QUADERNI 10 Temi di diritto assicurativo Rassegna dei contributi di studio del Servizio legale nel 2000 INDICE Presentazione Consulenza 1. Art. 15 legge 9 gennaio 1991, n. 20 e successive modifiche – adempimenti derivanti da operazioni infragruppo 2. Approfondimenti in tema di applicazione dell’art. 15, legge 9 gennaio 1991 n. 20 3. Rapporti Isvap/Fondo di Garanzia ex art. 4, comma 1, lett. f), legge n. 792/1984 – scambio di notizie 4. Figura del difensore civico 5. Comitato per la posizione del personale dirigente delle imprese di assicurazione in liquidazione coatta amministrativa 6. Art. 8, legge n. 990/1969 – sostituzione di veicolo in corso di contratto – tariffa applicabile 7. Separate richieste di risarcimento relative al solo danno a case ed alle sole lesioni personali; conformità all’art. 3, L. 39/1977 solo della richiesta relativa al danno a cose – sanzionabilità per il ritardo nella formulazione dell’offerta 8. Situazioni di incompatibilità relative alla figura dell’attuario incaricato 9. Legge n. 675/1996 cd. legge sulla privacy e sevizio reso dall’ANIA 10. Conservazione da perte delle imprese assicurative di dati sanitari acquisiti ai fini della liquidazione dei sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A. 11. Circolazione stradale e risarcimento del danno allo straniero 12. Rivalutazione minima delle sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. n. 449/1959 in base all’art. 83 d.lgs. 26 maggio 1997 n. 173 – Attuazione della direttiva 91/674/CEE in materia di conti annuali e consolidati delle imprese di assicurazione 13. Convenzione ai sensi dell’art. 8 d.P.R. n. 973/1970 relativa agli obblighi connessi con l’assicurazione r.c. natanti 14. Sentenza Tar Lazio del 7 aprile 2000 in tema di situazioni impeditive 15. Individuazione dei termini di verifica da parte del Consiglio di Amministrazione, ai sensi dell’art. 3 del d.m. 162/2000, del possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del collegio sindacale di società assicuratrici 16. Obbligo per l’assicuratore di rilascio dell’attestazione sullo stato di rischio – art. 2 legge 39/1977 – ritiro a mezzo rappresentante 17. Documentazione necessaria per un mediatore di assicurazione e/o riassicurazione (persona fisica o società) residente in uno Stato membro dell’UE per esercitare in Italia l’attività in regime di libera prestazione di servizi 18. Natura di un contratto denominato “Polizza convenzione cauzioni” 19. Trasferimento di portafoglio – art. 75 d.lgs. 175/1995 20. Condizioni generali di contratto del ramo tutela giudiziaria 21. Forme integrative di assistenza sanitaria gestite da società di mutuo soccorso. Ruolo dell’Isvap 22. Ordine cronologico dei registri dei contratti stipulati – art. 49, comma 1, R.D. 4 gennaio 1925, n. 63 23. Responsabilità dell’impresa di assicurazione per i fatti posti in essere da soggetti che operano nel campo dell’intermediazione assicurativa con incarichi non ricevuti direttamente 24. Società di mutua assicurazione di cui all’art. 4, comma 2, lett. c) e/o d) del d.lgs.175/1995 25. Questioni afferenti alla tenuta degli albi degli agenti e dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, nonché del ruolo nazionale dei periti 25.1 Ruolo Nazionale dei periti assicurativi. Art. 5, comma 2, della legge n. 166/1992 25.2 Trasferimento all’Isvap delle funzioni di cui alla legge 17 febbraio 1992 n. 166, concernente il ruolo dei periti assicurativi 25.3 Iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazioni di dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale 25.4 Iscrizione nell’Albo broker 25.5 Iscrizione nell’Albo broker: art. 4, comma 4, lett. b), legge 792/1984 25.6 Cassa sanitaria costituita da una società di brokeraggio. Oggetto sociale limitato alla mediazione assicurativa 25.7 Iscrizione nell’Albo dei mediatori di assicurazione di agente radiato dall’Albo agenti, prima del decorso dei tre anni dalla radiazione e sulla base di titolo equipollente maturato antecedentemente alla radiazione stessa 25.8 Variazione dell’attività di mediazione da quella assicurativa a quella riassicurativi di soggetto iscritto nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione 25.9 Considerazioni sugli artt. 5, comma 2, e 9, comma 1, lett. d) della legge 7 febbraio 1979 n. 48 25.10 Iscrizione di agente a seguito di sentenza di patteggiamento 25.11 Art. 4, comma 1, legge 7 febbraio 1979, n. 48 – cittadino extracomunitario – requisito della reciprocità 25.12 Valutazione dei titoli equipollenti ai fini dell’iscrizione nell’Albo Nazionale Agenti di assicurazione – configurabilità per il procuratore dell’agente di città del titolo equipollente ex art. 5, lett. c), punto 3, della legge 48/1979 25.13 Iscrizione presso l’Albo degli agenti ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), n. 1, legge 48/1979 di direttore generale di impresa di assicurazione 25.14 Iscrivibilità nell’Albo agenti di un socio-amministratore di impresa di brokeraggio 25.15 Iscrizione nell’Albo nazionale degli agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), punto 1, della legge 7 febbraio 1979, n. 48, di presidente del Consiglio di amministrazione e rappresentante legale di impresa assicurativa, iscritto nell’Albo broker 25.16 Cancellazione dall’Albo agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 11, ult. co., legge 48/1979. Retroattività del relativo provvedimento 25.17 Iscrizione nell’Albo degli agenti di assicurazione di subagente professionista con il titolo equipollente alla prova di idoneità, criterio della prevalenza e/o esclusività dell’attività professionale svolta – art. 5 lett. c), punto 4 della legge n. 48/1979 25.18 Art. 5, lett. c), legge 48/1979 – titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti – collaboratori di impresa familiare 25.19 Cancellazione dall’Albo agenti: effetti della sentenza declaratoria di fallimento 25.20 Iscrizione all’Albo agenti, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), n. 1, di un dirigente della Consap S.p.a. 25.21 Iscrizione presso l’Albo agenti di socio amministratore di s.n.c. ex art. 5, comma 1, lett. c), n. 3, legge 48/1979 25.22 Iscrizione presso l’Albo agenti di dirigente di società non assicurativa ricoprente la carica di amministratore delegato di impresa assicurativa facente parte del medesimo gruppo della precedente Contenzioso La riforma del processo amministrativo – Legge n. 205 del 21 luglio 2000 La giurisdizione amministrativa 1. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. 2. Il d.lgs. n. 80/1998 3. La legge n. 205/2000 I procedimenti speciali Le decisioni i forma semplificata La tutela cautelare 1. La tutela cautelare nel processo amministrativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000 2. La tutela cautelare nella legge di riforma del processo amministrativo 3. La cauzione nel processo cautelare 4. Il potere di disporre “misure cautelari provvisorie”: la cd. “supersospensiva” 5. Il rito abbreviato 6. Le spese 7. La priorità di trattazione del ricorso nel merito 8. La questione dell’appellabilità e dell’esecuzione delle ordinanze cautelari 9. La sospensione nel ricorso straordinario al Capo dello Stato Le autorità amministrative indipendenti e l’ISVAP Premessa 1. Funzioni e caratteri delle autorità amministrative indipendenti 2. L’ISVAP Il ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione 1. La disciplina dell’impugnazione del silenzio-inadempimento prima dell’approvazione della legge n. 205 del 2000 2. Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000 La risarcibilità degli interessi legittimi 1. La risarcibilità degli interessi legittimi prima della pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 500/99) 2. La risarcibilità degli interessi legittimi dopo la sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 3. La risarcibilità degli interessi legittimi nella legge di riforma del processo amministrativo, legge n. 205 del 2000 Appendice Legge 6 dicembre 1971, n. 1034 – Istituzione dei tribunali amministrativi regionali – Testo coordinato con le modifiche apportate dalla legge 21 luglio 2000 n. 205 PRESENTAZIONE La rassegna dell’attività svolta nell’anno 2000 dal Servizio legale dell’ISVAP si va consolidando come momento di riflessione su problematiche giuridiche di notevole rilievo scientifico, oltreché istituzionale. I temi trattati nel periodo in esame concorrono, pur senza essere vincolanti per l’ufficialità delle decisioni dell’Istituto, a prefigurare orientamenti sull’applicazione ed interpretazione delle norme di settore, che costituiscono ragione di sicuro interesse per le imprese, per gli studiosi e per l’utenza dei servizi assicurativi. Quest’anno, accanto ad una sintesi dei pareri forniti alle unità operative, i lettori troveranno indicazione di decisioni giurisprudenziali significative e, in aggiunta, uno studio sulle problematiche applicative della recente legge di riforma della giustizia amministrativa che, col corredo di un testo coordinato della legge sui TAR, potrà rappresentare un utile strumento di consultazione per gli addetti ai lavori. In un lavoro collettaneo errori od omissioni non possono che chiamare in causa la responsabilità del Capo Servizio. Quanto ai meriti, essi vanno attribuiti esclusivamente ai redattori. Ad Elen Gioli, Nicola Gentile, Dario Zamboni, Roberta Simoni, Patrizia Rosatone, Valeria Sottosanti, Sabrina Scarcello e Marina Binda va il mio personale ringraziamento. Luigi Desiderio Capo del Servizio Legale CONSULENZA 1. Art. 15 legge 9 gennaio 1991 n. 20 e successive modifiche – adempimenti derivanti da operazioni infragruppo Si sono affrontati i temi del gruppo e del controllo, che si segnalano per essere tra i più problematici e controversi del diritto delle società, anche a causa di interventi normativi che hanno perseguito obiettivi specifici e puntuali senza peraltro procedere ad una riconsiderazione sistematica della materia. Al riguardo si sono formulate talune considerazioni di carattere generale. Allo stato della legislazione vigente, può parlarsi di gruppo societario solo sotto il profilo economico mentre sotto quello giuridico se ne ha considerazione limitatamente agli effetti previsti dal codice civile (artt. 2359, 2424, comma primo, 2624) senza che possa attribuirsi al gruppo personalità giuridica, comunque, una qualsiasi, pur limitata, forma di soggettività o di ruolo di centro di imputazione. La situazione non muta con riguardo al concetto di controllo, a quello di gruppo strettamente connesso, il quale – secondo le prospettazioni della dottrina assolutamente prevalente – è concetto di natura “relazionale” nel senso che l’eterogeneità degli obiettivi perseguiti con i diversi interventi normativi di tipo speciale conduce a distinte nozioni di controllo (e, perciò, di gruppo) in seguito all’attribuzione di rilevanza giuridica a diversi momenti di collegamento tra imprese, con conseguente riconsiderazione dell’elaborazione concettuale basata sull’art. 2359, salvo il ruolo centrale mantenuto dalle ipotesi in esso contemplate e dal concetto di “influenza dominante”, derivante dalla normativa comunitaria. Le norme speciali, infatti, sanciscono che il controllo sussiste nei casi previsti dall’art. 2359 c.c. individuando le ipotesi in cui si ha “influenza dominante” (cfr. art. 23 d.lgs. 385/1993 ed art. 1, comma 8, legge 5/8/1981 n. 416) ovvero precisando che il controllo può derivare da accordi con altri soci ( cioè da accordi parasociali; cfr. art. 10, comma 2, legge 20/1991 ed art. 5 quater legge 216/1974 nel testo precedente alla novella introdotta con l’art. 93 d.lgs. 58/1998). Esula dai fini di queste note un’analisi approfondita del concetto di controllo; si segnala peraltro che la dottrina pare orientarsi per un’interpretazione del controllo come potere, da parte degli organi della società controllante, di direzione delle imprese delle controllate. Tale conclusione viene motivata, tra gli altri argomenti, tramite il richiamo al disposto dell’art. 61, quarto comma, del d.lgs. 385/1993 (T.U. in materia bancaria), col quale il legislatore avrebbe non innovato, ma semplicemente riconosciuto senza infingimenti un quid già insito nella disciplina del controllo societario. In tale prospettiva, di conseguenza, il ruolo di capogruppo si sustanzia nell’esercizio di un potere di direzione unitaria sulle società controllate. In questo complesso quadro è sorto il quesito della configurabilità nel nostro ordinamento della figura del c.d. controllo congiunto e cioè di quella situazione in cui una società risulti dominata (controllata) non da uno solo, bensì da due o più soggetti. Si tratterebbe, più precisamente, di una situazione intermedia tra le opposte ipotesi del controllo solitario e dell’assenza di controllo, in cui la partecipazione di più soggetti alle scelte sociali derivi dal contingente mutevole aggregarsi degli interessi (e dei voti che li rappresentano) presso i gangli decisionali della società in assenza di un centro di potere su base stabile cui ricondurre le scelte medesime. La configurabilità nel nostro ordinamento di tale figura è oggetto di vivo dibattito in dottrina. L’opinione assolutamente maggioritaria – partendo dal dato testuale dell’art. 2359 c.c., che non riconosce la figura del controllo congiunto in nessuna delle sue versioni via via succedutesi – ritiene che il controllo postuli un ruolo di influenza dominante di tipo solitario con la conseguenza di reputare ad essa estranea la figura in esame. Una recente ed isolata dottrina, invece, ponendo in risalto alcune nozioni speciali di controllo le quali espressamente contemplano il controllo congiunto in aggiunta rispetto al controllo ex art. 2359 c.c., ha sostenuto che il concetto di controllo comprende anche il controllo congiunto perché, diversamente, il legislatore non avrebbe potuto, con gli interventi normativi speciali, riconoscergli cittadinanza nell’ordinamento. In sostanza, per averla il legislatore riconosciuta in ordine ad ipotesi specifiche di disciplina, la figura del controllo congiunto sarebbe sussumibile nella clausola generale di cui all’art. 2359 c.c. La dottrina assolutamente prevalente ha fortemente criticato tale tesi per differenti ordini di considerazioni. L’argomento principale è di tipo metodologico e si riallaccia alla tesi della natura relazionale della nozione di controllo, per cui essa viene dettata – e di volta in volta vale – in ambito ben specifico onde non ne è possibile l’estensione analogica. A tal riguardo viene in rilievo la disciplina di cui all’art. 7 della legge 287/1990 (antitrust) per il quale il controllo si ha nei casi contemplati dall’art. 2359 c.c. ed inoltre nei casi in cui, “da soli o congiuntamente”, di fatto o di diritto, si realizzi la possibilità di esercizio di un’influenza determinante sull’attività di un’altra impresa. Questa definizione di controllo, secondo la dottrina, ha una portata più ampia rispetto all’art. 2359, e cioè sottopone alla disciplina della legge 287/1990 una serie di casi che non rientrerebbero entro la disciplina della norma codicistica. L’influenza dominante, infatti, integra, come più sopra si è visto, una posizione di forza la quale consente alla controllante di imporre le proprie decisioni di politica imprenditoriale alle controllate mentre l’influenza determinante, pur non assicurando un dominio assoluto, realizza un forte condizionamento delle scelte imprenditoriali. D’altra parte è considerato tratto caratteristico del diritto antitrust la sua portata estensiva, tratto giustificato in base alla specifica finalità antimonopolistica della disciplina che è quella di sottoporre a controllo tutte le manifestazioni di potere economico in grado anche solo potenzialmente di esercitare una patologica influenza sul mercato. Il dato essenziale, lungo questa direttrice, è di evitare concentrazioni di forze potenzialmente distorsive della concorrenza, indipendentemente dalle formule giuridiche adottate per realizzarle ed indipendentemente dalla circostanza che ciò avvenga “da soli o congiuntamente”. Queste le ragioni specifiche, ivi, della rilevanza del controllo congiunto, non estensibili ad altri ambiti. L’altro argomento svolto in favore della tesi dominante si fonda sul rinvio alla disciplina del consolidamento dei bilanci di cui agli artt. 26, comma secondo, 28, 37 e 40 del d.lgs. 127/1991: se il legislatore, si afferma, ha stabilito l’obbligo di consolidamento con il metodo integrale nell’ipotesi del controllo tout-court mentre per il controllo congiunto il metodo previsto è quello proporzionale, è segno che il c.d. controllo congiunto non può essere ricondotto al controllo vero e proprio; in sostanza l’esclusione per il controllo congiunto del consolidamento con il metodo integrale è indice dell’esistenza di impedimenti ad una effettiva direzione unitaria da parte della controllante nei confronti della controllata. In ambito assicurativo la fattispecie del gruppo non viene ex professo considerata (a differenza di quanto avviene in materia di banche); si rinviene un “accenno” di disciplina negli artt. 7 e 8, quanto all’obbligo di redazione del bilancio consolidato, 10 e 15 della legge 20/1991 quanto alle operazioni infragruppo; è de jure condendo la disciplina di una vigilanza di gruppo da recepirsi in attuazione della direttiva 98/78 CEE (cfr. art. 26 legge 21/12/1999 n. 526 – legge comunitaria 1999). L’art. 15, come noto, stabilisce l’obbligo di comunicazione preventiva all’Isvap delle operazioni di cui al D.M. 29/12/1993 allorchè siano poste in essere con soggetti controllanti e con le società da questi controllate. A termini del decreto in parola le norma guida per l’individuazione del gruppo assicurativo sono gli artt. 10, comma secondo e 15 legge 20/1991 in combinato disposto tra loro. L’art. 10, precedentemente alle modifiche introdotte con il d.lgs. 27/01/1992 n. 90 e con il d.lgs. 17/03/1995 n. 174, aveva una formulazione che recepiva la figura del controllo congiunto, ritenendola esistente in via presuntiva in capo a coloro che, pur non legati tra loro da patti di sindacato, possedessero in misura uguale partecipazioni superiori alla soglia del 25% (o 10% in caso di società quotate). Nel testo novellato dell’art. 10, la nozione di controllo ha assunto connotati profondamente diversi ed in tutto simili, come incidenter tantum si è notato, alla nozione accolta dall’art. 5 quater legge 216/1974 nel testo precedente alla novella introdotta con l’art. 93 del d.lgs. 58/1998, che ha modellato la nozione di controllo valevole ai fini della disciplina da esso introdotta su quella di cui all’art. 26 d.lgs. 127/1991 e cioè con riguardo alla redazione del bilancio consolidato. Con ciò la nozione di controllo valevole in ambito assicurativo ha assunto carattere di isolata specificità. Più precisamente, la nuova disciplina rinvia alla nozione di controllo prevista dall’art. 2359 c.c. con la puntualizzazione che il controllo può derivare anche da un patto parasociale ma solo nel caso in cui questo patto consenta ad un soggetto il controllo “da solo” della maggioranza dei diritti di voto ovvero gli attribuisca (evidentemente, anche qui, da solo) il diritto di nomina o di revoca della maggioranza degli amministratori. Già con la novella del 1992, pertanto, la configurabilità del controllo congiunto nell’ambito della normativa assicurativa era venuta meno ed in questo senso si era espressa autorevole dottrina, la quale aveva criticato le stesse soluzioni interpretative scelte dall’Isvap nella circolare 185/1992, nella parte in cui disponevano di considerare “controllanti, salvo prova contraria, i due soggetti che detengano pariteticamente il 50% ciascuno del capitale sociale dell’impresa assicurativa ovvero della società che indirettamente controlla l’impresa assicurativa”. Più precisamente, la dottrina citata aveva rilevato che il controllo (cfr. quanto detto supra in ordine alla riconducibilità dell’influenza dominante al potere di direzione dell’impresa della controllata) è cosa ben diversa dal mero potere interdittivo, di puro veto, derivante dalla titolarità della quota del 50% del capitale della società considerata. L’incapacità per ciascuno dei due soci titolari del 50 % di costituire da solo la maggioranza, determinando le decisioni dell’assemblea e nominando gli amministratori, implica l’esistenza di un continuo confronto dialettico tra i soci alla ricerca di un componimento di interessi differenti ed eventualmente anche antitetici tra loro. Nei casi in cui si realizzi questa situazione di equilibrio, allora, la tesi della presunzione di controllo, stante anche il nuovo testo dell’art. 10 legge 20/1991, non pare più sostenibile se fondata su una valutazione da compiersi in astratto; diversamente potrebbe concludersi solo in presenza o di una situazione fattuale di inerzia ed indifferenza di uno dei soci per la gestione della società partecipata (in tal senso sembrava militare lo stesso riferimento alla “prova contraria” quale assunto indicativo di una presunzione iuris tantum) ovvero in presenza di un patto parasociale che assicuri prevalenza ad uno dei soci. A ciò si aggiunga che da una parte della dottrina (Ghezzi) si è negato che, persino con riguardo specifico alla disciplina antitrust (pur ispirata, come si è visto, a criteri prudenziali di “allargamento” delle ipotesi di rilevanza delle concentrazioni di imprese), la mera pariteticità nella titolarità del capitale sociale possa costituire, di per sé ed in mancanza di altri elementi, motivo sufficiente per riconoscere l’esistenza di un controllo congiunto. Le conclusioni sin qui raggiunte seguendo le argomentazioni della maggioritaria dottrina sembrano essere rafforzate dall’introduzione da parte del d.lgs. 174/1995, senza modifica del concetto di controllo, della figura, prima ignota sia al diritto societario comune che a quello di settore, della partecipazione qualificata quale fattispecie rilevante sotto il profilo autorizzatorio. L’art. 15 legge 20/1991 non è stato, invece, oggetto di alcuna modifica da parte del d.lgs. 174/1995. Quando il legislatore ha introdotto la nuova figura della partecipazione qualificata, attribuendole rilevanza ai fini autorizzatori, ben avrebbe potuto, se ciò avesse voluto (lex, ubi voluit, dixit, ubi noluit tacuit), attribuirle rilevanza anche ai fini degli adempimenti ex art. 15 legge 20/1991 per il compimento di “operazioni con soggetti controllanti e con società da questi controllate”. Si ritiene, pertanto, debba inferirsi dalla mancata considerazione della nozione di partecipazione qualificata ai fini dell’art. 15 che questa non fosse la voluntas legis, con l’effetto di considerarne limitata la disciplina ai soli casi in cui si realizzi, in conformità del dato testuale, la fattispecie del controllo valevole ai fini della legge 20/1991 e cioè, si ribadisce, il controllo di cui all’art. 2359 (dunque controllo solitario) con rilevanza dei patti parasociali (“accordi con altri soci”) limitatamente ai casi di controllo (ancora una volta solitario) della maggioranza dei diritti di voto ovvero di titolarità del diritto di nominare o revocare la maggioranza degli amministratori. 2. Approfondimenti n. 20 in tema di applicazione dell’art. 15 legge 9 gennaio 1991 Sotto il profilo operativo la tematica del c.d. controllo congiunto è stata analizzata con riguardo anche alla fattispecie relativa all’operazione infragruppo di locazione di un immobile; in merito, si è ritenuto che il possibile rilievo – secondo cui il valore da prendere a riferimento quale limite di significatività dell’operazione considerata dovrebbe essere quello del contratto di locazione in concreto posto in essere, da considerarsi sub specie di somma totale dei canoni per l’intera durata (minima) del contratto – non pare superato con l’obiezione (pur commendevole in un’ottica di puntuale vigilanza sulle imprese) che l’interpretazione proposta consentirebbe l’elusione della finalità della norma in discorso con la pattuizione di canoni irrisori (c.d. negozi nummo uno). Non s'intende qui affermare che il valore di mercato dell’immobile concesso in locazione sia indice irrilevante perché nella interpretazione suggerita esso, comunque, verrebbe in considerazione sotto il profilo della valutazione della congruità del canone di volta in volta pattuito. D’altra parte secondo il dato testuale delle Modalità per le comunicazioni dovute ai sensi dell’art. 15 della legge 9 gennaio 1991 n. 20, allegate allo stesso D.M. 29/12/1993, l’uso del termine “operazione” indica in maniera precisa l’assunzione a termine di riferimento del valore del negozio concretamente posto in essere piuttosto che il valore del bene che ne è oggetto. Per mutare avviso sarebbe necessaria, de jure condendo, l’emanazione di un provvedimento modificativo del D.M. 29/12/1993. Sotto tale aspetto, tuttavia, in assenza di una norma che assegni sul punto all'IS.V.A.P. potestà regolativa generale, è da ritenere che il potere di emanare norme a contenuto generale debba essere esercitato nel rispetto della legge n. 400 del 1988, vale a dire mediante adozione di un provvedimento del Ministro dell'Industria su proposta dell'IS.V.A.P 3. Rapporti ISVAP/ Fondo di garanzia ex art. 4, comma primo, lett. f), legge n. 792/1984 – scambio di notizie Si è approfondita l’ipotesi di trasmissione al Fondo di garanzia in questione da parte dell’IS.V.A.P. di informative ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dal Provvedimento n. 1182 G del 10 maggio 1999. Norma centrale per l’analisi della questione si è rinvenuta nell’art. 5, comma secondo, della legge 12/08/1982 n. 576 istitutiva dell’IS.V.A.P.. Il tenore della disposizione è parso inequivoco nello stabilire che dati, notizie ed informazioni acquisite dall’Istituto nell’esercizio dei propri compiti sono tutelati dal segreto d’ufficio il quale può essere opposto anche alle altre amministrazioni pubbliche ad eccezione di alcune d’esse, specificamente determinate dalla norma medesima già all’atto della sua formulazione (Ministero dell’Industria e Parlamento) od introdotte in prosieguo (cfr. la disciplina regolante i rapporti tra IS.V.A.P. ed altre autorità amministrative indipendenti: ad es. art. 7 d.lgs. 385/1993). Si è peraltro rilevato che tale affermazione di principio non intende patrocinare una concezione dell’amministrazione pubblica quale monade chiusa, separata ed addirittura contrapposta alla società civile; pertanto è parso necessario coordinare la norma de qua con le norme introdotte in prosieguo. La legge 241/1990, in particolare, seguendo le linee guida della normativa costituzionale – patrocinante un generale principio di conoscibilità e di accessibilità dei documenti amministrativi, da parte dei soggetti direttamente interessati all’atto od al procedimento – ha contribuito a capovolgere, insieme alla legge 142/1990, le regole che si erano in precedenza affermate in punto di segreto d’ufficio, in quanto è improntata, in via generale e tendenziale, al principio per cui, nell’azione amministrativa, la conoscibilità è la regola, il segreto l’eccezione, sembrando addirittura introdurre – oltre al diritto di accesso degli interessati – anche un vero e proprio principio generale di ostensibilità erga omnes di tutti i documenti amministrativi, eccettuati quelli espressamente qualificati come riservati. Rimane principio cardine che il mantenimento del segreto d’ufficio abbia la natura di dovere del pubblico impiegato; la novità sostanziale, peraltro, è costituita dal diritto d’accesso il quale limita indirettamente il segreto d’ufficio nel senso che il segreto si estende tanto quanto in senso specularmene opposto si estendono i limiti all’accesso. Il segreto d’ufficio risulta, pertanto, oggettivamente identificato perché, in virtù del rinvio alle disposizioni limitative dell’accesso, esso deve ritenersi riferito non già a tutte le notizie che il dipendente conosca in ragione del suo ufficio, ma soltanto a quelle informazioni sui procedimenti ed a quelle notizie apprese a causa delle sue funzioni le quali, in base ad apposite disposizioni di legge o di regolamento governativo, sono sottratte al diritto di accesso in relazione alla tutela di determinati interessi. L’esigenza – avvertita prima dalla dottrina e recepita successivamente dal diritto positivo – è stata quella di ancorare il segreto d’ufficio ad interessi che devono essere collegati a valori trovanti il proprio fondamento nella carta costituzionale nel senso dell’obbligo di ricercare la rispondenza del segreto d’ufficio ad interessi costituzionalmente protetti quali ragioni fondanti del sacrificio dell’esigenza di conoscibilità. Sotto tale aspetto, si è considerato che la riconduzione dell’attività assicurativa al disposto dell’art. 47 Cost. risulta ormai acquisita al patrimonio concettuale della dottrina che si è occupata della materia assicurativa. Secondo questa impostazione l’attività assicurativa è parsa collocarsi, rispetto alle strutture imprenditoriali dell’economia reale, in posizione “servente” nel senso che, per il tramite dell’abbassamento dell’alea e dei costi di produzione, fornisce sostegno alla loro crescita complessiva. Il premio, in questo quadro, si configura come forma di allocazione del risparmio, rinvenendosi, pertanto, nell’art. 47 Cost. il referente normativo fondante il sistema di controlli cui l’impresa d’assicurazione è sottoposta. In ordine al profilo dell’interesse che induce il Fondo ad avere conoscenza dei dati di vigilanza assicurativa, si è ricordato che il detto Fondo di garanzia realizza una forma d’assicurazione obbligatoria avendo la funzione di sostituirsi – nei casi in cui il danneggiato non possa pretendere l’indennizzo dall’assicuratore o quest’ultimo sia insolvente – o di aggiungersi in via sussidiaria – per i danni eccedente il massimale della polizza – all’assicurazione che il broker è obbligato a stipulare con cinque imprese. Nell’assolvimento di questo ruolo, al Fondo è stata attribuita personalità giuridica autonoma e distinta dall’IS.V.A.P. presso il quale è allocato, come ha riconosciuto la S.C. (SS.UU. n. 7554 del 26/7/00), esso svolge istituzionalmente una funzione assicurativa (a livello sussidiario), […] è ente assicurativo[…]di natura speciale al quale, tuttavia, la legge […] non attribuisce poteri autoritativi e neppure di autotutela amministrativa nei confronti dei danneggiati, dei mediatori e delle società con le quali questi ultimi hanno stipulato le polizze di assicurazione per la loro responsabilità civile, bensì soltanto gli strumenti tipici di diritto privato. Il fatto dannoso del broker – continua la Suprema Corte – determina a carico del Fondo l’insorgenza di una normale obbligazione civilistica e sul soggetto danneggiato correlativamente un diritto soggettivo perfetto, così come ha luogo nel rapporto fra un’impresa assicuratrice ed il danneggiato nella ipotesi di assicurazione per responsabilità civile. Solo che ricorrano i presupposti, il Fondo è tenuto a risarcire il danno cagionato dal broker nell’esercizio della sua attività professionale (o dai dipendenti), senza alcuna potestà discrezionale sia quanto all’an che al quantum. La sentenza viene evocata per l’indubbio valore esplicativo, ancorché sia antecedente al d.lgs. 373/98, che ha trasferito presso l’ISVAP il Fondo, in precedenza allocato presso il MICA. L’assenza da parte del Fondo, sottolineata con forza dalla S.C., di poteri autoritativi non sminuisce tuttavia la portata delle conclusioni raggiunte, ritenendosi che, per quanto detto, l’ostensione al Fondo medesimo di documenti provenienti dalle attivazioni di vigilanza debba fondarsi sul collegamento con il diritto d’accesso, l’interesse al quale dovrà essere valutato in concreto. Ciò è sembrato ricorrente nel caso in cui la trasmissione di elementi di conoscenza relativi a fattispecie sottoposte alla valutazione del Fondo sia disposta di propria iniziativa dall’IS.V.A.P. in seguito a notizia dell’interessamento del Fondo da parte del danneggiato. 4. Figura del difensore civico In relazione ad una richiesta di indagini formulata dal difensore civico in carica presso la Regione Campania in materia di asserite “politiche discriminatorie” condotte – nell’ambito della r.c.auto – da alcune compagnie dell’area napoletana, si sono svolte alcune considerazioni sulla figura e sui poteri del difensore civico. Autorevole dottrina ha definito il difensore civico come “una sorta di magistratura di influenza e di persuasione, non dotata di poteri coercitivi, che interviene, su istanza di parte o d’ufficio, con procedimento essenzialmente informale, non solo nelle ipotesi di lesione di diritti soggettivi e interessi legittimi, ma anche, e soprattutto, in tutti quei casi di lesione di interessi semplici ai quali non è riconosciuta tutela giurisdizionale”. Si tratta di istituto che trae origine dall’esperienza giuridica dei paesi scandinavi (c.d. Ombudsman) e che, in assenza di una introduzione a livello di Amministrazione centrale, nonostante il cospicuo dibattito dottrinario ed il susseguirsi di iniziative legislative (cfr. ad esempio i lavori della Commissione Bozzi per un emanando art. 98 bis Cost.), è rimasto sconosciuto all’ordinamento italiano sino alla nascita delle Regioni. In alcuni casi il difensore civico ha trovato la base della propria disciplina in norme statutarie (Toscana, Lazio, Liguria) mentre in altri nell’art. 117 Cost.; la disciplina, poi, si articola con alcune differenze nelle diverse leggi regionali anche se la legge toscana ha costituito il paradigma per le leggi successive, contribuendo, in generale, con le positive indicazioni da essa provenienti sui primi anni di attività, alla delineazione dei tratti salienti dell’istituto. Ciò premesso è parso utile trattare della natura e dei poteri dell’Ufficio in esame articolando il discorso con riferimento al caso di specie ed alla disciplina emanata con la legge della Regione Campania 01/08/1978 n. 23 modificata con la legge regionale 08/03/1985 n. 15. Il contenuto primario e specifico della competenza del difensore civico è costituito dall’azione di verifica della regolarità dell’azione amministrativa tramite l’intervento presso l’amministrazione regionale e, ai sensi dell’art.16, comma 1, legge n. 127/1997 (legge “Bassanini”), presso le amministrazioni periferiche dello Stato. La norma da ultimo citata amplia, dunque, il campo di operatività dell’Ufficio del difensore civico in precedenza limitato all’amministrazione regionale. Il difensore civico si configura quale garante (su impulso di parte – anche se non limitato alla dimensione individualistica – e con esclusione, nella maggior parte dei casi, di azioni ed iniziative ex officio) della efficienza e correttezza dell’attività amministrativa soprattutto con riguardo alla fase anteriore alla adozione del provvedimento. Solo tre Regioni (Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Puglia) hanno previsto l’iniziativa d’ufficio mentre la legge campana non fa riferimento neppure ad un generico potere di segnalazione agli organi statutari competenti (cfr. art. 3, comma I). In sostanza la competenza dell’Ufficio ha per oggetto ogni forma di lentezza, omissione, disparità di trattamento e, più in generale, ogni forma di inattitudine del procedimento e del provvedimento a realizzare i fini ad essi attribuiti dall’ordinamento in modo che ne siano assicurate tempestività e regolarità sub specie di equità, imparzialità e correttezza; rientrano, pertanto, in detta competenza anche i comportamenti amministrativi caratterizzati dalla puntigliosa ed ostruzionistica applicazione della normativa di riferimento. Per questa via le diverse norme istitutive intendono assicurare e sottoporre a controllo l’effettivo rendimento e l’efficienza dell’apparato burocratico ed amministrativo. Si è detto in esordio che il difensore civico non è dotato di poteri coercitivi, ma di poteri circoscritti all’influenza istituzionale ed alla moral suasion; pertanto rimangono preclusi all’Ufficio il controllo di legittimità e di merito sugli atti, che resta attribuito agli organi oblati dalla legge delle relative funzioni. Più in particolare (cfr. art. 2 u.c.), la legge campana prevede una sorta di alternatività fra ricorso al difensore civico e preventiva presentazione di ricorso giurisdizionale od amministrativo (principio che può ritenersi estensibile anche alle azioni giudiziarie civili). La detta regola non deve interpretarsi quale emersione rigoristica del principio di diritto amministrativo electa una via non datur recursus ad alteram; e ciò perché, come in precedenza si è anticipato, il difensore civico non interviene sugli atti ma in un momento anteriore e cioè nella fase precedente all’inizio del procedimento (ad esempio in caso di inerzia dell’amministrazione) “su rapporti e su attività degli uffici, cioè durante il formarsi stesso della volontà dell’organo amministrativo”. E’ possibile, in altri termini, ipotizzare una sorta di parallelismo tra tutela nelle sedi amministrativa e giurisdizionale e tutela apprestata dal difensore civico, ribadito che quest’ultima ha ad oggetto anche posizioni giuridiche che in quelle preesistenti sedi potrebbero essere giuridicamente non rilevanti (si veda ad esempio il caso degli interessi semplici). Al compito primario si sono aggiunte le ulteriori funzioni di assistenza e consulenza dei cittadini (ad esempio di indirizzo nel rinvenire l’Autorità cui correttamente indirizzare istanze o presso la quale incardinare procedimenti) e di proposizione di innovazioni normative. In relazione ai compiti cui è preposto, il difensore civico (cfr. art. 3, comma II, legge Campania) “ha il diritto di ottenere dagli uffici dell’Amministrazione […] copia di atti e documenti, nonché ogni notizia connessa con la questione trattata” senza che possa essergli opposto il segreto d’ufficio, cui peraltro deve ritenersi vincolato egli stesso per la sua qualità di pubblico ufficiale, come si ricava dalla norma dell’art. 4, comma 3, legge Campania che richiama l’art. 361 c.p. dettato in tema di reato di omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale. Coerentemente con la detta qualità di pubblico ufficiale il difensore civico può – art. 4, comma I – “proporre agli organi competenti dell’Amministrazione di appartenenza la proposizione dell’azione disciplinare, a norma dei rispettivi ordinamenti”. “Ove il fatto costituisca reato, il difensore civico che ne venga a conoscenza nell’esercizio delle funzioni di ufficio ha l’obbligo di denunziarlo all’autorità giudiziaria” (art. 4, comma II). Con riguardo alla richiesta rivolta all’ISVAP, anche a voler ipotizzare la diretta chiamata in causa dell’Istituto da parte del difensore civico, l’art. 16 della legge Bassanini estende l’operatività dello stesso oltre l’ambito regionale solo limitatamente ad attività di competenza delle Amministrazioni periferiche dello Stato mentre l’ISVAP è da ritenersi amministrazione di tipo “centrale”, sia pure sui generis perché amministrazione indipendente. In questa ipotesi – si è concluso – resta impregiudicata la questione relativa ai limiti istituzionali entro i quali l’organo di vigilanza assicurativa potrebbe agire per corrispondere ad una richiesta che investe in larga misura scelte di strategia aziendale sottratte al controllo dell’Istituto. 5. Comitato per la posizione del personale dirigente delle imprese di assicurazione in liquidazione coatta amministrativa Il Comitato in oggetto è stato istituito dall'art. 10 della legge n. 39/1977. L’art. 24 del d.P.R. n. 45/1981, di attuazione della legge citata, prevede che il comitato sia composto, tra gli altri, da un dirigente generale e da un funzionario della Direzione generale delle assicurazioni private e di interesse collettivo del Ministero dell’Industria. Nell'originario assetto normativo alla detta Direzione generale spettavano cospicue competenze. Allo stato attuale della legislazione (in seguito all'abrogazione, da parte del d.P.R. n. 385/1994, come modificato ed integrato dal d.lgs. 373/1998, degli artt. 1 e 2 della legge n. 576/1982) è stata eliminata la diarchia tra C.I.P.E. e Ministero dell'Industria – secondo la quale il primo fissava gli indirizzi di politica assicurativa ed il secondo impartiva le direttive all’IS.V.A.P. – e le linee di politica assicurativa sono indicate direttamente dal Governo; risulta, altresì, esclusa ogni forma di vigilanza da parte del Ministero dell' Industria sull’IS.V.A.P. stesso. Si consideri, inoltre, che l'originaria Direzione generale delle assicurazioni private e di interesse collettivo è stata accorpata ad altri uffici dello stesso Ministero ed ha mutato, oltre che competenze, anche nome assumendo quello di Direzione Generale Commercio Assicurazioni e Servizi (D.G.C.A.S.). Venendo al problema specifico, l’originaria funzione del Comitato in parola, pur in un contesto normativo così radicalmente mutato negli assetti del controllo, non sembra venuta meno; appare, peraltro, privo di giuridica ragionevolezza che esso possa ancora mantenere l'originaria composizione. Sembra, viceversa, possibile – in virtù del totale trasferimento della vigilanza sulle imprese assicuratrici dal Ministero dell'Industria all’IS.V.A.P. e considerato, più in particolare, il disposto del già citato art. 3, comma 3, del d.lgs. 373/1998 – che i membri del Comitato originariamente di nomina ministeriale possano ora essere nominati tra i dipendenti IS.V.A.P.. Al riguardo può costituire utile riferimento la disciplina sul funzionamento del Fondo di garanzia previsto dalla legge 28/11/1984 n. 792 per i broker di assicurazione e riassicurazione, la composizione del Comitato di gestione del quale è stata innovata con provvedimento IS.V.A.P. n. 1182 G del 10/05/1999, prevedendosi la presenza di dipendenti dell’IS.V.A.P. quali membri in luogo di quelli del Ministero dell’Industria, in funzione ed in conseguenza dell'avvenuto trasferimento all’Istituto dei poteri di tenuta dell’albo broker e di controllo sugli iscritti allo stesso. Dal punto di vista del presupposto di base, del resto, rispetto alle vicende del Fondo predetto, la situazione appare non dissimile: anche qui il d.lgs. 373/1998, come già visto, trasferisce all’IS.V.A.P. nuove competenze già spettanti al Ministero dell’Industria. In effetti la previsione contenuta nel citato d. P.R. 45/1981 – della nomina a membri del Comitato ex art. 10 legge 39/1977 di esponenti del Ministero dell’Industria – non pare fosse giustificata da altra ragione se non l'essere, in illo tempore, proprio il Ministero dell’Industria officiato dei compiti di vigilanza sulle imprese assicuratrici per cui era sorretto da giuridica ragionevolezza che fossero esponenti dell'organo di vigilanza assicurativa, in possesso della competenza e dei dati relativi, a contribuire alla formazione delle decisioni d'un organismo tenuto – nel quadro della sua funzione di conservazione della stabilità del lavoro per i dirigenti delle imprese sottoposte a liquidazione coatta – a compiere quella valutazione di assenza di responsabilità nel dissesto delle dette imprese idonea a giustificare il “recupero” di certe professionalità. Se è vero che al Ministro dell’Industria è rimasta la competenza ad autorizzare la procedura di liquidazione coatta amministrativa, è parimenti vero che, una volta emanato tale decreto ed avviato il procedimento liquidatorio, è l’IS.V.A.P a governarlo adottando tutti i provvedimenti relativi; ed al riguardo non pare dubbio, d'altra parte, che l’attività del Comitato in parola si collochi sotto l’egida dell’IS.V.A.P. e non più sotto quella del Ministero, anche considerato il mutamento di nome e di fisionomia funzionale della Direzione generale del Ministero dell’Industria di cui già si è detto. Sotto questo aspetto, pertanto, si è concluso nel senso che, ormai trasferita pressochè completamente all’IS.V.A.P. ogni competenza in materia di vigilanza sulle imprese assicuratrici, la composizione del Comitato in argomento debba essere integrata con la nomina di esponenti dell’IS.V.A.P. in luogo degli esponenti del Ministero dell’Industria previsti dall'art. 24 del d.P.R. 45/1981. Occorre da ultimo dare contezza circa un ulteriore aspetto problematico emergente dal testo del più volte citato art. 10 l. 39/1977 ove, quanto alla composizione del Comitato, si fa riferimento a “rappresentanti del Governo”. Al riguardo può osservarsi che l'apparente discrasia della soluzione proposta rispetto al tenore della norma citata è stata superata dal legislatore del 1981 nel momento in cui ha indicato quali membri del Comitato, tra gli altri, un Direttore generale e due funzionari ministeriali. Appare evidente, infatti, come il legislatore stesso, nel disporre la disciplina di dettaglio, ha interpretato in parte qua la norma primaria come riferita non già ai membri del Governo tout court, bensì a soggetti che promanassero dall’Esecutivo in rappresentanza degli interessi implicati nella vicenda liquidativa e dei quali i dicasteri nominanti avevano cura istituzionale. Questa interpretazione risulta ora confermata alla luce del principio, sancito dal d.lgs. n. 29/1993 – come modificato ed integrato (giusta la delega contenuta nella legge n. 59/1997) dal d.lgs. n. 80/1998 e dal d. lgs 387/1998 – secondo cui al Ministro spetta la funzione di indirizzo politico-amministrativo, di definizione degli obiettivi e dei programmi e di verifica dei risultati nel settore di competenza, mentre ai dirigenti (ed in primo luogo al Direttore Generale) spetta l'adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi puntuali e la responsabilità in via esclusiva della gestione e dei risultati. Anche sotto tale profilo, la sostituibilità di esponenti di vertice del Ministero dell’Industria con dirigenti di ruolo equivalente dell’IS.V.A.P. in seno al Comitato in premessa non sembra trovare ostacoli di principio. 6. Art. 8 legge 990/1969 – sostituzione di veicolo in corso di contratto – tariffa applicabile In relazione alla emanazione del d.l. 70/2000 è sorta questione circa la tariffa applicabile in caso di sostituzione del veicolo in corso di contratto. La disciplina dell’art. 2 del citato decreto, come noto, ha stabilito una sorta di tripartizione tra i contratti di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli a motore e dei natanti distinguendo, in primo luogo, tra contratti stipulati (per i quali vige il blocco delle tariffe) e contratti rinnovati. All’interno di quest’ultima categoria, poi, si distinguono i contratti rinnovati con assegnazione a classe di merito pari od inferiore a quella d’ingresso (per i quali vige il blocco dei premi) da quelli rinnovati con assegnazione a classe di merito superiore alla classe d’ingresso (per i quali la tariffa è libera). In conformità all’orientamento espresso dall’Istituto nella Relazione sull’attività svolta nel 1998, la questione di cui all’oggetto è stata analizzata partendo dal presupposto che la procedura ex art. 8 legge 990/1969 e gli adempimenti conseguenti non danno luogo alla stipula di nuovo contratto. Il principio che precede, d’altra parte, emerge chiaramente dal dato letterale che parla di […] contratto, stipulato per il veicolo o il natante alienato, […] reso valido per altro veicolo o natante di […] proprietà dell’alienante; tale dato deve intendersi riferito ad un rapporto contrattuale che vede perdurare la propria validità pur essendo mutato uno dei suoi elementi e cioè il veicolo con riferimento al quale il rapporto stesso s’era perfezionato. Trattandosi non di nuova stipula ma di prosecuzione del rapporto contrattuale originariamente concluso, dovrà applicarsi, per i contratti assegnati a classe di merito pari od inferiore a quella d’ingresso, la regola del blocco del premio la quale importa l’inapplicabilità di aumenti al di fuori di quelli espressamente stabiliti dalle regole evolutive e dai coefficienti di determinazione del premio già previsti. Ciò posto, si è passati all’analisi della sorte delle clausole contrattuali che prevedono espressamente che il conguaglio del premio ex art. 8 legge 990/1969 avvenga sulla base della tariffa in vigore al momento della sostituzione del veicolo. Si è ritenuto che tali clausole si pongano in contrasto con la regola introdotta con l’art. 2 del d.l. 70/2000 perché impediscono all’assicurato richiedente la sostituzione del veicolo di fruire dei benefici previsti dal decreto stesso. Al riguardo si è precisato che tale norma, possedendo carattere imperativo, prevale sull’originario regolamento contrattuale informandolo di sè. La norma imperativa deve ascriversi alla categoria generale delle norme inderogabili, ed è noto, peraltro, che tramite le norme inderogabili il sindacato del legislatore sugli atti d’autonomia privata rimane limitato alla fissazione, a pena d’invalidità, dei mezzi giuridici utilizzando i quali la volontà dei privati può acquisire giuridica rilevanza; la norma imperativa, viceversa, per ragioni d’ordine generale prevalenti sulla libertà negoziale privata, incide sul merito delle scelte delle parti con riguardo alle condizioni contrattuali, fissando il legislatore limiti esterni al contenuto degli atti. Ciò stante, si è ricordato che la norma imperativa – giusta il principio dell’eterointegrazione del contratto – opera nel senso che le clausole di quest’ultimo con essa confliggenti debbono ritenersi nulle applicandosi, conseguentemente, la disciplina prevista dall’art. 1419, comma secondo, C.C., emersione a sua volta del principio generale secondo cui utile per inutile non vitiatur. La tesi raggiunta ha trovato peraltro conferma nella circostanza che la disciplina introdotta dal d.l. 70/2000 non ha previsto, in caso di clausole difformi, una sanzione diversa dalla sostituzione o dall’invalidità della clausola. In conclusione si è ritenuto, giusta gli argomenti esposti, che il conguaglio del premio in discorso debba essere effettuato sulla base della tariffa in vigore al momento della stipulazione o del rinnovo del contratto e non già al momento in cui avviene la sostituzione del veicolo. 7. Separate richieste di risarcimento relative al solo danno a cose ed alle sole lesioni personali; conformità all’art. 3 l. 39/1977 solo della richiesta relativa al danno a cose – sanzionabilità per il ritardo nella formulazione dell’offerta In favore della tesi della sanzionabilità del comportamento dell’impresa che, in presenza di distinta denuncia di danni a cose e a persone, per la liquidazione dei primi non osservi il disposto dell’art. 3 l. 39/77, milita l’argomento della diversa titolarità del diritto al risarcimento quanto al danno a cose e quanto al danno a persona perché le due istanze di risarcimento vivono di vita propria nonostante siano originate dal medesimo fatto storico; a ciò s’aggiunga che – in limine – è ipotizzabile anche che il soggetto inciso da danno alla persona non formuli alcuna richiesta di risarcimento. I profili generali di identificazione della fattispecie possono così riassumersi: a) sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con formulazione di richiesta di risarcimento limitata ai soli danni materiali; b) sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con formulazione di richiesta di risarcimento riferita sia al danno a persona che a quello a cose e formulazione d’offerta limitata a quest’ultimo; c) sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con offerta risarcitoria riferita sia al danno a persona che a quello a cose. Per il caso esaminato non si è ritenuto che una valutazione globale del sinistro (avente cioè riguardo sia al danno a cose che quello a persona) impedisse all’impresa – presenti due distinte richieste di risarcimento, una sola delle quali (quella relativa al danno a cose) conforme all’art. 3 – di formulare nei termini la relativa offerta. Non è inutile precisare, al riguardo, che il sinistro de quo rientrava nell’ambito d’applicazione dell’art. 3, essendo le lesioni guaribili in numero di giorni inferiore a quaranta, nonostante l’impresa avesse liquidato “con una percentuale a stralcio di danno biologico”; come la giurisprudenza ha precisato, infatti, il danno biologico è riferito in generale alla lesione dell’integrità psico-fisica e comprende anche il danno da invalidità temporanea, non essendo riferito esclusivamente a quella permanente. Ne deriva, la sanzionabilità dell’offerta tardiva formulata dall’impresa perché non vi sono ragioni per sottrarre la medesima alle serrate cadenze temporali previste dalla legge per la formulazione dell’offerta. Con la precedente osservazione risulta rispettata, la ratio della norma in esame, la quale ruota sul “dichiarato presupposto che si tratti di sinistri con soli danni a cose o con lesioni non invalidanti”. 8. Situazioni d’incompatibilità relative alla figura dell’attuario incaricato L’art. 3 del D.P.R. 31/03/1975 n. 136 enuclea le ipotesi d’incompatibilità relative alle società di revisione in genere; la medesima disciplina è stata poi estesa all’attuario revisore. L’art. 20 bis d.lgs. n. 174/1995, introdotto dall’art. 79 lett. a) del d.lgs. 173/1997, nell’istituire – quanto alle imprese d’assicurazione del ramo vita – la figura dell’attuario incaricato, disciplina le situazioni d’incompatibilità all’assunzione del ruolo relativo. Più precisamente, l’art. 3, comma secondo, del D.P.R. 31/03/1975 n. 136 stabilisce che i soci, gli amministratori, i sindaci o i dipendenti della società di revisione alla quale è stato conferito l’incarico [di revisione] non possono esercitare le funzioni di amministratore o di sindaco della società che ha conferito l’incarico, né possono prestare lavoro autonomo o subordinato in favore della società stessa, se non sia decorso almeno un triennio dalla scadenza o dalla revoca dell’incarico ovvero dal momento in cui abbiano cessato di essere soci, amministratori, sindaci o dipendenti della società di revisione. Per converso, il citato art. 20 bis del d. lgs. n. 174/1995, nell’effettuare un rinvio al predetto art. 3, ne esclude expressis cum verbis la condizione d’incompatibilità di cui al comma 1, punto n. 2, con ciò consentendo di assumere il ruolo di attuario incaricato anche ai soggetti che intrattengano od abbiano in passato intrattenuto rapporti di lavoro autonomo o subordinato con la società conferente l’incarico ovvero con altre società od enti controllanti la medesima. Si evidenzia un conflitto tra le citate norme che, peraltro, si rivela solo apparente. Se è vero, infatti, che il principio ispiratore della disciplina delle incompatibilità si rinviene nella condivisibile esigenza di impedire l’instaurarsi di interessenze e conflitti d’interesse con riguardo a figure professionali tanto delicate, la novella che ha introdotto il citato art. 20 bis trova, invece, la sua ragion d’essere nella necessità di individuare, sul mercato delle risorse umane, professionalità in numero sufficiente all’assolvimento di quella funzione di controllo tecnico-attuariale dell’attività gestionale delle imprese assicurative che il legislatore ha richiesto in via continuativa. In altri termini, introducendo la figura dell’attuario incaricato, si è inteso realizzare una sorta di ponderazione degli interessi da salvaguardare, nel senso di ritenere prevalente sui principi generali – che certamente, al di là delle specifiche deroghe, restano fermi – la ratio di assicurare alle imprese la continuità della funzione di controllo che altrimenti verrebbe compromessa. Sotto questo profilo, la disposizione di cui all’art. 20 bis, comma secondo, d.lgs. n. 174/1995, quale norma successiva speciale in quanto afferente alla materia assicurativa, introduce una deroga espressa al regime ordinario limitatamente alla figura dell’attuario incaricato. 9. Legge 675/96 c.d. legge sulla privacy e servizio reso dall’ANIA A seguito dell’entrata in vigore della legge 31 dicembre 1996 n. 675, è sorta questione in relazione al rilascio agli interessati, da parte dell’ANIA, di informazioni relative alla denominazione della compagnia presso cui è assicurato un veicolo di cui siano noti soltanto gli estremi della targa; e ciò nel presupposto che tale comunicazione violi le disposizioni vigenti in tema di c.d. diritto alla privacy. Anzitutto, si sono espressi dubbi sul fatto che l’abbinamento targa del veicolo – compagnia assicuratrice configuri un dato personale, il cui trattamento resti, quindi, disciplinato dalla citata legge sulla privacy. Diversamente dovrebbe opinarsi nel caso in cui l’abbinamento con gli estremi della targa del veicolo avesse riguardo, anziché alla compagnia, al nominativo dell’assicurato. Tale considerazione discende dal tenore delle disposizioni di legge, segnatamente dalla lettera c) del comma 2 dell’art. 1 della legge sulla privacy, disposizione che definisce il concetto di dato personale quale “qualunque informazione relativa a persona fisica, giuridica o ente o associazione identificativo identificabili, anche direttamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione ivi compreso un numero di identificazione personale” Qualora non si acceda a tale tesi, ritenendosi pertanto, che nell’operazione di cui trattasi sia rinvenibile un trattamento di dati personali soggetto alla cennata legge 675/96, può preliminarmente osservarsi che la legge 24 dicembre 1969 n. 990 obbliga a rendere di pubblico dominio la denominazione dell’impresa assicuratrice. Infatti, come è noto, l’art. 7 della citata legge sulla assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dispone che il contrassegno, documento che l’assicuratore è tenuto a consegnare all’assicurato all’atto del rilascio del certificato di assicurazione, debba essere reso pubblico applicandolo “sul veicolo... negli stessi modi stabiliti dall’articolo 12 del testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche”; in altre parole l’assicurato deve esporlo sul parabrezza dell’auto in modo visibile, al fine di consentire l’identificazione del veicolo, della compagnia assicuratrice, nonché di verificare la scadenza del periodo di assicurazione. Tra gli elementi che il contrassegno deve contenere ad substantiam (tanto che ne è persino previsto il modello standard) vi è la denominazione dell’assicuratore ex art. 14 d.P.R. 24 novembre 1970 n. 973, lettera a): trattasi, dunque, di informazione la cui pubblicità è espressamente prevista dalla legge e dal suo regolamento di esecuzione. Peraltro, la ratio di tale disciplina risiede nel fatto che la conoscenza del suddetto dato è imprescindibile per esercitare l’azione diretta stabilita a favore del danneggiato nei confronti dell’assicuratore dall’art. 18 della citata legge 990/1969. Ad avvalorare tale assunto, vi è, infine, l’art. 5 della “Quarta direttiva comunitaria assicurazione autoveicoli”, il quale prevede l’istituzione di un centro d’informazione, cui sia attribuita la tenuta di un registro contenente, tra le altre notizie, la denominazione delle imprese di assicurazione che coprono la garanzia r.c.auto di ogni autoveicolo. Sulla base di tali riferimenti normativi, si è ritenuto che nulla osti alla prosecuzione del servizio de quo da parte dell’ANIA anche dopo l’entrata in vigore della legge 675/96, in quanto il caso di specie rientra sia nella lett. b), sia nella lettera c), dell’art. 20, comma 1 della medesima legge. Tali disposizioni prevedono peraltro in via alternativa, due fattispecie in cui sono ammesse la comunicazione e diffusione dei dati personali, esonerando il titolare del trattamento dalla necessità di acquisire il consenso espresso dell’interessato: “se i dati provengono da pubblici registri ... atti o documenti conoscibili da chiunque” (lett. b) ovvero se (lett. c)avvengano “in adempimento di um obbligo previsto dalla legge da un regolamento o dalla normativa comunitaria” (v. legge 990/69). Peraltro, non solo la comunicazione dei dati è possibile nel caso di specie non solo in quanto derivante da una deroga espressamente stabilita, ma anche in quanto derivante da una deroga espressamente stabilita, ma anche il trattamento dei dati si ritiene sottoposto a regole di particolare favore: ai sensi dell’art. 7 comma 5 ter lett. a) e b), il titolare è esonerato dall’obbligo di notificazione al Garante quanto il trattamento “è necessario per l’assolvimento di un compito previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria ....”. ovvero quando “riguarda dati contenuti o provenienti da pubblici registri ... omissis ... atti o documenti conoscibili da chiunque”; In quest’ultimo caso si può prescindere anche dal consenso dell’interessato (art. 12, comma 1, lett. c), allo stesso modo in cui, ove riguardi dati raccolti e detenuti in base ad un obbligo previsto dalla legge, da un regolamento o dalla normativa comunitaria”, il consenso non è richiesto (lett. a) dell’art. 12. Non pare affatto irragionevole che tale obbligo venga rinvenuto nella legge 990/1969, sembrando al contrario logica conseguenza del sistema delineato dal legislatore che la denominazione dell’assicuratore si configuri come informazione necessaria e strumentale per adempiere l’obbligo di risarcimento ivi previsto. Pertanto, la comunicazione di tale data può agevolmente ritenersi “in adempimento di un obbligo previsto dalla legge e quindi lecita. Conclusivamente, si è affermato che il trattamento di tale dato non richiede né la previa notifica al Garante per la protezione dei dati personali, né il consenso dell’impresa assicuratrice; inoltre – si è aggiunto – la sua comunicazione ammessa è resa possibile dalla legge. 10. Conservazione da parte delle imprese assicurative di dati sanitari acquisiti ai fini della liquidazione di sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A. Si sono svolte alcune considerazioni sulla questione relativa all’obbligo di conservazione, a seguito della liquidazione dei sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A., dei dati sanitari relativi a terzi danneggiati, e dell’esatta durata del relativo periodo di conservazione dei predetti documenti. In proposito è appena il caso di ricordare che l’obbligo di conservazione per dieci anni delle scritture contabili, sancito dall’art. 2220 cod. civ. per la generalità delle imprese commerciali, vale anche per quelle assicuratrici. Nei confronti di esse, tale obbligo assume peraltro contenuti specifici in relazione alla peculiarità delle evidenze contabili e documentali richieste dalla normativa di settore. Vengono in primaria considerazione le disposizioni di cui agli artt. 22, 49 e 72 del r.d. 4/1/1925, n. 63 che, per quanto qui interessa, estendono il generale obbligo di conservazione delle scritture contabili alle copie delle polizze ed ai dati medico-sanitari di riferimento. In particolare, ai sensi dell’art. 22, ultimo comma, è prescritto alle imprese nazionali e alle rappresentanze estere che esercitano l’assicurazione sulla vita di conservare presso la sede centrale le proposte di assicurazione, la copia delle singole polizze emesse e i relativi certificati medici, le copie dei contratti di riassicurazione, retrocessione e partecipazione e tutti gli elementi relativi. In relazione alle imprese che esercitano l’assicurazione contro i danni, l’art. 49 sancisce un analogo obbligo prevedendo, con un’ampia clausola finale, che “presso la sede centrale … debbono inoltre essere conservate le copie delle singole polizze emesse, le copie dei contratti di assicurazione e tutti gli elementi relativi”. In tale ultima espressione sono da ritenere compresi anche i dati sanitari, ancorché dei certificati medici si parli soltanto nella disciplina dell’assicurazione sulla vita. L’apparente omissione può spiegarsi con la circostanza che, mentre alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita è connaturata la comunicazione da parte dell’assicurato di dati inerenti alla salute del medesimo, ciò non accade per le assicurazioni diverse da quella sulla vita, ove un trattamento di dati sensibili relativi a danneggiati o ai medesimi assicurati può venire in considerazione solo in seguito al verificarsi di un sinistro. Né va trascurato che, per effetto della legislazione comunitaria, alla tradizionale scansione “vita-danni” su cui si fondava la pregressa normativa assicurativa, si è sovrapposta quella cose-persone, con la conseguente assunzione sotto un’unica categoria delle coperture assicurative connesse a tutte le vicende umane e, dunque non solo la vita e la morte, ma anche gli infortuni e le malattie. Infine, per quanto concerne le imprese di capitalizzazione e di risparmio, è l’art. 72 del citato r.d. a stabilire che, sempre presso la sede centrale, debbano essere conservate anche “le copie delle singole polizze o dei singoli certificati relativi ai contratti di capitalizzazione e tutta la documentazione relativa”. Aggiunge l’art. 61 del d.p.r. 13/2/1959 n. 449 che, presso le imprese che esercenti l’assicurazione sulla vita, l’obbligo si estende a tutto il materiale tecnico e statistico relativo a queste assicurazioni, necessario ai fini del controllo di vigilanza. Dalla disamina delle disposizioni appena richiamate si evince l’assenza di un termine diverso da quello di durata decennale minima, previsto quale obbligo generale di conservazione della documentazione aziendale. Ciò non esclude la possibilità che un termine superiore a quello minimo previsto dalla disciplina codicistica si individui per ragioni connesse ai riscontri di vigilanza. In tal senso si richiamano le disposizioni di cui alla Circolare Isvap n. 99 del 30 giugno 1988. In merito all’obbligo di conservazione dei libri e registri assicurativi, tale circolare, avvalendosi delle disposizioni di carattere generale dell’art. 2220 cod. civ. e dell’art. 22 del d.P.R. 29/9/1973, n. 600 in materia di accertamento delle imposte sui redditi, stabilisce che i registri assicurativi debbano essere conservati per almeno dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, e comunque fino a quando, anche oltre tale termine, non siano stati definiti gli accertamenti relativi ai corrispondenti periodi di imposta. Attesa la durata mediamente più lunga dei contratti di assicurazione sulla vita, è inoltre stabilito in deroga al principio generale che, per esigenze di controllo, il registro dei contratti stipulati riguardante le predette assicurazioni debba essere conservato per il periodo più lungo possibile e, comunque, per almeno 20 anni. Considerazione a parte meritano le imprese assicuratrici in liquidazione, sia essa volontaria oppure coatta, posto che i suesposti termini devono ritenersi prorogati ai sensi dell’art. 2457 cod. civ., in forza del quale i libri sociali, una volta depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, vanno conservati per dieci anni. La superiore osservazione non assume rilievo secondario avendo presente che, all’attualità, quasi tutte le imprese assoggettate a liquidazione coatta amministrativa esercitavano l’assicurazione R.C.A., settore in cui vengono sovente in considerazione dati inerenti alla salute di terzi danneggiati. Ai fini del presente riscontro si prescinde dal richiamare il preminente interesse dell’impresa a conservare per il maggior tempo possibile i dati sanitari relativi a terzi danneggiati (o assicurati in genere) per fini statistici, per una corretta costruzione delle tariffe, per la repressione delle frodi o per altre ragioni connesse alle proprie strategie commerciali. Trattasi – com’è evidente – di motivazioni meritevoli di considerazione in quanto concorrono ad un equilibrato ed ordinato esercizio di una funzione di rilevante interesse sociale come quella assicurativa. Ovviamente spetta al Garante valutare entro quali limiti esse possono trovare accoglimento senza pregiudizio per le preminenti ragioni a tutela della riservatezza. 11. Circolazione stradale e risarcimento del danno allo straniero Il cosiddetto principio di reciprocità di cui all’art. 16 delle Disposizioni sulla legge in generale, invocato da alcune imprese assicuratrici, che è divenuto peraltro residuale per effetto della nuova disciplina sull'immigrazione, comporta il soddisfacimento della condizione che lo stato di appartenenza dello straniero riconosca, senza limitazioni discriminatorie per il cittadino italiano, i diritti civili connessi al risarcimento del danno e all’istituto dell’assicurazione (Cassazione 10 febbraio 1993 n. 1681) senza che, peraltro, ad esso possa legittimamente attribuirsi l’ulteriore significato che allo straniero debba essere riconosciuto solo quanto verrebbe attribuito ad un cittadino italiano per un fatto analogo che si verificasse nel paese di origine dell’extracomunitario. Ad una siffatta interpretazione osta l’art. 62 della legge 618 del 1995 “Riforma del sistema di diritto internazionale privato” , secondo cui “la responsabilità per fatto illecito è regolata dalla legge dello Stato in cui si è verificato l’evento”: ciò vuol dire, con riferimento all’Italia, che ogni sinistro il quale si verifichi in territorio nazionale è sottoposto all’applicazione della legge italiana (lex loci). Una volta accertato l’assolvimento della condizione di reciprocità cui è subordinato l’an debeatur, è da ritenere che la legge applicabile ai fini della quantificazione del danno sia quella italiana, anche se ne derivi per l’impresa assicuratrice un esborso superiore a quello che verrebbe in ipotesi erogato per un fatto analogo ad un cittadino italiano da un’impresa del paese straniero. Pertanto, l’invocazione del principio della reciprocità da parte dell’impresa assicuratrice per ridurre l’ammontare del risarcimento da erogare allo straniero non appare in ogni caso pertinente, configurandosi conseguentemente il comportamento dalla medesima assunto privo di fondamento giuridico. Premesse le suesposte considerazioni generali, l’applicabilità del principio di cui all’art. 16 delle preleggi ha subito, peraltro, un fortissimo ridimensionamento per effetto dell’entrata in vigore della legge 6 marzo 1998 n. 40 e del suo regolamento di esecuzione (d.P.R. 31 agosto 1999 n. 394). A distanza di quasi dieci anni dalla legge c.d. Martelli (legge 28 febbraio 1990 n. 39) e dopo ben sei decreti-legge emanati sull’onda emergenziale, il legislatore italiano ha finalmente provveduto all’ormai non più procrastinabile rivisitazione della materia, introducendo in un settore di sensibile attualità un’incisiva modifica, resa urgente tra l’altro dagli esodi di massa verificatisi dai territori della Somalia, dell’ex Jugoslavia e dell’Albania, oltre che dalla recentissima diaspora delle popolazioni curde. L’art. 2 della legge 40/1998 enumera le diverse posizioni soggettive, di diritto e di interesse, riconosciute allo straniero. Innanzitutto, all’art. 2, comma I, sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona allo straniero comunque presente “alla frontiera o nel territorio dello Stato”: “anche a chi si trovi in stato di clandestinità o di irregolarità in riferimento alla disciplina sull’ingresso, sono assicurati i diritti fondamentali previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. La norma non risulta in realtà innovativa rispetto al passato ovvero, rectius, anche se essa è da ritenersi nuova dal punto di vista legislativo, si palesa conforme ad una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale che, statuendo sull’applicazione del principio di eguaglianza, ne ha esteso la portata agli stranieri allorchè vengano in considerazione i principi generali della persona (Corte Costituzionale n. 62/94). Nell’interpretazione della Consulta il catalogo dei diritti fondamentali, come tali riconosciuti anche allo straniero, si estende oltre il confine di quelli riferibili ai soli cittadini nel dettato costituzionale. La giurisprudenza costituzionale ha, infatti, fortemente limitato la valenza del dato testuale, affermando anche a favore degli stranieri diritti fondamentali, per i quali la lettera della costituzione si riferisce ai solo “cittadini”, e in tal modo valorizzando il collegamento sistematico tra il principio di eguaglianza, la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo sancita dall’art. 2 della Costituzione e le consuetudini e convenzioni internazionali in tema di salvaguardia dei diritti dell’uomo. In tale contesto, è tesi accreditata dalla giurisprudenza costituzionale che il risarcimento del danno, quantomeno nella componente del “danno biologico” - è riconducibile senz’altro alla tutela degli artt. 2 e 32 della Costituzione sub specie di danno alla salute - attenga ad un diritto inviolabile della persona, così da non essere condizionato in alcun modo dall’applicazione del principio di reciprocità. Tale orientamento è fra l’altro seguito dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma, 19 gennaio 1993). Conseguentemente, ogni straniero, anche se si trovi in situazione di irregolarità, gode del medesimo diritto riconosciuto al cittadino italiano di essere tenuto indenne del danno cosiddetto biologico senza la necessità di dimostrare la sussistenza della condizione di reciprocità. Diverso avviso si palesa, invece, riguardo alla situazione dello straniero regolarmente soggiornante in Italia, sul quale la legge è inequivoca. Infatti, il comma II dell’art. 2 della legge n. 40/98, proseguendo nell’enucleare i diritti riconosciuti allo straniero, considera una diversa relazione col territorio dello Stato, non legata alla sola presenza, ma alla condizione di straniero “regolarmente soggiornante” e, quindi, munito di titolo per l’ingresso e il soggiorno. Accanto ai diritti fondamentali richiamati, allo straniero che si trovi in tale condizione è assicurata l’equiparazione con il cittadino italiano nel godimento dei diritti civili e quindi nelle posizioni soggettive che riguardano lo status civitatis. Come può sin qui rilevarsi, anche la materia della condizione di reciprocità viene indirettamente modificata. Pur non pervenendosi all’abrogazione espressa dell’art. 16 delle preleggi e rinviandosi al regolamento per le modalità di accertamento di tale condizione, la medesima non viene mai richiamata nel corpus della legge 40/1998 per limitare l’applicazione degli istituti ivi disciplinati: da tale scelta discende che, considerata la natura di legge organica che possiede la cennata disciplina (poi trasfusa nel testo unico adottato con decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286), l’area applicativa della condizione di reciprocità si configura ormai residuale. Con il regolamento di attuazione della legge 40/1998 (il ricordato d.P.R. 394/1999) il disegno riformatore in tema di disciplina dell’immigrazione può dirsi completo; la ferita al principio di reciprocità è oramai definitamene inferta. Il comma II dell’art. 1 stabilisce, infatti, che l’accertamento della condizione di reciprocità non è richiesto per i cittadini stranieri titolari della carta di soggiorno nonché per gli stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l’esercizio di un’impresa individuale e per i relativi familiari in regola con il soggiorno. Il ruolo residuale del principio emerge anche dal I comma dell’art. 1 ove è previsto che i soggetti ivi indicati (responsabili del procedimento amministrativo che ammette lo straniero al godimento dei diritti civili, notai) possano richiedere l’accertamento di tale condizione al Ministero degli Affari Esteri nei soli casi previsti dal Testo Unico e in quelli in cui le convenzioni internazionali prevedano la condizione di reciprocità. Le considerazioni sin qui espresse inducono all’assunto che i cittadini extracomunitari titolari di regolare permesso di soggiorno in Italia abbiano diritto di essere risarciti dalle imprese assicuratrici dei danni subiti in conseguenza di sinistri loro occorsi nel territorio della Repubblica, secondo modalità liquidative identiche a quelle utilizzate per il cittadino italiano. Per rifiutare o, in sostanza, eludere le istanze risarcitorie presentate da detti stranieri, la società assicuratrice non potrà più invocare la condizione di reciprocità in quanto, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 2, d.P.R. 394/1999, ad essa non è più condizionato l’esercizio dei diritti ai medesimi ascritti. 12. Rivalutazione minima delle sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. 449/1959 in base all’art. 83 del d.lgs. 26 maggio 1997 n. 173 – Attuazione della Direttiva 91/674/CEE in materia di conti annuali e consolidati delle imprese di assicurazione In merito all’alternativa se attribuire generale o particolare effetto rivalutativo – in rapporto alle sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. 449/1959 – all’art. 83 del d.lgs. 173/1997 (che ne dispone il raddoppio della misura minima), si è sostenuto che la cennata rivalutazione abbia esclusivo riguardo alle sanzioni conseguenti agli illeciti delineati dal citato art. 83, cioè alla tardiva approvazione e tardiva trasmissione del bilancio delle imprese assicuratrici all’Isvap (rispettivamente art. 11, 2° comma e art. 82, 3° comma del d.lgs. 173/1997). A tal proposito, è parso che già il senso logico-letterale racchiuso nell’art. 83 deponga, in termini inequivoci, a favore della tesi appena esposta: nel fare puntuale riferimento alle due cennate fattispecie trasgressive, la norma non giustifica ampliamenti della rivalutazione al di fuori delle ipotesi di illeciti ivi contemplate. Per completezza può rilevarsi che il Legislatore – pur potendolo realizzare senza con ciò esorbitare dai limiti della delega concessagli ratione materiae – non ha ritenuto peraltro di assoggettare tutte le violazioni delle disposizioni introdotte dal suddetto d.lgs. 173/1997 alle medesime sanzioni ex art. 114 e 115 nella misura rivalutata, operando così una scelta di campo, limitativa della propria discrezionalità. Premesse le osservazioni innanzi esposte sulla lettera della legge, deve inoltre reputarsi che – a prescindere dalla voluntas legis – non possa riconnettersi alle disposizioni dell’art. 83 un significato generale, tale da comportare una rivalutazione degli art. 114 e 115 del T.U. in rapporto a tutte le fattispecie sottopostevi (e non solamente a quelle delineate dal d.lgs. 173/1997), se non si vuole esulare ex art. 76 della Costituzione dai limiti tracciati dalla delega per l’attuazione della Direttiva comunitaria 91/674/CEE. Con legge 22 febbraio 1994 n. 146 il Parlamento ha, infatti, conferito al governo delega ad emanare decreti legislativi di attuazione di alcune direttive, tra cui quella in esame; segnatamente, con riferimento ad essa, nello stabilire i principi e criteri cui l’organo esecutivo deve attenersi, ha rimesso al medesimo l’emanazione di disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative, ma esclusivamente per violazioni delle direttive attuate ai sensi della stessa legge delega. I rilievi svolti postulano che debba prescegliersi un’interpretazione aderente alla lettera della Costituzione (conforme anche ai principi di legalità e tassatività che informano il sistema sanzionatorio), idonea ad impedire un’eventuale declaratoria di incostituzionalità, sotto il profilo dell’eccesso di delega, da parte della Consulta; tale considerazione risulta determinante nell’ipotesi in cui non si convenga che funzione decisiva è già assolta al riguardo dal dato letterale, nel senso di non lasciare adito a soluzioni differenti da quella sin qui patrocinata. A suffragio della suddetta interpretazione, può inoltre osservarsi – quale argomento a contrariis – che, a differenza che nell’ipotesi in esame, precedenti operazioni rivalutative in materia assicurativa hanno indotto il Legislatore ad una riformulazione normativa ad hoc con la dichiarata finalità di ricomputo generale (vedansi a questo proposito gli artt. 127 del d.lgs. 174/1995 e 141 del d.lgs. 175/1995). D’altra parte, qualora si fosse ritenuto che al suddetto art. 83 sia da attribuire effetto rivalutativo generale, ne sarebbe derivata la necessità di riconsiderare l’intero apparato di riforma del sistema sanzionatorio, portato ancora di recente all’esame dell’Autorità governativa e del Parlamento; e tuttavia non è stato quello l’orientamento di Istituto. Formulate tali considerazioni in ordine all’effetto limitato della rivalutazione operata, si è sostenuto che il richiamo all’art. 114 contenuto nel citato art. 83 sia un refuso, probabilmente da ritenersi connesso all’uso tralatizio di ripetere l’abbinamento delle due norme, a motivo che in esse si esauriva l’apparato sanzionatorio del d.P.R. 449/1959. La sanzione di cui all’art. 114 è, infatti, per sua natura palesemente riferita (e riferibile) a fattispecie in cui viene in considerazione l’operatività dell’impresa assicuratrice in termini di assunzione di contratti o di collocazione dei rischi, sicchè in tale contesto è logico e pertinente che essa si commisuri all’ammontare dei premi pattuiti (nella misura pari al doppio del premio stabilito per ogni contratto). Rapportato, invece, alle violazioni degli artt. 11, comma 2°, e 82, comma 3°, d.lgs. 173/1997, tale parametro non assume alcun senso, in quanto le suddette fattispecie non attengono, evidentemente, né alla stipula né alla mediazione di contratti, bensì all’assolvimento nei confronti dell’Istituto di un obbligo che, per sua natura, prescinde dall’ammontare dei premi assunti dalle imprese. Anzi, esso si configurerebbe palesemente incongruo se si considerano i risultati aberranti cui la sua adozione ai fini della determinazione del quantum della sanzione darebbe luogo, nel comportare l’irrogazione di sanzioni del più svariato ammontare in relazione al differente volume di affari di ciascuna impresa, a fronte peraltro della medesima violazione, il cui disvalore sarebbe illogico che ricevesse differente apprezzamento a seconda della quantità dei contratti stipulati. Per i motivi sin qui rilevati, si è concluso nel senso di ritenere che l’unica sanzione applicabile in concreto, nonostante lo scarso potere deterrente posseduto – in quanto, come rilevato, l’illecito è suscettibile di configurarsi una sola volta nell’esercizio – sia quella di cui all’art. 115 del T.U., salvo particolarissimi casi in cui vengano eventualmente in considerazione le violazioni delle due norme di cui trattasi, in una con l’inosservanza di disposizioni che presuppongono un’operatività dell’impresa, del tutto ininfluente nelle fattispecie esaminate. 13. Convenzione ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 973/1970 relativa agli obblighi connessi con l’assicurazione r.c. natanti Si sono svolte alcune considerazioni sulla possibilità di ritenere esonerate le imprese straniere “comunque ubicate” in Italia dall’obbligo di stipulare la convenzione con un’impresa italiana, richiesta in linea generale ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 973/1970 al fine di considerare validamente assolto l’obbligo assicurativo da parte dei motoscafi e delle imbarcazioni a motore iscritti in stati esteri e assicurati presso dette compagnie straniere. Il requisito posto dalla legge può reputarsi integrato, senza necessità di stipulare alcuna convenzione con impresa italiana o, meglio, come il suddetto art. 8 richiede espressamente, con impresa autorizzata ad esercitare in Italia. La cennata disposizione regolamentare può reputarsi parzialmente superata. Essa va, infatti, interpretata alla luce della sopravvenuta normativa di recepimento delle direttive comunitarie, segnatamente dalle terze direttive avvenuta in materia di assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita per effetto del d.lgs. 175/1995, che induce a considerare esonerate dall’obbligo di stipulare la convenzione con “l’impresa autorizzata” ad esercitare in Italia le imprese straniere operanti nel settore dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti in regime di libertà di stabilimento o di libera prestazione di servizi in Italia in quanto già abilitate, “autorizzate” nell’accezione lata, a svolgere attività assicurativa nel territorio della Repubblica. Com’è noto, la disciplina regolante le suddette forme di operatività delle imprese estere già prevede, seppure con modalità ed intensità differenti tra di loro, l’esistenza nel territorio della Repubblica di strutture legittimate alla gestione dei sinistri e la liquidazione dei relativi indennizzi e dotate di poteri rappresentativi dell’impresa. E’ quindi privo di senso privilegiare un’anacronistica formalità a detrimento della ratio normativa, evidentemente assolta da una struttura istituita ad hoc internamente alla compagine societaria, dipendente dalla casa madre (della quale si presume segua correttamente le direttive), che in linea di principio offre più garanzie di una organizzazione esterna, connessa solo in forza di un accordo contrattuale. Ciò posto, si è ritenuto che la stipulazione di convenzione con impresa italiana sia oggi ancora necessaria per le imprese U.E. che non operano né in regime di stabilimento né di libera prestazione di servizi o per quelle extra U.E. che non operano in regime di stabilimento. 14. Sentenza Tar Lazio del 7 aprile 2000 in tema di situazioni impeditive Il Tar del Lazio con sentenza del 7 aprile 2000 ha annullato le disposizioni regolanti le cosiddette situazioni impeditive previste dall’art. 2 del d.m. 11 novembre 1998 n. 468 (Regolamento SIM, SGR e SICAV) e dall’art. 2 del d.m. 11 novembre 1998 n. 471 (Regolamento delle società di gestione dei mercati regolamentati e di gestione accentrata di strumenti finanziari). Considerata la quasi identità delle previsioni de quibus rispetto alla omologa disciplina del contiguo settore assicurativo, è infatti evidente l’influenza che tale pronuncia sarebbe suscettibile di spiegare in ambito assicurativo qualora trovasse conferma in sede di appello. Esaminando il contenuto della sentenza in oggetto, si è riscontrato che il Tar ha respinto il primo motivo di gravame accogliendo, invece, il secondo motivo sulla base del presupposto che la disciplina delle situazioni impeditive determini una restrizione, fondata su mere presunzioni, della capacità di agire del soggetto che vi incorre. Più precisamente, il Tribunale ha ritenuto che tale regolamentazione dia luogo ad un’interdizione temporanea sulla base di una presunzione assoluta di responsabilità per la crisi dell’impresa o ente in cui il soggetto ha svolto l’attività professionale, che prescinde dall’accertamento in concreto del coinvolgimento dello stesso nel dissesto dell’impresa, non consentendogli peraltro di fornire alcuna prova “liberatoria” circa l’estraneità ai fatti che vi hanno dato causa. Alla stregua delle esposte considerazioni, il giudice di prime cure ha delineato un alternativo criterio di imputazione della responsabilità che non appare tuttavia ispirato a valutazioni oggettive, scevre da discrezionalità, fondandosi al contrario su apprezzamenti di carattere eminentemente soggettivo. In sostanza, il Tar configura un sistema complesso di valutazione basato sull’apprezzamento discrezionale sia degli organi societari sia di quelli amministrativi o giurisdizionali che gestiscono la crisi dell’impresa, successivamente soggetto al controllo dell’Organo di vigilanza. In tal modo verrebbe esclusa quell’automaticità degli effetti preclusivi che costituisce in negativo il corollario dell’attuale disciplina delle situazioni impeditive e al quale l’autorità giurisdizionale si prefigge di porre rimedio. In tale contesto, il giudice amministrativo mostra, al contrario, di non conferire sufficiente rilevanza alla circostanza (in ogni caso ricordata in motivazione) che il modello attualmente adottato si connota in positivo per la riduzione dei fattori di carattere discrezionale nelle valutazioni, che certamente è elemento ridondante a vantaggio del principio della certezza giuridica. La partecipazione dell’ISVAP alla redazione di nuovo decreto ministeriale che verrebbe a sostituire integralmente la disciplina dei requisiti di professionalità e di onorabilità ora in vigore (il d.m. 186/97), è auspicabile per le seguenti ragioni: 1) la circostanza che la decisione, non essendo passata in giudicato in quanto ancora sub iudice, possa essere totalmente disattesa dal Consiglio di Stato, non consente di attribuirvi alcun valore esaustivo; 2) qualora il giudice d’appello confermi la pronuncia del Tar Lazio, la sostanziale analogia di disciplina nei diversi comparti soggetti a vigilanza induce a ritenere opportuna una concertazione tra le varie autorità preposte ai settori di rispettiva competenza al fine di reperire una comune intesa in ordine alle modifiche che eventualmente si renderanno necessarie; 3) la mancata presentazione di alcuna proposta di regolamento, oltre a produrre un effetto dilatorio notevole attesi i tempi piuttosto lunghi della giustizia, comporterebbe l’inconveniente di diversificare la disciplina del settore assicurativo rispetto a quella degli altri comparti, potendo costituire altresì un argomento spendibile dalla parte vittoriosa del primo grado di giudizio a favore della tesi propugnata; 4) infine, la circostanza che la nuova disciplina si configuri peraltro migliorativa (per i soggetti sottopostavi) rispetto a quella attualmente prevista in tema di situazioni impeditive dal d.m. 186/1997, in quanto individua con maggiore precisione il periodo necessario di permanenza nella carica rivestita nell’ente coinvolto in gestioni deficitarie, costituisce un ulteriore elemento da sussumere a favore dell’adozione della anzidetta scelta operativa, non potendosi neppure la vigente disciplina ritenere esente da eventuali censure di contenuto analogo a quelle formulate dal TAR Lazio nei confronti della normativa regolamentare relativa al settore finanziario. 15. Individuazione dei termini di verifica da parte del Consiglio di Amministrazione, ai sensi dell’art. 3 del d.m. 162/2000, del possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del collegio sindacale di società assicuratrici Si sono svolte alcune considerazioni in relazione ai termini entro cui il consiglio di amministrazione debba verificare il possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del collegio sindacale di società assicuratici. Al riguardo, si è sostenuto che tale adempimento vada assolto alla prima favorevole occasione, purchè non oltre trenta giorni dall’avvenuta nomina, per evitare che qualche esponente privo dei requisiti compia atti rispetto ai quali dovrebbe considerarsi inidoneo. La risoluzione del quesito nel senso anzidetto discende in primo luogo dal disposto dell’art. 13, (espressamente applicabile in quanto richiamato dal successivo art. 148, comma 4) del decreto legislativo 58/1998 che ha conferito la delega al Ministro della Giustizia ad emanare il d.m. 162/2000. E’appena il caso di rilevare che l’art. 3 del regolamento in questione, disciplinante l’accertamento dei requisiti di onorabilità e professionalità, non può che essere letto unitamente alla legge di cui reca attuazione – fra l’altro puntualmente richiamata nel preambolo – che delimita l’oggetto ed i principi cui la norma secondaria deve attenersi; e nel caso di specie la norma primaria prevede espressamente che la decadenza dalla carica debba essere dichiarata dal consiglio entro 30 giorni dalla nomina – nel caso di difetto originario dei requisiti necessari – o dalla conoscenza del difetto sopravvenuto. D’altro canto, l’applicabilità di tale disciplina alle società assicuratrici, quotate e non (a queste ultime per effetto del noto art. 4 del d.lgs. 343/1999), è espressamente garantita dalla disposizione di cui all’art. 4 del citato d.m. 162/2000. Tale disposizione specifica, infatti, il raggio d’azione della regolamentazione in esame, prevedendone l’operatività anche per i sindaci di società appartenenti a comparti già sottoposti a vigilanza, facendo tuttavia salve le disposizioni settoriali che stabiliscano ulteriori condizioni per la sussistenza dei requisiti di professionalità e onorabilità dei medesimi. Ciò significa che, per quanto concerne gli anzidetti requisiti del componenti del collegio sindacale, la normativa posta nel decreto del Ministero della Giustizia (e, ovviamente, nella legge delega) prevale su quella analoga in materia assicurativa, a meno che questa non contenga condizioni più stringenti. Tuttavia, a ben guardare, la circostanza che la disciplina assicurativa (nella specie gli artt. 39 del d.lgs. 174/1995 e 42 del d.lgs. 175/1995) contempli la sola ipotesi della inidoneità sopravvenuta degli esponenti aziendali al fine di stabilire che la declaratoria di decadenza debba intervenire entro 30 giorni dalla sua conoscenza da parte del consiglio di amministrazione, o nel caso di inerzia, debba disporsi con provvedimento dell’Isvap, senza configurare direttamente la fattispecie del difetto originario dei requisiti prescritti, non rende la normativa di settore meno stringente di quella generale sui sindaci di società. E’ semmai vero il contrario: l’ipotesi del difetto originario dei requisiti di onorabilità e professionalità non è prevista dalle disposizioni di settore perché trattasi di verifica che, seguendo un’interpretazione ispirata a criteri di ragionevolezza, andrebbe effettuata addirittura prima della nomina, senza attendere che il Consiglio (tra l’altro, inoperante in sede di costituzione) dichiari la decadenza. 16. Obbligo per l’assicuratore di rilascio dell’attestazione sullo stato di rischio – art. 2 legge n. 39/77 – ritiro a mezzo rappresentante E’ stata approfondita la questione relativa al rifiuto, opposto da una compagnia, del rilascio dell’attestazione di rischio a soggetti delegati dal contraente e muniti di procura scritta, eccependosi una presunta difformità tra le firme del delegante come risultanti dal contratto assicurativo e dall’atto di procura. In particolare, l’impresa assicuratrice riteneva di essere tenuta ad opporre la diversità di firma al fine di evitare le eventuali conseguenze negative per aver colpevolmente adempiuto al proprio obbligo nei confronti di un soggetto non legittimato. E la colpa consisterebbe nel non aver accertato, usando la normale diligenza, l’inesistenza dei poteri di rappresentanza in capo al soggetto latore dell’atto di procura “viziato”. Tale assunto sarebbe stato avvalorato da sentenze della Cassazione Le argomentazioni e giustificazioni espresse dalla compagnia sono state ritenute in punto di principio non fondate. In particolare, l’iter logico-giuridico esposto dalla compagnia è apparso viziato ove si consideri che la normativa codicistica dispone, in via generale, che il debitore è liberato dal proprio obbligo (nella fattispecie il rilascio dell’attestato) ove provi di aver adempiuto in buona fede a soggetto che appare legittimato a riceverlo. In proposito la medesima normativa offre, art. 1393 c.c., al creditore la possibilità … di precostituirsi un titolo di buona fede a discolpa dell’affidamento che abbia riposto nella qualità e nei poteri del rappresentante, stabilendo che egli ha diritto che il rappresentante giustifichi i suoi poteri (Cass. 1951/2868, cit. in CianTrabucchi, Commentario Breve al Codice Civile, ed. 1994, p. 1374) e, se la rappresentanza risulta da atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata. La dottrina citata ricorda, ancora, che la richiesta della giustificazione costituisce soltanto una facoltà e non un onere (Cass. 1987/1817) e che è normale astenersi dall’esercizio di tale facoltà quando dell’esistenza dei poteri non si abbia motivo di dubitare (Cass. 1982/3613); mentre – come fatto presente dalla Suprema Corte con la sentenza n. 115 del 29/1/1960, citata dalla compagnia – non è normale astenersi dall’esercizio di tale facoltà, e di conseguenza si verte in colpa, allorché il terzo (nella fattispecie il debitore) abbia trascurato di accertare l’effettiva esistenza dei poteri di persona da lui conosciuta come poco seria e corretta, o quando la particolare situazione gli imponesse l’impiego di una maggior prudenza o cautela. In materia di rilascio dell’attestato di rischio, poi, le precauzioni previste in via generale dalla legge sono facilitate essendo stata disposta direttamente dall’Istituto – con la circolare n. 111 – la necessità, ed allo stesso tempo la sufficienza, di una delega scritta non autenticata per il ritiro del documento de quo da parte di soggetto diverso dal contraente della polizza. Ulteriori precauzioni, atte ad escludere una colpa in capo a chi consegna l’attestato, potranno essere – nei casi di particolare e fondato dubbio sull’autenticità della firma e sulla volontà del soggetto delegante – quelle di una pronta richiesta di conferma al delegante stesso, nonché di una verifica, e conseguente annotazione, delle generalità del delegato (circostanze queste, tra l’altro, che unitamente all’acquisizione della copia della delega, dovrebbero scoraggiare l’apposizione di firme apocrife e la formazione di false deleghe). D’altra parte le immediate conseguenze cui andrebbe incontro la compagnia e/o l’agente nel consegnare l’attestato di rischio a soggetto in apparenza non autorizzato sono ben minori di quelle in cui incorrerebbe ove il soggetto al quale si è rifiutata la consegna fosse legittimamente delegato. Infatti, nel primo caso sussisterebbe l’obbligo di rilasciare un duplicato dell’attestato, mentre nel secondo sorgerebbe un obbligo al risarcimento del danno per aver ritardato o reso meno agevole la messa in copertura del rischio. E’ chiaro che quanto sopra rappresentato non esclude che in casi di palese inautenticità della firma apposta alla delega si possa legittimamente opporre rifiuto all’esecuzione della prestazione al falso delegato; ma – va aggiunto – i confini di tale circostanza, se si astrae dall’ipotesi scolastica del falso grossolano, sono difficilmente definibili ex ante, non essendo il dipendente della compagnia e/o l’agente un perito di grafia ed essendo riservato, da una parte, il disconoscimento della firma all’interessato e, dall’altro, l’accertamento della falsità all’autorità giudiziaria penale. 17. Documentazione necessaria per un mediatore di assicurazione e/o riassicurazione (persona fisica o società) residente in uno Stato membro dell’U.E. per esercitare in Italia l’attività in regime di libera prestazione di servizi Va premesso che, per quanto concerne il settore dell’intermediazione assicurativa nell’ambito dell’U.E., manca una normativa comune che sia suscettibile di garantire la prestazione transfrontaliera dei servizi assicurativi, nonché di salvaguardare esigenze di professionalità e di onorabilità a tutela degli interessi degli assicurati. Viceversa, le imprese di assicurazione comunitarie sono soggette sin dal luglio 1994 al sistema del controllo prudenziale unico dello Stato membro di origine (cd. home country control), nell’ambito del quale ogni impresa U.E. può esercitare attività assicurativa nell’intero territorio comunitario o in regime di libera prestazione di servizi o in regime di stabilimento, sotto la vigilanza ed il controllo della sola Autorità di vigilanza dello Stato membro di origine. L’effettiva realizzazione della libera prestazione di servizi, per quanto riguarda l’attività di mediazione assicurativa, trova un ostacolo nelle notevoli divergenze delle normative vigenti nei vari paesi U.E.: vi sono, infatti, legislazioni che prevedono requisiti stringenti per l’esercizio di tale attività, garantendo uno standard elevato di professionalità ed onorabilità, ed altre, invece, che, escludendo qualsiasi regolamentazione del settore, non prevedono alcuna condizione di accesso; e ciò a tacere di quelle legislazioni che prescindono da qualsiasi distinzione (e, dunque, regolamentazione) tra broker ed altri operatori assicurativi quali gli agenti, i sub-agenti ed i relativi collaboratori. La necessità di superare tali divergenze, determinanti una compartimentazione del mercato, è stata già avvertita a livello comunitario ed ha portato alla presentazione da parte della Commissione delle Comunità Europee di una proposta di direttiva sull’intermediazione assicurativa in regime di libera prestazione di servizi. I principi su cui si fonda la proposta de qua sono i seguenti: la registrazione presso un’autorità competente di qualsiasi intermediario assicurativo operante nella Comunità; la subordinazione della registrazione al possesso di cognizioni ed attitudini generali, commerciali e professionali, della copertura per la responsabilità professionale, della capacità finanziaria sufficiente per la gestione di fondi appartenenti ai clienti, dell’onorabilità e dell’inesistenza di dichiarazioni di fallimento; la piena realizzazione del principio dell’home country control nell’esercizio dell’attività di mediazione nel territorio comunitario; l’assolvimento degli obblighi informativi previsti dalla medesima direttiva. Allo stato attuale, in mancanza di una disciplina omogenea, si rende tuttavia opportuno conciliare le opposte esigenze entrambe meritevoli di accoglimento: garantire la possibilità per un cittadino comunitario di svolgere la sua attività di mediazione anche in altri Stati membri e, nel contempo, verificare la sussistenza dei requisiti imprescindibili per un corretto esercizio di tale attività. Per quanto concerne i requisiti richiesti alle persone fisiche per l’iscrizione alla I sezione dell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione e in via di formalizzazione in una emananda Circolare dell’Istituto, si è notato che il punto relativo all’assenza di condanne penali, ripropone il medesimo requisito previsto dall’ art. 1, comma 3, lettera a, punto 3, del provvedimento Isvap n. 1202/99, che disciplina l’iscrizione all’Albo da parte dei cittadini italiani. Al riguardo si è manifestata qualche perplessità sulla genericità del disposto, in quanto lo stesso non pare in armonia con l’art. 4, comma 1, lettera d, legge 792/84, che condiziona l’iscrizione all’Albo al fatto di non aver riportato condanne solo per talune tipologie di delitti, ovvero per altri delitti non colposi per i quali la legge commini la pena della reclusione nella misura minima ivi predeterminata. La autodichiarazione del cittadino straniero dovrebbe, pertanto, avere ad oggetto, piuttosto che l’assenza assoluta di pronunce di condanne penali a suo carico, la mancanza di condanne per i medesimi reati previsti dalla normativa italiana (ovvero ad essi equivalenti nella tipologia o nella pena). Tale dichiarazione potrebbe, peraltro, dar luogo a qualche problema in relazione ai poteri lasciati all’intermediario nell’individuazione dei reati rilevanti ai fini della normativa de qua, operazione che probabilmente non si presenta così agevole come nel diritto interno. Qualora si condividesse tale impostazione si potrebbe, tuttavia, far riferimento all’art. 10 della direttiva 77/92 C.E.E., regolante le modalità per l’attestazione dell’onorabilità degli intermediari assicurativi che intendano operare in altri paesi U.E., al fine di richiedere all’intermediario europeo, in alternativa all’autocertificazione, l’invio di un certificato del casellario giudiziario o, in mancanza di esso, un documento equivalente rilasciato dall’autorità giudiziaria o amministrativa competente dello Stato membro d’origine. Si è rappresentata, inoltre, l’opportunità che l’intermediario, sia persona fisica che giuridica, venga edotto della necessità, in base alla normativa italiana, di optare per l’esercizio in Italia di una sola attività di intermediazione (agente o broker), accanto all’ulteriore condizione, per la persona fisica che abbia optato per l’attività di mediazione assicurativa, di scegliere tra brokeraggio assicurativo e riassicurativo. Tale segnalazione si inserisce nel più generale dovere dell’Autorità di vigilanza di informare l’intermediario U.E., che intenda operare in Italia in libera prestazione di servizi o di stabilimento, della disciplina italiana vigente per l’esercizio dell’attività di intermediazione assicurativa, con particolare riguardo sia agli aspetti peculiari della nostra normativa (quali, ad esempio, la già citata incompatibilità tra le attività di agente e di mediatore assicurativo, a fronte di legislazioni di altri Stati che non prevedono alcuna distinzione tra le due figure professionali – vedi art. 3, direttiva 77/92 C.E.E.), sia ai principi fondamentali di natura comunitaria che regolano l’esercizio transfrontaliero dell’attività di intermediazione (nel caso di esercizio di attività in regime di libera prestazione, va ribadito il divieto di costituire nel territorio nazionale qualsiasi ufficio o struttura incaricata in permanenza dal o per conto del broker). Con riferimento alle condizioni previste per l’iscrizione nella II sezione dell’Albo dei mediatori da parte di una persona giuridica con sede legale in altro Stato membro dell’U.E., al fine di esercitare l’attività di mediazione nel territorio italiano in regime di libera prestazione di servizi, si è ritenuta opportuna la precisazione che anche il legale rappresentante della società deve essere iscritto all’Albo mediatori del paese di origine. Considerato, però, che non tutti i paesi dispongono di un sistema di registrazione di tale figura professionale, si può richiedere, in alternativa all’iscrizione nello Stato di origine, la presentazione di documenti che attestino il possesso dei requisiti necessari per l’iscrizione in Italia della persona fisica. La documentazione inviata consentirà, in ogni caso, soltanto l’iscrizione della società, senza che il legale rappresentante venga iscritto, quale persona fisica, nella I sezione dell’Albo. Si è rilevato, altresì, che tale sistema dovrebbe, per ragioni di omogeneità, essere adottato anche per le imprese che esercitino contemporaneamente la mediazione assicurativa e riassicurativa, con riguardo alle diverse persone fisiche preposte alle rispettive attività. Si è richiamata infine l’attenzione sulla necessità di prevedere – anche per le persone giuridiche – in sostituzione delle preclusioni imposte alle società italiane a garanzia della loro indipendenza, la condizione dettata dall’ordinamento comunitario quale standard minimo di indipendenza: la sottoscrizione cioè da parte del legale rappresentante di un impegno a comunicare i legami giuridici, economici e finanziari intercorrenti con imprese di assicurazione. 18. Natura di un contratto denominato “Polizza convenzione cauzioni” E’ stata approfondita la questione relativa alla natura di un contratto, intestato “polizza convenzione cauzioni”, concluso da una società estranea al settore assicurativo. La fattispecie si ricollega alla problematica dell’ammissibilità delle cc.dd. assicurazioni fideiussorie (o cauzionali) ad opera di soggetti non autorizzati all’esercizio dell’attività assicurativa. In proposito, l’orientamento inizialmente assunto, secondo il quale tali tipi di contratti erano espressione di attività assicurativa e potevano di conseguenza essere conclusi solo da imprese autorizzate all’esercizio dell’attività assicurativa-ramo credito, non ha trovato riscontro in due pareri emessi dall’Avvocatura Generale dello Stato, che nelle richiamate occasioni ha avuto modo di precisare quanto segue: • la c.d. assicurazione fideiussoria ha natura sostanziale di fideiussione – in quanto la sua funzione non è quella tipica dell’assicurazione, cioè il trasferimento di un rischio a carico dell’assicuratore, bensì quella di garanzia – e tale natura non risulta modificata dall’inserimento nella disciplina del negozio di clausole peculiari del contratto di assicurazione, comportando tale circostanza, al più, il carattere di fideiussione atipica (quale sottotipo della fideiussione); • data la natura sostanziale di fideiussione, negozi del tipo delle assicurazioni fideiussorie possono essere stipulati, alla pari di una fideiussione ordinaria, senza limiti soggettivi. Tanto da compagnie di assicurazioni, quanto da soggetti che non siano imprese assicurative. Anzi, le imprese di assicurazioni possono stipulare i contratti in esame, considerata la loro natura non strettamente assicurativa, soltanto in quanto l’attività relativa (quindi non singoli e limitati atti) rientra latu sensu – secondo ormai una consolidata interpretazione recepita anche in norme di legge complementare – nei rami credito e cauzioni; • il disposto dell’art. 1, L. 10 giugno 1982, n. 348 – nel circoscrivere le garanzie costituibili a favore di obbligazioni verso lo Stato ed altri enti pubblici, allorché prevede che tale garanzia possa essere prestata, fra le altre, con “polizza assicurativa, rilasciata da impresa di assicurazioni debitamente autorizzata all’esercizio del ramo cauzioni … che abbia effettivamente esercitato negli ultimi cinque anni il ramo cauzioni o il ramo credito e disponga … (dei margini di legge)” – non ha inciso sulla legittimazione al rilascio delle polizze fideiussorie, quanto piuttosto sull’accettabilità della garanzia da parte della Pubblica Amministrazione; • quale che sia il nomen iuris dato al contratto dalle parti, quale che sia il suo aspetto formale e persino quale che sia il richiamo a norme del contratto di assicurazione, l’assicurazione fideiussoria rimane un sottotipo innominato di fideiussione, fintantoché la causa resti la garanzia dell’adempimento del terzo. Se è vero che, per chiarezza nei confronti dei terzi, la forma della polizza fideiussoria dovrebbe essere usata allorché contraente sia un’impresa di assicurazioni, non per questo può dirsi che il rilascio di una “polizza fideiussoria” sia vietato ad un soggetto che non sia autorizzato a svolgere attività assicurativa; • non ha rilevanza, ai fini dell’inquadramento in un settore di attività, che la polizza assicurativa dia vita ad un rapporto trilaterale, posto che ciò non determina comunque la sua natura assicurativa, per la rilevanza, viceversa, della funzione tipica di garanzia della fideiussione; • non sembra il caso, tenuto conto delle considerazioni svolte, che possa applicarsi l’art. 75, L. 295/78 (all’attualità v. art. 77, D. Lgs. 175/95) nei confronti delle imprese non assicurative che rilascino, più o meno sistematicamente, polizze assicurative; • nei confronti delle imprese non assicurative che, nel concludere contratti del tipo delle polizze fideiussorie, ingenerano nei terzi il ragionevole convincimento di trattare invece con un’impresa assicurativa, potrà farsi ricorso, da una parte, ai poteri istituzionali dell’ISVAP, invitando l’impresa non assicurativa a far chiarezza ed a desistere da comportamenti anche soltanto ambigui, dall’altra, segnalando all’autorità garante della concorrenza e del mercato la violazione di norme sulla pubblicità ingannevole. Espressa qualche riserva sulla configurabilità in ogni caso di una pubblicità ingannevole, non sembra che, in mancanza di interventi legislativi, le superiori considerazioni rassegnate dall’Avvocatura – che trovano autorevole conferma in giurisprudenza ed in dottrina tanto antecedenti, quanto successive al parere – vadano disattese. Si è ritenuto, tuttavia, che in circostanze che presentino sostanziali elementi di ambiguità e siano tali da ingenerare confusione nei terzi, l’intervento dell’Istituto possa dispiegarsi nel modo più ampio, ricorrendo a tutti gli strumenti a disposizione al fine di eliminare le situazioni medesime, non ultimo – in caso di impresa che non si attenga ad una diffida e persista nell’affermarsi e nel tenere comportamenti tali da far ritenere l’intendimento di proporsi come compagnia di assicurazioni – quello della liquidazione coatta. 19. Trasferimento di portafoglio - art. 75, d.lgs. 175/95 Un ex agente, ritenendosi danneggiato da un trasferimento totale del portafoglio assicurativo da una società ad un’altra, ha chiesto la revoca dei provvedimenti con i quali l’ISVAP aveva approvato le condizioni e deliberazioni riguardanti il trasferimento medesimo. L’Istituto, per le considerazioni, rappresentate dal Servizio e che di seguito si riportano, ha ritenuto di non accogliere la richiesta. Ai sensi dell’art. 75, D. Lgs. 175/1995, l’approvazione da parte dell’Istituto dei trasferimenti di portafoglio fra le compagnie di assicurazioni è subordinata a specifiche verifiche (per esempio, che l’impresa cessionaria sia regolarmente autorizzata all’esercizio delle attività ad essa trasferite e che disponga del margine di solvibilità necessario, tenuto conto del trasferimento), tutte relative al rispetto della normativa in materia assicurativa ed atte a garantire la stabilità dell’impresa. Di conseguenza, i controlli hanno ad oggetto esclusivamente interessi di natura pubblica, senza che possano essere presi in considerazione interessi particolari, quali ad esempio quelli relativi ai rapporti fra compagnie ed agenti, i quali si collocano su un piano diverso rispetto a quello sottoposto alla vigilanza. Si osserva, d’altra parte, come il legislatore si sia occupato direttamente di disciplinare la sorte di specifici interessi incisi in occasione di trasferimento totale di portafoglio (confr., ad esempio, il comma 12 dello stesso art. 75, laddove è regolata la sorte dei rapporti di lavoro in capo alla compagnia cedente ed in corso alla data del decreto di approvazione). Altre eventuali lesioni di interessi soggettivi, causate dalle operazioni de qua, potranno, invece, essere fatte valere nei confronti delle società e, se è il caso, degli amministratori delle stesse dinanzi al giudice ordinario. Di conseguenza si è ritenuto che non sussistevano fondati motivi per procedere, come richiesto dall’istante, a revoche o modifiche dei provvedimenti di approvazione adottati a suo tempo dall’Istituto. 20. Condizioni generali di contratto del ramo tutela giudiziaria E’ sorta questione circa la compatibilità – relativamente alla polizza tutela giudiziaria di alcune compagnie – della clausola che limita l’esercizio della facoltà di scelta del legale ad una zona territorialmente circoscritta. In particolare, l’art. 47 del D.Lgs. n. 175/95 nel determinare le condizioni generali di contratto della polizza in esame, dispone che le medesime devono prevedere (v. comma 2) il diritto dell’assicurato nel caso che per la difesa, la rappresentanza e la tutela dei suoi interessi in un procedimento giudiziario o amministrativo occorra far ricorso ad un procuratore legale o ad un altro professionista abilitato a norma della vigente legislazione nazionale, di scegliere il professionista della cui opera avvalersi. L’obbligo disposto dal legislatore sembrerebbe tale da comportare il necessario inserimento testuale della clausola nelle condizioni generali di contratto, costituendone quasi una condizione imprescindibile. Conseguenza di tale interpretazione sarebbe l’assoluta libertà di scelta, senza limiti territoriali, del difensore da parte dell’assicurato (con possibilità tra l’altro, stante la normativa comunitaria sulla libera circolazione dei professionisti, di nominare anche difensori abilitati ed iscritti in altri paesi U.E.) e la illegittimità delle clausole che invece tendono a limitare territorialmente la scelta di cui trattasi. Ciò dicesi sebbene il riferimento alla figura del procuratore legale, professionista in passato vincolato ad un’operatività in un ambito territoriale specifico, possa anche giustificare una lettura più restrittiva della norma. E’ probabile, d’altra parte, che all’adeguamento delle condizioni corrisponda – per i maggiori costi di una copertura estesa alla nomina di un legale non domiciliatario ed alle conseguenti spese di trasferta ed affiancamento al medesimo di un procuratore con tale specifica funzione – un aumento del premio, tale da ridurre la varietà e molteplicità – proprio in ordine al premio – delle polizze attualmente proposte sul mercato. Verrebbero in tal modo danneggiati i contraenti che consapevolmente preferiscono accedere ad una copertura con un costo/premio più contenuto, ritenendo comunque soddisfacente – secondo anche una valutazione costi/benefici – effettuare l’eventuale scelta del difensore in un ambito più ristretto. I cennati rischi hanno rafforzato le ragioni di cautela nell’interpretazione del citato art. 47, D.Lgs. n. 175/95. A tal fine, utile elemento è rappresentato dal già ricordato riferimento testuale alla figura del procuratore legale. Infatti, il procuratore legale (il cui albo è stato però abolito con la legge 24 febbraio 1997, n. 27) può (rectius: poteva) svolgere la propria attività giudiziale esclusivamente nell’ambito del distretto di Corte d’Appello del Tribunale presso il quale Albo è (rectius: era) iscritto. Tale limitazione - che pur a seguito dell’abrogazione dell’Albo di categoria, può ritenersi ancora attuale relativamente al decreto legislativo di cui trattasi, avendo il legislatore del decreto in esame assunto il principio medesimo e non la stretta disciplina - porterebbe a circoscrivere l’ambito di scelta minimo a quello dei legali iscritti agli Albi dei Tribunali del distretto di Corte d’Appello ove è ubicato l’Ufficio Giudiziario competente a decidere della controversia. In armonia con tale interpretazione risulta, in linea di massima, la disciplina prevista dal modello di polizza predisposto dall’ANIA, al cui interno una clausola dispone che l’assicurato ha diritto di scegliere un legale di sua fiducia tra coloro che esercitano nel circondario del Tribunale ove l’Assicurato ha il proprio domicilio o hanno sede gli uffici giudiziari competenti: a fronte di un ambito più ristretto (distretto/circondario), fa riscontro la previsione di due diversi circondari (di residenza dell’assicurato o di sede degli uffici giudiziari competenti per la controversia). In ogni caso, pur in presenza di clausole in varia misura limitanti, è parso opportuno suggerire che: a) il contraente assicurato al momento della stipula della polizza in parola sia perfettamente consapevole di eventuali limiti territoriali nella scelta del difensore (utile elemento in tal senso potrebbe, per esempio, essere un’evidenza in grassetto della clausola in questione); b) sia offerta, comunque, la possibilità di estendere (tramite franchigia e/o aumento del premio e/o assunzione delle maggiori spese a carico dell’assicurato) la scelta in un ambito più ampio, possibilmente nazionale. 21. Forme integrative di assistenza sanitaria gestite da società di mutuo soccorso. Ruolo dell’ISVAP. Si è esaminata la legittimità della gestione di forme di assistenza integrativa da parte di società di mutuo soccorso. L’attuale quadro normativo è chiaro, tanto nel T.U. n. 449/59 (art. 2), quanto nel d.lgs. n. 174/95 (art. 5, comma 1), nell’escludere le società di mutuo soccorso dal novero dei soggetti abilitati allo svolgimento di attività assicurativa. Com’è noto, le società di mutuo soccorso, costituite ai sensi della legge n. 3818/1886, possono assicurare ai soci un sussidio in caso di malattia, incapacità al lavoro o vecchiaia, svolgendo tale attività, in quanto enti mutualistici, senza scopo di lucro e per un fine di reciproco ausilio a fronte delle esigenze individuate nello statuto. Il contesto generale di riferimento è poi ampliato dall’art. 46 legge n. 883/78, ove si prevede che “ la mutualità volontaria è libera”, e dall’art. 9 d.lgs. n. 502/92, così come novellato dall’art. 10 del d.lgs. 517/93 e successivamente sostituito dall’art. 9 d.lgs. 19 giugno 1999 n. 229, che riconosce il ruolo delle società di mutuo soccorso anche nell’erogazione di prestazioni integrative del Servizio sanitario nazionale, prevedendo tra le fonti istitutive “le deliberazioni assunte, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, da società di mutuo soccorso riconosciute”. Sorge, dunque, la necessità di coordinare il divieto opposto alle società in oggetto ad esercitare attività assicurativa, con il libero esercizio della mutualità volontaria. A tale proposito, la giurisprudenza ha individuato i caratteri distintivi della mutualità, rispetto all’assicurazione, nell’assenza dello scopo di lucro e nella mancanza di una stretta connessione tra contributo versato dal socio e somma da erogarsi da parte della società, che non è predeterminata, ma varia in relazione alle disponibilità di bilancio della società stessa. Tutto ciò premesso, occorre valutare in concreto, attraverso l’analisi degli statuti e la vigilanza sull’attività, che le società di mutuo soccorso non esercitino l’assicurazione, divenendo altrimenti assoggettabili ai poteri di controllo esercitati dall’ISVAP contro l’abusivismo. A tale proposito è necessario precisare che la vigilanza sulle società di mutuo soccorso è di competenza del Ministero del Lavoro e, in particolare, degli Uffici provinciali del lavoro, che la esercitano attraverso l’esame degli statuti, dell’atto costitutivo e dei bilanci annuali, come previsto dall’art. 15, comma 7, legge 59/’92 e chiarito dalla circolare n. 117/’92 dello stesso Ministero. Gli Uffici provinciali del lavoro, a loro volta, tenuto conto dell’attività che le società di mutuo soccorso intendono svolgere, valuteranno l’opportunità di trasmettere gli atti alle Istituzioni preposte alla vigilanza sulla materia specifica, in tal modo realizzandosi un coordinamento con le Istituzioni medesime. Relativamente ai Fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale, in particolare, va tenuto presente che l’attività di vigilanza è, in generale, attribuita allo Stato dall’art. 122 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112; in particolare, per le vie brevi, sono state acquisite informazioni presso il Ministero della Sanità, in base alle quali spetterebbe proprio al Ministero della Sanità, pur con modalità ancora da definirsi, verificare la gestione dei Fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale. Più specificamente, è stato chiarito che, pur essendo la competenza definita negli esposti termini, all’attualità la vigilanza non è effettivamente svolta in quanto dev’essere disciplinata, unitamente ad altri aspetti della materia, da un emanando regolamento; in ogni caso, è stato precisato che l’ufficio competente sarà istituito presso il Servizio Vigilanza Enti del Ministero. Per quanto riguarda l’attività di vigilanza istituzionalmente demandata all’ISVAP, è evidente, che al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di un’eventuale attività assicurativa non autorizzata, con conseguenziale adozione dei provvedimenti del caso, occorre che siano acquisiti gli elementi indispensabili a tale valutazione. E tuttavia, un controllo diretto tout-court, -in assenza di elementi indicativi di un possibile esercizio dell’attività in forma assicurativa- sembrerebbe sconfinare dai limiti della competenza dell’Istituto. Pertanto, si è ritenuto che, solo nel caso in cui l’ISVAP, pur senza aver proceduto a controlli, sia venuto comunque a conoscenza di fatti idonei ad integrare la violazione della normativa assicurativa (per esempio a seguito di dettagliato e documentato esposto o di segnalazione dei medesimi Uffici provinciali del lavoro, in virtù di quanto fatto presente con la citata circolare 117/’92), potesse intervenire direttamente espletando indagini ispettive ed emanando gli eventuali provvedimenti del caso. Ove, invece, gli elementi in possesso dell’Istituto non fossero tali da integrare con sicurezza una simile violazione, ma siano sufficienti solo a fondare un “ragionevole dubbio”, si è proposto di valutare positivamente uno scambio di notizie con gli Uffici provinciali del lavoro nonché, trattandosi di Fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale, con il “Servizio vigilanza enti” del Ministero della Sanità, così da instaurare un coordinamento nell’ambito delle rispettive sfere di competenza che consentano, in ultima analisi, l’attivazione legittima dei poteri dell’ISVAP, tanto in sede d’indagini ispettive, quanto in sede di adozione dei provvedimenti resi necessari a seguito dell’eventuale accertamento di attività assicurativa non autorizzata. 22. Ordine cronologico nei registri dei contratti stipulati – art. 49, comma 1, R.D. 4 gennaio 1925, n. 63 L’art. 49, comma 1, del R.D. 4 gennaio 1925 n. 63, regolante la tenuta del registro dei contratti stipulati reca un riferimento generico all’iscrizione “in ordine cronologico” dei contratti stipulati, senza specificare quale elemento dell’iter contrattuale debba essere utilizzato ai fini di soddisfare tale cronologicità. Ciò premesso, nella compilazione dei registri dei contratti stipulati si potrebbero in linea di principio seguire due criteri: l’uno fondato sul momento della sottoscrizione del contratto, l’altro dell’efficacia della copertura. Al riguardo, al fine di valutare quale assumere tra le due alternative possibili, occorre considerare che: • la circolare Isvap n. 99 del 1988, nel prendere atto della difficoltà di individuare in concreto il momento di conclusione del contratto assicurativo, suggerisce di assumere quale criterio di riferimento quello della regolare emissione dei contratti (“contratti regolarmente emessi”); • nella prassi le compagnie assicurative non adottano un comportamento uniforme nella tenuta dei registri dei contratti stipulati. Ai fini della risoluzione della questione in oggetto, si ritiene che l’individuazione del parametro più idoneo per la redazione in ordine cronologico dei registri dei contratti stipulati non possa prescindere dalla valutazione della ratio sottesa al cennato obbligo di registrazione: il legislatore sembra, infatti, aver previsto tale adempimento al fine di agevolare l’attività di vigilanza, attraverso l’accertamento della consistenza del portafoglio ed in particolare dell’entità degli impegni effettivamente assunti. Alla luce di tale considerazione, appare preferibile fare riferimento alla data di emissione (e quindi al numero progressivo) della polizza di assicurazione. Si tratta, infatti, dell’unico criterio che garantisce il carattere della certezza sotto il profilo della cronologicità e, nel contempo, consente di attenersi, nella lettera e nello spirito, al tenore della legge e della circolare citate. E’ vero, peraltro, che nella prassi si riscontra frequentemente l’utilizzazione del diverso criterio della decorrenza degli effetti del contratto. Al riguardo, pur non potendosi escludere l’utilità pratica di tale ultimo parametro, soprattutto ai fini della tutela degli assicurati nei termini sopra evidenziati, si ritiene che esso non possa essere utilizzato quale esclusivo criterio per la compilazione dei registri dei contratti stipulati. Infatti, come è noto, l’efficacia del contratto assicurativo può anche essere differita, per volontà delle parti, ad un momento successivo rispetto a quello di emissione della polizza: se in tali casi si utilizzasse a titolo esclusivo il criterio dell’efficacia della copertura, gli organi di vigilanza non avrebbero cognizione immediata degli impegni contrattuali assunti e già vincolanti – per l’impresa e per gli assicurati – i quali come tali concorrono a costituire l’entità complessiva del portafoglio. Tra l’altro, per tener conto dell’entità degli impegni assunti, la circolare citata (punto 4.1.3) prevede espressamente la registrazione, secondo le medesime modalità, dei dati e degli estremi relativi alle c.d. “coperture provvisorie”. Si tratta, infatti, di veri e propri contratti, produttivi di immediati effetti sostanziali, in quanto volti a regolare, seppur temporaneamente, il rapporto assicurativo in vista della stipula del contratto definitivo. Al più, ed auspicabilmente, il periodo di efficacia potrebbe essere riportato in aggiunta – come sovente già effettuato da alcune imprese - alla data di emissione della polizza; in tal modo l’annotazione assolverebbe ad una significativa funzione conoscitiva, senza peraltro derogare alle esigenze di cronologicità, cioè di sequenzialità storica, già soddisfatte dal criterio dell’emissione. 23. Responsabilità dell’impresa di assicurazione per i fatti posti in essere da soggetti che operano nel campo dell’intermediazione assicurativa con incarichi non ricevuti direttamente Non v’è dubbio che l’agente, salvo eventuali divieti contenuti nel mandato agenziale, possa avvalersi, per l’espletamento del proprio incarico, di collaboratori. In particolare, egli potrà avvalersi della collaborazione di subagenti, ai quali, salvo eventuali divieti contenuti nel mandato agenziale, delegherà in tutto o in parte i poteri e le funzioni conferitegli dall’impresa di assicurazioni, con l’intesa di rispondere del loro operato nei confronti della Compagnia preponente. Infatti, il rapporto contrattuale fra l’agente, imprenditore autonomo che opera a proprio rischio e spese, ed il subagente è del tutto indipendente rispetto a quello intercorrente tra la Compagnia e l’agente stesso. Ne deriva, dal punto di vista strettamente giuridico, l’impossibilità di qualificare il subagente quale incaricato della Compagnia e di attribuire al medesimo poteri di rappresentanza di cui agli artt. 1745 e 1903 c.c.. L’assenza di poteri rappresentativi impedisce l’immediata riferibilità dell’attività subagenziale alla Compagnia, e, di conseguenza, esclude che quest’ultima possa essere chiamata a rispondere dei danni derivanti da eventuali comportamenti illeciti dello stesso subagente, dei quali risponderà – salvo rivalsa – l’agente preponente. Non sembra, in particolare, possibile configurare in capo all’impresa una responsabilità ex art. 2049 c.c., in quanto la giurisprudenza prevalente applica la disposizione in esame soltanto alle ipotesi in cui vi sia stato, comunque, il conferimento di specifico incarico al collaboratore (cd. culpa in eligendo). Nel caso del subagente, invece, l’incarico viene conferito esclusivamente dall’agente e comunicato, a titolo puramente informativo, alla Compagnia la quale, salvo i casi assai rari di esplicita preclusione, si limita a prenderne atto. Alla medesima conclusione si giunge anche nell’ipotesi in cui si ricostruisca la portata dell’art. 2049 in termini di responsabilità indiretta per culpa in vigilando. Il subagente, infatti, è inserito nell’organizzazione dell’agenzia e svolge la sua attività esclusivamente sotto le direttive ed il controllo dell’agente delegante, senza che la Compagnia eserciti alcuna forma di vigilanza sulle modalità di espletamento dell’incarico, intendendosi che eventuali rilievi sull’operato del subagente saranno formulati nei confronti dell’agente nell’ambito di un corretto esercizio del mandato. L’indipendenza del rapporto subagente-agente rispetto alla Compagnia preponente trova, del resto, conferma nel contenuto del facsimile della lettera di nomina a subagente professionista predisposto dal Sindacato Nazionale Agenti in cui si prevede espressamente che: “Ogni rapporto relativo al presente incarico si svolgerà unicamente tra Lei e questa agenzia, in quanto le Imprese preponenti rimangono del tutto estranee e non contraggono con lei alcun rapporto, né diretto né indiretto”. Tenuto conto di quanto premesso, sembra potersi ribadire l’esclusione della configurabilità in capo all’impresa di assicurazioni di una responsabilità per i fatti posti in essere dal subagente nell’esercizio della sua attività. Infatti, pur essendo evidente che il subagente agisce sostanzialmente nell’interesse della Compagnia di assicurazione e che essa trae un innegabile vantaggio dalla collocazione dei prodotti assicurativi attraverso la rete subagenziale, tale elemento non risulta sufficiente ai fini della configurazione di una responsabilità per fatto altrui. La correttezza dell’impostazione seguita si evince, altresì, dall’affermazione dell’indipendenza del rapporto subagente-agente sancita nella Circolare n. 369 D. del 12 marzo 1999, relativa alle “Condizioni per lo svolgimento dell’attività di raccolta delle adesioni ai fondi pensione aperti a contribuzione definita da parte di subagenti e produttori”. La Circolare prevede, infatti, che il rapporto di collaborazione dovrà risultare da apposita lettera di incarico che consenta di attribuire al preposto all’agenzia ogni responsabilità patrimoniale per i danni derivanti da atti commessi dal collaboratore nello svolgimento dell’attività conseguente alla raccolta delle adesioni. A tal fine, si prevede anche l’obbligo per l’agente di stipulare apposita assicurazione sulla responsabilità civile inerente all’attività dei propri collaboratori. 24. Società di mutua assicurazione di cui all’art. 4, comma 2, lettere c) e/o d) del d.lgs. n. 175/1995 Si è affrontata la questione relativa all’attualità delle società di mutua assicurazione nel contesto operativo odierno. Si è poi verificato, al fine di rendere più pregnante la vigilanza dell’Istituto, se esista la possibilità di estendere a tali enti alcune disposizioni del Capo II, Titolo II del d.lgs. 175/1995, analogamente a quanto avvenuto per le imprese di riassicurazione. Inoltre, nel caso in cui tale estensione sia possibile, è parso utile precisare se ed entro quali limiti l’Istituto possa sindacare le disposizioni dello Statuto di tali enti, ed in particolare se le limitazioni all’oggetto sociale di cui all’art. 4, comma 2, lettera c) del d.lgs. 175/1995 siano estensibili anche alle imprese di cui alla lettera d). Infine, si è ritenuto di specificare se tali imprese siano soggette nei confronti dell’Istituto ad altri obblighi oltre a quelli in materia di bilanci e di informativa previsti dal d.lgs. 173/1997. I) In merito alla prima questione, è opportuno precisare che la scarsa, ovvero nulla, diffusione di tali società sul mercato italiano non è condizione sufficiente per poterne escludere né la legittimità né l’utilità. Dal punto di vista generale, infatti, non si può ignorare il ruolo che le mutue assicuratrici hanno svolto e continuano a svolgere nei confronti dei consumatori, fornendo ad essi prestazioni assicurative economicamente più vantaggiose grazie all’abbattimento dei costi di gestione delle polizze e di intermediazione. In secondo luogo, la mutua assicuratrice realizza in modo diretto ed immediato il sistema di comunione e di compensazione dei rischi su cui si fonda l’idea originaria di assicurazione. L’adesione alle mutue assicuratrici, infatti, instaurando contestualmente un rapporto assicurativo ed associativo con la società, attua una forma pura di solidarietà fra gli associati che permette la trasformazione del rischio individuale in rischio collettivo. Per quanto concerne, poi, le mutue assicuratrici ex art. 4, comma 2, lettera c), d.lgs. 175/1995 (le cd. “piccole mutue”), si può sostenere – nonostante l’attuale mancanza sul mercato di società di questo tipo – la conservazione di un ruolo, seppur marginale, nel settore delle assicurazioni. In effetti tali società trovano una collocazione ideale per la copertura di quei rischi che normalmente non sono assicurati dalle altre imprese di assicurazione. Le piccole mutue, dunque, fornirebbero al consumatore un servizio che, allo stato attuale, non soltanto appare utile, ma addirittura indispensabile per la copertura di rischi del tutto peculiari. II) In relazione al secondo quesito, concernente l’estensione alle mutue assicuratrici in oggetto di alcune disposizioni contenute nel Capo II, Titolo II, d.lgs. 175/1995, la risposta sembra avere contenuto positivo. La circostanza, infatti, che le società di mutua assicurazione siano sottratte ex art. 4, comma 2, lettere c) e d) del d.lgs. 175/1995 alla disciplina del Capo II, Titolo II del medesimo decreto per essere assoggettate alla normativa del T.U. 1959 non esclude la possibilità dell’esercizio di funzioni ulteriori di vigilanza da parte dell’Isvap. L’art. 4, della legge 1982 n. 576, afferma in via generale che l’Istituto esercita “…funzioni di vigilanza …nei confronti… delle imprese nazionali ed estere, comunque denominate e costituite, che esercitano nel territorio della Repubblica attività di assicurazione e riassicurazione in qualsiasi ramo e qualsiasi forma…”. Ed ancora, si consideri che anche le mutue in esame sono soggette – ex art. 67 del T.U. – al pagamento del contributo di vigilanza, nonché alle disposizioni del d.lgs. 173/1997, circostanze queste che confermano la sussistenza di un più ampio potere di controllo da parte dell’Istituto. Affermata in via di principio la subordinazione alla vigilanza dell’Isvap delle società di cui trattasi, si pone il problema di definire più esattamente in quali termini la medesima si possa svolgere anche relativamente alle condizioni di accesso. Innanzitutto, è da ritenere che l’Istituto possa verificare l’esistenza dei presupposti previsti dalla legge per autorizzare l’operatività delle mutue de quibus. A tal fine, considerato il combinato disposto degli artt. 48 e 18 del R.D. 1925 n. 63 – che permette l’acquisizione di “…ogni altro documento o notizia che … (al tempo il Ministero dell’Industria, oggi l’Isvap) ritenesse di dover richiedere agli effetti dell’autorizzazione” – potrà utilmente, così come prospettato da codesto servizio, valutarsi l’estensione alla fattispecie di alcune disposizioni del Capo II, Titolo II, d. lgs. n. 175/1995. Di conseguenza, il provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività di assicurazione potrà essere rilasciato dall’Isvap previo esame della documentazione trasmessa dalla società interessata. La documentazione deve comprovare la sussistenza delle condizioni di accesso previste dal medesimo T.U. del 1959 all’art. 38; e cioè la prova di essere legalmente costituite, quella del possesso di un fondo di garanzia minimo prescritto dalla legge nonché delle condizioni previste dall’art. 4, d.lgs. 175/1995 citato. Pertanto, esse dovranno far pervenire all’Istituto copia autentica dell’atto costitutivo e dello Statuto, nonché ogni altro documento utile per una valutazione sulla sussistenza di una struttura organizzativa minima e, tuttavia, idonea allo svolgimento dell’attività di assicurazione. In ogni caso l’attività dell’Istituto, essendo preordinata esclusivamente alla tutela degli assicurati, si sostanzierà in una vigilanza di tipo strutturale, senza spingersi, ad avviso dello scrivente Servizio, fino al punto di interferire sull’attività dell’impresa; e ciò al di là del fatto che un’eventuale estensione globale della disciplina pubblicistica concernente le imprese di assicurazione rischierebbe di snaturare la causa mutualistica preponderante nella mutua assicuratrice in oggetto. Occorre infine precisare che, escludendo l’art. 4, comma 2, d.lgs. 175/1995, l’operatività del solo titolo II del decreto medesimo, non vi sono dubbi circa la piena applicabilità delle disposizioni relative al contratto, previste dal titolo V, e delle disposizioni transitorie del titolo VII, in quanto compatibili. III) Per quanto riguarda l’ambito dei controlli sullo Statuto di una costituenda mutua assicuratrice, in via generale, sembra opportuno che nell’esame di tale documento sia prestata una particolare attenzione alla chiarezza e completezza delle norme relative allo svolgimento del rapporto assicurativo. Come è noto, infatti, al momento dell’adesione alla mutua assicuratrice le condizioni relative allo svolgimento di tale rapporto sono desumibili primariamente dalle disposizioni dello Statuto medesimo dal quale, pertanto, l’assicurato deve poter acquisire informazioni relative non solo all’ammontare dei contributi dovuti, ma anche ai casi ed alle modalità con le quali opererà la copertura assicurativa. In particolare lo Statuto dovrà uniformarsi integralmente al dettato dell’art. 4, comma 2, lettera c), punto 2), escludendo dall’oggetto sociale non solo l’esercizio dell’assicurazione di responsabilità civile, ma anche l’assicurazione del credito e delle cauzioni. In secondo luogo, considerato che nelle mutue assicuratrici la qualità di socio si acquista normalmente mediante la stipula con la società di un contratto di assicurazione, sarà opportuno procedere all’acquisizione anche del contratto-tipo da sottoscrivere al fine di valutare la completezza e conformità a legge delle disposizioni che regolano lo svolgimento del rapporto assicurativo. Si fa comunque presente che lo Statuto può ben essere oggetto di approvazione nell’ambito della più ampia fase di autorizzazione all’esercizio dell’attività di assicurazione, così come avviene nei fatti quanto all’esercizio dei poteri di cui all’art. 11, u. c.. Più complessa è invece la questione dell’estensione dei requisiti previsti dalla lettera c) dell’art. 4, comma 2, d.lgs. 175/1995, ed in particolare delle limitazioni inerenti all’oggetto sociale, alle mutue assicuratrici contemplate alla lettera d). L’art. 4 d.lgs. 175/1995 dispone, infatti, – con una formulazione alquanto incerta – che: “Non sono soggette alle disposizioni del presente titolo: … c) le società di mutua assicurazione quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: ...; d) le stesse società di mutua assicurazione che abbiano stipulato con un’impresa della stessa natura … una convenzione che preveda la riassicurazione integrale dei contratti da essa sottoscritti o la sostituzione dell’impresa cessionaria all’impresa cedente per l’esecuzione degli impegni risultanti dai suddetti contratti …”. Dubbi interpretativi sorgono sull’uso sia del termine “stesse”, sia della locuzione “impresa della stessa natura”. In particolare, il legislatore italiano in sede di attuazione della direttiva comunitaria n. 73/239/CEE (richiamata dalla direttiva n. 92/49/CEE), recepisce pedissequamente l’espressione “impresa della stessa natura”, senza peraltro che sia possibile evincere dalle norme comunitarie o dal decreto di recepimento il significato che a tale espressione debba attribuirsi. Essa potrebbe, infatti, riferirsi o alla struttura dell’impresa di riassicurazione – che dovrebbe essere anch’essa una mutua assicuratrice – ovvero, più genericamente, alla natura assicurativa dell’attività svolta dall’impresa riassicuratrice. Analoghi problemi sono riscontrabili nell’accertamento delle finalità che il legislatore italiano ha inteso perseguire con l’introduzione nella disposizione (diversamente dalla dizione della direttiva) del termine “stesse”. Anche in tal caso le soluzioni interpretative possono essere sostanzialmente due. Secondo una prima interpretazione l’uso del termine sarebbe intenzionale e manifesterebbe la volontà di creare una stretta connessione fra le lettere c) e d) dell’art. 4 , comma 2, d. lgs. 175/1995. In tal modo si escluderebbero dalla portata del decreto anche quelle mutue assicuratrici che, rivestendo comunque i requisiti della lettera c), provvedano a riassicurare o a cedere integralmente i contratti da esse stipulati. Una seconda interpretazione, invece, configurerebbe le ipotesi di cui alle lettere c) e d) dell’art. 4 quali fattispecie del tutto autonome. Da ciò consegue che i requisiti previsti dalla lettera c) non sarebbero estensibili alla lettera d). Secondo questa interpretazione, quindi, tutte le mutue assicuratrici, anche non classificabili come “piccole mutue” per difetto dei requisiti della lettera c), che provvedono alla stipula di una convenzione di riassicurazione nei termini di cui alla lettera d) sarebbero estranee all’applicazione del Capo II, Titolo II del d.lgs. 175/1995. Analizzando il solo dato testuale, l’interpretazione preferibile sembra essere quella che pone in termini di totale autonomia le lettere c) e d) dell’art. 4 del d.lgs. 175/1995. Nell’articolo in esame, infatti, il legislatore propone un elenco di imprese di assicurazione escluse dalla portata del decreto; ciò induce a ritenere che, dal punto di vista sistematico, le singole ipotesi sono in rapporto di alternatività. Inoltre, è opportuno evidenziare che se la mutua rivestisse i requisiti di cui alla lettera c) essa sarebbe già esclusa dalla portata dal decreto e l’ipotesi di cui alla lettera d) sarebbe, quindi, sostanzialmente inutile. La configurazione in termini di autonomia sembra ulteriormente da preferire in quanto conserva una maggiore omogeneità di ratio nel giustificare l’esclusione dalla portata del decreto. Infatti, a prescindere dall’ovvia esclusione di cui alla lettera a) relativa ad enti di natura pubblica, tutte le successive lettere del comma 2 dell’articolo in esame fanno riferimento ad imprese caratterizzate da una struttura organizzativa minima e svolgenti attività di assicurazione limitata a settori specifici e ben determinati. Basti pensare alle associazioni agrarie di mutua assicurazione ed alle imprese che esercitano attività di assistenza consistenti esclusivamente in prestazioni in natura, rispettivamente citate alle lettere b) e f) dell’art. 4, comma 2. Nell’ipotesi di cui alla lettera d) la mutua assicuratrice che riassicura integralmente, o si fa sostituire dall’impresa cessionaria per l’esecuzione degli impegni assunti contrattualmente, addirittura non viene neanche ad operare direttamente nel mercato assicurativo. Essa rimane, dunque, una mera struttura formale per la quale si attenuerebbero i profili di interesse pubblico che comportano una pregnante attività di controllo. Tale esclusione sembrerebbe, comunque, trovare un adeguato contrappeso nell’assoggettamento dell’impresa riassicuratrice al decreto in parola, sia che si tratti di un’impresa a struttura ordinaria (nel qual caso si realizzerebbe una specifica ipotesi di estensione alla riassicurazione dei controlli previsti a carico delle compagnie esercenti attività assicurativa diretta), sia che si tratti di una mutua di riassicurazione, per la rilevanza dispiegata da tale particolare attività, come esorbitante per definizione dagli ambiti di esclusione di cui all’art. 4. L’Istituto potrà in tal modo valutare l’idoneità dell’organizzazione dell’impresa cessionaria alla gestione dei contratti ceduti e la sussistenza di adeguati fondi per il pagamento dell’indennità nel caso in cui si verifichino i rischi assicurati. L’Istituto dovrà, in altri termini, garantire agli assicurati che la stipula della convenzione di riassicurazione e, comunque, la cessione dei contratti non comporterà alcuna lesione degli interessi di cui sono portatori. Tenuto conto di quanto esposto, se si intende costituire una mutua assicuratrice di cui all’art. 4, comma 2, lettera c) essa dovrà necessariamente soddisfare tutti i requisiti previsti, incluse le limitazioni dell’oggetto sociale di cui al punto 3), ovvero integrare le prescrizioni di cui alla successiva lettera d). IV) Rispetto all’ultimo quesito formulato, si ritiene che – oltre agli obblighi di trasmissione previsti espressamente per tutte le mutue assicuratrici dal d.lgs. 173/1997 – le mutue in questione non siano in via generale tenute ad ulteriori adempimenti, salvo che si verifichino fatti o circostanze che modifichino i presupposti richiesti dalla legge per la loro legittimità ad operare. 25. Questioni afferenti alla tenuta degli albi degli agenti e dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, nonché del ruolo nazionale dei periti Il D.Lgs. 373/98 ha trasferito all’ISVAP le funzioni relative alla tenuta degli albi degli agenti e dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, nonché del ruolo nazionale dei periti. In seguito all’attribuzione di tali competenze, l’Istituto si è dovuto confrontare con nuove problematiche che, per i profili giuridici di volta in volta presentati, hanno interessato anche il Servizio Legale. 25.1. Ruolo Nazionale dei periti assicurativi. Art. 5, comma 2, della legge n. 166/92 La norma in oggetto emarginata, dispone che “non possono esercitare l’attività di perito assicurativo gli enti pubblici, le imprese o gli enti assicurativi. Non possono esercitare l’attività di perito assicurativo né essere iscritti nel ruolo gli agenti e i mediatori di assicurazione, i riparatori di veicoli e di natanti e tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro dipendente, salvo le deroghe già concesse allo scopo di aggiornare la qualità professionale”. La legge citata esclude che l’attività di perito assicurativo possa essere esercitata dagli agenti e mediatori di assicurazione, nonchè dagli enti pubblici, dalle imprese e gli enti assicurativi, dai riparatori di veicoli e natanti, tutti soggetti la cui autonomia di giudizio potrebbe essere compromessa per ragioni specifiche di status lavorativo o professionale. Nella linea di un rigoroso rispetto della professione peritale, è da condividere l’interpretazione che limita la possibilità di deroga a coloro “che hanno un rapporto di lavoro dipendente”, escludendo che, sia pure per esigenze di aggiornamento professionale, possano beneficiare della deroga anche agenti, brokers e riparatori di veicoli o natanti; ciò dicesi al di là del dato letterale, che non appare di per sé chiarissimo nel senso dell’esclusione. Qualche dubbio sussiste -lo si accenna soltanto per compiutezza di disamina- in ordine alla congruità della disposizione che considera la concessione della deroga come facoltà rimessa a tutti gli enti di appartenenza del beneficiario, e non invece quale possibilità riconosciuta in via transitoria per le deroghe concesse ed operanti nel momento dell’entrata in vigore della legge n. 166; il dettato normativo non consente, tuttavia, limitazioni sul piano temporale. Ciò premesso, resta da stabilire se, fra le imprese che hanno titoli per concedere la deroga, possano annoverarsi anche le Compagnie di assicurazione. L’interrogativo si pone poichè la norma non esclude dal suo ambito di applicazione i dipendenti d’imprese di assicurazione, per cui si potrebbe ritenere che anch’essi possano usufruire delle deroghe concesse per aggiornare la qualità professionale, evitando in tal modo interpretazioni che potrebbero apparire discriminatorie rispetto ai dipendenti di altre imprese. D’altro canto nell’interpretare una legge non si può prescindere dalla ratio che l’ha ispirata e che, nel caso di specie, è senz’altro da rinvenirsi nell’esigenza di garantire la formazione di una categoria di periti assicurativi dotati di quella libertà di giudizio e d’azione che soltanto l’assenza di vincoli di subordinazione con imprese assicuratrici può garantire. Tutto ciò, naturalmente, per un’esigenza di trasparenza e di correttezza a tutela degli assicurati che, in quanto contraenti “deboli”, hanno necessità di essere tutelati da periti realmente indipendenti ai quali si possa affidare la valutazione del danno. A sostegno di ciò, si richiamano i lavori parlamentari che hanno preceduto l’approvazione della l. 166/92, dai quali si evince l’intento del legislatore di svincolare i periti assicurativi dalle imprese di assicurazione. In particolare, nel resoconto sommario dell’esame della Commissione VI della Camera, seduta del 7 febbraio 1990, si sostiene testualmente che “l’intento legislativo che presiede ai progetti in discussione è infatti proprio quello di svincolare i periti assicurativi dalle compagnie” e che “lo svolgimento di tale mandato contrasta con il rapporto di lavoro dipendente a causa della mancanza di libertà d’azione dovuta alla subordinazione”. Ancora, nel resoconto sommario dell’esame della Commissione VI della Camera, seduta del 16 luglio 1991, si legge: “si afferma inoltre il principio essenziale di rendere indipendenti anche sul piano psicologico i periti dalle compagnie”. Anche in giurisprudenza si avalla indirettamente tale interpretazione, laddove il Tribunale di Napoli (Prima Sez. Civile, sentenza 3476/98), per altri versi postulando un’interpretazione eccessivamente restrittiva della disposizione, ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento di radiazione di un perito assicurativo dipendente dell’ENEL, sul presupposto che lo spirito della legge sarebbe violato nel caso di rapporti di lavoro alle dipendenze di enti ed imprese assicurative, perchè solo “i soggetti direttamente o indirettamente legati alle assicurazioni non darebbero garanzie d’imparzialità nell’esecuzione delle perizie”. In via d’interpretazione sistematica, inoltre, l’art. 3 l. 166/’92 considera espressamente l’eventualità che le imprese di assicurazione eseguano direttamente l’accertamento e la stima dei danni alle cose, proponendo la liquidazione all’assicurato, il quale ha la facoltà di accettarla oppure di ricorrere all’accertamento ed alla stima tramite un perito iscritto al Ruolo. Sembrerebbe contrastare anche con tale articolo, dunque, l’eventualità di un dipendente di un’impresa assicurativa contemporaneamente iscritto nel suddetto Ruolo, potendo ciò dar luogo a fattispecie di conflitto d’interesse, potenzialmente lesive delle situazioni giuridiche di cui gli assicurati sono titolari; né è senza rilievo che in sede di discussione parlamentare sia venuta meno la proposta d’istituire, all’interno del Ruolo, una sezione in cui potessero iscriversi i periti dipendenti dalle imprese di assicurazione, con la conseguenza dell’inammissibilità di una tale iscrizione anche per i dipendenti delle imprese che svolgono di fatto attività peritale nell’ambito dell’art. 3. Per tutte le suesposte considerazioni, si ritiene che l’art. 5, comma 2, della l. n. 166/92 non trovi applicazione nei confronti dei dipendenti d’imprese d’assicurazione, con la conseguenza di costituire motivo ostativo all’iscrizione dei medesimi nel Ruolo Nazionale dei periti assicurativi. 25.2. Trasferimento all’ISVAP delle funzioni di cui alla legge 17 febbraio 1992, n. 166, concernente il ruolo dei periti assicurativi In merito alle ricordate modalità del trasferimento in materia di tenuta di Albi e Ruolo professionale, va rilevato che con il d.lgs. n. 373/1998 – art. 1, comma 2 – sono state soppresse le Commissioni previste dagli artt. 7 e 8 della suindicata legge 1992 n. 166, e le relative funzioni sono state attribuite all’ISVAP. Si deve peraltro ricordare che le modifiche di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1 del citato d.lgs. investono solo parzialmente il corpus normativo di cui alla legge n. 166 del 1992 (e del relativo regolamento ministeriale 9 settembre 1992, n. 562). Di conseguenza, tutte le altre norme restano in vigore sicchè, per effetto del trasferimento totale di competenze operato dal citato comma 1 del d.lgs. 373/1998, a far data dal 10 maggio 1999, è l’Isvap – in luogo del Ministero – a dover provvedere all’espletamento delle altre incombenze previste da dette disposizioni come l’iscrizione nel ruolo nazionale dei periti assicurativi, la gestione del ruolo stesso, la composizione e la nomina delle commissioni esaminatrici degli aspiranti all’iscrizione nel ruolo anzidetto (art. 5 legge 1992, n. 166), nonchè la corresponsione dei compensi ai membri e ai segretari delle Commissioni stesse. Sebbene a seguito della soppressione della Commissione nazionale e delle Commissioni provinciali per i periti assicurativi di cui ai citati artt. 7 e 8 della legge 1992 n. 166 non venga più sostenuta la spesa relativa ai compensi dovuti ai componenti e ai segretari della Commissione di cui all’art. 7 (per le Commissioni di cui all’art. 8 la legge non prevede compensi), restano tuttavia in vigore tutte le altre norme, ivi comprese quelle relative agli oneri derivanti dalle incombenze previste dall’applicazione della legge istitutiva del ruolo nazionale periti. Di conseguenza, il trasferimento di competenze operato dal citato d.lgs. 373/98 è generale e, a parte l’abolizione delle due commissioni di cui sopra, non prevede eccezioni, nemmeno sotto forma di una distinzione – in nessun modo prefigurata dalla normativa – tra passaggio di competenze sostanziali e traslazione di entrate per assolvere i conseguenti oneri. Tali oneri non possono evidentemente far carico al bilancio delle spese per lo svolgimento dei servizi istituzionali dell’ISVAP. L’inscindibilità tra la tassa di lire 150.000 pro-capite, pagata dagli iscritti nel ruolo dei periti, e gli oneri di cui alla legge del 1992 n. 166, è peraltro esplicitata dalla stessa legge istitutiva del ruolo nazionale dei periti assicurativi. Va rilevato, infatti, che la tassa possiede già una destinazione prevista dalla legge, essendo stata istituita quale specifico ed esclusivo mezzo di copertura per l’assolvimento dei compiti di cui alla legge del 1992 n. 166 in quanto l’art. 15 della legge n. 166, stabilisce che “agli oneri derivanti dalla [stessa] legge si fa fronte con le entrate derivanti dalla tassa stabilita dall’art. 10 e dai successivi decreti ministeriali di variazione”. Perciò, essendovi una espressa correlazione tecnica tra il suddetto tributo e le spese pubbliche de quibus, a tale tassa deve riconoscersi la connotazione di entrata di scopo, come tale destinata in via esclusiva alle spese previste a tal fine: ne deriva che l’assegnazione a bilancio delle entrate derivanti dalla riscossione di detta tassa, seguendo le vicende traslative della titolarità dei compiti già propri del Ministero, non può che avvenire a favore dell’Ente subentratovi. Pertanto, in relazione alle spese connesse con la gestione del ruolo dei periti assicurativi e alle spese relative alle prove di idoneità degli aspiranti periti medesimi, si rende necessario che le somme indicate nella nota di codesto Servizio del 24 novembre 1999 al Ministero del Tesoro siano trasferite, come richiesto, all’Isvap. 25.3. Iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione di dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale Si è approfondita la questione relativa alla circostanza se, allo stato della normativa vigente, sia possibile iscrivere all’Albo dei mediatori di assicurazione i dipendenti della pubblica amministrazione con rapporto di lavoro a tempo parziale, la cui prestazione lavorativa non sia superiore al 50% di quella a tempo pieno. L’esame sia delle norme che disciplinano il part-time nel pubblico impiego, nella specie i commi 56-65 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 1996 n. 662 e l’art. 6 della legge 28 maggio 1997 n. 140, sia delle due circolari emanate in tema dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento funzione pubblica rispettivamente il 19 febbraio 1997 e il 18 luglio 1997 consentono di accedere ad una soluzione positiva. In particolare, l’art. 1, comma 56 della cennata legge 662/1996 stabilisce l’inapplicabilità nei confronti dei dipendenti pubblici che abbiano optato per il part-time, per un verso, delle disposizioni contenute nell’art. 58 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 in tema di incompatibilità e di cumulo di impieghi e di incarichi; per altro verso, delle “disposizioni di legge che vietano l’iscrizione ad albi professionali”. Tale previsione - fortemente voluta dal Dipartimento della Funzione pubblica - si prefigge, com’è stato sostenuto in dottrina (Clarich), la finalità di contenere la spesa pubblica, mirando a rimuovere due barriere, per così dire, in entrata ed in uscita. All’uscita, nel senso che per incentivare i dipendenti pubblici ad optare per il regime a tempo parziale, occorreva eliminare il divieto di svolgimento di altre attività, contenuto nella normativa sul pubblico impiego; all’entrata, nel senso che era necessario superare le disposizioni restrittive contenute nelle leggi speciali sulle professioni che pongono divieti o restrizioni per i dipendenti pubblici. Si rileva che tale disposizione determina l’inapplicabilità, con esclusivo riferimento ai dipendenti in parttime con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, anche della norma posta dall’art. 2, III comma della legge 792/1984, che preclude l’esercizio dell’attività di brokeraggio agli enti pubblici e ai loro dipendenti (assieme agli agenti e ai produttori di assicurazione). Il riferimento generico ad “albi professionali” senza altra specificazione contenuta né nella legge né nelle menzionate circolari interpretative, induce a riconnettere un’accezione lata al concetto di “professione”, nel quale siano da ritenere ricomprese anche le professioni diverse da quelle liberali. La legge non ha del resto enucleato solo gli “ordini professionali”, il cui significato è certamente più restrittivo in quanto la giurisprudenza di legittimità non vi ritiene ricompresi l’albo broker ovvero l’albo agenti, bensì ha inteso riferirsi più genericamente ad “albi”, la cui istituzione risponde, com’è noto, alla esigenza di accertare, tramite l’iscrizione, in capo ai soggetti istanti la sussistenza o la permanenza dei requisiti di legge; in tale contesto l’iscrizione all’albo per lo più costituisce fatto di legittimazione per lo svolgimento di determinate attività, ma nel contempo è atto di certezza critica volto a tutelare la fede pubblica (Giannini, voce “Albo”, in Enc. del dir., I). Conferma del carattere ampio di tale riferimento lessicale può argomentarsi dalla citata Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 3 del 19 febbraio 1997, ove al punto 6, trattandosi delle innovazioni al regime delle incompatibilità per il pubblico dipendente che abbia optato per il lavoro a tempo parziale (sempre qualora l’orario di lavoro non superi il 50 per cento di quello pieno), si chiarisce che al medesimo, venuta meno ogni forma predeterminata di incompatibilità e fatte salve le esigenze di servizio, è consentito di “svolgere anche un’altra attività subordinata (purchè non a favore di altra pubblica amministrazione: ndr) o autonoma, anche mediante iscrizione ad albi, a condizione che l’ulteriore attività non sia in conflitto con gli interessi dell’amministrazione”. A questo proposito, condizione per la iscrizione pare debba essere naturalmente la produzione da parte del dipendente dell’autorizzazione della propria amministrazione a trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale ai sensi del successivo comma 58 del cennato art. 1. Principalmente per porre fine alla nota diatriba tra il Dipartimento della Funzione pubblica ed il Consiglio nazionale forense, che si pone in aperto contrasto con le narrate prescrizioni di legge, l’art. 6 della legge n. 140 del 28 maggio 1997 ha inserito, di seguito al comma 56 dell’articolo 1 della legge n. 662/1996, un comma 56-bis, il quale dispone l’abrogazione delle disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali ai suddetti dipendenti in regime di part-time. A parte l’inutile ripetizione di un effetto già prodottosi in virtù del comma precedente (che ne prevedeva, come rilevato, l’inapplicabilità) e l’inesattezza in cui incorre il legislatore ove, per rafforzare la portata della norma, ha parlato impropriamente di abrogazione la quale, semmai, potrà essere solo parziale, la norma non fa altro che ribadire a chiare lettere il principio già espresso nel comma 56, poi ripreso nella successiva circolare del 18 luglio 1997. 25.4. Iscrizione nell’Albo Broker Si è affrontata la questione della rilevanza - come titolo equipollente ai fini dell’iscrizione di un soggetto all’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione - della qualità di socio di una società a sua volta titolare di partecipazione sociale in una società di brokeraggio. In proposito si è ritenuto che la qualità fatta valere dal richiedente non integri le ipotesi previste dall’ordinamento quali titoli equipollenti al superamento della prova di esame. In particolare, non risulta applicabile l’art. 4, comma 4, lett. b), L. 792/84, che prevede l’esonero della prova, tra l’altro, per “coloro che abbiano svolto per almeno un quadriennio, in modo continuativo, mansioni direttive” in una società di brokeraggio. Infatti, secondo l’interpretazione della norma fornita con una circolare dal Ministero dell’Industria sono esonerati dalla prova d’idoneità: a) coloro che hanno svolto mansioni direttive presso una impresa di assicurazioni, pubblica o privata, oppure presso un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa … (esclusivamente) in relazione ad un rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e l’impresa; b) coloro che hanno svolto mansioni direttive in qualità di socio o di consigliere di amministrazione di un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa”. In mancanza di un rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e la società di brokeraggio, la fattispecie de qua deve essere riferita esclusivamente alla previsione sub b) dell’art. 4, comma 4, legge n. 792/84. Ma, anche in tal caso, è evidente che non risultano integrati gli elementi della disposizione di cui trattasi. Infatti, il richiedente non è socio della società di brokeraggio, risultando piuttosto una partecipazione indiretta alla stessa tramite una persona una persona giuridica. D’altra parte, è da escludere un’assimilazione fra la partecipazione personale alla società di brokeraggio (così come ritenuto dalla circolare) e la partecipazione indiretta alla stessa tramite una persona giuridica (così come nell’ipotesi in esame). 25.5. Iscrizione nell’Albo Broker: art. 4, comma 4, lett. b) L. 792/84 E’ stata esaminata la questione relativa alla rilevanza, come titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, dello svolgimento – per più di quattro anni – di mansioni direttive in virtù di un accordo di collaborazione coordinata e continuativa con una società di brokeraggio assicurativo. L’art. 4, comma 4, lett. b), L. 792/84, prevede l’esonero dalla prova di esame, tra l’altro, per “coloro che abbiano svolto per almeno un quadriennio, in modo continuativo, mansioni direttive” in una società di brokeraggio. Il Ministero dell’Industria con una circolare aveva, in via interpretativa, precisato che per svolgimento di mansioni direttive sono esonerati dalla prova d’idoneità coloro che hanno svolto mansioni direttive presso una impresa di assicurazioni, pubblica o privata, oppure presso un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa … (esclusivamente) in relazione ad un rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e l’impresa; ciò in quanto la disposizione normativa si riferisce unicamente a coloro che hanno svolto mansioni direttive in relazione ad un rapporto dipendente esistente fra l’interessato e l’impresa e, quindi, non è applicabile a coloro che hanno svolto la propria attività sulla base di un rapporto di libera collaborazione con l’impresa stessa …. L’interpretazione fornita dal Ministero appare corretta caratterizzandosi il rapporto di libera collaborazione per l’autonomia del prestatore d’opera nei confronti del committente, con esclusione di ogni connotato di subordinazione o sovraordinazione gerarchica. Per inciso, la stessa etimologia della parola “mansione” (dal latino mansio: dimora, sosta, permanenza, soggiorno) sembra confermarne la contraddizione in termini con i connotati della libera collaborazione. In proposito, pur avendo in via generale l’intenzione amministrativa un’efficacia meramente interna, nel caso in esame la cennata circolare è relativa ad un procedimento per la formazione di atti destinati ad incidere sulla sfera giuridica dei privati, circostanza questa che ne comporta un’efficacia esterna (Cons. di Stato, sez. VI, 13 maggio 1980, n. 531), per cui la sua diversa applicazione (o disapplicazione) richiederebbe un atto modificativo, possibilmente anteriore, che renda ufficiale la nuova posizione eventualmente assunta dalla pubblica amministrazione. Ed anche irrilevante risulta una eventuale qualificazione del rapporto di libera collaborazione – ricorrendo i presupposti di cui all’art. 409, punto 3, c.p.c. – quale rapporto di lavoro parasubordinato, incidendo esclusivamente la circostanza ai fini della individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie in questione, senza che da ciò possa inferirsi la riconducibilità del rapporto in esame a quello di natura subordinata. Neanche il semplice inserimento della prestazione lavorativa, a seguito di un accordo di libera collaborazione, nell’organizzazione dell’attività aziendale è tale di per sé da configurare un rapporto di lavoro subordinato, risultando l’inserimento del tutto compatibile con la coordinazione che è tipica del cennato lavoro parasubordinato (Cass. Civile, sez. lav., 2 maggio 1994, n. 4204). Alla luce delle superiori considerazioni, si è ritenuto che l’attività svolta sia inidonea ai fini dell’esonero dalla prova per l’iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. 25.6. Cassa sanitaria costituita da una società di brokeraggio. Oggetto sociale limitato alla mediazione assicurativa E’ stata approfondita la questione relativa alla legittimità o meno della costituzione da parte di una società di brokeraggio di un fondo sanitario integrativo istituito ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. 502/92 che, novellato dall’art. 10 del d.lgs. 517/93, è stato successivamente sostituito integralmente dall’art. 9 del d.lgs. 229/99. Al riguardo, si è ritenuto che la questione presenti aspetti da esaminarsi sotto due differenti profili. Il primo di essi afferisce alla legittimazione di una società di brokeraggio ad istituire un fondo integrativo dell’assistenza sanitaria, ed alla forma nell’occasione prescelta, ponendosi quindi problematiche relative al rispetto del citato d.lgs. 502/92; il secondo profilo attiene, invece, alla conformità della fattispecie alla legge istitutiva dell’albo nazionale dei mediatori di assicurazione, segnatamente alla disposizione di cui all’art. 5, I comma, lett. b). Per quanto concerne il primo aspetto, si segnala che la vigilanza sui fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale è devoluta dall’art. 122 del d.lgs. 112/98 allo Stato e più in particolare è attribuita al dicastero della Sanità. Relativamente al secondo profilo, di competenza invece dell’Istituto, si rende necessario valutare se il limite posto dall’art. 5 all’oggetto sociale delle società di brokeraggio, che preclude lo svolgimento di “qualsiasi altra attività che non persegua direttamente o indirettamente il raggiungimento o il consolidamento dell’oggetto sociale”, si concilii con la costituzione del fondo da parte di Assidir. Non convince la tesi secondo cui l’istituzione del fondo sia riconducibile all’attività di assistenza cui fa riferimento l’art.1 della legge 792/84. Infatti, mentre l’attività di assistenza prevista dalla norma, tra l’altro in via accessoria, si riferisce ad una attività di collaborazione strumentale rispetto al rapporto (pre o post) assicurativo del cliente, l’attività di assistenza da riferirsi ai fondi integrativi de quibus non ha natura strumentale costituendo, piuttosto, il fine al cui assolvimento è preposto l’ente. Ed inoltre, anche a voler accedere alla tesi ricordata, la prestazione di assistenza in questione sarebbe garantita dal fondo e non dalla società di brokeraggio; non mancandosi di rilevare come i due tipi di assistenza in parola abbiano evidente diversità di natura e contenuti. Tanto precisato, si reputa comunque che eventuali iniziative di tale tipologia non siano tali da configurare di per sè una palese violazione della disciplina sulla mediazione assicurativa ed in particolare dell’art. 5. Sembra, infatti, che la preclusione prevista da quest’ultimo articolo sia da intendersi riferita allo svolgimento di attività economica o finanziaria, circostanza questa che indurrebbe ad escludere eventuali partecipazioni in enti privi di fini di lucro e, comunque, non svolgenti attività imprenditoriali. Anche l’eventuale partecipazione – pur come socio fondatore, circostanza che peraltro non inficia le superiori considerazioni – ad un’associazione non riconosciuta, alla quale è per legge precluso il perseguimento di uno scopo di lucro, non si ritiene in linea di principio incompatibile con il disposto normativo citato. Tuttavia, appare necessario che la partecipazione e il ruolo svolto dalla società di brokeraggio non si estrinsechino in atti o iniziative che travalichino i limiti di una semplice partecipazione ad ente non avente scopo di lucro, né, d’altro canto, che l’attività dell’ente medesimo possa confondersi o sovrapporsi con il core business della società di brokeraggio. Più precisamente in via ricostruttiva della problematica occorre che: a) la società di brokeraggio non assuma, neanche statutariamente, alcun impegno per obbligazioni che eccedano l’obbligo al versamento della quota associativa; b) l’attività della Cassa non si confonda con quella della società di brokeraggio; c) la società di brokeraggio stessa non svolga attività diretta a promuovere l’adesione alla Cassa, non presentando la stessa natura assicurativa; d) la Cassa e la società di brokeraggio non abbiano la medesima sede, potendo altrimenti tale circostanza dar luogo alla commistione di attività di cui alla precedente lettera b). 25.7. Iscrizione nell’Albo dei mediatori di assicurazione di agente radiato dall’Albo agenti, prima del decorso dei tre anni dalla radiazione e sulla base di titolo equipollente maturato antecedentemente alla radiazione stessa La problematica attiene alla possibilità di iscrizione prima del decorso dei tre anni dalla radiazione e sulla base di un titolo equipollente maturato antecedentemente alla radiazione stessa. La fattispecie in esame presenta due aspetti su cui appare opportuno soffermarsi: il primo, relativo al limite temporale richiesto dalla legge per la reiscrizione all’Albo dopo la cancellazione; il secondo, attinente alla possibilità di considerare titolo equipollente, ai fini dell’iscrizione nell’Albo mediatori, la precedente iscrizione nell’Albo agenti, malgrado la successiva radiazione. Per quanto concerne il primo punto, la necessità di un limite temporale alla reiscrizione è prevista dall’art.10 co. 2 l. 48/1979, con riguardo agli agenti, e dall’art. 11 co. 3 l. 792/1984, in combinazione con l’art. 4, comma 4, lett. A) relativamente ai mediatori, che consentono la reiscrizione negli Albi di riferimento, dopo la cancellazione, a condizione che siano decorsi almeno tre anni dalla data della cancellazione (l’art.10 l. agenti lo richiede limitatamente al caso in cui la cancellazione sia dovuta a radiazione). Dall’analisi normativa emerge che il limite temporale dei tre anni non è previsto né per i radiati dall’Albo dei mediatori che intendano iscriversi nell’Albo degli agenti, né per i radiati dall’Albo agenti che vogliano iscriversi, come nel caso in esame, nell’Albo dei mediatori. Pertanto, non sembra necessario richiedere il decorso del predetto periodo di tempo, dal momento che nessuna norma contempla l’ipotesi specifica che qui si sta considerando. Il secondo aspetto, ossia quello attinente alla sussistenza di titoli equipollenti alla prova di idoneità, richiede un esame più approfondito delle disposizioni vigenti in materia e della ratio ad esse sottesa. Se si analizza la l. agenti, la norma che potrebbe essere preclusiva alla richiesta di iscrizione in questione è rappresentata dal combinato disposto degli artt. 10 co. 3 e 5 co. 1 lett. b): in virtù del richiamo effettuato dall’ultimo comma dell’art. 10 a tutte le disposizioni della legge per l’iscrizione all’Albo, risulta che la circostanza di essere già stati iscritti nell’Albo nei cinque anni precedenti alla cancellazione costituisce titolo equipollente alla prova di idoneità, purché tale cancellazione non sia stata determinata da provvedimenti disciplinari – come nel caso di radiazione –. Analoga disposizione è dettata dalla l. mediatori, art.4 co. 4 lett. a), sempre ai fini dell’esonero dalla prova d’idoneità per l’iscrizione nel rispettivo Albo. Il dettato normativo sembra chiaro: in tanto la pregressa esperienza acquisita come agente o mediatore assicurativo può essere equiparata alla prova di idoneità, in quanto la cancellazione sia stata dovuta a cause che esulano dal mancato rispetto dei doveri deontologici e di tutto ciò che concerne il decoro professionale; ove la cancellazione fosse, invece, conseguenza di un provvedimento disciplinare, è indubbio che l’esperienza maturata precedentemente – per una scelta legislativa penalizzante – non potrebbe assumere rilevanza ai fini dell’equipollenza. Nonostante le due norme ora citate si riferiscano ciascuna esclusivamente all’Albo per cui sono dettate, e non siano estese alle ipotesi di “transito” da un Albo all’altro, esse risultano comunque utili in questa sede a fornire una chiave di lettura per interpretare la disposizione che contempla più direttamente l’ipotesi che qui interessa: l’art. 4 co. 4 lett. b) l. mediatori consente l’esonero dalla prova d’idoneità, per l’iscrizione all’Albo mediatori, a coloro che siano stati per almeno un quadriennio agenti iscritti nella I sezione dell’Albo, ma – punctum dolens –, nel consentire ciò, non fa alcun riferimento, ai fini di escluderli, ai casi di cancellazione per radiazione. Sicché, se si considera il mero dato testuale, verrebbe da ritenere che un agente, anche se precedentemente radiato, avrebbe la facoltà di iscriversi all’Albo mediatori senza sostenere la prova d’idoneità. A sostegno di tale tesi, si potrebbe anche rimarcare che l’atto di iscrizione all’Albo è un atto di accertamento costitutivo, rispetto al quale l’autorità amministrativa deve limitarsi a verificare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge; e che, del resto, se il legislatore avesse voluto escludere l’ipotesi di cancellazione da altro Albo dovuta a provvedimento disciplinare, lo avrebbe senz’altro fatto esplicitamente, come nelle altre due norme esaminate. Peraltro, sotto quest’ultimo rilievo, pare più plausibile pensare che il mancato riferimento al caso di cancellazione suddetta sia non tanto un aspetto espressamente voluto dal legislatore, quanto piuttosto, e più semplicemente, il frutto del sempre più evidente mancato coordinamento tra la l. agenti e la successiva l. mediatori. Esaminando, invece, la fattispecie più in generale, deve obiettarsi che ricorrono principi e ragioni sottesi alla normativa Albi, che non possono essere disconosciuti, pena una contraddizione interna al sistema stesso. Ciò suggerisce la possibilità di un’interpretazione sistematica della disciplina de qua, in virtù della quale si possa ritenere implicito nel testo dell’art. 4 co. 4 lett. b) che il periodo di iscrizione all’Albo, per poter valere ai fini dell’equipollenza, non debba essere stato successivamente interrotto da provvedimento disciplinare. In altri termini, consentire l’iscrizione all’Albo mediatori a un agente radiato, e viceversa, senza il rispetto dei requisiti richiesti, non sarebbe coerente con il sistema normativo ora esaminato e potrebbe tradursi, in ultima analisi, in un’elusione di legge. Ciò che può sorreggere l’interpretazione sistematica è il dato di legge per cui la pregressa esperienza di agente, protratta per un periodo determinato, genera equipollenza ai fini dell’iscrizione nell’Albo mediatori allo stesso modo in cui, in senso reciproco, la pregressa esperienza di mediatore, parimenti protratta per un periodo determinato, genera equipollenza ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti. Ciò significa che nella valutazione dell’equipollenza il riferimento ai singoli Albi esprime una propria neutralità mentre ciò che rileva è l’inerenza dell’attività svolta al settore assicurativo. Accogliendo tale ordine di idee, è consentito ritenere che la radiazione da uno o dall’altro Albo, privando l’interessato della legittimazione a far valere l’equipollenza come misura repressiva accessoria di un comportamento giudicato gravemente violativo dei principi di corretta deontologia, non gli dia titolo di iscriversi a nessun Albo, potendo ai fini dell’iscrizione valere soltanto il superamento della prova di idoneità. 25.8. Variazione dell’attività di mediazione da quella assicurativa a quella riassicurativa di soggetto iscritto nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione La disciplina che regola l’esercizio dell’attività di mediazione impone l’iscrizione del soggetto interessato nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. L’iscrizione all’Albo è subordinata, come è noto, anche al superamento di una prova di idoneità, finalizzata principalmente ad accertare la conoscenza di tutti gli aspetti tecnici e giuridici indispensabili all’esercizio di tale professione. E’ opportuno rilevare che il legislatore ha inteso differenziare le prove di idoneità a seconda che si tratti di attività di mediazione assicurativa o riassicurativa, richiedendo per quest’ultima la conoscenza di materie ulteriori rispetto a quelle già previste per la mediazione assicurativa. La ratio di tale distinzione può essere ricondotta all’impossibilità di far coincidere perfettamente le competenze professionali del mediatore di assicurazione e di quello di riassicurazione, nonché alla maggiore complessità della tecnica riassicurativa. Ciò premesso, nell’individuazione dei criteri che consentono il passaggio in questione si deve rispettare il principio della diversificazione delle professionalità, al fine di garantire il mantenimento delle specifiche competenze richieste. Pertanto, sembra da condividere l’orientamento che autorizza soltanto il passaggio dalla mediazione riassicurativa a quella assicurativa ma non viceversa, ritenendo, quindi, sufficiente a tal fine il superamento della prova di idoneità per la mediazione riassicurativa, in quanto comprensiva delle materie già previste per l’esame da mediatori di assicurazione. Nella diversa ipotesi in cui il soggetto interessato possa vantare il titolo equipollente dell’esercizio almeno quadriennale e continuativo di mansioni direttive in un’impresa di assicurazioni pubblica o privata o in un’impresa di brokeraggio, o dell’essere stato per lo stesso periodo agente di assicurazione iscritto nella I sezione del relativo albo (vedi art. 4, ultimo comma, lettera b) della legge 792/1984), o infine, di aver svolto per almeno un quadriennio mansioni direttive in qualità di socio o di consigliere di amministrazione di un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa, il passaggio dall’una all’altra attività può, invece, aver luogo in ogni caso. La sussistenza del titolo equipollente, nella visione del legislatore, rappresenta, invero, sufficiente garanzia della competenza tecnico professionale del soggetto che intenda svolgere l’incarico di mediatore. Alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene che il solo superamento della prova di idoneità in materia assicurativa non sia titolo sufficiente per il passaggio all’esercizio dell’attività di mediazione riassicurativa; l’iscrizione, comunque, potrà essere concessa in virtù del titolo equipollente. 25.9. Considerazioni sugli artt. 5, comma 2 e 9, comma 1, lett. d) della legge 7 febbraio 1979 n. 48. Nel sistema delineato dal legislatore, l’equipollenza di talune esperienze professionali costituisce un criterio derogatorio rispetto alla regola generale per la quale l’iscrizione all’Albo Nazionale Agenti di assicurazione, è condizionata, oltre al possesso di altri requisiti, al superamento di una prova di idoneità ai sensi dell’art. 4, lett. d), legge n. 48/79. Ciò significa che le disposizioni introdotte dall’art. 5, lett. c) della legge n. 48/79, per l’eccezionalità che le connota, sono soggette a canoni d’interpretazione restrittivi. Pertanto, considerato che la legge prevede che lo svolgimento di una certa attività, per essere ritenuto equivalente all’aver sostenuto, con esito positivo, la prova d’idoneità, debba avvenire in modo continuativo (in quanto presuntivamente la non interruzione dell’esercizio della stessa garantisce il conseguimento del necessario standard di professionalità), è da intendersi che l’integrazione della fattispecie si profili solo qualora l’attività venga effettivamente svolta dall’interessato senza alcuna soluzione di continuità. Se le disposizioni di cui all’art. 5, lett. c), apportano una deroga alla regola generale della lett. d) dell’art. 4, ulteriore deroga (allo stesso art. 5, lett. c) è posta dal comma 2 dell’art. 5, ove è stabilito che costituisce titolo equipollente l’aver svolto, nel quinquennio antecedente la data della presentazione della domanda di iscrizione, purchè in modo continuativo, anche più di una delle attività di cui alla lett. c): in altre parole, la legge eccezionalmente prevede che il titolo di equipollenza possa desumersi dalla sommatoria di periodi di attività aventi carattere diverso che, però, per la continuità che li lega, sono tali da configurare un unicum. Dal carattere derogatorio che accomuna le cennate disposizioni legislative discendono alcune logiche conseguenze. Il canone ermeneutico restrittivo si ritiene debba essere mantenuto anche qualora siano diversi i contesti delle attività svolte, in modo da garantire che le stesse, anche se diverse, risultino in relazione di continuità le une alle altre per essere equiparate all’unica attività richiesta all’art. 5, lett. c). L’utilizzo di un’interpretazione estensiva sarebbe, invece, suscettibile di dar vita ad una disparità di trattamento tra coloro che abbiano svolto una sola delle attività previste dalla legge e quanti ne abbiano espletato più di una. 25.10. Iscrizione di agente a seguito di sentenza patteggiamento E’ stato approfondito il caso di un agente a carico del quale è stata pronunciata una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti che richiede l’iscrizione nell’Albo dopo il passaggio giudicato della decisione. Si pone il problema della natura giuridica della sentenza pronunciata sull’accordo delle parti, il cosiddetto patteggiamento, che è termine mal tradotto dal plea bargaining anglosassone. In particolare, si tratta di stabilire se si debba riconoscere a tale tipo di pronuncia valore di condanna, con la conseguenza di riconnettere ad essa, qualora concerna taluni delitti previsti dalla legge, gli effetti preclusivi stabiliti dalla legge ovvero ritenere che la medesima non sia assimilabile ad una condanna in quanto priva della cognitio plena, possibile solo in un processo celebrato secondo il rito ordinario. L’analisi della disciplina dell’istituto previsto agli artt. 444-448 c.p.p., pare condurre – pur constando un difforme orientamento di parte della giurisprudenza – alla conclusione che la sentenza emessa a seguito di patteggiamento non abbia la natura propria della sentenza di condanna, in quanto non consegue ad un accertamento pieno della fondatezza dell’accusa e della responsabilità dell’imputato; non implicando un necessario riconoscimento di colpevolezza, essa non può ritenersi causa disonorante né, quindi, comportare la decadenza dell’imputato dalla carica rivestita. Oltre che in autorevole dottrina, tale tesi trova conforto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (Sent. 6 giugno 1991, n. 251) ove si è rilevato che, qualora fosse accolta una diversa interpretazione, potrebbe sorgere questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega ex art. 76 della Costituzione rispetto alle disposizioni regolanti l’istituto del patteggiamento, segnalandosi, altresì, il possibile contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Per vero, il d.m. 24 aprile 1997 n. 186 sui requisiti di onorabilità e professionalità degli esponenti di vertice di imprese di assicurazione e di enti controllanti o detentori di partecipazioni qualificate nel relativo capitale – per il quale pure è rilevante la questione del valore del patteggiamento – sembra aver, seppur in maniera parziale e indiretta, risolto la querelle, stabilendo che incorrono in una causa disonorante coloro che abbiano riportato una condanna con sentenza definitiva, salvi gli effetti della riabilitazione, nonché della sospensione condizionale, alle pene previste all’art. 2, lett. c) del citato decreto ministeriale. Considerato che nella disciplina del patteggiamento è previsto, dall’art. 444, comma 3°, c.p.p., che la parte, nel formulare la richiesta, possa subordinarne l’efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena, e che ordinariamente l’imputato si avvale di tale facoltà, è evidente che nella maggior parte dei casi, ottenuto il beneficio richiesto, lo stesso non incorra nella perdita del requisito dell’onorabilità. Una ricognizione della giurisprudenza ha evidenziato, come si è potuto accertare, che i contrasti sulla questione, non sono, allo stato, sopiti. In linea generale, accanto a pronunce che statuiscono la non equiparabilità della sentenza conseguente al giudizio speciale ex art. 444 c.p.p. a condanna (Cass. Pen., Sez. V, 20 marzo 1998, n. 1776; Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 ottobre 1998, n. 382; Consiglio di Stato, Sez. IV 12 dicembre 1997, n. 1416), ve ne sono altre contenenti dicta di segno opposto (Cass. Pen., Sez. III, 3 aprile 1998, n. 5750; Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 ottobre 1998, n. 1298 e, da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 gennaio 1999 n. 76). Recentemente anche la Commissione speciale per il pubblico impiego ha affrontato la vexata quaestio e, dopo una disamina delle pronunce dei giudici di legittimità e costituzionali, il 3 febbraio 1999 ha concluso nel senso che la sospensione obbligatoria dal lavoro non operi nelle ipotesi di patteggiamento. In particolare, sul rapporto tra sentenza “patteggiata” e procedimento disciplinare, il Consiglio di Stato in sede giudicante non ha ancora trovato un indirizzo uniforme, pur avendo ritenuto in sede consultiva che il patteggiamento non integri una condanna (v. parere n. 413 del 13 luglio 1998 e n. 437 del 17 maggio 1999). Con la cennata pronuncia n. 76/99, la IV Sezione si è espressa nel senso che la pronuncia su patteggiamento equivalga ad una condanna, mentre precedentemente, con la decisione 681/96, aveva manifestato difforme orientamento. Da ultimo, è intervenuta una pronuncia della VI Sezione, la quale ha statuito che l’applicazione della pena su richiesta non comporti un accertamento della responsabilità dell’imputato in merito ai reati ascrittigli. A tal proposito, alcuni passi della massima sono particolarmente esplicativi dell’orientamento assunto: “La non equivalenza della sentenza di patteggiamento alla decisione di condanna deriva dalla funzione stessa dell’istituto che non consiste nell’accertamento, con gli effetti propri del giudicato dell’esistenza del reato, ma piuttosto nella risoluzione in tempi brevi del procedimento con l’irrogazione della sanzione derivante dall’accorto intervenuto tra le parti in giudizio, approvato dall’autorità giudicante. Ne consegue che, anche in sede di procedimento disciplinare amministrativo, l’amministrazione, pur potendo tener conto dei fatti emersi nel corso del procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento, non solo non può ritenere accertata giudizialmente l’esistenza del reato …” (Consiglio di Stato…). Al fine di evitare ulteriori incertezze e contrasti giurisprudenziali la questione in esame è stata deferita all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dalla VI Sezione, con ordinanza n. 295 del 1997 e dalla V Sezione, con ordinanza n. 500 del 1997. La conclusione raggiunta è quella della non equiparabilità della sentenza pronunciata sull’accordo delle parti ad una condanna, escludendosi, perciò, che la medesima possa comportare la cancellazione dell’agente dall’Albo ai sensi e per gli effetti del combinato disposto dagli artt. 9, lett. d) e 4, lett. c) della legge n. 48/1979. La cancellazione dall’albo, inoltre, non offre le garanzie previste a favore dell’agente che venga sottoposto, invece, a procedimento disciplinare; pertanto sembra eccessivo riconnettere ad una pronuncia non fondata su una cognizione piena una conseguenza così radicale. Le osservazioni appena svolte non precludono, peraltro, la possibilità di acquisire la sentenza alla stregua di una notitia criminis implicante l’apertura di un procedimento disciplinare a carico dell’interessato, nel cui contesto venga utilizzato, se del caso, il materiale probatorio emerso in sede penale per valutarne la rilevanza sul piano disciplinare. 25.11. Art. 4, comma 1, legge 7 febbraio 1979 n. 48 – cittadino extracomunitario – requisito della reciprocità. Si è affrontata la questione relativa all’iscrizione all’Albo Agenti, di una cittadina rumena residente in Italia, attualmente subagente professionista nel territorio della Repubblica. Necessaria premessa alla stessa teorica possibilità è che la cittadina extracomunitaria abbia maturato in Italia il titolo equipollente, ai fini dell’iscrizione medesima, ai sensi dell’art. 5, lett. c), n. 4 della citata legge il quale – com’è noto – consiste nell’esser stato, per almeno due anni, in modo continuativo subagente professionista, tale intendendosi, per espresso dettato di legge, colui che, con l’onere di gestione a proprio rischio e spese, dedica abitualmente e prevalentemente la sua attività professionale all’incarico affidatogli da un agente, senza esercitare altra attività imprenditoriale o lavorativa, subordinata o autonoma. La questione – si è premesso – non è risolvibile alla luce dell’art. 35, legge n. 40/98 che disciplina il diverso caso in cui lo straniero già possegga il titolo professionale abilitante all’esercizio della professione per averlo conseguito all’estero e richieda tuttavia l’iscrizione all’albo in Italia, venendo in tal caso in considerazione l’interpretazione da darsi all’enunciato relativo al “possesso dei titoli professionali legalmente riconosciuti in Italia abilitanti all’esercizio delle professioni” (art. 35, co. 1). Trattandosi invece di titolo conseguito in Italia, alla questione può darsi risposta affermativa per le considerazioni che seguono: a) in materia di attività agenziale non può ritenersi prevista ex lege una riserva assoluta di attività a favore del cittadino italiano, considerato che la legge n. 48/1979 non preclude al cittadino extracomunitario l’iscrizione all’albo ma piuttosto, con l’art. 4, comma 1, lett. a), ne subordina l’iscrizione alla condizione che analogo trattamento sia riservato ai cittadini italiani nel paese di origine dello straniero (c.d. condizione di reciprocità); b) l’art. 9, 4° comma, lett. c del testo unico adottato con d.lgs. 25.7.1998 n. 286 (corpus normativo in cui è stata trasfusa la legge 6.3.1998 n. 40) riconosce allo straniero regolarmente soggiornante in Italia il diritto di svolgere ogni attività lecita, salvo che la legge espressamente la vieti allo straniero o comunque la riservi al cittadino italiano; c) in coordinamento con il generale principio appena espresso, la condizione di reciprocità, il cui immediato referente è costituito dall’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile, non appare più invocabile nei confronti del cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia, giusta le disposizioni dell’art. 2 del citato d.lgs. 286/98 e, segnatamente, dell’art. 1, 2° comma del regolamento recante norme di attuazione (d.P.R. 394/1999) ove è stabilito che “l’accertamento della condizione di reciprocità non è richiesto per i cittadini stranieri titolari della carta di soggiorno di cui all’art. 9 del testo unico (d.lgs. 286/1998: ndr), nonché per i cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l’esercizio di un’impresa individuale …”; d) la caducazione del principio di reciprocità nei confronti del cittadino straniero, purché regolarmente soggiornante in Italia, comporta che al medesimo non sia più applicabile l’inciso dell’art. 4, comma 1, lett. a) della legge istitutiva dell’Albo agenti di assicurazione; e) venuta meno tale condizione, al cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia, sempreché sia in possesso degli altri requisiti previsti dalla legge 48/79, si ritiene consentita l’iscrizione all’Albo Nazionale agenti di assicurazione. Ottenuta l’iscrizione all’albo agenti, il cittadino extracomunitario potrà esercitare l’attività di agente solo qualora abbia assolto alle condizioni poste dall’art. 26 (Ingresso e soggiorno per lavoro autonomo) del testo unico riguardo all’esercizio del lavoro autonomo da parte dello straniero in Italia e dettagliatamente previste dall’art. 39 del suo regolamento di attuazione. A tali disposizioni normative occorre fare diretto rinvio per la completezza del quadro disciplinare. Sinteticamente può però osservarsi che le misure precauzionali richieste dalla legge sull’immigrazione annoverano, oltre al possesso dei requisiti stabiliti dalla legge italiana per l’iscrizione all’albo, la dimostrazione di disporre di risorse finanziarie adeguate all’attività che il cittadino straniero intende intraprendere in Italia nonché il possesso di una attestazione dell’autorità competente che non sussistono motivi ostativi al rilascio dell’autorizzazione o della licenza prevista per la suddetta attività. Da una parte, le soprarichiamate condizioni colmano le lacune della c.d. legge Martelli, che nulla prevedeva per gli immigrati che intendessero svolgere lavoro autonomo in Italia; dall’altra, perseguono il fine di impedire che le più svariate attività vengano intraprese in assenza di garanzie minime di affidabilità, senza, ad esempio, disporre di adeguati mezzi finanziari, assolutamente necessari quando si intraprende un’attività non occasionale di lavoro autonomo. 25.12. Valutazione dei titoli equipollenti ai fini dell’iscrizione nell’albo nazionale Agenti di assicurazione configurabilità per il procuratore dell’agente di città del titolo equipollente ex art. 5, lett.c), punto 3 della legge 48/1979. E’ sorta questione se possa ritenersi o meno integrato il requisito, necessario ai fini dell’equipollenza ai sensi dell’art. 5, lett.c) della legge 48/1979, nel caso di procura conferita da un agente di città il cui mandato è stato rilasciato dal Consorzio Agenzia Generale Ina –Assitalia di Roma in gestione diretta. Per l’eventualità che il quesito appena esposto trovi risoluzione nel senso positivo, si è posta l’ulteriore questione, consistente nel decidere se considerare esauriente la dichiarazione, inerente al riconoscimento della procura, che sia stata rilasciata dal rappresentante del predetto Consorzio, alla luce del provvedimento Isvap 28 giugno 1999 n. 1201, secondo cui deve essere prodotta una dichiarazione, con firma autenticata, del rappresentante legale della compagnia di assicurazione preponente, attestante l’avvenuto riconoscimento del procuratore da parte della compagnia medesima. Al primo quesito è sembrato possibile dare una risposta affermativa, ferma restando l’opportunità di taluni accertamenti in punto di fatto, segnatamente per quanto attiene all’iscrizione dell’agente di città alla prima sezione dell’Albo e all’avvenuta comunicazione da parte dell’impresa del conferimento del mandato all’agente di città. In altri termini, attraverso la struttura consortile, può dirsi che la compagnia eserciti un’attività di directmarketing. In tale prospettiva, parrebbe ininfluente l’individuazione del rapporto intercorrente in punto di diritto tra compagnia e consorzio, risultando evidente che il consorzio, al di là dell’autonomia soggettiva di cui gode, si configuri come una struttura decentrata in ragione del fatto che, per quanto qui consta, le spese occorrenti per l’esercizio delle attività di gestione e di promozione di contratti di assicurazione sono sopportate integralmente dalla committente. Il gerente del Consorzio si presenta quindi come un institore della compagnia. Secondo un orientamento accreditato in dottrina, il gerente del consorzio riveste, più specificamente, la posizione di rappresentante stabile di una sede secondaria dell’impresa assicurativa, agendo in nome e per conto della compagnia; in virtù di tale sostanziale immedesimazione, il Consorzio conferisce mandati agenziali ai c.d. agenti di città, i quali vanno considerati agenti a tutti gli effetti, con la conseguenza dell’obbligo di iscrizione nella I sezione dell’Albo nazionale. Sul punto deve infatti rilevarsi che la dottrina ha sciolto i dubbi derivanti dalla circostanza che l’agente di città riceve il proprio mandato dal Consorzio Agenzia Generale Ina-Assitalia invece che dalla direzione generale delle compagnie, nel senso di considerare il medesimo, anziché un semplice sub-agente, un vero e proprio agente, legittimato a iscriversi all’albo agenti istituito con legge 7 febbraio1979, n.48, in base al rilievo che, se è vero che l’agente di città opera per il tramite delle gestioni in economia, è altrettanto vero che coloro che sono preposti a tali gestioni non sono altro che institori dell’impresa. Seguendo tale tesi, l’agente in gestione libera svolge l’attività promozionale sempre per conto dell’impresa, ma per il tramite di una delle sue gestioni in economia, intrattenendo perciò rapporti diretti non con la direzione, bensì con una gerenza o una gestione in economia. Si osserva altresì che tale ricostruzione riceve un esplicito avallo nell’Accordo Nazionale Agenti del 1994, ove è stabilito che l’accordo stesso si applica agli agenti di città (note a verbale dell’art. 1); in particolare, l’agente di città riceve una sorta di riconoscimento all’art. 2 che, dopo aver definito al I comma il concetto di agente di assicurazione, al II comma prescrive che il contratto di agenzia debba specificare se si tratti di agente il cui contratto è stipulato con l’impresa per il tramite della direzione oppure di “agente di città” e cioè di agente operante nella zona di una gestione di economia, il cui contratto di agenzia è stipulato con detta gestione o direttamente con l’impresa per la gestione stessa. Le considerazioni sin qui espresse sono valse anche a risolvere il secondo quesito nei termini che seguono: 1) l’essere stato, continuativamente per il periodo di due anni prescritto dalla legge, procuratore dell’agente di città riconosciuto dall’impresa è suscettibile di integrare il titolo di equipollenza di cui all’art. 5, lett. c), punto 3; di tale circostanza dovrà il procuratore fornire supporto probatorio secondo quanto richiesto dal cennato provvedimento Isvap all’art. 1, comma 4, lett. d); 2) la dichiarazione, con firma autenticata, rilasciata dal rappresentante del Consorzio e attestante l’avvenuto riconoscimento del procuratore, equivale a dichiarazione promanante dalla compagnia; ciò dicesi in forza del rapporto institorio, ex art. 2203 cod.civ., che connette ad essa il gerente del consorzio, attribuendogli i più ampi poteri di gestione e di rappresentanza dell’impresa preponente, nel cui contesto si ritiene sia da ricomprendere anche quello di sottoscrivere la cennata dichiarazione. 25.13. Iscrizione presso l’Albo degli agenti ai sensi dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979 di direttore generale di impresa di assicurazione In ordine all’iscrivibilità nell’Albo di un cessato direttore generale di impresa assicurativa si è osservato che il direttore generale è dipendente della società nel senso che con essa intrattiene rapporto di lavoro subordinato vero e proprio. Più in particolare, la disciplina di cui all’art. 2396 C.C. - la quale, come noto, estende ai direttori generali la disciplina della responsabilità prevista per gli amministratori - si giustifica in ragione dei poteri di direzione di tipo generale esercitati dai soggetti in parola nonché in ragione della fonte di tali poteri (atto costitutivo o delibera assembleare) onde gli stessi assumono una posizione di autonomia rispetto agli amministratori. Anche la giurisprudenza (Cass., sez. lav., 10 novembre 1987, n. 8279) ha affermato che le funzioni e le responsabilità di amministratore di una società per azioni e quelle di direttore generale, anche se affidate alla stessa persona, sono concettualmente diverse, l’una consistendo nella gestione dell’impresa, l’altra nell’esecuzione, seppur al più elevato livello, delle disposizioni generali impartite nel corso di tale gestione, a nulla rilevando che al direttore generale possano essere affidati compiti di contenuto analogo a quelli incombenti sugli amministratori, sì che in concreto risulti difficoltoso ricollegare un atto all'una o all'altra funzione. Ne consegue che, ove nella stessa persona si cumulino le funzioni di amministratore e di direttore generale, s’instaurano due distinti rapporti, rispettivamente di amministrazione e di lavoro subordinato. Contro il sopra riportato inquadramento della figura non vale l’osservazione, secondo cui il rapporto con il soggetto richiedente l’iscrizione procedeva “senza alcun vincolo di subordinazione”. A tal riguardo, infatti, delle due l’una: o l’istante è direttore generale della società considerata ed a ciò non può non conseguire la qualificazione in termini di rapporto di lavoro dipendente e di conseguente iscrivibilità nell’Albo ovvero, in caso contrario, dovrebbe ritenersi che nella società rivestisse una posizione diversa, in ipotesi non rientrante nell’ambito dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1 legge 48/1979 con le conseguenze che ne derivano. 25.14. Iscrivibilità all’Albo Agenti di un socio-amministratore di impresa di brokeraggio Si è ritenuto possibile l’iscrizione presso l’albo degli agenti di socio amministratore di s.n.c. avente ad oggetto la mediazione assicurativa. L’iscrizione presso l’albo degli agenti, come noto, consegue al superamento del previsto esame d’idoneità. Risponde al vero che rispetto a questa regola generale il godimento dei titoli equipollenti è materia di stretta interpretazione nel senso che l’iscrizione consegue al possesso di uno di essi da parte dell’istante nei termini previsti dalle singole norme che li riconoscono, senza possibilità d’interpretazione analogica. Va tuttavia ribadito come un’interpretazione strettamente letterale, non corretta dal criterio teleologico, possa portare a risultati ermeneutici insoddisfacenti e persino privi di ragionevolezza giuridica. Deve intanto rilevarsi l’esistenza, nella normativa in commento, d’una incongruenza, laddove la stessa consente l’iscrizione in base al titolo equipollente per l’eventuale dipendente che eserciti funzioni dirigenziali in società di brokeraggio e non parimenti a chi eserciti l’attività assicurativa in posizione di piena responsabilità per l’essere della stessa socio illimitatamente responsabile ed anche amministratore unico. Il criterio d’interpretazione proposto si sustanzia, insomma, nell’effettività dell’attività di trattazione di affari assicurativi, riguardata in rapporto alle peculiarità del caso in riferimento. In realtà societarie di piccole dimensioni appare inusitata la distinzione, caratteristica delle società medio-grandi, tra amministratori – cui compete l’indirizzo dell’impresa – e direttori generali – cui compete un’attività di alta gestione, pur se limitata all’attuazione delle direttive impartite dagli amministratori. Può risultare allora non assistita da giuridica ragionevolezza l’interpretazione della norma in discorso secondo cui il godimento del titolo equipollente è riconosciuto a chi – pur al vertice della piramide dei lavoratori subordinati d’impresa medio-grande – svolge compiti meramente esecutivi mentre è negato a chi in impresa di dimensioni più piccole cumula in sé le funzioni di direzione dell’impresa e le funzioni esecutive degli indirizzi assunti. Che l’equipollenza sia data dall’effettività d’esercizio d’una determinata attività è assunto che si coglie anche in un parere espresso dall’ufficio legislativo del Ministero dell’Industria ove non a caso il diniego di titolo equipollente viene riferito alla carica di presidente, in quanto dotato di poteri meramente rappresentativi, non invece operativi, in seno all’ente societario. La norma dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979 si manifesta come disposizione che segna il limite inferiore quanto al riconoscimento della professionalità in discorso. Si giustifica, pertanto, una cauta applicazione del criterio teleologico, pur con riguardo a norme derogatorie rispetto al regime ordinario, che consenta di fornire un’interpretazione duttile e non rigida d’una fattispecie peculiare, rispetto alla quale sembrerebbe potersi escludere ogni effetto di tipo pervasivo. Si ribadisce, infine - nel dare soluzione affermativa al quesito in premessa - che rinvenire nella tutela della professionalità sostanzialmente conseguita da parte di determinati soggetti il fine che si può ragionevolmente ritenere il legislatore abbia voluto perseguire si presenta, con riguardo a provvedimenti normativi di impronta fortemente corporativa, strumento interpretativo correttivo, volto ad evitare gli effetti distorsivi cui porterebbe un’interpretazione strettamente letterale. 25.15. Iscrizione nell’Albo Nazionale degli Agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), punto 1), della legge 7 febbraio 1979, n. 48 di presidente del consiglio di amministrazione e rappresentante legale di impresa di mediazione assicurativa, iscritto nell’Albo Broker La questione riguarda la possibilità d’iscrizione nell’Albo Nazionale degli Agenti, senza sostenere il prescritto esame d’idoneità, di soggetto precedentemente iscritto nell’Albo dei mediatori di Assicurazione e successivamente investito dell’incarico di presidente del consiglio di amministrazione, nonché di rappresentante legale di una società di mediazione assicurativa, con poteri di ordinaria amministrazione. L’art.5, comma 1, lett. c), punto 1), della legge 48/79, prevede la possibilità d’iscrizione nell’Albo in oggetto colui che abbia svolto nei cinque anni antecedenti alla data della richiesta d’iscrizione all’Albo “attività lavorativa per almeno due anni in modo continuativo con qualifica di dirigente alle dipendenze di un’impresa di assicurazione, pubblica o privata o di un’impresa prevista dall’art. 5 della legge istitutiva dell’albo dei mediatori di assicurazione”. La sussistenza di tale requisito costituisce titolo equipollente della prova d’idoneità di cui all’art. 4, lettera d), della medesima legge. La peculiarità del caso di specie consiste nel fatto che, a richiedere l’iscrizione, sarebbe il presidente del consiglio di amministrazione, di una s.r.l. di mediazione assicurativa, investito della rappresentanza legale e dei poteri di ordinaria amministrazione. Riguardo alla figura del presidente del consiglio di amministrazione di una società, si osserva che esso decide quale primus inter pares all’interno del consiglio di amministrazione, contribuendo a formare la volontà dell’ente ed a fissare le linee generali per il raggiungimento degli scopi sociali. La natura della carica, quindi, è la medesima degli altri amministratori, ma sul piano concreto tale figura è arricchita dal potere di esprimere il voto decisivo in seno al consiglio e dal potere di rappresentanza esterna della società. Nel caso in cui il Presidente sia anche l’unico amministratore abilitato a trattare gli affari assicurativi in quanto broker, egli accentra la sua primarietà all’interno dell’organo amministrativo e, per quanto qui interessa, può dirsi che sviluppi quella esperienza nel settore richiesto dalla legge ai fini dell’equipollenza. Ciò stante, si è ritenuto coerente superare il dato strettamente letterale, in favore di un’interpretazione teleologicamente orientata al rispetto della ratio della norma: l’iscrizione non solo dei dirigenti alle dipendenze d’imprese di assicurazione o di mediazione assicurativa, bensì anche di coloro i quali nel periodo d’osservazione, nell’ambito della determinazione dell’indirizzo generale dell’impresa, abbiano direttamente gestito affari assicurativi così da acquisire tutte quelle competenze che renderebbero “superfluo” l’esame d’idoneità, in misura pari rispetto ad un eventuale dirigente-dipendente. 25.16. Cancellazione dall’Albo agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 11, ult.co., legge 48/1979. Retroattività del relativo provvedimento. Con riguardo agli effetti di una cancellazione dall’Albo agenti per perdita dei requisiti di inscrizione, si è osservato che iscrizione e cancellazione si presentano come atti interamente vincolati sia nell’emanazione, che nel contenuto e negli effetti, in quanto tali privi di margini di discrezionalità. Nel caso di cessazione del mandato agenziale e di conseguente trasferimento dell’agente, con effetto dalla stessa data, - vale a dire, come l’art. 11 L. agenti prevede, dalla data di risoluzione del rapporto agenziale - alla seconda sezione dell’Albo, questi, non avendo ricevuto altri incarichi nei successivi cinque anni, deve essere cancellato d’ufficio; infatti, l’art. 11 legge agenti, prevede che “sono cancellati dall’albo gli iscritti alla seconda sezione ai quali per cinque anni non siano stati conferiti incarichi di agenti”. Nel caso in cui la cancellazione non sia stata effettuata per non avervi provveduto il Ministero dell’Industria, pur ricorrendo i requisiti previsti dalla legge, si è ritenuto che si possa provvedere alla cancellazione dell’agente dall’Albo con effetto retroattivo, a decorrere dalla data di verificazione della condizione richiesta dalla legge. 25.17. Iscrizione nell’Albo degli agenti di assicurazione di subagente professionista con il titolo equipollente alla prova di idoneità; criterio della prevalenza e/o esclusività dell’attività professionale svolta – Art. 5 lettera c), punto 4), della legge 7 febbraio 1979, n. 48. Per trovare soluzioni esaurienti alla problematica relativa alla prevalenza o esclusività richieste ai fini dell’equipollenza dall’art. 5, lett. c), punto 4, legge n. 48/79, occorre preliminarmente soffermarsi sulla ratio sottesa alla norma. Sotto questo profilo, poiché i titoli equipollenti sono sostitutivi dell’esame di idoneità, è necessario che essi siano tali da garantire il possesso di quelle cognizioni che normalmente sono oggetto di accertamento in sede di esame. Ed è per comprovare il possesso della necessaria qualificazione professionale che l’art. 5 lettera c), punto 4) della legge 48/79 richiede il compiuto svolgimento dell’attività subagenziale in modo “esclusivo”, o, quantomeno, prevalente. Infatti, qualsiasi altra attività svolta in modo abituale, cioè “non meramente occasionale”, e prevalente, vale a dire con assorbimento continuo d’impegno lavorativo, confliggerebbe con l’interesse che la legge intende soddisfare, sottraendo possibilità di apprendimento e specializzazione al subagente. Tale principio trova applicazione, in via generale, a prescindere dalla natura dell’attività effettivamente svolta dal subagente, che in ipotesi può essere anche estranea al settore assicurativo. Considerato, infatti, che la norma non contiene alcun riferimento ad una possibile diversità di disciplina in relazione al tipo di attività svolta, sarebbe una forzatura introdurla in via interpretativa. In particolare, nel caso in cui il soggetto svolga attività di promozione finanziaria – pur sussistendo un’indubbia affinità fra quest’ultima e quella assicurativa, quantomeno nel settore vita – le considerazioni appena svolte fanno dubitare della possibilità di assimilare tale attività a quella assicurativa in senso stretto e, pertanto, essa dovrebbe necessariamente classificarsi come attività estranea, con tutte le relative conseguenze in ordine alla disciplina applicabile. Ciò non esclude, in una logica evolutiva che sconta l’ampliamento di operatività in campo agenziale, la possibilità di ricondurre nell’area delle mansioni subagenziali anche alcune attività tipiche dell’intermediazione finanziaria. Infatti, considerato che la norma in esame è interamente incentrata sul conferimento dell’incarico da parte dell’agente, è possibile che il subagente, in virtù di apposita delega, si trovi a svolgere anche attività di tipo finanziario, se essa rientra nell’attività svolta dall’agente. Precisato ciò, il problema di più ardua soluzione concerne la ricerca del criterio individuativi del concetto di prevalenza. In assenza di più obiettivi parametri, sembra che l’interpretazione possa fare perno – in linea con le indicazioni lessicali della norma – sul concetto di “abitualità e prevalenza”. La nozione di prevalenza potrebbe desumersi, a contrario, da quella di occasionalità, intesa come episodicità e discontinuità. Ciò comporta che l’iscrizione in virtù di titolo equipollente potrebbe essere concessa esclusivamente a coloro i quali abbiano eventualmente svolto anche altre attivita’, oltre a quella subagenziale, ma solo in modo marginale. L’assunto trova conforto in una rara giurisprudenza per la quale, nel biennio di interesse, si possono svolgere attività diverse, esclusivamente di natura marginale ed occasionale, sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo (Tribunale di Salerno, Prima Sezione Civile, n. 2440 del 15/11/97). Conclusivamente, la norma in oggetto dovrebbe essere interpretata ammettendo l’iscrizione all’Albo Agenti non solo di chi abbia svolto esclusivamente attività subagenziale, ma anche di coloro i quali abbiano svolto tale attività in modo prevalente ed abituale, limitando l’attività estranea ad episodi occasionali e marginali. 25.18. Art. 5, lett. c), della legge 7 febbraio 1979, n 48 – titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’albo nazionale degli agenti di assicurazione – collaboratore di impresa familiare La richiesta di iscrizione nell’Albo agenti è stata esaminata con riguardo all’equipollenza maturata attraverso collaborazione ad un’impresa familiare. L’istituto dell’impresa familiare è stato introdotto con la legge 19 maggio 1975 n. 151 che ha radicalmente modificato il “sistema” del diritto delle persone e della famiglia. Scopo principale dell’istituto è la tutela – con una disciplina da considerarsi di ordine pubblico, imperativa ed inderogabile – del lavoro prestato nell’ambito della famiglia, in precedenza oggetto di provvedimenti legislativi caratterizzati da frammentarietà ed aventi come comune denominatore l’esclusione di tale forma di prestazione di lavoro dal novero dei rapporti di lavoro subordinato e la sua riconduzione nell’ambito delle prestazioni gratuite effettuate benevolentiae vel affectionis causa. La nuova disciplina, avente carattere fortemente innovativo, è stata considerata da parte della dottrina quale “statuto” del lavoratore familiare in quanto stabilisce i diritti inderogabili spettanti allo stesso - diritto agli utili ed agli incrementi, diritto di prelazione e diritto alla liquidazione della quota - ed il potere di prendere parte agli atti più rilevanti in seno all’impresa, concorrendo alle scelte programmatiche che ne influenzeranno la gestione. Per esplicita dizione dell’art. 230 bis C.C., peraltro, l’istituto ha carattere residuale nel senso che l’esistenza di un diverso titolo di prestazione di lavoro ne esclude l’applicabilità. Se, infatti, la natura dell’art. 5, lett. c), della legge 7 febbraio 1979 n. 48 di norma derogatoria del regime generale di iscrizione presso l’albo agenti di assicurazione lascia orientare per l’insuscettibilità di una sua interpretazione analogica, negare recisamente che la collaborazione fornita nell’ambito di impresa familiare possa essere assimilata alla prestazione di lavoro subordinato avrebbe come effetto la sottoposizione di un tale prestatore di lavoro ad un trattamento deteriore rispetto agli altri; sarebbe questo un risultato interpretativo ben singolare dal momento che, come si è visto, l’istituto dell’art. 230 bis C.C. è nato proprio per tutelare il lavoro prestato nell’ambito della famiglia. L’impasse può essere superata, con il richiamo alla disciplina fiscale dettata in tema di impresa familiare dall’art. 5, comma 4, del D.P.R. 29/09/1973 n. 597 e successive modificazioni ed integrazioni. I redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49 % dell’ammontare risultante dalla dichiarazione annuale dell’imprenditore, possono essere imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la propria attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Tale imputazione è possibile a talune condizioni, tra cui quella che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti. Ai fini fiscali, pertanto, non è irrilevante che l’impresa familiare sia stata formalizzata o meno. L’istituto, invece, secondo l’opinione prevalente presso la dottrina civilistica, non ha natura negoziale ma si costituisce in base al comportamento volontario e consapevole dei partecipanti, comportamento che acquista rilevanza giuridica per la sua effettività, anche se non è escluso che i familiari possano concludere un accordo avente ad oggetto la predeterminazione del valore da attribuire alla prestazione lavorativa, sotto condizione del reale suo svolgimento secondo la quantità e qualità considerate. Anche sotto il profilo processualistico, d’altra parte, è orientamento consolidato della giurisprudenza che, determinando l’impresa familiare un rapporto associativo preordinato alla tutela del lavoro familiare, le controversie relative siano di competenza del giudice del lavoro ricadendo sotto l’ipotesi prevista dall’art. 409 n. 3 c.p.c. e cioè del rapporto di collaborazione con carattere di parasubordinazione (Cass., 5973/1991; Cass., 6070/1984; Cass., 2537/1983; Cass., 891/1981). Alla luce di quanto sin qui detto, si ritiene che la questione prospettata possa essere risolta in senso favorevole all’equiparazione, ai fini del possesso del titolo equipollente all’esame di idoneità per l’iscrizione presso l’albo agenti, fra prestazione di lavoro nell’ambito dell’impresa familiare e prestazione di lavoro subordinato. Si potrà assumere, dunque, come riferimento il già citato art. 5, lett. c) legge 48/1979, purchè tale partecipazione sia provata in base a dati documentali certi ed oggettivi. Più in particolare, sembra possibile porre come condizione del riconoscimento del titolo equipollente l’esistenza di un atto pubblico o scrittura privata autenticata, antecedente a tutto il periodo di esercizio dell’attività che s’intende far valere quale titolo equipollente ai fini dell’iscrizione all’albo, dalla quale risulti almeno: 1 - l’indicazione nominativa del partecipante de quo e del suo rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore; 2 - l’indicazione delle mansioni assegnate al partecipante; 3 - che dette mansioni siano strettamente relative all’assunzione e alla produzione, ovvero alla gestione e alla trattazione di affari assicurativi. Si è detto in precedenza come la dottrina civilistica abbia sottolineato il profilo dell’effettività della prestazione del lavoro all’interno dell’impresa familiare, profilo che assurge al ruolo di scaturigine della rilevanza giuridica del rapporto in parola. Si ritiene che la produzione di documentazione di data certa, da un lato, e di dichiarazione sostitutiva sotto la propria responsabilità, anche penale, in caso di reticenza o mendacio, dall’altro, possano limitare fortemente, se non addirittura di eliminare, rischi di tentativi – da parte di soggetti che non abbiano effettivamente prestato il proprio lavoro all’interno di impresa familiare realmente esistente o che abbiano ricoperto mansioni che non garantiscano l’acquisizione neppure della minima professionalità necessaria – di iscrizione in esonero dalla prova di idoneità. 25.19. Cancellazione dall’Albo Nazionale degli Agenti di assicurazione: effetti della sentenza declaratoria di fallimento Si è affrontata la questione relativa all’automatismo tra dichiarazione di fallimento e cancellazione dall’Albo. Il dato testuale dell’art. 9 legge n. 48/1979, infatti, non sembra lasciare spazio per dubbi di sorta, identificando nella cancellazione un adempimento, allorchè si verifichi uno dei presupposti previsti, non solo necessario ma anche scevro da qualsiasi profilo di discrezionalità. Sotto quest’aspetto, si ritiene che la cancellazione debba conseguire alla dichiarazione di fallimento indipendentemente dalle determinazioni assunte quanto all’apertura di procedimento disciplinare con riguardo a fatti a quella pronunzia successivi. Si ritiene, altresì, che la cancellazione non possa che avere effetto a far data dall’emanazione del relativo provvedimento, la contestualità con la dichiarazione di fallimento essendo preclusa, da un lato, dal fatto che tale provvedimento giudiziale si configura, come visto, come mero ed autonomo presupposto della cancellazione medesima e, dall’altro, dalla mancanza d’un momento di collegamento che consenta all’IS.V.A.P. di conoscere, “in tempo reale”, le eventuali pronunzie di fallimento relativamente a soggetti iscritti all’albo agenti. 25.20. Iscrizione nell’albo agenti di assicurazione, ai sensi dell’art. 5, comma I, lett. c), n. 1, di un dirigente della Consap S.p.a. In merito all’iscrivibilità nell’Albo agenti di un dipendente della Consap, già in servizio presso l’I.N.A. prima della privatizzazione e del trasferimento alla nuova società di funzioni ed attività prima svolte dalla Compagnia privatizzata, si è preliminarmente osservato come costituisce jus receptum che le norme di natura derogatoria, come quelle che consentono l’iscrizione presso l’albo agenti senza sostenere l’esame prescritto dalla legge, siano di stretta interpretazione. Anche ciò che costituisce jus receptum, tuttavia, non può avere portata assoluta, in un’ottica interpretativa che tenga dovutamente conto delle istanze tutelate dalle norme in discorso ed altresì del fatto che le stesse sono state concepite e sono entrate in vigore prima che si realizzasse la privatizzazione dell’I.N.A., e il trasferimento di attività e dipendenti alla Consap. Alle dette norme, infatti, è sottesa la ratio della tutela della professionalità conseguita da soggetti che si siano trovati per un certo periodo di tempo in determinate condizioni. Non s’intende revocare in dubbio che la Consap S.p.a. non sia impresa di assicurazione; si tratta di considerare, tuttavia, che la stessa è stata costituita, nell’ambito del processo di privatizzazione dell’I.N.A., per la gestione di servizi assicurativi pubblici che non potevano essere più gestiti dal soggetto ormai privatizzato e che parte del personale preposto a detti servizi è stato allocato presso il nuovo soggetto oblato del loro svolgimento. In un quadro siffatto, un’interpretazione nel senso dell’esclusione del soggetto istante dal possesso del titolo equipollente per l’iscrizione all’albo agenti – considerato che presso la Consap S.p.a. ha continuato a disimpegnare le stesse funzioni (prima svolte presso l’I.N.A.) – non convince. Essa, infatti, per un verso appare stridente con la ratio generale dell’art. 5 (tutela delle professionalità acquisite in materia assicurativa) e, per altro verso, manifesta l’eventualità (ragionevolmente da considerarsi non remota) di una sostanziale disparità di trattamento tra un soggetto che, pur avendo conseguito realmente professionalità in materia assicurativa, non verrebbe iscritto ed altri che, solo per essere dirigenti di imprese assicurative stricto sensu (magari occupandosi in concreto della gestione del patrimonio immobiliare o del personale), invece, lo sarebbero. Le conclusioni rassegnate sono state nel senso del possesso da parte dell’istante del titolo equipollente all’esame d’idoneità per l’iscrizione presso l’albo agenti. 25.21. Iscrizione presso l’albo degli agenti di assicurazione di socio amministratore di S.n.c. ex art. 5, comma 1, lett. C), n. 3, legge 7/2/79 n. 48. L’esercizio d’agenzia assicurativa in forma societaria è vincolato dall’art. 6 legge n. 48/1979 all’iscrizione presso l’Albo del legale rappresentante della società ovvero di coloro che, muniti di necessari poteri, siano delegati della società allo svolgimento dell’attività di agente di assicurazione. Entrambi questi soggetti possono essere iscritti presso l’albo in quanto ne abbiano autonomamente titolo, senza possibilità alcuna di inferire, dalla sola qualità di amministratore, il possesso del titolo stesso. In un caso di specie è risultato che uno dei due soci, regolarmente iscritto all’albo, fosse delegato all’esercizio dell’attività agenziale. L’altro socio ben poteva assumere – giusta la regola dell’amministrazione disgiuntiva di cui al combinato disposto degli artt. 2257 e 2293 C.C. – il ruolo di amministratore ed inoltre – giusta il disposto dell’art. 2291 – rispondere verso i terzi – cui non può essere opposto il patto contrario – delle obbligazioni sociali. Da ciò, tuttavia, non si è ritenuto di poter dedurre, in mancanza di procura con data certa, il possesso del titolo equipollente per l’iscrizione presso l’albo in qualità di procuratore dell’agente. La procura di fatto è figura sconosciuta al vigente ordinamento che invece conosce (art. 1398 C.C.) la rappresentanza senza potere e la ratifica (art. 1399 C.C.) dell’attività prestata da chi era sprovvisto di poteri od ha ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli (ratihabitio mandato comparatur). Non è sembrato potersi dare tuttavia rilevanza a queste figure in quanto è da ritenersi che nella fattispecie che ne occupa sia richiesta la prova per iscritto, con atto di data certa, del conferimento della procura al socio che dovrà svolgere l’attività di agente per la società. D’altra parte l’attività di socio amministratore ben poteva essere limitata a compiti non afferenti alla trattazione di affari assicurativi; e ciò al di là del fatto che in ogni caso qualsiasi attività agenziale di natura assicurativa svolta da socio non fornito della detta procura doveva ritenersi svolta illegittimamente e non poteva essere valutata ai fini della maturazione del titolo equipollente ai fini dell’iscrizione all’albo. 25.22. Iscrizione nell’Albo agenti di assicurazione di dirigente di società non assicurativa ricoprente la carica di amministratore delegato di impresa assicurativa facente parte del medesimo gruppo della precedente. La norma dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979, si manifesta come disposizione che segna il limite inferiore quanto al riconoscimento della professionalità in discorso; la qualifica di dirigente, insomma, è quella minima per godere del titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti. Il principio ispiratore della norma che riconosce il detto titolo, pertanto, risiede nell’effettività dell’attività di trattazione d’affari assicurativi almeno a quel livello. La qualifica di amministratore delegato del richiedente l’iscrizione implica – verosimilmente, salva l’esistenza di atti di fissazione dei limiti alla delega – poteri amplissimi nell’attività di direzione e guida della società d’assicurazioni. Ed in tale ottica la posizione di quest’ultimo si connota per il possesso di professionalità e responsabilizzazione anche maggiore rispetto a quella del direttore generale il cui ruolo, è pur sempre limitato – nonostante la sua collocazione al vertice dell’organigramma delle risorse umane della società – al livello dell’esecuzione di decisioni prese da altri. In linea generale, infatti, all’amministratore delegato può essere conferita l’intera gestione dell’impresa in forma associata proprio sotto il profilo dell’assunzione delle scelte di fondo e della politica dell’impresa oltre all’attività d’organizzazione interna della compagine sociale. Le suesposte argomentazioni sono parse assorbenti rispetto alla questione della qualifica di dipendente: nell’ottica interpretativa di tipo teleologico qui seguita il tenore letterale della norma in analisi deve intendersi non nel senso della necessità di un rapporto di lavoro subordinato bensì d’un rapporto non occasionale e duraturo e, per così dire, funzionale tra il soggetto che intende valersi del titolo equipollente e l’impresa assicurativa presso la quale l’attività viene esercitata. In questo senso si è positivamente valutato l’orientamento di riconoscere all’amministratore delegato il godimento del titolo equipollente rispetto al superamento dell’esame d’idoneità per l’iscrizione all’albo agenti. CONTENZIOSO Il Servizio, in relazione al contenzioso instauratosi a seguito delle impugnazioni, da parte degli agenti, periti e broker, dei provvedimenti disciplinari e di quelli relativi al diniego di iscrizione negli Albi e nel Ruolo, ha raccolto le sentenze in argomento nell’anno in rassegna. Sembra utile procedere ad una disamina dei principi giurisprudenziali affermati in tale sede e ritenuti di maggior interesse. AGENTI Radiazione dall’Albo agenti – Mancata rimessa di premi alla compagnia – questione pregiudiziale – divieto di compensazione del debito dell’agente. “Compito essenziale dell’agente di assicurazione è quello di collaborare in via autonoma, a proprio rischio e spese, con un’impresa di assicurazioni, gestendone e sviluppandone gli affari in un ambito territoriale definito e curando i rapporti con l’utenza privata in modo da divulgare in maniera appropriata i diversi servizi assicurativi e da costituire un serio punto di riferimento per gli assicurati e che nel caso di specie gli elementi avanti ricordati (mancata rimessa di premi) confermano in maniera in equivoca che l’agente ha tenuto una condotta non conforme all’etica alla dignità e al decoro professionale, contravvenendo in maniera sistematica e grave agli obblighi negoziali contratti con l’impresa di assicurazioni, dando così prova di scarsissima affidabilità per la gestione futura delle risorse eventualmente affidategli dall’utenza”. E’ stato inoltre sottolineato che il legislatore proprio per “apprestare una particolare tutela agli interessi privati coinvolti in un settore nevralgico quale è quello del risparmio e dell’allocazione dei rischi” ha previsto “la costituzione di un apposito Albo ed appunto un sistema di sanzioni disciplinari che in relazione ad un dato momento storico sia idoneo a reprimere condotte che mettono a repentaglio gli interessi coinvolti”. “…Non può ritenersi esistente alcun nesso di pregiudizialità fra procedimento disciplinare iniziato a carico dell’attore ed il giudizio civile avente ad oggetto la legittimità del recesso per giusta causa della compagnia di assicurazione dal rapporto di agenzia, ove si consideri che la sospensione del procedimento disciplinare non risulta imposta da una specifica disposizione di legge. Né in ogni caso l’oggetto del procedimento civile appariva coincidente con gli addebiti mossi all’agente i sede disciplinare, ove appunto si valutò - -positivamente – la violazione di regole deontologiche dell’agente che giammai sarebbe stata esaminata dal giudice civile né avrebbe potuto in qualche modo rimanere condizionata dalle decisioni di tale Autorità” (cfr. Cass. S.U. n. 1532/97, TAR Lombardia Milano 30/9/1991, n. 1217, Cass. n. 466/1990). “…E’ bene precisare che anche successivamente alle contestazioni che sono poi sfociate nel procedimento disciplinare, il ricorrente non ha fatto alcunché per attenuare le conseguenze lesive prodotte dai mancati versamenti dei premi versati dagli assicuratine ha ritenuto di provvedere alla restituzione degli importi pacificamente dovuti alla compagnia, invece trincerandosi dietro un asserito diritto alla corresponsione di somme a diverso titolo dovute dalla compagnia che peraltro,….non l’avrebbero abilitato a compensare le due voci di credito-debito”. (Tribunale di Palermo 28/2/1999, n. 2382) Radiazione dall’Albo Agenti Questione pregiudiziale –rifiuto opposto dall’agente di esibire la documentazione della società nel corso di una ispezione dell’Isvap - verbali ispettivi della compagnia: atti con efficacia probatoria privilegiata. “…Il procedimento disciplinare è indipendente e autonomo rispetto agli eventuali giudizi penali e civili in corso di svolgimento, non subendo alcuna pregiudizialità in tal senso, in quanto caratterizzato da un oggetto e da un fine diverso”… “Pertanto nulla vieta all’Amministrazione di intervenire in termini disciplinari, pur pendendo giudizi civili e penali sui medesimi fatti, qualora ritenga il quadro probatorio sufficiente ai fini dell’adozione della sanzione”. “…I verbali dei funzionari della compagnia, pur non essendo atti pubblici, sono caratterizzati da una specifica consistenza probatoria”. Sul punto cfr. anche Corte d’Appello di Roma 25/5/1995, n. 1891: “…Gli ispettori dell’Isvap – per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 4 l. 576/82, nel T.U. n. 449/59 e nelle leggi e regolamenti in materia – sono da considerare, nell’esercizio dell’attività di vigilanza assicurativa, non solo pubblici ufficiali, ma anche ufficiali di polizia giudiziaria”. “…Va altresì rammentato che i verbali redatti dagli ispettori dell’Isvap, nell’espletamento delle loro funzioni di rilievo e controllo, hanno il valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2700 c.c.” (adde Cass. 15/5/1991, n. 5444). (Tribunale di Roma 15/2/2000, n. 4391) Radiazione dall’Albo Agenti – Mancata rimessa dei premi alla compagnia mandante – falsificazione degli attestati di rischio – addebito della responsabilità a carico del subagente - “…La responsabilità del subagente non esclude quella del debitore”. Sul punto cfr. anche Tribunale di Roma n. 5024/93: “…La commissione delle irregolarità da parte del subagente non pare, poi, costituire una valida esimente dovendo l’attore rispondere non solo del proprio operato, ma anche di quello dei propri collaboratori”. Il Tribunale ha inoltre precisato che in un bilanciamento di interessi, viene dato un maggiore peso al carattere pubblicistico ed indisponibile della normativa riguardante il funzionamento dell’Albo agenti, rispetto ad un accordo conciliativo raggiunto tra l’agente stesso e la società in un giudizio avente ad oggetto il recupero delle somme dovute alla compagnia. (Tribunale di Roma 29/3/2000, n. 9731) In un caso di accordo transattivo raggiunto in un verbale di conciliazione tra un agente radiato e la compagnia nel quale, da un lato quest’ultima riconosceva l’insussistenza dei presupposti del recesso per giusta causa, e dall’altro l’agente stesso ammetteva la sua posizione debitoria, il Tribunale ha chiarito che “…non sembra che tale verbale possa dimostrare – come l’attore pretende – l’erroneità del provvedimento impugnato. Non può sicuramente attribuirsi valore decisivo alle valutazioni espresse, sui fatti posti a base della sanzione, dalla compagnia assicuratrice interessata, tanto più quando tali valutazioni trovino la loro collocazione in una sede transattiva. Infatti il procedimento disciplinare è comminato in vista dell’interesse generale al corretto esercizio dell’attività di agente ed è perciò sottratto alla disponibilità della parte offesa”. (Tribunale di Roma n. 7980/91) Rigetto della domanda di iscrizione nell’Albo agenti formulata ai sensi dell’art. 5, lett. c), n. 2 legge n. 48/79 “…Anche se risulta osservato il requisito dello svolgimento di attività lavorativa subordinata alle dipendenze di una impresa privata di assicurazione, non altrettanto può dirsi per il requisito della natura dell’attività in concreto svolta. Non pare dubbio infatti che la ratio legis sia quella di surrogare la esperienza maturata dall’aspirante nel settore assicurativo alla prova di idoneità per esami, altrimenti necessaria per l’iscrizione all’Albo….La norma in sostanza, richiede che l’attività del dipendente abbia diretta attinenza con l’esercizio dell’attività assicurativa svolta dall’impresa. Ne consegue che l’attività utilmente valutabile è esclusivamente quella – svolta in modo continuativo – consistente nella stipula di contratti assicurativi, procacciamento di affari relativi a diversi rame assicurativi, attività concernente la fase esecutiva dei contratti, ovvero nelle attività propedeutiche o comunque strettamente connesse al rapporto assicurativo”. (Tribunale di Roma n. 10987/99) Rigetto della domanda di iscrizione nell’Albo agenti formulata ai sensi dell’art. 5, lett. C), punto 4, legge n. 48/79 “…L’art. 5 non impone lo svolgimento in via esclusiva dell’attività subagenziale, in quanto la norma stabilisce espressamente che l’espletamento di detta attività avvenga prevalentemente. Orbene…risulta provato che l’attività di procacciatore d’affari assume un ruolo del tutto marginale e secondario rispetto a quella di subagente…”. Radiazione dall’Albo agenti – Mancata rimessa dei premi alla compagnia – mancato rilascio di attestati di rischio – Sottoscrizione arbitraria di altre polizze – Rilevante ammanco di cassa emerso a seguito di controllo contabile A fronte degli addebiti contestati, l’attore ha addotto a sua discolpa l’esistenza di una dissestata rete agenziale, nonché una non corretta amministrazione da parte della società. Al riguardo il Tribunale ha affermato “…resta l’ineludibile dato per cui anche un non buon rapporto fra preponente e agente, così come una dissestata rete subagenziale, quand’anche sussistenti, non avrebbero potuto giammai giustificare gli ammessi fatti di incameramento delle cospicue somme predette ed i conseguenti comportamenti adottati contro la deontologia dell’attività in questione, anche dopo la revoca del mandato per giusta causa. [...I fatti commessi] costituiscono comunque uno strappo particolarmente grave all’etica professionale , con il corrispondente vulnus al decoro della relativa figura professionale, tale che gli organi competenti non avrebbero potuto limitare al richiamo od alla censura la sanzione da adottare. [L’attore] non ha compiuto una semplice e rilevante manchevolezza, ma ha concretato una sistematica violazione … provocando così una grave lesione all’etica della professione, con tutte le prevedibili conseguenze nel tessuto dei rapporti economici interessati”. (Tribunale di Salerno n. 1083/92) Sul punto cfr. anche Tribunale di Salerno n. 764/99 “…L’agente impugnante risulta aver effettivamente integrato una condotta costituente grave vulnus all’ordinamento professionale protetto: ciò perché non può negarsi che l’etica, la dignità ed il decoro della professione escano lesi profondamente dalla tenuta del rapporto agenziale sopra esaminata, con il disordine amministrativo e contabile rilevato e con l’emersione di un pesante debito nei confronti dell’impresa mandante. Né va sottovalutato l’allarme che condotte di questo tipo sono idonee a generare, oltre che rispetto agli interessi economici e fiduciari della compagnia, preponente, anche e non secondariamente nei riguardi della sfera degli assicurati i quali,per le rilevate irregolarità, ben hanno o comunque avrebbero potuto risentire pregiudizio nei loro rapporti con l’impresa assicuratrice”.(Conforme: Tribunale di Roma n.1585/94). Da quest’ultima sentenza è emerso un altro importante principio secondo cui, il fatto che il legislatore abbia istituito un apposito Albo degli agenti – con la previsione di speciali requisiti per l’iscrizione e la creazione di organi di controllo e disciplinari, - dimostra che nel nostro ordinamento si è ritenuta la necessità di assicurare che la professione di agente, proprio per la sua rilevanza sul piano economico e sociale e al fine di tutelare le parti contraenti, sia improntata al massimo rispetto dei suddetti valori. Radiazione dall’Albo agenti – Contemporaneo esercizio delle attività di agente e mediatore di assicurazione – A seguito di alcune indagini ispettive svolte dall’Isvap - si è accertato che l’attore di fatto svolgeva anche attività di mediatore di assicurazione, fornendo consulenza assicurativa ai clienti di una società di mediazione assicurativa, percependo il relativo compenso. “…Quanto alla sanzione irrogata, nella misura massima prevista dalla legge, essa deve ritenersi adeguata alla gravità ed alla reiterazione dei comportamenti contrari alla legge”. Sul punto specifico cfr. anche Tribunale di Roma n. 19289/99. (Tribunale di Roma n. 86711/95) Radiazione dall’Albo agenti – Mancata rimessa di premi alla compagnia mandante – “…La materia del maneggio di denaro è certamente tale da condizionare la stessa sussistenza del rapporto agenziale che si basa su regole di lealtà, efficienza e chiarezza essenziali per l’immagine dell’assicuratore (inevitabilmente legata a quella dell’agente) e per il buon funzionamento dell’attività assicurativa. E non è casuale del resto che l’art. 4, lett. C), legge n. 48/79, vieti l’iscrizione all’Albo di colui il quale sia stato condannato per qualsiasi delitto contro il patrimonio, compresi quelli di minore allarme sociale”. (Tribunale di Palermo, ordinanza del 14/3/1997). Radiazione dall’Albo agenti – Irregolarità nella gestione agenziale – mancata rimessa di premi - emissione di assegni in difetto di provvista e di assegni post-datati Nel caso specifico, l’attore - deducendo che le gravi irregolarità emerse erano da ascriversi esclusivamente ai comportamenti illeciti posti in essere dal suo socio, anch’esso delegato allo svolgimento dell’attività agenziale invoca la sua estraneità ai fatti contestati in quanto “non si sarebbe mai occupato della gestione dell’agenzia”. Al riguardo il Tribunale afferma in primo luogo che “non risulta in alcun modo provata l’estraneità dell’attore dai fatti contestati; non è chiaro come l’attore non si fosse reso conto di un ammanco di cassa così rilevante (circa £. 560 mil.) creato in meno di due anni”. In conclusione il Tribunale sostiene “anche a voler aderire alla tesi di parte attrice – la quale deduce di non aver partecipato alla gestione dell’attività – il fatto palesa, oltre che grave violazione del contratto di agenzia, una grave inosservanza dei doveri propri di agenti iscritto all’Albo che, come tale, ha l’obbligo di operare in rappresentanza e nell’interesse dell’impresa nonché nell’interesse degli stessi assicurati. Pertanto, delle gravi irregolarità che hanno interessato l’agenzia – a prescindere da eventuali ulteriori o diverse responsabilità – deve rispondere anche l’attore il quale era tenuto in prima persona a garantire il corretto andamento della gestione assumendo tutte le iniziative del caso”. (Tribunale di Roma n. 9648/2000) Radiazione dall’Albo agenti – Questione relativa al riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A. – In occasione di un ricorso innanzi al Tribunale di Napoli, promosso da un agente di assicurazioni a seguito di un provvedimento di radiazione dall’Albo, è stato eccepito dall’Isvap il difetto di giurisdizione del G.O.. In particolare il Giudice del lavoro di Napoli, accogliendo quanto prospettato dall’Istituto, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione a favore del G.A., secondo quanto stabilito dall’art. 33 d.lgs. 80/98. Rilevante appare la precisazione secondo cui “…Indubbiamente l’irrogazione di un provvedimento disciplinare …costituisce atto sintomatico dell’espletamento del potere di vigilanza e quindi rientrante nella materia soggetta alla cognizione della giurisdizione amministrativa”. (Tribunale di Napoli, sentenza pronunciata all’udienza del 10/1/01, depositata in cancelleria il 15/1/01) PERITI “…Per esercitare l’attività di consulente tecnico del giudice per la stima e l’accertamento dei danni conseguenti alla circolazione di veicoli a motore, è necessaria la previa iscrizione nel Ruolo dei Periti la cui omissione concreta l’elemento materiale del reato di cui all’art. 348 c.p., poiché solo detta iscrizione abilita all’esercizio professionale della citata attività”. (Corte Sprema di Cassazione, sez. penale n. 2811/2000). Radiazione dal Ruolo periti – Violazione dell’art. 5, comma 2, l. 166/92 – “…L’incompatibilità sancita dall’art. 5, comma 2, l. 166/92, è pressoché assoluta, affatto residuale essendo l’ipotesi delle deroghe già concesse per un fine particolarissimo quale l’aggiornamento della qualità professionale che tra l’atro, dà ragione, per il suo limitatissimo ambito, alla assolutezza di quella incompatibilità. (Tribunale di Catania, decreto del 16/7/1999) Rigetto della domanda di iscrizione al Ruolo formulata ai sensi dell’art. 5, lett. e), l. 166/92 A norma dell’art. 5, possono essere iscritti nel ruolo “coloro che risultano forniti di diploma di perito industriale in area meccanica o di laurea in ingegneria e risultano iscritti nei relativi albi professionale da almeno tre anni, avendo altresì esercitato per tre anni l’attività nel settore specifico che deve risultare da idonea documentazione anche fiscale”. Nel caso specifico, l’attore sosteneva che il requisito dell’effettivo esercizio dell’attività dovesse essere accertato non con riferimento al settore assicurativo bensì a quello meccanico per il quale è richiesto il possesso del diploma. Il Tribunale ha però ritenuto tale assunto destituito di fondamento. Infatti, “la norma di legge che consente l’accesso al ruolo nazionale in base al possesso di specifici titoli di studio, all’iscrizione nel relativo albo ed all’esercizio dell’attività nel settore specifico per un triennio, può trovare logica giustificazione soltanto nei limiti in cui i requisiti indicati consentano di riscontrare ex ante l’idoneità dell’aspirante all’esercizio dell’attività di stima e liquidazione dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e natanti soggetti all’assicurazione obbligatoria”. Conclusivamente si afferma che “…non sembra possa ritenersi soddisfatta tale ratio legis nel caso in cui il requisito in questione venisse integrato dall’effettivo esercizio di attività professionale del tutto estranee a perizie assicurative occorrendo, invece, che l’aspirante abbia maturato una pregressa esperienza nello specifico settore di attività regolamentato dalla legge 166/92”. (Tribunale di Roma n. 14357/1999) Esclusione dalla prova di idoneità per l’iscrizione nel ruolo periti – Carenza di giurisdizione del Tribunale – “…La giurisdizione compete esclusivamente al giudice amministrativo trattandosi di requisiti necessari per l’iscrizione nell’albo professionale, la cui valutazione in merito alla sussistenza è riservata alla P.A…..Al giudice amministrativo è riservato in esclusiva il controllo di legittimità dei provvedimenti emanati dalla P.A..” (Tribunale di Milano, n. 11880/00) MEDIATORI Radiazione dall’Albo – Ritardo nella trasmissione dei premi incassati – mancata comunicazione dei contratti conclusi – “…..Tale comportamento riveste indubbiamente il carattere di massima gravità, avendo fatto perdere la protezione assicurativa ai propri clienti e quindi violando l’obbligo precipuo e fondamentale del mediatore assicurativo. Pertanto il provvedimento di radiazione appare congruo e motivato in relazione al gravissimo comportamento del ricorrente…”. (Tribunale di Roma, 21699/98) LA RIFORMA DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO LEGGE N. 205 DEL 21 LUGLIO 2000 La legge n. 205 del 21 luglio del 2000 cambia il volto al processo amministrativo. Con un provvedimento organico e di grande respiro, infatti, viene realizzato un intervento “a tutto campo” che affronta alcuni dei problemi più urgenti della giustizia amministrativa: dalla tutela cautelare alla giurisdizione esclusiva, dalle sentenze in forma breve al risarcimento del danno. Alcune novità introdotte dalla legge n. 205/2000 interessano, in modo pregnante, l’attività dell’ISVAP; esse pertanto costituiranno l’oggetto del presente studio, che si prefigge di orientare gli “addetti ai lavori” nei meandri del processo amministrativo, così come modificato dalla suddetta legge con la tecnica ben nota, che potrebbe definirsi “chirurgica”, dell’innesto delle modifiche sulla normativa precedente. La giurisdizione amministrativa In via preliminare e sia pur brevemente, occorre rammentare la problematica del riparto di giurisdizione tra il Giudice Ordinario ed il Giudice Amministrativo, al fine di comprendere meglio le ragioni che hanno indotto il legislatore ad intraprendere la strada del cosiddetto criterio “per blocchi di materie”, introdotto con interventi legislativi più risalenti ed inequivocabilmente confermato e rafforzato dalla legge n. 205/2000. 1. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. Gli artt. 2, 3, e 4 della legge n. 1034/71 prevedono la generale giurisdizione di legittimità dei T.A.R. in materia di interessi legittimi. Il Giudice Amministrativo, infatti, sulla base del citato dettato normativo, ha competenza generale riguardo ad ogni controversia relativa alla legittimità di un atto amministrativo lesivo di interessi legittimi, fatte salve le materie riservate alla cognizione di giudici speciali. La giurisdizione in materia di diritti soggettivi spetta al Giudice Ordinario così come previsto dall’art. 2 della legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E (cosiddetta Legge Abolitrice del Contenzioso Amministrativo). La concorrenza delle due diverse giurisdizioni, com’e’ naturale, apre un dibattito dottrinario e giurisprudenziale, mai sopito, in ordine al criterio di attribuzione delle singole controversie alla cognizione dell’uno o dell’altro giudice. Si ricordano le principali teorie che, nel tempo, sono state elaborate: • teoria del petitum: il riparto di giurisdizione dipenderebbe dalla natura del provvedimento richiesto dal ricorrente. In particolare, la richiesta di annullamento del provvedimento radicherebbe la giurisdizione del G.A., mentre la richiesta di risarcimento del danno radicherebbe quella del G.O.; • teoria della causa petendi: l’attribuzione all’una o all’altra giurisdizione dipenderebbe esclusivamente dalla natura della posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, risultando, per gli interessi legittimi, competente il G.A., per i diritti soggettivi il G.O.; • teoria della norma violata: nel caso di violazione di norme di azione – vale a dire di norme che disciplinano l’esercizio dei poteri della P.A. nell’interesse pubblico – la competenza spetterebbe al G.A. poiché vi sarebbe lesione di un interesse legittimo;viceversa, nel caso di violazione di norme di relazione – che regolano, invece, i rapporti tra P.A. e cittadini – la giurisdizione sarebbe del G.O., risultando leso un diritto soggettivo; la teoria ripropone, in realtà, sia pure con una diversa formulazione, quella della causa petendi; • teoria della prospettazione: il criterio discretivo sarebbe dato dalla prospettazione della posizione giuridica non in sé, ma come operata dall’attore. In realtà, al di là dei criteri che con alterna fortuna guidano le propensioni della dottrina e le decisioni della giurisprudenza, è la stessa connotazione delle posizioni soggettive di base ad offrire incertezze, non risultando in concreto né chiara né equa la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, una scansione dicotomica questa che gli ordinamenti di altri Paesi ignorano. Una prima risposta a tale difficoltà di demarcazione è data dall’assegnazione di una competenza esclusiva al giudice amministrativo in materie specifiche nelle quali l’intreccio fra diritti ed interessi, merito e legittimità, fatto e diritto è così stretto da non consentire attribuzioni nette all’uno o all’altro ordine di giurisdizione. Il modello della giurisdizione esclusiva, che ha il pregio di accrescere i poteri del giudice amministrativo in punto non solo di annullamento dell’atto ritenuto illegittimo, ma anche di condanna al risarcimento dei danni conseguenti all’atto medesimo, è sicuramente presente nell’intenzione del legislatore allorché questi anticipa, con il d.lgs. n. 80/98, i tratti della riforma del processo amministrativo. Fra i due interventi legislativi si inserisce - è doveroso richiamarla - una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, riassumendo gli esiti di un approfondimento delle problematiche sottese alla distinzione “diritti soggettivi-interessi legittimi”, pone le premesse per un superamento della stessa dicotomia. Trattasi della sentenza n. 500/1999, di cui si parlerà in prosieguo. 2. Il D.lgs. n. 80/98 Il D.lgs. n. 80/98, recante “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59” costituisce un momento di svolta anche per quel che riguarda la giurisdizione amministrativa e, in particolare, la giurisdizione esclusiva. L’art. 33, comma 1, infatti, così recita nel testo antecedente alla riforma del processo amministrativo: “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni ed ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481…”. L’art 35, poi, innovando in materia, al primo comma – sempre nella versione che precede la modifica ex art. 7, l. 205/2000 - sancisce che: “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. Il medesimo art. 35 prevede, altresì che, nei casi previsti dal comma 1, il giudice possa determinare i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. La norma prevede, infine, che il Giudice Amministrativo, nelle controversie di cui si è detto, possa disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché la consulenza tecnica d’ufficio, esclusi soltanto l’interrogatorio formale ed il giuramento. E’ evidente il carattere innovativo delle norme in oggetto. Sotto il profilo del riparto di giurisdizione, infatti, viene estesa la giurisdizione esclusiva del G.A. ad alcuni settori particolarmente delicati a causa delle inevitabili difficoltà inerenti alla richiamata distinzione tra le posizioni di diritto soggettivo e quelle d’interesse legittimo (un bilanciamento è tuttavia dato dal contestuale trasferimento al G.O. della cognizione in materia di pubblico impiego privatizzato ai sensi del d.lgs. n. 29/93). La scelta appare rilevante anche per l’attività dell’ISVAP dal momento che, espressamente, viene fatto riferimento all’attività di vigilanza sulle assicurazioni. Della novità si segnala un primo riscontro giurisprudenziale nella sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale il Giudice del lavoro di Napoli, in accoglimento della tesi dell’ISVAP, dichiara il proprio difetto di giurisdizione a favore del G.A., secondo quanto stabilito dal cennato art. 33 d.lgs. 80/98, in relazione all’impugnazione, da parte di un agente di assicurazione, di un provvedimento di radiazione dall’Albo conseguente all’accertamento di responsabilità disciplinari. Di rilievo, in tale sentenza, è la precisazione secondo cui “l’irrogazione di un provvedimento disciplinare…costituisce atto sintomatico dell’espletamento del potere di vigilanza e quindi rientra nella materia soggetta alla cognizione della giurisdizione amministrativa…”. E’ appena il caso di ricordare che dall’art. 33 d.lgs. 80/98 il Servizio Legale dell’Istituto aveva dedotto l’abrogazione in parte qua delle norme in materia di Albi e Ruoli professionali, emanate precedentemente e contemplanti l’attribuzione al G.O. della competenza a sindacare la legittimità dei provvedimenti disciplinari a carico di agenti, broker e periti. Anche l’aspetto strettamente procedurale risulta interessato da cambiamenti di non poco momento: i mezzi probatori del giudizio civile, infatti, divengono applicabili anche al processo amministrativo, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento, per la evidente indisponibilità delle posizioni di pertinenza della P.A.. Fortemente innovativa risulta anche la previsione relativa al risarcimento del danno: l’art. 35, comma 1, prevede che il G.A. possa disporre il risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34. Questa ultima limitazione sembrava escludere analoghe prerogative nelle altre ipotesi di giurisdizione esclusiva, per le quali il cittadino sarebbe stato costretto al defatigante doppio giudizio, il primo dinanzi al G.A. per vedere riconosciuto il proprio diritto pregiudicato dall’atto amministrativo, il secondo dinanzi al G.O. per ottenere il risarcimento del danno conseguente all’illegittimo comportamento della P.A.. Sul punto, la dottrina maggioritaria proponeva una lettura correttiva della norma, in modo da estendere a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva il potere del Giudice Amministrativo alla cognizione in materia di diritti patrimoniali consequenziali. La questione ha trovato soluzione nella legge n. 205/2000. Per vero l’art 33 d.lgs. n. 80/98 è stato colpito, con sentenza n. 292 del 17 luglio 2000, da una pronuncia di annullamento della Corte Costituzionale per eccesso di delega, determinato dal fatto di aver ampliato la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di servizi pubblici, anziché essersi limitato ad “estendere in tale materia la giurisdizione amministrativa…alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno”. Il vuoto legislativo creatosi a seguito di tale pronuncia, tuttavia, è stato tempestivamente colmato dalla già ricordata riformulazione della norma ad opera della legge 205/2000. 3. La legge n. 205/2000 Lo spettro dei casi di giurisdizione esclusiva si amplia fino a diventare cifra connotatrice della riforma del processo amministrativo con la legge 205/2000. Gli artt. 6 e 7 di tale legge individuano nuovi casi nei quali le controversie sono attribuite alla cognizione del solo giudice amministrativo. L’art. 33 d.lgs. 80/98 viene riprodotto (sub art. 7) in maniera pressoché integrale, con l’unica modifica riguardante la limitazione della giurisdizione esclusiva, per quel che riguarda i settori del credito e del mercato mobiliare, alla sola attività di vigilanza, in modo da rendere la previsione speculare a quella relativa al settore assicurativo. Al riguardo si osserva che la norma, così com’è formulata, sembra precisare l’orientamento del legislatore in ordine al dibattuto problema della natura di pubblico servizio di talune attività. Essa, infatti, nell’attribuire genericamente tutte le controversie in materia di pubblici servizi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, specifica - riguardo al credito, alle assicurazioni e al mercato mobiliare - che la riserva di giurisdizione concerne esclusivamente la vigilanza su tali attività. Una precisazione di tal fatta sembra avere il significato di puntualizzare che la natura di servizio pubblico, in riferimento alle attività afferenti al credito, alle assicurazioni ed al mercato mobiliare, è riconosciuta non già a tali attività tout court, che restano attratte nella sfera del diritto d’impresa, bensì al solo svolgimento delle funzioni di vigilanza nei relativi ambiti, che sono di carattere incontestabilmente pubblicistico. Il secondo comma dell’art. 33 d.lgs. n. 80/98, infine, specifica, con un’elencazione da ritenersi peraltro non tassativa, alcune delle possibili controversie rientranti nella giurisdizione del Giudice Amministrativo in materia di pubblici servizi. Anche sotto il profilo delle disposizioni processuali applicabili, la legge n. 205/2000 presenta aspetti di notevole importanza. In particolare, l’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80/98, come modificato dall’art. 7 della legge in oggetto, pone fine alle discussioni concernenti la possibilità o meno, per il giudice amministrativo, di estendere la previsione relativa alla condanna della P.A. al risarcimento del danno ingiusto, a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva e non alle sole materie devolute alla sua cognizione ex. artt. 33 e 34 D.lgs. 80/98. L’art 35, comma 1, nella formulazione attualmente vigente, così recita: “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. La modifica introdotta dalla legge 205/2000, dunque, ha soppresso l’inciso “…nelle materie devolute…ai sensi degli artt. 33 e 34…”, facendo così venire meno quella che, ictu oculi, appariva come un’ingiustificata disparità di trattamento. In simili fattispecie, dunque, il G.A. potrà accordare il risarcimento del danno ingiusto anche se derivante dalla lesione di un interesse legittimo e non soltanto di un diritto soggettivo, conformemente alla ratio sottesa alla sussistenza stessa della giurisdizione esclusiva ed all’evoluzione giurisprudenziale, in tal senso avviata con la già ricordata sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione. Ulteriori disposizioni processuali in ambito di giurisdizione esclusiva sono state introdotte dagli artt. 6 ed 8, relativamente alle controversie su diritti. In particolare, l’art. 6 ammette la possibilità che tutte le controversie concernenti diritti vengano risolte mediante arbitrato rituale, con conseguente applicabilità degli artt. 806 e seguenti del codice di procedura civile. L’articolo in esame, conformemente agli indirizzi della giurisprudenza costituzionale, prevede solo come facoltà il ricorso all’arbitrato rituale. Ciò comporta che esso non possa essere considerato né alternativo alla tutela giurisdizionale, né tantomeno obbligatorio. Qualche perplessità, tuttavia, rimane in ordine all’applicabilità dell’arbitrato rituale nei casi in cui si assume che la lesione del diritto soggettivo sia stata provocata dall’utilizzo di pubblici poteri. Infatti, l’art. 806 c.p.c. esclude dall’istituto in esame le questioni che non possono formare oggetto di transazione, vale a dire quelle relativamente alle quali le parti non hanno la disponibilità delle rispettive posizioni giuridiche; tale, appunto, sembra essere l’esercizio dei pubblici poteri da parte della P.A. Da ultimo, sempre con riferimento alla possibilità di ricorrere all’arbitrato rituale di diritto, il legislatore ha previsto tale eventualità esclusivamente per le controversie concernenti diritti soggettivi, con ciò reintroducendo, all’interno della giurisdizione esclusiva, la tradizionale distinzione tra diritti ed altre posizioni giuridiche soggettive. L’art 8, L. 205/2000, infine, estende l’applicabilità del procedimento d’ingiunzione disciplinato dal codice di procedura civile alle controversie che abbiano ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale. Competente ad emanare l’ingiunzione è il Presidente del tribunale o un magistrato da lui delegato. L’opposizione, in deroga a quanto previsto dal c.p.c., si propone con ricorso. Al riguardo, si osserva che per diritti soggettivi di natura patrimoniale non pare sia possibile intendere i soli diritti al pagamento di somme di denaro, dovendosi viceversa ritenere ricompresi nella previsione di legge tutti quei diritti il cui oggetto presenti contenuti patrimoniali e restando in ogni caso attribuito al Giudice il compito di valutare, di volta in volta, la sussistenza di tale profilo. I procedimenti speciali L’art. 4, con l’aggiunta dell’art. 23-bis alla legge n. 1034/1971, introduce ulteriori novità attraverso la previsione della “corsia preferenziale” dei cosiddetti riti speciali. Il primo comma dell’art. 23-bis, L. 1034/71 delimita il proprio ambito di applicazione, individuando – con un’elencazione da ritenersi tassativa, trattandosi di disposizione che deroga alle ordinarie regole del processo amministrativo – i giudizi in relazione ai quali sono operative le norme del rito speciale. Ai fini del presente lavoro assume importanza la lettera d) la quale contempla i ricorsi avverso “i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti”, rendendo applicabile il procedimento in oggetto anche ai provvedimenti adottati dall’ISVAP, posto che l’Istituto deve ritenersi appartenente a tale categoria di enti, come meglio si dirà in seguito. Il secondo comma dell’art 23-bis dispone che “I termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso”, ponendo in luce, in tal modo, la ratio della norma, che è volta ad assicurare una rapida decisione del giudice nei settori interessati. L’esclusione dal dimezzamento del termine relativo alla presentazione del ricorso che, dunque, rimane di 60 giorni, rende verosimile l’assunto che il legislatore abbia voluto sottrarre alla ristrettezza dei tempi la predisposizione degli atti di impugnativa di provvedimenti concernenti settori particolarmente complessi e delicati. Altra peculiarità, in relazione alle controversie di cui al rito speciale in oggetto, attiene al deposito del dispositivo e della sentenza. Infatti, il comma 6 dell’art. 23-bis, l. TAR, prevede che il dispositivo delle sentenze relative al rito speciale di cui al comma 1 venga depositato in cancelleria entro sette giorni dalla data dell’udienza, ponendo in tal modo la premessa per un appello immediato, finalizzato anche alla sospensione dell’esecuzione della sentenza con riserva dei motivi, che andranno proposti entro trenta giorni dall’anzidetta pubblicazione del dispositivo. Tale previsione sembra potersi interpretare nel senso che la parte possa ottenere una tutela cautelare anticipata, avente ad oggetto esclusivamente il pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza. Utilizzando un siffatto rimedio, sarebbe dunque possibile ottenere un provvedimento i cui effetti si protraggono fino alla successiva Camera di Consiglio nella quale il Giudice, valutati i motivi che nel frattempo saranno stati presentati, potrebbe pronunciarsi effettivamente anche sul merito del gravame. Per tale via, invero, troverebbe ingresso nel giudizio di secondo grado una previsione analoga a quella introdotta ex art. 3 l. 205/2000, vale a dire la cosiddetta supersospensiva che, per l’appunto, produce i suoi effetti fino alla prima Camera di Consiglio utile. Riguardo alla questione dei termini, però è da sottolineare la presenza, nel testo legislativo, di talune incongruenze che destano perplessità e non sembrano di facile comprensione. Il comma 7 dell’art. 23-bis, infatti, prevede che il termine per proporre appello avverso le sentenze del TAR nei giudizi di cui al comma 1, sia di 30 giorni dalla notificazione ovvero di 120 giorni dalla pubblicazione della sentenza di primo grado; si dimezza, dunque, in tale ipotesi, il termine per la proposizione del ricorso. E’ di tutta evidenza la disparità di trattamento tra due situazioni analoghe: in entrambi i casi – ex art. 23-bis, comma 2 e comma 7, l. 1034/71 - si tratta della proposizione di un ricorso, l’ambito è il medesimo, eppure in un caso il termine è stato ridotto e nell’altro ciò non è avvenuto. In tal senso, l’unica possibile spiegazione potrebbe riguardare la circostanza che l’appello presuppone una pratica già istruita. Inoltre, relativamente alla proposizione dell’appello è disposto che il termine di 120 giorni decorra dalla pubblicazione della sentenza, ma di tale adempimento non è prevista la comunicazione, che è invece prevista con riferimento all’altro termine, anch’esso di 120 giorni, fissato per l’integrazione dei motivi dell’appello prodotto avverso il solo dispositivo della sentenza. Lo stesso comma 7, infatti così dispone : “La parte può, al fine di ottenere la sospensione dell’esecuzione della sentenza, proporre appello nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione del dispositivo, con riserva dei motivi, da proporre entro 30 giorni dalla notificazione ed entro 120 giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza”. Ancora in relazione ai termini, nulla è detto in ordine a quello per la proposizione del ricorso incidentale il quale, già proponibile in via ordinaria nel termine breve di 30 giorni, in assenza di espresse previsioni idonee ad escluderlo dal dimidiamento dei termini di cui all’art. 23-bis, sarebbe proponibile nel termine di appena 15 giorni. Da questo punto di vista, nell’impossibilità di comprendere la ragione per la quale l’esenzione dalla riduzione del termine dovrebbe valere per la proposizione del ricorso principale e non per quella del ricorso incidentale, sembrerebbe ragionevole, in una prospettiva costituzionalmente orientata, includere anche quest’ultimo nell’eccezione alla regola del dimezzamento. Quanto all’ambito applicativo del rito abbreviato in appello, il comma 8 dell’art. 23-bis, l. 1034/71, ne prevede l’applicabilità solo in presenza di un’istanza di sospensione della sentenza impugnata. Tale previsione è giustificata da quella ex art. 10, l. 205/2000 che introducendo un nuovo comma nell’art. 33 legge T.A.R., consente l’estensione del giudizio di ottemperanza anche alle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato: le esigenze acceleratorie che sono alla base del rito abbreviato, dunque, vengono meno in caso di sentenza eseguita o eseguibile per mezzo del giudizio d’ottemperanza. Altra disposizione di rilievo, nell’ottica dell’accelerazione del processo e quindi di una più rapida tutela nei settori indicati, è quella contenuta nel comma 3 dell’art. 23-bis. In esso si prevede che “Salva l’applicazione dell’art 26, quarto comma il tribunale amministrativo regionale, chiamato a pronunciarsi su una domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio, ovvero disposta l’ integrazione dello stesso…, se ritiene ad un primo esame che il ricorso evidenzi l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave ed irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza…”. Tale disposizione riguarda in tutta evidenza l’ipotesi di accoglimento della domanda cautelare da parte del giudice amministrativo di primo grado. Infatti, si prevede espressamente che il giudice, ad un primo esame, debba ritenere l’illegittimità dell’atto impugnato e la ricorrenza di un pregiudizio grave ed irreparabile nel darvi esecuzione. Ricorrendo i presupposti ai quali si è fatto cenno, dunque, l’udienza per la discussione del merito viene fissata al primo giorno utile successivo al termine di trenta giorni dal deposito della relativa ordinanza. Ciò, evidentemente, allo scopo di evitare che la concessione della misura cautelare produca l’effetto di paralizzare l’azione amministrativa, tenuto conto dei tempi che normalmente occorrono per giungere all’udienza di discussione del merito. La norma, peraltro, fa salvo il quarto comma dell’art 26 TAR, come modificato dal comma 1 della L. 205/2000, per cui, in caso di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, manifesta inammissibilità e improcedibilità dello stesso, il G.A. decide con sentenza “breve”, vale a dire con una sentenza succintamente motivata (se ne parlerà in appresso). In caso di rigetto dell’istanza cautelare da parte del TAR, invece, come previsto dal medesimo comma 3, se l’ordinanza del giudice di primo grado viene riformata dal Consiglio di Stato in accoglimento della domanda cautelare, la pronuncia di appello viene trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell’udienza di merito. In tal caso, il termine di trenta giorni inizia a decorrere dalla data in cui la segreteria del TAR – che ne dà avviso alle parti – riceve l’ordinanza. Nel giudizio cautelare di cui all’articolo in esame, le parti possono depositare documenti entro il termine di 15 giorni dal deposito o dal ricevimento delle ordinanze di cui si è detto e possono depositare memorie nei successivi dieci giorni. Con le ordinanze di cui al comma 3, ove sussista l’ulteriore elemento dell’estrema gravità ed urgenza e siano specificati i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso, i giudici amministrativi di primo o di secondo grado possono altresì disporre “opportune misure cautelari”, come contemplato nel comma 5. E’ da notare che il legislatore, contrariamente alle normali ipotesi di richiesta di sospensiva, richiede espressamente che il ricorso evidenzi “l’illegittimità dell’atto impugnato”, con conseguente, inevitabile aggravio nella stesura della motivazione, che dovrà senz’altro essere più articolata in relazione a tale profilo. Altro aspetto d’interesse riguarda la differenza tra le ordinanze di cui, rispettivamente, ai commi 3 e 5 che sembrerebbe consistere, secondo parte della dottrina, nel fatto che con le prime si dispone esclusivamente la sospensione del provvedimento impugnato, mentre con le seconde si possono disporre le misure che il giudice ritenga più opportune in relazione al caso concreto. E’ da segnalare, tuttavia, in merito al contenuto delle ordinanze di cui al comma 3, una difformità di opinioni dottrinarie. Secondo la prevalente dottrina, infatti, con tali ordinanze non si concederebbe la sospensione del provvedimento impugnato, avendo le stesse l’unica funzione di anticipare la trattazione del merito del ricorso alla prima udienza utile. In presenza dei presupposti di cui si è detto, dunque, non vi sarebbe concessione del rimedio cautelare, ma solo un’ accelerazione del processo. Anche i presupposti di adozione dei due provvedimenti sarebbero in parte differenti, dal momento che il riferimento all’elemento dell’estrema gravità ed urgenza, rispetto al tradizionale presupposto del pregiudizio grave ed irreparabile è contenuto nel solo comma 5; inoltre, il requisito dell’estrema gravità ed urgenza sarebbe idoneo anche a legittimare l’istanza cautelare di cui all’art. 3, comma 1, L. 205/2000, ai fini della cosiddetta “supersospensiva”. Le misure cautelari, nell’ambito individuato dall’art. 23-bis, non costituirebbero, in conclusione, un’eventualità ordinaria, bensì un rimedio da accordare solo nell’ipotesi della sussistenza dell’ulteriore requisito dell’estrema gravità ed urgenza, così come previsto dal comma 5. Resta comunque poco chiara la differenza tra il concetto di “pregiudizio grave ed irreparabile” e quello di “estrema gravità ed urgenza”, così come mal si comprende la ragione per la quale, in presenza di un pregiudizio grave ed irreparabile, il Giudice debba limitarsi a fissare l’udienza del merito, sia pure a 30 giorni, senza poter sospendere il provvedimento impugnato. Fondamentalmente, dunque, in presenza del duplice requisito “del pregiudizio grave ed irreparabile” e “dell’illegittimità dell’atto impugnato”, il G.A. potrebbe soltanto fissare l’udienza ravvicinata del merito, mentre per ottenere la concessione delle opportune misure cautelari occorrerebbe l’ulteriore requisito dell’estrema gravità ed urgenza, laddove normalmente, per la sospensione del provvedimento impugnato, è sufficiente la prospettazione del pregiudizio grave ed irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato o dal comportamento inerte dell’amministrazione. In ipotesi di tal fatta, si pone l’ulteriore interrogativo del comportamento che la P.A. debba tenere nelle more dell’udienza fissata per la trattazione del merito. E’ evidente che non essendo stato il provvedimento sospeso, la P.A. potrebbe portarlo ad esecuzione; tuttavia, ciò avverrebbe in presenza di un’ordinanza che ne dichiara l’illegittimità e della possibilità di arrecare un pregiudizio grave ed irreparabile. Eseguendo il provvedimento, pertanto, l’Amministrazione corre il rischio di essere condannata al risarcimento del danno. Per questa ragione, appare opportuno che la stessa si astenga dal portarlo ad esecuzione. In conclusione, pur essendo apprezzabile il tentativo di accelerare il processo amministrativo in settori di particolare interesse, non ci si può esimere dall’evidenziare contraddizioni che parrebbero rendere necessaria una rettifica della disciplina appena esposta, anche e soprattutto per scongiurare il pericolo di una menomazione del diritto di difesa in quelle materie che il legislatore ha mostrato di ritenere particolarmente delicate. Un ultimo rilievo concerne l’opportunità delle misure acceleratorie introdotte, con riferimento al problema dei tempi processuali delle controversie non comprese tra quelle sottoposte al rito speciale di cui al comma 1, art 23-bis, l. 1034/71. I riti speciali, infatti, assorbendo in via preliminare l’attività del G.A., rischiano di aggravare l’arretrato relativo alle controversie soggette al rito ordinario, allungando intollerabilmente per esse i tempi di giustizia. Nelle pagine che seguono si esamineranno in modo più approfondito alcuni dei temi più rilevanti toccati dalla riforma. Le decisioni in forma semplificata Nell’ottica già sottolineata di un’accelerazione dei tempi del processo amministrativo, l’art. 9, l. 205/2000 introduce, attraverso la modifica del comma 4, art. 26, l. 1034/71 e l’aggiunta di nuovi commi al medesimo articolo, la possibilità per il G.A. di pronunciare, nei casi specificati, decisioni in forma semplificata. In particolare, il comma 4 dell’art. 26, l. 1034/71 prevede che il T.A.R. ed il Consiglio di Stato, nel caso in cui ravvisino la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, possano decidere con sentenza succintamente motivata. Tale motivazione, si specifica, può anche consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero ad un precedente conforme. E’ di tutta evidenza che l’accelerazione introdotta da tale innovazione, e la conseguente, inevitabile, compressione del diritto di difesa, debbano in qualche modo trovare un contrappeso che, nel caso di specie, è dato dalla necessità che il motivo che consente di ricorrervi sia “manifesto”. Siffatto requisito, per citare alcuni possibili esempi, risulterebbe senza dubbio integrato nel caso di un’impugnazione presentata oltre il termine di decadenza, ovvero nel caso di mancanza di giurisdizione in capo al G.A. adito. Qualora, poi, si volesse ricorrere ad un precedente giurisprudenziale conforme, dal momento che non sono previste ulteriori garanzie – come, ad esempio, la necessità di un orientamento giurisprudenziale costante – sembra fondamentale che, in capo al Giudice, sussista la convinzione circa la superfluità di ogni attività istruttoria e che, nella stesura della motivazione, non si ricorra a mere formule di stile. In caso contrario, infatti, vi sarebbe il fondato rischio di frustrare il diritto di difesa del ricorrente, eludendo la valutazione delle argomentazioni proposte e, in special modo, di quelle eventualmente difformi dal precedente stesso. La cosiddetta “sentenza breve”, si precisa, può essere assunta, purchè risulti verificata la completezza del contraddittorio, sia nella Camera di Consiglio fissata per esaminare l’istanza cautelare, sia in quella fissata d’ufficio a seguito dell’istruttoria disposta ex art. 44, comma 2, T.U. 1054/1924. In relazione alle suddette ipotesi, è possibile rilevare alcuni aspetti problematici. Quanto al primo caso, è evidente che l’oggetto dell’esame da parte del G.A. muta completamente. Infatti, la valutazione relativa all’accertamento dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, sulla base della convinzione del Collegio inerente alla possibile definizione immediata del giudizio, si trasforma, per l’appunto, in un esame definitivo sul merito del ricorso. Al riguardo, però, si osserva che l’esercizio di tale potestà da parte del G.A. è assolutamente discrezionale ed insindacabile e, per siffatta ragione, le parti ed i loro difensori, dopo essersi soffermati, verosimilmente, in prevalenza sui requisiti relativi all’istanza cautelare, potrebbero trovarsi di fronte ad una decisione definitiva con evidente lesione del diritto di difesa circa gli altri aspetti del giudizio. E’ verosimile, dunque, che le parti, in casi del genere, richiedano un breve differimento della discussione che non sarebbe ragionevole negare, salvo l’assoluta certezza di ogni necessità di rinvio. Nel corso della Camera di Consiglio, poi, quegli aspetti che inizialmente sembravano così certi da indurre il Giudice a pronunciare una sentenza in forma semplificata, potrebbero assumere una diversa fisionomia, così da rendere opportuno il rinvio della decisione sul merito. Nella diversa ipotesi in cui il Collegio disponga l’esame istruttorio ai sensi dell’art. 44, comma 2, T.U. sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto n. 1054 del 1924, potrebbe porsi un ulteriore questione. Infatti, l’articolo citato riconosce al T.A.R. ed al Consiglio di Stato la possibilità di disporre qualunque mezzo istruttorio, nei modi determinati dal regolamento di procedura, nei soli giudizi di merito previsti dallo stesso T.U. In proposito, si osserva che la limitazione ai soli giudizi di merito appare assolutamente irragionevole in un contesto in cui si è voluta attribuire, in via del tutto generica, la potestà di pronunciare sentenze “brevi”, senz’alcuna distinzione fondata sulla sede processuale in cui l’esame è stato introdotto. Come spesso accade, allora, il principio di ragionevolezza può essere d’aiuto nella risoluzione del problema: la lettura sistematica dei diversi commi del novellato art 26, l. T.A.R., come poc’anzi accennato, non consente una distinzione tra giudizi di legittimità e giudizi di merito. L’eventuale istruttoria, infatti, sarebbe indirizzata, in tutti i casi, al medesimo scopo: rendere possibile la pronuncia in forma abbreviata in seguito all’accertamento dei requisiti richiesti, per cui sarebbe irragionevole consentire mezzi probatori differenti per un’istruttoria volta a realizzare un identico scopo. Quanto alla giurisdizione esclusiva, la possibilità di avvalersi dei mezzi istruttori previsti dal codice civile, ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento - è per essa prevista, in via generale, dall’art. 35, d.lgs. 80/98, come novellato ex art. 7, comma 3, l. 205/2000. Un’ultima precisazione attiene all’assimilazione che la legge in esame dispone tra le sentenze in forma abbreviata e le normali sentenze di merito: ad entrambi i tipi di sentenza, si applicano i medesimi mezzi d’impugnazione. Infine, l’ultimo comma del novellato art. 26, legge T.A.R. dispone, come ulteriore strumento acceleratorio che “La rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione sono pronunciate, con decreto, dal presidente della sezione competente o da un magistrato da lui delegato”. In modo innovativo, dunque, si affidano una serie di questioni, peraltro non particolarmente rilevanti, alla competenza di un giudice unico. Spetterà poi alla segreteria, dare comunicazione della pronuncia del decreto alle parti costituite che, nel successivo termine di sessanta giorni dalla comunicazione stessa, potranno proporre opposizione al collegio. La pronuncia del collegio, che dovrà intervenire entro trenta giorni dal deposito dell’opposizione, assumerà, tanto nel caso di accoglimento, quanto in quello di rigetto, la forma dell’ordinanza che sarà poi normalmente appellabile, con l’unica peculiarità della riduzione di tutti i termini processuali alla metà. La tutela cautelare 1. La tutela cautelare nel processo amministrativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000 Prima dell’approvazione della legge di riforma del processo amministrativo la normativa in tema di misure cautelari era piuttosto scarna, esaurendosi, in concreto, nelle disposizioni generali di cui agli artt. 21 legge n. 1034 del 1971, cd. legge T.a.r., e 39 T.U C.d.S., e in una serie di norme speciali in settori quali, ad esempio, quelli delle espropriazioni e degli appalti pubblici. Posta la regola fondamentale secondo cui la proposizione del ricorso giurisdizionale non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato, l’unica misura cautelare espressamente prevista dal legislatore era la cd. sospensiva. In presenza del duplice presupposto del periculum in mora, inteso quale grave ed irreparabile danno derivante al ricorrente dall’attesa della decisione nel merito, e del fumus boni iuris, cioè della non manifesta infondatezza del ricorso, il giudice concedeva la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, cioè inibiva il verificarsi degli effetti lesivi della posizione giuridica soggettiva del ricorrente. La tutela cautelare, quindi, impedendo il prodursi di quegli effetti irreversibili scaturenti dall’esecuzione del provvedimento amministrativo, svolgeva una funzione essenzialmente conservativa della situazione di fatto esistente al momento dell’adozione del provvedimento stesso. Il sistema cautelare così delineato - se era in grado di soddisfare gli interessi del ricorrente nell’ipotesi di impugnazione di un provvedimento positivo, cioè che incideva nella sfera giuridica del destinatario, modificandola – non sembrava utilmente invocabile nel caso in cui oggetto di ricorso fosse un provvedimento tacito od espresso di rifiuto (cd. provvedimento negativo). Infatti, la sospensione dell’efficacia del provvedimento negativo, così come l’eventuale annullamento dello stesso nel merito, non era comunque idoneo a soddisfare l’interesse pretensivo del ricorrente ad ottenere un provvedimento a lui favorevole. In sostanza la sua pretesa, necessitando di un ulteriore intervento della P.A, rimaneva del tutto insoddisfatta anche nel caso di sospensione dell’esecuzione ovvero di annullamento del provvedimento. Conseguentemente, la giurisprudenza escludeva la sospendibilità del provvedimento negativo giustificando tale impostazione alla luce del principio fondamentale della separatezza dei poteri: il giudice amministrativo, organo espressione della funzione giurisdizionale, non può sostituirsi alla P.A. nella cura dell’interesse pubblico. Ad avviso della giurisprudenza, poi, costituiva ulteriore ostacolo il fatto che la misura cautelare, imponendo un facere alla P.A., avrebbe prodotto in capo al ricorrente effetti più ampi di quelli conseguibili con la decisione nel merito consistenti nell’annullamento dell’atto amministrativo impugnato. La posizione di totale chiusura della giurisprudenza veniva superata, successivamente, affermando che l’esclusione o la limitazione della tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi si poneva in contrasto con il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.), con quello della inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, comma 2, Cost.) ed, infine, con il principio dettato dall’art. 113, comma 2, Cost., in base al quale “la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. In concreto, tale apertura si manifestava nell’adozione dei seguenti provvedimenti: ammissione con riserva a concorsi, esami e gare contrattuali; ordine all’amministrazione di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di ricorso; ordine all’amministrazione di rilascio del provvedimento negato – nelle ipotesi in cui si tratti di atto dovuto o vincolato - ed, infine, ordine di proseguire l’attività, in caso di inerzia procedimentale. Occorre, però, precisare che soltanto nelle ipotesi di ammissione con riserva si era raggiunta una posizione quasi unanime della giurisprudenza in quanto, non occorrendo alcun ulteriore intervento della P.A., si potevano escludere con certezza eventuali interferenze fra potere giurisdizionale ed amministrativo. Negli altri casi, invece, la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, determinando la reviviscenza giudiziale del dovere dell’amministrazione di provvedere, comportava per il giudice l’adozione di ordinanze propulsive – che sollecitano la P.A a provvedere nuovamente in attesa della definizione – e di ordinanze decisorie – con le quali il giudice sostituisce la propria decisione all’atto fino alla decisione del merito. 2. La tutela cautelare nella legge di riforma del processo amministrativo La legge n. 205 del 2000 interviene, quindi, introducendo numerose disposizioni che rivoluzionano il sistema originario della tutela cautelare. Alcune disposizioni della legge recepiscono orientamenti giurisprudenziali già consolidati precisandone, pealtro, la portata e l’ambito di applicazione, altre si pongono in contrasto con orientamenti giurisprudenziali già noti ed, infine, altre ancora costituiscono soluzioni originali di diretta elaborazione legislativa. Il principio fondamentale della riforma in materia cautelare è quello della effettività della tutela giurisdizionale, che si concretizza nell’individuazione di rimedi giuridici idonei a soddisfare gli interessi del ricorrente già in via interinale. A tale principio si affianca quello della provvisorietà e strumentalità della tutela cautelare. Occorre, cioè, evitare che l’ordinanza cautelare sostituisca la decisione nel merito del ricorso, esaurendo la tutela giurisdizionale a favore del ricorrente e rendendo inutile la successiva fase del merito. Depone in tal senso il puntuale contenuto dell’art. 3 legge 205 del 2000 laddove si fa riferimento “al tempo necessario a giungere ad una decisione di merito”, nonché all’idoneità “ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso” ed analoghe previsioni in cui si evince che sede più appropriata per la decisione della controversia è e rimane quella del merito. La portata innovativa della legge si coglie già nel dato strettamente letterale, laddove l’art. 3, superando la formulazione originaria della legge T.a.r., non si riferisce esclusivamente alla misura della sospensiva ma prevede genericamente il potere del giudice di adottare le “misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione”. Nella prospettiva del legislatore, quindi, la sospensiva non è più ritenuta l’unica ed esclusiva misura cautelare idonea a soddisfare gli interessi del ricorrente. Alla luce della genericità della norma attributiva del potere il g.a. potrà adottare, oltre alla ben nota sospensiva, le ordinanze propulsive e decisorie la cui legittimità in passato era stata messa in dubbio dalla giurisprudenza più conservatrice. La genericità della formulazione della disposizione normativa induce, inoltre, a ritenere che l’interesse del legislatore si sia soffermato principalmente sull’individuazione dello scopo delle misure applicabili dal giudice e, quindi, sull’idoneità delle stesse ad assicurare provvisoriamente l’esito del ricorso. Anzi, il legislatore sembra propendere per l’esclusione di una formale tipizzazione dei provvedimenti emanabili, privilegiando nella scelta del giudice la valutazione delle circostanze di fatto e di diritto in concreto esistenti. Sarà, pertanto, esclusivamente la valutazione discrezionale del giudice a stabilire la misura più idonea in relazione alla fattispecie ed al pregiudizio lamentato dal ricorrente. Il potere cautelare del g.a., comunque, troverà un limite implicito nel rispetto dei principi fondamentali della separatezza dei poteri e del divieto di far conseguire in sede cautelare effetti o vantaggi che il ricorrente non potrebbe ottenere neanche in sede di esecuzione della sentenza. Si consideri, tra l’altro, che la legge di riforma non prevede soltanto l’obbligo di motivazione della ordinanza cautelare, ma richiede espressamente l’indicazione del pregiudizio allegato dal ricorrente nonché dei profili attinenti ad un ragionevole esito del ricorso. In sostanza, attraverso una motivazione puntuale e precisa sarà possibile conoscere l’iter logico seguito dal giudice nella valutazione dei presupposti previsti dalla legge e nella scelta della misura più idonea per la tutela degli interessi del ricorrente. Pertanto, in sede di impugnazione del provvedimento cautelare il Consiglio di Stato potrà accogliere l’appello non soltanto in assenza di motivazione ma anche nell’ipotesi di incompletezza od insufficienza della stessa. La giurisprudenza, in passato, aveva già avvertito l’esigenza di individuare ed applicare misure cautelari ulteriori rispetto alla prevista sospensiva. In particolare, la giurisprudenza meno conservatrice aveva elaborato nuove forme di tutela cautelare in tutte quelle fattispecie, quali ad esempio le impugnazioni dei provvedimenti taciti od espressi di rigetto, in cui la sospensione dell’esecuzione del provvedimento non era in grado di preservare gli interessi del ricorrente. Si era così addivenuti, come abbiamo già visto, all’emanazione di provvedimenti di ammissione con riserva ed agli ordini di riesame delle istanze sulla base dei motivi del ricorso. Analoghe esigenze avevano portato alcuni giudici amministrativi a contestare l’art. 21 legge T.a.r. sul piano della legittimità costituzionale, laddove non prevedeva in sede di giurisdizione esclusiva del g.a. di adottare i provvedimenti cautelari d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c.. La Corte Costituzionale, investita della questione, nella nota sentenza n. 190 del 1985 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21 legge T.a.r. nella parte in cui, limitando l’intervento d’urgenza del g.a. all’emissione del provvedimento di sospensione, non permette nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, di emanare quei provvedimenti d’urgenza che appaiono più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione nel merito. Sulla base di tale decisione sono stati, poi, emessi ordini di pagamento di provvisionali a favore del ricorrente o di corresponsione di assegni alimentari. Nonostante la pronuncia della Corte Costituzionale fosse limitata alle ipotesi di controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, ci fu un tentativo da parte di alcuni g.a., tra i quali il T.a.r. Lombardia, di estendere l’applicabilità del rimedio d’urgenza ex art. 700 c.p.c. anche ad altre fattispecie. Tale tentativo venne subito vanificato dal Consiglio di Stato che bocciò i decreti emessi in primo grado ritenendoli viziati da “assoluta nullità”. Un’altra rilevante innovazione della legge di riforma è quella di precisare, recependo un orientamento già sostenuto dalla giurisprudenza, che il pregiudizio grave ed irreparabile può derivare non solo dall’esecuzione dell’atto impugnato ma anche dal comportamento inerte della P.A.. In particolare, erano stati già emessi provvedimenti di sospensione del silenzio procedimentale, configurabile quando la P.a. ha tenuto un comportamento inerte in presenza di un obbligo inderogabile di provvedere, sospensione che consiste nell’obbligare l’amministrazione a determinare la propria volontà (vedi sul punto: T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, n. 405 del 1989). Per quanto concerne, invece, l’individuazione dei presupposti di fatto e di diritto essenziali per la concessione della misura cautelare la legge n. 205 del 2000 non sembra aver introdotto novità di rilievo. Infatti, il presupposto del “pregiudizio grave ed irreparabile” richiesto espressamente dall’art. 3 della legge di riforma è assimilabile concettualmente a quello originariamente previsto dalla legge T.a.r. dei “danni gravi ed irreparabili” e a quello delle “gravi ragioni” contemplato dal T.U. C.d.S.. Si tratta pur sempre di impedire, con l’adozione della misura cautelare, il prodursi di quegli effetti, derivanti dall’esecuzione dell’atto, che in ragione della loro irreversibilità non potrebbero essere eliminati anche in caso di eventuale successivo accoglimento del ricorso nel merito. Per tale ragione la legge attribuisce al g.a. il potere di adottare le misure più idonee “ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. Inoltre, la legge di riforma - prevedendo l’obbligo di indicare nella motivazione dell’ordinanza cautelare i “profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” - codifica espressamente il requisito del fumus boni iuris. In realtà, tale requisito era già, pur in assenza di espliciti riferimenti normativi, tradizionalmente ritenuto da dottrina e giurisprudenza presupposto implicito essenziale per l’emissione della misura cautelare, essendo del tutto illogico ammettere una tutela interinale in presenza di manifesta infondatezza del ricorso. Occorre, però precisare, che nella nuova ottica della legge 205 del 2000 il fumus boni iuris non sembra più interpretabile, come avveniva originariamente, alla stregua di una non manifesta infondatezza del ricorso, quanto piuttosto quale ragionevole probabilità di esito favorevole del ricorso stesso. La legge, infatti, riferendosi alla ragionevole probabilità di esito del ricorso, attribuisce alla misura cautelare una funzione prevalentemente anticipatoria, ma comunque mai sostitutiva, della decisione di merito. Una funzione meramente conservativa dello status quo ante potrà ancora riconoscersi - come già avveniva in passato - ai provvedimenti di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato che, comunque, il g.a. potrà adottare in presenza dei presupposti di legge. 3. La cauzione nel processo cautelare La legge n. 205 del 2000, ispirandosi al codice di procedura civile (art. 669-undecies) ha introdotto il potere del g.a. di disporre la prestazione di una cauzione, anche in forma di fideiussione, cui subordinare la concessione ovvero il diniego della misura cautelare, laddove dall’esecuzione del provvedimento cautelare possano derivare effetti irreversibili. Anche in tal caso non si tratta di una novità assoluta nella materia amministrativa in quanto il legislatore aveva già introdotto l’istituto della cauzione nelle leggi n. 166 del 1975 e n. 546 del 1977, disciplinanti gli interventi straordinari di emergenza per l’attività edilizia. La norma si limita ad individuare quale presupposto indefettibile per l’applicazione della cauzione il prodursi di effetti irreversibili dall’esecuzione dell’istanza cautelare. E’ evidente che il carattere dell’irreversibilità sarà caratteristica ravvisabile, per lo più, in relazione agli effetti materiali, determinando questi ultimi vere e proprie modificazioni della realtà fenomenica non suscettibili di successiva riparazione o eliminazione. Gli effetti giuridici, al contrario, determinando modificazioni astratte, presentano soltanto eccezionalmente il carattere della irreversibilità. La disposizione, inoltre, precisando che la cauzione può essere prestata anche mediante fideiussione, non pone al g.a. alcun limite in ordine alla tipologia di provvedimenti che possono essere adottati. Spetterà, pertanto, al g.a. stabilire il tipo di cauzione - disponendo quella ritenuta più idonea nella fattispecie concreta -, nonché i tempi, l’ammontare ed ogni altra modalità concreta di prestazione della stessa. In ogni caso, in assenza di una disciplina specifica della cauzione, si suggerisce di far ricorso in via interpretativa alla disciplina processual-civilistica in quanto compatibile con le caratteristiche peculiari del processo amministrativo. Per quanto concerne, invece, il rapporto fra l’ordinanza cautelare ed il provvedimento che dispone la cauzione, si ritiene che questo debba essere configurato in termini di accessorietà, con la conseguenza che la mancata prestazione della cauzione dovrà comportare la caducazione dell’ordinanza cautelare a cui si riferisce. Inoltre, si ritiene che l’efficacia della cauzione non potrà andare oltre il deposito delle sentenza di decisione nel merito, la quale dovrà, altresì, stabilire se la garanzia deve essere attivata dall’interessato o se si può procedere allo svincolo della cauzione. L’accessorietà, comunque, non esclude che il giudice dovrà procedere ad una duplice valutazione circa la sussistenza dei presupposti per applicazione della misura cautelare e della cauzione, trattandosi, come è noto, di provvedimenti con finalità del tutto diverse. La cauzione, infatti, assolve alla specifica funzione di garantire il risarcimento del danno a favore della parte contro cui l’ordinanza cautelare è stata pronunciata, mentre la misura cautelare tutela gli interessi del ricorrente in attesa della decisione sul merito. Pertanto, stante l’autonomia dei due provvedimenti, il giudice amministrativo potrà concedere la sola misura cautelare senza disporre a carico della parte alcuna cauzione. Tale impostazione risulta confermata dalla lettura della prima ordinanza di sospensione disposta dal T.a.r. Sicilia (ordinanza 14 settembre 2000 n. 1592) con obbligo di prestazione di cauzione nella forma della polizza fideiussoria bancaria o assicurativa. La motivazione dell’ordinanza, infatti, precisa che sussistono il pregiudizio grave ed irreparabile e gli elementi di fondatezza per l’emissione della sospensiva e, in un capo distinto, che dall’esecuzione dell’ordinanza cautelare discendono quegli effetti irreversibili che legittimano l’imposizione della prestazione della cauzione. La disposizione in materia di cauzione si chiude con il divieto di applicazione della stessa nell’ipotesi in cui l’istanza cautelare attenga ad interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale. I diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello costituzionale, non possono subire alcuna limitazione neanche nella fase cautelare di un procedimento. 4. Il potere di disporre “misure cautelari provvisorie”: la cd. “supersospensiva” La legge di riforma attribuisce al Presidente del Tribunale o della sezione competente a decidere sul ricorso il potere di emettere una misura cautelare provvisoria nei casi di “estrema gravità ed urgenza”. La misura cautelare provvisoria può essere adottata anche dal Consiglio di Stato in sede di appello contro un’ordinanza cautelare o di domanda di sospensione della sentenza appellata. Il legislatore, pertanto, ha recepito l’orientamento di alcuni T.a.r., in particolare il T.a.r. Lombardia ed il T.a.r. Emilia Romagna, che avevano optato per l’ammissibilità del rimedio. Il Consiglio di Stato, però, aveva disatteso tale orientamento dichiarando affetti da nullità assoluta i decreti di sospensione assunti dal solo Presidente, anziché dal Collegio, perché emessi in assenza di norme di legge, da un soggetto non investito di potere giurisdizionale, con indebita sottrazione all’amministrazione del diritto di difesa. Il presupposto fondamentale per l’adozione del decreto presidenziale è quello della estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neanche l’attesa dello svolgimento della Camera di Consiglio. Tale norma, posta in relazione con la disciplina generale della tutela cautelare, induce a ritenere che per la concessione della misura provvisoria la situazione lamentata dovrà presentare un quid pluris rispetto al pregiudizio grave ed irreparabile necessario per ottenere l’applicazione di una misura cautelare ordinaria. Si tratterà, in particolare di valutare se il tempo necessario per la fissazione della Camera di Consiglio possa compromettere in modo irreparabile la posizione giuridica del ricorrente. La misura cautelare provvisoria potrà essere richiesta sia congiuntamente alla domanda di misura cautelare, sia con istanza separata da notificarsi alle controparti. Da ciò si evince che il provvedimento cautelare provvisorio, pur potendo essere adottato anche in assenza di contraddittorio, non potrà mai essere emesso a totale insaputa delle controparti, come prevede invece l’art. 669 sexies, comma secondo, del c.p.c.. Considerato, poi, che la legge fa riferimento all’istanza notificata separatamente o alla richiesta di decreto inserita nel ricorso, si può escludere, presupponendosi in entrambe la l’instaurazione di un giudizio, che le misura cautelari presidenziali possano essere classificate come forme di tutela ante causam. Il decreto presidenziale deve essere depositato in cancelleria e comunicato alle parti interessate e conserverà la sua efficacia sino al momento in cui il collegio deciderà sull’istanza cautelare. Il decreto presidenziale, inoltre, sarà inappellabile in quanto oggetto di impugnazione sarà l’ordinanza collegiale che lo conferma o lo riforma. 5. Il rito abbreviato Un ulteriore intervento della legge n. 205 del 2000 è stato quello di generalizzare l’applicazione di un istituto, quello della decisione immediata nel merito delle controversie, finora previsto soltanto nelle cause in materia di aggiudicazione di gare di appalto di opere pubbliche dall’art. 19 D.l. 67/1997, convertito in legge 135/1997. Secondo la nuova disciplina, infatti, il giudice può decidere la causa nel merito già nella Camera di Consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare. La decisione immediata nel merito può aver luogo, però, soltanto ove “ne ricorrano i presupposti”. Tali presupposti non sono specificati nella norma in esame ma, stante l’espresso richiamo all’art. 26 legge T.a.r. (come modificato dalla legge n. 205 del 2000), sarà a questa disposizione che dovrà farsi riferimento per la loro individuazione. Pertanto, la decisione immediata sarà applicabile soltanto nei casi in cui ricorrano “la manifesta fondatezza, ovvero la manifesta irricevibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso”. La disposizione trova il suo fondamento nelle esigenze di celerità del giudizio che impongono di soddisfare gli interessi del ricorrente nel più breve tempo possibile e compatibilmente con il rispetto del diritto di difesa. Per tale ragione la norma ammette la possibilità di una decisione immediata soltanto previo accertamento della completezza del contraddittorio (notificazione del ricorso alle parti residenti e controinteressati) e dell’istruttoria. Laddove si ravvisi la non integrità del contraddittorio, il giudice dovrà disporne la reintegrazione con contestuale fissazione di un’udienza pubblica per la trattazione del ricorso ed eventuale adozione di misure interinali necessarie. In questa ipotesi, infatti, deve escludersi la possibilità di una decisione immediata in quanto la norma nulla dispone in tale senso e, in secondo luogo, perché il rinvio dell’udienza ha già compromesso le esigenze di accelerazione del ricorso e non vi sarà, quindi, più alcuna ragione logica per ammettere una decisione con rito abbreviato. Se la mancanza di integrità del contraddittorio, invece, non consente la successiva integrazione ed è tale da comportare l’irricevibilità manifesta del ricorso, il giudice potrà certamente decidere la controversia in forma abbreviata. La norma, inoltre, prevede espressamente che debbano essere sentite le parti costituite. Se ne desume che le parti, pur in assenza del riconoscimento di uno specifico potere di opposizione alla decisione immediata, potranno comunque manifestare le ragioni per le quali sarebbe opportuno procedere nelle forme ordinarie. Tali considerazioni dovranno, poi, essere oggetto di esame da parte del Collegio, unico organo competente a valutare l’opportunità di una decisione con rito abbreviato. 6. Le spese La legge di riforma si occupa anche del problema della liquidazione delle spese nella fase cautelare, disponendo che il giudice “può provvedere in via provvisoria sulle spese del procedimento cautelare”. Trattasi, pertanto, di una facoltà che il Collegio potrà esercitare secondo il suo prudente apprezzamento. La pronuncia sarà ovviamente provvisoria e può essere modificata con la decisione di merito. La provvisorietà discende da una duplice ragione: da un lato è difficile quantificare le spese in questa fase del giudizio, dall’altro l’esito del giudizio di merito può essere contrario a rispetto alle determinazioni assunte in sede cautelare. La pronuncia sulle spese può aver luogo soltanto “con l’ordinanza che rigetta la domanda cautelare o l’appello contro un’ordinanza cautelare”. Se ne desume che la finalità perseguita dal legislatore con la disposizione in esame è prevalentemente di natura deflativa, mirando alla riduzione delle istanze pretestuose e ingiustificate. La medesima disciplina trova applicazione anche nel giudizio d’appello. La norma, poi, prevede la possibilità di condanna alle spese anche nei casi di dichiarazione di inammissibilità o irricevibilità . Sul punto, si precisa che l’inammissibilità e l’irricevibilità devono comunque porsi in relazione all’ordinanza cautelare ovvero all’appello. 7. La priorità di trattazione del ricorso nel merito Il quinto capoverso dell’art. 3 della legge n. 205 del 2000, dispone espressamente la priorità della fissazione del merito dei ricorsi con sospensiva accolta. Trattasi di disposizione a carattere organizzativo estremamente opportuna se si tiene conto delle finalità peculiari della tutela cautelare, ma destinata a scontrarsi con la realtà dei Tribunali amministrativi regionali, oberati da un numero rilevante di cause e con organico sottodimensionato. La disposizione in esame dovrebbe, poi, rientrare nel generale rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 21 legge T.a.r., come modificato dall’art. 3 legge n. 205/2000, che prevede l’applicazione delle disposizioni in materia cautelare dettate per il giudizio di primo grado anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato. Ne consegue, che la priorità di fissazione dell’udienza verrebbe ad operare anche nei giudizi di fronte al giudice dell’appello, ivi comprese le ipotesi in cui la tutela negata in primo grado venga concessa dal Consiglio di Stato. 8. La questione dell’appellabilità e dell’esecuzione delle ordinanze cautelari Un’ultima notazione meritano le questioni dell’impugnazione e dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare. In passato, in assenza di espresse disposizioni normative, la giurisprudenza sanciva il principio dell’appellabilità delle ordinanze cautelari, trattandosi di atti aventi natura giurisdizionale ai quali necessariamente, per motivi di omogeneità ed armonia, doveva applicarsi il principio del doppio grado di giurisdizione di cui all’art. 125 Cost.. Anche in tema di esecuzione delle ordinanze cautelari, dopo una prima fase di totale chiusura, la giurisprudenza ammetteva la possibilità di applicare in via analogica il giudizio di ottemperanza (vedi C.d.S., sez. V, 25/05/1997, n. 327). Secondo tale impostazione, l’interesse del ricorrente poteva dirsi tutelato in via interinale soltanto laddove fosse garantita all’interessato la possibilità di portare ad esecuzione il provvedimento cautelare anche contro la volontà della stessa P.a.. Nell’ipotesi, peraltro assai frequente, in cui la P.a. teneva un comportamento omissivo od elusivo del contenuto precettivo del provvedimento interinale doveva, quindi, riconoscersi al ricorrente il potere di agire in sede di ottemperanza. Con la legge di riforma il legislatore ha accolto entrambi gli orientamenti giurisprudenziali, prevedendo espressamente sia l’appellabilità delle ordinanze cautelari, sia l’eseguibilità delle stesse attraverso il giudizio di ottemperanza. In particolare, la legge dispone che l’appello avverso le ordinanze cautelari possaessere proposto entro il termine ordinario di 60 gg. dalla notificazione dell’ordinanza ovvero entro il termine, del tutto nuovo, di 120 gg. che decorrono dalla comunicazione da parte della Segreteria del Tribunale dell’avvenuto deposito dell’ordinanza stessa. In precedenza, invece, nel caso di mancata notificazione dell’ordinanza il termine per proporre appello era quello ordinario previsto per le sentenze di un anno dal deposito. Il legislatore, probabilmente, ha ritenuto più opportuno fissare un termine più breve, perché la situazione sostanziale sottostante non sia tenuta troppo tempo in uno stato di incertezza. Per quanto concerne l’esecuzione, la legge in esame dispone che, nel caso di inottemperanza totale o parziale, l’interessato possa rivolgersi al tribunale che ha emesso il provvedimento cautelare per ottenere “le opportune disposizioni attuative”. Il contenuto della domanda potrà essere indeterminato e spetterà al giudice adottare (anche attraverso un Commissario ad acta) tutti gli atti ed i comportamenti che garantiscono la realizzazione effettiva della tutela cautelare. E’ evidente che nel caso in cui tratti di un provvedimento di tipo sospensivo si detteranno misure finalizzate ad impedire che il provvedimento impugnato sia portato ad esecuzione. Nel caso, invece, di tutela cautelare nei confronti di un provvedimento negativo l’esecuzione potrà risolversi anche nell’adozione del provvedimento in luogo della P.a. competente, limitatamente alle ipotesi in cui, però, l’atto sia dovuto in presenza dei requisiti di legge. 9. La sospensione nel ricorso straordinario al Capo dello Stato Accogliendo una prassi giudiziaria del tutto sporadica, la legge di riforma prevede espressamente la possibilità di adottare il provvedimento di sospensione nell’ambito del ricorso straordinario al Capo dello Stato. Il presupposto di adozione della misura cautelare è il medesimo previsto in sede giurisdizionale e consiste nell’allegazione di “danni gravi e irreparabili drrivanti dall’esecuzione dell’atto”. Tale disposizione, a differenza di quanto previsto per il processo amministrativo, si limita ad indicare unicamente la sospensione del provvedimento impugnato. Sembrerebbe, quindi, che il legislatore, richiamando espressamente solo la sospensiva, abbia voluto ammettere in sede di ricorso straordinario soltanto l’applicabilità di tale misura. Questa interpretazione sembra, però, confliggere con le caratteristiche proprie del procedimento di ricorso straordinario al Capo dello Stato in cui oggetto di tutela possono essere posizioni sia di diritto soggettivo( e fra esse anche posizioni patrimoniali), sia di interesse legittimo. Ed è proprio in rapporto alle posizioni di diritto soggettivo che lo strumento della sospensiva si profilerebbe inidoneo alla piena tutela degli interessi del ricorrente. In ogni caso, considerato che la norma in esame ha natura derogatoria ed eccezionale sembra doversi propendere per una interpretazione rigorosa con conseguente applicabilità della sola misura della sospensiva. La sospensione è disposta con atto motivato del Ministero competente, su conforme parere del Consiglio di Stato. LE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI E L’ISVAP Premessa L’art. 23-bis, l. 1034/71, introdotto dall’art. 4, l. 205/2000, prevede, come si è detto in precedenza, l’applicazione di un rito speciale alle controversie di competenza del G.A. che riguardino le materie specificate dall’articolo medesimo. In particolare, la lett. d) del comma 1, l. 1034/71, stabilisce che siano trattati con tali riti i giudizi aventi ad oggetto i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti. La disposizione in oggetto, di fondamentale importanza anche per il fatto di costituire il primo riferimento normativo espresso alle autorità amministrative indipendenti come categoria a sé – inizialmente enucleata dalla dottrina -, pone delicati problemi interpretativi proprio con riferimento all’individuazione delle predette autorità. La norma, infatti, nulla dice in ordine alla definizione delle autorità amministrative indipendenti, per cui è compito dell’interprete riconoscerne di volta in volta i caratteri, al fine di stabilire l’applicazione o meno del rito speciale introdotto dalla l. 205/2000. Il problema, come già accennato nel paragrafo precedente, riguarda anche l’ISVAP, per la possibilità che i provvedimenti relativi siano inseriti nell’ambito di tale categoria di atti. Preliminarmente, dunque, allo scopo di affrontare al meglio la questione relativa all’Istituto, occorre precisare gli elementi che secondo l’elaborazione dottrinaria contraddistinguono le autorità amministrative indipendenti, in relazione al ruolo ed alle funzioni che le stesse sono chiamate a svolgere all’interno dell’ordinamento. 1) Funzioni e caratteri delle autorità amministrative indipendenti Le autorità amministrative indipendenti sono enti pubblici deputati a svolgere una funzione tutoria in relazione ad interessi ritenuti di particolare importanza, in quanto dotati di rilievo costituzionale – obiettività dell’informazione e diritto di manifestazione del pensiero, libertà di concorrenza, contemperamento fra diritto di sciopero ed altri diritti della persona riconosciuti costituzionalmente, tutela del mercato finanziario… -. Il concetto stesso di funzione tutoria implica lo svolgimento di un’attività in posizione di assoluta neutralità ed equidistanza rispetto ai diversi interessi, pubblici e privati, che di volta in volta entrano in gioco. Diverso, malgrado la distinzione sia molto sottile, è il concetto di imparzialità cui la P.A. deve attenersi nello svolgimento dell’attività di cura dell’interesse pubblico che la norma attributiva del potere le ha assegnato. Infatti, la P.A. non è in posizione di equidistanza rispetto agli interessi coinvolti, essendo chiamata a massimizzare la cura dell’interesse pubblico ad essa attribuito. Il concetto d’imparzialità, pertanto, si sostanzia nell’attenta ponderazione degli interessi in contrasto con l’interesse pubblico primario, evitando ogni tipo di discriminazione o di favoritismo. Naturalmente la funzione tutoria di cui sono accreditate le Autorità indipendenti va intesa in senso lato, dovendosi sussumere nella categoria non soltanto le Autorità investite di compiti di garanzia e, in tale ambito, di soluzione di conflitti intersoggettivi, ma anche quelle investite di compiti di regolazione di determinati settori di attività economica, in vista di un ordinato svolgimento di esse nell’interesse dell’utenza e del mercato. In tal senso si sono orientati, del resto, i lavori della poi interrotta Bicamerale per la riforma della Costituzione. Escluso, peraltro, che l’indipendenza possa intendersi come attributiva di poteri insindacabili, appare corretto che essa si consideri in termini di accentuata autonomia. Chiariti, in tal modo, il significato e la portata della funzione tutoria, è agevole comprendere la ragione dell’indipendenza delle autorità amministrative: infatti, al fine di garantire l’effettiva tutela di settori tanto delicati, era necessario sottrarre i soggetti chiamati a tale funzione da ogni ingerenza del potere politico, esecutivo ed economico. Passando su un piano più concreto, è essenziale analizzare brevemente le forme di autonomia che caratterizzano le autorità amministrative indipendenti, tenendo peraltro presente che, essendo le stesse non già un istituto, bensì un fenomeno giuridico, non è possibile indicare caratteristiche comuni a tutte e sempre contemporaneamente presenti. a) L’autonomia Le leggi istitutive delle autorità amministrative indipendenti, prevedono molteplici forme di autonomia, in misura più o meno variabile; quelle che seguono sono le più ricorrenti. L’autonomia organizzatoria consiste nella facoltà di darsi autonomamente le regole relative al funzionamento degli organi ed è comune pressoché a tutte le autorità amministrative indipendenti. L’autonomia funzionale consiste nella possibilità di esercitare poteri provvedimentali senza il condizionamento di direttive politiche. L’autonomia finanziaria, invece, è data dalla possibilità di disporre di entrate proprie e, al contrario della forma di autonomia poc’anzi specificata, costituisce una eccezione nel panorama delle autorità in oggetto. A parte l’ISVAP, che si autofinanzia attraverso un contributo annuale obbligatorio a carico delle imprese di assicurazione, la Banca d’Italia che ha una propria autonomia di bilancio e la CONSOB che si finanzia in parte con contributi dello Stato e in parte con contributi a carico dei soggetti vigilati, le altre autorità amministrative indipendenti, invero, vengono sovvenzionate attraverso trasferimenti di fondi del bilancio statale. L’autonomia contabile, infine, consiste nella possibilità di determinare le regole relative alla gestione del proprio bilancio, anche in deroga alle norme sulla contabilità statale. b) Le garanzie Una volta affermato che la caratteristica fondamentale delle autorità amministrative indipendenti è data dalle varie forme di autonomia nei confronti di ogni forma di potere e di ogni altro condizionamento, è opportuno precisare che tale autonomia è assicurata da tutta una serie di garanzie, prima fra tutte quella relativa ai criteri di nomina dei titolari degli organi. Infatti, com’e’ ovvio, l’effettiva autonomia di tali autorità e’ una naturale derivazione dell’indipendenza dei suoi vertici. E’ fondamentale, dunque, che le leggi istitutive prevedano criteri di nomina dei titolari degli organi di vertice che ne garantiscano l’indipendenza, in particolare limitando la discrezionalità del Governo in relazione a tali nomine. In tal senso, è per lo più richiesto che si tratti di persone particolarmente qualificate, e note per la loro specchiata moralità ed indipendenza; talvolta, la nomina è addirittura sottratta all’Esecutivo, per essere attribuita ad organi costituzionali quali i Presidenti delle Camere. Quanto ai requisiti soggettivi, inoltre, dato l’elevato tecnicismo attinente ai settori interessati, è talvolta richiesta un’approfondita conoscenza o una specifica esperienza nelle materie tecniche ed amministrative relative ai settori economici di cui le singole Autorità hanno cura. Infine, l’indipendenza è garantita anche dalla durata, dalla limitata revocabilità e dalla limitata rinnovabilità della carica. Il principio fondamentale è costituito dal fatto di consentire agli organi di vertice di restare in carica per un tempo sufficiente ad esercitare stabilmente la funzione, ma non tanto lungo da eludere la necessaria esigenza di alternanza. Nei confronti del Governo, non esiste alcun collegamento funzionale, essendo le autorità amministrative indipendenti sottratte tanto al potere di direttiva, quanto a quello di controllo, in ragione dell’assenza di un vincolo gerarchico. L’unico, e peraltro limitato, potere di controllo consiste nel potere di revocare il mandato agli organi di vertice per gravi e ripetute violazioni di legge e per impossibilità di funzionamento. Nei confronti del Parlamento, invece, quasi tutte le autorità amministrative indipendenti sono tenute ad un obbligo d’informazione che si realizza attraverso la presentazione di una relazione annuale sulla propria attività. c) I poteri Sono tre le principali categorie di poteri che le leggi istitutive conferiscono alle autorità amministrative indipendenti per lo svolgimento dell’ attività di tutela dei settori di competenza. In primo luogo, i poteri ispettivi e d’indagine che si fondano sulla possibilità di richiedere notizie ed informazioni, nonché l’esame di atti e documenti in relazione alle attività controllate. In secondo luogo i poteri sanzionatori, sollecitatori e di proposta. Infine, i poteri decisori, cosiddetti paragiurisdizionali, consistenti nella possibilità di decidere le controversie rientranti nella competenza di ciascuna Autorità. L’ISVAP Le considerazioni precedenti consentono di affrontare il punctum pruriens relativo alla natura giuridica dell’ISVAP. La discussione non è meramente accademica, dal momento che risvolti pratici di non poco conto conseguono al riconoscimento o meno dell’ISVAP come autorità amministrativa indipendente, così come è stato evidenziato in relazione all’applicabilità del rito speciale introdotto con la legge n. 205/2000. Sul punto, resistono incertezze dottrinarie determinate da un approccio superficiale al problema. Infatti, i dubbi che ancora si esprimono sull’effettiva indipendenza dell’ISVAP da ogni potere e, in special modo, da quello governativo, si fondano su una visione tuttora ancorata all’immagine che dell’Istituto emergeva dalla legge istitutiva – la l. 576/82 -, senza considerare le modifiche col tempo apportate alla normativa originaria, che hanno trasformato l’ISVAP nella vera authority del settore assicurativo. Invero, analizzando la questione da un’angolazione storico-evolutiva, appare evidente la progressione normativa nel senso indicato. L’ISVAP, difatti, nella disciplina iniziale prevista dalla l. n. 576/82, era ancora strettamente legato al Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato che esercitava nei suoi confronti e, più in generale, nei confronti del mercato assicurativo, poteri di indirizzo, di direttiva e di controllo. Successivamente però, soprattutto con il d.P.R.385/94 e con il d.lgs. 373/98 è stata introdotta un’ampia deregolamentazione che ha comportato il trasferimento all’ISVAP di quasi tutte le attribuzioni precedentemente affidate al Ministero dell’Industria. In particolare l’art. 4, comma 4, d.lgs. 373/98, infatti, modificando l’art. 2, comma 1, d.P.R. 385/94, stabilisce, tra l’altro che “…Tutte le attività di controllo e vigilanza in materia di assicurazioni private ed interesse collettivo…in precedenza esercitate dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, sono trasferite all’ISVAP, che le esercita in piena autonomia giuridica, patrimoniale, contabile, organizzativa e gestionale e nel rispetto esclusivo del proprio ordinamento, come definito dalla legge 12 agosto 1982, n. 576 e successive modificazioni ed integrazioni.” Tale articolo, chiarissimo nella sua formulazione, dovrebbe essere più che esaustivo in relazione alla questione in premessa. Alla luce di quanto appena esposto, è possibile verificare la sussistenza, in capo all’ISVAP, dei requisiti caratterizzanti le Autorità indipendenti e di cui si è detto nel precedente paragrafo. In particolare, è pacifico che l’Istituto goda di autonomia organizzatoria, nel senso che le norme relative alla propria organizzazione e quelle statutarie sono deliberate dal Consiglio; è parimenti certo che esso ha autonomia contabile, come risulta dall’art. 14, comma 1, lett. a), secondo cui la disciplina relativa alla gestione delle spese può essere disposta anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato. Quanto all’autonomia finanziaria, si ribadisce che l’ISVAP è fra le pochissime autorità che si autofinanziano, attraverso il contributo obbligatorio a carico delle imprese di assicurazione. Riguardo ai criteri di nomina degli organi di vertice ed alle connesse garanzie di autonomia, si osserva che il Presidente è nominato con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Industria e dura in carica 5 anni. E’ altresì previsto che lo stesso sia persona d’indiscussa moralità ed indipendenza, nonché dotata di approfondita conoscenza delle materie tecniche ed amministrative relative all’attività assicurativa. Il Presidente dell’ISVAP, inoltre, nel periodo di durata della sua carica, non può svolgere alcun’ altra attività; egli può essere riconfermato una volta sola; per la sua rimozione o sospensione dall’incarico sono richieste le medesime forme e garanzie relative alla nomina. Quanto alle funzioni ed ai poteri di spettanza dell’Istituto, ad esso competono poteri prescrittivi, accertativi e repressivi di autonoma applicazione ed ampia discrezionalità nei confronti di tutti gli operatori del mercato assicurativo (imprese, gruppi assicurativi, strutture di outsourcing, agenti, broker, periti), residuando in capo all’Autorità ministeriale il solo potere di dare forma con propri decreti alle proposte di commissariamento, liquidazione coatta e irrogazione di sanzioni pecuniarie. In conclusione, dalle considerazioni appena svolte, tenuto conto del raffronto con i requisiti che la dottrina tradizionalmente riconosce alle autorità indipendenti e della progressiva assunzione dei compiti precedentemente attribuiti al Ministero dell’Industria, emerge con nettezza che l’ISVAP va annoverato tra le autorità della specie. Il riconoscimento in capo all’Isvap dei tratti peculiari di un’Authority, com’è ovvio, risolve in senso positivo la questione relativa all’applicabilità del rito abbreviato previsto dall’art. 23-bis, l. 1034/71 alle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti adottati dall’Istituto. Il ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione 1. La disciplina dell’impugnazione del silenzio-inadempimento prima della approvazione della legge n. 205 del 2000 In via preliminare è opportuno specificare che per silenzio-inadempimento (o silenzio-rifiuto) deve intendersi l’inerzia della P.a. nel decidere su un’istanza del privato, in presenza di un obbligo giuridico di provvedere sancito dalla legge, da un regolamento o da un altro provvedimento amministrativo. Rimangono fuori dalla nozione di silenzio-rifiuto le ipotesi di silenzio cd. significativo ravvisabile in quelle ipotesi in cui è la legge ad attribuire all’inerzia della P.a., attraverso una vera e propria finzione giuridica, il valore di provvedimento di accoglimento (cd. silenzio-assenso) ovvero di diniego (cd. silenzio-rigetto) dell’istanza del privato. Considerato che in presenza di un comportamento inerte della P.a. non risulta emanato alcun provvedimento suscettibile di impugnazione, il problema fondamentale affrontato dalla dottrina e dalla giurisprudenza era quello di ricostruire un sistema di tutela degli interessi del privati lesi dal comportamento inadempiente della P.a.. La prima soluzione adottata dalla giurisprudenza consisteva nell’applicare in via analogica le disposizioni previste in materia di silenzio-rigetto sul ricorso gerarchico (art. 5 T.U. legge com. e prov. del 1934). Pertanto, decorsi 120 gg. dalla presentazione del ricorso l’interessato doveva notificare alla P.a. un atto formale di diffida necessario per la messa in mora; decorsi altri 60 gg. dalla diffida, il ricorso si intendeva respinto a tutti gli effetti. Utilizzando questo meccanismo, il privato poteva ricorrere in giudizio avverso il silenzio-rifiuto soltanto dopo il decorso del termine di 60 gg. dalla diffida. Successivamente, l’art. 6 del d.P.R. del 1971 n. 1199, dopo aver formalmente abrogato la disposizione in esame, introduceva un nuovo iter procedimentale per la formazione del silenzio-rigetto in tema di ricorso gerarchico, con la conseguente riproposizione del problema della disciplina applicabile alla formazione del silenzio-rifiuto. Il dibattito dottrinario e giurisprudenziale instauratosi sulla questione si concludeva definitivamente con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978, che ha ritenuto applicabile in questa materia l’art. 25 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato. Perciò, il silenzio-inadempimento si riteneva formato quando, trascorsi 60 gg. dal deposito dell’istanza sulla quale la P.a. era tenuta a provvedere, e notificato successivamente ad essa un atto di messa in mora, l’amministrazione non avesse provveduto nel termine di 30 gg.. Per quanto concerne, invece, la problematica inerente all’individuazione dell’oggetto del giudizio nel caso di impugnazione del silenzio-inadempimento, la giurisprudenza e la dottrina concordavano nel ritenere che il giudice dovesse accertare l’esistenza o meno in capo alla P.a. dell’obbligo di provvedere e l’inosservanza ingiustificata di tale obbligo. Il giudizio sul silenzio-rifiuto aveva, quindi, i caratteri tipici di un giudizio non impugnatorio destinato a concludersi con una sentenza di mero accertamento che dichiarava l’obbligo della P.a. di provvedere, ovvero lo dichiarava inesistente. Nell’ipotesi di atti vincolati, però, la giurisprudenza riconosceva in capo al g.a un potere più ampio che, andando al di là del mero accertamento dell’illegittimità del silenzio-rifiuto, poteva concretizzarsi nella pronuncia sulla fondatezza o meno della domanda del ricorrente. Questo nuovo orientamento giurisprudenziale, introdotto con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 1978, recepiva la posizione della dottrina secondo la quale nel giudizio sul silenzio rifiuto il giudice era chiamato a giudicare, non la legittimità dell’inerzia, ma il rapporto intercorso fra P.a. e privato. Con l’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo, si riproponeva il problema dell’individuazione del meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto. Infatti, la legge n. 241 del 1990, nel perseguimento del primario obiettivo dell’efficienza dell’azione amministrativa, introduceva una disposizione che sanciva l’obbligo di concludere il procedimento con provvedimento esplicito entro il termine fissato dall’amministrazione procedente, ovvero entro il termine di 30 gg.. Alla luce del nuovo dettato normativo, poteva legittimamente affermarsi che non era più necessario per la formazione del silenzio-rifiuto il complesso meccanismo sopra meglio descritto, essendo sufficiente il decorso del termine fissato per la configurazione dell’inerzia della P.a.. Infatti, il decorso del termine fissato qualificava il comportamento della P.a. come rifiuto di provvedere e legittimava ex se l’interessato, senza dover previamente diffidare l’amministrazione, a proporre ricorso giurisdizionale per l’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia della P.a.. Questa opzione ermeneutica sollecitata dalla dottrina venne, però, contestata dalla stessa amministrazione con la pubblicazione da parte del Ministro della Funzione pubblica di una circolare (la n. 60397/7/493 dell’8 gennaio 1991) in cui si specificava che l’art. 2 non incideva sull’applicabilità del procedimento di cui all’art. 25 T.U. del 1957 n. 3 in quanto “non dispone nel senso della qualificazione dell’inerzia imputabile all’amministrazione”. A conferma di tale assunto veniva, poi, citata la prassi giurisprudenziale di ritenere necessaria la previa diffida anche nei casi in cui le leggi speciali stabilissero un termine per provvedere. In ogni caso, si ritiene che la soluzione interpretativa innovatrice prospettata avrebbe dovuto trovare senz’altro accoglimento in ragione della sua spiccata conformità ed omogeneità rispetto ai principi fondamentali di speditezza, di trasparenza e di democrazia procedimentale a cui la legge stessa si ispirava. 2. Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000 L’art. 2 della legge n. 205 del 2000 introduce un procedimento accelerato per la decisione dei ricorsi avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione. Tale procedimento si caratterizza per la decisione in camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata, emessa entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso. La decisione è appellabile entro il termine abbreviato di 30 gg. dalla notificazione, o in mancanza entro 90 gg. dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza. Le disposizioni dettate per il giudizio di primo grado trovano applicazione, in virtù di rinvio esplicito operato dalla legge, anche nel caso di giudizio d’appello. Prima di procedere all’esame della nuova disposizione normativa, si ritiene opportuno formulare alcune precisazioni sulla sua collocazione nell’ambito del sistema delineato dalla legge T.a.r.. In particolare, nonostante la collocazione del nuovo articolo immediatamente dopo quello concernente la tutela cautelare, si deve escludere che il legislatore abbia voluto inquadrare il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione nell’ambito del sistema della tutela interinale. Ciò appare evidente se solo si consideri che il giudizio non si conclude con una mera ordinanza, ma con una vera e propria sentenza succintamente motivata. Come è noto, infatti, la sentenza è un provvedimento a cui deve normalmente riconoscersi il carattere della definitività. Inoltre, si consideri che la legge disciplina espressamente l’ipotesi in cui sia necessario, ai fini della decisione della controversia, l’espletamento dell’attività istruttoria, prevedendo che - nel rispetto delle esigenze di celerità - la decisione debba essere emessa entro 30 gg. dalla data fissata per gli adempimenti istruttori. Da quanto affermato, si desume che l’attività del giudice non è mai limitata ad una valutazione sommaria, ma che si tratta di vera e propria attività di accertamento della legittimità o meno del comportamento inerte della P.a.. Tale assunto sarebbe, altresì, confermato dal potere espressamente riconosciuto all’interessato di chiedere l’emanazione di misure cautelari idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso anche in presenza di comportamento inerte dell’amministrazione. Ciò posto, rimane all’interprete soltanto un legittimo dubbio circa l’utilità dell’emissione di una misura cautelare, potendo il privato ottenere direttamente, con la procedura accelerata sopra descritta, una sentenza definitiva. Sempre in via preliminare, si rileva che il legislatore non ha preso posizione sull’annosa questione del meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto, permanendo il dubbio se esso si formi con il mero decorrere del termine assegnato alla P.a. per concludere il procedimento ex art. 2, legge 241 del 1990, ovvero se sia ancora necessaria la previa diffida e messa in mora. Occorre, poi, affrontare l’ulteriore problema dell’individuazione dell’oggetto del giudizio sul ricorso avverso il silenzio della P.a., al fine di stabilire se si tratti o meno di giudizio impugnatorio. In assenza di riferimenti normativi espressi, si ritiene che il legislatore non abbia accolto il nuovo orientamento della giurisprudenza secondo cui il giudizio avrebbe ad oggetto il rapporto intercorso tra la P.a. ed il privato. Al contrario, la norma sembra deporre nel senso che il giudizio sia finalizzato soltanto a dichiarare in astratto l’obbligo di provvedere della P.a., senza che possa aversi alcuna valutazione della fondatezza della pretesa del privato. Il giudice, infatti, un volta accertata l’inadempienza della P.a. accoglierà il ricorso e ordinerà alla stessa di provvedere entro un termine non superiore a 30 gg.. Soltanto nell’evenienza in cui l’amministrazione sia ulteriormente inadempiente il giudice nominerà, su istanza del privato, un commissario ad acta che provvederà in luogo della stessa. Ne consegue, che l’interesse del privato potrà essere frustrato in quanto, pur in presenza di una fondata pretesa, dovrà comunque attendere l’emanazione su ordine del giudice del provvedimento da parte della P.a. inadempiente. Tra l’altro, la P.a. nell’esercizio del suo potere discrezionale potrà anche rigettare l’istanza del privato, costringendolo, ad instaurare un altro giudizio di impugnazione del provvedimento emanato. Si consideri, inoltre, che il giudizio, non avendo ad oggetto il merito della pretesa, non determina l’esaurimento del potere della P.a di provvedere la quale, intervenendo in corso di causa, potrà determinare l’improcedibilità del ricorso per cessazione della materia del contendere. In tal modo, potrebbe addirittura risultare vanificata la stessa ratio della procedura speciale che è quella di fornire adeguati ed tempestivi strumenti di tutela all’interessato. Tanto premesso, dovrebbe ammettersi il potere del giudice, in presenza di precisi riferimenti normativi (come nel caso dell’attività vincolata), di fissare criteri e modalità attraverso le quali l’amministrazione debba provvedere. In tal senso si era già più volte pronunciata la dottrina, ma – come è noto – la resistenza della giurisprudenza ha sempre impedito l’affermarsi del nuovo orientamento. Tale chiusura della giurisprudenza, probabilmente, permarrà anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, non avendo la legge di riforma introdotto alcuna disposizione innovatrice sulle questioni controverse. La risarcibilità degli interessi legittimi 1. La risarcibilità degli interessi legittimi prima della pronuncia della Corte di Cassazione (sent. n. 500/99) L’orientamento tradizionale della giurisprudenza escludeva la risarcibilità del danno nel caso di lesione di interessi legittimi. Tale impostazione trovava il suo fondamento in un duplice presupposto. In primo luogo, costituiva ostacolo alla risarcibilità dell’interesse legittimo la sua rappresentazione in termini meramente processuali, quale potere di agire in giudizio per garantire il legittimo esercizio dei poteri da parte della Pubblica Amministrazione. In sostanza si garantiva al privato, nella cui sfera giuridica incideva l’esercizio del potere, la facoltà di invocare il giudice amministrativo al fine di accertare la legittimità dell’azione amministrativa. Per tale ragione l’interesse legittimo veniva originariamente qualificato come interesse occasionalmente protetto, cioè come interesse tutelato nella sola eventualità in cui coincidesse con l’interesse pubblico perseguito dalla P.A. nell’esercizio del potere discrezionale. Conseguentemente, l’annullamento del provvedimento amministrativo per illegittimità veniva a realizzare in via primaria l’interesse pubblico e soltanto indirettamente l’interesse del ricorrente. In questa prospettiva, mancando gli stessi presupposti per la configurazione di un danno al privato, si escludeva automaticamente la possibilità di concepire la risarcibilità dell’interesse legittimo. La posizione di vantaggio riconosciuta al ricorrente risultava, infatti, pienamente tutelata dall’eliminazione (annullamento) del provvedimento amministrativo illegittimo. Soltanto successivamente, soprattutto grazie all’influenza della dottrina, incominciò a profilarsi un nuovo modo di intendere l’interesse legittimo, visto non più come mero potere processuale, ma come vera e propria posizione giuridica sostanziale. L’interesse legittimo, al pari del diritto soggettivo, si ricollegava ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita: ciò che cambiava rispetto al diritto soggettivo era soltanto il modo o la misura con cui l’interesse sostanziale veniva tutelato. Pertanto, l’interesse legittimo poteva intendersi come posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo; tale potere consentiva al soggetto di influire sul corretto esercizio del potere amministrativo, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene. Si perveniva in tal modo alla bipartizione tradizionale tra interessi oppositivi, caratterizzati dall’istanza di conservazione della propria sfera giuridica personale e patrimoniale, ed interessi pretensivi, consistenti in istanze di ampliamento della propria sfera giuridica. Una prima apertura della giurisprudenza verso la risarcibilità dell’interesse legittimo si configurava proprio in relazione ai cd. interessi oppositivi. Partendo dalla considerazione che il provvedimento amministrativo veniva ad incidere su una posizione giuridica di diritto soggettivo affievolendola ad interesse legittimo si arrivava ad ammettere il risarcimento del danno subito dal soggetto in conseguenza dell’illegittima compressione della sua sfera giuridica. Con l’annullamento del provvedimento illegittimo si verificava, infatti, una riespansione della posizione di diritto soggettivo originaria in relazione alla quale non sussistevano ostacoli per il risarcimento del danno. Con questo espediente, pertanto, la giurisprudenza ammetteva il risarcimento dei danni subiti dall’interessato, danni prodotti comunque in relazione ad una posizione giuridica qualificabile in termini di diritto soggettivo, senza venir meno al principio generale della irrisarcibilità degli interessi legittimi. Analoghe considerazioni sono state fatte valere nell’ipotesi della riespansione di un diritto soggettivo non originario ma scaturente da un provvedimento amministrativo, qualora fosse stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell’atto fonte della posizione di vantaggio. Infatti, anche in tale ipotesi, il privato che aveva conseguito una posizione di vantaggio in forza del provvedimento amministrativo, risultava titolare di un interesse legittimo oppositivo alla illegittima rimozione della detta situazione, potendo agire sia per ottenere l’eliminazione dell’atto sia per ottenere la reintegrazione dell’eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto. Il principio dell’irrisarcibilità veniva, al contrario, confermato in relazione ai cd. interessi pretensivi, sussistendo in tali casi soltanto un interesse legittimo del privato all’espansione della propria sfera giuridica. Tale posizione non risultava mutata neanche nell’eventualità dell’annullamento del provvedimento illegittimo di diniego, poiché l’eliminazione dell’atto riproduceva soltanto la situazione preesistente, rimettendo alla valutazione discrezionale della P.A. il potere di disporre in senso favorevole o sfavorevole della sfera giuridica del privato. Nessun limite alla risarcibilità, invece, veniva ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della P.A., indiscussa fonte di responsabilità aquiliana in quanto non costituiva esercizio della discrezionalità amministrativa. Il secondo ostacolo alla risarcibilità dell’interesse legittimo veniva individuato dalla giurisprudenza nel dettato dello stesso art. 2043 c.c.. Nella lettura tradizionale della norma il concetto di “danno ingiusto” veniva identificato esclusivamente nella lesione di un diritto soggettivo, potendo l’ingiustizia del danno intendersi nella duplice accezione di danno prodotto contra ius e non iure; contra ius, nel senso che il fatto doveva ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento giuridico; non iure, nel senso che il fatto non doveva essere giustificato nell’ordinamento giuridico. La validità dell’interpretazione tradizionale - pur essendo affermata in via di principio – veniva, poi, disattesa nella prassi in conseguenza della diffusione di pronunce della Corte di Cassazione in cui si ammetteva il risarcimento nel caso di lesione di posizioni giuridiche soggettive che non avevano la consistenza del diritto soggettivo. Infatti, dopo una fase iniziale caratterizzata da una prima estensione della risarcibilità del danno aquiliano dai diritti assoluti a quelli relativi, si era pervenuti all’ammissibilità della tutela anche in fattispecie quali la lesione dell’integrità patrimoniale o della libertà di determinazione negoziale, fino a giungere al risarcimento del danno per perdita di chance, intesa come possibilità effettiva e concreta di conseguire un utile risultato. Si profilava, quindi, un nuovo modo di intendere la portata dell’art. 2043 del c.c. che estendeva la responsabilità aquiliana a tutte le ipotesi di lesione di una posizione giuridica di vantaggio di cui il soggetto fosse titolare, anche se tale posizione non era qualificabile in termini di diritto soggettivo. 2. La risarcibilità degli interessi legittimi dopo la sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Il principio dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo veniva definitivamente scardinato per effetto della nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 500 del 1999. La Suprema Corte, accogliendo l’orientamento della dottrina prevalente, ammetteva la configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043 del c.c. anche nel caso di lesione di una posizione giuridica soggettiva qualificabile come interesse legittimo. L’evoluzione si fondava primariamente su una nuova lettura dell’art. 2043 del c.c., non più norma secondaria destinata esclusivamente a sanzionare comportamenti già vietati dall’ordinamento giuridico, ma norma primaria (la dottrina parlava di clausola generale primaria) che imponeva il risarcimento nel caso di lesione di ogni interesse giuridicamente rilevante. L’ampliamento della portata della norma veniva attuato attraverso l’interpretazione espansiva della locuzione “danno ingiusto”. In questa nuova ricostruzione l’ingiustizia veniva a ravvisarsi ogni volta che veniva inferto un danno ad un soggetto in assenza di causa di giustificazione, cioè non iure, senza che fosse necessaria la sussistenza dell’ulteriore requisito della violazione di un’altra norma giuridica (cd. danno contra ius). Spettava, pertanto, al giudice verificare ed individuare le fattispecie in cui poteva considerarsi leso un interesse giuridicamente rilevante. Occorreva, cioè, procedere alla valutazione degli interessi contrapposti per accertare se la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato fosse effettivamente conforme ai principi di legalità e di buona amministrazione, poiché soltanto in questa eventualità l’azione della P.A. poteva dirsi legittima e quindi non generatrice di danni nella sfera giuridica dell’interessato. La Cassazione, inoltre, ad ulteriore sostegno del nuovo orientamento citava due importanti interventi legislativi: la legge n. 142 del 1990 ed il d.lgs. n. 80 del 1998. Nella legge n. 142 del 1990, sotto la spinta dell’ordinamento comunitario, era stata prevista l’esperibilità dell’azione di risarcimento di fronte al giudice ordinario per quei soggetti che avessero subito una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori e di forniture. Tale norma riconosceva per la prima volta la risarcibilità di una posizione giuridica che nel nostro ordinamento interno era qualificata quale interesse legittimo. Si trattava, come precisato dalla Corte di Cassazione, di normativa a carattere eccezionale non suscettibile di applicazione a fattispecie diverse da quelle espressamente contemplate e, comunque, non in grado di porre in discussione il principio costantemente affermato della irrisarcibilità degli interessi legittimi. Era comunque evidente che la disposizione in esame scioglieva definitivamente il dubbio sulla possibilità di concepire in concreto la risarcibilità dell’interesse legittimo. A conclusioni analoghe si giungeva nell’analisi del contenuto del d.lgs. n. 80 del 1998 ed in particolare degli artt. 33 e 34. Le disposizioni in esame devolvevano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, nonché quelle aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia (art. 34) e attribuivano al giudice amministrativo, nelle stesse materie, il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto (art. 35, comma 1). In tal modo il giudice amministrativo godeva nelle materie specificate di una giurisdizione esclusiva, estesa alla cognizione degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi, e piena in quanto comprensiva della reintegrazione delle conseguenze patrimoniali dannose dell’atto. Appariva, quindi, evidente la volontà del legislatore di porre, anche in osservanza del dettato costituzionale (vedi art. 24 e 113), in posizione di pari dignità interessi legittimi e diritti soggettivi equiparando gli strumenti di tutela. Si perveniva così a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale attribuendo al G.a. il potere di disporre il risarcimento del danno nel caso di lesione di una posizione giuridica soggettiva, sia essa di interesse legittimo o di diritto soggettivo, senza necessità del successivo ricorso ad un diverso giudice ( il G.o.). L’art. 35, comma 1, con il suo richiamo espresso al concetto di “danno ingiusto” accoglieva integralmente la nuova qualificazione dell’art. 2043 come clausola generale primaria che riconosce la responsabilità aquiliana in ogni caso di lesione di posizioni giuridiche di vantaggio. La Cassazione, infine, precisava che il risarcimento del danno poteva essere riconosciuto soltanto laddove fosse dimostrata la lesione dell’interesse al bene della vita di cui era titolare il privato, non essendo sufficiente la circostanza dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo. Nel caso di interessi oppositivi il danno ingiusto doveva ravvisarsi nella lesione dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio illegittimamente compressa dal potere amministrativo. Nel caso, invece, di interessi pretensivi occorreva stabilire se il provvedimento illegittimo di diniego avesse effettivamente leso un oggettivo affidamento del privato circa la conclusione positiva del procedimento. Al fine del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, dovevano, poi, ricorrere tutti i requisiti previsti dalla norma ex art. 2043 del c.c.: a) il comportamento doloso o colposo della P.a.. Non si trattava semplicemente di constatare l’illegittimità dell’operato della P.a. ma di accertare la sussistenza del dolo e della colpa, non solo nei confronti del funzionario che aveva agito ma di tutta la P.a. intesa come apparato. La colpa, cioè, non poteva considerarsi in re ipsa, cioè scaturente dal fatto stesso che la P.a. avesse portato ad esecuzione un provvedimento illegittimo, ma si considerava sussistente soltanto laddove l’azione amministrativa si fosse concretizzata nella violazione di principi di correttezza, imparzialità e buona amministrazione. b) l’evento dannoso. c) l’ingiustizia del danno, intesa come lesione di un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, o altro interesse giuridicamente rilevante. d) il nesso di causalità tra la condotta (positiva od omissiva) della P.a. e l’evento dannoso. 3. La risarcibilità degli interessi legittimi nella legge di riforma del processo amministrativo, legge n. 205 del 2000 L’art. 7 della legge n. 205 del 2000 ha introdotto una rilevante modifica all’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998, stabilendo che “il Tribunale Amministrativo Regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”. Il primo dato che colpisce l’attenzione dell’interprete è quello dell’ampiezza previsionale della disposizione in esame che riconosce il potere del G.a. di disporre il risarcimento del danno non soltanto nelle materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma anche in quelle attribuite alla giurisdizione generale di legittimità. E’ evidente che si tratta della prima disposizione legislativa che sancisce, recependo il nuovo orientamento della Cassazione, il principio generale della risarcibilità degli interessi legittimi. Passando all’esame della norma in oggetto si può evidenziare l’assenza della qualificazione del danno come “danno ingiusto”. Si tratta, probabilmente, di una mera dimenticanza del legislatore, non potendosi escludere, in applicazione dei principi generali, che il danno debba essere ingiusto, cioè lesivo di posizioni giuridiche tutelate dall’ordinamento. La norma dispone espressamente che il g.a. è competente per le questioni inerenti al risarcimento del danno e degli altri diritti patrimoniali consequenziali. Anche in questo caso, il legislatore ha ritenuto opportuno specificare che il risarcimento non concerne soltanto i danni direttamente cagionati all’interessato dall’adozione del provvedimento o dal comportamento illegittimo tenuto dalla P.a.. Oltre a tale danno, che è qualificabile secondo i canoni tradizionali in termini di danno emergente, l’interessato potrà, infatti, pretendere anche il risarcimento dei danni consequenziali. Alla categoria dei cd. danni consequenziali potranno ascriversi i pregiudizi ulteriori subiti dall’interessato, quali l’impossibilità di utilizzare proficuamente il provvedimento negato od, ancora, la perdita di occasioni di investimento e quant’altro sia riconducibile al mancato guadagno (cd. lucro cessante). Per quanto concerne, invece, le problematiche di carattere meramente applicativo, si ritiene opportuno precisare quali siano le regole che il G.a. dovrà seguire nell’istruzione probatoria, nonché nella determinazione e liquidazione del danno. Non si può, infatti, ignorare che il G.a., fino ad ora chiamato soltanto a valutare la legittimità o meno dei provvedimenti amministrativi, non possiede gli strumenti processuali idonei alla valutazione della sussistenza o meno del diritto risarcimento del danno. Per tale ragione si ritengono applicabili le disposizioni, in verità dettate in materia di reintegrazione del danno nella giurisdizione esclusiva, di cui ai successivi commi 2 e 3 dell’articolo in esame. Il g.a. potrà, quindi, disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché della consulenza tecnica d’ufficio, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Troverà, inoltre, applicazione la disposizione che riconosce al g.a. il potere di fissare i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Un’ultima notazione, infine, è necessaria per chiarire i rapporti tra azione di annullamento ed azione di risarcimento (e/o reintegrazione in forma specifica). In assenza di disposizioni che si riferiscono espressamente a tale aspetto si ritiene che debbano trovare applicazione i principi generali. Premesso che si tratta di due azioni indipendenti, l’una volta ad ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo e l’altra la condanna alla reintegrazione patrimoniale , si ritiene che le domande possano essere proposte disgiuntamente. In tale ipotesi, appare evidente che il ricorrente dovrà rispettare, nel giudizio di impugnazione del provvedimento amministrativo, il termine decadenziale previsto dalla legge per l’impugnazione del provvedimento, mentre si applicherà il termine di prescrizione del diritto nel caso di richiesta di risarcimento dei danni. Questa regola, però, dovrebbe essere limitata alle richieste di risarcimento aventi ad oggetto i cd. diritti patrimoniali consequenziali, mentre nel caso di danni scaturenti direttamente dall’illegittimità l’istanza dovrebbe essere proposta entro il termine decadenziale previsto per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. Infatti, i danni cd. consequenziali non hanno nei confronti del provvedimento impugnato quel legame così stringente che è, al contrario, ravvisabile nei danni che discendono direttamente dall’illegittimità del provvedimento. Alla luce della nuova normativa, invece, non si ritiene più accettabile la tesi prospettata dalla Cassazione nella citata sentenza n. 500 del 1999, laddove si ammetteva la possibilità di avvalersi del sistema della disapplicazione. In sostanza, il g.o., investito della domanda di risarcimento, poteva conoscere di un provvedimento amministrativo in via incidentale, con la conseguenza che, riconosciutane l’illegittimità, lo disapplicava, considerandolo tamquam non esset. Tale impostazione, valida in un sistema caratterizzato dal doppio binario della giurisdizione (g.o. competente per la condanna al risarcimento del danno e g.a. competente per l’annullamento del provvedimento illegittimo), non è in alcun modo giustificabile alla luce della legge di riforma che concentra in capo al g.a. la cognizione delle controversie tanto sulla illegittimità, quanto sulla reintegrazione patrimoniale. In ogni caso, nel rispetto del principio generale dell’economia processuale dovrà riconoscersi la facoltà di proporre con il medesimo atto introduttivo entrambe le domande. Il ricorso conterrà una domanda in via principale finalizzata ad ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo e, in subordine all’accoglimento della precedente, la richiesta di condanna della P.a. alla reintegrazione del danno subito. Si precisa, però, che nell’eventualità in cui il g.a., accertata la sussistenza di un vizio nel provvedimento amministrativo, dichiari l’illegittimità ciò non comporterà necessariamente il riconoscimento di un diritto al risarcimento dei danni subiti. Infatti, l’annullamento dell’atto è esclusivamente condizione necessaria ma non sufficiente per ammettere la reintegrazione patrimoniale, spettando al giudice accertare se nel caso in esame si siano verificati o meno pregiudizi nella sfera giuridica del privato. LEGGE 6 dicembre 1971, n. 1034 (in Gazz. Uff., 13 dicembre 1971, n. 314) - Istituzione dei tribunali amministrativi regionali LEGGE 6 dicembre 1971, n. 1034 - Istituzione dei tribunali amministrativi regionali TESTO COORDINATO con le modifiche apportate dalla LEGGE 21 luglio 2000 n. 205 TITOLO I Istituzione e competenze dei tribunali amministrativi regionali Art. 1 Sono istituiti tribunali amministrativi regionali, quali organi di giustizia amministrativa di primo grado. Le loro circoscrizioni sono regionali e comprendono le province facenti parte delle singole regioni. Essi hanno sede nei capoluoghi di regione. Nelle regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzi, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia sono istituite sezioni staccate, le cui sedi e le cui circoscrizioni saranno stabilite nelle norme di attuazione della presente legge previste nell'articolo 52. Una sezione staccata con ordinamento speciale è pure istituita nella regione Trentino-Alto Adige. Essa ha sede a Bolzano e alla sua disciplina si provvede con altra legge. Il tribunale amministrativo regionale del Lazio, oltre una sezione staccata, ha tre sezioni con sede a Roma. Art. 2 Il tribunale amministrativo regionale decide: a) sui ricorsi già attribuiti dagli articoli 1 e 4 del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1058, e successive modificazioni, alla giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale; b) sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere per violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi: 1) dagli organi periferici dello Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale, aventi sede nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale; 2) dagli enti pubblici non territoriali aventi sede nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale e che esclusivamente nei limiti della medesima esercitano la loro attività; 3) dagli enti pubblici territoriali compresi nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale. Art. 3 Sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi dagli organi centrali dello Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale. Per gli atti emessi da organi centrali dello Stato o di enti pubblici a carattere ultraregionale, la cui efficacia è limitata territorialmente alla circoscrizione del tribunale amministrativo regionale, e per quelli relativi a pubblici dipendenti in servizio, alla data di emissione dell'atto, presso uffici aventi sede nella circoscrizione del tribunale amministrativo regionale la competenza è del tribunale amministrativo regionale medesimo. Negli altri casi, la competenza, per gli atti statali, è del tribunale amministrativo regionale con sede a Roma; per gli atti degli enti pubblici a carattere ultraregionale è del tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede l'ente. Art. 4 Nelle materie indicate negli articoli 2 e 3 la competenza spetta ai tribunali amministrativi regionali per i ricorsi aventi ad oggetto diritti ed interessi di persone fisiche o giuridiche, la cui tutela non sia attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria, o ad altri organi di giurisdizione. Art. 5 Sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali i ricorsi contro atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici. Si applicano, ai fini dell'individuazione del tribunale competente, il secondo e il terzo comma dell'articolo 3. Resta salva la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria per le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle dei tribunali delle acque pubbliche e del tribunale superiore delle acque pubbliche, nelle materie indicate negli articoli 140144 del testo unico 11 dicembre 1933, n. 1775. Art. 6 Il tribunale amministrativo regionale è competente a decidere sui ricorsi concernenti controversie in materia di operazioni per le elezioni dei consigli comunali, provinciali e regionali. Con la decisione dei ricorsi il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri e adotta i provvedimenti di cui all'articolo 84 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, modificato dalla legge 23 dicembre 1966, n. 1147. Rimangono salve, per le azioni popolari e le impugnative consentite agli elettori, le norme dell'articolo 7 della legge 23 dicembre 1966, numero 1147, e dell'articolo 19 della legge 17 febbraio 1968, n. 108. Art. 7 Il tribunale amministrativo regionale esercita giurisdizione di merito nei casi preveduti dall'articolo 27 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, ed in quelli previsti dall'articolo 1 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1058. Il tribunale amministrativo regionale esercita giurisdizione esclusiva nei casi previsti dall'articolo 29 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, e in quelli previsti dall'articolo 4 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1058, e successive modificazioni, nonché nelle materie di cui all'articolo 5, primo comma, della presente legge. Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative a diritti. Restano riservate all'autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Restano riservate all'autorità stare in giudizio, e la risoluzione dell'incidente di giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali falso. concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell'incidente di falso. Il tribunale amministrativo regionale giudica anche in merito nei casi previsti dall'articolo 29, numeri 2), 3), 4), 5) e 8) del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054. Art. 8 Il tribunale amministrativo regionale, nelle materie in cui non ha competenza esclusiva, decide con efficacia limitata di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale. La risoluzione dell'incidente di falso e le questioni concernenti lo stato e la capacità dei privati individui restano di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio. TITOLO II Composizione dei tribunali amministrativi regionali Art. 9 Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali, è nominato per ciascun tribunale amministrativo regionale, all'inizio di ogni anno, il presidente, da scegliere tra i presidenti di sezione del Consiglio di Stato o tra i consiglieri di Stato. Con lo stesso decreto e con le medesime modalità sono nominati presso ciascun tribunale amministrativo regionale non meno di cinque magistrati amministrativi regionali appartenenti al ruolo previsto dall'articolo 12. Per i tribunali amministrativi regionali formati di più sezioni, nonché per le sezioni istituite nel tribunale amministrativo regionale del Lazio deve essere sempre nominato un presidente di sezione del Consiglio di Stato. Art. 10 Il tribunale amministrativo regionale decide con l'intervento del presidente e di due magistrati amministrativi regionali. In mancanza del presidente, il collegio è presieduto dal magistrato amministrativo più anziano. Art. 11 I presidenti di sezione del Consiglio di Stato sono destinati alla presidenza dei tribunali amministrativi regionali con il loro consenso, ovvero all'atto del conseguimento della nomina. I presidenti di sezione del Consiglio di Stato destinati a presiedere i tribunali amministrativi regionali cessano, a domanda, da tale destinazione, secondo l'ordine di anzianità, e riassumono le loro funzioni in seno al Consiglio di Stato, quando presso il Consiglio stesso si verificano vacanze nei posti di presidente di sezione. Per la relativa sostituzione si procede nei modi previsti dal comma precedente. I consiglieri di Stato possono essere destinati alla presidenza dei tribunali amministrativi regionali solo se abbiano almeno due anni di anzianità e col loro consenso. Per le sedi che rimangono scoperte la destinazione potrà avvenire d'ufficio, seguendo il criterio della minore anzianità di qualifica, tra i consiglieri che abbiano almeno due anni di anzianità. I consiglieri di Stato, a domanda, possono riassumere le loro funzioni presso il Consiglio di Stato non prima di tre anni dalla loro destinazione. Possono continuare nella destinazione alla presidenza di un tribunale amministrativo regionale anche se siano nominati presidenti di sezione del Consiglio di Stato. Art. 12 Per l'assolvimento delle funzioni previste dalla presente legge: a) i posti di presidente di sezione di cui alla tabella A allegata alla legge 21 dicembre 1950, n. 1018, sono aumentati di dieci unità; b) i posti di consigliere di Stato della tabella medesima sono parimenti aumentati di quattordici unità; c) è istituito il ruolo dei magistrati amministrativi regionali, secondo la tabella allegata alla presente legge. Art. 13 I magistrati amministrativi regionali si distinguono in consiglieri, primi referendari e referendari. Per quanto non diversamente disposto dalla presente legge, ad essi sono estese le norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale di corrispondente qualifica della magistratura del Consiglio di Stato, nelle qualifiche corrispondenti di consigliere, primo referendario e referendario. Per i magistrati amministrativi regionali il trasferimento ad altra sede può essere disposto, nelle forme indicate dall'articolo 9 e su parere del Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali per una delle seguenti ragioni: a) su domanda; b) in seguito ad avanzamento; c) in seguito all'insorgere di una situazione di incompatibilità prevista dalla legge; d) per variazione nel numero dei magistrati da assegnare ai vari tribunali. I magistrati amministrativi regionali non possono essere in alcun caso chiamati ad esercitare funzioni o ad espletare compiti diversi da quelli istituzionali. Ad essi si estendono le altre cause di incompatibilità e le cause di ineleggibilità previste per i magistrati ordinari. Art. 14 Le nomine a referendario sono conferite a seguito di concorso per titoli ed esami, al quale possono partecipare, purché non abbiano superato il quarantacinquesimo anno di età: 1) i magistrati dell'ordine giudiziario, che abbiano conseguito la nomina ad aggiunto giudiziario, ed i magistrati amministrativi e della giustizia militare di qualifica equiparata; 2) gli avvocati dello Stato e i procuratori dello Stato con qualifica non inferiore a sostituti procuratori dello Stato; 3) i dipendenti dello Stato muniti della laurea in giurisprudenza, con qualifica non inferiore a direttore di sezione e equiparata, con almeno cinque anni di effettivo servizio di ruolo nella carriera direttiva; 4) gli assistenti universitari di ruolo alle cattedre di materie giuridiche, con almeno 5 anni di servizio; 5) i dipendenti delle regioni, degli enti pubblici a carattere nazionale e degli enti locali, muniti della laurea in giurisprudenza, che siano stati assunti attraverso concorsi pubblici ed abbiano almeno cinque anni di servizio effettivo di ruolo nella carriera direttiva; 6) gli avvocati iscritti all'albo da quattro anni; 7) i consiglieri regionali, provinciali e comunali, muniti della laurea in giurisprudenza, che abbiano esercitato tali funzioni per almeno cinque anni; 8) gli ex componenti elettivi delle giunte provinciali amministrative, muniti di laurea in giurisprudenza, che abbiano esercitato le funzioni per almeno cinque anni. La commissione esaminatrice è nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ed è composta da due consiglieri di Stato e da tre docenti universitari. Art. 15 Le nomine a primo referendario sono conferite ai referendari con almeno sei anni di effettivo servizio, per due terzi mediante scrutinio per merito, comparativo e per un terzo secondo il turno di anzianità, previo giudizio di idoneità. Le nomine vengono disposte con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Allo scrutinio per merito comparativo e al giudizio di idoneità provvede il Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali. Art. 16 I consiglieri amministrativi regionali sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e su parere del Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali. I posti che si rendono vacanti nel ruolo dei consiglieri amministrativi regionali sono conferiti ai primi referendari regionali, che abbiano prestato almeno sei anni di effettivo servizio nella qualifica. Art. 17 A decorrere dal 1° gennaio del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore della presente legge, un quarto dei posti che si rendano vacanti nel ruolo dei consiglieri di Stato è riservato ai consiglieri amministrativi regionali con almeno quattro anni di effettivo servizio nella qualifica. Il trasferimento di ruolo è disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, su parere del Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali. Il magistrato trasferito conserva l'anzianità di carriera e di qualifica acquisita nel ruolo dei magistrati amministrativi regionali, ed è collocato nel nuovo ruolo nel posto che gli spetta, secondo l'anzianità nell'ultima qualifica già ricoperta. Art. 18 Presso ogni tribunale amministrativo regionale è costituito un ufficio di segreteria, diretto da un segretario generale. I segretari generali sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su designazione del Presidente del Consiglio di Stato: a) tra i funzionari della carriera direttiva del personale di segreteria del Consiglio di Stato, con qualifica non inferiore a direttore di segreteria; b) tra i funzionari della carriera direttiva dell'amministrazione civile dell'interno, con qualifica non inferiore a direttore di sezione. Agli uffici di segreteria sono addetti impiegati della carriera direttiva, di concetto, esecutiva ed ausiliaria dell'amministrazione civile dell'interno, nonché delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali delle rispettive circoscrizioni, il cui numero e le cui qualifiche saranno stabilite, entro due mesi dall'entrata in vigore della presente legge, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministri per l'interno e per il tesoro. Nei limiti dell'organico determinato nelle forme sopra indicate, agli uffici di segreteria può essere assegnato, col suo consenso, anche personale di ruolo di segreteria del Consiglio di Stato. I segretari generali e gli impiegati addetti agli uffici di segreteria sono collocati fuori del ruolo organico, cui appartengono, per tutta la durata dell'ufficio, senza che siano lasciati scoperti nella qualifica iniziale dei ruoli organici i posti di cui all'articolo 58, comma secondo, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Gli impiegati delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali sono destinati al tribunale amministrativo regionale in posizione di comando, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, d'intesa con le amministrazioni interessate. Entro cinque anni dall'entrata in vigore della presente legge sarà istituito con legge un ruolo organico del personale di segreteria dei tribunali amministrativi regionali. TITOLO III Norme di procedura Art. 19 Nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali, fino a quando non verrà emanata apposita legge sulla procedura, si osservano le norme di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la presente legge. Per i giudizi davanti ai tribunali amministrativi regionali è obbligatorio il patrocinio di avvocato o di procuratore legale. Si applicano le disposizioni generali in materia di gratuito patrocinio. Ai fini fiscali si applicano nei giudizi avanti ai tribunali amministrativi regionali le disposizioni già in vigore per i giudizi dinanzi alla giunta provinciale amministrativa. Per i giudizi in materia di operazioni elettorali, previsti dall'articolo 6, rimangono ferme le norme procedurali contenute nella legge 23 dicembre 1966, n. 1147. Per essi non è necessario il ministero di procuratore o di avvocato. Gli atti relativi sono redatti in carta libera e sono esenti dalla tassa di registro e dalle spese di cancelleria. Art. 20 Nei casi in cui contro gli atti o provvedimenti emessi da organi periferici dello Stato o di enti pubblici a carattere ultraregionale sia presentato ricorso in via gerarchica, il ricorso al tribunale amministrativo regionale è proponibile contro la decisione sul ricorso gerarchico ed in mancanza, contro il provvedimento impugnato, se, nel termine di novanta giorni, la pubblica amministrazione non abbia comunicato e notificato la decisione all'interessato. Se siano interessate più persone il ricorso al tribunale amministrativo regionale proposto da un interessato esclude il ricorso gerarchico di tutti gli atti. Gli interessati, che abbiano già proposto o propongano ricorso gerarchico, devono essere informati a cura dell'amministrazione dell'avvenuta presentazione del ricorso al tribunale amministrativo regionale. Entro 30 giorni da tale comunicazione essi, se il loro ricorso gerarchico era stato presentato in termine, possono ricorrere al tribunale amministrativo regionale. Quando sia stato promosso ricorso al tribunale amministrativo regionale è escluso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Art. 21 Il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di giorni sessanta da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione nell'albo, salvo l'obbligo di integrare le notifiche con le ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che siano ordinate dal tribunale amministrativo regionale. Il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di giorni sessanta da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista da disposizioni di legge o di regolamento, salvo l'obbligo di integrare le notifiche con le ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che siano ordinate dal tribunale amministrativo regionale. Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti. In pendenza di un ricorso l'impugnativa di cui dall'articolo 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241, può essere proposta con istanza presentata al Presidente e depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica all'amministrazione ed ai controinteressati, e viene decisa con ordinanza istruttoria adottata in camera di consiglio. Il ricorso, con la prova delle avvenute notifiche, deve essere depositato nella cancelleria del tribunale amministrativo regionale, entro trenta giorni dall'ultima notifica. Nel termine stesso deve essere depositata anche copia del provvedimento impugnato, o quanto meno deve fornire prova del rifiuto dell'amministrazione di rilasciare copia del provvedimento medesimo. Il ricorso, con la prova delle avvenute notifiche, e con copia del provvedimento impugnato, ove in possesso del ricorrente, deve essere depositato nella segreteria del tribunale amministrativo regionale, entro trenta giorni dall'ultima notifica. Nel termine stesso deve essere depositata copia del provvedimento impugnato, ove non depositata con il ricorso ovvero ove notificato o comunicato al ricorrente e dei documenti di cui il ricorrente intenda avvalersi in giudizio. La mancata produzione della copia del provvedimento impugnato non implica decadenza. L'amministrazione all'atto di costituirsi in giudizio, deve produrre il provvedimento impugnato nonché, anche in copie autentiche, gli atti e i documenti in base ai quali l'atto è stato emanato. L'amministrazione, entro sessanta giorni dalla scadenza del termine di deposito del ricorso, deve produrre l'eventuale provvedimento impugnato nonché gli atti e i documenti in base ai quali l'atto è stato emanato, quelli in esso citati, e quelli che l'amministrazione ritiene utili al giudizio. Dell'avvenuta produzione del provvedimento impugnato, nonché degli atti e dei documenti in base ai quali l'atto è stato emanato, deve darsi comunicazione alle parti costituite. Ove l'amministrazione non provveda Ove l'amministrazione non provveda all'adempimento, il Presidente ordina l'esibizione all'adempimento, il presidente, ovvero un degli atti e dei documenti nel tempo e nei modi magistrato da lui delegato, ordina, anche su opportuni. istanza di parte, l'esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni. Analogo provvedimento il Presidente ha il potere di adottare nei confronti di soggetti diversi dall'amministrazione intimata per atti e documenti di cui ritenga necessaria l'esibizione in giudizio. In ogni caso, qualora l'esibizione importi una spesa, essa deve essere anticipata dalla parte che ha proposto istanza per l'acquisizione dei documenti. Se il ricorrente, allegando danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, ne chiede la sospensione, sull'istanza il tribunale amministrativo regionale pronuncia con ordinanza motivata emessa in camera di consiglio. I difensori delle parti debbono essere sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano richiesta (1). Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave e irreparabile derivante dall'esecuzione dell'atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell'amministrazione, durante il tempo necessario a giungere ad una decisione sul ricorso, chiede l'emanazione di misure cautelari, compresa l'ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare (1) La Corte cost., con sent. 25 giugno 1985, n. 190, interinalmente gli effetti della decisione sul ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente ricorso, il tribunale amministrativo regionale si comma, nella parte in cui, limitando l'intervento pronuncia sull'istanza con ordinanza emessa in d'urgenza del giudice amministrativo alla sospensione dell'esecutività dell'atto impugnato, non consente al giudice stesso di adottare nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d'urgenza che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, le quante volte il ricorrente abbia fondato motivo di temere che durante il tempo necessario alla prolazione della pronuncia di merito il suo diritto sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile. pronuncia sull'istanza con ordinanza emessa in camera di consiglio. Nel caso in cui dall'esecuzione del provvedimento cautelare derivino effetti irreversibili il giudice amministrativo può altresì disporre la prestazione di una cauzione, anche mediante fideiussione, cui subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare. La concessione o il diniego della misura cautelare non può essere subordinata a cauzione quando la richiesta cautelare attenga ad interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, alla integrità dell'ambiente, ovvero ad altri beni di primario rilievo costituzionale. L'ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato, ed indica i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull'esito del ricorso. I difensori delle parti sono sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano richiesta. Prima della trattazione della domanda cautelare, in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, il ricorrente può, contestualmente alla domanda cautelare o con separata istanza notificata alle controparti, chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie. Il presidente provvede con decreto motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il decreto è efficace sino alla pronuncia del collegio, cui l'istanza cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile. Le predette disposizioni si applicano anche dinanzi al Consiglio di Stato, in caso di appello contro un'ordinanza cautelare e in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata. In sede di decisione della domanda cautelare, il tribunale amministrativo regionale, accertata la completezza del contraddittorio e dell'istruttoria ed ove ne ricorrano i presupposti, sentite sul punto le parti costituite, può definire il giudizio nel merito a norma dell'articolo 26. Ove necessario, il tribunale amministrativo regionale dispone l'integrazione del contraddittorio e fissa contestualmente la data della successiva trattazione del ricorso a norma del comma undicesimo; adotta, ove ne sia il caso, le misure cautelari interinali. Con l'ordinanza che rigetta la domanda cautelare o l'appello contro un'ordinanza cautelare ovvero li dichiara inammissibili o irricevibili, il giudice può provvedere in via provvisoria sulle spese del procedimento cautelare. L'ordinanza del tribunale amministrativo regionale di accoglimento della richiesta cautelare comporta priorità nella fissazione della data di trattazione del ricorso nel merito. La domanda di revoca o modificazione delle misure cautelari concesse e la riproposizione della domanda cautelare respinta sono ammissibili solo se motivate con riferimento a fatti sopravvenuti. Nel caso in cui l'amministrazione non abbia prestato ottemperanza alle misure cautelari concesse, o vi abbia adempiuto solo parzialmente, la parte interessata può, con istanza motivata e notificata alle altre parti, chiedere al tribunale amministrativo regionale le opportune disposizioni attuative. Il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato, di cui all'articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e successive modificazioni, e dispone l'esecuzione dell'ordinanza cautelare indicandone le modalità e, ove occorra, il soggetto che deve provvedere. Le disposizioni dei precedenti commi si applicano anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato Art. 21bis I ricorsi avverso il silenzio dell'amministrazione sono decisi in camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta. Nel caso che il collegio abbia disposto un'istruttoria, il ricorso è deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata per gli adempimenti istruttori. La decisione è appellabile entro trenta giorni dalla notificazione o, in mancanza, entro novanta giorni dalla comunicazione della pubblicazione. Nel giudizio d'appello si seguono le stesse regole. In caso di totale o parziale accoglimento del ricorso di primo grado, il giudice amministrativo ordina all'amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l'amministrazione resti inadempiente oltre il detto termine, il giudice amministrativo, su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa. All'atto dell'insediamento il commissario, preliminarmente all'emanazione del provvedimento da adottare in via sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell'insediamento medesimo l'amministrazione abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice amministrativo con la decisione prevista dal comma 2. Art. 22 Nel termine di venti giorni successivi a quelli stabiliti per il deposito del ricorso, l'organo che ha emesso l'atto impugnato e le altre parti interessate possono presentare memorie, fare istanze e produrre documenti. Può essere anche proposto ricorso incidentale secondo le norme degli articoli 37 del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e 44 del regolamento di procedura avanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 17 agosto 1907, n. 642. Chi ha interesse nella contestazione può intervenire con l'osservanza delle norme di cui agli articoli 37 e seguenti del regolamento di procedura avanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la presente legge. La domanda di intervento è notificata alle parti nel rispettivo domicilio di elezione ed all'organo che ha emanato l'atto impugnato e deve essere depositata in segreteria entro venti giorni dalla data della notificazione. Entro i successivi venti giorni le parti interessate e l'amministrazione possono presentare memorie, istanze e documenti. Art. 23 La discussione del ricorso deve essere richiesta dal ricorrente ovvero dall'amministrazione o da altra parte costituita con apposita istanza da presentarsi entro il termine massimo di due anni dal deposito del ricorso. Il Presidente, sempre che sia decorso il termine di cui al primo comma dell'articolo 22, fissa con decreto l'udienza per la discussione del ricorso. Il decreto di fissazione è notificato, a cura dell'ufficio di segreteria, almeno quaranta giorni prima dell'udienza fissata, sia al ricorrente che alle parti che si siano costituite in giudizio. Le parti possono produrre documenti fino a venti giorni liberi anteriori al giorno fissato per l'udienza e presentare memorie fino a dieci giorni. Il Presidente dispone, ove occorra, gli incombenti istruttori. L'istanza di fissazione d'udienza deve essere rinnovata dalle parti o dall'amministrazione dopo l'esecuzione dell'istruttoria. Se entro il termine per la fissazione dell'udienza l'amministrazione annulla o riforma l'atto impugnato in modo conforme alla istanza del ricorrente, il tribunale amministrativo regionale dà atto della cessata materia del contendere e provvede sulle spese. I documenti e gli atti prodotti davanti al tribunale amministrativo regionale non possono essere ritirati dalle parti prima che il giudizio sia definito con sentenza passata in giudicato e, nel caso di appello, sono trasmessi senza indugio al giudice di secondo grado unitamente al fascicolo d'ufficio. Mediante ordinanza può altresì essere disposta dal presidente della sezione, anche su istanza di parte, l'acquisizione dei documenti e degli atti e mezzi istruttori già acquisiti dal giudice di primo grado. Nel caso di appello con richiesta di sospensione della sentenza impugnata ovvero di impugnazione del provvedimento cautelare la parte ha diritto al rilascio di copia conforme dei documenti e degli atti prodotti senza oneri ad eccezione del costo materiale di riproduzione. Il presidente della sezione può, tuttavia, autorizzare la sostituzione degli eventuali documenti e atti esibiti in originale con copia conforme degli stessi, predisposta a cura della segreteria su istanza motivata dalla parte interessata. Entro trenta giorni dalla data dell'iscrizione a ruolo del procedimento di appello avverso la sentenza la segreteria comunica al giudice di primo grado l'avvenuta interposizione di appello e richiede la trasmissione del fascicolo di primo grado. Art. 23 bis Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa aventi ad oggetto: a) i provvedimenti relativi a procedure di affidamento di incarichi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse; b) i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti, nonché quelli relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate alle predette opere; c) i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti; d) i provvedimenti adottati amministrative indipendenti; dalle autorità e) i provvedimenti relativi alle procedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni ai sensi dell'articolo 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142; f) i provvedimenti di nomina, adottati previa delibera del Consiglio dei ministri ai sensi della legge 23 agosto 1988, n. 400; g) i provvedimenti di scioglimento degli enti locali e quelli connessi concernenti la formazione e il funzionamento degli organi. I termini per l'esame dell'istanza cautelare e quelli per il giudizio di merito sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso. Salva l'applicazione dell'articolo 26, quarto comma, il tribunale amministrativo regionale chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare, accertata la completezza del contraddittorio ovvero disposta l'integrazione dello stesso ai sensi dell'articolo 21, se ritiene ad un primo esame che il ricorso evidenzi l'illegittimità dell'atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave e irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di trenta giorni dalla data di deposito dell'ordinanza. In caso di rigetto dell'istanza cautelare da parte del tribunale amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato riformi l'ordinanza di primo grado, la pronunzia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione dell'udienza di merito. In tale ipotesi, il termine di trenta giorni decorre dalla data di ricevimento dell'ordinanza da parte della segreteria del tribunale amministrativo regionale che ne dà avviso alle parti. Nel giudizio di cui al comma 3 le parti possono depositare documenti entro il termine di quindici giorni dal deposito o dal ricevimento delle ordinanze di cui al medesimo comma e possono depositare memorie entro i successivi dieci giorni. Con le ordinanze di cui al comma 3, in caso di estrema gravità ed urgenza, il tribunale amministrativo regionale o il Consiglio di Stato possono disporre le opportune misure cautelari, enunciando i profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso. Nei giudizi di cui al comma 1, il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data dell'udienza, mediante deposito in segreteria Il termine per la proposizione dell'appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale pronunciata nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza. La parte può, al fine di ottenere la sospensione dell'esecuzione della sentenza, proporre appello nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione del dispositivo, con riserva dei motivi, da proporre entro trenta giorni dalla notificazione ed entro centoventi giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata. Art. 24 La morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti private o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza produce l'interruzione del processo secondo le norme degli articoli 299 e seguenti del codice di procedura civile, in quanto applicabili. Se la parte è costituita a mezzo di un procuratore o avvocato, il processo è interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione del procuratore o dell'avvocato stesso. Il processo deve essere riassunto, a cura della parte più diligente, con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di sei mesi dalla conoscenza legale dell'evento interruttivo, acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione; altrimenti, si estingue. Art. 25 I ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di due anni non sia compiuto alcun atto di procedura. Art. 26 Il tribunale amministrativo regionale, ove ritenga irricevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con sentenza; se riconosce che il ricorso è infondato, lo rigetta con sentenza. Se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza, annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente. Se accoglie per altri motivi, annulla in tutto o in parte l'atto impugnato, e quando è investito di giurisdizione di merito, può anche riformare l'atto o sostituirlo, salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa. Il tribunale amministrativo regionale nella materia relativa a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito può condannare l'amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti debitrice. In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese del Nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità, codice di procedura civile. improcedibilità o infondatezza del ricorso, il tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato decidono con sentenza succintamente motivata. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente conforme. In ogni caso, il giudice provvede anche sulle spese di giudizio, applicando le norme del codice di procedura civile. La decisione in forma semplificata è assunta, nel rispetto della completezza del contraddittorio, nella camera di consiglio fissata per l'esame dell'istanza cautelare ovvero fissata d'ufficio a seguito dell'esame istruttorio previsto dal secondo comma dell'articolo 44 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n.1054, e successive modificazioni. Le decisioni in forma semplificata sono soggette alle medesime forme di impugnazione previste per le sentenze. La rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l'estinzione del giudizio e la perenzione sono pronunciate, con decreto, dal presidente della sezione competente o da un magistrato da lui delegato. Il decreto è depositato in segreteria, che ne dà formale comunicazione alle parti costituite. Nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione ciascuna delle parti costituite può proporre opposizione al collegio, con atto notificato a tutte le altre parti e depositato presso la segreteria del giudice adìto entro dieci giorni dall'ultima notifica. Nei trenta giorni successivi il collegio decide sulla opposizione in camera di consiglio, sentite le parti che ne facciano richiesta, con ordinanza che, in caso di accoglimento della opposizione, dispone le reiscrizione del ricorso nel ruolo ordinario. Nel caso di rigetto, le spese sono poste a carico dell'opponente e vengono liquidate dal collegio nella stessa ordinanza, esclusa la possibilità di compensazione anche parziale. L'ordinanza è depositata in segreteria, che ne dà comunicazione alle parti costituite. Avverso l'ordinanza che decide sulla opposizione può essere proposto ricorso in appello. Il giudizio di appello procede secondo le regole ordinarie, ridotti alla metà tutti i termini processuali. Art. 27 Si segue il procedimento in camera di consiglio: 1) per i giudizi per i quali si debba soltanto dare atto della rinuncia al ricorso o dichiarare la perenzione; 2) per i ricorsi per i quali le parti concordemente chiedono che sia dichiarata la cessazione della materia del contendere; 3) per i ricorsi contro le decisioni del prefetto sulle controversie in materia di spedalità, previste dall'articolo 3 della legge 26 aprile 1954, n. 251, concernente modifica agli articoli 10, 34, 36 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2841, e all'articolo 6 del testo unico approvato con regio decreto 14 settembre 1931, n. 1776; 4) per i ricorsi proposti ai sensi dell'articolo 27, n. 4, del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054. Nei casi di cui ai numeri precedenti se una delle parti ne faccia richiesta il presidente ordina che il ricorso si tratti in udienza pubblica. Art. 28 Contro le sentenze dei tribunali amministrativi è ammesso ricorso per revocazione, nei casi, nei modi e nei termini previsti dagli articoli n. 395 e 396 del codice di procedura civile. Contro le sentenze medesime è ammesso, altresì, ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, da proporre nel termine di giorni sessanta dalla ricevuta notificazione, osservato il disposto dell'articolo 330 del codice di procedura civile. Contro le ordinanze dei tribunali amministrativi regionali di cui all'articolo 21, commi settimo e seguenti, è ammesso ricorso in appello, da proporre nel termine di sessanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza, ovvero di centoventi giorni dalla comunicazione del deposito dell'ordinanza stessa nella segreteria. (L'art. 3, commi 3 e 4, del provvedimento di riforma della giustizia amministrativa prevede che "Per l'impugnazione delle ordinanze già emanate alla data di entrata in vigore della presente legge il termine di centoventi giorni decorre da quest'ultima data, sempre che ciò non comporti riapertura o prolungamento del termine previsto dalla normativa anteriore. 4. Nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, la sospensione dell'atto medesimo. La sospensione è disposta con atto motivato del ministero competente ai sensi dell'articolo 8 del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199, su conforme parere del Consiglio di Stato") Nei casi nei quali i tribunali hanno competenza di merito o esclusiva, anche il Consiglio di Stato, nel decidere in secondo grado, ha competenza di merito o esclusiva. In ogni caso, il Consiglio di Stato in sede di appello esercita gli stessi poteri giurisdizionali di cognizione e di decisione del giudice di primo grado (1). (1) La Corte costituzionale, con sentenza 17 maggio 1995, n. 177, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui non prevede l'opposizione di terzo ordinaria fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del tribunale amministrativo regionale divenute giudicato. Art. 29 Al giudizio di appello si applicano le norme che regolano il processo innanzi al Consiglio di Stato. I ricorsi avverso le sentenze in materie di operazioni elettorali sono proposti entro il termine di venti giorni dalla notifica della sentenza, per coloro nei cui confronti è obbligatoria la notifica; per gli altri cittadini elettori nel termine di venti giorni decorrenti dall'ultimo giorno della pubblicazione della sentenza medesima nell'albo pretorio del comune. Per questi ricorsi i termini procedurali previsti dalle norme richiamate nel primo comma sono ridotti alla metà. Sul ricorso il presidente fissa in via di urgenza l'udienza di discussione ed al conseguente giudizio si applicano le norme procedurali di cui al primo comma del presente articolo, con tutti i termini ridotti alla metà. Nel giudizio di appello si osservano le norme dell'articolo 24 sull'interruzione del processo e sulla sua riassunzione. Art. 30 Il difetto di giurisdizione deve essere rilevato anche d'ufficio. Avverso le sentenze dei tribunali amministrativi regionali, che affermano o negano la giurisdizione del giudice amministrativo è ammesso il ricorso al Consiglio di Stato previsto dall'articolo 28. Nei giudizi innanzi ai tribunali amministrativi è ammessa domanda di regolamento preventivo di giurisdizione a norma dell'articolo 41 del codice di procedura civile. La proposizione di tale istanza non preclude l'esame della domanda di sospensione del provvedimento impugnato. Art. 31 Il resistente o qualsiasi interveniente nel giudizio innanzi al tribunale amministrativo regionale possono eccepire l'incompetenza per territorio del tribunale adito indicando quello competente e chiedendo che la relativa questione sia preventivamente decisa dal Consiglio di Stato. L'incompetenza per territorio non è rilevabile d'ufficio. L'istanza deve essere proposta, a pena di decadenza, entro venti giorni dalla data di costituzione in giudizio. Può essere proposta successivamente quando l'incompetenza territoriale del tribunale amministrativo regionale risulti da atti depositati in giudizio, dei quali la parte che propone l'istanza non avesse prima conoscenza; in tal caso l'istanza va proposta entro venti giorni dal deposito degli atti. L'istanza non è più ammessa quando il ricorso sia passato in decisione. L'istanza di regolamento di competenza si propone con ricorso notificato a tutte le parti in causa, che non vi abbiano aderito. Se tutte le parti siano d'accordo sulla remissione del ricorso ad altro tribunale amministrativo regionale, il presidente cura, su loro istanza, la trasmissione d'ufficio degli atti del ricorso a tale tribunale regionale e ne dà notizia alle parti, che debbono costituirsi davanti allo stesso entro venti giorni dalla comunicazione. Negli altri casi, i processi, relativamente ai quali è chiesto il regolamento di competenza, sono sospesi e gli atti devono immediatamente essere trasmessi d'ufficio a cura della segreteria del tribunale, al Consiglio di Stato. Negli altri casi il presidente fissa immediatamente la camera di consiglio per la sommaria delibazione del regolamento di competenza proposto. Qualora il collegio, sentiti i difensori delle parti, rilevi, con decisione semplificata, la manifesta infondatezza del regolamento di competenza, respinge l'istanza e provvede sulle spese di giudizio; in caso contrario dispone che gli atti siano immediatamente trasmessi al Consiglio di Stato. Le parti alle quali è notificato il ricorso per regolamento di competenza possono, nei venti giorni successivi, depositare nella segreteria del Consiglio di Stato memorie e documenti. Sull'istanza il Consiglio di Stato provvede in camera di consiglio, sentiti i difensori delle parti, che ne abbiano fatto richiesta, nella prima udienza successiva alla scadenza del termine di cui al precedente comma. La decisione del Consiglio di Stato sulla competenza è vincolante per i tribunali amministrativi regionali. L'incompetenza per territorio non costituisce motivo di impugnazione della decisione emessa dal tribunale amministrativo regionale. Quando l'istanza per il regolamento di competenza venga respinta, il Consiglio di Stato condanna alle spese colui che ha presentato l'istanza. Quando l'istanza di regolamento di competenza sia accolta, il ricorrente può riproporre l'istanza al tribunale territorialmente competente entro trenta giorni dalla notifica della decisione di accoglimento. Art. 32 Nei ricorsi da devolversi alle sezioni staccate previste dall'articolo 1, il deposito del ricorso con le modalità indicate nell'articolo 21 e le operazioni successive vengono effettuate presso gli uffici della sezione staccata. Le parti, che reputino che il ricorso debba essere deciso dal tribunale amministrativo regionale sedente nel capoluogo, debbono eccepirlo all'atto della costituzione e comunque non oltre quarantacinque giorni dalla notifica del ricorso. Il presidente del tribunale amministrativo regionale provvede sulla eccezione con ordinanza motivata non impugnabile, udite le parti che ne facciano richiesta. La decisione del ricorso da parte del tribunale amministrativo regionale sedente nel capoluogo anziché dalla sezione staccata, o viceversa, non costituisce vizio di incompetenza della decisione. Il disposto del secondo comma si applica anche nel caso in cui vengano proposti al tribunale regionale amministrativo sedente nel capoluogo ricorsi che si reputano abbiano ad essere decisi dalla sezione staccata. Art. 33 Le sentenze dei tribunali amministrativi regionali sono esecutive. Il ricorso in appello al Consiglio di Stato non sospende l'esecuzione della sentenza impugnata. Il Consiglio di Stato, tuttavia, su istanza di parte, qualora dall'esecuzione della sentenza possa derivare un danno grave e irreparabile, può disporre, con ordinanza motivata emessa in camera di consiglio, che la esecuzione sia sospesa. Sull'istanza di sospensione il Consiglio di Stato provvede nella sua prima udienza successiva al deposito del ricorso. I difensori delle parti devono essere sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano richiesta. Per l'esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato di cui all'articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n.1054, e successive modificazioni. Art. 34 Nel giudizio di appello, se il Consiglio di Stato riconosce il difetto di giurisdizione o di competenza del tribunale amministrativo regionale o la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di prima istanza, o la esistenza di cause impeditive o estintive del giudizio, annulla la decisione impugnata senza rinvio. In caso di errore scusabile il Consiglio di Stato può rimettere in termini il ricorrente per proporre l'impugnativa al giudice competente, che deve essere indicato nella sentenza del Consiglio di Stato, o per rinnovare la notificazione del ricorso. Art. 35 Se il Consiglio di Stato accoglie il ricorso per difetto di procedura o per vizio di forma della decisione di primo grado, annulla la sentenza impugnata e rinvia la controversia al tribunale amministrativo regionale. Il rinvio ha luogo anche quando il Consiglio di Stato accoglie il ricorso contro la sentenza con la quale il tribunale amministrativo regionale abbia dichiarato la propria incompetenza. In ogni altro caso, il Consiglio di Stato decide sulla controversia. La riassunzione del giudizio davanti al tribunale amministrativo regionale deve essere effettuata entro sessanta giorni dalla notificazione della decisione del Consiglio di Stato o, in difetto di notificazione, entro un anno dalla pubblicazione della decisione stessa. In ogni caso di rinvio, il giudizio prosegue innanzi al tribunale amministrativo regionale, con fissazione d'ufficio dell'udienza pubblica, da tenere entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza con la quale si dispone il rinvio. Le parti possono depositare atti, documenti e memorie sino a tre giorni prima dell'udienza. Art. 36 Contro le decisioni pronunziate dal Consiglio di Stato in secondo grado sono ammessi il ricorso per revocazione, nei casi e nei termini previsti dall'articolo 396 del codice di procedura civile, e il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione (1). (1) La Corte cost., con sent. 17 maggio 1995, n. 177, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, nella parte in cui non prevede l'opposizione di terzo ordinaria fra i mezzi di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato. Art. 37 I ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dell'autorità giudiziaria ordinaria, che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico, sono di competenza dei tribunali amministrativi regionali quando l'autorità amministrativa chiamata a conformarsi sia un ente che eserciti la sua attività esclusivamente nei limiti della circoscrizione del tribunale amministrativo regionale. Resta ferma, negli altri casi, la competenza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. Quando i ricorsi siano diretti ad ottenere lo adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi al giudicato degli organi di giustizia amministrativa, la competenza è del Consiglio di Stato o del tribunale amministrativo regionale territorialmente competente secondo l'organo che ha emesso la decisione, della cui esecuzione si tratta. La competenza è peraltro del tribunale amministrativo regionale anche quando si tratti di decisione di tribunale amministrativo regionale confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello. TITOLO IV Disposizioni generali e transitorie Art. 38 L'attribuzione ai tribunali amministrativi regionali della competenza prevista dall'articolo 2, lettera b), numeri 1 e 2, nonché dagli articoli 3 e 5 della presente legge, ha effetto dopo tre mesi dalla data di insediamento dei tribunali amministrativi regionali che sarà fissata a sensi del primo comma dell'articolo 43. Per i giudizi promossi in tali materie anteriormente a tale data, rimane ferma l'attribuzione di competenza prevista dalle norme attualmente in vigore. Art. 39 Fino a quando non sarà diversamente disciplinata la materia, nulla è innovato per quanto concerne l'attuale competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria in materia di controversie dei dipendenti da enti pubblici economici. Art. 40 Fino a quando non si procederà alla revisione dell'attuale sistema di giustizia amministrativa nella regione siciliana, la competenza del tribunale amministrativo regionale istituito nella regione siciliana è limitata alle materie indicate nell'articolo 2, lettera a), e nell'articolo 6 della presente legge. L'appello contro le sentenze di tale tribunale è portato al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana. Nulla è innovato nelle disposizioni che attualmente disciplinano detto Consiglio. Art. 41 Il tribunale amministrativo regionale con sede in Aosta è competente nelle materie indicate nella presente legge, nonché in quelle attribuite alla competenza della giunta giurisdizionale amministrativa della Valle d'Aosta ai sensi dell'articolo 2, numeri 1) e 2), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 15 novembre 1946, n. 367, e successive modificazioni. Art. 42 Tutti i ricorsi pendenti presso qualsiasi autorità giurisdizionale alla data di entrata in vigore della presente legge sono trasmessi d'ufficio alla segreteria del tribunale amministrativo regionale del capoluogo di regione entro 60 giorni dalla data di insediamento del tribunale. I ricorsi proposti dopo l'entrata in vigore della presente legge e prima dell'entrata in funzione dei tribunali amministrativi regionali, saranno, nei termini previsti, depositati nel capoluogo di regione presso la cancelleria del tribunale la quale sarà tenuta a riceverli e a trasmetterli alla segreteria del tribunale amministrativo regionale non appena questa entrerà in funzione. Gli ulteriori termini cominceranno a decorrere dalla data di entrata in funzione dei tribunali amministrativi regionali. Le segreterie dei tribunali amministrativi regionali danno notizia della ricezione degli atti alle parti costituite. Le parti che vi abbiano interesse dovranno, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla ricezione dell'avviso della segreteria, richiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale che venga fissata l'udienza di trattazione. Art. 43 L'insediamento dei tribunali amministrativi regionali avrà luogo entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, in data che verrà fissata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Per non oltre sei mesi da tale data, i consiglieri, i primi referendari e i referendari potranno essere assegnati contemporaneamente a due finitimi tribunali amministrativi regionali. Il primo concorso a referendario previsto dall'articolo 14 dovrà essere bandito entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge. Art. 44 All'atto della entrata in vigore della presente legge sono indetti tre concorsi per soli titoli a 18 posti di consiglieri, 27 posti di primi referendari e 15 di referendari per i tribunali amministrativi regionali. A tali concorsi possono partecipare: a) per consiglieri: i professori ordinari di materie giuridiche nelle università, i professori incaricati nelle stesse con almeno otto anni di insegnamento e che appartengano all'ordine giudiziario ordinario ed amministrativo; i magistrati amministrativi e quelli dell'ordine giudiziario, con qualifica non inferiore a consigliere d'appello o equiparata; gli avvocati dello Stato con dodici anni di servizio; gli appartenenti alle carriere amministrative direttive dello Stato, forniti di laurea in giurisprudenza, con qualifica non inferiore ad ispettore generale od equiparata; b) per primi referendari i giudici di tribunale od equiparati, nonché i funzionari dello Stato con qualifica non inferiore a direttore di divisione od equiparati, forniti di laurea in giurisprudenza; c) per referendari: i giudici aggiunti di tribunale od equiparati, nonché i direttori di sezione od equiparati, forniti di laurea in giurisprudenza. I posti messi a concorso sono riservati per non più di un terzo, rispettivamente in ciascuna delle tre qualifiche, ai professori ordinari ed incaricati nelle università, ai magistrati con qualifica non inferiore a consigliere d'appello ed agli avvocati dello Stato - per consigliere - ai giudici di tribunale od equiparati - per primo referendario - ai giudici aggiunti di tribunale od equiparati - per referendario. I posti residui e, comunque, non meno di due terzi di quelli messi a concorso sono riservati alle altre categorie di cui al secondo comma, con la espressa riserva di un terzo in favore dei funzionari direttivi che abbiano fatto parte delle giunte provinciali amministrative. I tre concorsi verranno giudicati da una commissione nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e composta da due consiglieri di Stato e da tre docenti universitari. Art. 45 Entro un mese dall'entrata in vigore della presente legge saranno indetti, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, tre concorsi per titoli ai seguenti posti di magistrato amministrativo regionale: n. 18 posti di consigliere; n. 27 posti di primo referendario; n. 15 posti di referendario. I tre concorsi saranno giudicati da una commissione nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e composta da due consiglieri di Stato e da tre docenti universitari. Il giudizio sui titoli sarà integrato da un colloquio, cui verranno ammessi i concorrenti i cui titoli saranno stati meglio valutati, in numero non superiore al doppio dei posti messi a concorso. La commissione espleterà i suoi lavori entro tre mesi. Art. 46 Ai concorsi a posti di consigliere, previsti nell'articolo precedente, sono ammessi a partecipare: a) i professori di ruolo di materie giuridiche nelle università con almeno tre anni di insegnamento; b) i magistrati dell'ordine giudiziario, i magistrati amministrativi e della giustizia militare, gli avvocati dello Stato, con almeno sette anni di anzianità; c) gli appartenenti alle carriere direttive amministrative dello Stato con qualifica non inferiore a ispettore generale o equiparata; d) i professori incaricati di materie giuridiche nelle università e i professori di ruolo di materie giuridiche negli istituti tecnici con almeno quindici anni di insegnamento. È prescritto il possesso di laurea in giurisprudenza. Art. 47 Ai concorsi a posti di primo referendario previsti nell'articolo 45 sono ammessi a partecipare: a) i professori di ruolo di materie giuridiche nelle università; b) i magistrati dell'ordine giudiziario, i magistrati amministrativi e della giustizia militare, gli avvocati dello Stato, con almeno quattro anni di anzianità; c) gli appartenenti alle carriere direttive amministrative dello Stato con qualifica non inferiore a direttore di divisione o equiparata; d) gli impiegati della carriera direttiva di segreteria del Consiglio di Stato con qualifica non inferiore a direttore di segreteria; e) i professori incaricati e aggregati e gli assistenti di ruolo di materie giuridiche nelle università e i professori di ruolo di materie giuridiche negli istituti tecnici con almeno otto anni di insegnamento; f) gli avvocati con almeno sei anni di iscrizione nell'albo professionale. È prescritto il possesso di laurea in giurisprudenza. Art. 48 Ai concorsi a posti di referendario, previsti dall'articolo 45, sono ammessi coloro che siano in possesso di uno dei requisiti indicati ai numeri 1), 2), 3), 4) e 5) dell'articolo 11 della presente legge. Art. 49 Ai fini dell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalla presente legge, il Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi regionali è composto dal Presidente del Consiglio di Stato, dai due presidenti di sezione del Consiglio di Stato più anziani, da due presidenti di tribunali amministrativi regionali e da quattro magistrati amministrativi regionali sorteggiati ogni due anni e non confermabili immediatamente. Il Consiglio di Presidenza è costituito con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Art. 50 I posti di consigliere di Stato disponibili alla data di entrata in vigore della presente legge, o che si renderanno successivamente vacanti, sono riservati nel numero necessario per le nomine da conferire ai primi referendari e referendari in servizio alla data medesima, al compimento del periodo stabilito dall'articolo 4 della legge 21 dicembre 1950, n. 1018. I posti lasciati scoperti sono considerati posti di risulta ai fini delle nomine a referendario. I primi referendari e referendari indicati nel primo comma, quando conseguiranno la nomina a consiglieri di Stato, precederanno nel ruolo del Consiglio di Stato medesimo i consiglieri che vi saranno trasferiti ai sensi dell'articolo 17 della presente legge. I posti lasciati liberi dal personale di magistratura del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali, collocati a riposo in applicazione dell'articolo 3 della legge 24 maggio 1970, n. 336, non sono portati in diminuzione nella qualifica iniziale del rispettivo ruolo di appartenenza. Art. 51 I funzionari della carriera direttiva amministrativa dell'amministrazione civile dell'interno, già presidenti o membri delle sezioni dei tribunali amministrativi per il contenzioso elettorale di cui alla legge 23 dicembre 1966, n. 1147, sono collocati, a decorrere dall'entrata in vigore della presente legge, nella posizione di soprannumero, nel ruolo di appartenenza. Per il riassorbimento dei funzionari in soprannumero si osserva il disposto di cui all'articolo 5 della legge 19 ottobre 1959, n. 928. Art. 52 Con regolamenti da emanarsi entro tre mesi dalla entrata in vigore della Presente legge, saranno stabilite le norme di attuazione e le modalità di svolgimento dei concorsi previsti dall'articolo 14. Art. 53 Le spese per il funzionamento dei tribunali amministrativi regionali, comprese quelle relative al personale di segreteria appartenente ai ruoli delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali, nonché quelle per i locali, il loro arredamento e la loro manutenzione sono a carico dello Stato e sono sostenute dai commissari del Governo della regione o dalle autorità governative corrispondenti nelle regioni Sicilia, Sardegna e Valle d'Aosta. Ai presidenti di sezione e ai consiglieri di Stato destinati a presiedere tribunali amministrativi regionali diversi da quello di Roma, nonché ai segretari generali dei tribunali medesimi, spetta, per i primi sei mesi, l'indennità di missione intera. Le spese di funzionamento dei tribunali amministrativi regionali gravano su un apposito capitolo dello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro. Art. 54 All'onere derivante dall'applicazione della presente legge, valutato in lire 1.600 milioni per l'anno finanziario 1972, si provvede mediante riduzione degli stanziamenti iscritti al capitolo 3523 dello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro. Il Ministro per il tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.