Società costituite all`estero (artt

Società costituite all’estero (artt. 2507-2510 c.c.)
Commento di Luca Enriques e Francesco Dagnino
Le disposizioni in commento sono generalmente considerate norme unilaterali
di applicazione necessaria e stabiliscono alcuni obblighi di pubblicità per le società
estere che hanno in Italia una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile.
La natura nazionale o straniera di una società deve essere determinata alla stregua
dell’art. 25 l. 31.5.1995, n. 218. Il criterio prevalente adottato dall’art. 25, per la
determinazione della nazionalità delle società, è il criterio dell’incorporazione, secondo
cui la nazionalità di una società è data «dalla legge dello stato nel cui territorio è stato
perfezionato il procedimento di costituzione». Il successivo secondo comma pone,
tuttavia, un’importante eccezione a questo principio e assoggetta alla «legge italiana» le
società straniere che abbiano situato in Italia «la sede dell’amministrazione» e quelle il
cui «oggetto principale» si trovi in Italia (c.d. società pseudo-straniere). Si tratta della
c.d. teoria della sede reale (Sitztheorie o siègè reélle) secondo cui una società è regolata
in quanto tale dalle norme dell’ordinamento nella cui giurisdizione l’ente è
concretamente amministrato (sede amministrativa) o esercita effettivamente la propria
attività di impresa (oggetto principale dell’impresa). Sulla distinzione fra teoria
dell’incorporazione e teoria della sede reale v. RAMMELOO, Corporations in Private
International Law. A European Perspective, Oxford University Press, 2001.
Mentre sono da considerarsi certamente estere ai fini dell’applicazione delle
disposizioni in esame le società costituite secondo una legge diversa da quella italiana
che non abbiano in Italia la sede principale o l’oggetto principale, dubbi possono sorgere
circa la qualificabilità come estere delle società pseudo-straniere. Se le si qualificano
come italiane, il notaio cui venga richiesta l’apertura della sede secondaria di una simile
società, dovrebbe subordinarla all’adeguamento dello statuto alla legge italiana.
L’art. 25 va, tuttavia, disapplicato per le società UE (ossia per le società
costituite conformemente alla legislazione di uno Stato dell’Unione Europea e aventi la
sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro d’attività principale all’interno della
Comunità Europea) e per quelle costituite secondo il diritto di uno stato aderente allo
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Spazio Economico Europeo (SEE) sia pur quando esercitino la propria attività
esclusivamente nel territorio italiano. Lo Spazio Economico Europeo oggi comprende tre
dei quattro Paesi membri della European Free Trade Association (EFTA): l’Islanda, il
Liechtenstein e la Norvegia; resta, invece, esclusa la Svizzera che in seguito al
referendum popolare del 6 dicembre 1992 ha deciso di non aderire allo Spazio
Economico Europeo.
Analogamente, l’art. 25, primo comma, secondo periodo, potrebbe non trovare
applicazione alle società appartenenti a stati terzi che hanno stipulato accordi contenenti
clausole per il reciproco riconoscimento e/o il trattamento delle società costituite negli
stati contraenti (trattati di commercio, trattati o convenzioni di amicizia, commercio e
navigazione, convenzioni di stabilimento). Com’è noto, l’Italia ha stipulato numerosi
accordi del genere (in materia v. MENEGAZZI MUNARI, Gli enti collettivi negli accordi
stipulati dall’Italia, in Collana di studi giuridici della facoltà di economia e commercio
dell’Università di Padova, 1978; GIULIANO-LANFRANCHI-TREVES, Corpo - indice degli
accordi bilaterali in vigore tra l’Italia e gli Stati esteri, Milano, 1968). E’ il caso per
esempio, del Trattato di amicizia, commercio e navigazione, del Protocollo di firma, del
Protocollo addizionale e dello scambio di Note conclusi a Roma, fra l’Italia e gli Stati
Uniti d’America, il 2 febbraio 1948.
La disapplicazione dell’art. 25, primo comma, secondo periodo, consegue al
contrasto di quest’ultima disposizione con la libertà di stabilimento sancita dal Trattato
CE, come ormai è consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte di
giustizia. V. le decisioni Centros (Corte di Giustizia CE 9 marzo 1999, n. 212/97, in
Foro it., 2000, 317), Überseering (Corte di Giustizia CE 5 novembre 2002, n. 208/00, in
Notariato, 2003, 347), Inspire Art (Corte di Giustizia CE 30 settembre 2003, n. 167/01,
in Foro it., 2004, 24) e SEVIC (Corte di Giustizia CE 13 dicembre 2005, n. 411/03, in
Giur. comm., 2006, 412) - c.d. giurisprudenza Centros – secondo cui la pretesa di uno
Stato membro di assoggettare la società straniera alle norme nazionali più severe
rispetto a quelle del paese d’origine, adducendo quale giustificazione il difetto di legami
effettivi con lo Stato di incorporazione e la circostanza obiettiva che la società eserciti la
sua attività esclusivamente nello Stato ospitante è incompatibile con la libertà di
stabilimento (v. infra sub. Art. 2507)
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Poiché, come si è visto, l’art. 25 non si applica alle società comunitarie
quand’anche abbiano in Italia l’amministrazione o l’oggetto principale, ove tali società
costituiscano in Italia una o più sedi, si ritiene pacificamente loro applicabile l’art.
2508, la cui compatibilità con il diritto comunitario, salvo quanto si osserverà più avanti
in relazione a punti specifici, trova una chiara conferma nell’Undicesima Direttiva
(contra, GALGANO, L’impresa transnazionale e i diritti nazionali, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 2005, 50). E, ciò che più rileva, la disposizione in esame si applica anche nel
caso in cui quella in Italia sia l’unica sede effettiva ovvero anche la sede principale della
società, come può ben avvenire laddove nel paese di origine la società abbia una mera
«casella postale» (c.d. letter box companies) (v. LOMBARDO, La libertà comunitaria di
stabilimento dopo il «caso Überseering»: tra armonizzazione e concorrenza fra
ordinamenti, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, 474). Infatti, la giurisprudenza della
Corte di giustizia qualifica come sede principale quella che risulta dall’atto costitutivo,
mentre ogni altra articolazione territoriale rientra nella nozione di succursale, ossia, nel
diritto italiano, di sede secondaria (v. MUCCIARELLI, 572).
Sono altresì escluse dal campo di applicazione della disciplina in esame le altre
società estere le quali, sebbene prive di un contatto qualificato con il territorio dello Stato
(in termini di sede, secondaria o principale, ovvero di oggetto principale), possono ciò
nonostante operare in Italia essendo riconosciute nel nostro ordinamento in base all’art.
16 delle preleggi.
L’attuale formulazione degli artt. 2508-2509-bis costituisce il risultato del
recepimento in Italia dell’Undicesima Direttiva 89/666/CEE del Consiglio, del 21
dicembre 1989, ad opera del D. Lgs. 29.12.1992, n. 516.
La funzione degli obblighi pubblicitari per le sedi secondarie di società estere
viene generalmente individuata nell’esigenza di tutelare i terzi che vengono in contatto
con la società per il tramite della sede secondaria, assicurando loro l’accesso ad alcune
informazioni. Si è peraltro osservato (ENRIQUES, Società costituite all’estero. Commento
sub. artt. 2507-2510 cod. civ., in Commentario al codice civile Scialoja e Branca,
Bologna, 2007, 7) che «in effetti i terzi subiscono anche conseguenze negative
dall’eseguita pubblicità commerciale»; pertanto la pubblicità commerciale, «più che una
tutela a favore dei terzi [è] uno strumento per abbattere i costi di assunzione e verifica
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delle informazioni relative all’ente straniero, nell’interesse sia della società straniera che
opera sul territorio italiano - la quale del resto si avvantaggia anche degli effetti di
pubblicità legale delle iscrizioni - sia del terzo che con essa contratta, come è vero, del
resto, per il sistema della pubblicità commerciale in generale».
E’ utile precisare, infine, che l’adempimento degli obblighi imposti alle sedi
secondarie di società straniere non costituisce condizione per il riconoscimento della
personalità giuridica di cui l’ente straniero gode in forza della lex incorporationis e,
dunque, non incide sulla possibilità per l’ente di acquistare diritti e di assumere
obbligazioni. L’unica conseguenza del mancato rispetto delle disposizioni in esame
sembra dover esser l’applicazione dell’apparato sanzionatorio previsto dal codice
civile.
Art. 2507. (Rapporti con il diritto comunitario). — L’interpretazione ed
applicazione delle disposizioni contenute nel presente capo è effettuata in base ai
principi dell’ordinamento delle Comunità europee.
L’articolo in esame costituisce la sola novità introdotta in sede di riforma del
diritto societario. Esso, riprendendo una tecnica legislativa già utilizzata nel 1990 dalla
legge sull’antitrust (art. 1, l. 10.10.1990, n. 287), prevede che le disposizioni in materia di
sedi secondarie di società estere devono essere interpretate e applicate «in base ai
principi dell’ordinamento delle Comunità europee».
Ciò significa che, con riferimento alle società comunitarie, le disposizioni in
commento dovranno essere disapplicate tutte le volte in cui contrastino con
l’ordinamento comunitario o prevedano obblighi ulteriori rispetto a quelli imposti o
consentiti dall’Undicesima direttiva. I medesimi principi devono essere estesi, come si è
visto, anche alle società costituite secondo il diritto di uno stato aderente allo Spazio
Economico Europeo (SEE).
La dottrina ha messo in dubbio l’utilità della disposizione in esame dato che il
primato del diritto comunitario sul diritto interno con conseguente disapplicazione di
quest’ultimo costituisce un principio già da tempo consolidato nel nostro ordinamento, al
quale la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto fondamento costituzionale da
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individuarsi nell’art. 11 cost. e ora, anche più esplicitamente nell’art. 117, primo comma,
cost. La sua vera funzione sarebbe, secondo diversi autori, «pedagogica» (BENEDETTELLI,
«Mercato» comunitario delle regole e riforma del diritto societario italiano, in Riv. soc.,
2003, 699), alla luce di una prassi interpretativa e di un’attività legislativa non sempre
consapevoli del quadro comunitario e dei suoi riflessi interni (PORTALE, Riforma delle
società di capitali e limiti di effettività del diritto nazionale, in Società, 2003, 264).
Alcuni hanno provato invece ad ipotizzare interpretazioni che consentirebbero di
salvaguardare) l’utilità della norma in esame.
In primo luogo, è stato ipotizzato che, poiché il capo in esame non distingue in
alcun modo ai fini della disciplina, tra società UE e società di paesi terzi, allora i principi
comunitari in tema di libertà di stabilimento dovrebbero applicarsi indiscriminatamente
alle società estere, quanto alle disposizioni del capo in esame (DAMASCELLI, Conflitti di
legge in materia di società, Casucci, Bari, 2004, 144). A questo modo di ragionare
potrebbe opporsi che in effetti è lo steso diritto comunitario che distingue tra società UE e
società di paesi terzi ai fini della libertà di stabilimento. Di conseguenza, se
l’interpretazione deve essere conforme al diritto comunitario, allora l’ordinamento
interno non può che fare propria tale distinzione (ENRIQUES, Commentario, 13).
La situazione potrebbe cambiare per le società degli Stati con i quali l’Italia abbia
concluso un trattato bilaterale che preveda il riconoscimento reciproco delle società.
Inoltre, la disposizione in esame potrebbe avere un effetto indiretto sul
trattamento delle società di paesi terzi sotto il profilo del principio costituzionale di
uguaglianza, alla luce del quale potrebbe non essere giustificabile un trattamento
deteriore delle società di paesi terzi rispetto alle società UE.
In secondo luogo, potrebbe sostenersi che la disposizione in esame imponga
all’interprete di preferire una lettura della disciplina sulle sedi secondarie di società estere
il più possibile conforme allo spirito del diritto comunitario nel caso in cui essa si presti a
più possibili interpretazioni tutte a rigore compatibili con il diritto comunitario
(ENRIQUES, Commentario, 15). Le implicazioni sarebbero significative poiché la
discrezionalità dell’interprete nel valutare se sussistono le condizioni richieste dalla Corte
di Giustizia per giustificare l’applicazione di norme interne a società straniere è tutto
sommato ampia e, dunque, salvo che vi siano precedenti in terminis della Corte, mai tale
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da dare adito a dubbi meno che ragionevoli. Questa interpretazione, che qui ci si limita a
prospettare come possibile, avrebbe il pregio di non ridurre la disposizione in esame a un
pleonastico (e originale) memento per gli interpreti (ENRIQUES, Commentario, 16).
Il commento degli articoli del capo in esame sarà fortemente influenzato dai
principi dell’ordinamento comunitario in materia di efficacia diretta del diritto
comunitario, di interpretazione del diritto comunitario nonché di libertà di stabilimento.
In primo luogo, come si è detto, la materia coperta dagli artt. 2508-2509-bis ha
formato oggetto di un intervento di armonizzazione dal parte della Comunità Europea:
con l’Undicesima Direttiva in materia di società il legislatore comunitario ha
disciplinato gli obblighi informativi e pubblicitari delle succursali istituite all’interno
dell’Unione Europea da alcuni tipi di società UE e di paesi terzi. Sebbene, l’Italia abbia
recepito l’Undicesima Direttiva, vi sono, come si dirà a breve, numerosi profili della
disciplina di recepimento la cui conformità alla Direttiva è dubbia, se non
palesemente da escludere. Si pone, dunque, il problema di verificare entro quali limiti
l’Undicesima Direttiva prevalga sulla disciplina interna in contrasto con essa.
In secondo luogo, il giudice, nell’interpretare una disposizione di diritto
comunitario, deve farlo non sulla base delle proprie regole ermenetiche nazionali, bensì
alla luce di quelle autonomamente sviluppate dalla Corte di Giustizia in ambito
comunitario. In particolare, conviene ricordare che le principali direttive in materia
societaria, inclusa l’Unidcesima, trovano base giuridica nell’art. 44, par. 2, lettera g) del
Trattato C.E., il quale, per realizzare la libertà di stabilimento, consente alle istituzioni
comunitarie di «coordinare, nella necessaria misura e al fine di renderle equivalenti, le
garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società, a mente dell’art. 48, secondo
comma, per proteggere gli interessi tanto dei soci, come dei terzi». Nell’interpretare le
direttive in materia societaria, dunque, occorre tenere presente due finalità tra loro
potenzialmente in conflitto: quella, ultima, della realizzazione della libertà di
stabilimento, che implica l’abbattimento delle barriere che rendono più difficile o anche
meno attraente l’esercizio di tale libertà e, dunque, richiede scelte di armonizzazione c.d.
negativa, ossia di impedire agli Stati membri di imporre determinate regole a chi intenda
stabilirsi sul proprio territorio; e quella, che rispetto alla prima dovrebbe essere
strumentale, ma che in realtà può portare a risultati opposti a quelli perseguiti dalla
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finalità primaria, dell’introduzione di tutele equivalenti a garanzie dei soci e dei terzi,
nell’ottica della prevenzione del c.d. effetto Delaware (armonizzazione positiva). In
tema di armonizzazione negativa e positiva v. ENRIQUES e GELTER, Regulatory
Competition in European Company Law and Creditor Protection, in European Business
Organization Law Rev., 2006, 419.
Infine, la materia disciplinata nel capo IX è influenzata dalle disposizioni in
materia di libertà di stabilimento del Trattato e dall’interpretazione che ne ha fornito
la Corte di Giustizia (in materia v., e multis, BALLARINO, Sulla mobilità delle società
nella Comunità Europea. Da Daily Mail a Überseering: norme imperative, norme di
conflitto e libertà comunitarie, in Riv. soc., 2003, 679; BENEDETTELLI, Diritto
internazionale privato delle società e ordinamento comunitario, in Diritto internazionale
privato e diritto comunitario a cura di Paolo Picone, Padova, Cedam, 2005, 205;
LOMBARDO, Libertà di stabilimento e mobilità delle società in Europa, in La nuova
giurisprudenza commentata civile, 2005, 352; MUCCIARELLI, Libertà di stabilimento per
le società comunitarie e diritto societario dell’Unione Europea, in Giur. comm., 2000,
83).
Il TCE attribuisce alle persone fisiche e giuridiche di uno Stato membro il diritto
di stabilirsi in un altro Stato membro per esercitarvi un’attività economica alle medesime
condizioni ivi poste nei confronti dei propri cittadini, in applicazione dei principi del
trattamento nazionale e del mutuo riconoscimento.
In particolare, l’art. 43 vieta «le restrizioni alla libertà di stabilimento dei
cittadini di uno Stato membro nel territorio di altro Stato membro. Tale divieto si estende
altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali e filiali, da parte dei
cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro». Il successivo art.
48, primo comma, TCE estende espressamente la libertà di stabilimento già riconosciuta
ai cittadini degli Stati membri dall’art. 43 alle società commerciali quando queste siano
«costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro» ed abbiano «la sede
sociale, l’amministrazione centrale o il centro dell’attività principale all’interno della
Comunità».
La giurisprudenza Centros ha chiarito la portata della libertà di stabilimento. Nel
primo caso (Centros) si trattava di giudicare della compatibilità con il Trattato di un
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provvedimento amministrativo di diniego dell’iscrizione nel Registro delle Imprese della
succursale di una società inglese costituita da due coniugi danesi per esercitare un’attività
economica esclusivamente in Danimarca. Si trattava, a tutti gli effetti, di un’operazione
di esterovestizione motivata dal fatto che i cittadini danesi intendevano avvantaggiarsi
della libertà di stabilimento per sfuggire all’applicazione delle disposizioni danesi
sull’obbligo di liberazione di un capitale sociale minimo che non esistevano, invece, in
Inghilterra.
La Corte, perfettamente cosciente dell’intento elusivo delle parti, ha affermato
che «il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga
di costituirla nello Stato membro le cui norme gli sembrino meno severe e crei
succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di
stabilimento». Infatti, secondo il ragionamento della Corte, gli articoli 43 e 48 TCE
attribuiscono il diritto di costituire una società in uno Stato membro anche al solo fine di
svolgere un’attività economica esclusivamente in un altro Stato membro tramite uno
stabilimento secondario. Questa decisione aprì per la prima volta le porte al c.d.
arbitraggio normativo e alla competizione tra gli ordinamenti societari degli Stati
membri e ha dato vita ad uno dei più ampi dibattiti dottrinali degli ultimi decenni
(un’ampia bibliografia è reperibile in KLINKE, European Company Law and the ECJ: The
Court’s Judgements in the Years 2001 to 2004, in European Company and Financial Law
Review, 2005, 270).
Il secondo caso (Überseering), aveva ad oggetto questa volta la libertà di
stabilimento primaria. La controversia riguardava l’orientamento giurisprudenziale che,
in Germania, negava la capacità giuridica a società estere aventi la sede effettiva in
Germania in virtù della rigida applicazione della Sitztheorie. Nella sentenza Überseering
la Corte ha compiuto un ulteriore passo avanti a favore della libertà di stabilimento
affermando che la qualificazione dello stabilimento come primario o come secondario
è irrilevante ai fini del diritto di invocare la libertà di stabilimento (punto 52). In
particolare, si afferma che ai fini dell’esercizio del diritto di stabilimento ciò che occorre
verificare è semplicemente il dato formale della realizzazione dei presupposti dai quali il
diritto comunitario fa scaturire i benefici del Trattato (costituzione secondo il diritto di
uno Stato membro e localizzazione della sede sociale, dell’amministrazione centrale o del
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centro dell’attività principale all’interno della Comunità) e non, invece, il dato sostanziale
del luogo di svolgimento dell’attività.
Nel terzo caso (Inspire Art), la controversia verteva, oltre che su alcune
disposizioni dell’Undicesima Direttiva, sulla possibilità per lo Stato olandese di imporre
alle società pseudo-straniere alcuni obblighi pubblicitari e le proprie regole in materia di
capitale minimo, sanzionandone l’inosservanza con la responsabilità personale e solidale
degli amministratori per le obbligazioni sociali. La risposta della Corte si articola in due
parti: la prima relativa alla configurabilità di una restrizione alla libertà di stabilimento,
e la seconda sulla giustificabilità in concreto di tale restrizione alla luce della dottrina
delle esigenze imperative.
Nella prima parte della motivazione, la Corte, dopo aver rilevato che
l’armonizzazione compiuta dal legislatore comunitario in materia di obblighi di
pubblicità doveva considerarsi esaustiva e dopo aver ribadito i principi della
giurisprudenza Centros, concludeva che gli obblighi di pubblicità e le sanzioni previste
dalla normativa olandese costituivano una restrizione illegittima della libertà di
stabilimento in quanto travalicavano quanto imposto o consentito dall’Undicesima
Direttiva.
Nella seconda parte della decisione, la Corte, se da un lato ammetteva che
giustificazioni quali la repressione dell’abuso della libertà di stabilimento, la tutela
degli interessi dei creditori, dei soci di minoranza e dei lavoratori nonché l’efficacia
dei controlli fiscali e la lealtà dei rapporti commerciali avrebbero potuto astrattamente
giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento, lasciando così spazio agli ordinamenti
comunitari per l’introduzione di limiti alla libertà di stabilimento, ricordava poi che tali
restrizioni devono essere valutate alla luce dei motivi imperativi di interesse generale e
devono superare in ogni caso il test delle quattro condizioni (non discriminazione,
giustificazione sulla base dei motivi imperativi di interesse pubblico, idoneità a
garantire il conseguimento dello scopo perseguito e proporzionalità). Nel caso di
specie la Corte non riteneva di poter individuare un abuso della libertà di stabilimento
mostrandosi anzi tutt’altro che incline a riconoscere le norme di volta in volta rilevanti
come idonee a raggiungere lo scopo perseguito e/o proporzionali.
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Infine, con la sentenza SEVIC la Corte di Giustizia ha legittimato, in nome della
libertà di stabilimento, le fusioni tra società aventi sede in Stati membri diversi. La
controversia riguardava il rifiuto dell’iscrizione di una fusione tra una società tedesca e
una società lussemburghese in mancanza di una disciplina interna che consentisse le
fusioni trasnfrontaliere.
I principi innovatori affermati dalla Corte nella sentenza SEVIC sembrano essere i
seguenti: a) il campo di applicazione della libertà di stabilimento si estende anche alle
fusioni (e alle scissioni) transfrontaliere; b) la diversità di trattamento fra fusioni
interne e fusioni transfrontaliere costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento; c)
queste restrizioni possono essere giustificate soltanto alla luce della dottrina delle
esigenze imperative e devono superare in ogni caso il test delle quattro condizioni. La
protezione degli interessi dei creditori, dei soci di minoranza e dei dipendenti può in certi
casi e sotto determinate condizioni giustificare una restrizione. La Corte, tuttavia, non ha
fornito, neppure questa volta, ulteriori elementi di valutazione.
La «dottrina Centros» ha evidentemente inciso in materia sostanziale
sull’applicazione del diritto internazionale privato degli Stati membri, anche se essa
non si è mai pronunciata espressamente sui rapporti fra diritto internazionale privato e
diritto interno. E’ stato osservato che mentre la teoria dell’incorporazione non presenta
di per sé profili di incompatibilità comunitaria, la teoria della sede reale sarebbe,
invece, la principale vittima della «dottrina Centros» giacché consentendo solo alle
società costituite nel territorio dello Stato ospitante di impiantarvi la sede amministrativa
principale violerebbe il principio di non discriminazione e la libertà di stabilimento
garantita dal Trattato impedendo nella sostanza ogni forma di scelta della lex societatis e
quindi di concorrenza fra ordinamenti giuridici (sugli effetti della «dottrina Centros» sul
diritto internazionale privato degli Stati membri v., e multis, MUCCIARELLI, 2000, 83).
Sebbene non sia questa la sede per affrontare la complessa questione degli effetti della
«dottrina Centros» sulle norme di conflitto degli Stati membri, è innegabile che
l’applicazione rigorosa della teoria della sede reale provoca spesso conseguenze
giuridiche incompatibili con la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di
libertà di stabilimento.
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Una parte della dottrina ha utilizzato le più raffinate tecniche giuridiche per
limitare la portata della giurisprudenza Centros. Un discreto successo, specialmente nella
dottrina di lingua tedesca data la rigida applicazione in quel Paese della Sitztheorie, ha
riscosso in particolare l’orientamento secondo cui sarebbe necessario distinguere fra casi
di immigrazione e casi di emigrazione, in quanto la «dottrina Centros» inciderebbe
soltanto sui primi mentre la teoria della sede reale rimarrebbe applicabile nei casi di
emigrazione (v., e multis, HEINE-KERBER, European Corporate Laws, Regulatory
Competition and Path Dependence, in European Journal of Law and Economics, 2002,
47). In altre parole, lo stato di partenza sarebbe libero di pretendere che un ente costituito
in conformità alla propria legge e alla quale tale stato abbia conferito la personalità
giuridica presenti un collegamento sostanziale con il proprio territorio e che questo
collegamento venga mantenuto durante tutta la vita della società pena la perdita della
personalità giuridica, mentre lo stato di destinazione in cui la società intende stabilirsi
non potrebbe negare ad una società comunitaria il pieno esercizio del diritto di
stabilimento nel proprio territorio e il pieno riconoscimento in base alla lex
incorporationis, salve le eccezioni eventualmente consentite alla luce della dottrina delle
esigenze imperative.
Questo orientamento era fondato sul presunto non superamento dei principi
espressi nella sentenza Daily Mail (27 settembre 1988, causa 81/87, in Raccolta, 5483),
dove la Corte di Giustizia aveva ritenuto conforme al diritto comunitario una disposizione
della legge inglese che subordinava il diritto di una società inglese a trasferire all’estero
la propria sede amministrativa alla preventiva autorizzazione delle autorità fiscali
britanniche, che nel caso di specie era stata negata per ragioni essenzialmente collegate
alla potestà fiscale dello Stato. Secondo la giurisprudenza Daily Mail, le società,
diversamente dalle persone fisiche, «esistono solo in forza delle diverse legislazioni
nazionali che ne disciplinano costituzione e funzionamento… e la diversità delle
legislazioni nazionali sul criterio di collegamento previsto per le società nonché sulla
facoltà, ed eventualmente le modalità, di un trasferimento della sede, legale o reale, di
una società di diritto nazionale da uno Stato membro all’altro costituisce un problema la
cui soluzione non si trova nelle norme sul diritto di stabilimento».
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Questa distinzione potrebbe crollare nell’assai attesa sentenza relativa al caso
Cartesio (Causa C-210/06, Cartesio Oktatò és Szolgàltatò bt) dove la Corte dovrà
finalmente pronunciarsi, per la prima volta dopo Daily Mail, su un caso di emigrazione
non collegato a ragioni fiscali (v., già, il punto 31 delle Conclusioni dell’Avvocato
Generale M. Poiares Maduro presentate il 22 maggio 2008, dove si suggerisce
l’impossibilità di sostenere che, allo Stato attuale del diritto comunitario, «gli Stati
membri godono di un’assoluta libertà di determinare la vita e la morte di società costituite
a norma del loro diritto nazionale»).
Art. 2508. (Società estere con sede secondaria nel territorio dello Stato). – Le
società costituite all’estero, le quali stabiliscono nel territorio dello Stato una o più sedi
secondarie con rappresentanza stabile, sono soggette, per ciascuna sede, alle
disposizioni della legge italiana sulla pubblicità degli atti sociali. Esse devono inoltre
pubblicare, secondo le medesime disposizioni, il cognome, il nome, la data e il luogo di
nascita delle persone che le rappresentano stabilmente nel territorio dello Stato, con
indicazione dei relativi poteri.
Ai terzi che hanno compiuto operazioni con la sede secondaria non può essere opposto
che gli atti pubblicati ai sensi dei commi precedenti sono difformi da quelli pubblicati
nello Stato ove è situata la sede principale.
Le società costituite all’estero sono altresì soggette, per quanto riguarda le sedi
secondarie, alle disposizioni che regolano l’esercizio dell'impresa o che la subordinano
all’osservanza di particolari condizioni.
Negli atti e nella corrispondenza delle sedi secondarie di società costituite all’estero
devono essere contenute le indicazioni richieste dall’art. 2250; devono essere altresì
indicati l’ufficio del registro delle imprese presso la quale è iscritta la sede secondaria e
il numero di iscrizione.
L’articolo in esame contiene il nucleo centrale della disciplina delle società
estere che presentano un contatto qualificato con l’ordinamento italiano, consistente
nell’istituzione nel territorio dello Stato di una o più sedi secondarie con
rappresentanza stabile.
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Poiché il legislatore italiano ha recepito l’Undicesima Direttiva delineando
un’unica fattispecie valida anche per i tipi di società diversi da quelli da essa coperti
(ossia diversi da quelli elencati nell’art. 1 della Prima Direttiva, cui l’Undicesima, all’art.
1, paragrafo 1, fa rinvio), essa deve guidare l’interprete nel delineare i contorni oggettivi
della fattispecie della disposizione in esame. Più precisamente, poiché la Direttiva mira
(ai sensi dell’art. 44 paragrafo 2, lettera g), del Trattato C.E., richiamato dal 1° nonché,
implicitamente, dal 4° e dal 6° dei considerando) a uniformare le tutele (dei soci ma
soprattutto) dei terzi «che per il tramite di una succursale instaurano un rapporto con la
società» (6° considerando), è chiaro che la nozione di sede secondaria rilevante ai fini
dell’articolo in esame non può essere meno estesa di quella (peraltro indefinita, come si
vedrà) di «succursale» ai fini della Direttiva. Altrimenti, ai terzi che in ipotesi
contrattassero con una «succursale» che non fosse «sede secondaria» per l’ordinamento
italiano non sarebbero assicurate le garanzie di pubblicità imposte dalla Direttiva.
Gli ordinamenti nazionali violerebbero, dunque, l’Undicesima Direttiva qualora in
sede di recepimento, implicitamente o esplicitamente, accogliessero una nozione di
succursale meno ampia di quella prevista dalla direttiva medesima.
Pertanto, si avrà senz’altro sede secondaria quando si sia in presenza di un quid
che presenti tutte le caratteristiche di una succursale ai sensi della Direttiva. Peraltro,
poiché non esiste nella Direttiva, una definizione di succursale, l’interprete dovrà
ricostruirla sulla base di un’interpretazione teolologica e sistematica avente a termine di
riferimento esclusivo, nella sua autonomia, il diritto comunitario (BENEDETTELLI, Le
direttive comunitarie sulla pubblicità delle «succursali», in Riv. dir. comm., 1990, 863).
La dottrina ha provato a ricostruire i profili tipologici della nozione comunitaria
di succursale (sul punto v., diffusamente, ENRIQUES, Commentario, 34 ss.). Innanzitutto,
è ritenuta necessaria la presenza di un’organizzazione non occasionale nello stato di
stabilimento. Questa organizzazione non occasionale deve poi presentare alcune
caratteristiche. In primo luogo, essa deve essere diretta emanazione della società estera
(ossia sprovvista di autonoma soggettività giuridica) ovvero deve presentarsi come tale ai
terzi. Questo argomento si ricava dai considerando 3°, 4° e 6°, che univocamente
contrappongono il concetto di «succursale» a quello di «filiale» essendo pacifico che il
secondo fa riferimento alla «forma di stabilimento che si realizza attraverso la creazione
13
di una società con autonoma personalità giuridica della quale la casa madre si assicura il
controllo stabile» (VELLA, La sede secondaria estera nella struttura organizzativa
dell'impresa, in AA. VV., L’integrazione fra imprese nell’attività internazionale, Torino,
1995, 4). La logica che si ricava dai considerando citati è in effetti quella di assicurare, in
caso di stabilimento di una succursale, un’informazione equivalente a quella disponibile
grazie alla Prima Direttiva per le società autonome. In secondo luogo, è necessario
l’esercizio di un’attività non salariata nello Stato ospite ovvero una fase della
medesima. Infine, l’organizzazione non occasionale deve esser predisposta sul piano
organizzativo allo svolgimento di attività rappresentativa a favore della casa madre
ovvero deve svolgere in via di fatto tale attività, mediante attribuzione di sufficienti poteri
di rappresentanza a un soggetto ivi attivo, quale che sia il rapporto che lo lega alla casa
madre, ovvero mediante l’operatività presso di essa di un rappresentante statutario (v. la
sentenza della Corte di giustizia del 22 novembre 1978, n. 22/78 nel caso Sofamer, in
Foro it., 1979, 245).
Il primo comma della disposizione in esame stabilisce che «le società estere che
hanno nel territorio dello Stato una o più sedi secondarie con rappresentanza stabile sono
soggette, per ciascuna sede, alle disposizioni della legge italiana sulla pubblicità degli
atti sociali». Esse, inoltre, devono «pubblicare, secondo le medesime disposizioni, il
cognome, il nome, la data e il luogo di nascita delle persone che le rappresentano
stabilmente nel territorio dello Stato, con indicazione dei relativi poteri». L’obbligo di
pubblicità è stato attenuato per le società comunitarie dall’art. 101-quater disp. att.
c.c. introdotto dal d.lgs 29 dicembre 1992, n. 516, che, nel recepire l’Undicesima
direttiva, ha previsto che «le società comunitarie che stabiliscono nel territorio dello Stato
più sedi secondarie con rappresentanza stabile possono attuare la pubblicità dell’atto
costitutivo, dello statuto e dei bilanci nell’ufficio del registro delle imprese di una
soltanto delle sedi secondarie, depositando negli altri l’attestazione dell’eseguita
pubblicità».
L’attuale formulazione della norma contiene un rinvio (chiaramente non
recettizio) alle disposizioni nazionali in materia di «pubblicità degli atti sociali» e
dunque impone preliminarmente all’interprete, come si desume anche dall’articolo
seguente, di «assimilare» la società estera ad uno dei tipi (di forme organizzative) previsti
14
dalla legge italiana. Qualora questa assimilazione sia possibile, l’ente straniero dovrà
adempiere, salvo quanto si preciserà appresso, alla disciplina pubblicitaria prevista per il
tipo di ente italiano cui è assimilato. Ove fosse impossibile assimilare la società estera ad
una forma organizzativa nazionale, essa dovrà seguire la disciplina pubblicitaria prevista
per le società per azioni (art. 2509).
Se l’ente straniero è una società UE (rectius, SEE) di un tipo al quale si applica
l’Undicesima Direttiva, alla luce della già rilevata natura di misura di armonizzazione
massima di questa direttiva, il rinvio alle norme in materia di pubblicità per i tipi
corrispondenti deve ritenersi circoscritto, in virtù dell’art. 2507 nonché dei principi
comunitari e costituzionali (sentenza Inspire Art), agli atti sociali che la Direttiva
impone ovvero consente agli Stati membri di far pubblicare (BALLARINO, La società
per azioni nella disciplina internazionalprivatistica, in Trattato delle società per azioni
diretto da G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, 1995, vol. IX, t. 1; BENEDETTELLI, Le
direttive, 868). Se invece l’ente straniero proviene da uno Stato appartenente all’Unione
Europea (o allo Spazio Economico Europeo) ma non è di uno dei tipi coperti dalla
Direttiva, è appena il caso di ricordare che la sua soggezione alle norme in materia di
pubblicità degli atti sociali è subordinata a una verifica di compatibilità delle medesime
con il TCE. Al contrario, se la società estera appartiene ad uno stato non UE né SEE,
non vi sono vincoli esterni all’estensione nei suoi confronti delle disposizioni in materia
di pubblicità degli atti sociali, dal momento che, quanto alle società di paesi terzi,
l’Undicesima Direttiva impone una disciplina di armonizzazione minima (art. 8); né
paiono porsi profili di legittimità costituzionale, dato che la disciplina interna tratta allo
stesso modo tali società e quelle italiane sotto il profilo in esame.
Tornando all’oggetto della pubblicità per le società UE cui si applica la Direttiva,
l’art. 2 di questa contiene l’elenco tassativo degli atti e delle indicazioni che gli Stati
membri devono o possono far pubblicare (v. rispettivamente i paragrafi 1 e 2 dell’art. 1).
Per valutare la legittimità comunitaria dell’art. 2508 è necessario verificare se, per le
società coperte dalla Direttiva, il legislatore italiano, con il mero rinvio alla legislazione
interna in materia di obblighi di pubblicità, abbia assolto correttamente i propri doveri nei
confronti dell’ordinamento comunitario. Infatti, l’art. 2508 va interpretato nel senso che
gli atti sociali per i quali è legittimo imporre ad una società comunitaria l’iscrizione nel
15
registro delle imprese sono soltanto quelli imposti o consentiti dall’Undicesima direttiva
e non, invece, tutti quelli per i quali il codice civile prevede la pubblicazione.
L’Undicesima direttiva è, infatti, una direttiva di armonizzazione massima, ragion per cui
l’elencazione contenuta nella stessa deve ritenersi esaustiva. Orbene, al riguardo, ed in
via soltanto esemplificativa, non sembrano poter trovare applicazione alle succursali
di società comunitarie gli obblighi di iscrizione relativi: alla dichiarazione che la società
ha un unico azionista o un unico socio (artt. 2362 e 2470 rispettivamente per le s.p.a. e
per le s.r.l.), ai patti parasociali nei casi in cui è prevista l’iscrizione (art. 2341-ter),
all’emissione di obbligazioni e strumenti finanziari da parte di s.p.a. (art. 2410) e di
titoli di debito da parte di s.r.l. (art. 2410, secondo comma, art. 2420- ter, terzo comma, e
art. 2483, terzo comma), alla costituzione di patrimoni o finanziamenti destinati ad
uno specifico affare (art. 2447-quater), alla pubblicità delle vicende relative agli
amministratori e ai sindaci, alla cessione di quote di s.r.l. (art. 2470, secondo comma),
all’atto di fusione o di scissione (art. 250-ter, terzo comma). Per un’elencazione più
esaustiva v. ENRIQUES, Commentario, 59.
Sempre con riguardo al primo comma dell’art. 2508, deve rilevarsi che la riforma
del diritto societario ha mancato di adeguare la disposizione in esame a quello che sembra
essere il nuovo approccio del legislatore in materia di amministratore persona
giuridica (v. DAGNINO, La partecipazione di società di capitali in società di persone, in
Giur. Comm., 2005, II, 294). Infatti, una volta ammessa tale figura non sembrerebbero
esserci buone ragioni per impedire che il rappresentante della sede secondaria possa
essere una persona giuridica.
Infine, il terzo comma dell’art. 2508 sarebbe incompatibile con il diritto
comunitario qualora fosse interpretato nel senso di imporre l’applicazione delle
disposizioni in materia di scritture contabili. Un’interpretazione del genere sarebbe
incompatibile con il nono considerando dell’Undicesima direttiva (che preclude agli Stati
membri di imporre la pubblicità dei documenti contabili relativi alla sede secondaria) e
con la scelta del legislatore italiano di non valersi della facoltà prevista dall’art. 9,
paragrafo 1, secondo periodo, della medesima direttiva. Infatti, da quest’ultima
disposizione, che fa esplicitamente riferimento alla facoltà di esigere che i bilanci della
sede secondaria siano compilati e resi pubblici, si evince che l’art. 3 della medesima e il
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nono considerando devono essere interpretati nel senso che uno Stato membro non possa
neppure imporre la mera redazione (senza pubblicità) di un bilancio separato per la
succursale.
Circa le modalità di adempimento degli obblighi di pubblicità occorre, infine,
richiamare l’art. 101-ter, disp. att. c.c., in base al quale «ai della pubblicità prescritta
dagli art. 2506 e 2507 del codice civile la società richiedente deve allegare agli atti e
documenti ivi previsti la traduzione giurata in lingua italiana e deve indicare gli
estremi della pubblicità attuata nello Stato ove è situata la sede principale».
Dell’avvenuto deposito deve essere fatta menzione nel registro delle imprese. Per prassi
si ritiene sempre necessario, ai fini dell’iscrizione di una sede secondaria, l’intervento
del notaio (sulla questione del controllo notarile di legittimità v., diffusamente,
ENRIQUES, Commentario, 67-68, secondo cui tale prassi non sarebbe sempre giustificata).
E’ pacifico che il rinvio operato dall’art. 2508 alla legge italiana in materia di
pubblicità degli atti sociali si estende altresì agli effetti della pubblicità medesima. In
attuazione dell’art. 1, paragrafo 2, dell’Undicesima direttiva, il secondo comma
dell’articolo in esame dispone: «Ai terzi che hanno compiuto operazioni con la sede
secondaria non può essere opposto che gli atti pubblicati ai sensi dei commi precedenti
sono difformi da quelli pubblicati nello Stato ove è situata la sede principale».
L’espressione deve essere interpretata in senso ampio, senza possibilità di distinguere, ad
esempio, tra i terzi che siano anche soci ovvero amministratori o sindaci della società e
altri terzi.
Il terzo comma dell’articolo in esame sgombra il campo dall’equivoco (peraltro
improbabile) che l’osservanza di quanto prescritto dal primo comma in materia di
pubblicità degli atti sociali esaurisca il quadro delle disposizioni della legge italiana
applicabili alle sedi secondarie, dichiarando a queste espressamente applicabili «le
disposizioni che regolano l’esercizio dell’impresa o che la subordinano all’osservanza
di particolari condizioni».
La dottrina è solita menzionare, tra le disposizioni cui rinvia il terzo comma
dell’articolo in esame, quelle in materia di rappresentanza dell’imprenditore, di lavoro
subordinato, di autorizzazioni e licenze. A queste possono aggiungersi le norme
tributarie, quelle in materia di responsabilità civile (si pensi in particolare alla
17
responsabilità del produttore), di tutela dei consumatori, di fallimento, di mercati
finanziari (si pensi, in particolare, alle disposizioni in materia di succursali di banche,
imprese di assicurazione o altri intermediari finanziari esteri, alla disciplina dell’appello
al pubblico risparmio ovvero dell’offerta fuori sede, alle disposizioni in materia di
trasparenza bancaria e così via). Va da sé che l’applicazione di tali disposizioni è
subordinata a una verifica di compatibilità con i principi comunitari in materia di libertà
di stabilimento.
Infine, il contenuto delle indicazioni negli atti e nella corrispondenza imposto
dall’ultimo comma dell’art. 2508, così come formulato, travalica i limiti stabiliti dal
legislatore comunitario. La disposizione in questione intende dare attuazione all’art. 6
dell’Undicesima direttiva a norma del quale «gli Stati membri prescrivono che le lettere e
gli ordinativi utilizzati dalle succursali indichino oltre alle menzioni prescritte dall’art. 4
della direttiva 68/151/CEE» (Prima Direttiva in materia di diritto societario), «il registro
delle imprese presso il quale è costituito il fascicolo della succursale nonché il numero di
iscrizione della succursale in detto registro». Orbene, mentre queste ultime due
indicazioni sono state fedelmente trasposte nell’ultimo comma dell’art. 2508, le ulteriori
indicazioni richieste attraverso il rinvio all’art. 2250 c.c. eccedono quanto prescritto dalla
Prima Direttiva. Infatti, la Prima Direttiva non prevede l’obbligo di indicare negli atti e
nella corrispondenza il capitale sociale versato ed esistente né la circostanza che la
società ha un unico socio. Pertanto, a questi obblighi non possono ritenersi assoggettate
neppure le sedi secondarie di società comunitarie.
Art. 2509. (Società estere di tipo diverso da quelle nazionali). — Le società
costituite all’estero, che sono di tipo diverso da quelli regolati in questo codice, sono
soggette alle norme della società per azioni, per ciò che riguarda gli obblighi relativi
all’iscrizione degli atti sociali nel registro delle imprese e la responsabilità degli
amministratori.
L’art. 2509 c.c. assoggetta alla disciplina delle società per azioni, limitatamente
alle disposizioni in materia di pubblicità e di responsabilità degli amministratori, le
società costituite all’estero di tipo diverso da quelli regolati dal codice civile.
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La prima questione interpretativa che esso solleva, di difficile soluzione, concerne
il suo ambito di applicazione: a quali società estere si fa riferimento? Sono astrattamente
possibili varie soluzioni, parzialmente combinabili tra loro. La tesi più estensiva include
tutte le società costituite all’estero che abbiano o meno una sede secondaria con
rappresentanza stabile e che siano o meno società cui si applica la legge italiana ai sensi
dell’art. 25, 1° comma, secondo periodo, della l. 218/1995 (in questo senso PESCE, Foro
pad., 1975, I, 151). Questa tesi, nettamente minoritaria, è certamente da scartare. Essa
avrebbe, infatti, l’assurda conseguenza di assoggettare agli obblighi di pubblicità
qualunque società si trovi anche soltanto occasionalmente a trattare affari in Italia
intralciando in maniera «insopportabile» lo svolgimento delle contrattazioni, in contrasto
con quella
«tendenza alla liberalizzazione degli scambi che sembra essere ormai
principio generale del sistema moderno in seguito ai trattati e ai progetti di estensione dei
medesimi» (SIMONETTO, Trasformazione e fusione delle società. Società costituite od
operanti all’estero, in COMMENTARIO
DEL CODICE CIVILE
a cura di A. SCIALOJA e G.
BRANCA, Libro Quinto, Del lavoro - Art. 2498-2510). In alternativa, può pensarsi ad un
ambito di applicazione esteso a tutte le società costituite all’estero, ad eccezione di quelle
a cui si applica la legge italiana ai sensi della disposizione ultima citata (così, MESSINEO,
Manuale di diritto civile e commerciale, vol. IV, Milano, 1954, 8a ed., 563). Oppure si
può ritenere che l’articolo in esame si applichi alle società aventi una o più sedi
secondarie con rappresentanza stabile in Italia e a quelle italiane ai sensi dell’art. 25 (così
MONACO, L’efficacia delle leggi nello spazio, in Trattato di diritto civile italiano diretto
da F. VASSALLI, vol. I, t. 4, Torino, 1964, 2a ed., 142; BALLADORE PALLIERI, Diritto
internazionale privato italiano, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A.
CICU e F. MESSINEO, vol. XLV, Milano, 1974, 151; BALLARINO, Trattato,101; ABATE,
DIMUNDO, LAMBERTINI, PANZANI, PATTI, Gruppi, trasformazione, fusione e scissione,
scioglimento e liquidazione, società estere, Milano, 2003, 572). O, ancora, il suo ambito
di applicazione può reputarsi circoscritto alle sole società cui si applica l’art. 2508 (in tal
senso la prevalente dottrina: v. CAPOTORTI, La nazionalità delle società, Napoli, 1953,
219; LEANZA, Società straniera (voce), in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVII, Torino,
1970, n. 11; SIMONETTO, Commentario, sub art. 2507; CARUSO, Le società nella
Comunità Economica Europea, Napoli, 1969, 143; SANTA MARIA, Le società nel diritto
19
internazionale privato, Milano, 1970, 192; FERRARO, Società estere e sedi secondarie in
Italia, in Soc., 1986, 589; in giurisprudenza v., obiter, App. Roma, 8 ottobre 1952, in Dir.
mar., 1953, 246).
La nozione di società valida ai fini delle disposizioni del capo in esame è assai
ampia: essa trascende quella di «società» della tradizione giuscommercialistica italiana,
per abbracciare più ampiamente tutte le forme organizzative meta-individuali create
per l’esercizio di attività economiche. Ciò non significa che l’articolo in esame si
applichi a tutte le «società» non assimilabili ai tipi previsti dal libro quinto, titolo quinto
del codice civile. Infatti, se è ampia e «atecnica» la nozione di società, deve ugualmente
reputarsi ampia la nozione di «tipo» che la norma qui in esame utilizza. Dunque, il previo
tentativo di assimilazione a un tipo italiano deve avere a riferimento ciascuna delle forme
organizzative tipiche previste dal codice civile. E parrebbe del tutto sensato non fermare
l’indagine al codice civile, per guardare bensì a ogni altra forma organizzativa prevista
dalla legge italiana: è chiaro infatti che il legislatore del 1942, nel rinviare al codice
civile, presupponeva un sistema «chiuso», nel quale non si dessero tipi diversi da quelli
da esso previsti. Se e nella misura in cui sia possibile rinvenire nell’ordinamento altre
forme organizzative fornite di autonoma disciplina perlomeno sotto il profilo della
pubblicità degli atti sociali (come forse, sia detto del tutto incidentalmente considerata la
novità della disciplina, le imprese sociali disciplinate dal d.lgs. 24 marzo 2006 n. 155),
allora non vi è motivo per trattare le «società» straniere a queste assimilabili in modo
diverso e cioè, dal punto di vista del diritto comunitario e forse anche del principio di
eguaglianza dinanzi alla legge, discriminatorio, come avverrebbe ove le si
assoggettassero alla (tendenzialmente più severa) disciplina delle società per azioni.
Per procedere alla «tipizzazione» delle società estere, com’è stato osservato, «si
deve tener conto degli elementi costitutivi essenziali del tipo, considerati più per la loro
sostanza che per le esigenze formali» (SIMONETTO, Commentario, sub art. 2507). Data la
funzione delle disposizioni in esame, volte essenzialmente a ridurre i costi di transazione
tra società estere e terzi, pare peraltro sensato prendere a riferimento quei profili
tipologici che più direttamente possono avere rilievo per i terzi. Le caratteristiche
essenziali, dunque, concerneranno certamente i profili della responsabilità per le
obbligazioni sociali, della presenza o meno di una struttura corporativa e della
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destinazione degli utili. Assai meno significative ai fini del giudizio di assimilazione,
invece, perché tendenzialmente assai meno idonee a incidere sulla posizione dei terzi,
sono le regole in materia di circolazione delle quote sociali o, a maggior ragione, altri
profili meramente interni come la distribuzione dei poteri tra i vari organi sociali etc.
Un classico esempio di «società» estera non assimilabile ad alcuno dei tipi
previsti dalla legge italiana (salvo peraltro chiedersi se, alla luce della soluzione qui
accolta in merito a cosa s’intende per tipo ai fini dell’articolo in esame, non sia più
corretta l’assimilazione a una fondazione) è quello dell’Anstalt del Liechtenstein.
Se una «società» estera non è assimilabile ad alcuna forma organizzativa tipica
prevista dalla legge italiana, le si applicano le disposizioni in materia di pubblicità degli
atti sociali e di responsabilità degli amministratori di società per azioni.
Si è visto sub art. 2508 che il novero degli atti e dei fatti da pubblicare da parte
delle s.p.a. è diverso, a seconda che si tratti di s.p.a. provenienti dall’Unione Europea e
dallo Spazio Economico Europeo (per le quali valgono le indicazioni tassative
dell’Undicesima Direttiva) o da paesi terzi. Nel caso di società «atipiche» assimilate alle
s.p.a. ai fini della disciplina, occorre ugualmente distinguere tra società di paesi dell’UE
ovvero dello Spazio Economico Europeo, per le quali vale il generale limite della
compatibilità con la libertà di stabilimento, e società di paesi terzi, per le quali questi
vincoli non valgono. È da escludere, invece, che anche per le società estere atipiche possa
valere l’elenco tassativo di atti e fatti che gli Stati membri possono o devono far
pubblicare ai sensi dell’Undicesima Direttiva, poiché questa si applica solo ai tipi in essa
specificati mediante rinvio all’art. 1 della Prima Direttiva.
Occorre ricordare che il riferimento alla responsabilità degli amministratori
nell’art. 230, 3° comma, del codice di commercio si spiegava alla luce del relativo 2°
comma, che estendeva ai rappresentanti delle società con sede secondaria o
rappresentanza in Italia le norme in materia di responsabilità verso i terzi degli
amministratori di società nazionali.
L’ipotesi
più
plausibile,
abbandonato
anche
retroattivamente
il
mito
dell’infallibile razionalità del legislatore, è che il legislatore del 1942 abbia
distrattamente conservato il riferimento alla responsabilità degli amministratori
delle s.p.a., senza avvedersi del venir meno della corrispondente disposizione sui
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rappresentanti in Italia di società aventi nel territorio dello Stato una sede secondaria.
Alla luce di ciò, sono del tutto giustificati i vari tentativi di dare un’interpretazione
quanto più possibile restrittiva alla norma in esame. Del resto, lo impone la stessa
giurisprudenza Centros, di fronte alla quale ben difficilmente essa può resistere, non già
in quanto discriminatoria (non si vede, infatti, nei confronti di quali tipi di società italiane
la disposizione lo sarebbe, visto che non vi è un tipo corrispondente), ma in quanto non
proporzionata.
Quanto meno, allora, la norma dev’essere circoscritta alla responsabilità verso i terzi ai
sensi degli art. 2394 e 2395 (v. già SIMONETTO, Commentario, sub art. 2507; SANTA
MARIA, 194). Inoltre, è «logico limitare l’applicabilità [delle norme citate] ai soli atti
compiuti in Italia e concernenti la conduzione della sede secondaria» (FERRARO, 589; in
tal senso già SANTA MARIA, 194). Ancor più restrittiva è l’interpretazione fornita dal
Ballarino, secondo il quale la responsabilità cui fa riferimento l’articolo in esame sarebbe
solo quella prevista dall’art. 2509-bis (BALLARINO, La società per azioni, 102). Ma una
simile lettura non convince: il richiamo delle norme in materia di responsabilità degli
amministratori non è di alcun ausilio all’operatività dell’art. 2509-bis né vi è alcuna
affinità di presupposti tra la responsabilità da questo prevista (che sorge per il solo fatto
di aver agito a nome della società estera) e quella, per inadempimento degli obblighi di
legge o statutari ovvero di stampo aquiliano, di cui agli art. 2394 ss. c.c.
Art. 2509-bis. (Responsabilità in caso di inosservanza delle formalità). — Fino
all’adempimento delle formalità sopra indicate, coloro che agiscono in nome della
società rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali.
L’articolo in esame introduce una responsabilità illimitata e solidale in capo a
chi ha agito in nome di una società costituita all’estero fino a che questa non abbia
adempiuto le formalità indicate negli articoli precedenti.
La dottrina prevalente si esprime nel senso che funzione della norma, come
quella degli obblighi il cui inadempimento fa scattare la sanzione da essa prevista, sia
quella di garanzia (tutela) dei terzi. Si è visto peraltro, che la funzione ultima della
pubblicità prescritta per le società costituite all’estero va oltre gli interessi dei terzi che
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vengono in contatto con le relative succursali. La pubblicità serve piuttosto, in ultima
analisi, ad agevolare le relazioni commerciali delle società estere stabilmente operanti
in Italia, mediante la messa a disposizione di una serie di informazioni su di esse.
Pertanto, anche la ratio ultima della norma in esame, di chiaro stampo sanzionatorio e
dunque volta, ex ante, ad assicurare l’adempimento delle prescrizioni pubblicitarie
(FERRARO, 589) può dirsi la medesima (LEANZA, n. 12; SIMONETTO, Commentario, sub
art. 2508). Dato il tipo di sanzione, peraltro, è evidente che la disposizione in esame, in
concreto, va specificamente a vantaggio dei terzi che contrattino con sedi secondarie non
iscritte, migliorando la qualità e la facilità di riscossione dei loro crediti verso la società
estera con sede secondaria «irregolare» in Italia.
Quel che è certo è che la disposizione in esame non mira a tutelare soltanto i terzi
che vengano a contatto con una sede secondaria irregolare di società estera in buona fede,
ossia ignorando il legame tra la sede e la casa madre (nel senso che la norma miri a
tutelare i terzi di buona fede che contrattano con la società v. invece Trib. Venezia, 19
agosto 1948, in Dir. mar., 1948, 393; e, nella stessa causa, App. Venezia, 22 luglio 1950,
in Riv. dir. nav., 1951, I, 59). Infatti, la sanzione opera a «prescindere da ogni rilievo
relativo all’affidamento dei terzi» (Trib. Venezia, 24 settembre 1969, in Riv. dir. int.
priv. proc., 1970, 854).
Si noti inoltre che quella contenuta nell’articolo in esame non è la sola sanzione
prevista dall’ordinamento per il caso di inadempimento degli obblighi di pubblicità:
infatti, ove si tratti di enti che possano considerarsi società o consorzi ai fini della legge
penale e sempreché possa rinvenirsi un termine per il deposito, in caso di omissione si
applica l’art. 2630 c.c.
Prima della riforma dei reati societari del 2002, si applicava altresì l’art. 2627 c.c.,
appositamente modificato in sede di recepimento dell’Undicesima Direttiva per punire il
preposto della sede secondaria di società estere che avesse omesso le indicazioni
prescritte dall’art. 2508. Poiché l’art. 2627 non è stato riprodotto dal legislatore del 2002,
attualmente l’obbligo delle indicazioni negli atti e nella corrispondenza prescritto dalla
Direttiva è divenuto, dunque, privo di sanzione (V. PERNAZZA, Libertà di stabilimento
delle società in Europa e tutela dei creditori, in Società, 2004, 388) e lo Stato italiano si
rivela inadempiente agli obblighi prescritti in parte qua dall’art. 12 della Direttiva.
23
È pacifico che le formalità prescritte dalla legge italiana nei confronti delle
società costituite all’estero non sono condizione per il riconoscimento della
personalità giuridica dell’ente straniero ai fini della legge italiana, cosicché esso è in
grado di assumere obbligazioni (e di acquistare diritti) per il tramite dei propri
rappresentanti (che si tratti o meno dei preposti alla sede secondaria «irregolare») sia pure
ove abbia violato le prescrizioni dell’art. 2506. Ciò induce la dottrina prevalente a
ritenere, con argomentazioni del tutto convincenti, che la responsabilità di coloro che
hanno agito non già si sostituisca, ma si cumuli con quella della società, come del resto
conferma già, sul piano letterale, il riferimento alle «obbligazioni sociali» (v. in tal senso,
e multis, MONACO, 138; SIMONETTO, Commentario, sub art. 2508; LUZZATTO, Persona
giuridica, diritto internazionale privato – voce - in Enciclopedia del diritto, XXXII,
Milano, 1983, n. 5; ANGELICI, Società costituite o operanti all’estero – voce, in Enc.
giur. Treccani, vol. XXIX, Roma 1993, n. 2.3.1; BALLARINO, Le società per azioni, 81;
in giurisprudenza v. Cass. 4 ottobre 1954, in Dir. marittim., 1955, 225; Trib. Roma, 2
maggio 1963, in Giust. civ., 1964, I, 704. Contra, CAPOTORTI, 220; BALLADORE
PALLIERI, 154; in giurisprudenza si esprime nel senso della «giuridica[...] inesisten[za] di
fronte ai terzi» della sede secondaria «irregolare» Cass. 26 ottobre 1955, in Foro it.,
1956, I, 338).
Quali sono le «formalità sopra indicate» il cui inadempimento comporta la
responsabilità di coloro che agiscono in nome della società? Si è visto nel commento
all’art. 2508 che la sede secondaria è tenuta non soltanto ad una pubblicità «iniziale»,
consistente essenzialmente nel deposito dell’atto costitutivo e nell’indicazione delle
generalità dei rappresentanti della sede secondaria nonché dei relativi poteri, ma anche a
obblighi di pubblicità successivi e, nel caso ad esempio del bilancio, periodici. Inoltre,
l’art. 2508 impone altresì di inserire determinate indicazioni negli atti e nella
corrispondenza.
A favore di un’interpretazione estensiva militano esclusivamente alcune sentenze
rese intorno al 1920 in casi in cui era stato omesso il deposito del bilancio (Cass. Torino,
10 aprile 1920, in La Giurisprudenza, 1920, 646; App. Genova, 5 marzo 1920, in Foro
it., 1920, I, 552) e, nel vigore del codice civile del 1942, un’affermazione incidentale e
generica della Suprema Corte (Cass. 26 ottobre 1955, in Foro it., 1956, I, 338). Ma una
24
simile sanzione può giustificarsi (al più) laddove la situazione sia (tendenzialmente)
analoga a quella di una società per azioni non iscritta o di una società di persone
irregolare (Cfr. GINELLI, in Riv. soc., 1967, 625) e dunque con riferimento agli obblighi
di iscrizione «iniziali», ossia dovuti nel momento in cui per la prima volta la sede
secondaria (e chiaramente: ciascuna sede secondaria) viene iscritta (in tal senso v.
ABATE, 579). Per tutti gli altri obblighi (compresi dunque quelli relativi al bilancio e
alle indicazioni negli atti e nella corrispondenza) una diversa soluzione sarebbe prima
facie discriminatoria rispetto alla corrispondente disciplina per le società italiane e,
come tale, incompatibile con il TCE nonché, plausibilmente, anche con il principio
costituzionale di eguaglianza dinanzi alla legge. Per l’inadempimento degli altri
obblighi di pubblicità nei confronti del registro delle imprese le sole sanzioni sono,
dunque, quelle previste dagli art. 2196 e 2630.
Nella sua massima estensione la norma in esame parrebbe estendere
indistintamente a chiunque abbia assunto, anche una tantum, la veste di rappresentante
della società estera prima dell’adempimento delle formalità una responsabilità estesa a
tutte le obbligazioni imputabili alla società estera.
La dottrina e la (scarsa) giurisprudenza, con alcune eccezioni quanto alla
seconda, hanno però teso a circoscrivere la portata della norma in esame. Infatti,
l’orientamento pressoché univoco è nel senso di ritenere che non tutti coloro che abbiano
agito in nome della società estera rispondano delle sue obbligazioni, ma soltanto coloro
che la rappresentino stabilmente (SIMONETTO, in questo Commentario, sub art. 2508;
GINELLI, in Riv. società, 1967, 623), da alcuni facendosi riferimento ancor più
specificatamente a coloro che siano preposti alla sede secondaria (CAPOTORTI, 219;
FERRARO, 589; in senso critico v. SIMONETTO, Commentario, sub art. 2508).
La tesi restrittiva fa leva sulla natura sanzionatoria della responsabilità di cui si
tratta: se essa è imposta come sanzione per il mancato adempimento delle formalità
prescritte,
sarebbe
incongruo
assoggettarvi
soggetti
diversi
da
coloro
che
dell’inadempimento sono responsabili all’interno dell’organizzazione. Dunque, non sono
responsabili coloro che abbiano rappresentato la società in via del tutto occasionale
(SIMONETTO, Commentario, sub art. 2508), come nel caso degli agenti (ibidem;
FERRARO, 589).
25
A quali obbligazioni sociali si estende la responsabilità in questione? Nonostante il
silenzio al riguardo del codice civile, è ragionevole un’interpretazione restrittiva, quanto
meno nel senso che la responsabilità riguardi le obbligazioni imputabili all’attività
(anche solo rappresentativa) della singola sede secondaria.
La dottrina e la giurisprudenza si sono peraltro spinte oltre, circoscrivendo la
responsabilità, per ciascun rappresentante, alle obbligazioni relative agli atti da lui
compiuti (Cass. 2 febbraio 1953, in Giur. it., 1953, I, 1, 323; in dottrina, FERRARO, 590).
In ragione dell’ampiezza della formula utilizzata, della natura sanzionatoria della
disposizione e dei labili confini tra obbligazioni da contratto e obbligazioni nascenti da
altra fonte, pare corretto ritenere che la responsabilità dei soggetti preposti alla sede
secondaria e muniti di rappresentanza riguardi anche le obbligazioni non da contratto
(e in particolare da fatto illecito).
Coloro che hanno speso il nome della società rispondono delle obbligazioni
sociali «illimitatamente e solidalmente», ossia con tutto il proprio patrimonio e senza
alcun ammontare massimo, nonché in solido con eventuali altri rappresentanti e con la
società stessa, e dunque senza alcun beneficio di preventiva escussione del patrimonio di
questa (SIMONETTO, in questo Commentario, sub art. 2508; conf. ABATE, 579).
Da ultimo, la giurisprudenza ha avuto modo di escludere che, come in realtà pare
ovvio, la responsabilità illimitata e solidale del rappresentante per le obbligazioni sociali
ne implichi l’assoggettabilità al fallimento e alle altre procedure concorsuali (Trib.
Bologna, 25 febbraio 1966, in Banca, borsa, tit. cred.., 1966, II, 140; App. Firenze, 11
maggio 1973, ined., cit. da MONTI, in Riv. società, 1975, 1291); in dottrina, FERRARO,
590).
La sanzione prevista dall’articolo in esame deve probabilmente considerarsi
discriminatoria in relazione alle società UE e perciò restrittiva della libertà di
stabilimento.
La Corte di Giustizia, nella sentenza Inspire Art, con riferimento a una
disposizione assai simile dell’ordinamento olandese, ha ricordato che gli Stati membri
devono «vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano punite, sotto il
profilo sostanziale e procedurale, in forme analoghe a quelle previste per le violazioni
del diritto interno simili per natura e importanza e [a] che, in ogni caso, conferiscano
26
alla sanzione stessa un carattere effettivo, proporzionale e dissuasivo» (Corte di
Giustizia delle Comunità Europee 30 settembre 2003, Società, 2004, 374).
In base a queste direttive, il giudice italiano in ipotesi chiamato a giudicare della
conformità all’ordinamento comunitario dell’articolo in esame dovrebbe dunque valutare
l’equivalenza della sanzione rispetto a quelle comminate alle società italiane per
violazioni analoghe. Si tratta allora di capire quali siano queste violazioni analoghe. A un
primo sguardo, sembrerebbe possibile assimilare il caso di specie, in alternativa, alla
mancata iscrizione di una società di capitali italiana ovvero alla mancata iscrizione della
sede secondaria di una società italiana.
L’assimilazione alla società di capitali non iscritta consentirebbe di salvare la
disposizione in parola, posto che l’art. 2331, 2° comma, primo periodo, contiene una
disposizione sostanzialmente identica a quella in esame (V. in tal senso MUNARI, Riforma
del diritto societario italiano, diritto internazionale privato e diritto comunitario, in Riv.
dir. int. priv. proc., 2003, 42); ma essa pare da scartare.
Infatti, com’è stato da più parti osservato, le due ipotesi sono profondamente
diverse (v. già, tra gli altri, GINELLI, 625): nel caso della società per azioni non iscritta,
siamo in presenza di un ente non ancora venuto ad esistenza in nome del quale vengono
compiute operazioni e l’iscrizione nel registro delle imprese è la condizione necessaria
perché esso diventi tale; nel caso della sede secondaria irregolare, invece, l’ente costituito
all’estero è pienamente riconosciuto come tale dall’ordinamento italiano (come del resto
impone la giurisprudenza Centros) e l’iscrizione nel registro delle imprese della sede
secondaria nulla ha a che fare con il riconoscimento (v. PERNAZZA, Società, 2004,
387; e, più ampiamente, LOMBARDO, 366).
D’altra parte, anche la seconda assimilazione (mancata iscrizione di sede
secondaria) suscita perplessità (v. PERNAZZA, 387): se si tratta di una società italiana,
grazie alle reti informatiche nazionali, il terzo che contratti con il rappresentante di una
sede secondaria «irregolare» non avrà particolari difficoltà a reperire dal registro delle
imprese italiano tutte le informazioni che l’ordinamento gli mette a disposizione, mentre
dovrà sostenere costi assai più elevati (e rischi giuridici maggiori) se vorrà rivolgersi al
registro delle imprese del paese d’origine della società estera. Dunque, anche questa
assimilazione è da scartare.
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Se non è possibile individuare una specifica ipotesi di violazione di obblighi
pubblicitari alla quale assimilare quella della sede secondaria di società estera irregolare,
ciò non desta particolari problemi: significa soltanto che occorre guardare al trattamento
sanzionatorio che il legislatore nazionale prevede, in generale, per l’inadempimento
degli obblighi pubblicitari delle società di capitali: dunque, all’art. 2630. E poiché tale
disposizione contiene una sanzione diversa da quella dell’articolo in esame e assai meno
grave della medesima, è giocoforza concludere che la disposizione in esame è
incompatibile, in quanto discriminatoria, con l’ordinamento comunitario.
Il trattamento deteriore delle società di paesi terzi rispetto alle società UE
sembra giustificato anche sotto il profilo del principio di uguaglianza. Infatti, mentre
nel caso delle società UE un grado di pubblicità minimo è garantito dalla Prima e dalla
Seconda Direttiva, ragion per cui il reperimento delle informazioni è soltanto una
questione di costi, per le società di stati terzi dette informazioni potrebbero non essere
affatto disponibili mediante sistemi di pubblicità legale.
Art. 2510. (Società con prevalenti interessi stranieri).
— Sono salve le
disposizioni delle leggi speciali che vietano o sottopongono a particolari condizioni
l’esercizio di determinate attività da parte di società nelle quali siano rappresentati
interessi stranieri.
L’art. 2510 c.c. contiene una disposizione eccezionale facente salve le
disposizioni di leggi speciali che vietano o sottopongono a «particolari condizioni
l’esercizio di determinate attività da parte di società nelle quali siano rappresentati
interessi stranieri». Com’ebbe a osservare il Monaco, è da supporre che la disposizione
«sia stata contemplata in relazione alla legislazione speciale vigente in Italia nel momento
della redazione del codice ed occasionata dalla guerra» (MONACO, 142).
La norma in esame presenta oggi scarso interesse teorico e pratico (ABATE,
581). In primo luogo, la salvezza delle leggi speciali avrebbe potuto già desumersi dai
principi di successione delle leggi nel tempo. In secondo luogo, grazie anche all’influenza
comunitaria è assai arduo rinvenire esempi di leggi speciali di questo tipo tuttora in
vigore, se si eccettua la legge di guerra in relazione alla quale la previsione in questione è
28
stata contemplata (r.d. 8.7.1938, n. 1415). In terzo luogo, dovrebbero essere proprio le
leggi speciali cui la norma fa riferimento a individuare il loro campo di applicazione.
E’ appena il caso di constatare che la salvezza delle leggi speciali non sottrae
queste ultime al controllo di compatibilità con l’ordinamento comunitario ove esse già
non discrimino tra società UE e società di Paesi terzi.
Alcuni Autori hanno ritenuto di poter rinvenire nella disposizione in questione
una riserva relativa di legge in materia di controlli sull’attività delle società nelle quali
siano rappresentati interessi stranieri (GRECO, 508; SIMONETTO, Commentario, sub art.
2510; ABATE, Gruppi, 581; PERNAZZA, 2027). Questa opinione non sembra condivisibile.
Infatti, far salve le disposizioni di leggi speciali esistenti (o future) non implica di per sé
che siano implicitamente abrogate eventuali disposizioni di rango inferiore nella
gerarchia delle fonti aventi analogo contenuto né soprattutto che, per il futuro, soltanto
disposizioni di legge possano imporre simili limiti. D’altra parte, non vi è alcun bisogno
della disposizione in esame per porre una riserva relativa di legge in materia di controlli
sulle società in cui sono rappresentati interessi stranieri: essa si ricava già dall’art. 2084, e
ben più significativamente, dai principi costituzionali in materia di libertà di iniziativa
economica.
La disposizione in esame ha avuto, al più, un valore sistematico, dal momento
che essa, tanto più se si ricorda la sua originaria prossimità alle norme di conflitto in
materia di società (artt. 2505 e 2509 vecchia numerazione), confermava, se ve ne fosse
bisogno, l’irrilevanza della dottrina del «controllo» ai fini dell’attribuzione della
nazionalità italiana alle società (per riferimenti in senso contrario, v. CAPOTORTI, 221;
GRECO, 508).
Ciò detto, per dovere di completezza si dà conto di seguito delle questioni
interpretative sulle quali la dottrina si è interrogata in merito alla disposizione in esame.
Una prima questione concerne il suo ambito di applicazione: alcuni A. ritengono che
essa si applichi solo alle società italiane (v., ad es., VITTA, Diritto internazionale privato,
vol. II, Torino, 1972, 86). Altri, invece, reputano la norma applicabile sia alle società
italiane sia a quelle straniere (CAPOTORTI, 220; MONACO, 143; SANTA MARIA, 84).
Questa soluzione pare preferibile, tanto più che, abrogati gli art. 2505 e 2509 vecchia
numerazione, l’articolo in esame, che pacificamente si applica anche a società costituite
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in Italia e, dunque, non trova più una collocazione pienamente giustificata nel capo XI,
nulla più avrebbe anche lontanamente a che spartire con le altre disposizioni in esso
contenute.
Una seconda questione è sollevata dal fatto che mentre la rubrica fa riferimento
alle società con «prevalenti interessi stranieri», nel testo non vi è traccia dell’aggettivo:
vi è chi ha ritenuto di attribuire valore ermeneutico alla rubrica (GRECO, 509) e chi,
invece, anche sulla scorta di un passo inequivocabile della Relazione (Relazione al codice
civile, n. 1024), sostiene che la disposizione faccia riferimento anche alle società nei
confronti delle quali gli interessi stranieri non siano prevalenti (SIMONETTO,
Commentario, sub art. 2510).
Ci si è infine interrogati sull’espressione «rappresentati interessi stranieri», per
convenire sul fatto che il riferimento alla rappresentanza non è di tipo tecnico-giuridico,
dovendosi bensì guardare alla presenza o meno di una «ingerenza od influenza,
esercitabile in diversi modi» (GRECO, 509; SIMONETTO, Commentario, sub art. 2510) e
imputabile a soggetti (individuali o collettivi) non italiani: presenza nella compagine
sociale, negli organi amministrativi, controllo (anche esterno), patti parasociali, direzione
e coordinamento (anche congiunti), e così via.
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