tra gli elementi del contratto e quindi dell'atto unilaterale (art. 1325 c.c.); la norma che stabilisce che l'oggetto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346 c.c.), con particolare riguardo alla possibilità, intesa in senso sia materiale che giuridico; le norme che sanciscono la nullità del contratto e quindi dell'atto unilaterale non solo per mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325 c.c. (tra i quali l'oggetto) ma anche per mancanza, nell'oggetto, dei requisiti stabiliti dall'art. 1346 c.c., vale a dire possibilità, determinatezza, liceità (art. 1418 c.c.); la norma sulla nullità parziale (art. 1419 c.c.); la norma che conferisce la legittimazione all'azione di nullità del contratto e quindi anche dell'atto unilaterale a chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.) e pertanto potenzialmente anche al terzo portatore di un interesse di rilievo giuridico; la norma sulla rilevabilità d'ufficio da parte del giudice della nullità dell'atto (art. 1421 c.c.); la norma sull'imprescrittibilità dell'azione di nullità (art. 1422 c.c.). Sotto altro profilo, la rilevata componente obbligatoria degli atti non autoritativi consente di applicare ad essi e ai relativi comportamenti le norme sull'adempimento delle obbligazioni; sull'inadempimento, sulla coercibilità degli obblighi e sulle relative azioni (artt. 1176 c.c. ss.; art. 1218 c.c. ss.; artt. 2930 c.c. ss. art. 2907 c.c.); oltre ai canoni generali di correttezza e buona fede che informano l'ordinamento privatistico e che la giurisprudenza ha individuato come canoni di comportamento vincolanti per i titolari dei poteri privati paritari o espressione di posizione di supremazia, quali sono quelli dei datori di lavoro privati (75). Il quadro normativo sommariamente e solo parzialmente delineato lascia intravedere la (almeno astratta) possibilità di assicurare, anche col diritto privato, la tutela di tutte le posizioni coinvolte nell'adozione (o nella mancata adozione intesa quale possibile inadempimento di obblighi) di atti di natura non autoritativa, compresa quella dei terzi che invece si ritiene prevalentemente compromessa dal diritto privato tanto da far ricercare, anche dai suoi fautori (76), mitigazioni alla integrale operatività della logica privatistica attraverso l'applicazione di principi pubblicistici. Ritengo pertanto che si debba concordare con chi afferma: Quando usa il diritto dei privati, l'amministrazione non accampa poteri né subisce vincoli diversi da quelli dei privati e Che l'applicazione delle regole procedurali che valgono per l'attività amministrativa sia da escludere per l'attività che si svolge nelle forme del diritto privato dovrebbe essere fuor di dubbio(77). E ritengo che si debba rispondere negativamente al dilemma se gli adattamenti che dovrebbero garantire l'imparzialità e la tutela del terzo siano compatibili con la collocazione nel diritto privato di quell'attività amministrativa o non rappresenterebbero invece la riemersione degli elementi qualificanti del diritto amministrativo(78). La collocazione dell'attività amministrativa nel diritto privato impone di ricercare all'interno di questo gli spazi per soddisfare le insopprimibili esigenze di perseguimento di fini pubblici e di giustizia. E pertanto non sembra possibile nel diritto privato parlare di imparzialità (79); né di diretta operatività del principio di legalità (80) ancorché funzionaliticamente inteso (81); e neanche di eguaglianza come norma-principio operante anche nei rapporti privatistici (82), come ha confermato la giurisprudenza nel campo del lavoro privato che, dopo qualche apertura, ne ha negato l'operatività, facendo invece leva, per il controllo dei poteri privati, sulle norme relative all'interpretazione dei contratti e sui canoni di corretezza e buona fede (83). Ritengo invece che il comportamento dell'Amministrazione vada sottoposto al diritto privato tenendo conto del Soggetto e del suo Statuto, dello statuto di una persona giuridica pubblica operante nell'ordinamento privatistico, definito dalla Costituzione e dalla legge ordinaria (84) con lo scopo fondamentale (85) che la contraddistingue e che ne evidenzia la funzione ma ne limita l'azione (o meglio rende indefettibile ciò che per altri soggetti sarebbe solo doveroso): assicurare alle persone, alle formazioni sociali e alle comunità i beni e servizi dovuti garantendo effettivamente i diritti (art. 2 Cost.), rimuovendo gli ostacoli (art. 3 Cost.) operando con giustizia (art. 100 Cost.) con efficacia ed economicità (valori nei quali si sostanziano nella nuova dimensione ordinamentale l'imparzialità e il buon andamento: art. 97 Cost.), dando a ciascuno ciò che spetta e al tempo stesso non attribuendo ciò che non spetta. In questa prospettiva appare riconducibile al giuridicamente impossibile per l'Amministrazione l'attribuzione di ciò che non spetta o il dare più di quello che spetta non ab externo, applicando cioè agli atti di diritto privato norme e principi di diritto pubblico, bensì ab intra, alla luce del suo Statuto e quindi guardando a ciò che essa può fare e a ciò che non può fare. Impossibilità suscettibile di tradursi, alla luce del combinato disposto dagli artt. 1346, 1418 o 1419 c.c., per la carenza di uno dei requisiti essenziali dell'atto, in impossibilità giuridica appunto e, di conseguenza, in nullità totale o parziale dell'atto che attribuisce un bene non dovuto o lo attribuisce in quantità maggiore del dovuto. E l'azione di nullità potrebbe essere proposta dal controinteressato, portatore di un interesse giuridico, sicuramente rientrante in quanto tale nel chiunque vi abbia interessi di cui all'art. 1421 c.c. Si pensi a un permesso di costruire o a una sovvenzione qualora ricompresi nella categoria degli atti non autoritativi, come ipotizzato (86). La realizzazione di un edificio non consentito dal Piano Regolatore o con un piano in più di quelli ammessi costituirebbe oggetto (totalmente o parzialmente) impossibile del permesso di costruire rendendolo suscettibile di declaratoria di nullità. E così la sovvenzione che attribuisse somme non dovute o superiori al dovuto, alla luce dei criteri stabiliti dalla legge e integrati dall'Amministrazione. Il diretto interessato, a fronte di poteri non autoritativi, potrebbe naturalmente far valere il suo diritto, nei limiti della spettanza, attraverso azioni di accertamento, di adempimento e di condanna. La pubblica amministrazione verrebbe al tempo stesso liberata dai vincoli formali (procedimentali, motivazionali, partecipativi) e dal connesso rischio di veder annullati i propri atti anche quando abbia deliberato risultati conformi a legge sul piano sostanziale; e contemporaneamente sottoposta a vincoli sostanziali (dare ciò che spetta, non attribuire ciò che non spetta, ecc.), con il conseguente venir meno di quello che è stato individuato come l'ultimo privilegio derivante dall'autoritatività/imperatività, vale a dire la difficoltà per i privati portatori di pretese fondate di conseguire il bene spettante (87). 7. Le implicazioni sostanziali e processuali relative agli atti non autoritativi derivanti dall'interpretazione del comma 1bis e delle norme del codice civile da esso richiamate nonché dalla interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria antecedente all'entrata in vigore della l. n. 15 del 2005 - compresa quella della giurisdizione esclusiva offerta dalla Corte costituzionale - vanno a questo punto, anche se brevemente, confrontate con le altre norme introdotte dalla stessa l. n. 15. In particolare la l. n. 15 attraverso la moltiplicazione del suo art. 21 ha fatto della l. n. 241 anche una legge sul provvedimento amministrativo (F. Francario) attribuendo a questo talune caratteristiche non dissimili da quelle proprie degli atti negoziali, ad es. sancendo (art. 21-septies) la rilevanza dei suoi elementi essenziali (cfr. art. 1325 c.c.) e collegando alla loro mancanza la nullità (cfr. art. 1418 c.c.). Sotto altro profilo la medesima l. n. 15 ha introdotto il principio almeno tendenziale della irrilevanza dei vizi formali attenuando comunque il rilievo delle formalità (art. 21-octies). Confrontando la disciplina dell'atto non autoritativo emergente dal rinvio alle norme del diritto privato contenuto nel comma 1-bis con quella del provvedimento contenuta negli artt. 21-bis ss. della l. n. 241, si potrebbe affermare che il primo realizza appieno tutte le esigenze sottostanti alla disciplina del provvedimento. Nell'atto non autoritativo c'è sicura libertà delle forme, non c'è procedimento, non c'è obbligo di motivazione, c'è logica di risultato; la nullità (prevista a proposito del provvedimento per la mancanza degli elementi essenziali) potrebbe operare negli atti non autoritativi in tutta la sua estensione, essendo riferibile, in assenza di limitazioni, anche alla mancanza nell'oggetto dei requisiti della liceità, della determinatezza e della possibilità. Inoltre il potere non autoritativo, proprio in quanto retto nel suo esercizio dal diritto privato, può agevolmente convertirsi in un contratto senza che lo stesso debba essere accompagnato da alcuna determinazione previa com'è invece previsto dalla nuova disciplina dell'accordo (art. 11, comma 4-bis), per corrispondere a dichiarate esigenze di imparzialità e di buon andamento. Ed in effetti, pur avendo l'interpretazione proposta preso le mosse dal riferimento testuale del comma 1-bis agli atti piuttosto che ai contratti, essa ben può portare alla legittimazione del contratto che verrebbe a formalizzare gli effetti bilaterali dell'atto unilaterale o a sostituirsi ad esso con applicazione diretta delle norme del codice civile sopra richiamate che al contratto direttamente e prioritariamente si riferiscono. L'atto non autoritativo, oltre che delle esigenze di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, consente altresì la realizzazione delle esigenze di pienezza e completezza della tutela diffusamente avvertire e solo in parte recepite dalla giurisprudenza (88) per la mancanza di una tutela esaustiva e finale (89) delle posizioni di interesse legittimo soprattutto di carattere pretensivo, non sussistendo ostacoli alla proponibilità di azioni di accertamento, di adempimento e di condanna anche in assenza di un provvedimento, come la dottrina ha da tempo segnalato (90). L'atto non autoritativo di diritto privato, come pure si è visto, potrebbe inoltre non escludere ed anzi potenziare la tutela del terzo: questo, a fronte dell'indebita attribuzione di beni ai beneficiari, sembra avere infatti la possibilità di proporre l'azione di nullità per impossibilità dell'oggetto, con esposizione del beneficiario dell'indebito ad una azione idonea a colpire l'atto nel suo risultato qualora giuridicamente impossibile. E ciò ovviamente varrebbe anche ove l'atto fosse accompagnato o sostituito dal contratto. Rispetto all'attività non autoritativa, infine, potrebbe prospettarsi la configurabilità di obblighi di negoziazione e di rinegoziazione (anche in riferimento agli artt. 2957 e 2958 c.c.) in conformità con le interpretazioni di recente offerte al fenomeno della dottrina privatistica (91). In particolare, a fronte di poteri non autoritativi e quindi di obblighi di comportamento, potrebbe configurarsi come doverosa la presa in considerazione di una proposta di accordo (come ha di recente riconosciuto il Consiglio di Stato (92) in relazione a rapporti tra enti pubblici, vale a dire tra soggetti pariordinati). 8. Ma la ipotizzata disciplina sostanziale e processuale degli atti non autoritativi va confrontata altresì con le ulteriori modifiche alla l. n. 241 introdotte dalla l. n. 80 del 14 maggio 2005 a completamento di quelle già realizzate dalla l. n. 15. In particolare va rilevato che la l. n. 80 ha aggiunto - alla già riconosciuta impugnabilità del silenzio su istanza, senza previa diffida, ben al di là del termine breve di decadenza previsto per i provvedimenti e alla qualificazione del silenzio come inadempimento (l. n. 15 del 2005) - l'attribuzione al giudice amministrativo del potere di conoscere della fondatezza dell'istanza nei procedimenti a istanza di parte (93). Orbene, in tal modo il legislatore ha riconosciuto (almeno potenzialmente) a tutti gli interessi pretensivi il trattamento processuale che si è visto proprio delle situazioni interferenti con poteri non autoritativi avviando, se non addirittura sancendo, il riconoscimento della non autoritarietà di tutti gli atti conseguenti a istanza di parte, almeno di quelli derivanti dall'esplicazione di attività vincolata, rendendo praticabili quelle interpretazioni (fino ad oggi ritenute non compatibili col sistema) che correlavano vincolatività a diritto (94) intendendo per diritto il diritto soggettivo (dell'ordinamento) amministrativo. Se si tiene conto poi dell'accentuazione della deprovvedimentalizzazione realizzata dalla l. n. 80 del 2005 in ragione dell'estensione del silenzio-assenso (che implica diretta considerazione e tutela ad opera della legge della posizione del privato, realizzabile anche senza provvedimento) e della già sancita estensione della DIA, si dovrà prendere atto della concretizzazione delle condizioni che autorevole dottrina (95) ha da tempo segnalato quale sintomi di un processo teso all'eliminazione dell'autoritatività: condizioni individuate appunto nelle tecniche della dichiarazione di inizio attività, del silenzio-assenso e della deregolazione. Se infine si considera l'alto grado di tutela accordato dalla giurisprudenza amministrativa, anche sotto la spinta del diritto europeo, alle situazioni soggettive incise sfavorevolmente dal provvedimento amministrativo (96), tanto da far affermare che i poteri che incidono sugli interessi dei privati non sono diversi da quelli di cui sono titolari altri soggetti pubblici e privati, anzi sono molto più limitati e controllati(97) si potrebbe arrivare anche a sostenere che - con l'eliminazione dell'ultimo privilegio dell'amministrazione (quello relativo a posizioni pretensive) conseguente alla possibilità riconosciuta al giudice amministrativo di pronunciare sulla fondatezza dell'istanza, a seguito di azione proponibile entro un lungo termine - è definitivamente venuta meno l'autoritatività dei poteri amministrativi e degli atti incidenti ancorché unilateralmente su situazioni giuridiche soggettive: situazioni tutte definibili in termini di diritti amministrativi (98). L'autoritarietà contraddistinguerebbe i soli poteri di indirizzo politico-amministrativo: gli atti nei quali essi si manifestano (v. artt. 4 e 14, d.lgs. n. 165 del 2001) e, ancor di più, i comportamenti formali e informali espressi e inespressi in cui si concretizzano, vale a dire atti e comportamenti che, almeno sul piano formale, non incidono direttamente e concretamente sulle situazioni soggettive degli amministrati. Ma anche su questi poteri e comportamenti non potrebbe non produrre effetti la possibile caratterizzazione in termini di diritti (amministrativi) delle posizioni coinvolte (si pensi alle posizioni c.d. consolidate previe rispetto all'esercizio del potere di pianificazione urbanistica in cui essa si concretizza). L'altra manifestazione di autoritarietà potrebbe essere costituita dagli atti di autotutela: sulla cui disciplina egualmente non potrebbe non ripercuotersi la caratterizzazione delle situazioni interferenti con l'esercizio di poteri non autoritativi ancor più se soddisfatte, in termini di diritti amministrativi quantomeno da indennizzare (nella revoca: art. 21-quinques) e da non sacrificare necessariamente ex tunc (v. art. 21-nonies), con conseguente possibilità di apprezzare la legittimità e l'entità del sacrificio almeno ai fini dell'indennizzo (revoca) o della decorrenza degli effetti negativi (annullamento). Poteri di autotutela la cui astratta titolarità non potrebbe privare, sotto altro profilo, le situazioni soggettive, nei rapporti con poteri di amministrazione per così dire ordinaria, del loro possibile carattere di diritto (99). E ciò senza considerare i limiti che derivano non solo all'esercizio ma alla stessa titolarità dei poteri di autotutela dalla qualificazione degli atti come di diritto privato e, ancor di più, dalla loro sostituzione con contratti (atti aventi forza di legge tra le parti: art. 1372 c.c.) eliminabili in quanto tali solo a seguito di azioni giudiziarie. 9. Osservando la giurisprudenza formatasi dopo le novelle alla l. n. 241 si avvertono segni abbastanza evidenti di una accentuazione della trasformazione del giudizio amministrativo di legittimità in termini spiccatamente sostanziali e finalistici (100). Trasformazioni già da anni in corso (pieno accertamento del fatto; (101) sindacabilità, almeno potenziale, delle decisioni tecniche; rimedi risarcitori, con prevalenza di quelli reintegratori) (102) e che sta portando la giurisprudenza a qualificare il giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto (103); di accertamento della fondatezza della pretesa (104) e addirittura di merito come si afferma in una recentissima decisione (105) in riferimento al giudizio su silenzio ex art. 2, l. n. 241 novellata e art. 21-bis l. Tar. Inoltre, alle pretese al rilascio di permessi di costruire viene riconosciuta una tutela potenzialmente finale sia in giudizi di merito (106) sia in sede cautelare (con ordinanza che ha disposto il rilascio della concessione edilizia in fase di esecuzione di sospensiva (107) ovvero con ordinanza di sospensione di sentenza di rigetto di ricorso avverso diniego di permesso di costruire) (108) come peraltro riconosciuto fin dall'inizio degli anni '80 del secolo scorso dalla giurisprudenza sulla sospendibilità degli atti negativi (109). In questo contesto la norma sugli atti non autoritativi e il diritto privato potrebbe risultare effettivamente inutile (come ha sostenuto Aristide Police) (110): nel senso che i vantaggi della privatizzazione potrebbero essere assicurati pienamente dal giudice amministrativo, riportandoli nell'ambito del diritto amministrativo e negli schemi (ampi) del giudizio amministrativo, in ragione della piena tutelabilità dei diritti (ove fondati) e della possibilità di conseguire risultati giusti ed efficaci, per così dire con una saldatura delle esigenze sottostanti all'art. 2 della l. n. 241 (pronuncia sulla fondatezza dell'istanza) con quelle proprie dell'art. 21-octies (limiti dell'annullabilità) e quindi dando soddisfazione alle pretese fondate non solo rispetto al silenzio ma anche in presenza di atti; e rigettando quelle infondate non solo in presenza di atti ma anche rispetto al silenzio, senza sancire ambigui obblighi di provvedere: pervenendo quindi - ove possibile - all'accertamento della fondatezza (o dell'infondatezza) delle pretese. In altri termini, il comma 1-bis sarebbe inutile se il giudice amministrativo portasse avanti la trasformazione del giudizio amministrativo per assicurare una tutela piena ed effettiva ai diritti dell'ordinamento amministrativo, già interessi legittimi, in piena conformità con l'esigenza costituzionale di giustizia nell'Amministrazione che implica, anche per gli interessi legittimi - diritti dell'ordinamento amministrativo (111) o se si vuole diritti amministrativi dell'ordinamento generale (112) - la piena soddisfazione attraverso il conseguimento del bene sperato (art. 2 Cost.), la rimozione degli ostacoli a tale conseguimento (art. 3 Cost.) e l'adempimento dei doveri e degli obblighi che a tali diritti a vario titolo si correlano. In questa prospettiva, gli atti non autoritativi, secondo il diritto privato, di cui parla il comma 1-bis non possono che essere ricompresi nella giurisdizione amministrativa in quanto atti espressione di potere amministrativo ancorché non autoritativo, incidenti su diritti che partecipano della natura di interessi legittimi. Giurisdizione amministrativa piena ma non più esclusiva (113) quanto ai diritti soggettivi a fronte dei quali non vi è alcun potere amministrativo. E giurisdizione piena ed esclusiva rispetto ai diritti amministrativi con applicazione del diritto privato o del diritto amministrativo a seconda delle opzioni (normative) del giudice amministrativo, con la realizzazione in entrambe le ipotesi di una giustizia piena ed effettiva e con la salvaguardia dell'interesse pubblico alla conservazione e alla realizzazione di risultati validi, legittimi e giusti (114) e dell'interesse alla stabilità dei rapporti giuridici. Se al contrario dovessero prevalere interpretazioni che mirano ad un ridimensionamento della pienezza ed effettività della tutela, non identificata con il conseguimento del bene della vita (115) o al ritorno ad una tutela formale sospettando di incostituzionalità quella finale (116) per la conservazione di un sistema amministrativo non più rispondente ai tratti essenziali tracciati dall'evoluzione ordinamentale, allora la norma del comma 1-bis potrebbe acquistare rilevanza in termini anche potenzialmente negativi (117). Se infatti in presenza di una diffusa domanda di giustizia effettiva e finale e di risultati sociali concreti (corrispondente ad esigenze istituzionali profonde), la risposta, sul fronte del diritto e della giustizia amministrativi, non fosse di pari natura ma si caratterizzasse in termini conformi alla vecchia organizzazione formale del potere nella quale, tra l'altro, l'elemento politico era confuso con quello amministrativo, tale domanda potrebbe finire per rivolgersi al giudice ordinario (118), legittimato dal riferimento al diritto privato del comma 1-bis, per cultura meglio attrezzato a soddisfare i diritti in termini prioritariamente risarcitori e a distanza nel tempo. A differenza del giudice amministrativo, che può farlo in termini finali, tempestivamente ed efficacemente perchè è il giudice naturale dei diritti amministrativi, già interessi legittimi che (svelando la loro natura di forma di protezione di diritti fondamentali) (119) si presentano come situazioni di necessaria soddisfazione nei termini ad essi propri, cioè come conseguimento effettivo e tempestivo dei beni della vita spettanti, alla cui attribuzione è tenuta l'Amministrazione nella sua dimensione di servizio. Le esigenze di autonomia dell'amministrazione potranno essere assicurate pertanto non già rinunciando a definire la spettanza del bene, bensì accertandola sempre ove sia possibile (e quasi sempre lo è (120), anche se a volte con difficoltà) e lasciando all'amministrazione, se necessario e opportuno, la facoltà di scelta tra attribuzione e risarcimento, dando priorità alla giustizia effettiva e finale: che ha un valore ordinamentale e sociale sicuramente più alto di quella meramente risarcitoria e monetaria di cui beneficia il singolo individuo che percepisce il risarcimento (peraltro a distanza di tempo e in misura normalmente ridotta, ad es. corrispondente all'utile d'impresa) mentre della giustizia effettiva possono beneficiare tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nell'iniziativa originariamente impedita (imprese, lavoratori, ecc.) e la comunità nella quale l'iniziativa si inserisce, per la rilevanza sociale del lavoro e della produzione di beni e servizi. NOTE (*) Questo lavoro costituisce la rielaborazione della relazione tenuta al convegno La nuova disciplina dell'attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, tenutosi a Caserta il 20 maggio 2005 e in corso di pubblicazione nei relativi atti in una versione più ridotta e senza le note. (1) A. ROMANO TASSONE, Prime osservazioni sulla legge di riforma della l. n. 241 del 1990, in www.giustamm.it. (2) Art. 12 delle Disposizioni della legge in generale: cc.dd. Preleggi. (3) M.A. SANDULLI, Introduzione al tema all'incontro di studio Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela cautelare ante causam e confini della giurisdizione esclusiva, in Foro amm.-Tar, supp. n. 12/04. (4) N. LONGOBARDI, La legge n. 15/2005 di riforma della legge n. 241 del 1990. Una prima valutazione, in www.giustamm.it. (5) F. SATTA, La riforma della l. n. 241/1990: dubbi e perplessità, in www.giustamm.it. (6) M.A. SANDULLI, op. cit. (7) V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa, Astrid Rassegna n. 4/2005. (8) G. NAPOLITANO, L'attività amministrativa e il diritto privato, in Giorn. dir. amm., Ipsoa, 5/2005. (9) B.G. MATTARELLA, Il provvedimento amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2005. (10) Art. 10 delle Preleggi. (11) V. CERULLI IRELLI, op. cit.; F. FRANCARIO, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche ed integrazioni recate dalla l. n. 15 del 2005 alla l. n. 241 del 1990), in www.giustamm.it; G. NAPOLITANO, op. cit.; F. SATTA, op. cit. (12) V. CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 2003. (13) V. CERULLI IRELLI, op. cit. (14) F. MERUSI, Il diritto privato della pubblica amministrazione alla luce degli studi di Salvatore Romano, in Dir. amm., 4/2004; M.A. SANDULLI, op. cit. (15) Richiamata invece espressamente dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001. (16) V. aggiunta alla lettera e) dell'art. 6 e art. 10-bis della l. n. 241. (17) Cons. Stato, Sez. V, 1º dicembre 1939, n. 795; Ad. plen., 15 marzo 1940, nn. 4, 5 e 6; Ad. plen., 26 ottobre 1979, n. 25. (18) A. QUARTULLI, Atti autoritativi e atti paritetici: validità di una distinzione, in Studi per il Centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, vol. III; R. IANNOTTA, La nuova giurisdizione esclusiva sui servizi pubblici, in Foro amm.-Tar, supp. al n. 12/2005. (19) S. FAGIOLARI, L'atto amministrativo nella giustizia amministrativa, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Padova, 1943, 2. (20) M.S. GIANNINI, Gli atti amministrativi di adempimento, 1945, in Scritti (1939-1948), Milano, 2002. (21) L. IANNOTTA, Atti non autoritativi ed interessi legittimi, Napoli, 1984. (22) A.M. SANDULLI, Manuale di Diritto Amministrativo, Napoli, 1974; e in continuità, L. IANNOTTA, op. cit. (23) Cfr. Cons. Stato, Ad. plen. n. 25 del 1979. (24) F.G. SCOCA, Autorità e consenso, in Autorità e consenso nell'attività amministrativa, Milano, 2002. (25) M.S. GIANNINI, op. cit. (26) A.M. SANDULLI, op. cit. (27) F. MERUSI, op. cit., in riferimento a S. ROMANO. (28) R. VILLATA, L'atto amministrativo, in L. MAZZAROLLI. G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA, Diritto Amministrativo, Monduzzi, Bologna, 2005; F.G. SCOCA, op. cit. (29) D.lgs. n. 165 del 2001. (30) F.G. SCOCA, op. cit.; F. PUGLIESE, Scritti recenti sull'amministrazione «consensuale»: nuove regole, nuova responsabilità, Napoli, 1996. (31) M.S. GIANNINI, op. cit. (32) Cons. Stato, Ad. plen. n. 25 del 1979. (33) L. IANNOTTA, Atti non autoritativi, cit.; V. DOMENICHELLI, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988; A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. II, Padova, 2001. (34) L. IANNOTTA, Atti non autoritativi, cit. (35) M.S. GIANNINI, Gli atti amministrativi, cit. (36) G. CORSO, Manuale di Diritto Amministrativo, Torino, 2004. (37) D. SORACE e C. MARZUOLI, Concessioni amministrative, in Dig. disc. pubbl., vol. III, 1989. (38) B.G. MATTARELLA, L'imperatività del provvedimento amministrativo, Padova, 2000. (39) In tal senso v. di recente Cons. Stato, Sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2954. (40) Art. 11 delle Preleggi. (41) Art. 33, comma 2, lett. b, d.lgs. n. 80 del 1998. (42) Art. 33, comma 2, lett. e, d.lgs. n. 80 del 1998. (43) Art. 34, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998. (44) D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2005. (45) E. FOLLIERI, La giurisdizione del giudice amministrativo a seguito della sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204 e dell'art. 21-octies della l. 7 agosto 1990 n. 241, in www.giustamm.it; A. POLICE, La giurisdizione sulle controversie in materia di urbanistica ed edilizia torna all'antico, in Foro amm.-Tar, supp. al n. 12/04; F.G. SCOCA, Giurisdizione amministrativa e risarcimento del danno nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, in Foro amm.-Tar, supp. al n. 12/04, interpretano la sentenza della Corte costituzionale come sostanziale soppressione della giurisdizione esclusiva con il ritorno dal giudizio amministrativo al giudizio su interessi legittimi, dotati anche di una loro peculiare tutela risarcitoria diversa da quella accordata dal giudice ordinario agli interessi legittimi: E. FOLLIERI, Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, 2 dicembre 2005, Avezzano, L'Aquila. Tutela risarcitoria peculiare che sembra particolarmente adeguata ai diritti amministrativi. Per una diversa lettura della sentenza n. 204 del 2004 v. L. MAZZAROLLI, Sui caratteri e i limiti della giurisdizione esclusiva: la Corte costituzionale ne ridisegna l'ambito; v. anche Tar Sicilia-Catania, II, 2 febbraio 2005, n. 175. (46) C. DELLE DONNE, Passato e futuro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella sentenza della Consulta n. 204 del 2004: il ritorno al nodo gordiano diritti-interessi, in Giust. civ., 2004, parte I. La necessaria inerenza della controversia ad una situazione di potere quale elemento giustificativo della giurisdizione esclusiva è affermata da A. TRAVI, La giurisdizione esclusiva prevista dagli artt. 33 e 34 d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in Foro it., I, 2004. Di necessario collegamento delle controversie al farsi del potere e quindi alla lesione di interessi legittimi parla F. FRACCHIA, La parabola del potere di disporre il risarcimento: dalla giurisdizione «esclusiva» alla giurisdizione del giudice amministrativo, in Foro it., I, 2004. (47) Cons. Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7, sul ritardo nel rilascio del permesso di costruire; Ad. plen., 5 settembre 2005, n. 6, sui comportamenti antecedenti alla stipula del contratto; Ad. plen., 16 novembre 2005, n. 9, sulle condotte attuative di atti amministrativi pur riconosciuti ex post illegittimi; v. anche Corte cost., 11 maggio 2006, n. 191 che - interpretando la 204 del 2004 riconduce al diritto amministrativo e alla giurisdizione amministrativa i comportamenti collegati all'esercizio di un potere amministrativo. (48) A. ROMANO, Interesse legittimo e ordinamento amministrativo, in Atti del 150º anniversario del Consiglio di Stato, Milano, 1983. (49) L. IANNOTTA, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998. (50) A. KLITSCHE DE LAGRANGE, ricordato da M. TIBERII, La nullità e l'illecito contributo di diritto amministrativo, Napoli, 2003; F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo (1911), Ristampa, Padova, 1960, p. 306 ss. (51) L. IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica amministrazione: dagli interessi ai beni, in questa Rivista, 1999. (52) B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, cit. (53) Cfr. Cass., Sez. un., ord. 8 novembre 2005, n. 21593, che definisce espressamente non autoritativo il conferimento di un incarico di direzione, v. su un piano generale Cass., Sez. un., 24 febbraio 2000, n. 41, in Giornale di diritto amministrativo, 2001, p. 805 ss. che riconduce i cc.dd. interessi legittimi di diritto privato all'ampia categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c. (54) Cfr. Tar Lazio-Roma, Sez. II, 4 giugno 2005, n. 3366, in materia di sovvenzioni previste da legge a presupposti totalmente vincolati. (55) Pagamento di prestazioni rese dal gestore in base al contratto di servizio: Corte cost. n. 204 del 2004. (56) F.G. SCOCA, Autorità e consenso, cit. (57) L. IANNOTTA, Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l'arte di amministrare), in Dir. proc. amm., 2005. (58) Tar Lazio, Sez. I-quater, 13 marzo 2005, n. 3746; cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2005, n. 2044. (59) Art. 68, d.lgs. n. 80 del 1998. (60) V. Tar Marche, 19 settembre 2003, n. 453; v. pure Cons. Stato, Sez. V, 23 agosto 2005, n. 4386, anche se relativo a vicenda non recente sulla rilevanza pubblica del potere organizzatorio. (61) Ma v. in contrario Tar Pescara, 1º settembre 2005, n. 494. (62) Cons. Stato, Sez. VI, 14 settembre 2005, n. 4735, che afferma il carattere autoritativo della cessione volontaria di un bene in un procedimento espropriativo. (63) A.M. SANDULLI, Manuale, cit. (64) M. RAMAJOLI, Giurisdizione e sindacato sulle sanzioni pecuniarie antitrust dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004, in Dir. proc. amm., 2005. (65) Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2004, n. 926. (66) V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto, cit. (67) V. SPAGNUOLO VIGORITA, Problemi Giuridici dell'ausilio finanziario pubblico a privati (Ed. Giannini) Napoli, 1964. (68) Cfr. Tar Lazio, Sez. II, n. 3366 del 2005, cit. (69) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2871; e sulla tematica generale v. A. POLICE, La prederminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell'esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1998. (70) Tar Sicilia, Sez. I, 17 giugno 2005, n. 1032. (71) M.S. GIANNINI, Gli atti, cit. (72) M. NIGRO, Ma che cos'è questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it., 1987, V. (73) M.A. SANDULLI, Introduzione, cit. (74) F.G. SCOCA, Conclusioni, al Convegno su Riforma della l. n. 241 del 1990 e processo amministrativo, in Foro amm.-Tar, supp. 6/2005; M CLARICH, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2005. (75) L. IANNOTTA, Atti non autoritativi, cit.; Cass., Sez. I, 4 maggio 1994, n. 4323 e 20 aprile 1994, n. 3775. (76) V. CERULLI IRELLI, op. cit. (77) F. TRIMARCHI BANFI, L'art. 1 comma 1-bis della l. n. 241 del 1990, in Foro amm.-Cons. St., 2005. (78) A. TRAVI, Autoritatività e tutela giurisdizionale: quali novità?, in Foro amm.-Tar, supp. al n. 6/2005. (79) Lo esclude F. TRIMARCHI BANFI, op. cit.; ma già V. SPAGNUOLO VIGORITA, op. cit. (80) A favore invece F. MERUSI, op. cit. (81) C. MARZUOLI, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982. (82) F. TRIMARCHI BANFI, op. cit.; V. SPAGNUOLO VIGORITA, op. cit. (83) G. GRASSO, L'atto non autoritativo nel pubblico impiego contrattualizzato (tra mitologia e realtà giuridica), in Foro amm.Cons. St., 2004; S. VENEZIANO, Dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla giurisdizione (quasi) esclusiva del giudice del lavoro, in www.diritto.it. (84) F.G. SCOCA, Autorità, cit.; ma anche M.R. SPASIANO, Funzioni amministrative e legalità di risultato, Torino, 2003. (85) Cfr. art. 16 c.c. (86) V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto, cit. (87) B.G. MATTARELLA, L'imperatività, cit. (88) F.G. SCOCA, Conclusioni, cit. (89) M. CLARICH, op. cit. (90) G. ABBAMONTE, Sentenze di accertamento ed oggetto del giudizio amministrativo di legittimità e di ottemperanza, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, vol. 1, Milano, 1988, e Il ritiro dell'atto impugnato nel corso del processo e la delimitazione dell'oggetto del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, in Rass. dir. pubbl., 1972; V. DOMENICHELLI, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988; F. PUGLIESE, Note minime in tema di accertamento e di effetti della decisione amministrativa di accoglimento del ricorso, in Dir. proc. amm., 1993; L. IANNOTTA, Atti non autoritativi, cit.; N. DI MODUGNO, Tipicità (o atipicità) delle azioni e tipicità dei dispositivi di accoglimento del ricorso, in Dir. proc. amm., 1992; M. CLARICH, op. cit., A. POLICE, Il ricorso di piena giurisdizione, cit. (91) F. GAMBINO, Problemi del rinegoziare, Milano, 2004; F. MACARIO, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996; F. GRANDO STEVENS, Obbligo di rinegoziare nei contratti di durata, in AA.VV., Diritto privato europeo e categorie civilistiche, a cura di N. LIPARI, Milano, 1998; in campo pubblicistico sull'obbligo di rinegoziazione L. IANNOTTA, Gli istituti di partecipazione tra pubblico e privato nell'ordinamento locale (La l. 142 dell'8 giugno 1990 alla luce dei principi della l. n. 241 del 7 agosto 1990), in MARRAMA, IANNOTTA PUGLIESE, Profili dell'autonomia nella riforma degli ordinamento locali, Napoli, 1991; A. RALLO, Appunti in tema di rinegoziazione negli accordi sostitutivi di provvedimenti, in Dir. proc. amm., 1993. V. M.R. FERRARESE, Il diritto al presente, Bologna, 2002 sull'instabilità dei rapporti economici. (92) Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2004, n. 214. (93) Potere riferito a fattispecie di ridotta discrezionalità da Tar Puglia-Bari, Sez. II, 17 novembre 2005, n. 4905 anche per ragioni di compatibilità col rito di cui all'art. 21-bis l. Tar; cfr. il commento all'art. 2, l. n. 241 di A. DE ROBERTO, La legge generale sull'azione amministrativa (la legge n. 241 del 1990 dopo le modifiche delle leggi 11 febbraio 2005, n. 15 e 14 maggio 2005, n. 80), Torino, 2005. Sulla possibilità-necessità di conoscere della fondatezza dell'istanza già prima della novella della l. n. 241 v. F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del nuovo trattamento processuale, in Dir. proc. amm., 2002; contra Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1. (94) V. per tutti A. ORSI BATTAGLINI, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. proc. civ., 1988 ripreso da M. CLARICH, op. cit. (95) F.G. SCOCA, Autorità e consenso, cit. (96) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 950 sulla priorità della reintegrazione sul risarcimento in una fattispecie di annullamento di occupazione. (97) B.G. MATTARELLA, L'imperatività, cit. (98) E perciò risarcibili A. ROMANO, Sulla pretesa risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in questa Rivista, 1998, ed arbitrabili M. VACCARELLA, Arbitrato e giurisdizione amministrativa, Torino, 2004. (99) Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2871, che distingue tra diritto soggettivo al finanziamento e interesse legittimo rispetto al potere di annullamento. (100) Cons. Stato, Sez. IV, 14 giugno 2005, n. 3124 e Sez. V, 7 dicembre 2005, n. 6990. (101) Cons. Stato, Sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199 e n. 296 del 2004, cit. (102) Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2004, n. 950 e Sez. V, 15 marzo 2004, n. 1280. (103) Tar Abruzzo-Pescara, 13 marzo 2005, n. 394; Tar Campania-Salerno, 4 maggio 2005, n. 760. (104) Tar Lazio, Sez. I-quater, 30 agosto 2005, n. 6359, Tar Campania-Napoli, Sez. I 13 giugno 2005, n. 7817; Tar Sicilia-Palermo, Sez. II, 3 giugno 2005, n. 941; Tar Puglia-Lecce, Sez. II, 27 maggio 2005, n. 2913. (105) C.G.A. 4 novembre 2005, n. 726. (106) Tar Pescara, 13 dicembre 2005, n. 855. (107) Cons. Stato, Sez. IV, ord. 29 settembre 2005, n. 4345. (108) Cons. Stato, Sez. IV, ord. 2 dicembre 2005, n. 8538. (109) Cons. Stato, Ad. plen., 1º giugno 1983, n. 14 e 8 ottobre 1982, n. 17. In questo contesto anche la norma dell'art. 10-bis (aggiunto dalla l. n. 15 alla l. n. 241) della quale la giurisprudenza ha già fatto ampia applicazione (Tar Lazio, Roma, Sez. II-bis, 18 maggio 2005, n. 3921; Tar Sicilia-Palermo, Sez. III, 13 settembre 2005, n. 1528; Tar Veneto, Sez. II, 1º giugno 2005, n. 2358; Tar Lazio, Sez. III-ter, 8 settembre 2005, n. 6618, per la DIA Tar Veneto, Sez. II, 13 settembre 2005, n. 3418) e letta come un contraddittorio ritorno al procedimento (F.G. SCOCA, Conclusioni, cit.) appare sintomatica dell'esigenza di accertare compiutamente anche sul piano procedimentale la fondatezza-infondatezza della pretesa sostanziale. (110) A. POLICE, Intervento al convegno La nuova disciplina dell'attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, Seconda Università degli Studi di Napoli, Caserta-Palazzo Reale 20 maggio 2005. (111) A. ROMANO, Interessi legittimi, cit. (112) L. IANNOTTA, già in Atti non autoritativi, cit. e v. La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998. (113) A POLICE, La giurisdizione sulle controversie, cit. (114) L. IANNOTTA, Dialogo sul metodo: osservazione e ricostruzione delle vicende giuridiche reali, in questa Rivista, 2003. (115) L. DE LUCIA, Procedimento amministrativo e interessi materiali, in questa Rivista, 2005. (116) D.U. GALETTA, L'art. 21-octies della novellata legge sul procedimento amministrativo nelle prime applicazioni giurisprudenziali: un'interpretazione riduttiva delle garanzie procedimentali contraria alla costituzione e al diritto comunitario, in Foro amm.-Tar, supp. 6/2005. (117) Il comma 1-bis si presenterebbe in questo caso non più come una promessa (di una tutela piena ed effettiva) bensì come una minaccia (di ridimensionamento della giurisdizione amministrativa) utilizzando una espressione cara a F. PUGLIESE, Le nuove disposizioni in materia di giustizia rimodellano gli istituti processuali e l'attività amministrativa, in Dir. proc. amm., 1999. (118) Cfr. Cass., Sez. un., 24 settembre 2004, n. 19200, v. anche in tal senso Cass., Sez. un., 23 gennaio 2006, n. 1207 peraltro contraddette da Cass., Sez. un., ordinanze 13 giugno 2006, nn. 13659 e 13660. All'ampliamento della giurisdizione ordinaria potrebbe concorrere anche il comma 1-ter che prevede, per i privati che svolgono attività amministrativa, l'applicazione dei principi e non delle norme della l. n. 241: con possibile svincolo dall'osservanza del procedimento amministrativo e dei relativi oneri e con possibile riattualizzazione di una lontana giurisprudenza che riportava ad es. il procedimento di scelta del contraente ad opera di un soggetto privato investito di pubbliche funzioni al diritto privato (gara privata) e le relative controversie al giudice ordinario (cfr. Tar Lazio, Sez. III, 7 agosto 1984, n. 400). (119) A. BARBERA e C. FUSARO, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2004. (120) Cfr. Tar Lombardia, Brescia, 23 novembre 2005, n. 1217 sulla possibilità di accertare la spettanza del bene attraverso la ripetizione virtuale di una gara; v. anche Cons. Stato, Sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199. ART. 1 COMMA 1 BIS DELLA L. N. 241 DEL 1990 Foro amm. CDS 2005, 03, 947 FRANCESCA TRIMARCHI BANFI SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. L'ambito di applicazione: il concetto di autoritatività. - 3. L'autoritatività nell'accezione ristretta. - 4. Le conseguenze. - 5. Le regole della discrezionalità. - 6. Il procedimento. 1. Premessa. L'idea che vi sia una parte dell'attività amministrativa cui meglio si addicono le forme del diritto privato è stata infine tradotta in una scarna disposizione di legge che, per di più, individua il proprio oggetto impiegando una nozione dottrinale controversa. Ambito di applicazione e conseguenze del ricorso al diritto privato risulteranno dalla forza che sarà esercitata, in divergenti direzioni, dal sistema del diritto pubblico e da quello del diritto privato. 2. L'ambito di applicazione: il concetto di autoritatività. Se è vero che le disposizioni di legge assumono significato normativo nel contesto nel quale vengono introdotte, distaccandosi dalle vicende che le hanno originate (e dalle tesi dottrinali retrostanti), l'espressione «atti di natura non autoritativa» avrebbe un campo di applicazione ridotto, anche se non privo di importanza. L'interprete che per comprenderne la portata si rivolgesse al significato che al termine «autoritativo» è attribuito nel sistema del diritto amministrativo, sarebbe portato a pensare che sono atti di natura autoritativa tutti i provvedimenti, intendendosi per provvedimento quell'atto che è manifestazione della capacità di modificare la posizione giuridica di soggetti mediante un'attività attuativa di precetti(1), e che per tale sua qualità è esecutivo, nel senso che gli effetti corrispondenti a quanto statuito con il provvedimento si producono anche quando esso sia invalido. L'aggettivo autoritativo, nell'uso generalmente accettato, non designa la qualità dei soli provvedimenti che incidono i diritti altrui. Lo stesso Giannini, cui si deve la formula che tanto seguito ha avuto, secondo la quale il provvedimento «puntualizza i rapporti autorità-libertà» (2), assegnava alla relazione che pone i due termini in reciproca contrapposizione un significato ben più ampio di quello che la formula sembra suggerire, cosicché nell'universo degli atti amministrativi egli distingueva due categorie: i provvedimenti da un lato e, dall'altro, gli atti strumentali (3). In questo Giannini non si distaccava dall'opinione dominante, che non avrebbe concepito una distinzione tra provvedimenti autoritativi e provvedimenti che autoritativi non sono. Anche oggi, nel linguaggio del diritto amministrativo generalmente seguito, e in specie in quello della giurisprudenza, l'autoritatività è qualità del provvedimento che non attiene all'idoneità di questo ad incidere sfavorevolmente nella sfera giuridica dei soggetti. Sono provvedimenti anche quelli che costituiscono diritti, almeno secondo quanto comunemente si pensa. È così che si spiega la costruzione della domanda per una sovvenzione o una concessione come presupposto del provvedimento richiesto, e non come consenso che possa concorrere a determinare l'effetto del provvedimento: la concessione è atto autoritativo in quanto l'effetto costitutivo è il prodotto della sola volontà dell'autore dell'atto. Il che spiega anche perché la concessione o l'autorizzazione illegittima possono essere annullate con atto unilaterale dell'amministrazione (4). Quando la Corte costituzionale parla dell'amministrazione che agisce «come autorità» (5), essa usa il termine nell'accezione corrente della quale si è detto: è autorità il soggetto che esercita poteri amministrativi, cioè che emana provvedimenti (autoritativi) nel senso visto sopra. Questo emerge dal contesto nel quale si situa il riferimento all'amministrazione come autorità: quando la Corte afferma che il legislatore, nell'individuare le particolari materie che possono essere attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, «deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte» e quindi tenere presente «il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni», essa individua l'agire autoritativo collegandolo all'interesse legittimo, posizione giuridica che si correla all'attività dell'amministrazione che emana provvedimenti, senza qualificazioni aggiuntive. Poiché la possibilità di produrre in modo unilaterale la modificazione dell'altrui sfera giuridica è data dall'ordinamento per la realizzazione di specifici interessi pubblici, il provvedimento è sottoposto al particolare regime che lo rende impugnabile e annullabile per qualunque vizio di legittimità (6). La qualità del provvedimento come atto attuativo di precetti - vale a dire il carattere funzionale della relazione nella quale esso si pone rispetto alle norme giuridiche - ne spiega il regime. La coerenza tra natura del provvedimento e regime del medesimo è, però, incrinata dall'esistenza di atti amministrativi che vengono sottoposti al regime del provvedimento nonostante che essi non corrispondano alla definizione comunemente accettata, che si è esposta più sopra. Basti pensare agli atti di organizzazione, ad alcuni atti di esercizio di poteri negoziali nell'ambito del contratto di appalto, agli atti a contenuto patrimoniale che intervengono nell'ambito del rapporto di impiego pubblico e che la giurisprudenza tiene distinti dai c.d. atti paritetici (7). L'assimilazione di questi atti ai provvedimenti risponde a ragioni diverse: in alcuni casi essa serve a consentire l'impugnazione da parte di terzi interessati e, forse, per questo aspetto essa colma oggi il vuoto lasciato dalla soppressione dei controlli amministrativi. In altri casi la qualificazione degli atti come provvedimenti giova all'amministrazione che, così, vede ridotto il tempo durante il quale è esposta alla reazione giurisdizionale degli interessati. Se questi non sono atti autoritativi, neppure nell'accezione ampia corrente che si è vista, allora ad essi non si dovrebbe più applicare il regime del diritto pubblico. 3. L'autoritatività nell'accezione ristretta. Quanto si è detto fin qui riguarda l'ambito di applicazione dell'art. 1 comma 1 bis interpretato secondo il significato desumibile dalle convenzioni linguistiche e concettuali, non contraddette da altri dati forniti dal contesto della legge. Si sa, però, che altra è l'idea di atto autoritativo che ha ispirato la norma. Non occorre analizzare il fondamento teorico di questa idea (8); per orientarsi nella comprensione del testo può essere sufficiente il significato empirico che l'idea di atto non autoritativo assume negli intenti che hanno ispirato la disposizione. Esso può essere sintetizzato nei termini seguenti. Vi sono atti dell'amministrazione che producono effetti sfavorevoli per il destinatario; questi atti devono poter produrre i loro effetti nel modo unilaterale ed esecutivo che è proprio dei provvedimenti, se si vuole assicurare gli scopi cui essi sono diretti. Questi sono atti ad autoritatività necessaria. In altri, numerosi casi non c'è una prevedibile opposizione del destinatario degli atti che debba essere superata; per questi atti l'autoritatività non occorre, e quindi se ne può fare a meno. Atti di natura non autoritativa sono quelli che non abbisognano dell'autoritatività, cioè gli atti che hanno il consenso (sostanziale) dell'interessato (9). Così intesa, la disposizione dell'art. 1 comma 1 bis è apparentemente riferita ad una categoria di atti attualmente qualificabili come non autoritativi; in realtà essa intende privare dell'autoritatività atti per i quali questo attributo sarebbe superfluo e costituirebbe il prodotto storico della generalizzazione dei caratteri dei provvedimenti che, per usare il vecchio linguaggio, «affievoliscono» i diritti. Se l'art. 1 comma 1 bis viene interpretato in questo senso, occorrerà, allora, tracciare la linea di confine tra le fattispecie riconducibili ad esso e quelle che ricadono nell'ambito di applicazione dell'art. 11, l. n. 241. Operazione necessaria, poiché la via del diritto privato non è, per l'amministrazione, un percorso soltanto possibile: mentre l'accordo pubblicistico può essere concluso, la forma privatistica dovrebbe essere modo normale (anzi, doveroso) di azione, che sostituisce quello mediante atti «di natura non autoritativa». L'accordo pubblicistico diverrebbe, allora, utilizzabile soltanto in alternativa ai provvedimenti ablatori (e quindi autoritativi nell'accezione ristretta del termine) mentre per gli altri atti amministrativi sarebbe necessario agire secondo le norme di diritto privato? Oppure il criterio del consenso (sostanziale) del destinatario non è sufficiente per individuare la categoria degli atti non autoritativi da sostituire con atti di diritto privato, e deve essere integrato con qualche altro elemento? Sarà un regolamento che dirà quali sono i provvedimenti non inclusi nell'art. 1 comma 1 bis, seguendo il metodo sperimentato per risolvere i dubbi posti dalla disposizione che ha liberalizzato l'esercizio di talune attività private (art. 19, l. n. 241 del 1990)? A questi interrogativi di carattere generale se ne aggiunge uno particolare, che nasce dall'interno della stessa l. n. 241. L'art. 11, nel testo modificato dalla l. n. 15 del 2005, prevede che la stipulazione degli accordi pubblicistici sia preceduta da una determinazione dell'organo competente ad emanare il provvedimento che viene sostituito o il cui contenuto viene parzialmente definito dagli accordi medesimi. Di questa determinazione si dice che essa è diretta a garantire l'imparzialità ed il buon andamento dell'amministrazione; non è detto invece quale debba essere il contenuto minimo della determinazione e - questione connessa alla precedente - in quale momento essa debba intervenire. Nonostante la sommarietà della disposizione è comunque ragionevole ravvisare in essa l'intento di fornire ad eventuali terzi il modo per contrastare la stipulazione dell'accordo, attaccando la previa «determinazione». L'aspetto di questa previsione che interessa l'argomento qui trattato è che la determinazione non è atto di natura autoritativa, né secondo l'accezione ampia, e tanto meno nell'accezione ristretta dell'espressione. Si tratta quindi di atto che l'art. 1 comma 1 bis vorrebbe sottoposto alle norme del diritto privato.Senonché la funzione dell'atto che deve precedere gli accordi è manifestamente quella di permettere la tutela dei terzi secondo la modalità che è tipica della reazione al provvedimento: il ricorso d'impugnazione a tutela dell'interesse legittimo. Certo, nessun problema di coerenza formale si pone, dato che l'art. 1 comma 1 bis, nel dettare la regola di carattere generale circa l'azione secondo il diritto privato, fa salva la possibilità che la legge disponga diversamente. Ciò che colpisce nella disposizione, tuttavia, è che essa introduce un'ipotesi di dissociazione tra forza e regime dell'atto, mentre la correzione di questa anomalia pareva dover essere il primo obiettivo della riforma. Con la previsione di un atto che non ha la natura giuridica del provvedimento, ma è sottoposto al regime di questo, la disposizione risolve il problema della tutela del terzo, che si pone quando si sostituisce la forma negoziale a quella provvedimentale; ma così facendo, essa mette allo scoperto il problema di carattere generale che è posto anche dall'impiego del diritto privato in sostituzione del diritto amministrativo: quello, appunto, della tutela del terzo, la cui posizione giuridica è anche il tramite per il controllo giudiziale su provvedimenti (quelli c.d. ampliativi) che, altrimenti, potrebbero sfuggire alle regole della legalità. 4. Le conseguenze. Già nel corso delle discussioni che hanno accompagnato la gestazione della riforma, è emersa la questione che si presenta come pregiudiziale ad ogni altra circa le conseguenze del nuovo regime dell'attività: se gli speciali principi cui deve obbedire l'attività dell'amministrazione in quanto finalizzata a scopi giuridicamente rilevanti si applichino anche all'agire secondo il diritto privato. La questione ha ricevuto risposte diverse, basate su assunti di carattere generale. Qui ci si limiterà a qualche considerazione tratta dall'esperienza del rapporto d'impiego contrattualizzato. Non sfugge il fatto che il punto d'osservazione presenta aspetti particolari, sia per la complessità della disciplina che, attraverso il concorso di fonti di varia natura, racchiude il rapporto di lavoro entro una fitta rete di prescrizioni di carattere anche procedimentale; sia per l'oggetto del rapporto, che di per sé orienta il giudice verso interpretazioni del sistema normativo attente alla definizione dei limiti dei poteri del datore di lavoro (10) e, quindi, in qualche misura predisposte all'indagine sulla discrezionalità. Se a ciò si aggiunge la formulazione di alcune disposizioni di legge che, enunciando il principio di «rispondenza al pubblico interesse» (11), nonché «obiettivi di efficienza ed efficacia» (12), si prestano ad essere interpretate come l'espressione di canoni validi anche per la valutazione della condotta del datore di lavoro nel rapporto con il dipendente, si comprende lo sconcerto che trapela in una parte della giurisprudenza di merito che evoca, di volta in volta, i principi di buon andamento (13) e di efficienza, insieme a quelli di trasparenza, di imparzialità (14), o anche il preminente interesse generale (15) come rilevanti nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Peraltro, il riconoscimento della rilevanza dei principi anzidetti resta per lo più senza conseguenze per la soluzione della specifica controversia, cosicché esso pare piuttosto l'indice del disagio del giudice di fronte ad aspetti talvolta equivoci della disciplina, che non l'espressione di un chiaro orientamento interpretativo. Nell'esame degli orientamenti dei giudici del lavoro conviene distinguere, da un lato, le questioni poste da particolari testi normativi formulati con il linguaggio delle leggi amministrative (quelli che pongono obiettivi di carattere organizzativo cui deve indirizzarsi l'attività del datore di lavoro) e, dall'altro, i criteri di giudizio generalmente applicati nella soluzione delle controversie che riguardano l'esercizio dei poteri dell'amministrazione nella gestione del rapporto di lavoro. Il primo ordine di questioni è stato affrontato dalla Cassazione nei suoi termini generali: se sia compatibile con la natura privata del rapporto ammettere che le finalità impresse dalla legge all'attività organizzativa del datore di lavoro configurino una funzionalizzazione dell'attività stessa e, per questa via, diano fondamento a pretese del prestatore di lavoro. La risposta è stata negativa (16) ed è degno di nota che, per tenere ferme le ragioni di sistema di fronte a disposizioni di legge refrattarie, la Cassazione non abbia esitato a forzarne il testo (17). Nelle controversie che riguardano la gestione del rapporto, interessano per l'argomento presente quelle nelle quali il potere esercitato dal datore di lavoro si presta ad essere qualificato come potere «discrezionale». Prima di vedere in che senso il termine venga talvolta impiegato per definire particolari fattispecie di potere del datore di lavoro, conviene rilevare la differenza di base che si pone tra potere privato e potere pubblicistico e che può essere sintetizzata in ciò, che mentre il potere privato, per ogni aspetto che non sia regolato dalle norme che lo riguardano, è libero, il potere amministrativo, al contrario, è per definizione discrezionale in ogni aspetto che non sia disciplinato dalle norme che lo prevedono. Conseguenza della diversità appena vista è che la discrezionalità del potere privato, intesa come presenza di limiti non espressamente disposti dalle norme, è evenienza che si verifica solo quando le norme suddette rechino in sé, secondo la logica che è loro immanente, una specifica finalità, alla quale segue l'obbligo di esercitare il potere in modo coerente con essa. Se nell'attribuzione del potere è implicito uno scopo al quale il potere è diretto, sarebbe arbitrario l'uso che contraddicesse lo scopo dello specifico potere (18). Così ad esempio, se è previsto che si segua una procedura di valutazione comparativa per la selezione dei lavoratori, spetta al datore di lavoro individuare il tipo di prove da utilizzare allo scopo della selezione, ma nel potere così attribuito è implicita la direzione verso lo scopo, cosicché sarebbe valutata come arbitraria la condotta del datore di lavoro che predisponesse prove del tutto prive di significatività circa l'attitudine allo svolgimento delle mansioni che devono essere assegnate (19). In casi del genere si parla talvolta di «discrezionalità» del potere privato, ma è evidente che il concetto assume una portata diversa da quella che gli è propria quando esso è riferito al potere amministrativo: il vincolo che è insito nel carattere discrezionale del potere privato è rigorosamente circoscritto a quanto strettamente richiesto dal senso della norma che lo prevede e non investe altri aspetti che siano resi significativi dall'immanenza di ulteriori finalità, come quelle che sono postulate in relazione ai compiti che l'ordinamento assegna al soggetto pubblico. Così pure, se è prescritta la valutazione comparativa degli aspiranti ad un dato posto, la valutazione dovrà essere condotta secondo criteri imparziali; in tal caso l'imparzialità non si impone come principio avente valore generale, ma come regola inerente alla logica stessa del metodo selettivo (20). In casi del genere può dirsi che la disciplina del potere contiene in sé l'obbligo di imparzialità, come criterio implicito la cui osservanza costituisce oggetto del corrispondente diritto del prestatore di lavoro. In casi come quelli esemplificati, i limiti del potere privato sono ricavati interpretando le norme, di legge o contrattuali, secondo buona fede. La clausola di buona fede dà quindi ingresso al principio di ragionevolezza (nel primo caso) ed a quello di imparzialità (nel secondo caso), ma è appena il caso di rilevare che essi non si impongono in quanto principi di carattere generale, bensì in quanto impliciti nella ratio della disciplina, interpretata secondo buona fede (21). A questa differenza che si potrebbe dire «di origine» della c.d. discrezionalità privata si collega l'inesistenza di un generalizzato obbligo di motivazione per gli atti di esercizio dei poteri: la motivazione è necessaria se ciè è espressamente disposto oppure se occorre fornire la dimostrazione che il potere è stato usato in presenza dei presupposti richiesti o in modo conforme alla specifica ratio della norma attributiva (22). S'intende che, in casi del genere, la motivazione della quale si parla non ha nulla a che vedere con la motivazione nel senso in cui il termine è impiegato con riferimento ai provvedimenti amministrativi. La parola «motivazione» è modo breve per dire che, se vi sono condizioni implicite nella norma attributiva del potere, deve essere data dimostrazione del fatto che le condizioni sono soddisfatte; per questo la motivazione non deve necessariamente essere contestuale e può essere fornita in giudizio (23). Il che significa che non è configurabile un obbligo di motivazione del datore di lavoro ed una correlativa pretesa del prestatore di lavoro, che sia azionabile come tale (24). Come si è visto più sopra, le ipotesi nelle quali si parla di discrezionalità del potere privato possono essere costruite come casi nei quali il potere deve essere esercitato secondo buona fede. La buona fede potrebbe apparire, quindi, come clausola che supplisce, in certa misura, ai canoni cui rimanda il concetto di discrezionalità amministrativa. Il punto merita qualche precisazione. L'idea che le regole cui deve conformarsi l'esercizio del potere amministrativo discrezionale siano convertibili in clausole generali o in concetti giuridici indeterminati è stata teorizzata nel quadro della critica alla configurazione dell'interesse legittimo come posizione che, attraverso la convergenza dell'interesse privato con l'interesse pubblico, si correla al potere amministrativo discrezionale inteso come potere finalizzato ad uno scopo (25). La costruzione finalistica del potere - si dice - non è il passaggio obbligato per accogliere i canoni di buona amministrazione, proporzionalità, imparzialità, quali regole che delimitano il potere discrezionale; queste regole possono essere intese come concetti giuridici indeterminati o come clausole generali la cui osservanza è oggetto di una pretesa direttamente tutelata (26). La tesi è stata formulata con riguardo all'attività pubblicistica dell'amministrazione, ma l'idea cardine cioè che quelle che comunemente vengono presentate come regole della discrezionalità amministrativa possano essere configurate come «regole indeterminate di comportamento» - potrebbe apparire una via per trasferire quelle regole anche sul terreno dell'attività dell'amministrazione che assuma le forme del diritto privato, secondo la previsione dell'art. 1 comma 1 bis, l. n. 241. In una prospettiva del genere occorre chiedersi quale potrebbe essere il fondamento delle regole in questione, una volta che si sia rinunciato a ricavarle dal criterio di funzionalità allo scopo che, per sua natura, supplisce alla mancanza di espressa previsione legislativa. L'applicabilità generale della clausola di buona fede potrebbe suggerire l'idea che, per il tramite di questa, sia possibile trasferire nel rapporto diritto-obbligo alcune delle regole della discrezionalità amministrativa. L'esperienza del rapporto di lavoro contrattualizzato non sembra confermare questa ipotesi; anche se dall'esame della giurisprudenza (peraltro parziale) emerge un quadro non privo di contrasti, tuttavia per gli aspetti che qui interessano si registra una certa uniformità. In particolare il ricorso alla clausola di buona fede, in funzione sia interpretativa che integrativa degli obblighi espressamente previsti dalla disciplina legale e contrattuale del rapporto, non sembra possa costituire il veicolo per convogliare ciò che l'interesse legittimo incorpora quando, per la struttura che gli è propria, volge a beneficio del suo titolare (destinatario dell'atto amministrativo o terzo) le ragioni dell'interesse pubblico. L'equivalenza di risultato tra l'applicazione della clausola di buona fede e l'assoggettamento dell'azione amministrativa alle regole proprie della discrezionalità, non si realizza per due ordini di ragioni: perché, come si è già visto, l'applicazione delle regole di correttezza cui rinvia il principio di buona fede vale, per i poteri privati, nella misura in cui i poteri non possano dirsi liberi alla stregua delle norme che li prevedono. Se il potere è libero, né gli obblighi di protezione (art. 1175, c.c.), né gli obblighi impliciti nella regolazione del rapporto (art. 1366, c.c.) potranno essere il tramite per l'affermazione di pretese che abbiano ad oggetto, ad esempio, la razionalità delle decisioni del privato datore di lavoro (27). L'equivalenza non si realizza neppure nelle ipotesi nelle quali il potere privato sia «discrezionale» nel senso visto più sopra, perché il vincolo insito in tale discrezionalità non rende rilevante ogni possibile disfunzione, ma soltanto quella che entra in contraddizione con la puntuale ratio della norma regolatrice del potere. Abbandonato il punto di riferimento offerto dall'interesse pubblico specifico - da assumere come fine che va ottimizzato - cade anche la possibilità di contestare comportamenti non ottimizzanti: non c'è un interesse obiettivo alla buona gestione dell'organizzazione nella quale è inserito il lavoratore, al quale questi possa appellarsi, sul terreno giuridico, per opporsi a decisioni del datore di lavoro (28). 5. Le regole della discrezionalità. L'osservanza di regole che sono state elaborate secondo la logica del vincolo di scopo che accompagna ogni potere pubblicistico non può essere trasferita nel rapporto di diritto privato, dove mancano le premesse (discrezionalitàfinalizzazione) dalle quali estrarre in via di interpretazione canoni come quello di razionalità o di proporzionalità rispetto allo scopo, suscettibili di applicazione in via generale. Le «regole»non scritte della discrezionalità sono test per il controllo giudiziale di congruenza allo scopo; se si vuole trasformarle in regole di condotta, che obblighino positivamente nel rapporto di diritto privato, occorre dare loro un autonomo fondamento. Il problema non può essere risolto appigliandosi alla Rubrica dell'art. 1, l. n. 241 del 1990: «Principi generali dell'attività amministrativa»; o alla proposizione con la quale si apre l'art. 1 comma 1 della legge, secondo la quale L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge», secondo i «criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza». Disposizioni del genere non sono idonee a fondare uno statuto speciale dell'attività amministrativa, capace di derogare a norme e principi del diritto privato, cosicché del regime privatistico si possa selezionare quello che è compatibile con le esigenze dell'agire amministrativo. Anche a tacere delle obiezioni, di metodo e pratiche, che riguardano l'incertezza cui darebbe luogo una simile interpretazione della disposizione citata, l'esperienza mostra che esiste una forza del sistema che riesce ad assimilare alle proprie ragioni quelle, diverse, che possono avere ispirato le disposizioni di legge. Se ne è visto un esempio istruttivo a proposito dell'interpretazione che la Cassazione ha dato all'art. 19, d.lg. n. 165 del 2001 (29). Sotto l'apparenza di un'affermazione che attribuisce rilievo oggettivo all'attività, distaccandola dalla qualità del soggetto, l'art. 1 comma 1 interpretato come norma che pone principi generali per ogni forma di attività dell'amministrazione, porterebbe ad estreme conseguenze il criterio opposto, dato che soltanto la qualità del soggetto agente giustificherebbe lo statuto speciale dell'attività, una volta che questa assumesse le forme del diritto dei privati. Quando usa il diritto dei privati, l'amministrazione non accampa poteri né subisce vincoli diversi da quelli che valgono per i privati, salvo espresse disposizioni di legge. Il soddisfacimento delle esigenze peculiari dell'attività amministrativa, quando questa cessa di essere funzione e si svolge in forma privatistica, deve allora passare attraverso vie diverse. E poiché l'art. 1 comma 1 bis parrebbe destinato a dare forma integralmente contrattuale alle fattispecie di sovvenzionamento e di concessione di beni o servizi, la domanda che si pone è se e come possa essere affermata la perdurante vigenza del principio di imparzialità nell'attribuzione delle suddette utilità. Se la via dell'art. 3, cost., non è percorribile, dato che esso si rivolge ai poteri pubblici e non ai poteri privati (30), il principio di eguaglianza può, invece, essere ricavato dall'art. 41, cost., per pretendere parità di accesso alle risorse pubbliche, includendo nel termine risorse anche quelle diverse dalle risorse finanziarie - come l'uso eccezionale di beni pubblici o le utilità offerte dalla possibilità di svolgere attività altrimenti precluse. In casi del genere, l' eguaglianza non è pretesa all'osservanza di un canone che l'ordinamento impone in via generale all'attività dell'amministrazione in quanto potere pubblico, ma è diritto a non subire limitazioni della libertà economica se non in condizioni di eguaglianza. E poiché la libertà economica è limitata non soltanto dalla previsione di atti di assenso come condizione per accedere a certe attività, ma anche dall'assegnazione selettiva di aiuti pubblici, la parità di accesso a tutte le utilità suddette è diritto la cui osservanza può essere pretesa qualunque sia la forma giuridica che l'amministrazione adotti per attribuire le utilità stesse. In quest'ordine di idee, la forma dei mercati nei quali si svolge l'attività economica non viene in considerazione: il principio di eguaglianza nell'assegnazione delle risorse pubbliche non è connesso a particolari caratteri dei mercati ed alle valutazioni contingenti circa il modo di regolarli (nella misura in cui il diritto comunitario lascia spazio per queste valutazioni). Non è per la realizzazione di mercati di concorrenza, ma per realizzare la parità di trattamento degli operatori economici nell'accesso e nella permanenza sul mercato, qualunque sia la configurazione di questo, che l'art. 41, cost., viene qui richiamato. Alla lesione del diritto di libertà economica l'interessato potrebbe reagire chiedendo il risarcimento del danno. In presenza di una legislazione eventualmente generica, la pretesa all'eguaglianza nell'accesso alle risorse pubbliche, che si fonda sull'art. 41, cost., non potrebbe essere esclusa dalla circostanza che l'amministrazione agisca nella sua capacità di diritto privato quando dispone delle risorse in questione. Così ragionando, potrebbe trovare tutela la posizione di quei «terzi» che ricevono protezione dalla peculiare costruzione dell'interesse legittimo e che sarebbero, invece, lasciati indifesi dalla logica del diritto privato (31), secondo la quale il terzo estraneo al regolamento contrattuale non ha titolo per mettere in discussione il contratto se non nelle ipotesi specificamente previste dalla legge. Il rimedio risarcitorio non risolve certo ogni problema, data la difficoltà di provare il danno quando questo si colleghi all'esclusione da un'utilità della quale non si può affermare con certezza che essa sarebbe stata conseguita, qualora per assegnarla si fosse applicato un metodo che assicurasse l'eguaglianza delle chances degli aspiranti. Il che conferma che la tutela del diritto è un imperfetto surrogato della tutela dell'interesse legittimo, non soltanto quando l'interesse è prioritariamente rivolto all'ottenimento di un bene del quale soltanto l'amministrazione dispone, ma anche quando esso si converte nella pretesa all'equivalente monetario. 6. Il procedimento. Che l'applicazione delle regole procedurali che valgono per l'attività amministrativa sia da escludere per l'attività che si svolge nelle forme del diritto privato dovrebbe essere fuori di dubbio (32), per ragioni che non sono soltanto quelle suggerite dall'intento semplificatore verosimilmente perseguito dall'art. 1 comma 1 bis, l. n. 241. La formalizzazione del modo di produzione del provvedimento ha motivo di essere nel contesto dell'esercizio del potere discrezionale in senso proprio, nel senso cioè di potere che attua l'ordinamento secondo scopi da questo stabiliti. In relazione al potere amministrativo discrezionale, gli istituti del procedimento operano al servizio sia dell'interesse pubblico, sia dell'interesse del privato, secondo la convergenza dei due interessi che è propria della logica del rapporto amministrativo (33). Più concretamente, le posizioni giuridiche procedimentali valgono per il privato come mezzi per controbilanciare il potere amministrativo: per questo si usa parlarne come di «garanzie». Queste danno protezione nei confronti di un potere che ha la capacità di conformare le posizioni giuridiche altrui attraverso un'attività di attuazione della legge che può anche essere ampiamente valutativa: il valore delle posizioni giuridiche procedimentali risiede appunto nella possibilità, che esse offrono, di influire sull'esercizio di un potere le cui manifestazioni non possono essere dedotte dalle norme che lo regolano. In questo senso esse presuppongono la disparità dei poteri giuridici delle parti e, insieme, una relazione tra gli interessi di queste che non è di contrapposizione. Per questo le garanzie di procedimento non hanno ragione d'essere in rapporti costruiti secondo il diritto privato, nei quali l'eventuale disparità tra le parti non risiede nella qualità degli strumenti giuridici dei quali esse dispongono, ma nella diversa misura della rispettiva forza. Altri devono, allora, essere gli strumenti per il riequilibrio del rapporto. NOTE (1) Secondo la sintesi di BENVENUTI, esposta da ultimo nel Disegno dell'amministrazione italiana, Padova 1996, 89 e 179-180. (2) V. Atto amministrativo, in Enc. dir., Milano 1959, 164. (3) Nell'edizione del 1993 del suo manuale Diritto amministrativo, questa partizione degli atti amministrativi convive con la definizione del provvedimento come atto che comprime la libertà di alcuni amministrati (vol. II, 236). (4) Non si intende con ciò prendere posizione sul fondamento giuridico del potere di autotutela, se cioè esso possa essere considerato come implicito nel potere di provvedere e non abbisogni di previsione legale specifica; si vuol dire, piuttosto, che la costruzione del consenso dell'interessato come mero presupposto del provvedimento è condizione necessaria per la tenuta teorica dell'istituto. (5) C. cost. n. 204 del 2004, punto 3.2 della motivazione in diritto. (6) L'illegittimità del provvedimento come conseguenza dell'inosservanza di qualunque regola che disciplina il potere amministrativo è coerente con la definizione; non altrettanto può dirsi dell'ulteriore conseguenza che ne viene tratta, quando qualunque motivo di illegittimità del provvedimento è considerato sufficiente a concretizzare la lesione dell'interesse legittimo che si correla al potere amministrativo. Questo nesso è stato in parte tagliato dall'art. 21 octies comma 2, l. n. 241 del 1990, inserito dalla l. n. 15 del 2005. (7) Sullo spazio di discrezionalità amministrativa riguardo alle modalità di recupero di somme indebitamente corrisposte a dipendenti pubblici e la conseguente applicazione del regime del provvedimento v. di recente Cons. St., sez. VI, n. 2203 del 2204. (8) Nella discussione intorno al concetto di imperatività del provvedimento - che negli ultimi anni si è arricchita di numerosi contributi - non è sempre facile distinguere in che misura la critica riguardi la capacità del concetto di rappresentare adeguatamente la realtà giuridica, e in che misura essa esprima l'aspirazione a modificare quella realtà. (9) La sintesi esposta nel testo è ricavata dallo scritto di CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, in Dir. amm., 230-231. (10) Questo atteggiamento è rivendicato a merito dell'autorità giudiziaria dalle sez. un.: «...la giurisprudenza ha già ampiamente dato una lettura 'costituzionale' delle norme ordinarie...» e in particolare «ha sempre escluso la sussistenza di una pura discrezionalità dell'imprenditore, ribadendo il potere correttivo del giudice attraverso gli strumenti giuridici apprestati dall'ordinamento» (sent. n. 9804 del 1993). (11) Art. 5 comma 1, d.lg. n. 165 del 2001. (12) Art. 2 comma 1, d.lg. n. 165 del 2001. (13) Trib. Catania 9 maggio 2000 (ord.); Trib. Agrigento 11 novembre 2004. (14) Trib. Catanzaro 16 maggio 2001 (ord.) (15) Trib. Potenza 21 gennaio 2002. (16) V. Cass., sez. lav., n. 5659 del 2004, che interpreta i riferimenti ai criteri «di funzionalità rispetto ai compiti ed ai programmi di attività», nonché «di efficienza ed efficacia», contenuti negli art. 2 e 5, d.lg. n. 29 del 1993 come rilevanti ai soli fini del controllo interno. Gli stessi argomenti si leggono, in forma meno estesa, in Cass., sez. lav., n. 5565 del 2004. L'idea che la funzionalizzazione dell'attività organizzativa cui si applica il regime del diritto privato operi sul terreno dei controlli di risultato, con le connesse responsabilità, era stata prospettata da ORSI BATTAGLINI, CORPACI, nel Commento all'art. 4, d.lg. n. 29 del 1993, in CORPACI ed altri (curatori), La riforma dell'organizzazione, dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Nuove leggi civili commentate, 1999, 1096 ss. (17) Ci si riferisce all'interpretazione secondo la quale il termine «provvedimento», che nell'art. 19 comma 2, d.lg. n. 29 del 1993, designa l'atto con il quale l'amministrazione conferisce l'incarico dirigenziale e che deve precedere la stipulazione del contratto, deve essere inteso nel senso di atto unilaterale di diritto privato: Cass., sez. lav., n. 5659 del 2004, cit. L'interpretazione «privatistica» del termine era già stata argomentata da CORPACI, Il nuovo regime del conferimento degli incarichi dirigenziali e la giurisdizione sugli incarichi dirigenziali, in Lav. nelle pubbl. amm., 2003, 222 e ss. Per l'interpretazione pubblicistica, sulla falsariga di circolare del Ministero della funzione pubblica, Trib. Roma 5 febbraio 2003 (ord.). (18) Arbitrario è l'uso «anormale» del diritto, nel senso di impiego di questo «in modo non confacente alla funzione economicosociale» (GALGANO, Abuso di diritto, in Contratto e impresa, 1998, 30). (19) Cass., sez. lav., n. 2280 del 2000 (la sentenza riguarda il rapporto di lavoro con ENEL). (20) Trib. Grosseto 29 gennaio 2002. (21) Come si legge in Cass., sez. lav., n. 5659 del 2004, cit., gli obblighi formali e sostanziali previsti dalla disciplina del rapporto devono essere «eventualmente specificati dalle clausole generali di correttezza e buona fede» (punto 11 della motivazione in diritto). (22) Come nel caso deciso da Trib. Grosseto 29 gennaio 2002, cit.; v anche Trib. Trento 8 novembre 2001 (ord.); Trib. di L'Aquila 10 luglio 2002; Trib. Agrigento 11 novembre 2004, cit. (23) Trib Agrigento 5 maggio 2004; Trib. Bari 14 marzo 2003 (ord.). (24) Trib. Roma 21 maggio 2002 (ord.). Il caso della motivazione mostra la difficoltà di convertire gli interessi procedimentali in altrettanti diritti, aventi ad oggetto utilità dotate di proprio valore e suscettibili di autonoma e diretta tutela, non appena ci si distacchi dalla prospettiva usuale che li considera come strumentali alla realizzazione di un interesse sostanziale (sull'argomento, v. ORSI BATTAGLINI, Alla ricerca dello Stato di diritto, Milano, 2005, 161 ss.). (25) ORSI BATTAGLINI, op. cit., 106, 124-125. (26) ORSI BATTAGLINI, op. cit., 166-167. (27) Cass., sez. lav., n. 5565 del 2004, cit. (28) L'ipotesi che l'osservanza delle regole tipiche del potere amministrativo discrezionale sia configurabile come standard di comportamento e, sotto questo nome, possa rientrare tra le regole di condotta che obbligano l'amministrazione datore di lavoro privato in forza della clausola di buona fede (PIOGGIA, Giudice e funzione amministrativa, Milano, 2004, 236 e 275) presuppone una sorta di specializzazione dello standard di condotta all'interno di una stessa categoria di soggetti (quella dei datori di lavoro). Attraverso la clausola di buona fede, la qualità del soggetto amministrazione reintrodurrebbe la differenza tra rapporto di lavoro privato e rapporto di lavoro pubblico. (29) V. supra, nota 13. (30) Se non nei limiti della non discriminazione, che è altra cosa dalla parità di trattamento (Cass., sez. un., n. 9804 del 1993, punto IV della motivazione in diritto). (31) V. implicitamente Trib. La Spezia 26 aprile 1999 (ord). (32) In questo senso la Cassazione, seguita generalmente dai giudici di merito: Cass., sez. lav., n. 5659 del 2004; n. 7704 del 2003; n. 11589 del 2003. (33) Convergenza sulla quale ritorna BERTI, Corso breve di giustizia amministrativa, Padova, 2005, 25 ss.