Il caso italiano
Marchi d’impresa,
immagine coordinata, brand image
A cura
di Andrea Rauch
In una famosa definizione oramai ‘di scuola’ Tomás Maldonado dice che
“... il marchio è una protesi dell’oggetto in quanto merce” chiarendo in maniera
esemplare come, sottratto alla sua essenza comunicativa, anche il più concreto e
tangibile degli oggetti perda gran parte della sua connotazione, della sua riconoscibilità e quindi della sua essenza.
Nel mondo di oggi, pericolosamente in bilico tra ‘la cosa’ e ‘il nome della cosa’,
tra realtà e rappresentazione della realtà, con tutta l’ambiguità che inevitabilmente
questa dicotomia si trascina, la grafica appare dunque ben di più che non
una sovrastruttura necessitata. Senza la grafica non saremmo in grado quasi
di definire le cose, di assegnare posti o gerarchie di valore, non sapremmo
classificare o inquadrare, aderire o rifiutare. Non potremmo dare senso a molte
delle parole che vengono ogni giorno pronunciate e che sono l’interfaccia
necessaria del nostro vivere associato.
Viviamo infatti immersi nelle immagini e nei simboli.
Pensiamo in maniera sintetica, risaliamo ai concetti con un processo
di astrazione; abbiamo profondamente bisogno di trasferire il mondo reale
sul piano simbolico e rappresentativo per dargli sostanza e renderlo
comprensibile e comunicabile.
La grafica, se quindi diamo per buono quanto detto, non è un vezzo di settore
o peggio, un portato vernacolare, ma una necessità di vita. Ed è una necessità
di tutti in qualsiasi momento. È la figurazione simbolica della realtà, una chiave
essenziale del linguaggio, un codice di connessione di esperienze fondamentale.
Poi naturalmente la grafica e la comunicazione devono essere funzionali e,
a seconda dei casi, serviranno a informare, a chiarire, a vendere ecc,
e quindi si verranno a creare quelle ‘scatolette’ che saranno chiamate
immagine coordinata, quando si tratterà di definire il profilo istituzionale
di un’azienda, oppure brand image quando intorno all’azienda, o al prodotto,
si cercherà di creare un’aura protettiva’, o piacevole, o fascinosa.
I pannelli che seguono tracciano alcune storie italiane a cavallo
tra questi concetti e sono ‘case histories’ famose e significative, strategie
di immagine e comunicazione che si svolgono nel tempo in maniera essenziale
e peculiare, raramente ripetendo schemi prefissati, in genere elaborando
percorsi originali e significativi.
Sono progetti di immagine che afferiscono alla grafica, alla ‘brand image’,
alla comunicazione, alla pubblicità. Insieme ci sembra chiariscano bene
cosa si intende quando nel sottotitolo ci spingiamo a parlare di un ‘caso italiano’.
Nella storia della comunicazione Agip c’è un ‘prima’ e un ‘dopo’.
Prima del ‘cane a sei zampe’, dopo il ‘cane a sei zampe’. E il prima e il dopo
corrispondono ai differenti momenti storici dell’azienda e all’azione
di un imprenditore dell’importanza di Enrico Mattei.
Nel ‘prima’ lo scudetto con il logotipo Agip si accostava a benzine
che si chiamavano Victoria e Littoria e gli annunci erano nel tipico stile
fluvialmente eloquente dell’Italia autarchica. Qualche taglio trasversale
dell’immagine, alcune inquadrature dal basso, dinamiche, sono il massimo
di modernità a cui attinge in quegli anni l’Azienda Generale Italiana Petroli.
Dopo la guerra cambiano le prospettive, arriva la concorrenza (Shell, Esso,
Mobil...) e l’immagine cambia.
Nel 1952 Giuseppe Guzzi vince il concorso, voluto da Mattei, per la nuova
immagine Agip. Non si afferma con un progetto derivato dal Bauhaus
o dal razionalismo europeo (quello sostanziato in Italia dai grafici dello
Studio Boggeri, per intendersi) ma con una evidente e riferibilissima figura
‘araldica’, disegnata con il giusto rapporto tra ‘colori’ e ‘metalli’ e ispirata
probabilmente da uno dei tanti bestiari medievali italiani.
Una figura (una Chimera si è detto!) che non ha apparentemente rapporto
né con la tradizione né con l’innovazione. Nasce, viene approvata e applicata
di per sé, al di fuori del contesto grafico del periodo.
Forse è proprio per questo, per la difficoltà di dare al cane a sei zampe
una plausibilità di interpretazione e di racconto, per quell’alone di non completamente risolto o non completamente spiegato, che l’immagine si afferma e si consolida.
Nel 1971 Unimark (Bob Noorda, Franco Mirenzi e Mario Boeri) costruisce
per l’Ente Nazionale Idrocarburi un sistema di Immagine Coordinata
che privilegia soprattutto il logotipo e il disegno di un nuovo carattere
completo che servirà a declinare tutte le scritte funzionali.
Anche nel progetto Unimark, e negli adeguamenti successivi, il cane
a sei zampe mantiene comunque una sua centralità, sostanzialmente
inalterato nel disegno e nei colori originali.
Di lato:
a confronto
le insegne di
Agip
Mobil
Esso
Shell
Manifesti di
Marcello Dudovich
Leonetto Cappiello
Fortunato Depero
1860: Gaspare Campari comincia a produrre il ‘bitter all’uso di Hollanda’.
È l’atto di nascita del Bitter Campari e da allora, soprattutto con l’impulso
dato all’azienda paterna da Davide, la crescita è costante e continua.
Si avverte subito la necessità di ‘comunicare’ il prodotto, di percorrere le vie
nuove e moderne della propaganda e della pubblicità.
Davide Campari sarà attentissimo a questo aspetto della sua attività:
si riferirà costantemente agli artisti più importanti dell’epoca,
senza tralasciare di lanciare un occhio su quei giovani che potevano
sembrare promettenti, e le sue réclames diventeranno quasi una summa
del gusto delle epoche, viste attraverso l’ottica privilegiata della pubblicità
di prodotto. Interverranno nella comunicazione Campari Dudovich,
Metlikovitz, Sacchetti, Leonetto Cappiello (la Belle Époque),
Fortunato Depero e Diulgheroff (il modernismo di stampo futurista),
Marcello Nizzoli (la nuova sensibilità grafico pubblicitaria).
In tempi più recenti si possono ricordare Bruno Munari, con le sue
strepitose variazioni sul nome Campari, e ancora Ugo Nespolo
e Milton Glaser.
“Alcune parole, come alcuni
notissimi marchi di fabbrica,
sono talmente conosciute,
che se noi togliamo tutte
le lettere meno quella o quelle
caratterizzate e le sostituiamo
con delle sbarrette nere,
noi leggiamo sempre lo stesso
nome e poi, in un secondo tempo
ci accorgiamo che è qualcosa
di diverso...”
Bruno Munari
Manifesti di
Fortunato Depero
Bruno Munari
Per il pastificio di Parma Erberto Carboni lavorò, dall’inizio degli anni
Cinquanta, a tutto tondo, progettando l’immagine aziendale
ma anche elaborando, personalmente e in accordo con Pietro Barilla,
i concepts e gli slogans delle campagne pubblicitarie.
Ne nacquero alcuni degli annunci più belli e famosi del secondo dopoguerra:
“Ci vogliono cinque uova fresche per un chilo di pasta all’uovo Barilla”,
“Con Pasta Barilla è sempre domenica”, “La pasta del buon appetito”.
Annunci in cui la pubblicità appariva già ‘insieme’ maturo e adulto,
ma dove la grafica non era ancora stata relegata a mero supporto
sintattico (come succederà con molta della comunicazione aziendale
successiva che ne privilegerà l’aspetto retorico-narrativo).
Erberto Carboni e Barilla vinsero con quelle campagne, nel 1952,
la ‘Palma d’oro’ per la pubblicità italiana.
Negli anni Ottanta il marchio Barilla è stato ridisegnato da Bob Noorda
che ha comunque mantenuto la caratteristica forma d’uovo del progetto
originario.
“La pasta Barilla, già ben venduta,
era poco nota come marca...
La campagna, articolata in tutti
i suoi particolari, dal marchio
alle confezioni agli automezzi...
fece subito breccia e consentì
di far balzare in primo piano
un’azienda che fino allora
aveva agito in sordina,
senza una sua immagine
personale.”
Dino Villani
Manifesti per campagne
pubblicitarie di
Erberto Carboni
in basso:
Redesign
del marchio di
Bob Noorda
Manifesto di
Armando Testa
Il logotipo Pirelli sembra
essere paradigmatico proprio
per la sua autoreferenzialità
grafica. Ma la constatazione
della sua evidente ‘elasticità’
figurale, la ‘P’ allungata,
lo rimanda ad un universo
pittogrammatico.
Lungi quindi da non avere
nessun rimando iconico
il marchio-logotipo Pirelli
si salda, con evidente
continuità logica,
al suo referente: la gomma.
Pirelli è uno di quei nomi che in Italia c’è sempre stato.
C’è stato nella storia della costruzione industriale del paese moderno,
c’è stato nella storia della comunicazione, con un suo stile e una sua griffe
particolare.
La storia dell’azienda inizia nel lontano 1872, nello stabilimento di Ponte
Seveso; produce articoli di gomma ed è organicamente interessata al design
e alla comunicazione.
Al design per l’ovvio contributo di tecnologia che può offrire allo sviluppo
di aziende orientate al prodotto di qualità, e alla comunicazione perché
il suo ambito si muove principalmente all’interno di una ‘modernità’,
quella dell’industria del pneumatico, allora in continuo divenire
e in crescita costante, bisognosa quindi di idee e di propulsione esterna.
Si deve quindi recitare, anche per Pirelli, la consueta giaculatoria
di collaboratori illustri: Leonetto Cappiello e Marcello Dudovich,
Antonio Boggeri, Erberto Carboni, Bruno Munari, Armando Testa,
Bob Noorda, Pino Tovaglia, Ilio Negri.
La comunicazione Pirelli comunque non tende solo a vendere merci, quanto
ad orientare i consumi. Informa sulle caratteristiche di prodotto, sottolinea
innovazioni, vende un’idea della gomma. È quasi sempre informazione ‘istituzionale’, prima che pubblicità. Almeno fino a quando Armando Testa
non comincerà a disegnare per l’azienda le sue metafore pubblicitarie
o le ragazze del Calendario Pirelli non situeranno l’azienda nei paradisi
moderni della brand image e delle pubbliche relazioni.
Immagini di
Armando Testa
Bob Noorda
Ilio Negri
Poche sono state le parole che, per il proprio significato e per il proprio
disegno, si sono potute trasformare in ‘parole-persona’ come Olivetti.
La casa d’Ivrea è stata per anni sinonimo di ‘macchina da scrivere’
(almeno finché le parole ‘macchina-da-scrivere’ hanno avuto un significato!)
con un rimando assoluto tra il proprio referente e il proprio logotipo.
Non solo. Olivetti, con tutto il suo carico di storia aziendale, ha per molti anni
alluso ad un ‘modo’ di intendere l’industria, ad un ‘modo’ di progettare
e produrre merci, ad un ‘modo’ di comunicare e di pubblicizzare il prodotto.
Dagli anni Trenta agli anni Novanta saranno chiamati a collaborare
con Olivetti architetti come Pollini e Figini, Peressutti, Belgioioso,
Nathan Rogers, Zanuso e Bellini, grafici come Schawinsky, Munari,
Carboni e Veronesi, Paul Rand, Cassandre, Savignac e Bayer,
per arrivare quasi ai nostri giorni con i manifesti surreali di Milton Glaser
e con le immagini ‘istituzionali’ di Walter Ballmer e Roberto Pieracini.
Marchio logotipo
e immagini di
Walter Ballmer
Xanty Schawinski
Milton Glaser
Di fondamentale importanza,
in una storia comunque tanto ricca
di emergenze come quella di Olivetti,
l’art direction complessiva svolta,
tra il 1950 e il 1968, da Giovanni Pintori.
La poetica che Pintori applica
per Olivetti cerca di non riferirsi
mai troppo a stereotipi grafici
riconoscibili ma, usando in modo
sapiente gli artifici
sia della ‘metafora’ grafica
sia dell’illustrazione e della fotografia,
crea, per sommatoria di interventi,
uno stile personalissimo
e famosissimo con cui Olivetti,
e la grafica italiana, verranno
riconosciuti e ammirati ovunque.
Interior design
e annunci pubblicitari di
Giovanni Pintori
Sarebbe sbagliato analizzare la storia comunicativa
de La Rinascente come quella di un, pur importante,
grande magazzino, scandito nella sua vita commerciale
dalle stagioni e dalle mode. Sbagliato e ingiusto perché
gli anni de La Rinascente sono stati gli anni del design
italiano che, in via Santa Radegonda, angolo piazza Duomo,
Milano, ha avuto stimolo e rifugio.
Sempre, fin da quando, nel 1917, Gabriele D’Annunzio
trovò il nuovo nome che andava a sostituire un francesismo
demodé, Aux Villes d’Italie. Sempre, ma con una potente
accelerazione nel secondo dopoguerra quando Albe Steiner
e Max Huber (per non dire dei bellissimi cartelloni
di Marcello Dudovich!) progetteranno una comunicazione
che prevederà l’intervento continuo di tutti i grandi
protagonisti della grafica e del design.
L’interesse de La Rinascente per la progettazione di grande
qualità sarà così vivo da motivare quella mostra del 1953,
L’estetica del prodotto, che sarà il primo passo
per l’istituzione del Compasso d’oro che l’azienda milanese
gestirà, fino al 1967, insieme all’Associazione per il Disegno
Industriale.
Immagini di
Marcello Dudovich
Max Huber
Albe Steiner
Roberto Sambonet
Brand image tra le più popolari e diffuse, Vespa ebbe il suo battesimo
lessicale grazie ad un’osservazione di Rinaldo Piaggio che, ammirando
la linea del prototipo preparato dall’ingegner D’Ascanio ebbe a esclamare:
“Che vitino, ... sembra una Vespa!”. Era il 1946.
In pochi anni lo scooter Piaggio batté ogni record di vendite e di diffusione
diventando un oggetto ‘mitico’, in grado cioè di provocare suggestioni
e emozioni anche in presenza di culture, sensibilità, storie diverse.
Vespa era un mezzo di locomozione per il lavoro (si era nei primi anni
del tormentato secondo dopoguerra) e per lo svago; fu uno dei simboli
di una società che cresceva e si lasciava alle spalle difficoltà e disagi.
Sulla Vespa Gregory Peck e Audrey Hepburn potevano vivere le loro
Vacanze Romane e Domenico Modugno intonare gli acuti di Volare.
Vespa era un oggetto ‘giovane’, un artefatto ‘comunicativo’ straordinario.
Nei sessant’anni della sua storia il cammino dello scooter Piaggio
si è incrociato con quello di tanti comunicatori significativi che hanno
cercato di sostenerne il mito: da Savignac a Erberto Carboni,
da Leo Longanesi a Bernard Villemot, da Italo Lupi a Javier Mariscal,
da Shigeo Fukuda a Alan Fletcher. E la lista dovrebbe essere ben più lunga.
Immagini di
repertorio con
Domenico Modugno
Gregory Peck
Audrey Hepburn
Manifesti di
Andrea Rauch
Gilberto Filippetti
Manifesti di
Sandro Scarsi
Raymond Savignac
Alan Fletcher
Javier Mariscal
La cooperazione, secondo il senso comune e l’etimologia, è l’operare
insieme per raggiungere un fine prestabilito. È un legame tra ‘uguali’
che hanno necessità, bisogni e aspirazioni simili.
Naturale allora che Albe Steiner, nel disegnare il logotipo e l’immagine
per il primo ‘magazzino a servizio libero’, che si aprì a Reggio Emilia
il 19 ottobre 1963, abbia legato insieme le prime lettere ‘coop’
(con un lettering mutuato dall’Alfabeto universale di Herbert Bayer)
e abbia sottolineato, nel logotipo al tempo stesso suggestivo e narrativo,
soprattutto la valenza politica e civile che l’iniziativa voleva avere.
Coop crebbe negli anni in maniera esponenziale fino a diventare
una delle catene della grande distribuzione maggiormente diffuse
sul territorio, e i significati sociali ‘di parte’, impliciti nelle sue origini,
sono andati via via affievolendosi.
Anche nell’aggiornamento dei sistemi di immagine, definiti nel 1985-86
da Bob Noorda, non si è comunque rinunciato al valore evocativo e simbolico
di quel legame tra le lettere, di quell’operare insieme, che fu alla base
di quel lontano esperimento distributivo.
Marchio, stampati
e allestimento
per il primo ‘magazzino
a libero servizio’
Albe Steiner
Redesign
del marchio
e dell’immagine
Coop
Bob Noorda
Lo stile Fiorucci è, paradossalmente, l’assoluta mancanza di stile
e il suo è stato un continuo ricercare dentro la grafica per trarne ‘vecchie’
immagini che diventano ‘nuove’ con il riuso contestualizzato.
Il mondo più genuinamente ‘fiorucciano’, negli anni Settanta, si rifà dunque
alle correnti umorali della Pop Art e dell’Underground americano,
anch’esse filtrate dall’esperienze degli anni Quaranta e Cinquanta,
dai fumetti di Brick Bradford e Dick Tracy ad esempio.
I grafici che lavorarono allora per Fiorucci (Oliviero Toscani, Augusto Vignali,
Mizio Turchet ecc.) scoprirono l’esistenza preziosa di quei metaforici
‘magazzini di immagini già date’ che, variamente intrecciati e mescolati,
potevano contribuire a formare una poetica grafica nuova.
L'immagine di Fiorucci si affermò dunque contraddicendo tutti i parametri
della grafica sistematica di scuola ‘italiana’, senza assumere il ‘marchio’
come elemento centrale e irrinunciabile. Ogni manifesto, ogni sticker, ogni
etichetta, disegnava il logotipo Fiorucci in modo diverso e originale, legandosi solo alla fantasia e alla voglia del momento e mostrando un’anarchica
e salutare irriverenza per il concetto ‘sacro’, allora, di Immagine Coordinata.
Senza ‘metodo’ Fiorucci riuscì a costruire un metodo ‘fortissimo’.
Un’immagine perfettamente riconoscibile che si declinava per sommatoria
di immagini diverse. Quella che allora i teorici chiamavano ‘grafica debole’,
diventava, per reiterazione e capacità di diffusione capillare,
una grafica fortissima e vincente.
Il logotipo disegnato nel 1958 da Max Huber per la Esselunga
nasce in modo completamente tipografico con un lieve espediente
‘sintattico’; una ‘S’ allungata che sormonta il resto del logotipo
supermarket. La figura entra in breve nell’uso comune ed è tanto
caratteristica da diventare ben presto‘parola’.
Esselunga: difficile, dopo tanti anni, andare a capire se sia nato
prima l’uovo o la gallina. L’immagine è diventata, nel tempo,
così caratterizzante che ne viene disegnata una versione successiva,
usata in tutta la comunicazione recente, con un logotipo esteso
‘Esselunga’ e la ‘S’ allungata di Huber come marchio monogrammatico.
In questo caso la progettazione grafica ha determinato i contenuti
della comunicazione; la colloquialità del concetto e la dislocazione
territoriale diffusa hanno poi giocato un ruolo importante
nell’affermazione del marchio.
Raccontava Enzo Ferrari: “La storia del cavallino rampante
è semplice e affascinante. Il cavallino era dipinto sulla carlinga
del caccia di Francesco Baracca, l’eroico aviatore caduto
sul Montello, l’asso degli assi della Prima Guerra Mondiale...
Quando vinsi nel ‘23 il primo circuito del Savio, che si correva
a Ravenna, conobbi il conte Enrico Baracca, padre dell’eroe;
da quell’incontro nacque un successivo incontro, con la madre,
la contessa Paolina. Fu lei a dirmi, un giorno: “Ferrari, metta
sulle sue macchine il cavallino rampante del mio figliolo.
Le porterà fortuna.” Conservo ancora la fotografia di Baracca,
con la dedica dei genitori, in cui mi affidano l’emblema.
Il cavallino era ed è rimasto nero; io aggiunsi il fondo giallo
canarino che è il colore di Modena.”
Lo stemma della Scuderia Ferrari apparve per la prima volta
nel 1929 su tutte le pubblicazioni, le insegne e le carte ufficiali
della Società; per le vetture si dovrà aspettare il 9 e 10 luglio 1932,
alla 24 Ore di Spa. Il cavallino portò davvero fortuna: la gara fu vinta
dalla vettura di Taruffi e D’Ippolito. Da allora la scuderia Ferrari
non ha mai cambiato la sua immagine.
Recentemente Pierluigi Cerri (1995) ha disegnato il Manuale
di Immagine Coordinata dell’azienda. Mantenendo, va da sé,
il ‘cavallino rampante’, il ‘rosso Ferrari’ e il giallo di Modena.
In quanti modi si può vendere la moda? Si può vendere come una qualsiasi
altra merce, con un buon investimento di marketing e di pubbliche relazioni.
Ma anche in modo diverso. Firenze ha deciso di vendere moda come fatto
culturale, collegandola alla tradizione delle sfilate ultracinquantenarie
di Pitti, e avvicinandola anche a tutti gli altri eventi che la cultura
di una ‘gloriosa’ città d’arte può offrire come supporto o complemento.
L’immagine di Pitti Immagine (ci si scusi il bisticcio di parole) non è vissuta
quindi come mero supporto funzional-commerciale.
Un grafico colto, di sicuro talento e di completa affidabilità
come Pierluigi Cerri, studia un marchio ‘aperto’ e un sistema complessivo
di grafica e segnaletica che può trasformarsi a seconda delle circostanze
e vivere vite autonome e parallele con un tasso di autoironico divertimento.
Pitti Immagine propone da anni mostre ed eventi di alta spettacolarità,
che investono tutti gli aspetti dell’universo-moda. Alla Stazione Leopolda si
sono preparate esposizioni divertissement di bello spessore (Latin Lover,
Stili di Strada ecc.) in genere splendidamente allestite, nel tempo, da maestri quali Achille Castiglioni, Mario Bellini, lo stesso Cerri, Italo Lupi.
Grafica di
Pierluigi Cerri
Exhibit design di
Italo Lupi
La collaborazione tra Luciano Benetton e Oliviero Toscani inizia nel 1984
in un momento di forte dinamica espansiva dell’azienda.
Benetton cerca un nuovo look per affrontare la sfida internazionale
e Toscani è in grado di darglielo. Le prime campagne di immagine
contengono già i germi di quello che saranno gli anni successivi di United
Colors...: estremo nitore di comunicazione, nessun messaggio verbale
pleonastico o ridondante, focalizzazione estrema sul concept,
quasi sempre la sottolineatura e l’esaltazione delle differenze, intese
come risorsa e ricchezza.
A rendere efficace questa linea contribuisce, in quei primi anni, l’abilità
di Toscani fotografo, che costruisce un mondo di colori e di gente bella,
significativa, diversa. Sono fotografie e campagne di immagine
di forte fascino formale e di grande efficacia, ma Benetton e Toscani
spingono il pedale sull’acceleratore e vanno più a fondo, riproponendo brani
di cronaca fotografica cruda e dolente, come provocazione visiva assoluta.
Nascono le grandi campagne ‘sociali’ e se, fino ad allora, Toscani si era
limitato ad una ‘provocazione’ in certo modo glamour (il bacio tra il pretino
e la monachella, ad esempio!), adesso si tocca il punto di non ritorno
e l’azione pubblicitaria viene posta non più solo al servizio del business
aziendale ma direttamente in rapporto con un’idea quasi militante
di ‘socialità’. Sarebbe lungo, forse inutile riandare con la memoria
all’elenco delle campagne. Le ricordiamo tutte, come ricordiamo
le violente reazioni di stampa che le hanno quasi sempre accompagnate.
Campagne fotografiche di
Oliviero Toscani
Campagne fotografiche di
Oliviero Toscani