Temi di diritto assicurativo Rassegna dei contributi di studio

QUADERNI
10
Temi di diritto assicurativo
Rassegna dei contributi di studio
del Servizio legale nel 2000
INDICE
Presentazione
Consulenza
1. Art. 15 legge 9 gennaio 1991, n. 20 e successive modifiche – adempimenti derivanti da operazioni
infragruppo
2. Approfondimenti in tema di applicazione dell’art. 15, legge 9 gennaio 1991 n. 20
3. Rapporti Isvap/Fondo di Garanzia ex art. 4, comma 1, lett. f), legge n. 792/1984 – scambio di notizie
4. Figura del difensore civico
5. Comitato per la posizione del personale dirigente delle imprese di assicurazione in liquidazione coatta
amministrativa
6. Art. 8, legge n. 990/1969 – sostituzione di veicolo in corso di contratto – tariffa applicabile
7. Separate richieste di risarcimento relative al solo danno a case ed alle sole lesioni personali; conformità
all’art. 3, L. 39/1977 solo della richiesta relativa al danno a cose – sanzionabilità per il ritardo nella
formulazione dell’offerta
8. Situazioni di incompatibilità relative alla figura dell’attuario incaricato
9. Legge n. 675/1996 cd. legge sulla privacy e sevizio reso dall’ANIA
10. Conservazione da perte delle imprese assicurative di dati sanitari acquisiti ai fini della liquidazione dei
sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A.
11. Circolazione stradale e risarcimento del danno allo straniero
12. Rivalutazione minima delle sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. n. 449/1959 in base all’art. 83
d.lgs. 26 maggio 1997 n. 173 – Attuazione della direttiva 91/674/CEE in materia di conti annuali e
consolidati delle imprese di assicurazione
13. Convenzione ai sensi dell’art. 8 d.P.R. n. 973/1970 relativa agli obblighi connessi con l’assicurazione r.c.
natanti
14. Sentenza Tar Lazio del 7 aprile 2000 in tema di situazioni impeditive
15. Individuazione dei termini di verifica da parte del Consiglio di Amministrazione, ai sensi dell’art. 3 del
d.m. 162/2000, del possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del
collegio sindacale di società assicuratrici
16. Obbligo per l’assicuratore di rilascio dell’attestazione sullo stato di rischio – art. 2 legge 39/1977 – ritiro a
mezzo rappresentante
17. Documentazione necessaria per un mediatore di assicurazione e/o riassicurazione (persona fisica o società)
residente in uno Stato membro dell’UE per esercitare in Italia l’attività in regime di libera prestazione di
servizi
18. Natura di un contratto denominato “Polizza convenzione cauzioni”
19. Trasferimento di portafoglio – art. 75 d.lgs. 175/1995
20. Condizioni generali di contratto del ramo tutela giudiziaria
21. Forme integrative di assistenza sanitaria gestite da società di mutuo soccorso. Ruolo dell’Isvap
22. Ordine cronologico dei registri dei contratti stipulati – art. 49, comma 1, R.D. 4 gennaio 1925, n. 63
23. Responsabilità dell’impresa di assicurazione per i fatti posti in essere da soggetti che operano nel campo
dell’intermediazione assicurativa con incarichi non ricevuti direttamente
24. Società di mutua assicurazione di cui all’art. 4, comma 2, lett. c) e/o d) del d.lgs.175/1995
25. Questioni afferenti alla tenuta degli albi degli agenti e dei mediatori di assicurazione e riassicurazione,
nonché del ruolo nazionale dei periti
25.1 Ruolo Nazionale dei periti assicurativi. Art. 5, comma 2, della legge n. 166/1992
25.2 Trasferimento all’Isvap delle funzioni di cui alla legge 17 febbraio 1992 n. 166, concernente il
ruolo dei periti assicurativi
25.3 Iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazioni di dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale
25.4 Iscrizione nell’Albo broker
25.5 Iscrizione nell’Albo broker: art. 4, comma 4, lett. b), legge 792/1984
25.6 Cassa sanitaria costituita da una società di brokeraggio. Oggetto sociale limitato alla mediazione
assicurativa
25.7 Iscrizione nell’Albo dei mediatori di assicurazione di agente radiato dall’Albo agenti, prima del
decorso dei tre anni dalla radiazione e sulla base di titolo equipollente maturato antecedentemente
alla radiazione stessa
25.8 Variazione dell’attività di mediazione da quella assicurativa a quella riassicurativi di soggetto
iscritto nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione
25.9 Considerazioni sugli artt. 5, comma 2, e 9, comma 1, lett. d) della legge 7 febbraio 1979 n. 48
25.10 Iscrizione di agente a seguito di sentenza di patteggiamento
25.11 Art. 4, comma 1, legge 7 febbraio 1979, n. 48 – cittadino extracomunitario – requisito della
reciprocità
25.12 Valutazione dei titoli equipollenti ai fini dell’iscrizione nell’Albo Nazionale Agenti di assicurazione
– configurabilità per il procuratore dell’agente di città del titolo equipollente ex art. 5, lett. c),
punto 3, della legge 48/1979
25.13 Iscrizione presso l’Albo degli agenti ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), n. 1, legge 48/1979 di
direttore generale di impresa di assicurazione
25.14 Iscrivibilità nell’Albo agenti di un socio-amministratore di impresa di brokeraggio
25.15 Iscrizione nell’Albo nazionale degli agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c),
punto 1, della legge 7 febbraio 1979, n. 48, di presidente del Consiglio di amministrazione e
rappresentante legale di impresa assicurativa, iscritto nell’Albo broker
25.16 Cancellazione dall’Albo agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 11, ult. co., legge 48/1979.
Retroattività del relativo provvedimento
25.17 Iscrizione nell’Albo degli agenti di assicurazione di subagente professionista con il titolo
equipollente alla prova di idoneità, criterio della prevalenza e/o esclusività dell’attività
professionale svolta – art. 5 lett. c), punto 4 della legge n. 48/1979
25.18 Art. 5, lett. c), legge 48/1979 – titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti –
collaboratori di impresa familiare
25.19 Cancellazione dall’Albo agenti: effetti della sentenza declaratoria di fallimento
25.20 Iscrizione all’Albo agenti, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), n. 1, di un dirigente della Consap
S.p.a.
25.21 Iscrizione presso l’Albo agenti di socio amministratore di s.n.c. ex art. 5, comma 1, lett. c), n. 3,
legge 48/1979
25.22 Iscrizione presso l’Albo agenti di dirigente di società non assicurativa ricoprente la carica di
amministratore delegato di impresa assicurativa facente parte del medesimo gruppo della
precedente
Contenzioso
La riforma del processo amministrativo – Legge n. 205 del 21 luglio 2000
La giurisdizione amministrativa
1. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O.
2. Il d.lgs. n. 80/1998
3. La legge n. 205/2000
I procedimenti speciali
Le decisioni i forma semplificata
La tutela cautelare
1. La tutela cautelare nel processo amministrativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del
2000
2. La tutela cautelare nella legge di riforma del processo amministrativo
3. La cauzione nel processo cautelare
4. Il potere di disporre “misure cautelari provvisorie”: la cd. “supersospensiva”
5. Il rito abbreviato
6. Le spese
7. La priorità di trattazione del ricorso nel merito
8. La questione dell’appellabilità e dell’esecuzione delle ordinanze cautelari
9. La sospensione nel ricorso straordinario al Capo dello Stato
Le autorità amministrative indipendenti e l’ISVAP
Premessa
1. Funzioni e caratteri delle autorità amministrative indipendenti
2. L’ISVAP
Il ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione
1. La disciplina dell’impugnazione del silenzio-inadempimento prima dell’approvazione della legge
n. 205 del 2000
2. Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000
La risarcibilità degli interessi legittimi
1. La risarcibilità degli interessi legittimi prima della pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza
n. 500/99)
2. La risarcibilità degli interessi legittimi dopo la sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione
3. La risarcibilità degli interessi legittimi nella legge di riforma del processo amministrativo, legge n.
205 del 2000
Appendice
Legge 6 dicembre 1971, n. 1034 – Istituzione dei tribunali amministrativi regionali – Testo coordinato con le
modifiche apportate dalla legge 21 luglio 2000 n. 205
PRESENTAZIONE
La rassegna dell’attività svolta nell’anno 2000 dal Servizio legale dell’ISVAP si va consolidando come
momento di riflessione su problematiche giuridiche di notevole rilievo scientifico, oltreché istituzionale. I temi
trattati nel periodo in esame concorrono, pur senza essere vincolanti per l’ufficialità delle decisioni dell’Istituto, a
prefigurare orientamenti sull’applicazione ed interpretazione delle norme di settore, che costituiscono ragione di
sicuro interesse per le imprese, per gli studiosi e per l’utenza dei servizi assicurativi.
Quest’anno, accanto ad una sintesi dei pareri forniti alle unità operative, i lettori troveranno indicazione di
decisioni giurisprudenziali significative e, in aggiunta, uno studio sulle problematiche applicative della recente
legge di riforma della giustizia amministrativa che, col corredo di un testo coordinato della legge sui TAR, potrà
rappresentare un utile strumento di consultazione per gli addetti ai lavori.
In un lavoro collettaneo errori od omissioni non possono che chiamare in causa la responsabilità del Capo
Servizio. Quanto ai meriti, essi vanno attribuiti esclusivamente ai redattori. Ad Elen Gioli, Nicola Gentile, Dario
Zamboni, Roberta Simoni, Patrizia Rosatone, Valeria Sottosanti, Sabrina Scarcello e Marina Binda va il mio
personale ringraziamento.
Luigi Desiderio
Capo del Servizio Legale
CONSULENZA
1.
Art. 15 legge 9 gennaio 1991 n. 20 e successive modifiche – adempimenti derivanti da operazioni
infragruppo
Si sono affrontati i temi del gruppo e del controllo, che si segnalano per essere tra i più problematici e
controversi del diritto delle società, anche a causa di interventi normativi che hanno perseguito obiettivi
specifici e puntuali senza peraltro procedere ad una riconsiderazione sistematica della materia.
Al riguardo si sono formulate talune considerazioni di carattere generale.
Allo stato della legislazione vigente, può parlarsi di gruppo societario solo sotto il profilo economico
mentre sotto quello giuridico se ne ha considerazione limitatamente agli effetti previsti dal codice civile (artt.
2359, 2424, comma primo, 2624) senza che possa attribuirsi al gruppo personalità giuridica, comunque, una
qualsiasi, pur limitata, forma di soggettività o di ruolo di centro di imputazione.
La situazione non muta con riguardo al concetto di controllo, a quello di gruppo strettamente
connesso, il quale – secondo le prospettazioni della dottrina assolutamente prevalente – è concetto di natura
“relazionale” nel senso che l’eterogeneità degli obiettivi perseguiti con i diversi interventi normativi di tipo
speciale conduce a distinte nozioni di controllo (e, perciò, di gruppo) in seguito all’attribuzione di rilevanza
giuridica a diversi momenti di collegamento tra imprese, con conseguente riconsiderazione dell’elaborazione
concettuale basata sull’art. 2359, salvo il ruolo centrale mantenuto dalle ipotesi in esso contemplate e dal
concetto di “influenza dominante”, derivante dalla normativa comunitaria.
Le norme speciali, infatti, sanciscono che il controllo sussiste nei casi previsti dall’art. 2359 c.c.
individuando le ipotesi in cui si ha “influenza dominante” (cfr. art. 23 d.lgs. 385/1993 ed art. 1, comma 8, legge
5/8/1981 n. 416) ovvero precisando che il controllo può derivare da accordi con altri soci ( cioè da accordi
parasociali; cfr. art. 10, comma 2, legge 20/1991 ed art. 5 quater legge 216/1974 nel testo precedente alla
novella introdotta con l’art. 93 d.lgs. 58/1998).
Esula dai fini di queste note un’analisi approfondita del concetto di controllo; si segnala peraltro che
la dottrina pare orientarsi per un’interpretazione del controllo come potere, da parte degli organi della società
controllante, di direzione delle imprese delle controllate.
Tale conclusione viene motivata, tra gli altri argomenti, tramite il richiamo al disposto dell’art. 61,
quarto comma, del d.lgs. 385/1993 (T.U. in materia bancaria), col quale il legislatore avrebbe non innovato, ma
semplicemente riconosciuto senza infingimenti un quid già insito nella disciplina del controllo societario.
In tale prospettiva, di conseguenza, il ruolo di capogruppo si sustanzia nell’esercizio di un potere di
direzione unitaria sulle società controllate.
In questo complesso quadro è sorto il quesito della configurabilità nel nostro ordinamento della figura
del c.d. controllo congiunto e cioè di quella situazione in cui una società risulti dominata (controllata) non da
uno solo, bensì da due o più soggetti.
Si tratterebbe, più precisamente, di una situazione intermedia tra le opposte ipotesi del controllo
solitario e dell’assenza di controllo, in cui la partecipazione di più soggetti alle scelte sociali derivi dal
contingente mutevole aggregarsi degli interessi (e dei voti che li rappresentano) presso i gangli decisionali della
società in assenza di un centro di potere su base stabile cui ricondurre le scelte medesime.
La configurabilità nel nostro ordinamento di tale figura è oggetto di vivo dibattito in dottrina.
L’opinione assolutamente maggioritaria – partendo dal dato testuale dell’art. 2359 c.c., che non
riconosce la figura del controllo congiunto in nessuna delle sue versioni via via succedutesi – ritiene che il
controllo postuli un ruolo di influenza dominante di tipo solitario con la conseguenza di reputare ad essa
estranea la figura in esame.
Una recente ed isolata dottrina, invece, ponendo in risalto alcune nozioni speciali di controllo le quali
espressamente contemplano il controllo congiunto in aggiunta rispetto al controllo ex art. 2359 c.c., ha
sostenuto che il concetto di controllo comprende anche il controllo congiunto perché, diversamente, il
legislatore non avrebbe potuto, con gli interventi normativi speciali, riconoscergli cittadinanza
nell’ordinamento.
In sostanza, per averla il legislatore riconosciuta in ordine ad ipotesi specifiche di disciplina, la figura
del controllo congiunto sarebbe sussumibile nella clausola generale di cui all’art. 2359 c.c.
La dottrina assolutamente prevalente ha fortemente criticato tale tesi per differenti ordini di
considerazioni.
L’argomento principale è di tipo metodologico e si riallaccia alla tesi della natura relazionale della
nozione di controllo, per cui essa viene dettata – e di volta in volta vale – in ambito ben specifico onde non ne è
possibile l’estensione analogica.
A tal riguardo viene in rilievo la disciplina di cui all’art. 7 della legge 287/1990 (antitrust) per il quale
il controllo si ha nei casi contemplati dall’art. 2359 c.c. ed inoltre nei casi in cui, “da soli o congiuntamente”, di
fatto o di diritto, si realizzi la possibilità di esercizio di un’influenza determinante sull’attività di un’altra
impresa.
Questa definizione di controllo, secondo la dottrina, ha una portata più ampia rispetto all’art. 2359, e
cioè sottopone alla disciplina della legge 287/1990 una serie di casi che non rientrerebbero entro la disciplina
della norma codicistica.
L’influenza dominante, infatti, integra, come più sopra si è visto, una posizione di forza la quale
consente alla controllante di imporre le proprie decisioni di politica imprenditoriale alle controllate mentre
l’influenza determinante, pur non assicurando un dominio assoluto, realizza un forte condizionamento delle
scelte imprenditoriali.
D’altra parte è considerato tratto caratteristico del diritto antitrust la sua portata estensiva, tratto
giustificato in base alla specifica finalità antimonopolistica della disciplina che è quella di sottoporre a
controllo tutte le manifestazioni di potere economico in grado anche solo potenzialmente di esercitare una
patologica influenza sul mercato.
Il dato essenziale, lungo questa direttrice, è di evitare concentrazioni di forze potenzialmente
distorsive della concorrenza, indipendentemente dalle formule giuridiche adottate per realizzarle ed
indipendentemente dalla circostanza che ciò avvenga “da soli o congiuntamente”.
Queste le ragioni specifiche, ivi, della rilevanza del controllo congiunto, non estensibili ad altri
ambiti.
L’altro argomento svolto in favore della tesi dominante si fonda sul rinvio alla disciplina del
consolidamento dei bilanci di cui agli artt. 26, comma secondo, 28, 37 e 40 del d.lgs. 127/1991: se il
legislatore, si afferma, ha stabilito l’obbligo di consolidamento con il metodo integrale nell’ipotesi del controllo
tout-court mentre per il controllo congiunto il metodo previsto è quello proporzionale, è segno che il c.d.
controllo congiunto non può essere ricondotto al controllo vero e proprio; in sostanza l’esclusione per il
controllo congiunto del consolidamento con il metodo integrale è indice dell’esistenza di impedimenti ad una
effettiva direzione unitaria da parte della controllante nei confronti della controllata.
In ambito assicurativo la fattispecie del gruppo non viene ex professo considerata (a differenza di
quanto avviene in materia di banche); si rinviene un “accenno” di disciplina negli artt. 7 e 8, quanto all’obbligo
di redazione del bilancio consolidato, 10 e 15 della legge 20/1991 quanto alle operazioni infragruppo; è de jure
condendo la disciplina di una vigilanza di gruppo da recepirsi in attuazione della direttiva 98/78 CEE (cfr. art.
26 legge 21/12/1999 n. 526 – legge comunitaria 1999).
L’art. 15, come noto, stabilisce l’obbligo di comunicazione preventiva all’Isvap delle operazioni di
cui al D.M. 29/12/1993 allorchè siano poste in essere con soggetti controllanti e con le società da questi
controllate.
A termini del decreto in parola le norma guida per l’individuazione del gruppo assicurativo sono gli
artt. 10, comma secondo e 15 legge 20/1991 in combinato disposto tra loro.
L’art. 10, precedentemente alle modifiche introdotte con il d.lgs. 27/01/1992 n. 90 e con il d.lgs.
17/03/1995 n. 174, aveva una formulazione che recepiva la figura del controllo congiunto, ritenendola esistente
in via presuntiva in capo a coloro che, pur non legati tra loro da patti di sindacato, possedessero in misura
uguale partecipazioni superiori alla soglia del 25% (o 10% in caso di società quotate).
Nel testo novellato dell’art. 10, la nozione di controllo ha assunto connotati profondamente diversi ed
in tutto simili, come incidenter tantum si è notato, alla nozione accolta dall’art. 5 quater legge 216/1974 nel
testo precedente alla novella introdotta con l’art. 93 del d.lgs. 58/1998, che ha modellato la nozione di controllo
valevole ai fini della disciplina da esso introdotta su quella di cui all’art. 26 d.lgs. 127/1991 e cioè con riguardo
alla redazione del bilancio consolidato. Con ciò la nozione di controllo valevole in ambito assicurativo ha
assunto carattere di isolata specificità.
Più precisamente, la nuova disciplina rinvia alla nozione di controllo prevista dall’art. 2359 c.c. con la
puntualizzazione che il controllo può derivare anche da un patto parasociale ma solo nel caso in cui questo
patto consenta ad un soggetto il controllo “da solo” della maggioranza dei diritti di voto ovvero gli attribuisca
(evidentemente, anche qui, da solo) il diritto di nomina o di revoca della maggioranza degli amministratori.
Già con la novella del 1992, pertanto, la configurabilità del controllo congiunto nell’ambito della
normativa assicurativa era venuta meno ed in questo senso si era espressa autorevole dottrina, la quale aveva
criticato le stesse soluzioni interpretative scelte dall’Isvap nella circolare 185/1992, nella parte in cui
disponevano di considerare “controllanti, salvo prova contraria, i due soggetti che detengano pariteticamente il
50% ciascuno del capitale sociale dell’impresa assicurativa ovvero della società che indirettamente controlla
l’impresa assicurativa”.
Più precisamente, la dottrina citata aveva rilevato che il controllo (cfr. quanto detto supra in ordine
alla riconducibilità dell’influenza dominante al potere di direzione dell’impresa della controllata) è cosa ben
diversa dal mero potere interdittivo, di puro veto, derivante dalla titolarità della quota del 50% del capitale della
società considerata.
L’incapacità per ciascuno dei due soci titolari del 50 % di costituire da solo la maggioranza,
determinando le decisioni dell’assemblea e nominando gli amministratori, implica l’esistenza di un continuo
confronto dialettico tra i soci alla ricerca di un componimento di interessi differenti ed eventualmente anche
antitetici tra loro.
Nei casi in cui si realizzi questa situazione di equilibrio, allora, la tesi della presunzione di controllo,
stante anche il nuovo testo dell’art. 10 legge 20/1991, non pare più sostenibile se fondata su una valutazione da
compiersi in astratto; diversamente potrebbe concludersi solo in presenza o di una situazione fattuale di inerzia
ed indifferenza di uno dei soci per la gestione della società partecipata (in tal senso sembrava militare lo stesso
riferimento alla “prova contraria” quale assunto indicativo di una presunzione iuris tantum) ovvero in presenza
di un patto parasociale che assicuri prevalenza ad uno dei soci.
A ciò si aggiunga che da una parte della dottrina (Ghezzi) si è negato che, persino con riguardo
specifico alla disciplina antitrust (pur ispirata, come si è visto, a criteri prudenziali di “allargamento” delle
ipotesi di rilevanza delle concentrazioni di imprese), la mera pariteticità nella titolarità del capitale sociale
possa costituire, di per sé ed in mancanza di altri elementi, motivo sufficiente per riconoscere l’esistenza di un
controllo congiunto.
Le conclusioni sin qui raggiunte seguendo le argomentazioni della maggioritaria dottrina sembrano
essere rafforzate dall’introduzione da parte del d.lgs. 174/1995, senza modifica del concetto di controllo, della
figura, prima ignota sia al diritto societario comune che a quello di settore, della partecipazione qualificata
quale fattispecie rilevante sotto il profilo autorizzatorio.
L’art. 15 legge 20/1991 non è stato, invece, oggetto di alcuna modifica da parte del d.lgs. 174/1995.
Quando il legislatore ha introdotto la nuova figura della partecipazione qualificata, attribuendole
rilevanza ai fini autorizzatori, ben avrebbe potuto, se ciò avesse voluto (lex, ubi voluit, dixit, ubi noluit tacuit),
attribuirle rilevanza anche ai fini degli adempimenti ex art. 15 legge 20/1991 per il compimento di “operazioni
con soggetti controllanti e con società da questi controllate”.
Si ritiene, pertanto, debba inferirsi dalla mancata considerazione della nozione di partecipazione
qualificata ai fini dell’art. 15 che questa non fosse la voluntas legis, con l’effetto di considerarne limitata la
disciplina ai soli casi in cui si realizzi, in conformità del dato testuale, la fattispecie del controllo valevole ai fini
della legge 20/1991 e cioè, si ribadisce, il controllo di cui all’art. 2359 (dunque controllo solitario) con rilevanza
dei patti parasociali (“accordi con altri soci”) limitatamente ai casi di controllo (ancora una volta solitario) della
maggioranza dei diritti di voto ovvero di titolarità del diritto di nominare o revocare la maggioranza degli
amministratori.
2.
Approfondimenti
n. 20
in
tema
di
applicazione
dell’art.
15
legge
9
gennaio
1991
Sotto il profilo operativo la tematica del c.d. controllo congiunto è stata analizzata con riguardo anche alla
fattispecie relativa all’operazione infragruppo di locazione di un immobile; in merito, si è ritenuto che il possibile
rilievo – secondo cui il valore da prendere a riferimento quale limite di significatività dell’operazione considerata
dovrebbe essere quello del contratto di locazione in concreto posto in essere, da considerarsi sub specie di somma
totale dei canoni per l’intera durata (minima) del contratto – non pare superato con l’obiezione (pur commendevole
in un’ottica di puntuale vigilanza sulle imprese) che l’interpretazione proposta consentirebbe l’elusione della
finalità della norma in discorso con la pattuizione di canoni irrisori (c.d. negozi nummo uno).
Non s'intende qui affermare che il valore di mercato dell’immobile concesso in locazione sia indice
irrilevante perché nella interpretazione suggerita esso, comunque, verrebbe in considerazione sotto il profilo della
valutazione della congruità del canone di volta in volta pattuito.
D’altra parte secondo il dato testuale delle Modalità per le comunicazioni dovute ai sensi dell’art. 15
della legge 9 gennaio 1991 n. 20, allegate allo stesso D.M. 29/12/1993, l’uso del termine “operazione” indica
in maniera precisa l’assunzione a termine di riferimento del valore del negozio concretamente posto in essere
piuttosto che il valore del bene che ne è oggetto.
Per mutare avviso sarebbe necessaria, de jure condendo, l’emanazione di un provvedimento modificativo
del D.M. 29/12/1993.
Sotto tale aspetto, tuttavia, in assenza di una norma che assegni sul punto all'IS.V.A.P. potestà regolativa
generale, è da ritenere che il potere di emanare norme a contenuto generale debba essere esercitato nel rispetto della
legge n. 400 del 1988, vale a dire mediante adozione di un provvedimento del Ministro dell'Industria su proposta
dell'IS.V.A.P
3.
Rapporti ISVAP/ Fondo di garanzia ex art. 4, comma primo, lett. f), legge n. 792/1984 – scambio di
notizie
Si è approfondita l’ipotesi di trasmissione al Fondo di garanzia in questione da parte dell’IS.V.A.P. di
informative ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dal Provvedimento n. 1182 G del 10 maggio 1999.
Norma centrale per l’analisi della questione si è rinvenuta nell’art. 5, comma secondo, della legge
12/08/1982 n. 576 istitutiva dell’IS.V.A.P..
Il tenore della disposizione è parso inequivoco nello stabilire che dati, notizie ed informazioni
acquisite dall’Istituto nell’esercizio dei propri compiti sono tutelati dal segreto d’ufficio il quale può essere
opposto anche alle altre amministrazioni pubbliche ad eccezione di alcune d’esse, specificamente determinate
dalla norma medesima già all’atto della sua formulazione (Ministero dell’Industria e Parlamento) od introdotte
in prosieguo (cfr. la disciplina regolante i rapporti tra IS.V.A.P. ed altre autorità amministrative indipendenti:
ad es. art. 7 d.lgs. 385/1993).
Si è peraltro rilevato che tale affermazione di principio non intende patrocinare una concezione
dell’amministrazione pubblica quale monade chiusa, separata ed addirittura contrapposta alla società civile;
pertanto è parso necessario coordinare la norma de qua con le norme introdotte in prosieguo.
La legge 241/1990, in particolare, seguendo le linee guida della normativa costituzionale –
patrocinante un generale principio di conoscibilità e di accessibilità dei documenti amministrativi, da parte dei
soggetti direttamente interessati all’atto od al procedimento – ha contribuito a capovolgere, insieme alla legge
142/1990, le regole che si erano in precedenza affermate in punto di segreto d’ufficio, in quanto è improntata,
in via generale e tendenziale, al principio per cui, nell’azione amministrativa, la conoscibilità è la regola, il
segreto l’eccezione, sembrando addirittura introdurre – oltre al diritto di accesso degli interessati – anche un
vero e proprio principio generale di ostensibilità erga omnes di tutti i documenti amministrativi, eccettuati
quelli espressamente qualificati come riservati.
Rimane principio cardine che il mantenimento del segreto d’ufficio abbia la natura di dovere del
pubblico impiegato; la novità sostanziale, peraltro, è costituita dal diritto d’accesso il quale limita
indirettamente il segreto d’ufficio nel senso che il segreto si estende tanto quanto in senso specularmene
opposto si estendono i limiti all’accesso.
Il segreto d’ufficio risulta, pertanto, oggettivamente identificato perché, in virtù del rinvio alle
disposizioni limitative dell’accesso, esso deve ritenersi riferito non già a tutte le notizie che il dipendente
conosca in ragione del suo ufficio, ma soltanto a quelle informazioni sui procedimenti ed a quelle notizie
apprese a causa delle sue funzioni le quali, in base ad apposite disposizioni di legge o di regolamento
governativo, sono sottratte al diritto di accesso in relazione alla tutela di determinati interessi.
L’esigenza – avvertita prima dalla dottrina e recepita successivamente dal diritto positivo – è stata
quella di ancorare il segreto d’ufficio ad interessi che devono essere collegati a valori trovanti il proprio
fondamento nella carta costituzionale nel senso dell’obbligo di ricercare la rispondenza del segreto d’ufficio ad
interessi costituzionalmente protetti quali ragioni fondanti del sacrificio dell’esigenza di conoscibilità.
Sotto tale aspetto, si è considerato che la riconduzione dell’attività assicurativa al disposto dell’art. 47
Cost. risulta ormai acquisita al patrimonio concettuale della dottrina che si è occupata della materia
assicurativa.
Secondo questa impostazione l’attività assicurativa è parsa collocarsi, rispetto alle strutture
imprenditoriali dell’economia reale, in posizione “servente” nel senso che, per il tramite dell’abbassamento
dell’alea e dei costi di produzione, fornisce sostegno alla loro crescita complessiva.
Il premio, in questo quadro, si configura come forma di allocazione del risparmio, rinvenendosi,
pertanto, nell’art. 47 Cost. il referente normativo fondante il sistema di controlli cui l’impresa d’assicurazione è
sottoposta.
In ordine al profilo dell’interesse che induce il Fondo ad avere conoscenza dei dati di vigilanza
assicurativa, si è ricordato che il detto Fondo di garanzia realizza una forma d’assicurazione obbligatoria
avendo la funzione di sostituirsi – nei casi in cui il danneggiato non possa pretendere l’indennizzo
dall’assicuratore o quest’ultimo sia insolvente – o di aggiungersi in via sussidiaria – per i danni eccedente il
massimale della polizza – all’assicurazione che il broker è obbligato a stipulare con cinque imprese.
Nell’assolvimento di questo ruolo, al Fondo è stata attribuita personalità giuridica autonoma e distinta
dall’IS.V.A.P. presso il quale è allocato, come ha riconosciuto la S.C. (SS.UU. n. 7554 del 26/7/00), esso
svolge istituzionalmente una funzione assicurativa (a livello sussidiario), […] è ente assicurativo[…]di natura
speciale al quale, tuttavia, la legge […] non attribuisce poteri autoritativi e neppure di autotutela
amministrativa nei confronti dei danneggiati, dei mediatori e delle società con le quali questi ultimi hanno
stipulato le polizze di assicurazione per la loro responsabilità civile, bensì soltanto gli strumenti tipici di diritto
privato.
Il fatto dannoso del broker – continua la Suprema Corte – determina a carico del Fondo l’insorgenza
di una normale obbligazione civilistica e sul soggetto danneggiato correlativamente un diritto soggettivo
perfetto, così come ha luogo nel rapporto fra un’impresa assicuratrice ed il danneggiato nella ipotesi di
assicurazione per responsabilità civile.
Solo che ricorrano i presupposti, il Fondo è tenuto a risarcire il danno cagionato dal broker
nell’esercizio della sua attività professionale (o dai dipendenti), senza alcuna potestà discrezionale sia quanto
all’an che al quantum.
La sentenza viene evocata per l’indubbio valore esplicativo, ancorché sia antecedente al d.lgs. 373/98,
che ha trasferito presso l’ISVAP il Fondo, in precedenza allocato presso il MICA.
L’assenza da parte del Fondo, sottolineata con forza dalla S.C., di poteri autoritativi non sminuisce
tuttavia la portata delle conclusioni raggiunte, ritenendosi che, per quanto detto, l’ostensione al Fondo
medesimo di documenti provenienti dalle attivazioni di vigilanza debba fondarsi sul collegamento con il diritto
d’accesso, l’interesse al quale dovrà essere valutato in concreto.
Ciò è sembrato ricorrente nel caso in cui la trasmissione di elementi di conoscenza relativi a
fattispecie sottoposte alla valutazione del Fondo sia disposta di propria iniziativa dall’IS.V.A.P. in seguito a
notizia dell’interessamento del Fondo da parte del danneggiato.
4.
Figura del difensore civico
In relazione ad una richiesta di indagini formulata dal difensore civico in carica presso la Regione
Campania in materia di asserite “politiche discriminatorie” condotte – nell’ambito della r.c.auto – da alcune
compagnie dell’area napoletana, si sono svolte alcune considerazioni sulla figura e sui poteri del difensore
civico.
Autorevole dottrina ha definito il difensore civico come “una sorta di magistratura di influenza e di
persuasione, non dotata di poteri coercitivi, che interviene, su istanza di parte o d’ufficio, con procedimento
essenzialmente informale, non solo nelle ipotesi di lesione di diritti soggettivi e interessi legittimi, ma anche, e
soprattutto, in tutti quei casi di lesione di interessi semplici ai quali non è riconosciuta tutela giurisdizionale”.
Si tratta di istituto che trae origine dall’esperienza giuridica dei paesi scandinavi (c.d. Ombudsman) e che,
in assenza di una introduzione a livello di Amministrazione centrale, nonostante il cospicuo dibattito dottrinario ed
il susseguirsi di iniziative legislative (cfr. ad esempio i lavori della Commissione Bozzi per un emanando art. 98 bis
Cost.), è rimasto sconosciuto all’ordinamento italiano sino alla nascita delle Regioni.
In alcuni casi il difensore civico ha trovato la base della propria disciplina in norme statutarie
(Toscana, Lazio, Liguria) mentre in altri nell’art. 117 Cost.; la disciplina, poi, si articola con alcune differenze
nelle diverse leggi regionali anche se la legge toscana ha costituito il paradigma per le leggi successive,
contribuendo, in generale, con le positive indicazioni da essa provenienti sui primi anni di attività, alla
delineazione dei tratti salienti dell’istituto.
Ciò premesso è parso utile trattare della natura e dei poteri dell’Ufficio in esame articolando il discorso
con riferimento al caso di specie ed alla disciplina emanata con la legge della Regione Campania 01/08/1978 n. 23
modificata con la legge regionale 08/03/1985 n. 15.
Il contenuto primario e specifico della competenza del difensore civico è costituito dall’azione di verifica
della regolarità dell’azione amministrativa tramite l’intervento presso l’amministrazione regionale e, ai sensi
dell’art.16, comma 1, legge n. 127/1997 (legge “Bassanini”), presso le amministrazioni periferiche dello Stato.
La norma da ultimo citata amplia, dunque, il campo di operatività dell’Ufficio del difensore civico in
precedenza limitato all’amministrazione regionale.
Il difensore civico si configura quale garante (su impulso di parte – anche se non limitato alla dimensione
individualistica – e con esclusione, nella maggior parte dei casi, di azioni ed iniziative ex officio) della efficienza e
correttezza dell’attività amministrativa soprattutto con riguardo alla fase anteriore alla adozione del provvedimento.
Solo tre Regioni (Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Puglia) hanno previsto l’iniziativa d’ufficio mentre la
legge campana non fa riferimento neppure ad un generico potere di segnalazione agli organi statutari competenti
(cfr. art. 3, comma I).
In sostanza la competenza dell’Ufficio ha per oggetto ogni forma di lentezza, omissione, disparità di
trattamento e, più in generale, ogni forma di inattitudine del procedimento e del provvedimento a realizzare i fini ad
essi attribuiti dall’ordinamento in modo che ne siano assicurate tempestività e regolarità sub specie di equità,
imparzialità e correttezza; rientrano, pertanto, in detta competenza anche i comportamenti amministrativi
caratterizzati dalla puntigliosa ed ostruzionistica applicazione della normativa di riferimento.
Per questa via le diverse norme istitutive intendono assicurare e sottoporre a controllo l’effettivo
rendimento e l’efficienza dell’apparato burocratico ed amministrativo.
Si è detto in esordio che il difensore civico non è dotato di poteri coercitivi, ma di poteri circoscritti
all’influenza istituzionale ed alla moral suasion; pertanto rimangono preclusi all’Ufficio il controllo di legittimità e
di merito sugli atti, che resta attribuito agli organi oblati dalla legge delle relative funzioni.
Più in particolare (cfr. art. 2 u.c.), la legge campana prevede una sorta di alternatività fra ricorso al
difensore civico e preventiva presentazione di ricorso giurisdizionale od amministrativo (principio che può
ritenersi estensibile anche alle azioni giudiziarie civili).
La detta regola non deve interpretarsi quale emersione rigoristica del principio di diritto amministrativo
electa una via non datur recursus ad alteram; e ciò perché, come in precedenza si è anticipato, il difensore civico
non interviene sugli atti ma in un momento anteriore e cioè nella fase precedente all’inizio del procedimento (ad
esempio in caso di inerzia dell’amministrazione) “su rapporti e su attività degli uffici, cioè durante il formarsi
stesso della volontà dell’organo amministrativo”.
E’ possibile, in altri termini, ipotizzare una sorta di parallelismo tra tutela nelle sedi amministrativa e
giurisdizionale e tutela apprestata dal difensore civico, ribadito che quest’ultima ha ad oggetto anche posizioni
giuridiche che in quelle preesistenti sedi potrebbero essere giuridicamente non rilevanti (si veda ad esempio il caso
degli interessi semplici).
Al compito primario si sono aggiunte le ulteriori funzioni di assistenza e consulenza dei cittadini (ad
esempio di indirizzo nel rinvenire l’Autorità cui correttamente indirizzare istanze o presso la quale incardinare
procedimenti) e di proposizione di innovazioni normative.
In relazione ai compiti cui è preposto, il difensore civico (cfr. art. 3, comma II, legge Campania) “ha
il diritto di ottenere dagli uffici dell’Amministrazione […] copia di atti e documenti, nonché ogni notizia
connessa con la questione trattata” senza che possa essergli opposto il segreto d’ufficio, cui peraltro deve
ritenersi vincolato egli stesso per la sua qualità di pubblico ufficiale, come si ricava dalla norma dell’art. 4,
comma 3, legge Campania che richiama l’art. 361 c.p. dettato in tema di reato di omessa denuncia da parte di
pubblico ufficiale.
Coerentemente con la detta qualità di pubblico ufficiale il difensore civico può – art. 4, comma I –
“proporre agli organi competenti dell’Amministrazione di appartenenza la proposizione dell’azione disciplinare, a
norma dei rispettivi ordinamenti”.
“Ove il fatto costituisca reato, il difensore civico che ne venga a conoscenza nell’esercizio delle
funzioni di ufficio ha l’obbligo di denunziarlo all’autorità giudiziaria” (art. 4, comma II).
Con riguardo alla richiesta rivolta all’ISVAP, anche a voler ipotizzare la diretta chiamata in causa
dell’Istituto da parte del difensore civico, l’art. 16 della legge Bassanini estende l’operatività dello stesso oltre
l’ambito regionale solo limitatamente ad attività di competenza delle Amministrazioni periferiche dello Stato
mentre l’ISVAP è da ritenersi amministrazione di tipo “centrale”, sia pure sui generis perché amministrazione
indipendente.
In questa ipotesi – si è concluso – resta impregiudicata la questione relativa ai limiti istituzionali entro
i quali l’organo di vigilanza assicurativa potrebbe agire per corrispondere ad una richiesta che investe in larga
misura scelte di strategia aziendale sottratte al controllo dell’Istituto.
5.
Comitato per la posizione del personale dirigente delle imprese di assicurazione in liquidazione coatta
amministrativa
Il Comitato in oggetto è stato istituito dall'art. 10 della legge n. 39/1977.
L’art. 24 del d.P.R. n. 45/1981, di attuazione della legge citata, prevede che il comitato sia composto, tra
gli altri, da un dirigente generale e da un funzionario della Direzione generale delle assicurazioni private e di
interesse collettivo del Ministero dell’Industria.
Nell'originario assetto normativo alla detta Direzione generale spettavano cospicue competenze.
Allo stato attuale della legislazione (in seguito all'abrogazione, da parte del d.P.R. n. 385/1994, come
modificato ed integrato dal d.lgs. 373/1998, degli artt. 1 e 2 della legge n. 576/1982) è stata eliminata la diarchia tra
C.I.P.E. e Ministero dell'Industria – secondo la quale il primo fissava gli indirizzi di politica assicurativa ed il
secondo impartiva le direttive all’IS.V.A.P. – e le linee di politica assicurativa sono indicate direttamente dal
Governo; risulta, altresì, esclusa ogni forma di vigilanza da parte del Ministero dell' Industria sull’IS.V.A.P. stesso.
Si consideri, inoltre, che l'originaria Direzione generale delle assicurazioni private e di interesse collettivo
è stata accorpata ad altri uffici dello stesso Ministero ed ha mutato, oltre che competenze, anche nome assumendo
quello di Direzione Generale Commercio Assicurazioni e Servizi (D.G.C.A.S.).
Venendo al problema specifico, l’originaria funzione del Comitato in parola, pur in un contesto normativo
così radicalmente mutato negli assetti del controllo, non sembra venuta meno; appare, peraltro, privo di giuridica
ragionevolezza che esso possa ancora mantenere l'originaria composizione.
Sembra, viceversa, possibile – in virtù del totale trasferimento della vigilanza sulle imprese assicuratrici
dal Ministero dell'Industria all’IS.V.A.P. e considerato, più in particolare, il disposto del già citato art. 3, comma 3,
del d.lgs. 373/1998 – che i membri del Comitato originariamente di nomina ministeriale possano ora essere
nominati tra i dipendenti IS.V.A.P..
Al riguardo può costituire utile riferimento la disciplina sul funzionamento del Fondo di garanzia previsto
dalla legge 28/11/1984 n. 792 per i broker di assicurazione e riassicurazione, la composizione del Comitato di
gestione del quale è stata innovata con provvedimento IS.V.A.P. n. 1182 G del 10/05/1999, prevedendosi la
presenza di dipendenti dell’IS.V.A.P. quali membri in luogo di quelli del Ministero dell’Industria, in funzione ed in
conseguenza dell'avvenuto trasferimento all’Istituto dei poteri di tenuta dell’albo broker e di controllo sugli iscritti
allo stesso.
Dal punto di vista del presupposto di base, del resto, rispetto alle vicende del Fondo predetto, la
situazione appare non dissimile: anche qui il d.lgs. 373/1998, come già visto, trasferisce all’IS.V.A.P. nuove
competenze già spettanti al Ministero dell’Industria.
In effetti la previsione contenuta nel citato d. P.R. 45/1981 – della nomina a membri del Comitato ex art.
10 legge 39/1977 di esponenti del Ministero dell’Industria – non pare fosse giustificata da altra ragione se non
l'essere, in illo tempore, proprio il Ministero dell’Industria officiato dei compiti di vigilanza sulle imprese
assicuratrici per cui era sorretto da giuridica ragionevolezza che fossero esponenti dell'organo di vigilanza
assicurativa, in possesso della competenza e dei dati relativi, a contribuire alla formazione delle decisioni d'un
organismo tenuto – nel quadro della sua funzione di conservazione della stabilità del lavoro per i dirigenti delle
imprese sottoposte a liquidazione coatta – a compiere quella valutazione di assenza di responsabilità nel dissesto
delle dette imprese idonea a giustificare il “recupero” di certe professionalità.
Se è vero che al Ministro dell’Industria è rimasta la competenza ad autorizzare la procedura di
liquidazione coatta amministrativa, è parimenti vero che, una volta emanato tale decreto ed avviato il procedimento
liquidatorio, è l’IS.V.A.P a governarlo adottando tutti i provvedimenti relativi; ed al riguardo non pare dubbio,
d'altra parte, che l’attività del Comitato in parola si collochi sotto l’egida dell’IS.V.A.P. e non più sotto quella del
Ministero, anche considerato il mutamento di nome e di fisionomia funzionale della Direzione generale del
Ministero dell’Industria di cui già si è detto.
Sotto questo aspetto, pertanto, si è concluso nel senso che, ormai trasferita pressochè completamente
all’IS.V.A.P. ogni competenza in materia di vigilanza sulle imprese assicuratrici, la composizione del Comitato in
argomento debba essere integrata con la nomina di esponenti dell’IS.V.A.P. in luogo degli esponenti del Ministero
dell’Industria previsti dall'art. 24 del d.P.R. 45/1981.
Occorre da ultimo dare contezza circa un ulteriore aspetto problematico emergente dal testo del più volte
citato art. 10 l. 39/1977 ove, quanto alla composizione del Comitato, si fa riferimento a “rappresentanti del
Governo”.
Al riguardo può osservarsi che l'apparente discrasia della soluzione proposta rispetto al tenore della
norma citata è stata superata dal legislatore del 1981 nel momento in cui ha indicato quali membri del Comitato, tra
gli altri, un Direttore generale e due funzionari ministeriali.
Appare evidente, infatti, come il legislatore stesso, nel disporre la disciplina di dettaglio, ha interpretato in
parte qua la norma primaria come riferita non già ai membri del Governo tout court, bensì a soggetti che
promanassero dall’Esecutivo in rappresentanza degli interessi implicati nella vicenda liquidativa e dei quali i
dicasteri nominanti avevano cura istituzionale.
Questa interpretazione risulta ora confermata alla luce del principio, sancito dal d.lgs. n. 29/1993 – come
modificato ed integrato (giusta la delega contenuta nella legge n. 59/1997) dal d.lgs. n. 80/1998 e dal d. lgs
387/1998 – secondo cui al Ministro spetta la funzione di indirizzo politico-amministrativo, di definizione degli
obiettivi e dei programmi e di verifica dei risultati nel settore di competenza, mentre ai dirigenti (ed in primo luogo
al Direttore Generale) spetta l'adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi puntuali e la responsabilità in
via esclusiva della gestione e dei risultati.
Anche sotto tale profilo, la sostituibilità di esponenti di vertice del Ministero dell’Industria con dirigenti
di ruolo equivalente dell’IS.V.A.P. in seno al Comitato in premessa non sembra trovare ostacoli di principio.
6.
Art. 8 legge 990/1969 – sostituzione di veicolo in corso di contratto – tariffa applicabile
In relazione alla emanazione del d.l. 70/2000 è sorta questione circa la tariffa applicabile in caso di
sostituzione del veicolo in corso di contratto.
La disciplina dell’art. 2 del citato decreto, come noto, ha stabilito una sorta di tripartizione tra i
contratti di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli a motore e
dei natanti distinguendo, in primo luogo, tra contratti stipulati (per i quali vige il blocco delle tariffe) e contratti
rinnovati.
All’interno di quest’ultima categoria, poi, si distinguono i contratti rinnovati con assegnazione a
classe di merito pari od inferiore a quella d’ingresso (per i quali vige il blocco dei premi) da quelli rinnovati
con assegnazione a classe di merito superiore alla classe d’ingresso (per i quali la tariffa è libera).
In conformità all’orientamento espresso dall’Istituto nella Relazione sull’attività svolta nel 1998, la
questione di cui all’oggetto è stata analizzata partendo dal presupposto che la procedura ex art. 8 legge
990/1969 e gli adempimenti conseguenti non danno luogo alla stipula di nuovo contratto.
Il principio che precede, d’altra parte, emerge chiaramente dal dato letterale che parla di […]
contratto, stipulato per il veicolo o il natante alienato, […] reso valido per altro veicolo o natante di […]
proprietà dell’alienante; tale dato deve intendersi riferito ad un rapporto contrattuale che vede perdurare la
propria validità pur essendo mutato uno dei suoi elementi e cioè il veicolo con riferimento al quale il rapporto
stesso s’era perfezionato.
Trattandosi non di nuova stipula ma di prosecuzione del rapporto contrattuale originariamente
concluso, dovrà applicarsi, per i contratti assegnati a classe di merito pari od inferiore a quella d’ingresso, la
regola del blocco del premio la quale importa l’inapplicabilità di aumenti al di fuori di quelli espressamente
stabiliti dalle regole evolutive e dai coefficienti di determinazione del premio già previsti.
Ciò posto, si è passati all’analisi della sorte delle clausole contrattuali che prevedono espressamente
che il conguaglio del premio ex art. 8 legge 990/1969 avvenga sulla base della tariffa in vigore al momento
della sostituzione del veicolo.
Si è ritenuto che tali clausole si pongano in contrasto con la regola introdotta con l’art. 2 del d.l.
70/2000 perché impediscono all’assicurato richiedente la sostituzione del veicolo di fruire dei benefici previsti
dal decreto stesso.
Al riguardo si è precisato che tale norma, possedendo carattere imperativo, prevale sull’originario
regolamento contrattuale informandolo di sè.
La norma imperativa deve ascriversi alla categoria generale delle norme inderogabili, ed è noto,
peraltro, che tramite le norme inderogabili il sindacato del legislatore sugli atti d’autonomia privata rimane
limitato alla fissazione, a pena d’invalidità, dei mezzi giuridici utilizzando i quali la volontà dei privati può
acquisire giuridica rilevanza; la norma imperativa, viceversa, per ragioni d’ordine generale prevalenti sulla
libertà negoziale privata, incide sul merito delle scelte delle parti con riguardo alle condizioni contrattuali,
fissando il legislatore limiti esterni al contenuto degli atti.
Ciò stante, si è ricordato che la norma imperativa – giusta il principio dell’eterointegrazione del
contratto – opera nel senso che le clausole di quest’ultimo con essa confliggenti debbono ritenersi nulle
applicandosi, conseguentemente, la disciplina prevista dall’art. 1419, comma secondo, C.C., emersione a sua
volta del principio generale secondo cui utile per inutile non vitiatur.
La tesi raggiunta ha trovato peraltro conferma nella circostanza che la disciplina introdotta dal d.l.
70/2000 non ha previsto, in caso di clausole difformi, una sanzione diversa dalla sostituzione o dall’invalidità
della clausola.
In conclusione si è ritenuto, giusta gli argomenti esposti, che il conguaglio del premio in discorso
debba essere effettuato sulla base della tariffa in vigore al momento della stipulazione o del rinnovo del
contratto e non già al momento in cui avviene la sostituzione del veicolo.
7.
Separate richieste di risarcimento relative al solo danno a cose ed alle sole lesioni personali; conformità
all’art. 3 l. 39/1977 solo della richiesta relativa al danno a cose – sanzionabilità per il ritardo nella
formulazione dell’offerta
In favore della tesi della sanzionabilità del comportamento dell’impresa che, in presenza di distinta
denuncia di danni a cose e a persone, per la liquidazione dei primi non osservi il disposto dell’art. 3 l. 39/77,
milita l’argomento della diversa titolarità del diritto al risarcimento quanto al danno a cose e quanto al danno a
persona perché le due istanze di risarcimento vivono di vita propria nonostante siano originate dal medesimo
fatto storico; a ciò s’aggiunga che – in limine – è ipotizzabile anche che il soggetto inciso da danno alla persona
non formuli alcuna richiesta di risarcimento.
I profili generali di identificazione della fattispecie possono così riassumersi:
a)
sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con formulazione di richiesta di
risarcimento limitata ai soli danni materiali;
b)
sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con formulazione di richiesta di
risarcimento riferita sia al danno a persona che a quello a cose e formulazione d’offerta limitata a quest’ultimo;
c)
sinistro con danni a cose e con lesioni personali invalidanti, con offerta risarcitoria riferita sia al
danno a persona che a quello a cose.
Per il caso esaminato non si è ritenuto che una valutazione globale del sinistro (avente cioè riguardo
sia al danno a cose che quello a persona) impedisse all’impresa – presenti due distinte richieste di risarcimento,
una sola delle quali (quella relativa al danno a cose) conforme all’art. 3 – di formulare nei termini la relativa
offerta.
Non è inutile precisare, al riguardo, che il sinistro de quo rientrava nell’ambito d’applicazione dell’art. 3,
essendo le lesioni guaribili in numero di giorni inferiore a quaranta, nonostante l’impresa avesse liquidato “con una
percentuale a stralcio di danno biologico”; come la giurisprudenza ha precisato, infatti, il danno biologico è riferito
in generale alla lesione dell’integrità psico-fisica e comprende anche il danno da invalidità temporanea, non
essendo riferito esclusivamente a quella permanente.
Ne deriva, la sanzionabilità dell’offerta tardiva formulata dall’impresa perché non vi sono ragioni per
sottrarre la medesima alle serrate cadenze temporali previste dalla legge per la formulazione dell’offerta.
Con la precedente osservazione risulta rispettata, la ratio della norma in esame, la quale ruota sul
“dichiarato presupposto che si tratti di sinistri con soli danni a cose o con lesioni non invalidanti”.
8.
Situazioni d’incompatibilità relative alla figura dell’attuario incaricato
L’art. 3 del D.P.R. 31/03/1975 n. 136 enuclea le ipotesi d’incompatibilità relative alle società di revisione
in genere; la medesima disciplina è stata poi estesa all’attuario revisore. L’art. 20 bis d.lgs. n. 174/1995, introdotto
dall’art. 79 lett. a) del d.lgs. 173/1997, nell’istituire – quanto alle imprese d’assicurazione del ramo vita – la figura
dell’attuario incaricato, disciplina le situazioni d’incompatibilità all’assunzione del ruolo relativo.
Più precisamente, l’art. 3, comma secondo, del D.P.R. 31/03/1975 n. 136 stabilisce che i soci, gli
amministratori, i sindaci o i dipendenti della società di revisione alla quale è stato conferito l’incarico [di
revisione] non possono esercitare le funzioni di amministratore o di sindaco della società che ha conferito
l’incarico, né possono prestare lavoro autonomo o subordinato in favore della società stessa, se non sia decorso
almeno un triennio dalla scadenza o dalla revoca dell’incarico ovvero dal momento in cui abbiano cessato di
essere soci, amministratori, sindaci o dipendenti della società di revisione.
Per converso, il citato art. 20 bis del d. lgs. n. 174/1995, nell’effettuare un rinvio al predetto art. 3, ne
esclude expressis cum verbis la condizione d’incompatibilità di cui al comma 1, punto n. 2, con ciò consentendo di
assumere il ruolo di attuario incaricato anche ai soggetti che intrattengano od abbiano in passato intrattenuto
rapporti di lavoro autonomo o subordinato con la società conferente l’incarico ovvero con altre società od enti
controllanti la medesima.
Si evidenzia un conflitto tra le citate norme che, peraltro, si rivela solo apparente.
Se è vero, infatti, che il principio ispiratore della disciplina delle incompatibilità si rinviene nella
condivisibile esigenza di impedire l’instaurarsi di interessenze e conflitti d’interesse con riguardo a figure
professionali tanto delicate, la novella che ha introdotto il citato art. 20 bis trova, invece, la sua ragion d’essere
nella necessità di individuare, sul mercato delle risorse umane, professionalità in numero sufficiente
all’assolvimento di quella funzione di controllo tecnico-attuariale dell’attività gestionale delle imprese assicurative
che il legislatore ha richiesto in via continuativa. In altri termini, introducendo la figura dell’attuario incaricato, si è
inteso realizzare una sorta di ponderazione degli interessi da salvaguardare, nel senso di ritenere prevalente sui
principi generali – che certamente, al di là delle specifiche deroghe, restano fermi – la ratio di assicurare alle
imprese la continuità della funzione di controllo che altrimenti verrebbe compromessa.
Sotto questo profilo, la disposizione di cui all’art. 20 bis, comma secondo, d.lgs. n. 174/1995, quale
norma successiva speciale in quanto afferente alla materia assicurativa, introduce una deroga espressa al regime
ordinario limitatamente alla figura dell’attuario incaricato.
9.
Legge 675/96 c.d. legge sulla privacy e servizio reso dall’ANIA
A seguito dell’entrata in vigore della legge 31 dicembre 1996 n. 675, è sorta questione in relazione al
rilascio agli interessati, da parte dell’ANIA, di informazioni relative alla denominazione della compagnia presso cui
è assicurato un veicolo di cui siano noti soltanto gli estremi della targa; e ciò nel presupposto che tale
comunicazione violi le disposizioni vigenti in tema di c.d. diritto alla privacy.
Anzitutto, si sono espressi dubbi sul fatto che l’abbinamento targa del veicolo – compagnia assicuratrice
configuri un dato personale, il cui trattamento resti, quindi, disciplinato dalla citata legge sulla privacy.
Diversamente dovrebbe opinarsi nel caso in cui l’abbinamento con gli estremi della targa del veicolo avesse
riguardo, anziché alla compagnia, al nominativo dell’assicurato.
Tale considerazione discende dal tenore delle disposizioni di legge, segnatamente dalla lettera c) del
comma 2 dell’art. 1 della legge sulla privacy, disposizione che definisce il concetto di dato personale quale
“qualunque informazione relativa a persona fisica, giuridica o ente o associazione identificativo identificabili,
anche direttamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione ivi compreso un numero di identificazione
personale”
Qualora non si acceda a tale tesi, ritenendosi pertanto, che nell’operazione di cui trattasi sia rinvenibile un
trattamento di dati personali soggetto alla cennata legge 675/96, può preliminarmente osservarsi che la legge 24
dicembre 1969 n. 990 obbliga a rendere di pubblico dominio la denominazione dell’impresa assicuratrice.
Infatti, come è noto, l’art. 7 della citata legge sulla assicurazione obbligatoria della responsabilità civile
dispone che il contrassegno, documento che l’assicuratore è tenuto a consegnare all’assicurato all’atto del rilascio
del certificato di assicurazione, debba essere reso pubblico applicandolo “sul veicolo... negli stessi modi stabiliti
dall’articolo 12 del testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche”; in altre parole l’assicurato deve esporlo sul
parabrezza dell’auto in modo visibile, al fine di consentire l’identificazione del veicolo, della compagnia
assicuratrice, nonché di verificare la scadenza del periodo di assicurazione.
Tra gli elementi che il contrassegno deve contenere ad substantiam (tanto che ne è persino previsto il
modello standard) vi è la denominazione dell’assicuratore ex art. 14 d.P.R. 24 novembre 1970 n. 973, lettera a):
trattasi, dunque, di informazione la cui pubblicità è espressamente prevista dalla legge e dal suo regolamento di
esecuzione. Peraltro, la ratio di tale disciplina risiede nel fatto che la conoscenza del suddetto dato è
imprescindibile per esercitare l’azione diretta stabilita a favore del danneggiato nei confronti dell’assicuratore
dall’art. 18 della citata legge 990/1969.
Ad avvalorare tale assunto, vi è, infine, l’art. 5 della “Quarta direttiva comunitaria assicurazione
autoveicoli”, il quale prevede l’istituzione di un centro d’informazione, cui sia attribuita la tenuta di un registro
contenente, tra le altre notizie, la denominazione delle imprese di assicurazione che coprono la garanzia r.c.auto di
ogni autoveicolo.
Sulla base di tali riferimenti normativi, si è ritenuto che nulla osti alla prosecuzione del servizio de quo da
parte dell’ANIA anche dopo l’entrata in vigore della legge 675/96, in quanto il caso di specie rientra sia nella lett.
b), sia nella lettera c), dell’art. 20, comma 1 della medesima legge.
Tali disposizioni prevedono peraltro in via alternativa, due fattispecie in cui sono ammesse la
comunicazione e diffusione dei dati personali, esonerando il titolare del trattamento dalla necessità di acquisire il
consenso espresso dell’interessato: “se i dati provengono da pubblici registri ... atti o documenti conoscibili da
chiunque” (lett. b) ovvero se (lett. c)avvengano “in adempimento di um obbligo previsto dalla legge da un
regolamento o dalla normativa comunitaria” (v. legge 990/69). Peraltro, non solo la comunicazione dei dati è
possibile nel caso di specie non solo in quanto derivante da una deroga espressamente stabilita, ma anche in quanto
derivante da una deroga espressamente stabilita, ma anche il trattamento dei dati si ritiene sottoposto a regole di
particolare favore: ai sensi dell’art. 7 comma 5 ter lett. a) e b), il titolare è esonerato dall’obbligo di notificazione al
Garante quanto il trattamento “è necessario per l’assolvimento di un compito previsto dalla legge, da un
regolamento o dalla normativa comunitaria ....”. ovvero quando “riguarda dati contenuti o provenienti da pubblici
registri ... omissis ... atti o documenti conoscibili da chiunque”;
In quest’ultimo caso si può prescindere anche dal consenso dell’interessato (art. 12, comma 1, lett. c), allo
stesso modo in cui, ove riguardi dati raccolti e detenuti in base ad un obbligo previsto dalla legge, da un
regolamento o dalla normativa comunitaria”, il consenso non è richiesto (lett. a) dell’art. 12.
Non pare affatto irragionevole che tale obbligo venga rinvenuto nella legge 990/1969, sembrando al
contrario logica conseguenza del sistema delineato dal legislatore che la denominazione dell’assicuratore si
configuri come informazione necessaria e strumentale per adempiere l’obbligo di risarcimento ivi previsto.
Pertanto, la comunicazione di tale data può agevolmente ritenersi “in adempimento di un obbligo previsto dalla
legge e quindi lecita.
Conclusivamente, si è affermato che il trattamento di tale dato non richiede né la previa notifica al
Garante per la protezione dei dati personali, né il consenso dell’impresa assicuratrice; inoltre – si è aggiunto – la
sua comunicazione ammessa è resa possibile dalla legge.
10. Conservazione da parte delle imprese assicurative di dati sanitari acquisiti ai fini della liquidazione di
sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A.
Si sono svolte alcune considerazioni sulla questione relativa all’obbligo di conservazione, a seguito della
liquidazione dei sinistri nel settore dell’assicurazione R.C.A., dei dati sanitari relativi a terzi danneggiati, e
dell’esatta durata del relativo periodo di conservazione dei predetti documenti.
In proposito è appena il caso di ricordare che l’obbligo di conservazione per dieci anni delle scritture
contabili, sancito dall’art. 2220 cod. civ. per la generalità delle imprese commerciali, vale anche per quelle
assicuratrici.
Nei confronti di esse, tale obbligo assume peraltro contenuti specifici in relazione alla peculiarità delle
evidenze contabili e documentali richieste dalla normativa di settore.
Vengono in primaria considerazione le disposizioni di cui agli artt. 22, 49 e 72 del r.d. 4/1/1925, n. 63
che, per quanto qui interessa, estendono il generale obbligo di conservazione delle scritture contabili alle copie
delle polizze ed ai dati medico-sanitari di riferimento.
In particolare, ai sensi dell’art. 22, ultimo comma, è prescritto alle imprese nazionali e alle rappresentanze
estere che esercitano l’assicurazione sulla vita di conservare presso la sede centrale le proposte di assicurazione, la
copia delle singole polizze emesse e i relativi certificati medici, le copie dei contratti di riassicurazione,
retrocessione e partecipazione e tutti gli elementi relativi.
In relazione alle imprese che esercitano l’assicurazione contro i danni, l’art. 49 sancisce un analogo
obbligo prevedendo, con un’ampia clausola finale, che “presso la sede centrale … debbono inoltre essere
conservate le copie delle singole polizze emesse, le copie dei contratti di assicurazione e tutti gli elementi relativi”.
In tale ultima espressione sono da ritenere compresi anche i dati sanitari, ancorché dei certificati medici si
parli soltanto nella disciplina dell’assicurazione sulla vita. L’apparente omissione può spiegarsi con la circostanza
che, mentre alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita è connaturata la comunicazione da parte
dell’assicurato di dati inerenti alla salute del medesimo, ciò non accade per le assicurazioni diverse da quella sulla
vita, ove un trattamento di dati sensibili relativi a danneggiati o ai medesimi assicurati può venire in considerazione
solo in seguito al verificarsi di un sinistro.
Né va trascurato che, per effetto della legislazione comunitaria, alla tradizionale scansione “vita-danni” su
cui si fondava la pregressa normativa assicurativa, si è sovrapposta quella cose-persone, con la conseguente
assunzione sotto un’unica categoria delle coperture assicurative connesse a tutte le vicende umane e, dunque non
solo la vita e la morte, ma anche gli infortuni e le malattie.
Infine, per quanto concerne le imprese di capitalizzazione e di risparmio, è l’art. 72 del citato r.d. a
stabilire che, sempre presso la sede centrale, debbano essere conservate anche “le copie delle singole polizze o dei
singoli certificati relativi ai contratti di capitalizzazione e tutta la documentazione relativa”. Aggiunge l’art. 61 del
d.p.r. 13/2/1959 n. 449 che, presso le imprese che esercenti l’assicurazione sulla vita, l’obbligo si estende a tutto il
materiale tecnico e statistico relativo a queste assicurazioni, necessario ai fini del controllo di vigilanza.
Dalla disamina delle disposizioni appena richiamate si evince l’assenza di un termine diverso da quello di
durata decennale minima, previsto quale obbligo generale di conservazione della documentazione aziendale.
Ciò non esclude la possibilità che un termine superiore a quello minimo previsto dalla disciplina
codicistica si individui per ragioni connesse ai riscontri di vigilanza.
In tal senso si richiamano le disposizioni di cui alla Circolare Isvap n. 99 del 30 giugno 1988. In merito
all’obbligo di conservazione dei libri e registri assicurativi, tale circolare, avvalendosi delle disposizioni di carattere
generale dell’art. 2220 cod. civ. e dell’art. 22 del d.P.R. 29/9/1973, n. 600 in materia di accertamento delle imposte
sui redditi, stabilisce che i registri assicurativi debbano essere conservati per almeno dieci anni dalla data
dell’ultima registrazione, e comunque fino a quando, anche oltre tale termine, non siano stati definiti gli
accertamenti relativi ai corrispondenti periodi di imposta.
Attesa la durata mediamente più lunga dei contratti di assicurazione sulla vita, è inoltre stabilito in deroga
al principio generale che, per esigenze di controllo, il registro dei contratti stipulati riguardante le predette
assicurazioni debba essere conservato per il periodo più lungo possibile e, comunque, per almeno 20 anni.
Considerazione a parte meritano le imprese assicuratrici in liquidazione, sia essa volontaria oppure coatta,
posto che i suesposti termini devono ritenersi prorogati ai sensi dell’art. 2457 cod. civ., in forza del quale i libri
sociali, una volta depositati presso l’ufficio del registro delle imprese, vanno conservati per dieci anni.
La superiore osservazione non assume rilievo secondario avendo presente che, all’attualità, quasi tutte le
imprese assoggettate a liquidazione coatta amministrativa esercitavano l’assicurazione R.C.A., settore in cui
vengono sovente in considerazione dati inerenti alla salute di terzi danneggiati.
Ai fini del presente riscontro si prescinde dal richiamare il preminente interesse dell’impresa a conservare
per il maggior tempo possibile i dati sanitari relativi a terzi danneggiati (o assicurati in genere) per fini statistici, per
una corretta costruzione delle tariffe, per la repressione delle frodi o per altre ragioni connesse alle proprie strategie
commerciali.
Trattasi – com’è evidente – di motivazioni meritevoli di considerazione in quanto concorrono ad un
equilibrato ed ordinato esercizio di una funzione di rilevante interesse sociale come quella assicurativa.
Ovviamente spetta al Garante valutare entro quali limiti esse possono trovare accoglimento senza pregiudizio per le
preminenti ragioni a tutela della riservatezza.
11. Circolazione stradale e risarcimento del danno allo straniero
Il cosiddetto principio di reciprocità di cui all’art. 16 delle Disposizioni sulla legge in generale, invocato
da alcune imprese assicuratrici, che è divenuto peraltro residuale per effetto della nuova disciplina
sull'immigrazione, comporta il soddisfacimento della condizione che lo stato di appartenenza dello straniero
riconosca, senza limitazioni discriminatorie per il cittadino italiano, i diritti civili connessi al risarcimento del
danno e all’istituto dell’assicurazione (Cassazione 10 febbraio 1993 n. 1681) senza che, peraltro, ad esso possa
legittimamente attribuirsi l’ulteriore significato che allo straniero debba essere riconosciuto solo quanto verrebbe
attribuito ad un cittadino italiano per un fatto analogo che si verificasse nel paese di origine dell’extracomunitario.
Ad una siffatta interpretazione osta l’art. 62 della legge 618 del 1995 “Riforma del sistema di diritto
internazionale privato” , secondo cui “la responsabilità per fatto illecito è regolata dalla legge dello Stato in cui si
è verificato l’evento”: ciò vuol dire, con riferimento all’Italia, che ogni sinistro il quale si verifichi in territorio
nazionale è sottoposto all’applicazione della legge italiana (lex loci). Una volta accertato l’assolvimento della
condizione di reciprocità cui è subordinato l’an debeatur, è da ritenere che la legge applicabile ai fini della
quantificazione del danno sia quella italiana, anche se ne derivi per l’impresa assicuratrice un esborso superiore a
quello che verrebbe in ipotesi erogato per un fatto analogo ad un cittadino italiano da un’impresa del paese
straniero.
Pertanto, l’invocazione del principio della reciprocità da parte dell’impresa assicuratrice per ridurre
l’ammontare del risarcimento da erogare allo straniero non appare in ogni caso pertinente, configurandosi
conseguentemente il comportamento dalla medesima assunto privo di fondamento giuridico.
Premesse le suesposte considerazioni generali, l’applicabilità del principio di cui all’art. 16 delle preleggi
ha subito, peraltro, un fortissimo ridimensionamento per effetto dell’entrata in vigore della legge 6 marzo 1998 n.
40 e del suo regolamento di esecuzione (d.P.R. 31 agosto 1999 n. 394). A distanza di quasi dieci anni dalla legge
c.d. Martelli (legge 28 febbraio 1990 n. 39) e dopo ben sei decreti-legge emanati sull’onda emergenziale, il
legislatore italiano ha finalmente provveduto all’ormai non più procrastinabile rivisitazione della materia,
introducendo in un settore di sensibile attualità un’incisiva modifica, resa urgente tra l’altro dagli esodi di massa
verificatisi dai territori della Somalia, dell’ex Jugoslavia e dell’Albania, oltre che dalla recentissima diaspora delle
popolazioni curde.
L’art. 2 della legge 40/1998 enumera le diverse posizioni soggettive, di diritto e di interesse, riconosciute
allo straniero.
Innanzitutto, all’art. 2, comma I, sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona allo straniero
comunque presente “alla frontiera o nel territorio dello Stato”: “anche a chi si trovi in stato di clandestinità o di
irregolarità in riferimento alla disciplina sull’ingresso, sono assicurati i diritti fondamentali previsti dalle norme di
diritto interno, dalle convenzioni internazionali e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti. La
norma non risulta in realtà innovativa rispetto al passato ovvero, rectius, anche se essa è da ritenersi nuova dal
punto di vista legislativo, si palesa conforme ad una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale che,
statuendo sull’applicazione del principio di eguaglianza, ne ha esteso la portata agli stranieri allorchè vengano in
considerazione i principi generali della persona (Corte Costituzionale n. 62/94).
Nell’interpretazione della Consulta il catalogo dei diritti fondamentali, come tali riconosciuti anche allo
straniero, si estende oltre il confine di quelli riferibili ai soli cittadini nel dettato costituzionale.
La giurisprudenza costituzionale ha, infatti, fortemente limitato la valenza del dato testuale, affermando
anche a favore degli stranieri diritti fondamentali, per i quali la lettera della costituzione si riferisce ai solo
“cittadini”, e in tal modo valorizzando il collegamento sistematico tra il principio di eguaglianza, la garanzia dei
diritti inviolabili dell’uomo sancita dall’art. 2 della Costituzione e le consuetudini e convenzioni internazionali in
tema di salvaguardia dei diritti dell’uomo. In tale contesto, è tesi accreditata dalla giurisprudenza costituzionale che
il risarcimento del danno, quantomeno nella componente del “danno biologico” - è riconducibile senz’altro alla
tutela degli artt. 2 e 32 della Costituzione sub specie di danno alla salute - attenga ad un diritto inviolabile della
persona, così da non essere condizionato in alcun modo dall’applicazione del principio di reciprocità. Tale
orientamento è fra l’altro seguito dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Roma, 19 gennaio 1993).
Conseguentemente, ogni straniero, anche se si trovi in situazione di irregolarità, gode del medesimo
diritto riconosciuto al cittadino italiano di essere tenuto indenne del danno cosiddetto biologico senza la necessità di
dimostrare la sussistenza della condizione di reciprocità.
Diverso avviso si palesa, invece, riguardo alla situazione dello straniero regolarmente soggiornante in
Italia, sul quale la legge è inequivoca.
Infatti, il comma II dell’art. 2 della legge n. 40/98, proseguendo nell’enucleare i diritti riconosciuti allo
straniero, considera una diversa relazione col territorio dello Stato, non legata alla sola presenza, ma alla
condizione di straniero “regolarmente soggiornante” e, quindi, munito di titolo per l’ingresso e il soggiorno.
Accanto ai diritti fondamentali richiamati, allo straniero che si trovi in tale condizione è assicurata l’equiparazione
con il cittadino italiano nel godimento dei diritti civili e quindi nelle posizioni soggettive che riguardano lo status
civitatis.
Come può sin qui rilevarsi, anche la materia della condizione di reciprocità viene indirettamente
modificata. Pur non pervenendosi all’abrogazione espressa dell’art. 16 delle preleggi e rinviandosi al regolamento
per le modalità di accertamento di tale condizione, la medesima non viene mai richiamata nel corpus della legge
40/1998 per limitare l’applicazione degli istituti ivi disciplinati: da tale scelta discende che, considerata la natura di
legge organica che possiede la cennata disciplina (poi trasfusa nel testo unico adottato con decreto legislativo 25
luglio 1998 n. 286), l’area applicativa della condizione di reciprocità si configura ormai residuale.
Con il regolamento di attuazione della legge 40/1998 (il ricordato d.P.R. 394/1999) il disegno riformatore
in tema di disciplina dell’immigrazione può dirsi completo; la ferita al principio di reciprocità è oramai
definitamene inferta. Il comma II dell’art. 1 stabilisce, infatti, che l’accertamento della condizione di reciprocità
non è richiesto per i cittadini stranieri titolari della carta di soggiorno nonché per gli stranieri titolari di un permesso
di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, per l’esercizio di un’impresa individuale e per
i relativi familiari in regola con il soggiorno. Il ruolo residuale del principio emerge anche dal I comma dell’art. 1
ove è previsto che i soggetti ivi indicati (responsabili del procedimento amministrativo che ammette lo straniero al
godimento dei diritti civili, notai) possano richiedere l’accertamento di tale condizione al Ministero degli Affari
Esteri nei soli casi previsti dal Testo Unico e in quelli in cui le convenzioni internazionali prevedano la condizione
di reciprocità.
Le considerazioni sin qui espresse inducono all’assunto che i cittadini extracomunitari titolari di regolare
permesso di soggiorno in Italia abbiano diritto di essere risarciti dalle imprese assicuratrici dei danni subiti in
conseguenza di sinistri loro occorsi nel territorio della Repubblica, secondo modalità liquidative identiche a quelle
utilizzate per il cittadino italiano. Per rifiutare o, in sostanza, eludere le istanze risarcitorie presentate da detti
stranieri, la società assicuratrice non potrà più invocare la condizione di reciprocità in quanto, per effetto
dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 2, d.P.R. 394/1999, ad essa non è più condizionato l’esercizio dei diritti ai
medesimi ascritti.
12. Rivalutazione minima delle sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. 449/1959 in base all’art. 83 del
d.lgs. 26 maggio 1997 n. 173 – Attuazione della Direttiva 91/674/CEE in materia di conti annuali e
consolidati delle imprese di assicurazione
In merito all’alternativa se attribuire generale o particolare effetto rivalutativo – in rapporto alle
sanzioni di cui agli artt. 114 e 115 del d.P.R. 449/1959 – all’art. 83 del d.lgs. 173/1997 (che ne dispone il
raddoppio della misura minima), si è sostenuto che la cennata rivalutazione abbia esclusivo riguardo alle
sanzioni conseguenti agli illeciti delineati dal citato art. 83, cioè alla tardiva approvazione e tardiva
trasmissione del bilancio delle imprese assicuratrici all’Isvap (rispettivamente art. 11, 2° comma e art. 82, 3°
comma del d.lgs. 173/1997).
A tal proposito, è parso che già il senso logico-letterale racchiuso nell’art. 83 deponga, in termini
inequivoci, a favore della tesi appena esposta: nel fare puntuale riferimento alle due cennate fattispecie
trasgressive, la norma non giustifica ampliamenti della rivalutazione al di fuori delle ipotesi di illeciti ivi
contemplate. Per completezza può rilevarsi che il Legislatore – pur potendolo realizzare senza con ciò
esorbitare dai limiti della delega concessagli ratione materiae – non ha ritenuto peraltro di assoggettare tutte le
violazioni delle disposizioni introdotte dal suddetto d.lgs. 173/1997 alle medesime sanzioni ex art. 114 e 115
nella misura rivalutata, operando così una scelta di campo, limitativa della propria discrezionalità.
Premesse le osservazioni innanzi esposte sulla lettera della legge, deve inoltre reputarsi che – a
prescindere dalla voluntas legis – non possa riconnettersi alle disposizioni dell’art. 83 un significato generale, tale
da comportare una rivalutazione degli art. 114 e 115 del T.U. in rapporto a tutte le fattispecie sottopostevi (e non
solamente a quelle delineate dal d.lgs. 173/1997), se non si vuole esulare ex art. 76 della Costituzione dai limiti
tracciati dalla delega per l’attuazione della Direttiva comunitaria 91/674/CEE.
Con legge 22 febbraio 1994 n. 146 il Parlamento ha, infatti, conferito al governo delega ad emanare
decreti legislativi di attuazione di alcune direttive, tra cui quella in esame; segnatamente, con riferimento ad essa,
nello stabilire i principi e criteri cui l’organo esecutivo deve attenersi, ha rimesso al medesimo l’emanazione di
disposizioni recanti sanzioni penali o amministrative, ma esclusivamente per violazioni delle direttive attuate ai
sensi della stessa legge delega.
I rilievi svolti postulano che debba prescegliersi un’interpretazione aderente alla lettera della
Costituzione (conforme anche ai principi di legalità e tassatività che informano il sistema sanzionatorio),
idonea ad impedire un’eventuale declaratoria di incostituzionalità, sotto il profilo dell’eccesso di delega, da
parte della Consulta; tale considerazione risulta determinante nell’ipotesi in cui non si convenga che funzione
decisiva è già assolta al riguardo dal dato letterale, nel senso di non lasciare adito a soluzioni differenti da
quella sin qui patrocinata.
A suffragio della suddetta interpretazione, può inoltre osservarsi – quale argomento a contrariis – che, a
differenza che nell’ipotesi in esame, precedenti operazioni rivalutative in materia assicurativa hanno indotto il
Legislatore ad una riformulazione normativa ad hoc con la dichiarata finalità di ricomputo generale (vedansi a
questo proposito gli artt. 127 del d.lgs. 174/1995 e 141 del d.lgs. 175/1995).
D’altra parte, qualora si fosse ritenuto che al suddetto art. 83 sia da attribuire effetto rivalutativo generale,
ne sarebbe derivata la necessità di riconsiderare l’intero apparato di riforma del sistema sanzionatorio, portato
ancora di recente all’esame dell’Autorità governativa e del Parlamento; e tuttavia non è stato quello l’orientamento
di Istituto.
Formulate tali considerazioni in ordine all’effetto limitato della rivalutazione operata, si è sostenuto che il
richiamo all’art. 114 contenuto nel citato art. 83 sia un refuso, probabilmente da ritenersi connesso all’uso tralatizio
di ripetere l’abbinamento delle due norme, a motivo che in esse si esauriva l’apparato sanzionatorio del d.P.R.
449/1959.
La sanzione di cui all’art. 114 è, infatti, per sua natura palesemente riferita (e riferibile) a fattispecie in cui
viene in considerazione l’operatività dell’impresa assicuratrice in termini di assunzione di contratti o di
collocazione dei rischi, sicchè in tale contesto è logico e pertinente che essa si commisuri all’ammontare dei premi
pattuiti (nella misura pari al doppio del premio stabilito per ogni contratto). Rapportato, invece, alle violazioni degli
artt. 11, comma 2°, e 82, comma 3°, d.lgs. 173/1997, tale parametro non assume alcun senso, in quanto le suddette
fattispecie non attengono, evidentemente, né alla stipula né alla mediazione di contratti, bensì all’assolvimento nei
confronti dell’Istituto di un obbligo che, per sua natura, prescinde dall’ammontare dei premi assunti dalle imprese.
Anzi, esso si configurerebbe palesemente incongruo se si considerano i risultati aberranti cui la sua
adozione ai fini della determinazione del quantum della sanzione darebbe luogo, nel comportare l’irrogazione di
sanzioni del più svariato ammontare in relazione al differente volume di affari di ciascuna impresa, a fronte peraltro
della medesima violazione, il cui disvalore sarebbe illogico che ricevesse differente apprezzamento a seconda della
quantità dei contratti stipulati.
Per i motivi sin qui rilevati, si è concluso nel senso di ritenere che l’unica sanzione applicabile in
concreto, nonostante lo scarso potere deterrente posseduto – in quanto, come rilevato, l’illecito è suscettibile di
configurarsi una sola volta nell’esercizio – sia quella di cui all’art. 115 del T.U., salvo particolarissimi casi in cui
vengano eventualmente in considerazione le violazioni delle due norme di cui trattasi, in una con l’inosservanza di
disposizioni che presuppongono un’operatività dell’impresa, del tutto ininfluente nelle fattispecie esaminate.
13. Convenzione ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 973/1970 relativa agli obblighi connessi con l’assicurazione
r.c. natanti
Si sono svolte alcune considerazioni sulla possibilità di ritenere esonerate le imprese straniere “comunque
ubicate” in Italia dall’obbligo di stipulare la convenzione con un’impresa italiana, richiesta in linea generale ai
sensi dell’art. 8 del d.P.R. 973/1970 al fine di considerare validamente assolto l’obbligo assicurativo da parte dei
motoscafi e delle imbarcazioni a motore iscritti in stati esteri e assicurati presso dette compagnie straniere.
Il requisito posto dalla legge può reputarsi integrato, senza necessità di stipulare alcuna convenzione con
impresa italiana o, meglio, come il suddetto art. 8 richiede espressamente, con impresa autorizzata ad esercitare in
Italia.
La cennata disposizione regolamentare può reputarsi parzialmente superata. Essa va, infatti, interpretata
alla luce della sopravvenuta normativa di recepimento delle direttive comunitarie, segnatamente dalle terze direttive
avvenuta in materia di assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita per effetto del d.lgs. 175/1995, che
induce a considerare esonerate dall’obbligo di stipulare la convenzione con “l’impresa autorizzata” ad esercitare in
Italia le imprese straniere operanti nel settore dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante
dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti in regime di libertà di stabilimento o di libera prestazione di
servizi in Italia in quanto già abilitate, “autorizzate” nell’accezione lata, a svolgere attività assicurativa nel territorio
della Repubblica.
Com’è noto, la disciplina regolante le suddette forme di operatività delle imprese estere già prevede,
seppure con modalità ed intensità differenti tra di loro, l’esistenza nel territorio della Repubblica di strutture
legittimate alla gestione dei sinistri e la liquidazione dei relativi indennizzi e dotate di poteri rappresentativi
dell’impresa.
E’ quindi privo di senso privilegiare un’anacronistica formalità a detrimento della ratio normativa,
evidentemente assolta da una struttura istituita ad hoc internamente alla compagine societaria, dipendente dalla
casa madre (della quale si presume segua correttamente le direttive), che in linea di principio offre più garanzie di
una organizzazione esterna, connessa solo in forza di un accordo contrattuale.
Ciò posto, si è ritenuto che la stipulazione di convenzione con impresa italiana sia oggi ancora necessaria
per le imprese U.E. che non operano né in regime di stabilimento né di libera prestazione di servizi o per quelle
extra U.E. che non operano in regime di stabilimento.
14. Sentenza Tar Lazio del 7 aprile 2000 in tema di situazioni impeditive
Il Tar del Lazio con sentenza del 7 aprile 2000 ha annullato le disposizioni regolanti le cosiddette
situazioni impeditive previste dall’art. 2 del d.m. 11 novembre 1998 n. 468 (Regolamento SIM, SGR e SICAV)
e dall’art. 2 del d.m. 11 novembre 1998 n. 471 (Regolamento delle società di gestione dei mercati
regolamentati e di gestione accentrata di strumenti finanziari).
Considerata la quasi identità delle previsioni de quibus rispetto alla omologa disciplina del contiguo
settore assicurativo, è infatti evidente l’influenza che tale pronuncia sarebbe suscettibile di spiegare in ambito
assicurativo qualora trovasse conferma in sede di appello.
Esaminando il contenuto della sentenza in oggetto, si è riscontrato che il Tar ha respinto il primo motivo
di gravame accogliendo, invece, il secondo motivo sulla base del presupposto che la disciplina delle situazioni
impeditive determini una restrizione, fondata su mere presunzioni, della capacità di agire del soggetto che vi
incorre. Più precisamente, il Tribunale ha ritenuto che tale regolamentazione dia luogo ad un’interdizione
temporanea sulla base di una presunzione assoluta di responsabilità per la crisi dell’impresa o ente in cui il soggetto
ha svolto l’attività professionale, che prescinde dall’accertamento in concreto del coinvolgimento dello stesso nel
dissesto dell’impresa, non consentendogli peraltro di fornire alcuna prova “liberatoria” circa l’estraneità ai fatti che
vi hanno dato causa.
Alla stregua delle esposte considerazioni, il giudice di prime cure ha delineato un alternativo criterio di
imputazione della responsabilità che non appare tuttavia ispirato a valutazioni oggettive, scevre da discrezionalità,
fondandosi al contrario su apprezzamenti di carattere eminentemente soggettivo. In sostanza, il Tar configura un
sistema complesso di valutazione basato sull’apprezzamento discrezionale sia degli organi societari sia di quelli
amministrativi o giurisdizionali che gestiscono la crisi dell’impresa, successivamente soggetto al controllo
dell’Organo di vigilanza.
In tal modo verrebbe esclusa quell’automaticità degli effetti preclusivi che costituisce in negativo il
corollario dell’attuale disciplina delle situazioni impeditive e al quale l’autorità giurisdizionale si prefigge di porre
rimedio. In tale contesto, il giudice amministrativo mostra, al contrario, di non conferire sufficiente rilevanza alla
circostanza (in ogni caso ricordata in motivazione) che il modello attualmente adottato si connota in positivo per la
riduzione dei fattori di carattere discrezionale nelle valutazioni, che certamente è elemento ridondante a vantaggio
del principio della certezza giuridica.
La partecipazione dell’ISVAP alla redazione di nuovo decreto ministeriale che verrebbe a sostituire
integralmente la disciplina dei requisiti di professionalità e di onorabilità ora in vigore (il d.m. 186/97), è
auspicabile per le seguenti ragioni:
1) la circostanza che la decisione, non essendo passata in giudicato in quanto ancora sub iudice, possa
essere totalmente disattesa dal Consiglio di Stato, non consente di attribuirvi alcun valore esaustivo;
2) qualora il giudice d’appello confermi la pronuncia del Tar Lazio, la sostanziale analogia di disciplina
nei diversi comparti soggetti a vigilanza induce a ritenere opportuna una concertazione tra le varie autorità preposte
ai settori di rispettiva competenza al fine di reperire una comune intesa in ordine alle modifiche che eventualmente
si renderanno necessarie;
3) la mancata presentazione di alcuna proposta di regolamento, oltre a produrre un effetto dilatorio
notevole attesi i tempi piuttosto lunghi della giustizia, comporterebbe l’inconveniente di diversificare la disciplina
del settore assicurativo rispetto a quella degli altri comparti, potendo costituire altresì un argomento spendibile
dalla parte vittoriosa del primo grado di giudizio a favore della tesi propugnata;
4) infine, la circostanza che la nuova disciplina si configuri peraltro migliorativa (per i soggetti
sottopostavi) rispetto a quella attualmente prevista in tema di situazioni impeditive dal d.m. 186/1997, in quanto
individua con maggiore precisione il periodo necessario di permanenza nella carica rivestita nell’ente coinvolto in
gestioni deficitarie, costituisce un ulteriore elemento da sussumere a favore dell’adozione della anzidetta scelta
operativa, non potendosi neppure la vigente disciplina ritenere esente da eventuali censure di contenuto analogo a
quelle formulate dal TAR Lazio nei confronti della normativa regolamentare relativa al settore finanziario.
15. Individuazione dei termini di verifica da parte del Consiglio di Amministrazione, ai sensi dell’art. 3 del
d.m. 162/2000, del possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del
collegio sindacale di società assicuratrici
Si sono svolte alcune considerazioni in relazione ai termini entro cui il consiglio di amministrazione
debba verificare il possesso dei requisiti di professionalità e di onorabilità in capo ai componenti del collegio
sindacale di società assicuratici.
Al riguardo, si è sostenuto che tale adempimento vada assolto alla prima favorevole occasione,
purchè non oltre trenta giorni dall’avvenuta nomina, per evitare che qualche esponente privo dei requisiti
compia atti rispetto ai quali dovrebbe considerarsi inidoneo.
La risoluzione del quesito nel senso anzidetto discende in primo luogo dal disposto dell’art. 13,
(espressamente applicabile in quanto richiamato dal successivo art. 148, comma 4) del decreto legislativo
58/1998 che ha conferito la delega al Ministro della Giustizia ad emanare il d.m. 162/2000. E’appena il caso di
rilevare che l’art. 3 del regolamento in questione, disciplinante l’accertamento dei requisiti di onorabilità e
professionalità, non può che essere letto unitamente alla legge di cui reca attuazione – fra l’altro puntualmente
richiamata nel preambolo – che delimita l’oggetto ed i principi cui la norma secondaria deve attenersi; e nel
caso di specie la norma primaria prevede espressamente che la decadenza dalla carica debba essere dichiarata
dal consiglio entro 30 giorni dalla nomina – nel caso di difetto originario dei requisiti necessari – o dalla
conoscenza del difetto sopravvenuto.
D’altro canto, l’applicabilità di tale disciplina alle società assicuratrici, quotate e non (a queste ultime
per effetto del noto art. 4 del d.lgs. 343/1999), è espressamente garantita dalla disposizione di cui all’art. 4 del
citato d.m. 162/2000. Tale disposizione specifica, infatti, il raggio d’azione della regolamentazione in esame,
prevedendone l’operatività anche per i sindaci di società appartenenti a comparti già sottoposti a vigilanza,
facendo tuttavia salve le disposizioni settoriali che stabiliscano ulteriori condizioni per la sussistenza dei
requisiti di professionalità e onorabilità dei medesimi. Ciò significa che, per quanto concerne gli anzidetti
requisiti del componenti del collegio sindacale, la normativa posta nel decreto del Ministero della Giustizia (e,
ovviamente, nella legge delega) prevale su quella analoga in materia assicurativa, a meno che questa non
contenga condizioni più stringenti.
Tuttavia, a ben guardare, la circostanza che la disciplina assicurativa (nella specie gli artt. 39 del
d.lgs. 174/1995 e 42 del d.lgs. 175/1995) contempli la sola ipotesi della inidoneità sopravvenuta degli esponenti
aziendali al fine di stabilire che la declaratoria di decadenza debba intervenire entro 30 giorni dalla sua
conoscenza da parte del consiglio di amministrazione, o nel caso di inerzia, debba disporsi con provvedimento
dell’Isvap, senza configurare direttamente la fattispecie del difetto originario dei requisiti prescritti, non rende
la normativa di settore meno stringente di quella generale sui sindaci di società.
E’ semmai vero il contrario: l’ipotesi del difetto originario dei requisiti di onorabilità e professionalità
non è prevista dalle disposizioni di settore perché trattasi di verifica che, seguendo un’interpretazione ispirata a
criteri di ragionevolezza, andrebbe effettuata addirittura prima della nomina, senza attendere che il Consiglio
(tra l’altro, inoperante in sede di costituzione) dichiari la decadenza.
16. Obbligo per l’assicuratore di rilascio dell’attestazione sullo stato di rischio – art. 2 legge n. 39/77 – ritiro
a mezzo rappresentante
E’ stata approfondita la questione relativa al rifiuto, opposto da una compagnia, del rilascio
dell’attestazione di rischio a soggetti delegati dal contraente e muniti di procura scritta, eccependosi una presunta
difformità tra le firme del delegante come risultanti dal contratto assicurativo e dall’atto di procura.
In particolare, l’impresa assicuratrice riteneva di essere tenuta ad opporre la diversità di firma al fine di
evitare le eventuali conseguenze negative per aver colpevolmente adempiuto al proprio obbligo nei confronti di un
soggetto non legittimato. E la colpa consisterebbe nel non aver accertato, usando la normale diligenza, l’inesistenza
dei poteri di rappresentanza in capo al soggetto latore dell’atto di procura “viziato”. Tale assunto sarebbe stato
avvalorato da sentenze della Cassazione
Le argomentazioni e giustificazioni espresse dalla compagnia sono state ritenute in punto di principio non
fondate.
In particolare, l’iter logico-giuridico esposto dalla compagnia è apparso viziato ove si consideri che la
normativa codicistica dispone, in via generale, che il debitore è liberato dal proprio obbligo (nella fattispecie il
rilascio dell’attestato) ove provi di aver adempiuto in buona fede a soggetto che appare legittimato a riceverlo.
In proposito la medesima normativa offre, art. 1393 c.c., al creditore la possibilità … di precostituirsi un
titolo di buona fede a discolpa dell’affidamento che abbia riposto nella qualità e nei poteri del rappresentante,
stabilendo che egli ha diritto che il rappresentante giustifichi i suoi poteri (Cass. 1951/2868, cit. in CianTrabucchi, Commentario Breve al Codice Civile, ed. 1994, p. 1374) e, se la rappresentanza risulta da atto scritto,
che gliene dia una copia da lui firmata.
La dottrina citata ricorda, ancora, che la richiesta della giustificazione costituisce soltanto una facoltà e
non un onere (Cass. 1987/1817) e che è normale astenersi dall’esercizio di tale facoltà quando dell’esistenza dei
poteri non si abbia motivo di dubitare (Cass. 1982/3613); mentre – come fatto presente dalla Suprema Corte con la
sentenza n. 115 del 29/1/1960, citata dalla compagnia – non è normale astenersi dall’esercizio di tale facoltà, e di
conseguenza si verte in colpa, allorché il terzo (nella fattispecie il debitore) abbia trascurato di accertare l’effettiva
esistenza dei poteri di persona da lui conosciuta come poco seria e corretta, o quando la particolare situazione gli
imponesse l’impiego di una maggior prudenza o cautela.
In materia di rilascio dell’attestato di rischio, poi, le precauzioni previste in via generale dalla legge sono
facilitate essendo stata disposta direttamente dall’Istituto – con la circolare n. 111 – la necessità, ed allo stesso
tempo la sufficienza, di una delega scritta non autenticata per il ritiro del documento de quo da parte di soggetto
diverso dal contraente della polizza.
Ulteriori precauzioni, atte ad escludere una colpa in capo a chi consegna l’attestato, potranno essere – nei
casi di particolare e fondato dubbio sull’autenticità della firma e sulla volontà del soggetto delegante – quelle di una
pronta richiesta di conferma al delegante stesso, nonché di una verifica, e conseguente annotazione, delle generalità
del delegato (circostanze queste, tra l’altro, che unitamente all’acquisizione della copia della delega, dovrebbero
scoraggiare l’apposizione di firme apocrife e la formazione di false deleghe).
D’altra parte le immediate conseguenze cui andrebbe incontro la compagnia e/o l’agente nel consegnare
l’attestato di rischio a soggetto in apparenza non autorizzato sono ben minori di quelle in cui incorrerebbe ove il
soggetto al quale si è rifiutata la consegna fosse legittimamente delegato. Infatti, nel primo caso sussisterebbe
l’obbligo di rilasciare un duplicato dell’attestato, mentre nel secondo sorgerebbe un obbligo al risarcimento del
danno per aver ritardato o reso meno agevole la messa in copertura del rischio.
E’ chiaro che quanto sopra rappresentato non esclude che in casi di palese inautenticità della firma
apposta alla delega si possa legittimamente opporre rifiuto all’esecuzione della prestazione al falso delegato;
ma – va aggiunto – i confini di tale circostanza, se si astrae dall’ipotesi scolastica del falso grossolano, sono
difficilmente definibili ex ante, non essendo il dipendente della compagnia e/o l’agente un perito di grafia ed
essendo riservato, da una parte, il disconoscimento della firma all’interessato e, dall’altro, l’accertamento della
falsità all’autorità giudiziaria penale.
17. Documentazione necessaria per un mediatore di assicurazione e/o riassicurazione (persona fisica o
società) residente in uno Stato membro dell’U.E. per esercitare in Italia l’attività in regime di libera
prestazione di servizi
Va premesso che, per quanto concerne il settore dell’intermediazione assicurativa nell’ambito dell’U.E.,
manca una normativa comune che sia suscettibile di garantire la prestazione transfrontaliera dei servizi assicurativi,
nonché di salvaguardare esigenze di professionalità e di onorabilità a tutela degli interessi degli assicurati.
Viceversa, le imprese di assicurazione comunitarie sono soggette sin dal luglio 1994 al sistema del controllo
prudenziale unico dello Stato membro di origine (cd. home country control), nell’ambito del quale ogni impresa
U.E. può esercitare attività assicurativa nell’intero territorio comunitario o in regime di libera prestazione di servizi
o in regime di stabilimento, sotto la vigilanza ed il controllo della sola Autorità di vigilanza dello Stato membro di
origine.
L’effettiva realizzazione della libera prestazione di servizi, per quanto riguarda l’attività di mediazione
assicurativa, trova un ostacolo nelle notevoli divergenze delle normative vigenti nei vari paesi U.E.: vi sono, infatti,
legislazioni che prevedono requisiti stringenti per l’esercizio di tale attività, garantendo uno standard elevato di
professionalità ed onorabilità, ed altre, invece, che, escludendo qualsiasi regolamentazione del settore, non
prevedono alcuna condizione di accesso; e ciò a tacere di quelle legislazioni che prescindono da qualsiasi
distinzione (e, dunque, regolamentazione) tra broker ed altri operatori assicurativi quali gli agenti, i sub-agenti ed i
relativi collaboratori.
La necessità di superare tali divergenze, determinanti una compartimentazione del mercato, è stata già
avvertita a livello comunitario ed ha portato alla presentazione da parte della Commissione delle Comunità Europee
di una proposta di direttiva sull’intermediazione assicurativa in regime di libera prestazione di servizi. I principi su
cui si fonda la proposta de qua sono i seguenti: la registrazione presso un’autorità competente di qualsiasi
intermediario assicurativo operante nella Comunità; la subordinazione della registrazione al possesso di cognizioni
ed attitudini generali, commerciali e professionali, della copertura per la responsabilità professionale, della capacità
finanziaria sufficiente per la gestione di fondi appartenenti ai clienti, dell’onorabilità e dell’inesistenza di
dichiarazioni di fallimento; la piena realizzazione del principio dell’home country control nell’esercizio dell’attività
di mediazione nel territorio comunitario; l’assolvimento degli obblighi informativi previsti dalla medesima
direttiva.
Allo stato attuale, in mancanza di una disciplina omogenea, si rende tuttavia opportuno conciliare le
opposte esigenze entrambe meritevoli di accoglimento: garantire la possibilità per un cittadino comunitario di
svolgere la sua attività di mediazione anche in altri Stati membri e, nel contempo, verificare la sussistenza dei
requisiti imprescindibili per un corretto esercizio di tale attività.
Per quanto concerne i requisiti richiesti alle persone fisiche per l’iscrizione alla I sezione dell’Albo dei
mediatori di assicurazione e riassicurazione e in via di formalizzazione in una emananda Circolare dell’Istituto, si è
notato che il punto relativo all’assenza di condanne penali, ripropone il medesimo requisito previsto dall’ art. 1,
comma 3, lettera a, punto 3, del provvedimento Isvap n. 1202/99, che disciplina l’iscrizione all’Albo da parte dei
cittadini italiani.
Al riguardo si è manifestata qualche perplessità sulla genericità del disposto, in quanto lo stesso non pare
in armonia con l’art. 4, comma 1, lettera d, legge 792/84, che condiziona l’iscrizione all’Albo al fatto di non aver
riportato condanne solo per talune tipologie di delitti, ovvero per altri delitti non colposi per i quali la legge
commini la pena della reclusione nella misura minima ivi predeterminata. La autodichiarazione del cittadino
straniero dovrebbe, pertanto, avere ad oggetto, piuttosto che l’assenza assoluta di pronunce di condanne penali a
suo carico, la mancanza di condanne per i medesimi reati previsti dalla normativa italiana (ovvero ad essi
equivalenti nella tipologia o nella pena).
Tale dichiarazione potrebbe, peraltro, dar luogo a qualche problema in relazione ai poteri lasciati
all’intermediario nell’individuazione dei reati rilevanti ai fini della normativa de qua, operazione che
probabilmente non si presenta così agevole come nel diritto interno. Qualora si condividesse tale impostazione si
potrebbe, tuttavia, far riferimento all’art. 10 della direttiva 77/92 C.E.E., regolante le modalità per l’attestazione
dell’onorabilità degli intermediari assicurativi che intendano operare in altri paesi U.E., al fine di richiedere
all’intermediario europeo, in alternativa all’autocertificazione, l’invio di un certificato del casellario giudiziario o,
in mancanza di esso, un documento equivalente rilasciato dall’autorità giudiziaria o amministrativa competente
dello Stato membro d’origine.
Si è rappresentata, inoltre, l’opportunità che l’intermediario, sia persona fisica che giuridica, venga edotto
della necessità, in base alla normativa italiana, di optare per l’esercizio in Italia di una sola attività di
intermediazione (agente o broker), accanto all’ulteriore condizione, per la persona fisica che abbia optato per
l’attività di mediazione assicurativa, di scegliere tra brokeraggio assicurativo e riassicurativo.
Tale segnalazione si inserisce nel più generale dovere dell’Autorità di vigilanza di informare
l’intermediario U.E., che intenda operare in Italia in libera prestazione di servizi o di stabilimento, della disciplina
italiana vigente per l’esercizio dell’attività di intermediazione assicurativa, con particolare riguardo sia agli aspetti
peculiari della nostra normativa (quali, ad esempio, la già citata incompatibilità tra le attività di agente e di
mediatore assicurativo, a fronte di legislazioni di altri Stati che non prevedono alcuna distinzione tra le due figure
professionali – vedi art. 3, direttiva 77/92 C.E.E.), sia ai principi fondamentali di natura comunitaria che regolano
l’esercizio transfrontaliero dell’attività di intermediazione (nel caso di esercizio di attività in regime di libera
prestazione, va ribadito il divieto di costituire nel territorio nazionale qualsiasi ufficio o struttura incaricata in
permanenza dal o per conto del broker).
Con riferimento alle condizioni previste per l’iscrizione nella II sezione dell’Albo dei mediatori da parte
di una persona giuridica con sede legale in altro Stato membro dell’U.E., al fine di esercitare l’attività di
mediazione nel territorio italiano in regime di libera prestazione di servizi, si è ritenuta opportuna la precisazione
che anche il legale rappresentante della società deve essere iscritto all’Albo mediatori del paese di origine.
Considerato, però, che non tutti i paesi dispongono di un sistema di registrazione di tale figura professionale, si può
richiedere, in alternativa all’iscrizione nello Stato di origine, la presentazione di documenti che attestino il possesso
dei requisiti necessari per l’iscrizione in Italia della persona fisica. La documentazione inviata consentirà, in ogni
caso, soltanto l’iscrizione della società, senza che il legale rappresentante venga iscritto, quale persona fisica, nella
I sezione dell’Albo.
Si è rilevato, altresì, che tale sistema dovrebbe, per ragioni di omogeneità, essere adottato anche per le
imprese che esercitino contemporaneamente la mediazione assicurativa e riassicurativa, con riguardo alle diverse
persone fisiche preposte alle rispettive attività.
Si è richiamata infine l’attenzione sulla necessità di prevedere – anche per le persone giuridiche – in
sostituzione delle preclusioni imposte alle società italiane a garanzia della loro indipendenza, la condizione dettata
dall’ordinamento comunitario quale standard minimo di indipendenza: la sottoscrizione cioè da parte del legale
rappresentante di un impegno a comunicare i legami giuridici, economici e finanziari intercorrenti con imprese di
assicurazione.
18. Natura di un contratto denominato “Polizza convenzione cauzioni”
E’ stata approfondita la questione relativa alla natura di un contratto, intestato “polizza convenzione
cauzioni”, concluso da una società estranea al settore assicurativo.
La fattispecie si ricollega alla problematica dell’ammissibilità delle cc.dd. assicurazioni fideiussorie (o
cauzionali) ad opera di soggetti non autorizzati all’esercizio dell’attività assicurativa.
In proposito, l’orientamento inizialmente assunto, secondo il quale tali tipi di contratti erano espressione
di attività assicurativa e potevano di conseguenza essere conclusi solo da imprese autorizzate all’esercizio
dell’attività assicurativa-ramo credito, non ha trovato riscontro in due pareri emessi dall’Avvocatura Generale dello
Stato, che nelle richiamate occasioni ha avuto modo di precisare quanto segue:
• la c.d. assicurazione fideiussoria ha natura sostanziale di fideiussione – in quanto la sua funzione non è
quella tipica dell’assicurazione, cioè il trasferimento di un rischio a carico dell’assicuratore, bensì quella di
garanzia – e tale natura non risulta modificata dall’inserimento nella disciplina del negozio di clausole peculiari del
contratto di assicurazione, comportando tale circostanza, al più, il carattere di fideiussione atipica (quale sottotipo
della fideiussione);
• data la natura sostanziale di fideiussione, negozi del tipo delle assicurazioni fideiussorie possono
essere stipulati, alla pari di una fideiussione ordinaria, senza limiti soggettivi. Tanto da compagnie di assicurazioni,
quanto da soggetti che non siano imprese assicurative. Anzi, le imprese di assicurazioni possono stipulare i contratti
in esame, considerata la loro natura non strettamente assicurativa, soltanto in quanto l’attività relativa (quindi non
singoli e limitati atti) rientra latu sensu – secondo ormai una consolidata interpretazione recepita anche in norme di
legge complementare – nei rami credito e cauzioni;
• il disposto dell’art. 1, L. 10 giugno 1982, n. 348 – nel circoscrivere le garanzie costituibili a favore di
obbligazioni verso lo Stato ed altri enti pubblici, allorché prevede che tale garanzia possa essere prestata, fra le
altre, con “polizza assicurativa, rilasciata da impresa di assicurazioni debitamente autorizzata all’esercizio del ramo
cauzioni … che abbia effettivamente esercitato negli ultimi cinque anni il ramo cauzioni o il ramo credito e
disponga … (dei margini di legge)” – non ha inciso sulla legittimazione al rilascio delle polizze fideiussorie, quanto
piuttosto sull’accettabilità della garanzia da parte della Pubblica Amministrazione;
• quale che sia il nomen iuris dato al contratto dalle parti, quale che sia il suo aspetto formale e persino
quale che sia il richiamo a norme del contratto di assicurazione, l’assicurazione fideiussoria rimane un sottotipo
innominato di fideiussione, fintantoché la causa resti la garanzia dell’adempimento del terzo. Se è vero che, per
chiarezza nei confronti dei terzi, la forma della polizza fideiussoria dovrebbe essere usata allorché contraente sia
un’impresa di assicurazioni, non per questo può dirsi che il rilascio di una “polizza fideiussoria” sia vietato ad un
soggetto che non sia autorizzato a svolgere attività assicurativa;
• non ha rilevanza, ai fini dell’inquadramento in un settore di attività, che la polizza assicurativa dia vita
ad un rapporto trilaterale, posto che ciò non determina comunque la sua natura assicurativa, per la rilevanza,
viceversa, della funzione tipica di garanzia della fideiussione;
• non sembra il caso, tenuto conto delle considerazioni svolte, che possa applicarsi l’art. 75, L. 295/78
(all’attualità v. art. 77, D. Lgs. 175/95) nei confronti delle imprese non assicurative che rilascino, più o meno
sistematicamente, polizze assicurative;
• nei confronti delle imprese non assicurative che, nel concludere contratti del tipo delle polizze
fideiussorie, ingenerano nei terzi il ragionevole convincimento di trattare invece con un’impresa assicurativa, potrà
farsi ricorso, da una parte, ai poteri istituzionali dell’ISVAP, invitando l’impresa non assicurativa a far chiarezza ed
a desistere da comportamenti anche soltanto ambigui, dall’altra, segnalando all’autorità garante della concorrenza e
del mercato la violazione di norme sulla pubblicità ingannevole.
Espressa qualche riserva sulla configurabilità in ogni caso di una pubblicità ingannevole, non sembra che,
in mancanza di interventi legislativi, le superiori considerazioni rassegnate dall’Avvocatura – che trovano
autorevole conferma in giurisprudenza ed in dottrina tanto antecedenti, quanto successive al parere – vadano
disattese.
Si è ritenuto, tuttavia, che in circostanze che presentino sostanziali elementi di ambiguità e siano tali da
ingenerare confusione nei terzi, l’intervento dell’Istituto possa dispiegarsi nel modo più ampio, ricorrendo a tutti gli
strumenti a disposizione al fine di eliminare le situazioni medesime, non ultimo – in caso di impresa che non si
attenga ad una diffida e persista nell’affermarsi e nel tenere comportamenti tali da far ritenere l’intendimento di
proporsi come compagnia di assicurazioni – quello della liquidazione coatta.
19. Trasferimento di portafoglio - art. 75, d.lgs. 175/95
Un ex agente, ritenendosi danneggiato da un trasferimento totale del portafoglio assicurativo da una
società ad un’altra, ha chiesto la revoca dei provvedimenti con i quali l’ISVAP aveva approvato le condizioni e
deliberazioni riguardanti il trasferimento medesimo. L’Istituto, per le considerazioni, rappresentate dal Servizio e
che di seguito si riportano, ha ritenuto di non accogliere la richiesta.
Ai sensi dell’art. 75, D. Lgs. 175/1995, l’approvazione da parte dell’Istituto dei trasferimenti di
portafoglio fra le compagnie di assicurazioni è subordinata a specifiche verifiche (per esempio, che l’impresa
cessionaria sia regolarmente autorizzata all’esercizio delle attività ad essa trasferite e che disponga del margine di
solvibilità necessario, tenuto conto del trasferimento), tutte relative al rispetto della normativa in materia
assicurativa ed atte a garantire la stabilità dell’impresa. Di conseguenza, i controlli hanno ad oggetto
esclusivamente interessi di natura pubblica, senza che possano essere presi in considerazione interessi particolari,
quali ad esempio quelli relativi ai rapporti fra compagnie ed agenti, i quali si collocano su un piano diverso rispetto
a quello sottoposto alla vigilanza.
Si osserva, d’altra parte, come il legislatore si sia occupato direttamente di disciplinare la sorte di specifici
interessi incisi in occasione di trasferimento totale di portafoglio (confr., ad esempio, il comma 12 dello stesso art.
75, laddove è regolata la sorte dei rapporti di lavoro in capo alla compagnia cedente ed in corso alla data del
decreto di approvazione).
Altre eventuali lesioni di interessi soggettivi, causate dalle operazioni de qua, potranno, invece, essere
fatte valere nei confronti delle società e, se è il caso, degli amministratori delle stesse dinanzi al giudice ordinario.
Di conseguenza si è ritenuto che non sussistevano fondati motivi per procedere, come richiesto
dall’istante, a revoche o modifiche dei provvedimenti di approvazione adottati a suo tempo dall’Istituto.
20. Condizioni generali di contratto del ramo tutela giudiziaria
E’ sorta questione circa la compatibilità – relativamente alla polizza tutela giudiziaria di alcune
compagnie – della clausola che limita l’esercizio della facoltà di scelta del legale ad una zona territorialmente
circoscritta.
In particolare, l’art. 47 del D.Lgs. n. 175/95 nel determinare le condizioni generali di contratto della
polizza in esame, dispone che le medesime devono prevedere (v. comma 2) il diritto dell’assicurato nel caso che
per la difesa, la rappresentanza e la tutela dei suoi interessi in un procedimento giudiziario o amministrativo
occorra far ricorso ad un procuratore legale o ad un altro professionista abilitato a norma della vigente
legislazione nazionale, di scegliere il professionista della cui opera avvalersi.
L’obbligo disposto dal legislatore sembrerebbe tale da comportare il necessario inserimento testuale della
clausola nelle condizioni generali di contratto, costituendone quasi una condizione imprescindibile. Conseguenza di
tale interpretazione sarebbe l’assoluta libertà di scelta, senza limiti territoriali, del difensore da parte dell’assicurato
(con possibilità tra l’altro, stante la normativa comunitaria sulla libera circolazione dei professionisti, di nominare
anche difensori abilitati ed iscritti in altri paesi U.E.) e la illegittimità delle clausole che invece tendono a limitare
territorialmente la scelta di cui trattasi. Ciò dicesi sebbene il riferimento alla figura del procuratore legale,
professionista in passato vincolato ad un’operatività in un ambito territoriale specifico, possa anche giustificare una
lettura più restrittiva della norma.
E’ probabile, d’altra parte, che all’adeguamento delle condizioni corrisponda – per i maggiori costi di una
copertura estesa alla nomina di un legale non domiciliatario ed alle conseguenti spese di trasferta ed affiancamento
al medesimo di un procuratore con tale specifica funzione – un aumento del premio, tale da ridurre la varietà e
molteplicità – proprio in ordine al premio – delle polizze attualmente proposte sul mercato. Verrebbero in tal modo
danneggiati i contraenti che consapevolmente preferiscono accedere ad una copertura con un costo/premio più
contenuto, ritenendo comunque soddisfacente – secondo anche una valutazione costi/benefici – effettuare
l’eventuale scelta del difensore in un ambito più ristretto.
I cennati rischi hanno rafforzato le ragioni di cautela nell’interpretazione del citato art. 47, D.Lgs. n.
175/95.
A tal fine, utile elemento è rappresentato dal già ricordato riferimento testuale alla figura del procuratore
legale. Infatti, il procuratore legale (il cui albo è stato però abolito con la legge 24 febbraio 1997, n. 27) può
(rectius: poteva) svolgere la propria attività giudiziale esclusivamente nell’ambito del distretto di Corte d’Appello
del Tribunale presso il quale Albo è (rectius: era) iscritto. Tale limitazione - che pur a seguito dell’abrogazione
dell’Albo di categoria, può ritenersi ancora attuale relativamente al decreto legislativo di cui trattasi, avendo il
legislatore del decreto in esame assunto il principio medesimo e non la stretta disciplina - porterebbe a circoscrivere
l’ambito di scelta minimo a quello dei legali iscritti agli Albi dei Tribunali del distretto di Corte d’Appello ove è
ubicato l’Ufficio Giudiziario competente a decidere della controversia.
In armonia con tale interpretazione risulta, in linea di massima, la disciplina prevista dal modello di
polizza predisposto dall’ANIA, al cui interno una clausola dispone che l’assicurato ha diritto di scegliere un legale
di sua fiducia tra coloro che esercitano nel circondario del Tribunale ove l’Assicurato ha il proprio domicilio o
hanno sede gli uffici giudiziari competenti: a fronte di un ambito più ristretto (distretto/circondario), fa riscontro la
previsione di due diversi circondari (di residenza dell’assicurato o di sede degli uffici giudiziari competenti per la
controversia).
In ogni caso, pur in presenza di clausole in varia misura limitanti, è parso opportuno suggerire che:
a) il contraente assicurato al momento della stipula della polizza in parola sia perfettamente consapevole
di eventuali limiti territoriali nella scelta del difensore (utile elemento in tal senso potrebbe, per esempio, essere
un’evidenza in grassetto della clausola in questione);
b) sia offerta, comunque, la possibilità di estendere (tramite franchigia e/o aumento del premio e/o
assunzione delle maggiori spese a carico dell’assicurato) la scelta in un ambito più ampio, possibilmente nazionale.
21. Forme integrative di assistenza sanitaria gestite da società di mutuo soccorso. Ruolo dell’ISVAP.
Si è esaminata la legittimità della gestione di forme di assistenza integrativa da parte di società di mutuo
soccorso.
L’attuale quadro normativo è chiaro, tanto nel T.U. n. 449/59 (art. 2), quanto nel d.lgs. n. 174/95 (art. 5,
comma 1), nell’escludere le società di mutuo soccorso dal novero dei soggetti abilitati allo svolgimento di attività
assicurativa.
Com’è noto, le società di mutuo soccorso, costituite ai sensi della legge n. 3818/1886, possono assicurare
ai soci un sussidio in caso di malattia, incapacità al lavoro o vecchiaia, svolgendo tale attività, in quanto enti
mutualistici, senza scopo di lucro e per un fine di reciproco ausilio a fronte delle esigenze individuate nello statuto.
Il contesto generale di riferimento è poi ampliato dall’art. 46 legge n. 883/78, ove si prevede che “ la
mutualità volontaria è libera”, e dall’art. 9 d.lgs. n. 502/92, così come novellato dall’art. 10 del d.lgs. 517/93 e
successivamente sostituito dall’art. 9 d.lgs. 19 giugno 1999 n. 229, che riconosce il ruolo delle società di mutuo
soccorso anche nell’erogazione di prestazioni integrative del Servizio sanitario nazionale, prevedendo tra le fonti
istitutive “le deliberazioni assunte, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, da società di mutuo soccorso
riconosciute”.
Sorge, dunque, la necessità di coordinare il divieto opposto alle società in oggetto ad esercitare attività
assicurativa, con il libero esercizio della mutualità volontaria.
A tale proposito, la giurisprudenza ha individuato i caratteri distintivi della mutualità, rispetto
all’assicurazione, nell’assenza dello scopo di lucro e nella mancanza di una stretta connessione tra contributo
versato dal socio e somma da erogarsi da parte della società, che non è predeterminata, ma varia in relazione alle
disponibilità di bilancio della società stessa.
Tutto ciò premesso, occorre valutare in concreto, attraverso l’analisi degli statuti e la vigilanza
sull’attività, che le società di mutuo soccorso non esercitino l’assicurazione, divenendo altrimenti assoggettabili ai
poteri di controllo esercitati dall’ISVAP contro l’abusivismo.
A tale proposito è necessario precisare che la vigilanza sulle società di mutuo soccorso è di competenza
del Ministero del Lavoro e, in particolare, degli Uffici provinciali del lavoro, che la esercitano attraverso l’esame
degli statuti, dell’atto costitutivo e dei bilanci annuali, come previsto dall’art. 15, comma 7, legge 59/’92 e chiarito
dalla circolare n. 117/’92 dello stesso Ministero.
Gli Uffici provinciali del lavoro, a loro volta, tenuto conto dell’attività che le società di mutuo soccorso
intendono svolgere, valuteranno l’opportunità di trasmettere gli atti alle Istituzioni preposte alla vigilanza sulla
materia specifica, in tal modo realizzandosi un coordinamento con le Istituzioni medesime.
Relativamente ai Fondi integrativi del Servizio sanitario nazionale, in particolare, va tenuto presente che
l’attività di vigilanza è, in generale, attribuita allo Stato dall’art. 122 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112; in particolare,
per le vie brevi, sono state acquisite informazioni presso il Ministero della Sanità, in base alle quali spetterebbe
proprio al Ministero della Sanità, pur con modalità ancora da definirsi, verificare la gestione dei Fondi integrativi
del Servizio sanitario nazionale. Più specificamente, è stato chiarito che, pur essendo la competenza definita negli
esposti termini, all’attualità la vigilanza non è effettivamente svolta in quanto dev’essere disciplinata, unitamente
ad altri aspetti della materia, da un emanando regolamento; in ogni caso, è stato precisato che l’ufficio competente
sarà istituito presso il Servizio Vigilanza Enti del Ministero.
Per quanto riguarda l’attività di vigilanza istituzionalmente demandata all’ISVAP, è evidente, che al fine
di verificare la sussistenza dei presupposti di un’eventuale attività assicurativa non autorizzata, con conseguenziale
adozione dei provvedimenti del caso, occorre che siano acquisiti gli elementi indispensabili a tale valutazione. E
tuttavia, un controllo diretto tout-court, -in assenza di elementi indicativi di un possibile esercizio dell’attività in
forma assicurativa- sembrerebbe sconfinare dai limiti della competenza dell’Istituto.
Pertanto, si è ritenuto che, solo nel caso in cui l’ISVAP, pur senza aver proceduto a controlli, sia venuto
comunque a conoscenza di fatti idonei ad integrare la violazione della normativa assicurativa (per esempio a
seguito di dettagliato e documentato esposto o di segnalazione dei medesimi Uffici provinciali del lavoro, in virtù
di quanto fatto presente con la citata circolare 117/’92), potesse intervenire direttamente espletando indagini
ispettive ed emanando gli eventuali provvedimenti del caso.
Ove, invece, gli elementi in possesso dell’Istituto non fossero tali da integrare con sicurezza una simile
violazione, ma siano sufficienti solo a fondare un “ragionevole dubbio”, si è proposto di valutare positivamente uno
scambio di notizie con gli Uffici provinciali del lavoro nonché, trattandosi di Fondi integrativi del Servizio
sanitario nazionale, con il “Servizio vigilanza enti” del Ministero della Sanità, così da instaurare un coordinamento
nell’ambito delle rispettive sfere di competenza che consentano, in ultima analisi, l’attivazione legittima dei poteri
dell’ISVAP, tanto in sede d’indagini ispettive, quanto in sede di adozione dei provvedimenti resi necessari a
seguito dell’eventuale accertamento di attività assicurativa non autorizzata.
22. Ordine cronologico nei registri dei contratti stipulati – art. 49, comma 1, R.D. 4 gennaio 1925, n. 63
L’art. 49, comma 1, del R.D. 4 gennaio 1925 n. 63, regolante la tenuta del registro dei contratti stipulati
reca un riferimento generico all’iscrizione “in ordine cronologico” dei contratti stipulati, senza specificare quale
elemento dell’iter contrattuale debba essere utilizzato ai fini di soddisfare tale cronologicità.
Ciò premesso, nella compilazione dei registri dei contratti stipulati si potrebbero in linea di principio
seguire due criteri: l’uno fondato sul momento della sottoscrizione del contratto, l’altro dell’efficacia della
copertura.
Al riguardo, al fine di valutare quale assumere tra le due alternative possibili, occorre considerare che:
• la circolare Isvap n. 99 del 1988, nel prendere atto della difficoltà di individuare in concreto il
momento di conclusione del contratto assicurativo, suggerisce di assumere quale criterio di riferimento quello della
regolare emissione dei contratti (“contratti regolarmente emessi”);
•
nella prassi le compagnie assicurative non adottano un comportamento uniforme nella tenuta dei
registri dei contratti stipulati.
Ai fini della risoluzione della questione in oggetto, si ritiene che l’individuazione del parametro più
idoneo per la redazione in ordine cronologico dei registri dei contratti stipulati non possa prescindere dalla
valutazione della ratio sottesa al cennato obbligo di registrazione: il legislatore sembra, infatti, aver previsto tale
adempimento al fine di agevolare l’attività di vigilanza, attraverso l’accertamento della consistenza del portafoglio
ed in particolare dell’entità degli impegni effettivamente assunti.
Alla luce di tale considerazione, appare preferibile fare riferimento alla data di emissione (e quindi al
numero progressivo) della polizza di assicurazione. Si tratta, infatti, dell’unico criterio che garantisce il carattere
della certezza sotto il profilo della cronologicità e, nel contempo, consente di attenersi, nella lettera e nello spirito,
al tenore della legge e della circolare citate.
E’ vero, peraltro, che nella prassi si riscontra frequentemente l’utilizzazione del diverso criterio della
decorrenza degli effetti del contratto. Al riguardo, pur non potendosi escludere l’utilità pratica di tale ultimo
parametro, soprattutto ai fini della tutela degli assicurati nei termini sopra evidenziati, si ritiene che esso non possa
essere utilizzato quale esclusivo criterio per la compilazione dei registri dei contratti stipulati.
Infatti, come è noto, l’efficacia del contratto assicurativo può anche essere differita, per volontà delle
parti, ad un momento successivo rispetto a quello di emissione della polizza: se in tali casi si utilizzasse a titolo
esclusivo il criterio dell’efficacia della copertura, gli organi di vigilanza non avrebbero cognizione immediata degli
impegni contrattuali assunti e già vincolanti – per l’impresa e per gli assicurati – i quali come tali concorrono a
costituire l’entità complessiva del portafoglio.
Tra l’altro, per tener conto dell’entità degli impegni assunti, la circolare citata (punto 4.1.3) prevede
espressamente la registrazione, secondo le medesime modalità, dei dati e degli estremi relativi alle c.d. “coperture
provvisorie”. Si tratta, infatti, di veri e propri contratti, produttivi di immediati effetti sostanziali, in quanto volti a
regolare, seppur temporaneamente, il rapporto assicurativo in vista della stipula del contratto definitivo.
Al più, ed auspicabilmente, il periodo di efficacia potrebbe essere riportato in aggiunta – come sovente
già effettuato da alcune imprese - alla data di emissione della polizza; in tal modo l’annotazione assolverebbe ad
una significativa funzione conoscitiva, senza peraltro derogare alle esigenze di cronologicità, cioè di sequenzialità
storica, già soddisfatte dal criterio dell’emissione.
23. Responsabilità dell’impresa di assicurazione per i fatti posti in essere da soggetti che operano nel campo
dell’intermediazione assicurativa con incarichi non ricevuti direttamente
Non v’è dubbio che l’agente, salvo eventuali divieti contenuti nel mandato agenziale, possa avvalersi,
per l’espletamento del proprio incarico, di collaboratori. In particolare, egli potrà avvalersi della collaborazione
di subagenti, ai quali, salvo eventuali divieti contenuti nel mandato agenziale, delegherà in tutto o in parte i
poteri e le funzioni conferitegli dall’impresa di assicurazioni, con l’intesa di rispondere del loro operato nei
confronti della Compagnia preponente. Infatti, il rapporto contrattuale fra l’agente, imprenditore autonomo che
opera a proprio rischio e spese, ed il subagente è del tutto indipendente rispetto a quello intercorrente tra la
Compagnia e l’agente stesso.
Ne deriva, dal punto di vista strettamente giuridico, l’impossibilità di qualificare il subagente quale
incaricato della Compagnia e di attribuire al medesimo poteri di rappresentanza di cui agli artt. 1745 e 1903
c.c.. L’assenza di poteri rappresentativi impedisce l’immediata riferibilità dell’attività subagenziale alla
Compagnia, e, di conseguenza, esclude che quest’ultima possa essere chiamata a rispondere dei danni derivanti
da eventuali comportamenti illeciti dello stesso subagente, dei quali risponderà – salvo rivalsa – l’agente
preponente.
Non sembra, in particolare, possibile configurare in capo all’impresa una responsabilità ex art. 2049
c.c., in quanto la giurisprudenza prevalente applica la disposizione in esame soltanto alle ipotesi in cui vi sia
stato, comunque, il conferimento di specifico incarico al collaboratore (cd. culpa in eligendo). Nel caso del
subagente, invece, l’incarico viene conferito esclusivamente dall’agente e comunicato, a titolo puramente
informativo, alla Compagnia la quale, salvo i casi assai rari di esplicita preclusione, si limita a prenderne atto.
Alla medesima conclusione si giunge anche nell’ipotesi in cui si ricostruisca la portata dell’art. 2049 in termini
di responsabilità indiretta per culpa in vigilando. Il subagente, infatti, è inserito nell’organizzazione
dell’agenzia e svolge la sua attività esclusivamente sotto le direttive ed il controllo dell’agente delegante, senza
che la Compagnia eserciti alcuna forma di vigilanza sulle modalità di espletamento dell’incarico, intendendosi
che eventuali rilievi sull’operato del subagente saranno formulati nei confronti dell’agente nell’ambito di un
corretto esercizio del mandato.
L’indipendenza del rapporto subagente-agente rispetto alla Compagnia preponente trova, del resto,
conferma nel contenuto del facsimile della lettera di nomina a subagente professionista predisposto dal
Sindacato Nazionale Agenti in cui si prevede espressamente che: “Ogni rapporto relativo al presente incarico si
svolgerà unicamente tra Lei e questa agenzia, in quanto le Imprese preponenti rimangono del tutto estranee e
non contraggono con lei alcun rapporto, né diretto né indiretto”.
Tenuto conto di quanto premesso, sembra potersi ribadire l’esclusione della configurabilità in capo
all’impresa di assicurazioni di una responsabilità per i fatti posti in essere dal subagente nell’esercizio della sua
attività.
Infatti, pur essendo evidente che il subagente agisce sostanzialmente nell’interesse della Compagnia
di assicurazione e che essa trae un innegabile vantaggio dalla collocazione dei prodotti assicurativi attraverso la
rete subagenziale, tale elemento non risulta sufficiente ai fini della configurazione di una responsabilità per
fatto altrui.
La correttezza dell’impostazione seguita si evince, altresì, dall’affermazione dell’indipendenza del
rapporto subagente-agente sancita nella Circolare n. 369 D. del 12 marzo 1999, relativa alle “Condizioni per lo
svolgimento dell’attività di raccolta delle adesioni ai fondi pensione aperti a contribuzione definita da parte di
subagenti e produttori”. La Circolare prevede, infatti, che il rapporto di collaborazione dovrà risultare da
apposita lettera di incarico che consenta di attribuire al preposto all’agenzia ogni responsabilità patrimoniale
per i danni derivanti da atti commessi dal collaboratore nello svolgimento dell’attività conseguente alla raccolta
delle adesioni. A tal fine, si prevede anche l’obbligo per l’agente di stipulare apposita assicurazione sulla
responsabilità civile inerente all’attività dei propri collaboratori.
24. Società di mutua assicurazione di cui all’art. 4, comma 2, lettere c) e/o d) del d.lgs. n. 175/1995
Si è affrontata la questione relativa all’attualità delle società di mutua assicurazione nel contesto operativo
odierno.
Si è poi verificato, al fine di rendere più pregnante la vigilanza dell’Istituto, se esista la possibilità di
estendere a tali enti alcune disposizioni del Capo II, Titolo II del d.lgs. 175/1995, analogamente a quanto avvenuto
per le imprese di riassicurazione.
Inoltre, nel caso in cui tale estensione sia possibile, è parso utile precisare se ed entro quali limiti l’Istituto
possa sindacare le disposizioni dello Statuto di tali enti, ed in particolare se le limitazioni all’oggetto sociale di cui
all’art. 4, comma 2, lettera c) del d.lgs. 175/1995 siano estensibili anche alle imprese di cui alla lettera d).
Infine, si è ritenuto di specificare se tali imprese siano soggette nei confronti dell’Istituto ad altri obblighi
oltre a quelli in materia di bilanci e di informativa previsti dal d.lgs. 173/1997.
I) In merito alla prima questione, è opportuno precisare che la scarsa, ovvero nulla, diffusione di tali
società sul mercato italiano non è condizione sufficiente per poterne escludere né la legittimità né l’utilità. Dal
punto di vista generale, infatti, non si può ignorare il ruolo che le mutue assicuratrici hanno svolto e continuano a
svolgere nei confronti dei consumatori, fornendo ad essi prestazioni assicurative economicamente più vantaggiose
grazie all’abbattimento dei costi di gestione delle polizze e di intermediazione.
In secondo luogo, la mutua assicuratrice realizza in modo diretto ed immediato il sistema di comunione e
di compensazione dei rischi su cui si fonda l’idea originaria di assicurazione. L’adesione alle mutue assicuratrici,
infatti, instaurando contestualmente un rapporto assicurativo ed associativo con la società, attua una forma pura di
solidarietà fra gli associati che permette la trasformazione del rischio individuale in rischio collettivo.
Per quanto concerne, poi, le mutue assicuratrici ex art. 4, comma 2, lettera c), d.lgs. 175/1995 (le cd.
“piccole mutue”), si può sostenere – nonostante l’attuale mancanza sul mercato di società di questo tipo – la
conservazione di un ruolo, seppur marginale, nel settore delle assicurazioni. In effetti tali società trovano una
collocazione ideale per la copertura di quei rischi che normalmente non sono assicurati dalle altre imprese di
assicurazione. Le piccole mutue, dunque, fornirebbero al consumatore un servizio che, allo stato attuale, non
soltanto appare utile, ma addirittura indispensabile per la copertura di rischi del tutto peculiari.
II) In relazione al secondo quesito, concernente l’estensione alle mutue assicuratrici in oggetto di alcune
disposizioni contenute nel Capo II, Titolo II, d.lgs. 175/1995, la risposta sembra avere contenuto positivo. La
circostanza, infatti, che le società di mutua assicurazione siano sottratte ex art. 4, comma 2, lettere c) e d) del d.lgs.
175/1995 alla disciplina del Capo II, Titolo II del medesimo decreto per essere assoggettate alla normativa del T.U.
1959 non esclude la possibilità dell’esercizio di funzioni ulteriori di vigilanza da parte dell’Isvap. L’art. 4, della
legge 1982 n. 576, afferma in via generale che l’Istituto esercita “…funzioni di vigilanza …nei confronti… delle
imprese nazionali ed estere, comunque denominate e costituite, che esercitano nel territorio della Repubblica
attività di assicurazione e riassicurazione in qualsiasi ramo e qualsiasi forma…”.
Ed ancora, si consideri che anche le mutue in esame sono soggette – ex art. 67 del T.U. – al
pagamento del contributo di vigilanza, nonché alle disposizioni del d.lgs. 173/1997, circostanze queste che
confermano la sussistenza di un più ampio potere di controllo da parte dell’Istituto.
Affermata in via di principio la subordinazione alla vigilanza dell’Isvap delle società di cui trattasi, si
pone il problema di definire più esattamente in quali termini la medesima si possa svolgere anche relativamente
alle condizioni di accesso.
Innanzitutto, è da ritenere che l’Istituto possa verificare l’esistenza dei presupposti previsti dalla legge
per autorizzare l’operatività delle mutue de quibus. A tal fine, considerato il combinato disposto degli artt. 48 e
18 del R.D. 1925 n. 63 – che permette l’acquisizione di “…ogni altro documento o notizia che … (al tempo il
Ministero dell’Industria, oggi l’Isvap) ritenesse di dover richiedere agli effetti dell’autorizzazione” – potrà
utilmente, così come prospettato da codesto servizio, valutarsi l’estensione alla fattispecie di alcune
disposizioni del Capo II, Titolo II, d. lgs. n. 175/1995.
Di conseguenza, il provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività di assicurazione potrà essere
rilasciato dall’Isvap previo esame della documentazione trasmessa dalla società interessata. La documentazione
deve comprovare la sussistenza delle condizioni di accesso previste dal medesimo T.U. del 1959 all’art. 38; e cioè
la prova di essere legalmente costituite, quella del possesso di un fondo di garanzia minimo prescritto dalla legge
nonché delle condizioni previste dall’art. 4, d.lgs. 175/1995 citato. Pertanto, esse dovranno far pervenire all’Istituto
copia autentica dell’atto costitutivo e dello Statuto, nonché ogni altro documento utile per una valutazione sulla
sussistenza di una struttura organizzativa minima e, tuttavia, idonea allo svolgimento dell’attività di assicurazione.
In ogni caso l’attività dell’Istituto, essendo preordinata esclusivamente alla tutela degli assicurati, si sostanzierà in
una vigilanza di tipo strutturale, senza spingersi, ad avviso dello scrivente Servizio, fino al punto di interferire
sull’attività dell’impresa; e ciò al di là del fatto che un’eventuale estensione globale della disciplina pubblicistica
concernente le imprese di assicurazione rischierebbe di snaturare la causa mutualistica preponderante nella mutua
assicuratrice in oggetto.
Occorre infine precisare che, escludendo l’art. 4, comma 2, d.lgs. 175/1995, l’operatività del solo titolo II
del decreto medesimo, non vi sono dubbi circa la piena applicabilità delle disposizioni relative al contratto, previste
dal titolo V, e delle disposizioni transitorie del titolo VII, in quanto compatibili.
III) Per quanto riguarda l’ambito dei controlli sullo Statuto di una costituenda mutua assicuratrice, in via
generale, sembra opportuno che nell’esame di tale documento sia prestata una particolare attenzione alla chiarezza
e completezza delle norme relative allo svolgimento del rapporto assicurativo. Come è noto, infatti, al momento
dell’adesione alla mutua assicuratrice le condizioni relative allo svolgimento di tale rapporto sono desumibili
primariamente dalle disposizioni dello Statuto medesimo dal quale, pertanto, l’assicurato deve poter acquisire
informazioni relative non solo all’ammontare dei contributi dovuti, ma anche ai casi ed alle modalità con le quali
opererà la copertura assicurativa.
In particolare lo Statuto dovrà uniformarsi integralmente al dettato dell’art. 4, comma 2, lettera c), punto
2), escludendo dall’oggetto sociale non solo l’esercizio dell’assicurazione di responsabilità civile, ma anche
l’assicurazione del credito e delle cauzioni.
In secondo luogo, considerato che nelle mutue assicuratrici la qualità di socio si acquista normalmente
mediante la stipula con la società di un contratto di assicurazione, sarà opportuno procedere all’acquisizione anche
del contratto-tipo da sottoscrivere al fine di valutare la completezza e conformità a legge delle disposizioni che
regolano lo svolgimento del rapporto assicurativo.
Si fa comunque presente che lo Statuto può ben essere oggetto di approvazione nell’ambito della più
ampia fase di autorizzazione all’esercizio dell’attività di assicurazione, così come avviene nei fatti quanto
all’esercizio dei poteri di cui all’art. 11, u. c..
Più complessa è invece la questione dell’estensione dei requisiti previsti dalla lettera c) dell’art. 4, comma
2, d.lgs. 175/1995, ed in particolare delle limitazioni inerenti all’oggetto sociale, alle mutue assicuratrici
contemplate alla lettera d).
L’art. 4 d.lgs. 175/1995 dispone, infatti, – con una formulazione alquanto incerta – che: “Non sono
soggette alle disposizioni del presente titolo: … c) le società di mutua assicurazione quando ricorrano
congiuntamente le seguenti condizioni: ...; d) le stesse società di mutua assicurazione che abbiano stipulato con
un’impresa della stessa natura … una convenzione che preveda la riassicurazione integrale dei contratti da essa
sottoscritti o la sostituzione dell’impresa cessionaria all’impresa cedente per l’esecuzione degli impegni risultanti
dai suddetti contratti …”. Dubbi interpretativi sorgono sull’uso sia del termine “stesse”, sia della locuzione
“impresa della stessa natura”.
In particolare, il legislatore italiano in sede di attuazione della direttiva comunitaria n. 73/239/CEE
(richiamata dalla direttiva n. 92/49/CEE), recepisce pedissequamente l’espressione “impresa della stessa natura”,
senza peraltro che sia possibile evincere dalle norme comunitarie o dal decreto di recepimento il significato che a
tale espressione debba attribuirsi. Essa potrebbe, infatti, riferirsi o alla struttura dell’impresa di riassicurazione –
che dovrebbe essere anch’essa una mutua assicuratrice – ovvero, più genericamente, alla natura assicurativa
dell’attività svolta dall’impresa riassicuratrice.
Analoghi problemi sono riscontrabili nell’accertamento delle finalità che il legislatore italiano ha inteso
perseguire con l’introduzione nella disposizione (diversamente dalla dizione della direttiva) del termine “stesse”.
Anche in tal caso le soluzioni interpretative possono essere sostanzialmente due.
Secondo una prima interpretazione l’uso del termine sarebbe intenzionale e manifesterebbe la volontà di
creare una stretta connessione fra le lettere c) e d) dell’art. 4 , comma 2, d. lgs. 175/1995. In tal modo si
escluderebbero dalla portata del decreto anche quelle mutue assicuratrici che, rivestendo comunque i requisiti della
lettera c), provvedano a riassicurare o a cedere integralmente i contratti da esse stipulati.
Una seconda interpretazione, invece, configurerebbe le ipotesi di cui alle lettere c) e d) dell’art. 4 quali
fattispecie del tutto autonome. Da ciò consegue che i requisiti previsti dalla lettera c) non sarebbero estensibili alla
lettera d). Secondo questa interpretazione, quindi, tutte le mutue assicuratrici, anche non classificabili come
“piccole mutue” per difetto dei requisiti della lettera c), che provvedono alla stipula di una convenzione di
riassicurazione nei termini di cui alla lettera d) sarebbero estranee all’applicazione del Capo II, Titolo II del d.lgs.
175/1995.
Analizzando il solo dato testuale, l’interpretazione preferibile sembra essere quella che pone in termini di
totale autonomia le lettere c) e d) dell’art. 4 del d.lgs. 175/1995. Nell’articolo in esame, infatti, il legislatore
propone un elenco di imprese di assicurazione escluse dalla portata del decreto; ciò induce a ritenere che, dal punto
di vista sistematico, le singole ipotesi sono in rapporto di alternatività.
Inoltre, è opportuno evidenziare che se la mutua rivestisse i requisiti di cui alla lettera c) essa sarebbe già
esclusa dalla portata dal decreto e l’ipotesi di cui alla lettera d) sarebbe, quindi, sostanzialmente inutile.
La configurazione in termini di autonomia sembra ulteriormente da preferire in quanto conserva una
maggiore omogeneità di ratio nel giustificare l’esclusione dalla portata del decreto. Infatti, a prescindere dall’ovvia
esclusione di cui alla lettera a) relativa ad enti di natura pubblica, tutte le successive lettere del comma 2
dell’articolo in esame fanno riferimento ad imprese caratterizzate da una struttura organizzativa minima e svolgenti
attività di assicurazione limitata a settori specifici e ben determinati. Basti pensare alle associazioni agrarie di
mutua assicurazione ed alle imprese che esercitano attività di assistenza consistenti esclusivamente in prestazioni in
natura, rispettivamente citate alle lettere b) e f) dell’art. 4, comma 2. Nell’ipotesi di cui alla lettera d) la mutua
assicuratrice che riassicura integralmente, o si fa sostituire dall’impresa cessionaria per l’esecuzione degli impegni
assunti contrattualmente, addirittura non viene neanche ad operare direttamente nel mercato assicurativo. Essa
rimane, dunque, una mera struttura formale per la quale si attenuerebbero i profili di interesse pubblico che
comportano una pregnante attività di controllo. Tale esclusione sembrerebbe, comunque, trovare un adeguato
contrappeso nell’assoggettamento dell’impresa riassicuratrice al decreto in parola, sia che si tratti di un’impresa a
struttura ordinaria (nel qual caso si realizzerebbe una specifica ipotesi di estensione alla riassicurazione dei
controlli previsti a carico delle compagnie esercenti attività assicurativa diretta), sia che si tratti di una mutua di
riassicurazione, per la rilevanza dispiegata da tale particolare attività, come esorbitante per definizione dagli ambiti
di esclusione di cui all’art. 4.
L’Istituto potrà in tal modo valutare l’idoneità dell’organizzazione dell’impresa cessionaria alla gestione
dei contratti ceduti e la sussistenza di adeguati fondi per il pagamento dell’indennità nel caso in cui si verifichino i
rischi assicurati. L’Istituto dovrà, in altri termini, garantire agli assicurati che la stipula della convenzione di
riassicurazione e, comunque, la cessione dei contratti non comporterà alcuna lesione degli interessi di cui sono
portatori.
Tenuto conto di quanto esposto, se si intende costituire una mutua assicuratrice di cui all’art. 4, comma 2,
lettera c) essa dovrà necessariamente soddisfare tutti i requisiti previsti, incluse le limitazioni dell’oggetto sociale di
cui al punto 3), ovvero integrare le prescrizioni di cui alla successiva lettera d).
IV) Rispetto all’ultimo quesito formulato, si ritiene che – oltre agli obblighi
di trasmissione previsti espressamente per tutte le mutue assicuratrici dal d.lgs. 173/1997 – le mutue in questione
non siano in via generale tenute ad ulteriori adempimenti, salvo che si verifichino fatti o circostanze che
modifichino i presupposti richiesti dalla legge per la loro legittimità ad operare.
25. Questioni afferenti alla tenuta degli albi degli agenti e dei mediatori di assicurazione e riassicurazione,
nonché del ruolo nazionale dei periti
Il D.Lgs. 373/98 ha trasferito all’ISVAP le funzioni relative alla tenuta degli albi degli agenti e dei
mediatori di assicurazione e riassicurazione, nonché del ruolo nazionale dei periti.
In seguito all’attribuzione di tali competenze, l’Istituto si è dovuto confrontare con nuove problematiche
che, per i profili giuridici di volta in volta presentati, hanno interessato anche il Servizio Legale.
25.1.
Ruolo Nazionale dei periti assicurativi. Art. 5, comma 2, della legge n. 166/92
La norma in oggetto emarginata, dispone che “non possono esercitare l’attività di perito assicurativo gli
enti pubblici, le imprese o gli enti assicurativi. Non possono esercitare l’attività di perito assicurativo né essere
iscritti nel ruolo gli agenti e i mediatori di assicurazione, i riparatori di veicoli e di natanti e tutti coloro che hanno
un rapporto di lavoro dipendente, salvo le deroghe già concesse allo scopo di aggiornare la qualità professionale”.
La legge citata esclude che l’attività di perito assicurativo possa essere esercitata dagli agenti e mediatori
di assicurazione, nonchè dagli enti pubblici, dalle imprese e gli enti assicurativi, dai riparatori di veicoli e natanti,
tutti soggetti la cui autonomia di giudizio potrebbe essere compromessa per ragioni specifiche di status lavorativo o
professionale. Nella linea di un rigoroso rispetto della professione peritale, è da condividere l’interpretazione che
limita la possibilità di deroga a coloro “che hanno un rapporto di lavoro dipendente”, escludendo che, sia pure per
esigenze di aggiornamento professionale, possano beneficiare della deroga anche agenti, brokers e riparatori di
veicoli o natanti; ciò dicesi al di là del dato letterale, che non appare di per sé chiarissimo nel senso dell’esclusione.
Qualche dubbio sussiste -lo si accenna soltanto per compiutezza di disamina- in ordine alla congruità della
disposizione che considera la concessione della deroga come facoltà rimessa a tutti gli enti di appartenenza del
beneficiario, e non invece quale possibilità riconosciuta in via transitoria per le deroghe concesse ed operanti nel
momento dell’entrata in vigore della legge n. 166; il dettato normativo non consente, tuttavia, limitazioni sul piano
temporale.
Ciò premesso, resta da stabilire se, fra le imprese che hanno titoli per concedere la deroga, possano
annoverarsi anche le Compagnie di assicurazione.
L’interrogativo si pone poichè la norma non esclude dal suo ambito di applicazione i dipendenti
d’imprese di assicurazione, per cui si potrebbe ritenere che anch’essi possano usufruire delle deroghe concesse per
aggiornare la qualità professionale, evitando in tal modo interpretazioni che potrebbero apparire discriminatorie
rispetto ai dipendenti di altre imprese.
D’altro canto nell’interpretare una legge non si può prescindere dalla ratio che l’ha ispirata e che, nel caso
di specie, è senz’altro da rinvenirsi nell’esigenza di garantire la formazione di una categoria di periti assicurativi
dotati di quella libertà di giudizio e d’azione che soltanto l’assenza di vincoli di subordinazione con imprese
assicuratrici può garantire.
Tutto ciò, naturalmente, per un’esigenza di trasparenza e di correttezza a tutela degli assicurati che, in
quanto contraenti “deboli”, hanno necessità di essere tutelati da periti realmente indipendenti ai quali si possa
affidare la valutazione del danno.
A sostegno di ciò, si richiamano i lavori parlamentari che hanno preceduto l’approvazione della l. 166/92,
dai quali si evince l’intento del legislatore di svincolare i periti assicurativi dalle imprese di assicurazione. In
particolare, nel resoconto sommario dell’esame della Commissione VI della Camera, seduta del 7 febbraio 1990, si
sostiene testualmente che “l’intento legislativo che presiede ai progetti in discussione è infatti proprio quello di
svincolare i periti assicurativi dalle compagnie” e che “lo svolgimento di tale mandato contrasta con il rapporto di
lavoro dipendente a causa della mancanza di libertà d’azione dovuta alla subordinazione”. Ancora, nel resoconto
sommario dell’esame della Commissione VI della Camera, seduta del 16 luglio 1991, si legge: “si afferma inoltre il
principio essenziale di rendere indipendenti anche sul piano psicologico i periti dalle compagnie”.
Anche in giurisprudenza si avalla indirettamente tale interpretazione, laddove il Tribunale di Napoli
(Prima Sez. Civile, sentenza 3476/98), per altri versi postulando un’interpretazione eccessivamente restrittiva della
disposizione, ha dichiarato l’illegittimità del provvedimento di radiazione di un perito assicurativo dipendente
dell’ENEL, sul presupposto che lo spirito della legge sarebbe violato nel caso di rapporti di lavoro alle dipendenze
di enti ed imprese assicurative, perchè solo “i soggetti direttamente o indirettamente legati alle assicurazioni non
darebbero garanzie d’imparzialità nell’esecuzione delle perizie”.
In via d’interpretazione sistematica, inoltre, l’art. 3 l. 166/’92 considera espressamente l’eventualità che le
imprese di assicurazione eseguano direttamente l’accertamento e la stima dei danni alle cose, proponendo la
liquidazione all’assicurato, il quale ha la facoltà di accettarla oppure di ricorrere all’accertamento ed alla stima
tramite un perito iscritto al Ruolo.
Sembrerebbe contrastare anche con tale articolo, dunque, l’eventualità di un dipendente di un’impresa
assicurativa contemporaneamente iscritto nel suddetto Ruolo, potendo ciò dar luogo a fattispecie di conflitto
d’interesse, potenzialmente lesive delle situazioni giuridiche di cui gli assicurati sono titolari; né è senza rilievo che
in sede di discussione parlamentare sia venuta meno la proposta d’istituire, all’interno del Ruolo, una sezione in cui
potessero iscriversi i periti dipendenti dalle imprese di assicurazione, con la conseguenza dell’inammissibilità di
una tale iscrizione anche per i dipendenti delle imprese che svolgono di fatto attività peritale nell’ambito dell’art. 3.
Per tutte le suesposte considerazioni, si ritiene che l’art. 5, comma 2, della l. n. 166/92 non trovi
applicazione nei confronti dei dipendenti d’imprese d’assicurazione, con la conseguenza di costituire motivo
ostativo all’iscrizione dei medesimi nel Ruolo Nazionale dei periti assicurativi.
25.2.
Trasferimento all’ISVAP delle funzioni di cui alla legge 17 febbraio 1992, n. 166, concernente il ruolo dei
periti assicurativi
In merito alle ricordate modalità del trasferimento in materia di tenuta di Albi e Ruolo professionale, va
rilevato che con il d.lgs. n. 373/1998 – art. 1, comma 2 – sono state soppresse le Commissioni previste dagli artt. 7
e 8 della suindicata legge 1992 n. 166, e le relative funzioni sono state attribuite all’ISVAP.
Si deve peraltro ricordare che le modifiche di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 1 del citato d.lgs. investono solo
parzialmente il corpus normativo di cui alla legge n. 166 del 1992 (e del relativo regolamento ministeriale 9
settembre 1992, n. 562). Di conseguenza, tutte le altre norme restano in vigore sicchè, per effetto del trasferimento
totale di competenze operato dal citato comma 1 del d.lgs. 373/1998, a far data dal 10 maggio 1999, è l’Isvap – in
luogo del Ministero – a dover provvedere all’espletamento delle altre incombenze previste da dette disposizioni
come l’iscrizione nel ruolo nazionale dei periti assicurativi, la gestione del ruolo stesso, la composizione e la
nomina delle commissioni esaminatrici degli aspiranti all’iscrizione nel ruolo anzidetto (art. 5 legge 1992, n. 166),
nonchè la corresponsione dei compensi ai membri e ai segretari delle Commissioni stesse.
Sebbene a seguito della soppressione della Commissione nazionale e delle Commissioni provinciali per i
periti assicurativi di cui ai citati artt. 7 e 8 della legge 1992 n. 166 non venga più sostenuta la spesa relativa ai
compensi dovuti ai componenti e ai segretari della Commissione di cui all’art. 7 (per le Commissioni di cui all’art.
8 la legge non prevede compensi), restano tuttavia in vigore tutte le altre norme, ivi comprese quelle relative agli
oneri derivanti dalle incombenze previste dall’applicazione della legge istitutiva del ruolo nazionale periti. Di
conseguenza, il trasferimento di competenze operato dal citato d.lgs. 373/98 è generale e, a parte l’abolizione delle
due commissioni di cui sopra, non prevede eccezioni, nemmeno sotto forma di una distinzione – in nessun modo
prefigurata dalla normativa – tra passaggio di competenze sostanziali e traslazione di entrate per assolvere i
conseguenti oneri.
Tali oneri non possono evidentemente far carico al bilancio delle spese per lo svolgimento dei servizi
istituzionali dell’ISVAP.
L’inscindibilità tra la tassa di lire 150.000 pro-capite, pagata dagli iscritti nel ruolo dei periti, e gli oneri di
cui alla legge del 1992 n. 166, è peraltro esplicitata dalla stessa legge istitutiva del ruolo nazionale dei periti
assicurativi.
Va rilevato, infatti, che la tassa possiede già una destinazione prevista dalla legge, essendo stata istituita
quale specifico ed esclusivo mezzo di copertura per l’assolvimento dei compiti di cui alla legge del 1992 n. 166 in
quanto l’art. 15 della legge n. 166, stabilisce che “agli oneri derivanti dalla [stessa] legge si fa fronte con le entrate
derivanti dalla tassa stabilita dall’art. 10 e dai successivi decreti ministeriali di variazione”. Perciò, essendovi una
espressa correlazione tecnica tra il suddetto tributo e le spese pubbliche de quibus, a tale tassa deve riconoscersi la
connotazione di entrata di scopo, come tale destinata in via esclusiva alle spese previste a tal fine: ne deriva che
l’assegnazione a bilancio delle entrate derivanti dalla riscossione di detta tassa, seguendo le vicende traslative della
titolarità dei compiti già propri del Ministero, non può che avvenire a favore dell’Ente subentratovi.
Pertanto, in relazione alle spese connesse con la gestione del ruolo dei periti assicurativi e alle spese
relative alle prove di idoneità degli aspiranti periti medesimi, si rende necessario che le somme indicate nella nota
di codesto Servizio del 24 novembre 1999 al Ministero del Tesoro siano trasferite, come richiesto, all’Isvap.
25.3.
Iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione di dipendenti delle pubbliche
amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale
Si è approfondita la questione relativa alla circostanza se, allo stato della normativa vigente, sia possibile
iscrivere all’Albo dei mediatori di assicurazione i dipendenti della pubblica amministrazione con rapporto di lavoro
a tempo parziale, la cui prestazione lavorativa non sia superiore al 50% di quella a tempo pieno.
L’esame sia delle norme che disciplinano il part-time nel pubblico impiego, nella specie i commi 56-65
dell’art. 1 della legge 23 dicembre 1996 n. 662 e l’art. 6 della legge 28 maggio 1997 n. 140, sia delle due circolari
emanate in tema dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento funzione pubblica rispettivamente il 19
febbraio 1997 e il 18 luglio 1997 consentono di accedere ad una soluzione positiva.
In particolare, l’art. 1, comma 56 della cennata legge 662/1996 stabilisce l’inapplicabilità nei confronti
dei dipendenti pubblici che abbiano optato per il part-time, per un verso, delle disposizioni contenute nell’art. 58
del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 in tema di incompatibilità e di cumulo di impieghi e di incarichi; per altro verso,
delle “disposizioni di legge che vietano l’iscrizione ad albi professionali”. Tale previsione - fortemente voluta dal
Dipartimento della Funzione pubblica - si prefigge, com’è stato sostenuto in dottrina (Clarich), la finalità di
contenere la spesa pubblica, mirando a rimuovere due barriere, per così dire, in entrata ed in uscita. All’uscita, nel
senso che per incentivare i dipendenti pubblici ad optare per il regime a tempo parziale, occorreva eliminare il
divieto di svolgimento di altre attività, contenuto nella normativa sul pubblico impiego; all’entrata, nel senso che
era necessario superare le disposizioni restrittive contenute nelle leggi speciali sulle professioni che pongono divieti
o restrizioni per i dipendenti pubblici.
Si rileva che tale disposizione determina l’inapplicabilità, con esclusivo riferimento ai dipendenti in parttime con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno, anche della norma posta
dall’art. 2, III comma della legge 792/1984, che preclude l’esercizio dell’attività di brokeraggio agli enti pubblici e
ai loro dipendenti (assieme agli agenti e ai produttori di assicurazione).
Il riferimento generico ad “albi professionali” senza altra specificazione contenuta né nella legge né nelle
menzionate circolari interpretative, induce a riconnettere un’accezione lata al concetto di “professione”, nel quale
siano da ritenere ricomprese anche le professioni diverse da quelle liberali. La legge non ha del resto enucleato solo
gli “ordini professionali”, il cui significato è certamente più restrittivo in quanto la giurisprudenza di legittimità non
vi ritiene ricompresi l’albo broker ovvero l’albo agenti, bensì ha inteso riferirsi più genericamente ad “albi”, la cui
istituzione risponde, com’è noto, alla esigenza di accertare, tramite l’iscrizione, in capo ai soggetti istanti la
sussistenza o la permanenza dei requisiti di legge; in tale contesto l’iscrizione all’albo per lo più costituisce fatto di
legittimazione per lo svolgimento di determinate attività, ma nel contempo è atto di certezza critica volto a tutelare
la fede pubblica (Giannini, voce “Albo”, in Enc. del dir., I).
Conferma del carattere ampio di tale riferimento lessicale può argomentarsi dalla citata Circolare del
Dipartimento della Funzione Pubblica n. 3 del 19 febbraio 1997, ove al punto 6, trattandosi delle innovazioni al
regime delle incompatibilità per il pubblico dipendente che abbia optato per il lavoro a tempo parziale (sempre
qualora l’orario di lavoro non superi il 50 per cento di quello pieno), si chiarisce che al medesimo, venuta meno
ogni forma predeterminata di incompatibilità e fatte salve le esigenze di servizio, è consentito di “svolgere anche
un’altra attività subordinata (purchè non a favore di altra pubblica amministrazione: ndr) o autonoma, anche
mediante iscrizione ad albi, a condizione che l’ulteriore attività non sia in conflitto con gli interessi
dell’amministrazione”.
A questo proposito, condizione per la iscrizione pare debba essere naturalmente la produzione da parte
del dipendente dell’autorizzazione della propria amministrazione a trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno
a tempo parziale ai sensi del successivo comma 58 del cennato art. 1.
Principalmente per porre fine alla nota diatriba tra il Dipartimento della Funzione pubblica ed il Consiglio
nazionale forense, che si pone in aperto contrasto con le narrate prescrizioni di legge, l’art. 6 della legge n. 140 del
28 maggio 1997 ha inserito, di seguito al comma 56 dell’articolo 1 della legge n. 662/1996, un comma 56-bis, il
quale dispone l’abrogazione delle disposizioni che vietano l’iscrizione ad albi e l’esercizio di attività professionali
ai suddetti dipendenti in regime di part-time. A parte l’inutile ripetizione di un effetto già prodottosi in virtù del
comma precedente (che ne prevedeva, come rilevato, l’inapplicabilità) e l’inesattezza in cui incorre il legislatore
ove, per rafforzare la portata della norma, ha parlato impropriamente di abrogazione la quale, semmai, potrà essere
solo parziale, la norma non fa altro che ribadire a chiare lettere il principio già espresso nel comma 56, poi ripreso
nella successiva circolare del 18 luglio 1997.
25.4.
Iscrizione nell’Albo Broker
Si è affrontata la questione della rilevanza - come titolo equipollente ai fini dell’iscrizione di un soggetto
all’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione - della qualità di socio di una società a sua volta titolare di
partecipazione sociale in una società di brokeraggio.
In proposito si è ritenuto che la qualità fatta valere dal richiedente non integri le ipotesi previste
dall’ordinamento quali titoli equipollenti al superamento della prova di esame.
In particolare, non risulta applicabile l’art. 4, comma 4, lett. b), L. 792/84, che prevede l’esonero della
prova, tra l’altro, per “coloro che abbiano svolto per almeno un quadriennio, in modo continuativo, mansioni
direttive” in una società di brokeraggio. Infatti, secondo l’interpretazione della norma fornita con una circolare dal
Ministero dell’Industria sono esonerati dalla prova d’idoneità:
a)
coloro che hanno svolto mansioni direttive presso una impresa di assicurazioni, pubblica o privata,
oppure presso un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa … (esclusivamente) in relazione ad un
rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e l’impresa;
b) coloro che hanno svolto mansioni direttive in qualità di socio o di consigliere di amministrazione di
un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa”.
In mancanza di un rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e la società di brokeraggio, la
fattispecie de qua deve essere riferita esclusivamente alla previsione sub b) dell’art. 4, comma 4, legge n.
792/84. Ma, anche in tal caso, è evidente che non risultano integrati gli elementi della disposizione di cui
trattasi.
Infatti, il richiedente non è socio della società di brokeraggio, risultando piuttosto una partecipazione
indiretta alla stessa tramite una persona una persona giuridica.
D’altra parte, è da escludere un’assimilazione fra la partecipazione personale alla società di
brokeraggio (così come ritenuto dalla circolare) e la partecipazione indiretta alla stessa tramite una persona
giuridica (così come nell’ipotesi in esame).
25.5.
Iscrizione nell’Albo Broker: art. 4, comma 4, lett. b) L. 792/84
E’ stata esaminata la questione relativa alla rilevanza, come titolo equipollente ai fini dell’iscrizione
nell’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione, dello svolgimento – per più di quattro anni – di mansioni
direttive in virtù di un accordo di collaborazione coordinata e continuativa con una società di brokeraggio
assicurativo.
L’art. 4, comma 4, lett. b), L. 792/84, prevede l’esonero dalla prova di esame, tra l’altro, per “coloro che
abbiano svolto per almeno un quadriennio, in modo continuativo, mansioni direttive” in una società di brokeraggio.
Il Ministero dell’Industria con una circolare aveva, in via interpretativa, precisato che per svolgimento di mansioni
direttive sono esonerati dalla prova d’idoneità coloro che hanno svolto mansioni direttive presso una impresa di
assicurazioni, pubblica o privata, oppure presso un’impresa di mediazione assicurativa o riassicurativa …
(esclusivamente) in relazione ad un rapporto di lavoro dipendente fra l’interessato e l’impresa; ciò in quanto la
disposizione normativa si riferisce unicamente a coloro che hanno svolto mansioni direttive in relazione ad un
rapporto dipendente esistente fra l’interessato e l’impresa e, quindi, non è applicabile a coloro che hanno svolto la
propria attività sulla base di un rapporto di libera collaborazione con l’impresa stessa ….
L’interpretazione fornita dal Ministero appare corretta caratterizzandosi il rapporto di libera
collaborazione per l’autonomia del prestatore d’opera nei confronti del committente, con esclusione di ogni
connotato di subordinazione o sovraordinazione gerarchica. Per inciso, la stessa etimologia della parola “mansione”
(dal latino mansio: dimora, sosta, permanenza, soggiorno) sembra confermarne la contraddizione in termini con i
connotati della libera collaborazione.
In proposito, pur avendo in via generale l’intenzione amministrativa un’efficacia meramente interna, nel
caso in esame la cennata circolare è relativa ad un procedimento per la formazione di atti destinati ad incidere sulla
sfera giuridica dei privati, circostanza questa che ne comporta un’efficacia esterna (Cons. di Stato, sez. VI, 13
maggio 1980, n. 531), per cui la sua diversa applicazione (o disapplicazione) richiederebbe un atto modificativo,
possibilmente anteriore, che renda ufficiale la nuova posizione eventualmente assunta dalla pubblica
amministrazione.
Ed anche irrilevante risulta una eventuale qualificazione del rapporto di libera collaborazione – ricorrendo
i presupposti di cui all’art. 409, punto 3, c.p.c. – quale rapporto di lavoro parasubordinato, incidendo
esclusivamente la circostanza ai fini della individuazione del giudice competente a conoscere delle controversie in
questione, senza che da ciò possa inferirsi la riconducibilità del rapporto in esame a quello di natura subordinata.
Neanche il semplice inserimento della prestazione lavorativa, a seguito di un accordo di libera collaborazione,
nell’organizzazione dell’attività aziendale è tale di per sé da configurare un rapporto di lavoro subordinato,
risultando l’inserimento del tutto compatibile con la coordinazione che è tipica del cennato lavoro parasubordinato
(Cass. Civile, sez. lav., 2 maggio 1994, n. 4204).
Alla luce delle superiori considerazioni, si è ritenuto che l’attività svolta sia inidonea ai fini dell’esonero
dalla prova per l’iscrizione all’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione.
25.6.
Cassa sanitaria costituita da una società di brokeraggio. Oggetto sociale limitato alla mediazione
assicurativa
E’ stata approfondita la questione relativa alla legittimità o meno della costituzione da parte di una società
di brokeraggio di un fondo sanitario integrativo istituito ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. 502/92 che, novellato dall’art.
10 del d.lgs. 517/93, è stato successivamente sostituito integralmente dall’art. 9 del d.lgs. 229/99.
Al riguardo, si è ritenuto che la questione presenti aspetti da esaminarsi sotto due differenti profili.
Il primo di essi afferisce alla legittimazione di una società di brokeraggio ad istituire un fondo integrativo
dell’assistenza sanitaria, ed alla forma nell’occasione prescelta, ponendosi quindi problematiche relative al rispetto
del citato d.lgs. 502/92; il secondo profilo attiene, invece, alla conformità della fattispecie alla legge istitutiva
dell’albo nazionale dei mediatori di assicurazione, segnatamente alla disposizione di cui all’art. 5, I comma, lett. b).
Per quanto concerne il primo aspetto, si segnala che la vigilanza sui fondi integrativi del Servizio sanitario
nazionale è devoluta dall’art. 122 del d.lgs. 112/98 allo Stato e più in particolare è attribuita al dicastero della
Sanità.
Relativamente al secondo profilo, di competenza invece dell’Istituto, si rende necessario valutare se il
limite posto dall’art. 5 all’oggetto sociale delle società di brokeraggio, che preclude lo svolgimento di “qualsiasi
altra attività che non persegua direttamente o indirettamente il raggiungimento o il consolidamento dell’oggetto
sociale”, si concilii con la costituzione del fondo da parte di Assidir.
Non convince la tesi secondo cui l’istituzione del fondo sia riconducibile all’attività di assistenza cui fa
riferimento l’art.1 della legge 792/84. Infatti, mentre l’attività di assistenza prevista dalla norma, tra l’altro in via
accessoria, si riferisce ad una attività di collaborazione strumentale rispetto al rapporto (pre o post) assicurativo del
cliente, l’attività di assistenza da riferirsi ai fondi integrativi de quibus non ha natura strumentale costituendo,
piuttosto, il fine al cui assolvimento è preposto l’ente. Ed inoltre, anche a voler accedere alla tesi ricordata, la
prestazione di assistenza in questione sarebbe garantita dal fondo e non dalla società di brokeraggio; non
mancandosi di rilevare come i due tipi di assistenza in parola abbiano evidente diversità di natura e contenuti.
Tanto precisato, si reputa comunque che eventuali iniziative di tale tipologia non siano tali da configurare
di per sè una palese violazione della disciplina sulla mediazione assicurativa ed in particolare dell’art. 5. Sembra,
infatti, che la preclusione prevista da quest’ultimo articolo sia da intendersi riferita allo svolgimento di attività
economica o finanziaria, circostanza questa che indurrebbe ad escludere eventuali partecipazioni in enti privi di fini
di lucro e, comunque, non svolgenti attività imprenditoriali.
Anche l’eventuale partecipazione – pur come socio fondatore, circostanza che peraltro non inficia le
superiori considerazioni – ad un’associazione non riconosciuta, alla quale è per legge precluso il perseguimento di
uno scopo di lucro, non si ritiene in linea di principio incompatibile con il disposto normativo citato. Tuttavia,
appare necessario che la partecipazione e il ruolo svolto dalla società di brokeraggio non si estrinsechino in atti o
iniziative che travalichino i limiti di una semplice partecipazione ad ente non avente scopo di lucro, né, d’altro
canto, che l’attività dell’ente medesimo possa confondersi o sovrapporsi con il core business della società di
brokeraggio.
Più precisamente in via ricostruttiva della problematica occorre che:
a) la società di brokeraggio non assuma, neanche statutariamente, alcun impegno per obbligazioni che
eccedano l’obbligo al versamento della quota associativa;
b) l’attività della Cassa non si confonda con quella della società di brokeraggio;
c) la società di brokeraggio stessa non svolga attività diretta a promuovere l’adesione alla Cassa, non
presentando la stessa natura assicurativa;
d) la Cassa e la società di brokeraggio non abbiano la medesima sede, potendo altrimenti tale circostanza
dar luogo alla commistione di attività di cui alla precedente lettera b).
25.7.
Iscrizione nell’Albo dei mediatori di assicurazione di agente radiato dall’Albo agenti, prima del decorso
dei tre anni dalla radiazione e sulla base di titolo equipollente maturato antecedentemente alla radiazione
stessa
La problematica attiene alla possibilità di iscrizione prima del decorso dei tre anni dalla radiazione e sulla
base di un titolo equipollente maturato antecedentemente alla radiazione stessa.
La fattispecie in esame presenta due aspetti su cui appare opportuno soffermarsi: il primo, relativo al
limite temporale richiesto dalla legge per la reiscrizione all’Albo dopo la cancellazione; il secondo, attinente alla
possibilità di considerare titolo equipollente, ai fini dell’iscrizione nell’Albo mediatori, la precedente iscrizione
nell’Albo agenti, malgrado la successiva radiazione.
Per quanto concerne il primo punto, la necessità di un limite temporale alla reiscrizione è prevista
dall’art.10 co. 2 l. 48/1979, con riguardo agli agenti, e dall’art. 11 co. 3 l. 792/1984, in combinazione con l’art. 4,
comma 4, lett. A) relativamente ai mediatori, che consentono la reiscrizione negli Albi di riferimento, dopo la
cancellazione, a condizione che siano decorsi almeno tre anni dalla data della cancellazione (l’art.10 l. agenti lo
richiede limitatamente al caso in cui la cancellazione sia dovuta a radiazione).
Dall’analisi normativa emerge che il limite temporale dei tre anni non è previsto né per i radiati dall’Albo
dei mediatori che intendano iscriversi nell’Albo degli agenti, né per i radiati dall’Albo agenti che vogliano
iscriversi, come nel caso in esame, nell’Albo dei mediatori.
Pertanto, non sembra necessario richiedere il decorso del predetto periodo di tempo, dal momento che
nessuna norma contempla l’ipotesi specifica che qui si sta considerando.
Il secondo aspetto, ossia quello attinente alla sussistenza di titoli equipollenti alla prova di idoneità,
richiede un esame più approfondito delle disposizioni vigenti in materia e della ratio ad esse sottesa.
Se si analizza la l. agenti, la norma che potrebbe essere preclusiva alla richiesta di iscrizione in questione
è rappresentata dal combinato disposto degli artt. 10 co. 3 e 5 co. 1 lett. b): in virtù del richiamo effettuato
dall’ultimo comma dell’art. 10 a tutte le disposizioni della legge per l’iscrizione all’Albo, risulta che la circostanza
di essere già stati iscritti nell’Albo nei cinque anni precedenti alla cancellazione costituisce titolo equipollente alla
prova di idoneità, purché tale cancellazione non sia stata determinata da provvedimenti disciplinari – come nel caso
di radiazione –.
Analoga disposizione è dettata dalla l. mediatori, art.4 co. 4 lett. a), sempre ai fini dell’esonero dalla prova
d’idoneità per l’iscrizione nel rispettivo Albo.
Il dettato normativo sembra chiaro: in tanto la pregressa esperienza acquisita come agente o mediatore
assicurativo può essere equiparata alla prova di idoneità, in quanto la cancellazione sia stata dovuta a cause che
esulano dal mancato rispetto dei doveri deontologici e di tutto ciò che concerne il decoro professionale; ove la
cancellazione fosse, invece, conseguenza di un provvedimento disciplinare, è indubbio che l’esperienza maturata
precedentemente – per una scelta legislativa penalizzante – non potrebbe assumere rilevanza ai fini
dell’equipollenza.
Nonostante le due norme ora citate si riferiscano ciascuna esclusivamente all’Albo per cui sono dettate, e
non siano estese alle ipotesi di “transito” da un Albo all’altro, esse risultano comunque utili in questa sede a fornire
una chiave di lettura per interpretare la disposizione che contempla più direttamente l’ipotesi che qui interessa:
l’art. 4 co. 4 lett. b) l. mediatori consente l’esonero dalla prova d’idoneità, per l’iscrizione all’Albo mediatori, a
coloro che siano stati per almeno un quadriennio agenti iscritti nella I sezione dell’Albo, ma – punctum dolens –,
nel consentire ciò, non fa alcun riferimento, ai fini di escluderli, ai casi di cancellazione per radiazione.
Sicché, se si considera il mero dato testuale, verrebbe da ritenere che un agente, anche se
precedentemente radiato, avrebbe la facoltà di iscriversi all’Albo mediatori senza sostenere la prova d’idoneità.
A sostegno di tale tesi, si potrebbe anche rimarcare che l’atto di iscrizione all’Albo è un atto di
accertamento costitutivo, rispetto al quale l’autorità amministrativa deve limitarsi a verificare la sussistenza dei
requisiti richiesti dalla legge; e che, del resto, se il legislatore avesse voluto escludere l’ipotesi di cancellazione da
altro Albo dovuta a provvedimento disciplinare, lo avrebbe senz’altro fatto esplicitamente, come nelle altre due
norme esaminate. Peraltro, sotto quest’ultimo rilievo, pare più plausibile pensare che il mancato riferimento al caso
di cancellazione suddetta sia non tanto un aspetto espressamente voluto dal legislatore, quanto piuttosto, e più
semplicemente, il frutto del sempre più evidente mancato coordinamento tra la l. agenti e la successiva l. mediatori.
Esaminando, invece, la fattispecie più in generale, deve obiettarsi che ricorrono principi e ragioni sottesi
alla normativa Albi, che non possono essere disconosciuti, pena una contraddizione interna al sistema stesso. Ciò
suggerisce la possibilità di un’interpretazione sistematica della disciplina de qua, in virtù della quale si possa
ritenere implicito nel testo dell’art. 4 co. 4 lett. b) che il periodo di iscrizione all’Albo, per poter valere ai fini
dell’equipollenza, non debba essere stato successivamente interrotto da provvedimento disciplinare. In altri termini,
consentire l’iscrizione all’Albo mediatori a un agente radiato, e viceversa, senza il rispetto dei requisiti richiesti,
non sarebbe coerente con il sistema normativo ora esaminato e potrebbe tradursi, in ultima analisi, in un’elusione di
legge.
Ciò che può sorreggere l’interpretazione sistematica è il dato di legge per cui la pregressa esperienza di
agente, protratta per un periodo determinato, genera equipollenza ai fini dell’iscrizione nell’Albo mediatori allo
stesso modo in cui, in senso reciproco, la pregressa esperienza di mediatore, parimenti protratta per un periodo
determinato, genera equipollenza ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti.
Ciò significa che nella valutazione dell’equipollenza il riferimento ai singoli Albi esprime una propria
neutralità mentre ciò che rileva è l’inerenza dell’attività svolta al settore assicurativo.
Accogliendo tale ordine di idee, è consentito ritenere che la radiazione da uno o dall’altro Albo, privando
l’interessato della legittimazione a far valere l’equipollenza come misura repressiva accessoria di un
comportamento giudicato gravemente violativo dei principi di corretta deontologia, non gli dia titolo di iscriversi a
nessun Albo, potendo ai fini dell’iscrizione valere soltanto il superamento della prova di idoneità.
25.8.
Variazione dell’attività di mediazione da quella assicurativa a quella riassicurativa di soggetto iscritto
nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione
La disciplina che regola l’esercizio dell’attività di mediazione impone l’iscrizione del soggetto interessato
nell’Albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. L’iscrizione all’Albo è subordinata, come è noto, anche
al superamento di una prova di idoneità, finalizzata principalmente ad accertare la conoscenza di tutti gli aspetti
tecnici e giuridici indispensabili all’esercizio di tale professione. E’ opportuno rilevare che il legislatore ha inteso
differenziare le prove di idoneità a seconda che si tratti di attività di mediazione assicurativa o riassicurativa,
richiedendo per quest’ultima la conoscenza di materie ulteriori rispetto a quelle già previste per la mediazione
assicurativa. La ratio di tale distinzione può essere ricondotta all’impossibilità di far coincidere perfettamente le
competenze professionali del mediatore di assicurazione e di quello di riassicurazione, nonché alla maggiore
complessità della tecnica riassicurativa.
Ciò premesso, nell’individuazione dei criteri che consentono il passaggio in questione si deve rispettare il
principio della diversificazione delle professionalità, al fine di garantire il mantenimento delle specifiche
competenze richieste. Pertanto, sembra da condividere l’orientamento che autorizza soltanto il passaggio dalla
mediazione riassicurativa a quella assicurativa ma non viceversa, ritenendo, quindi, sufficiente a tal fine il
superamento della prova di idoneità per la mediazione riassicurativa, in quanto comprensiva delle materie già
previste per l’esame da mediatori di assicurazione.
Nella diversa ipotesi in cui il soggetto interessato possa vantare il titolo equipollente dell’esercizio
almeno quadriennale e continuativo di mansioni direttive in un’impresa di assicurazioni pubblica o privata o in
un’impresa di brokeraggio, o dell’essere stato per lo stesso periodo agente di assicurazione iscritto nella I sezione
del relativo albo (vedi art. 4, ultimo comma, lettera b) della legge 792/1984), o infine, di aver svolto per almeno un
quadriennio mansioni direttive in qualità di socio o di consigliere di amministrazione di un’impresa di mediazione
assicurativa o riassicurativa, il passaggio dall’una all’altra attività può, invece, aver luogo in ogni caso. La
sussistenza del titolo equipollente, nella visione del legislatore, rappresenta, invero, sufficiente garanzia della
competenza tecnico professionale del soggetto che intenda svolgere l’incarico di mediatore.
Alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene che il solo superamento della prova di idoneità in materia
assicurativa non sia titolo sufficiente per il passaggio all’esercizio dell’attività di mediazione riassicurativa;
l’iscrizione, comunque, potrà essere concessa in virtù del titolo equipollente.
25.9.
Considerazioni sugli artt. 5, comma 2 e 9, comma 1, lett. d) della legge 7 febbraio 1979 n. 48.
Nel sistema delineato dal legislatore, l’equipollenza di talune esperienze professionali costituisce un
criterio derogatorio rispetto alla regola generale per la quale l’iscrizione all’Albo Nazionale Agenti di
assicurazione, è condizionata, oltre al possesso di altri requisiti, al superamento di una prova di idoneità ai sensi
dell’art. 4, lett. d), legge n. 48/79.
Ciò significa che le disposizioni introdotte dall’art. 5, lett. c) della legge n. 48/79, per l’eccezionalità che
le connota, sono soggette a canoni d’interpretazione restrittivi. Pertanto, considerato che la legge prevede che lo
svolgimento di una certa attività, per essere ritenuto equivalente all’aver sostenuto, con esito positivo, la prova
d’idoneità, debba avvenire in modo continuativo (in quanto presuntivamente la non interruzione dell’esercizio della
stessa garantisce il conseguimento del necessario standard di professionalità), è da intendersi che l’integrazione
della fattispecie si profili solo qualora l’attività venga effettivamente svolta dall’interessato senza alcuna soluzione
di continuità.
Se le disposizioni di cui all’art. 5, lett. c), apportano una deroga alla regola generale della lett. d) dell’art.
4, ulteriore deroga (allo stesso art. 5, lett. c) è posta dal comma 2 dell’art. 5, ove è stabilito che costituisce titolo
equipollente l’aver svolto, nel quinquennio antecedente la data della presentazione della domanda di iscrizione,
purchè in modo continuativo, anche più di una delle attività di cui alla lett. c): in altre parole, la legge
eccezionalmente prevede che il titolo di equipollenza possa desumersi dalla sommatoria di periodi di attività aventi
carattere diverso che, però, per la continuità che li lega, sono tali da configurare un unicum.
Dal carattere derogatorio che accomuna le cennate disposizioni legislative discendono alcune logiche
conseguenze.
Il canone ermeneutico restrittivo si ritiene debba essere mantenuto anche qualora siano diversi i contesti
delle attività svolte, in modo da garantire che le stesse, anche se diverse, risultino in relazione di continuità le une
alle altre per essere equiparate all’unica attività richiesta all’art. 5, lett. c). L’utilizzo di un’interpretazione estensiva
sarebbe, invece, suscettibile di dar vita ad una disparità di trattamento tra coloro che abbiano svolto una sola delle
attività previste dalla legge e quanti ne abbiano espletato più di una.
25.10. Iscrizione di agente a seguito di sentenza patteggiamento
E’ stato approfondito il caso di un agente a carico del quale è stata pronunciata una sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti che richiede l’iscrizione nell’Albo dopo il passaggio giudicato della
decisione.
Si pone il problema della natura giuridica della sentenza pronunciata sull’accordo delle parti, il cosiddetto
patteggiamento, che è termine mal tradotto dal plea bargaining anglosassone. In particolare, si tratta di stabilire se
si debba riconoscere a tale tipo di pronuncia valore di condanna, con la conseguenza di riconnettere ad essa,
qualora concerna taluni delitti previsti dalla legge, gli effetti preclusivi stabiliti dalla legge ovvero ritenere che la
medesima non sia assimilabile ad una condanna in quanto priva della cognitio plena, possibile solo in un processo
celebrato secondo il rito ordinario.
L’analisi della disciplina dell’istituto previsto agli artt. 444-448 c.p.p., pare condurre – pur constando un
difforme orientamento di parte della giurisprudenza – alla conclusione che la sentenza emessa a seguito di
patteggiamento non abbia la natura propria della sentenza di condanna, in quanto non consegue ad un accertamento
pieno della fondatezza dell’accusa e della responsabilità dell’imputato; non implicando un necessario
riconoscimento di colpevolezza, essa non può ritenersi causa disonorante né, quindi, comportare la decadenza
dell’imputato dalla carica rivestita.
Oltre che in autorevole dottrina, tale tesi trova conforto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale
(Sent. 6 giugno 1991, n. 251) ove si è rilevato che, qualora fosse accolta una diversa interpretazione, potrebbe
sorgere questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega ex art. 76 della Costituzione rispetto alle
disposizioni regolanti l’istituto del patteggiamento, segnalandosi, altresì, il possibile contrasto con la Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Per vero, il d.m. 24 aprile 1997 n. 186 sui requisiti di onorabilità e professionalità degli esponenti di
vertice di imprese di assicurazione e di enti controllanti o detentori di partecipazioni qualificate nel relativo capitale
– per il quale pure è rilevante la questione del valore del patteggiamento – sembra aver, seppur in maniera parziale
e indiretta, risolto la querelle, stabilendo che incorrono in una causa disonorante coloro che abbiano riportato una
condanna con sentenza definitiva, salvi gli effetti della riabilitazione, nonché della sospensione condizionale, alle
pene previste all’art. 2, lett. c) del citato decreto ministeriale. Considerato che nella disciplina del patteggiamento è
previsto, dall’art. 444, comma 3°, c.p.p., che la parte, nel formulare la richiesta, possa subordinarne l’efficacia alla
concessione della sospensione condizionale della pena, e che ordinariamente l’imputato si avvale di tale facoltà, è
evidente che nella maggior parte dei casi, ottenuto il beneficio richiesto, lo stesso non incorra nella perdita del
requisito dell’onorabilità.
Una ricognizione della giurisprudenza ha evidenziato, come si è potuto accertare, che i contrasti sulla
questione, non sono, allo stato, sopiti.
In linea generale, accanto a pronunce che statuiscono la non equiparabilità della sentenza conseguente al
giudizio speciale ex art. 444 c.p.p. a condanna (Cass. Pen., Sez. V, 20 marzo 1998, n. 1776; Consiglio di Stato, Sez.
IV, 23 ottobre 1998, n. 382; Consiglio di Stato, Sez. IV 12 dicembre 1997, n. 1416), ve ne sono altre contenenti
dicta di segno opposto (Cass. Pen., Sez. III, 3 aprile 1998, n. 5750; Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 ottobre 1998, n.
1298 e, da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 gennaio 1999 n. 76). Recentemente anche la Commissione
speciale per il pubblico impiego ha affrontato la vexata quaestio e, dopo una disamina delle pronunce dei giudici di
legittimità e costituzionali, il 3 febbraio 1999 ha concluso nel senso che la sospensione obbligatoria dal lavoro non
operi nelle ipotesi di patteggiamento.
In particolare, sul rapporto tra sentenza “patteggiata” e procedimento disciplinare, il Consiglio di Stato in
sede giudicante non ha ancora trovato un indirizzo uniforme, pur avendo ritenuto in sede consultiva che il
patteggiamento non integri una condanna (v. parere n. 413 del 13 luglio 1998 e n. 437 del 17 maggio 1999). Con la
cennata pronuncia n. 76/99, la IV Sezione si è espressa nel senso che la pronuncia su patteggiamento equivalga ad
una condanna, mentre precedentemente, con la decisione 681/96, aveva manifestato difforme orientamento.
Da ultimo, è intervenuta una pronuncia della VI Sezione, la quale ha statuito che l’applicazione della pena
su richiesta non comporti un accertamento della responsabilità dell’imputato in merito ai reati ascrittigli. A tal
proposito, alcuni passi della massima sono particolarmente esplicativi dell’orientamento assunto: “La non
equivalenza della sentenza di patteggiamento alla decisione di condanna deriva dalla funzione stessa dell’istituto
che non consiste nell’accertamento, con gli effetti propri del giudicato dell’esistenza del reato, ma piuttosto nella
risoluzione in tempi brevi del procedimento con l’irrogazione della sanzione derivante dall’accorto intervenuto tra
le parti in giudizio, approvato dall’autorità giudicante. Ne consegue che, anche in sede di procedimento
disciplinare amministrativo, l’amministrazione, pur potendo tener conto dei fatti emersi nel corso del
procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento, non solo non può ritenere accertata
giudizialmente l’esistenza del reato …” (Consiglio di Stato…).
Al fine di evitare ulteriori incertezze e contrasti giurisprudenziali la questione in esame è stata deferita
all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato dalla VI Sezione, con ordinanza n. 295 del 1997 e dalla V Sezione,
con ordinanza n. 500 del 1997.
La conclusione raggiunta è quella della non equiparabilità della sentenza pronunciata sull’accordo delle
parti ad una condanna, escludendosi, perciò, che la medesima possa comportare la cancellazione dell’agente
dall’Albo ai sensi e per gli effetti del combinato disposto dagli artt. 9, lett. d) e 4, lett. c) della legge n. 48/1979. La
cancellazione dall’albo, inoltre, non offre le garanzie previste a favore dell’agente che venga sottoposto, invece, a
procedimento disciplinare; pertanto sembra eccessivo riconnettere ad una pronuncia non fondata su una cognizione
piena una conseguenza così radicale.
Le osservazioni appena svolte non precludono, peraltro, la possibilità di acquisire la sentenza alla stregua
di una notitia criminis implicante l’apertura di un procedimento disciplinare a carico dell’interessato, nel cui
contesto venga utilizzato, se del caso, il materiale probatorio emerso in sede penale per valutarne la rilevanza sul
piano disciplinare.
25.11. Art. 4, comma 1, legge 7 febbraio 1979 n. 48 – cittadino extracomunitario – requisito della reciprocità.
Si è affrontata la questione relativa all’iscrizione all’Albo Agenti, di una cittadina rumena residente in
Italia, attualmente subagente professionista nel territorio della Repubblica.
Necessaria premessa alla stessa teorica possibilità è che la cittadina extracomunitaria abbia maturato in
Italia il titolo equipollente, ai fini dell’iscrizione medesima, ai sensi dell’art. 5, lett. c), n. 4 della citata legge il
quale – com’è noto – consiste nell’esser stato, per almeno due anni, in modo continuativo subagente professionista,
tale intendendosi, per espresso dettato di legge, colui che, con l’onere di gestione a proprio rischio e spese, dedica
abitualmente e prevalentemente la sua attività professionale all’incarico affidatogli da un agente, senza esercitare
altra attività imprenditoriale o lavorativa, subordinata o autonoma. La questione – si è premesso – non è risolvibile
alla luce dell’art. 35, legge n. 40/98 che disciplina il diverso caso in cui lo straniero già possegga il titolo
professionale abilitante all’esercizio della professione per averlo conseguito all’estero e richieda tuttavia
l’iscrizione all’albo in Italia, venendo in tal caso in considerazione l’interpretazione da darsi all’enunciato relativo
al “possesso dei titoli professionali legalmente riconosciuti in Italia abilitanti all’esercizio delle professioni” (art.
35, co. 1).
Trattandosi invece di titolo conseguito in Italia, alla questione può darsi risposta affermativa per le
considerazioni che seguono:
a)
in materia di attività agenziale non può ritenersi prevista ex lege una riserva assoluta di attività a
favore del cittadino italiano, considerato che la legge n. 48/1979 non preclude al cittadino extracomunitario
l’iscrizione all’albo ma piuttosto, con l’art. 4, comma 1, lett. a), ne subordina l’iscrizione alla condizione che
analogo trattamento sia riservato ai cittadini italiani nel paese di origine dello straniero (c.d. condizione di
reciprocità);
b)
l’art. 9, 4° comma, lett. c del testo unico adottato con d.lgs. 25.7.1998 n. 286 (corpus normativo in
cui è stata trasfusa la legge 6.3.1998 n. 40) riconosce allo straniero regolarmente soggiornante in Italia il diritto di
svolgere ogni attività lecita, salvo che la legge espressamente la vieti allo straniero o comunque la riservi al
cittadino italiano;
c)
in coordinamento con il generale principio appena espresso, la condizione di reciprocità, il cui
immediato referente è costituito dall’art. 16 delle disposizioni preliminari al codice civile, non appare più
invocabile nei confronti del cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia, giusta le disposizioni
dell’art. 2 del citato d.lgs. 286/98 e, segnatamente, dell’art. 1, 2° comma del regolamento recante norme di
attuazione (d.P.R. 394/1999) ove è stabilito che “l’accertamento della condizione di reciprocità non è richiesto per
i cittadini stranieri titolari della carta di soggiorno di cui all’art. 9 del testo unico (d.lgs. 286/1998: ndr), nonché
per i cittadini stranieri titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o di lavoro autonomo,
per l’esercizio di un’impresa individuale …”;
d)
la caducazione del principio di reciprocità nei confronti del cittadino straniero, purché regolarmente
soggiornante in Italia, comporta che al medesimo non sia più applicabile l’inciso dell’art. 4, comma 1, lett. a) della
legge istitutiva dell’Albo agenti di assicurazione;
e)
venuta meno tale condizione, al cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia,
sempreché sia in possesso degli altri requisiti previsti dalla legge 48/79, si ritiene consentita l’iscrizione all’Albo
Nazionale agenti di assicurazione.
Ottenuta l’iscrizione all’albo agenti, il cittadino extracomunitario potrà esercitare l’attività di agente solo
qualora abbia assolto alle condizioni poste dall’art. 26 (Ingresso e soggiorno per lavoro autonomo) del testo unico
riguardo all’esercizio del lavoro autonomo da parte dello straniero in Italia e dettagliatamente previste dall’art. 39
del suo regolamento di attuazione.
A tali disposizioni normative occorre fare diretto rinvio per la completezza del quadro disciplinare.
Sinteticamente può però osservarsi che le misure precauzionali richieste dalla legge sull’immigrazione
annoverano, oltre al possesso dei requisiti stabiliti dalla legge italiana per l’iscrizione all’albo, la dimostrazione di
disporre di risorse finanziarie adeguate all’attività che il cittadino straniero intende intraprendere in Italia nonché il
possesso di una attestazione dell’autorità competente che non sussistono motivi ostativi al rilascio
dell’autorizzazione o della licenza prevista per la suddetta attività. Da una parte, le soprarichiamate condizioni
colmano le lacune della c.d. legge Martelli, che nulla prevedeva per gli immigrati che intendessero svolgere lavoro
autonomo in Italia; dall’altra, perseguono il fine di impedire che le più svariate attività vengano intraprese in
assenza di garanzie minime di affidabilità, senza, ad esempio, disporre di adeguati mezzi finanziari, assolutamente
necessari quando si intraprende un’attività non occasionale di lavoro autonomo.
25.12. Valutazione dei titoli equipollenti ai fini dell’iscrizione nell’albo nazionale Agenti di assicurazione configurabilità per il procuratore dell’agente di città del titolo equipollente ex art. 5, lett.c), punto 3 della
legge 48/1979.
E’ sorta questione se possa ritenersi o meno integrato il requisito, necessario ai fini dell’equipollenza ai
sensi dell’art. 5, lett.c) della legge 48/1979, nel caso di procura conferita da un agente di città il cui mandato è stato
rilasciato dal Consorzio Agenzia Generale Ina –Assitalia di Roma in gestione diretta.
Per l’eventualità che il quesito appena esposto trovi risoluzione nel senso positivo, si è posta l’ulteriore
questione, consistente nel decidere se considerare esauriente la dichiarazione, inerente al riconoscimento della
procura, che sia stata rilasciata dal rappresentante del predetto Consorzio, alla luce del provvedimento Isvap 28
giugno 1999 n. 1201, secondo cui deve essere prodotta una dichiarazione, con firma autenticata, del rappresentante
legale della compagnia di assicurazione preponente, attestante l’avvenuto riconoscimento del procuratore da parte
della compagnia medesima.
Al primo quesito è sembrato possibile dare una risposta affermativa, ferma restando l’opportunità di
taluni accertamenti in punto di fatto, segnatamente per quanto attiene all’iscrizione dell’agente di città alla prima
sezione dell’Albo e all’avvenuta comunicazione da parte dell’impresa del conferimento del mandato all’agente di
città.
In altri termini, attraverso la struttura consortile, può dirsi che la compagnia eserciti un’attività di directmarketing. In tale prospettiva, parrebbe ininfluente l’individuazione del rapporto intercorrente in punto di diritto tra
compagnia e consorzio, risultando evidente che il consorzio, al di là dell’autonomia soggettiva di cui gode, si
configuri come una struttura decentrata in ragione del fatto che, per quanto qui consta, le spese occorrenti per
l’esercizio delle attività di gestione e di promozione di contratti di assicurazione sono sopportate integralmente
dalla committente.
Il gerente del Consorzio si presenta quindi come un institore della compagnia. Secondo un orientamento
accreditato in dottrina, il gerente del consorzio riveste, più specificamente, la posizione di rappresentante stabile di
una sede secondaria dell’impresa assicurativa, agendo in nome e per conto della compagnia; in virtù di tale
sostanziale immedesimazione, il Consorzio conferisce mandati agenziali ai c.d. agenti di città, i quali vanno
considerati agenti a tutti gli effetti, con la conseguenza dell’obbligo di iscrizione nella I sezione dell’Albo
nazionale.
Sul punto deve infatti rilevarsi che la dottrina ha sciolto i dubbi derivanti dalla circostanza che l’agente di
città riceve il proprio mandato dal Consorzio Agenzia Generale Ina-Assitalia invece che dalla direzione generale
delle compagnie, nel senso di considerare il medesimo, anziché un semplice sub-agente, un vero e proprio agente,
legittimato a iscriversi all’albo agenti istituito con legge 7 febbraio1979, n.48, in base al rilievo che, se è vero che
l’agente di città opera per il tramite delle gestioni in economia, è altrettanto vero che coloro che sono preposti a tali
gestioni non sono altro che institori dell’impresa. Seguendo tale tesi, l’agente in gestione libera svolge l’attività
promozionale sempre per conto dell’impresa, ma per il tramite di una delle sue gestioni in economia, intrattenendo
perciò rapporti diretti non con la direzione, bensì con una gerenza o una gestione in economia.
Si osserva altresì che tale ricostruzione riceve un esplicito avallo nell’Accordo Nazionale Agenti del
1994, ove è stabilito che l’accordo stesso si applica agli agenti di città (note a verbale dell’art. 1); in particolare,
l’agente di città riceve una sorta di riconoscimento all’art. 2 che, dopo aver definito al I comma il concetto di
agente di assicurazione, al II comma prescrive che il contratto di agenzia debba specificare se si tratti di agente il
cui contratto è stipulato con l’impresa per il tramite della direzione oppure di “agente di città” e cioè di agente
operante nella zona di una gestione di economia, il cui contratto di agenzia è stipulato con detta gestione o
direttamente con l’impresa per la gestione stessa.
Le considerazioni sin qui espresse sono valse anche a risolvere il secondo quesito nei termini che
seguono:
1) l’essere stato, continuativamente per il periodo di due anni prescritto dalla legge, procuratore
dell’agente di città riconosciuto dall’impresa è suscettibile di integrare il titolo di equipollenza di cui all’art. 5, lett.
c), punto 3; di tale circostanza dovrà il procuratore fornire supporto probatorio secondo quanto richiesto dal
cennato provvedimento Isvap all’art. 1, comma 4, lett. d);
2) la dichiarazione, con firma autenticata, rilasciata dal rappresentante del Consorzio e attestante
l’avvenuto riconoscimento del procuratore, equivale a dichiarazione promanante dalla compagnia; ciò dicesi in
forza del rapporto institorio, ex art. 2203 cod.civ., che connette ad essa il gerente del consorzio, attribuendogli i più
ampi poteri di gestione e di rappresentanza dell’impresa preponente, nel cui contesto si ritiene sia da ricomprendere
anche quello di sottoscrivere la cennata dichiarazione.
25.13. Iscrizione presso l’Albo degli agenti ai sensi dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979 di
direttore generale di impresa di assicurazione
In ordine all’iscrivibilità nell’Albo di un cessato direttore generale di impresa assicurativa si è
osservato che il direttore generale è dipendente della società nel senso che con essa intrattiene rapporto di
lavoro subordinato vero e proprio.
Più in particolare, la disciplina di cui all’art. 2396 C.C. - la quale, come noto, estende ai direttori
generali la disciplina della responsabilità prevista per gli amministratori - si giustifica in ragione dei poteri di
direzione di tipo generale esercitati dai soggetti in parola nonché in ragione della fonte di tali poteri (atto
costitutivo o delibera assembleare) onde gli stessi assumono una posizione di autonomia rispetto agli
amministratori.
Anche la giurisprudenza (Cass., sez. lav., 10 novembre 1987, n. 8279) ha affermato che le funzioni e
le responsabilità di amministratore di una società per azioni e quelle di direttore generale, anche se affidate
alla stessa persona, sono concettualmente diverse, l’una consistendo nella gestione dell’impresa, l’altra
nell’esecuzione, seppur al più elevato livello, delle disposizioni generali impartite nel corso di tale gestione, a
nulla rilevando che al direttore generale possano essere affidati compiti di contenuto analogo a quelli
incombenti sugli amministratori, sì che in concreto risulti difficoltoso ricollegare un atto all'una o all'altra
funzione.
Ne consegue che, ove nella stessa persona si cumulino le funzioni di amministratore e di direttore
generale, s’instaurano due distinti rapporti, rispettivamente di amministrazione e di lavoro subordinato.
Contro il sopra riportato inquadramento della figura non vale l’osservazione, secondo cui il rapporto
con il soggetto richiedente l’iscrizione procedeva “senza alcun vincolo di subordinazione”.
A tal riguardo, infatti, delle due l’una: o l’istante è direttore generale della società considerata ed a ciò
non può non conseguire la qualificazione in termini di rapporto di lavoro dipendente e di conseguente
iscrivibilità nell’Albo ovvero, in caso contrario, dovrebbe ritenersi che nella società rivestisse una posizione
diversa, in ipotesi non rientrante nell’ambito dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1 legge 48/1979 con le
conseguenze che ne derivano.
25.14. Iscrivibilità all’Albo Agenti di un socio-amministratore di impresa di brokeraggio
Si è ritenuto possibile l’iscrizione presso l’albo degli agenti di socio amministratore di s.n.c. avente ad
oggetto la mediazione assicurativa.
L’iscrizione presso l’albo degli agenti, come noto, consegue al superamento del previsto esame
d’idoneità.
Risponde al vero che rispetto a questa regola generale il godimento dei titoli equipollenti è materia di
stretta interpretazione nel senso che l’iscrizione consegue al possesso di uno di essi da parte dell’istante nei
termini previsti dalle singole norme che li riconoscono, senza possibilità d’interpretazione analogica.
Va tuttavia ribadito come un’interpretazione strettamente letterale, non corretta dal criterio
teleologico, possa portare a risultati ermeneutici insoddisfacenti e persino privi di ragionevolezza giuridica.
Deve intanto rilevarsi l’esistenza, nella normativa in commento, d’una incongruenza, laddove la
stessa consente l’iscrizione in base al titolo equipollente per l’eventuale dipendente che eserciti funzioni
dirigenziali in società di brokeraggio e non parimenti a chi eserciti l’attività assicurativa in posizione di piena
responsabilità per l’essere della stessa socio illimitatamente responsabile ed anche amministratore unico.
Il criterio d’interpretazione proposto si sustanzia, insomma, nell’effettività dell’attività di trattazione
di affari assicurativi, riguardata in rapporto alle peculiarità del caso in riferimento.
In realtà societarie di piccole dimensioni appare inusitata la distinzione, caratteristica delle società
medio-grandi, tra amministratori – cui compete l’indirizzo dell’impresa – e direttori generali – cui compete
un’attività di alta gestione, pur se limitata all’attuazione delle direttive impartite dagli amministratori.
Può risultare allora non assistita da giuridica ragionevolezza l’interpretazione della norma in discorso
secondo cui il godimento del titolo equipollente è riconosciuto a chi – pur al vertice della piramide dei
lavoratori subordinati d’impresa medio-grande – svolge compiti meramente esecutivi mentre è negato a chi in
impresa di dimensioni più piccole cumula in sé le funzioni di direzione dell’impresa e le funzioni esecutive
degli indirizzi assunti.
Che l’equipollenza sia data dall’effettività d’esercizio d’una determinata attività è assunto che si
coglie anche in un parere espresso dall’ufficio legislativo del Ministero dell’Industria ove non a caso il diniego
di titolo equipollente viene riferito alla carica di presidente, in quanto dotato di poteri meramente
rappresentativi, non invece operativi, in seno all’ente societario.
La norma dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979 si manifesta come disposizione che
segna il limite inferiore quanto al riconoscimento della professionalità in discorso.
Si giustifica, pertanto, una cauta applicazione del criterio teleologico, pur con riguardo a norme
derogatorie rispetto al regime ordinario, che consenta di fornire un’interpretazione duttile e non rigida d’una
fattispecie peculiare, rispetto alla quale sembrerebbe potersi escludere ogni effetto di tipo pervasivo.
Si ribadisce, infine - nel dare soluzione affermativa al quesito in premessa - che rinvenire nella tutela
della professionalità sostanzialmente conseguita da parte di determinati soggetti il fine che si può
ragionevolmente ritenere il legislatore abbia voluto perseguire si presenta, con riguardo a provvedimenti
normativi di impronta fortemente corporativa, strumento interpretativo correttivo, volto ad evitare gli effetti
distorsivi cui porterebbe un’interpretazione strettamente letterale.
25.15. Iscrizione nell’Albo Nazionale degli Agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. c), punto 1),
della legge 7 febbraio 1979, n. 48 di presidente del consiglio di amministrazione e rappresentante legale di
impresa di mediazione assicurativa, iscritto nell’Albo Broker
La questione riguarda la possibilità d’iscrizione nell’Albo Nazionale degli Agenti, senza sostenere il
prescritto esame d’idoneità, di soggetto precedentemente iscritto nell’Albo dei mediatori di Assicurazione e
successivamente investito dell’incarico di presidente del consiglio di amministrazione, nonché di rappresentante
legale di una società di mediazione assicurativa, con poteri di ordinaria amministrazione.
L’art.5, comma 1, lett. c), punto 1), della legge 48/79, prevede la possibilità d’iscrizione nell’Albo in
oggetto colui che abbia svolto nei cinque anni antecedenti alla data della richiesta d’iscrizione all’Albo “attività
lavorativa per almeno due anni in modo continuativo con qualifica di dirigente alle dipendenze di un’impresa di
assicurazione, pubblica o privata o di un’impresa prevista dall’art. 5 della legge istitutiva dell’albo dei mediatori di
assicurazione”. La sussistenza di tale requisito costituisce titolo equipollente della prova d’idoneità di cui all’art. 4,
lettera d), della medesima legge.
La peculiarità del caso di specie consiste nel fatto che, a richiedere l’iscrizione, sarebbe il presidente
del consiglio di amministrazione, di una s.r.l. di mediazione assicurativa, investito della rappresentanza legale e
dei poteri di ordinaria amministrazione.
Riguardo alla figura del presidente del consiglio di amministrazione di una società, si osserva che esso
decide quale primus inter pares all’interno del consiglio di amministrazione, contribuendo a formare la volontà
dell’ente ed a fissare le linee generali per il raggiungimento degli scopi sociali. La natura della carica, quindi, è la
medesima degli altri amministratori, ma sul piano concreto tale figura è arricchita dal potere di esprimere il voto
decisivo in seno al consiglio e dal potere di rappresentanza esterna della società.
Nel caso in cui il Presidente sia anche l’unico amministratore abilitato a trattare gli affari assicurativi in
quanto broker, egli accentra la sua primarietà all’interno dell’organo amministrativo e, per quanto qui interessa, può
dirsi che sviluppi quella esperienza nel settore richiesto dalla legge ai fini dell’equipollenza.
Ciò stante, si è ritenuto coerente superare il dato strettamente letterale, in favore di un’interpretazione
teleologicamente orientata al rispetto della ratio della norma: l’iscrizione non solo dei dirigenti alle dipendenze
d’imprese di assicurazione o di mediazione assicurativa, bensì anche di coloro i quali nel periodo d’osservazione,
nell’ambito della determinazione dell’indirizzo generale dell’impresa, abbiano direttamente gestito affari
assicurativi così da acquisire tutte quelle competenze che renderebbero “superfluo” l’esame d’idoneità, in misura
pari rispetto ad un eventuale dirigente-dipendente.
25.16. Cancellazione dall’Albo agenti di assicurazione ai sensi dell’art. 11, ult.co., legge 48/1979. Retroattività
del relativo provvedimento.
Con riguardo agli effetti di una cancellazione dall’Albo agenti per perdita dei requisiti di inscrizione, si è
osservato che iscrizione e cancellazione si presentano come atti interamente vincolati sia nell’emanazione, che nel
contenuto e negli effetti, in quanto tali privi di margini di discrezionalità.
Nel caso di cessazione del mandato agenziale e di conseguente trasferimento dell’agente, con effetto dalla
stessa data, - vale a dire, come l’art. 11 L. agenti prevede, dalla data di risoluzione del rapporto agenziale - alla
seconda sezione dell’Albo, questi, non avendo ricevuto altri incarichi nei successivi cinque anni, deve essere
cancellato d’ufficio; infatti, l’art. 11 legge agenti, prevede che “sono cancellati dall’albo gli iscritti alla seconda
sezione ai quali per cinque anni non siano stati conferiti incarichi di agenti”.
Nel caso in cui la cancellazione non sia stata effettuata per non avervi provveduto il Ministero
dell’Industria, pur ricorrendo i requisiti previsti dalla legge, si è ritenuto che si possa provvedere alla cancellazione
dell’agente dall’Albo con effetto retroattivo, a decorrere dalla data di verificazione della condizione richiesta dalla
legge.
25.17. Iscrizione nell’Albo degli agenti di assicurazione di subagente professionista con il titolo equipollente alla
prova di idoneità; criterio della prevalenza e/o esclusività dell’attività professionale svolta – Art. 5 lettera
c), punto 4), della legge 7 febbraio 1979, n. 48.
Per trovare soluzioni esaurienti alla problematica relativa alla prevalenza o esclusività richieste ai fini
dell’equipollenza dall’art. 5, lett. c), punto 4, legge n. 48/79, occorre preliminarmente soffermarsi sulla ratio sottesa
alla norma. Sotto questo profilo, poiché i titoli equipollenti sono sostitutivi dell’esame di idoneità, è necessario che
essi siano tali da garantire il possesso di quelle cognizioni che normalmente sono oggetto di accertamento in sede di
esame. Ed è per comprovare il possesso della necessaria qualificazione professionale che l’art. 5 lettera c), punto 4)
della legge 48/79 richiede il compiuto svolgimento dell’attività subagenziale in modo “esclusivo”, o, quantomeno,
prevalente. Infatti, qualsiasi altra attività svolta in modo abituale, cioè “non meramente occasionale”, e prevalente,
vale a dire con assorbimento continuo d’impegno lavorativo, confliggerebbe con l’interesse che la legge intende
soddisfare, sottraendo possibilità di apprendimento e specializzazione al subagente.
Tale principio trova applicazione, in via generale, a prescindere dalla natura dell’attività effettivamente
svolta dal subagente, che in ipotesi può essere anche estranea al settore assicurativo. Considerato, infatti, che la
norma non contiene alcun riferimento ad una possibile diversità di disciplina in relazione al tipo di attività svolta,
sarebbe una forzatura introdurla in via interpretativa.
In particolare, nel caso in cui il soggetto svolga attività di promozione finanziaria – pur sussistendo
un’indubbia affinità fra quest’ultima e quella assicurativa, quantomeno nel settore vita – le considerazioni appena
svolte fanno dubitare della possibilità di assimilare tale attività a quella assicurativa in senso stretto e, pertanto, essa
dovrebbe necessariamente classificarsi come attività estranea, con tutte le relative conseguenze in ordine alla
disciplina applicabile.
Ciò non esclude, in una logica evolutiva che sconta l’ampliamento di operatività in campo agenziale, la
possibilità di ricondurre nell’area delle mansioni subagenziali anche alcune attività tipiche dell’intermediazione
finanziaria.
Infatti, considerato che la norma in esame è interamente incentrata sul conferimento dell’incarico da parte
dell’agente, è possibile che il subagente, in virtù di apposita delega, si trovi a svolgere anche attività di tipo
finanziario, se essa rientra nell’attività svolta dall’agente.
Precisato ciò, il problema di più ardua soluzione concerne la ricerca del criterio individuativi del concetto
di prevalenza.
In assenza di più obiettivi parametri, sembra che l’interpretazione possa fare perno – in linea con le
indicazioni lessicali della norma – sul concetto di “abitualità e prevalenza”. La nozione di prevalenza potrebbe
desumersi, a contrario, da quella di occasionalità, intesa come episodicità e discontinuità. Ciò comporta che
l’iscrizione in virtù di titolo equipollente potrebbe essere concessa esclusivamente a coloro i quali abbiano
eventualmente svolto anche altre attivita’, oltre a quella subagenziale, ma solo in modo marginale. L’assunto trova
conforto in una rara giurisprudenza per la quale, nel biennio di interesse, si possono svolgere attività diverse,
esclusivamente di natura marginale ed occasionale, sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo (Tribunale di
Salerno, Prima Sezione Civile, n. 2440 del 15/11/97).
Conclusivamente, la norma in oggetto dovrebbe essere interpretata ammettendo l’iscrizione all’Albo
Agenti non solo di chi abbia svolto esclusivamente attività subagenziale, ma anche di coloro i quali abbiano svolto
tale attività in modo prevalente ed abituale, limitando l’attività estranea ad episodi occasionali e marginali.
25.18. Art. 5, lett. c), della legge 7 febbraio 1979, n 48 – titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’albo
nazionale degli agenti di assicurazione – collaboratore di impresa familiare
La richiesta di iscrizione nell’Albo agenti è stata esaminata con riguardo all’equipollenza maturata
attraverso collaborazione ad un’impresa familiare.
L’istituto dell’impresa familiare è stato introdotto con la legge 19 maggio 1975 n. 151 che ha
radicalmente modificato il “sistema” del diritto delle persone e della famiglia.
Scopo principale dell’istituto è la tutela – con una disciplina da considerarsi di ordine pubblico,
imperativa ed inderogabile – del lavoro prestato nell’ambito della famiglia, in precedenza oggetto di provvedimenti
legislativi caratterizzati da frammentarietà ed aventi come comune denominatore l’esclusione di tale forma di
prestazione di lavoro dal novero dei rapporti di lavoro subordinato e la sua riconduzione nell’ambito delle
prestazioni gratuite effettuate benevolentiae vel affectionis causa.
La nuova disciplina, avente carattere fortemente innovativo, è stata considerata da parte della dottrina
quale “statuto” del lavoratore familiare in quanto stabilisce i diritti inderogabili spettanti allo stesso - diritto agli
utili ed agli incrementi, diritto di prelazione e diritto alla liquidazione della quota - ed il potere di prendere parte
agli atti più rilevanti in seno all’impresa, concorrendo alle scelte programmatiche che ne influenzeranno la
gestione.
Per esplicita dizione dell’art. 230 bis C.C., peraltro, l’istituto ha carattere residuale nel senso che
l’esistenza di un diverso titolo di prestazione di lavoro ne esclude l’applicabilità.
Se, infatti, la natura dell’art. 5, lett. c), della legge 7 febbraio 1979 n. 48 di norma derogatoria del regime
generale di iscrizione presso l’albo agenti di assicurazione lascia orientare per l’insuscettibilità di una sua
interpretazione analogica, negare recisamente che la collaborazione fornita nell’ambito di impresa familiare possa
essere assimilata alla prestazione di lavoro subordinato avrebbe come effetto la sottoposizione di un tale prestatore
di lavoro ad un trattamento deteriore rispetto agli altri; sarebbe questo un risultato interpretativo ben singolare dal
momento che, come si è visto, l’istituto dell’art. 230 bis C.C. è nato proprio per tutelare il lavoro prestato
nell’ambito della famiglia.
L’impasse può essere superata, con il richiamo alla disciplina fiscale dettata in tema di impresa familiare
dall’art. 5, comma 4, del D.P.R. 29/09/1973 n. 597 e successive modificazioni ed integrazioni.
I redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49 % dell’ammontare risultante dalla dichiarazione
annuale dell’imprenditore, possono essere imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e
prevalente la propria attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
Tale imputazione è possibile a talune condizioni, tra cui quella che i familiari partecipanti all’impresa
risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto
pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione
dell’imprenditore e dei familiari partecipanti. Ai fini fiscali, pertanto, non è irrilevante che l’impresa familiare sia
stata formalizzata o meno.
L’istituto, invece, secondo l’opinione prevalente presso la dottrina civilistica, non ha natura negoziale ma
si costituisce in base al comportamento volontario e consapevole dei partecipanti, comportamento che acquista
rilevanza giuridica per la sua effettività, anche se non è escluso che i familiari possano concludere un accordo
avente ad oggetto la predeterminazione del valore da attribuire alla prestazione lavorativa, sotto condizione del
reale suo svolgimento secondo la quantità e qualità considerate.
Anche sotto il profilo processualistico, d’altra parte, è orientamento consolidato della giurisprudenza che,
determinando l’impresa familiare un rapporto associativo preordinato alla tutela del lavoro familiare, le
controversie relative siano di competenza del giudice del lavoro ricadendo sotto l’ipotesi prevista dall’art. 409 n. 3
c.p.c. e cioè del rapporto di collaborazione con carattere di parasubordinazione (Cass., 5973/1991; Cass.,
6070/1984; Cass., 2537/1983; Cass., 891/1981).
Alla luce di quanto sin qui detto, si ritiene che la questione prospettata possa essere risolta in senso
favorevole all’equiparazione, ai fini del possesso del titolo equipollente all’esame di idoneità per l’iscrizione presso
l’albo agenti, fra prestazione di lavoro nell’ambito dell’impresa familiare e prestazione di lavoro subordinato.
Si potrà assumere, dunque, come riferimento il già citato art. 5, lett. c) legge 48/1979, purchè tale
partecipazione sia provata in base a dati documentali certi ed oggettivi.
Più in particolare, sembra possibile porre come condizione del riconoscimento del titolo equipollente
l’esistenza di un atto pubblico o scrittura privata autenticata, antecedente a tutto il periodo di esercizio dell’attività
che s’intende far valere quale titolo equipollente ai fini dell’iscrizione all’albo, dalla quale risulti almeno:
1 - l’indicazione nominativa del partecipante de quo e del suo rapporto di parentela o di affinità con
l’imprenditore;
2 - l’indicazione delle mansioni assegnate al partecipante;
3 - che dette mansioni siano strettamente relative all’assunzione e alla produzione, ovvero alla gestione
e alla trattazione di affari assicurativi.
Si è detto in precedenza come la dottrina civilistica abbia sottolineato il profilo dell’effettività della
prestazione del lavoro all’interno dell’impresa familiare, profilo che assurge al ruolo di scaturigine della rilevanza
giuridica del rapporto in parola.
Si ritiene che la produzione di documentazione di data certa, da un lato, e di dichiarazione sostitutiva
sotto la propria responsabilità, anche penale, in caso di reticenza o mendacio, dall’altro, possano limitare
fortemente, se non addirittura di eliminare, rischi di tentativi – da parte di soggetti che non abbiano effettivamente
prestato il proprio lavoro all’interno di impresa familiare realmente esistente o che abbiano ricoperto mansioni che
non garantiscano l’acquisizione neppure della minima professionalità necessaria – di iscrizione in esonero dalla
prova di idoneità.
25.19. Cancellazione dall’Albo Nazionale degli Agenti di assicurazione: effetti della sentenza declaratoria di
fallimento
Si è affrontata la questione relativa all’automatismo tra dichiarazione di fallimento e cancellazione
dall’Albo.
Il dato testuale dell’art. 9 legge n. 48/1979, infatti, non sembra lasciare spazio per dubbi di sorta,
identificando nella cancellazione un adempimento, allorchè si verifichi uno dei presupposti previsti, non solo
necessario ma anche scevro da qualsiasi profilo di discrezionalità.
Sotto quest’aspetto, si ritiene che la cancellazione debba conseguire alla dichiarazione di fallimento
indipendentemente dalle determinazioni assunte quanto all’apertura di procedimento disciplinare con riguardo
a fatti a quella pronunzia successivi.
Si ritiene, altresì, che la cancellazione non possa che avere effetto a far data dall’emanazione del relativo
provvedimento, la contestualità con la dichiarazione di fallimento essendo preclusa, da un lato, dal fatto che tale
provvedimento giudiziale si configura, come visto, come mero ed autonomo presupposto della cancellazione
medesima e, dall’altro, dalla mancanza d’un momento di collegamento che consenta all’IS.V.A.P. di conoscere, “in
tempo reale”, le eventuali pronunzie di fallimento relativamente a soggetti iscritti all’albo agenti.
25.20. Iscrizione nell’albo agenti di assicurazione, ai sensi dell’art. 5, comma I, lett. c), n. 1, di un dirigente della
Consap S.p.a.
In merito all’iscrivibilità nell’Albo agenti di un dipendente della Consap, già in servizio presso
l’I.N.A. prima della privatizzazione e del trasferimento alla nuova società di funzioni ed attività prima svolte
dalla Compagnia privatizzata, si è preliminarmente osservato come costituisce jus receptum che le norme di
natura derogatoria, come quelle che consentono l’iscrizione presso l’albo agenti senza sostenere l’esame
prescritto dalla legge, siano di stretta interpretazione.
Anche ciò che costituisce jus receptum, tuttavia, non può avere portata assoluta, in un’ottica
interpretativa che tenga dovutamente conto delle istanze tutelate dalle norme in discorso ed altresì del fatto che
le stesse sono state concepite e sono entrate in vigore prima che si realizzasse la privatizzazione dell’I.N.A., e il
trasferimento di attività e dipendenti alla Consap.
Alle dette norme, infatti, è sottesa la ratio della tutela della professionalità conseguita da soggetti che
si siano trovati per un certo periodo di tempo in determinate condizioni.
Non s’intende revocare in dubbio che la Consap S.p.a. non sia impresa di assicurazione; si tratta di
considerare, tuttavia, che la stessa è stata costituita, nell’ambito del processo di privatizzazione dell’I.N.A., per
la gestione di servizi assicurativi pubblici che non potevano essere più gestiti dal soggetto ormai privatizzato e
che parte del personale preposto a detti servizi è stato allocato presso il nuovo soggetto oblato del loro
svolgimento.
In un quadro siffatto, un’interpretazione nel senso dell’esclusione del soggetto istante dal possesso del
titolo equipollente per l’iscrizione all’albo agenti – considerato che presso la Consap S.p.a. ha continuato a
disimpegnare le stesse funzioni (prima svolte presso l’I.N.A.) – non convince.
Essa, infatti, per un verso appare stridente con la ratio generale dell’art. 5 (tutela delle professionalità
acquisite in materia assicurativa) e, per altro verso, manifesta l’eventualità (ragionevolmente da considerarsi
non remota) di una sostanziale disparità di trattamento tra un soggetto che, pur avendo conseguito realmente
professionalità in materia assicurativa, non verrebbe iscritto ed altri che, solo per essere dirigenti di imprese
assicurative stricto sensu (magari occupandosi in concreto della gestione del patrimonio immobiliare o del
personale), invece, lo sarebbero.
Le conclusioni rassegnate sono state nel senso del possesso da parte dell’istante del titolo equipollente
all’esame d’idoneità per l’iscrizione presso l’albo agenti.
25.21. Iscrizione presso l’albo degli agenti di assicurazione di socio amministratore di S.n.c. ex art. 5, comma 1,
lett. C), n. 3, legge 7/2/79 n. 48.
L’esercizio d’agenzia assicurativa in forma societaria è vincolato dall’art. 6 legge n. 48/1979
all’iscrizione presso l’Albo del legale rappresentante della società ovvero di coloro che, muniti di necessari
poteri, siano delegati della società allo svolgimento dell’attività di agente di assicurazione. Entrambi questi
soggetti possono essere iscritti presso l’albo in quanto ne abbiano autonomamente titolo, senza possibilità
alcuna di inferire, dalla sola qualità di amministratore, il possesso del titolo stesso.
In un caso di specie è risultato che uno dei due soci, regolarmente iscritto all’albo, fosse delegato
all’esercizio dell’attività agenziale. L’altro socio ben poteva assumere – giusta la regola dell’amministrazione
disgiuntiva di cui al combinato disposto degli artt. 2257 e 2293 C.C. – il ruolo di amministratore ed inoltre –
giusta il disposto dell’art. 2291 – rispondere verso i terzi – cui non può essere opposto il patto contrario – delle
obbligazioni sociali.
Da ciò, tuttavia, non si è ritenuto di poter dedurre, in mancanza di procura con data certa, il possesso
del titolo equipollente per l’iscrizione presso l’albo in qualità di procuratore dell’agente.
La procura di fatto è figura sconosciuta al vigente ordinamento che invece conosce (art. 1398 C.C.) la
rappresentanza senza potere e la ratifica (art. 1399 C.C.) dell’attività prestata da chi era sprovvisto di poteri od
ha ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli (ratihabitio mandato comparatur).
Non è sembrato potersi dare tuttavia rilevanza a queste figure in quanto è da ritenersi che nella
fattispecie che ne occupa sia richiesta la prova per iscritto, con atto di data certa, del conferimento della procura
al socio che dovrà svolgere l’attività di agente per la società.
D’altra parte l’attività di socio amministratore ben poteva essere limitata a compiti non afferenti alla
trattazione di affari assicurativi; e ciò al di là del fatto che in ogni caso qualsiasi attività agenziale di natura
assicurativa svolta da socio non fornito della detta procura doveva ritenersi svolta illegittimamente e non
poteva essere valutata ai fini della maturazione del titolo equipollente ai fini dell’iscrizione all’albo.
25.22. Iscrizione nell’Albo agenti di assicurazione di dirigente di società non assicurativa ricoprente la carica di
amministratore delegato di impresa assicurativa facente parte del medesimo gruppo della precedente.
La norma dell’art. 5, comma primo, lett. c), n. 1, legge 48/1979, si manifesta come disposizione che
segna il limite inferiore quanto al riconoscimento della professionalità in discorso; la qualifica di dirigente,
insomma, è quella minima per godere del titolo equipollente ai fini dell’iscrizione nell’Albo agenti.
Il principio ispiratore della norma che riconosce il detto titolo, pertanto, risiede nell’effettività
dell’attività di trattazione d’affari assicurativi almeno a quel livello.
La qualifica di amministratore delegato del richiedente l’iscrizione implica – verosimilmente, salva
l’esistenza di atti di fissazione dei limiti alla delega – poteri amplissimi nell’attività di direzione e guida della
società d’assicurazioni.
Ed in tale ottica la posizione di quest’ultimo si connota per il possesso di professionalità e
responsabilizzazione anche maggiore rispetto a quella del direttore generale il cui ruolo, è pur sempre limitato –
nonostante la sua collocazione al vertice dell’organigramma delle risorse umane della società – al livello
dell’esecuzione di decisioni prese da altri.
In linea generale, infatti, all’amministratore delegato può essere conferita l’intera gestione dell’impresa in
forma associata proprio sotto il profilo dell’assunzione delle scelte di fondo e della politica dell’impresa oltre
all’attività d’organizzazione interna della compagine sociale.
Le suesposte argomentazioni sono parse assorbenti rispetto alla questione della qualifica di dipendente:
nell’ottica interpretativa di tipo teleologico qui seguita il tenore letterale della norma in analisi deve intendersi non
nel senso della necessità di un rapporto di lavoro subordinato bensì d’un rapporto non occasionale e duraturo e, per
così dire, funzionale tra il soggetto che intende valersi del titolo equipollente e l’impresa assicurativa presso la
quale l’attività viene esercitata.
In questo senso si è positivamente valutato l’orientamento di riconoscere all’amministratore delegato il
godimento del titolo equipollente rispetto al superamento dell’esame d’idoneità per l’iscrizione all’albo agenti.
CONTENZIOSO
Il Servizio, in relazione al contenzioso instauratosi a seguito delle impugnazioni, da parte degli agenti,
periti e broker, dei provvedimenti disciplinari e di quelli relativi al diniego di iscrizione negli Albi e nel Ruolo, ha
raccolto le sentenze in argomento nell’anno in rassegna.
Sembra utile procedere ad una disamina dei principi giurisprudenziali affermati in tale sede e ritenuti di
maggior interesse.
AGENTI
Radiazione dall’Albo agenti –
Mancata rimessa di premi alla compagnia – questione pregiudiziale – divieto di compensazione del debito
dell’agente.
“Compito essenziale dell’agente di assicurazione è quello di collaborare in via autonoma, a proprio rischio e spese,
con un’impresa di assicurazioni, gestendone e sviluppandone gli affari in un ambito territoriale definito e curando i
rapporti con l’utenza privata in modo da divulgare in maniera appropriata i diversi servizi assicurativi e da
costituire un serio punto di riferimento per gli assicurati e che nel caso di specie gli elementi avanti ricordati
(mancata rimessa di premi) confermano in maniera in equivoca che l’agente ha tenuto una condotta non conforme
all’etica alla dignità e al decoro professionale, contravvenendo in maniera sistematica e grave agli obblighi
negoziali contratti con l’impresa di assicurazioni, dando così prova di scarsissima affidabilità per la gestione futura
delle risorse eventualmente affidategli dall’utenza”. E’ stato inoltre sottolineato che il legislatore proprio per
“apprestare una particolare tutela agli interessi privati coinvolti in un settore nevralgico quale è quello del risparmio
e dell’allocazione dei rischi” ha previsto “la costituzione di un apposito Albo ed appunto un sistema di sanzioni
disciplinari che in relazione ad un dato momento storico sia idoneo a reprimere condotte che mettono a repentaglio
gli interessi coinvolti”.
“…Non può ritenersi esistente alcun nesso di pregiudizialità fra procedimento disciplinare iniziato a carico
dell’attore ed il giudizio civile avente ad oggetto la legittimità del recesso per giusta causa della compagnia di
assicurazione dal rapporto di agenzia, ove si consideri che la sospensione del procedimento disciplinare non risulta
imposta da una specifica disposizione di legge. Né in ogni caso l’oggetto del procedimento civile appariva
coincidente con gli addebiti mossi all’agente i sede disciplinare, ove appunto si valutò - -positivamente – la
violazione di regole deontologiche dell’agente che giammai sarebbe stata esaminata dal giudice civile né avrebbe
potuto in qualche modo rimanere condizionata dalle decisioni di tale Autorità” (cfr. Cass. S.U. n. 1532/97, TAR
Lombardia Milano 30/9/1991, n. 1217, Cass. n. 466/1990).
“…E’ bene precisare che anche successivamente alle contestazioni che sono poi sfociate nel procedimento
disciplinare, il ricorrente non ha fatto alcunché per attenuare le conseguenze lesive prodotte dai mancati versamenti
dei premi versati dagli assicuratine ha ritenuto di provvedere alla restituzione degli importi pacificamente dovuti
alla compagnia, invece trincerandosi dietro un asserito diritto alla corresponsione di somme a diverso titolo dovute
dalla compagnia che peraltro,….non l’avrebbero abilitato a compensare le due voci di credito-debito”.
(Tribunale di Palermo 28/2/1999, n. 2382)
Radiazione dall’Albo Agenti Questione pregiudiziale –rifiuto opposto dall’agente di esibire la documentazione della società nel corso
di una ispezione dell’Isvap - verbali ispettivi della compagnia: atti con efficacia probatoria privilegiata.
“…Il procedimento disciplinare è indipendente e autonomo rispetto agli eventuali giudizi penali e civili in corso di
svolgimento, non subendo alcuna pregiudizialità in tal senso, in quanto caratterizzato da un oggetto e da un fine
diverso”… “Pertanto nulla vieta all’Amministrazione di intervenire in termini disciplinari, pur pendendo giudizi
civili e penali sui medesimi fatti, qualora ritenga il quadro probatorio sufficiente ai fini dell’adozione della
sanzione”.
“…I verbali dei funzionari della compagnia, pur non essendo atti pubblici, sono caratterizzati da una specifica
consistenza probatoria”.
Sul punto cfr. anche Corte d’Appello di Roma 25/5/1995, n. 1891: “…Gli ispettori dell’Isvap – per l’espresso
richiamo contenuto nell’art. 4 l. 576/82, nel T.U. n. 449/59 e nelle leggi e regolamenti in materia – sono da
considerare, nell’esercizio dell’attività di vigilanza assicurativa, non solo pubblici ufficiali, ma anche ufficiali di
polizia giudiziaria”.
“…Va altresì rammentato che i verbali redatti dagli ispettori dell’Isvap, nell’espletamento delle loro funzioni di
rilievo e controllo, hanno il valore probatorio privilegiato di cui all’art. 2700 c.c.” (adde Cass. 15/5/1991, n. 5444).
(Tribunale di Roma 15/2/2000, n. 4391)
Radiazione dall’Albo Agenti –
Mancata rimessa dei premi alla compagnia mandante – falsificazione degli attestati di rischio – addebito
della responsabilità a carico del subagente -
“…La responsabilità del subagente non esclude quella del debitore”. Sul punto cfr. anche Tribunale di Roma n.
5024/93: “…La commissione delle irregolarità da parte del subagente non pare, poi, costituire una valida esimente
dovendo l’attore rispondere non solo del proprio operato, ma anche di quello dei propri collaboratori”.
Il Tribunale ha inoltre precisato che in un bilanciamento di interessi, viene dato un maggiore peso al carattere
pubblicistico ed indisponibile della normativa riguardante il funzionamento dell’Albo agenti, rispetto ad un accordo
conciliativo raggiunto tra l’agente stesso e la società in un giudizio avente ad oggetto il recupero delle somme
dovute alla compagnia.
(Tribunale di Roma 29/3/2000, n. 9731)
In un caso di accordo transattivo raggiunto in un verbale di conciliazione tra un agente radiato e la compagnia nel
quale, da un lato quest’ultima riconosceva l’insussistenza dei presupposti del recesso per giusta causa, e dall’altro
l’agente stesso ammetteva la sua posizione debitoria, il Tribunale ha chiarito che “…non sembra che tale verbale
possa dimostrare – come l’attore pretende – l’erroneità del provvedimento impugnato. Non può sicuramente
attribuirsi valore decisivo alle valutazioni espresse, sui fatti posti a base della sanzione, dalla compagnia
assicuratrice interessata, tanto più quando tali valutazioni trovino la loro collocazione in una sede transattiva. Infatti
il procedimento disciplinare è comminato in vista dell’interesse generale al corretto esercizio dell’attività di agente
ed è perciò sottratto alla disponibilità della parte offesa”.
(Tribunale di Roma n. 7980/91)
Rigetto della domanda di iscrizione nell’Albo agenti formulata ai sensi dell’art. 5, lett. c), n. 2 legge n. 48/79 “…Anche se risulta osservato il requisito dello svolgimento di attività lavorativa subordinata alle dipendenze di una
impresa privata di assicurazione, non altrettanto può dirsi per il requisito della natura dell’attività in concreto
svolta. Non pare dubbio infatti che la ratio legis sia quella di surrogare la esperienza maturata dall’aspirante nel
settore assicurativo alla prova di idoneità per esami, altrimenti necessaria per l’iscrizione all’Albo….La norma in
sostanza, richiede che l’attività del dipendente abbia diretta attinenza con l’esercizio dell’attività assicurativa svolta
dall’impresa.
Ne consegue che l’attività utilmente valutabile è esclusivamente quella – svolta in modo continuativo – consistente
nella stipula di contratti assicurativi, procacciamento di affari relativi a diversi rame assicurativi, attività
concernente la fase esecutiva dei contratti, ovvero nelle attività propedeutiche o comunque strettamente connesse al
rapporto assicurativo”.
(Tribunale di Roma n. 10987/99)
Rigetto della domanda di iscrizione nell’Albo agenti formulata ai sensi dell’art. 5, lett. C), punto 4, legge n. 48/79 “…L’art. 5 non impone lo svolgimento in via esclusiva dell’attività subagenziale, in quanto la norma stabilisce
espressamente che l’espletamento di detta attività avvenga prevalentemente. Orbene…risulta provato che l’attività
di procacciatore d’affari assume un ruolo del tutto marginale e secondario rispetto a quella di subagente…”.
Radiazione dall’Albo agenti –
Mancata rimessa dei premi alla compagnia – mancato rilascio di attestati di rischio –
Sottoscrizione arbitraria di altre polizze – Rilevante ammanco di cassa emerso a seguito di controllo
contabile A fronte degli addebiti contestati, l’attore ha addotto a sua discolpa l’esistenza di una dissestata rete
agenziale, nonché una non corretta amministrazione da parte della società.
Al riguardo il Tribunale ha affermato “…resta l’ineludibile dato per cui anche un non buon rapporto fra
preponente e agente, così come una dissestata rete subagenziale, quand’anche sussistenti, non avrebbero potuto
giammai giustificare gli ammessi fatti di incameramento delle cospicue somme predette ed i conseguenti
comportamenti adottati contro la deontologia dell’attività in questione, anche dopo la revoca del mandato per giusta
causa. [...I fatti commessi] costituiscono comunque uno strappo particolarmente grave all’etica professionale , con
il corrispondente vulnus al decoro della relativa figura professionale, tale che gli organi competenti non avrebbero
potuto limitare al richiamo od alla censura la sanzione da adottare. [L’attore] non ha compiuto una semplice e
rilevante manchevolezza, ma ha concretato una sistematica violazione … provocando così una grave lesione
all’etica della professione, con tutte le prevedibili conseguenze nel tessuto dei rapporti economici interessati”.
(Tribunale di Salerno n. 1083/92)
Sul punto cfr. anche Tribunale di Salerno n. 764/99 “…L’agente impugnante risulta aver effettivamente integrato
una condotta costituente grave vulnus all’ordinamento professionale protetto: ciò perché non può negarsi che
l’etica, la dignità ed il decoro della professione escano lesi profondamente dalla tenuta del rapporto agenziale sopra
esaminata, con il disordine amministrativo e contabile rilevato e con l’emersione di un pesante debito nei confronti
dell’impresa mandante. Né va sottovalutato l’allarme che condotte di questo tipo sono idonee a generare, oltre che
rispetto agli interessi economici e fiduciari della compagnia, preponente, anche e non secondariamente nei riguardi
della sfera degli assicurati i quali,per le rilevate irregolarità, ben hanno o comunque avrebbero potuto risentire
pregiudizio nei loro rapporti con l’impresa assicuratrice”.(Conforme: Tribunale di Roma n.1585/94). Da
quest’ultima sentenza è emerso un altro importante principio secondo cui, il fatto che il legislatore abbia istituito un
apposito Albo degli agenti – con la previsione di speciali requisiti per l’iscrizione e la creazione di organi di
controllo e disciplinari, - dimostra che nel nostro ordinamento si è ritenuta la necessità di assicurare che la
professione di agente, proprio per la sua rilevanza sul piano economico e sociale e al fine di tutelare le parti
contraenti, sia improntata al massimo rispetto dei suddetti valori.
Radiazione dall’Albo agenti –
Contemporaneo esercizio delle attività di agente e mediatore di assicurazione –
A seguito di alcune indagini ispettive svolte dall’Isvap - si è accertato che l’attore di fatto svolgeva anche attività di
mediatore di assicurazione, fornendo consulenza assicurativa ai clienti di una società di mediazione assicurativa,
percependo il relativo compenso.
“…Quanto alla sanzione irrogata, nella misura massima prevista dalla legge, essa deve ritenersi adeguata alla
gravità ed alla reiterazione dei comportamenti contrari alla legge”. Sul punto specifico cfr. anche Tribunale di
Roma n. 19289/99.
(Tribunale di Roma n. 86711/95)
Radiazione dall’Albo agenti –
Mancata rimessa di premi alla compagnia mandante –
“…La materia del maneggio di denaro è certamente tale da condizionare la stessa sussistenza del rapporto
agenziale che si basa su regole di lealtà, efficienza e chiarezza essenziali per l’immagine dell’assicuratore
(inevitabilmente legata a quella dell’agente) e per il buon funzionamento dell’attività assicurativa. E non è casuale
del resto che l’art. 4, lett. C), legge n. 48/79, vieti l’iscrizione all’Albo di colui il quale sia stato condannato per
qualsiasi delitto contro il patrimonio, compresi quelli di minore allarme sociale”.
(Tribunale di Palermo, ordinanza del 14/3/1997).
Radiazione dall’Albo agenti –
Irregolarità nella gestione agenziale – mancata rimessa di premi - emissione di assegni in difetto di provvista
e di assegni post-datati Nel caso specifico, l’attore - deducendo che le gravi irregolarità emerse erano da ascriversi esclusivamente ai
comportamenti illeciti posti in essere dal suo socio, anch’esso delegato allo svolgimento dell’attività agenziale invoca la sua estraneità ai fatti contestati in quanto “non si sarebbe mai occupato della gestione dell’agenzia”. Al
riguardo il Tribunale afferma in primo luogo che “non risulta in alcun modo provata l’estraneità dell’attore dai fatti
contestati; non è chiaro come l’attore non si fosse reso conto di un ammanco di cassa così rilevante (circa £. 560
mil.) creato in meno di due anni”. In conclusione il Tribunale sostiene “anche a voler aderire alla tesi di parte
attrice – la quale deduce di non aver partecipato alla gestione dell’attività – il fatto palesa, oltre che grave
violazione del contratto di agenzia, una grave inosservanza dei doveri propri di agenti iscritto all’Albo che, come
tale, ha l’obbligo di operare in rappresentanza e nell’interesse dell’impresa nonché nell’interesse degli stessi
assicurati. Pertanto, delle gravi irregolarità che hanno interessato l’agenzia – a prescindere da eventuali ulteriori o
diverse responsabilità – deve rispondere anche l’attore il quale era tenuto in prima persona a garantire il corretto
andamento della gestione assumendo tutte le iniziative del caso”.
(Tribunale di Roma n. 9648/2000)
Radiazione dall’Albo agenti –
Questione relativa al riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A. –
In occasione di un ricorso innanzi al Tribunale di Napoli, promosso da un agente di assicurazioni a seguito di un
provvedimento di radiazione dall’Albo, è stato eccepito dall’Isvap il difetto di giurisdizione del G.O.. In particolare
il Giudice del lavoro di Napoli, accogliendo quanto prospettato dall’Istituto, ha dichiarato il proprio difetto di
giurisdizione a favore del G.A., secondo quanto stabilito dall’art. 33 d.lgs. 80/98. Rilevante appare la precisazione
secondo cui “…Indubbiamente l’irrogazione di un provvedimento disciplinare …costituisce atto sintomatico
dell’espletamento del potere di vigilanza e quindi rientrante nella materia soggetta alla cognizione della
giurisdizione amministrativa”.
(Tribunale di Napoli, sentenza pronunciata all’udienza del 10/1/01, depositata in cancelleria il 15/1/01)
PERITI
“…Per esercitare l’attività di consulente tecnico del giudice per la stima e l’accertamento dei danni conseguenti alla
circolazione di veicoli a motore, è necessaria la previa iscrizione nel Ruolo dei Periti la cui omissione concreta
l’elemento materiale del reato di cui all’art. 348 c.p., poiché solo detta iscrizione abilita all’esercizio professionale
della citata attività”.
(Corte Sprema di Cassazione, sez. penale n. 2811/2000).
Radiazione dal Ruolo periti –
Violazione dell’art. 5, comma 2, l. 166/92 –
“…L’incompatibilità sancita dall’art. 5, comma 2, l. 166/92, è pressoché assoluta, affatto residuale essendo l’ipotesi
delle deroghe già concesse per un fine particolarissimo quale l’aggiornamento della qualità professionale che tra
l’atro, dà ragione, per il suo limitatissimo ambito, alla assolutezza di quella incompatibilità.
(Tribunale di Catania, decreto del 16/7/1999)
Rigetto della domanda di iscrizione al Ruolo formulata ai sensi dell’art. 5, lett. e), l. 166/92 A norma dell’art. 5, possono essere iscritti nel ruolo “coloro che risultano forniti di diploma di perito industriale in
area meccanica o di laurea in ingegneria e risultano iscritti nei relativi albi professionale da almeno tre anni, avendo
altresì esercitato per tre anni l’attività nel settore specifico che deve risultare da idonea documentazione anche
fiscale”.
Nel caso specifico, l’attore sosteneva che il requisito dell’effettivo esercizio dell’attività dovesse essere accertato
non con riferimento al settore assicurativo bensì a quello meccanico per il quale è richiesto il possesso del diploma.
Il Tribunale ha però ritenuto tale assunto destituito di fondamento. Infatti, “la norma di legge che consente
l’accesso al ruolo nazionale in base al possesso di specifici titoli di studio, all’iscrizione nel relativo albo ed
all’esercizio dell’attività nel settore specifico per un triennio, può trovare logica giustificazione soltanto nei limiti in
cui i requisiti indicati consentano di riscontrare ex ante l’idoneità dell’aspirante all’esercizio dell’attività di stima e
liquidazione dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e natanti soggetti all’assicurazione obbligatoria”.
Conclusivamente si afferma che “…non sembra possa ritenersi soddisfatta tale ratio legis nel caso in cui il requisito
in questione venisse integrato dall’effettivo esercizio di attività professionale del tutto estranee a perizie
assicurative occorrendo, invece, che l’aspirante abbia maturato una pregressa esperienza nello specifico settore di
attività regolamentato dalla legge 166/92”.
(Tribunale di Roma n. 14357/1999)
Esclusione dalla prova di idoneità per l’iscrizione nel ruolo periti –
Carenza di giurisdizione del Tribunale –
“…La giurisdizione compete esclusivamente al giudice amministrativo trattandosi di requisiti necessari per
l’iscrizione nell’albo professionale, la cui valutazione in merito alla sussistenza è riservata alla P.A…..Al giudice
amministrativo è riservato in esclusiva il controllo di legittimità dei provvedimenti emanati dalla P.A..”
(Tribunale di Milano, n. 11880/00)
MEDIATORI
Radiazione dall’Albo –
Ritardo nella trasmissione dei premi incassati – mancata comunicazione dei contratti conclusi –
“…..Tale comportamento riveste indubbiamente il carattere di massima gravità, avendo fatto perdere la protezione
assicurativa ai propri clienti e quindi violando l’obbligo precipuo e fondamentale del mediatore assicurativo.
Pertanto il provvedimento di radiazione appare congruo e motivato in relazione al gravissimo comportamento del
ricorrente…”.
(Tribunale di Roma, 21699/98)
LA RIFORMA DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
LEGGE N. 205 DEL 21 LUGLIO 2000
La legge n. 205 del 21 luglio del 2000 cambia il volto al processo amministrativo. Con un provvedimento
organico e di grande respiro, infatti, viene realizzato un intervento “a tutto campo” che affronta alcuni dei problemi
più urgenti della giustizia amministrativa: dalla tutela cautelare alla giurisdizione esclusiva, dalle sentenze in forma
breve al risarcimento del danno.
Alcune novità introdotte dalla legge n. 205/2000 interessano, in modo pregnante, l’attività dell’ISVAP; esse
pertanto costituiranno l’oggetto del presente studio, che si prefigge di orientare gli “addetti ai lavori” nei meandri
del processo amministrativo, così come modificato dalla suddetta legge con la tecnica ben nota, che potrebbe
definirsi “chirurgica”, dell’innesto delle modifiche sulla normativa precedente.
La giurisdizione amministrativa
In via preliminare e sia pur brevemente, occorre rammentare la problematica del riparto di giurisdizione tra il
Giudice Ordinario ed il Giudice Amministrativo, al fine di comprendere meglio le ragioni che hanno indotto il
legislatore ad intraprendere la strada del cosiddetto criterio “per blocchi di materie”, introdotto con interventi
legislativi più risalenti ed inequivocabilmente confermato e rafforzato dalla legge n. 205/2000.
1.
Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O.
Gli artt. 2, 3, e 4 della legge n. 1034/71 prevedono la generale giurisdizione di legittimità dei T.A.R. in
materia di interessi legittimi.
Il Giudice Amministrativo, infatti, sulla base del citato dettato normativo, ha competenza generale riguardo
ad ogni controversia relativa alla legittimità di un atto amministrativo lesivo di interessi legittimi, fatte salve le
materie riservate alla cognizione di giudici speciali.
La giurisdizione in materia di diritti soggettivi spetta al Giudice Ordinario così come previsto dall’art. 2 della
legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato E (cosiddetta Legge Abolitrice del Contenzioso Amministrativo). La
concorrenza delle due diverse giurisdizioni, com’e’ naturale, apre un dibattito dottrinario e giurisprudenziale, mai
sopito, in ordine al criterio di attribuzione delle singole controversie alla cognizione dell’uno o dell’altro giudice. Si
ricordano le principali teorie che, nel tempo, sono state elaborate:
• teoria del petitum: il riparto di giurisdizione dipenderebbe dalla natura del provvedimento richiesto dal
ricorrente. In particolare, la richiesta di annullamento del provvedimento radicherebbe la giurisdizione del G.A.,
mentre la richiesta di risarcimento del danno radicherebbe quella del G.O.;
• teoria della causa petendi: l’attribuzione all’una o all’altra giurisdizione dipenderebbe esclusivamente dalla
natura della posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, risultando, per gli interessi legittimi,
competente il G.A., per i diritti soggettivi il G.O.;
• teoria della norma violata: nel caso di violazione di norme di azione – vale a dire di norme che disciplinano
l’esercizio dei poteri della P.A. nell’interesse pubblico – la competenza spetterebbe al G.A. poiché vi sarebbe
lesione di un interesse legittimo;viceversa, nel caso di violazione di norme di relazione – che regolano, invece, i
rapporti tra P.A. e cittadini – la giurisdizione sarebbe del G.O., risultando leso un diritto soggettivo; la teoria
ripropone, in realtà, sia pure con una diversa formulazione, quella della causa petendi;
• teoria della prospettazione: il criterio discretivo sarebbe dato dalla prospettazione della posizione giuridica non
in sé, ma come operata dall’attore.
In realtà, al di là dei criteri che con alterna fortuna guidano le propensioni della dottrina e le decisioni della
giurisprudenza, è la stessa connotazione delle posizioni soggettive di base ad offrire incertezze, non risultando in
concreto né chiara né equa la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, una scansione dicotomica questa
che gli ordinamenti di altri Paesi ignorano.
Una prima risposta a tale difficoltà di demarcazione è data dall’assegnazione di una competenza esclusiva al
giudice amministrativo in materie specifiche nelle quali l’intreccio fra diritti ed interessi, merito e legittimità, fatto
e diritto è così stretto da non consentire attribuzioni nette all’uno o all’altro ordine di giurisdizione.
Il modello della giurisdizione esclusiva, che ha il pregio di accrescere i poteri del giudice amministrativo in
punto non solo di annullamento dell’atto ritenuto illegittimo, ma anche di condanna al risarcimento dei danni
conseguenti all’atto medesimo, è sicuramente presente nell’intenzione del legislatore allorché questi anticipa, con il
d.lgs. n. 80/98, i tratti della riforma del processo amministrativo. Fra i due interventi legislativi si inserisce - è
doveroso richiamarla - una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, riassumendo gli esiti di un
approfondimento delle problematiche sottese alla distinzione “diritti soggettivi-interessi legittimi”, pone le
premesse per un superamento della stessa dicotomia. Trattasi della sentenza n. 500/1999, di cui si parlerà in
prosieguo.
2.
Il D.lgs. n. 80/98
Il D.lgs. n. 80/98, recante “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate
in attuazione dell’art. 11, comma 4, della l. 15 marzo 1997, n. 59” costituisce un momento di svolta anche per quel
che riguarda la giurisdizione amministrativa e, in particolare, la giurisdizione esclusiva.
L’art. 33, comma 1, infatti, così recita nel testo antecedente alla riforma del processo amministrativo: “Sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi,
alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle
telecomunicazioni ed ai servizi di cui alla legge 14 novembre 1995, n. 481…”.
L’art 35, poi, innovando in materia, al primo comma – sempre nella versione che precede la modifica ex art.
7, l. 205/2000 - sancisce che: “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione
esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto”.
Il medesimo art. 35 prevede, altresì che, nei casi previsti dal comma 1, il giudice possa determinare i criteri in
base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente
titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. La norma prevede, infine, che il Giudice
Amministrativo, nelle controversie di cui si è detto, possa disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal
codice di procedura civile, nonché la consulenza tecnica d’ufficio, esclusi soltanto l’interrogatorio formale ed il
giuramento.
E’ evidente il carattere innovativo delle norme in oggetto.
Sotto il profilo del riparto di giurisdizione, infatti, viene estesa la giurisdizione esclusiva del G.A. ad alcuni
settori particolarmente delicati a causa delle inevitabili difficoltà inerenti alla richiamata distinzione tra le posizioni
di diritto soggettivo e quelle d’interesse legittimo (un bilanciamento è tuttavia dato dal contestuale trasferimento al
G.O. della cognizione in materia di pubblico impiego privatizzato ai sensi del d.lgs. n. 29/93). La scelta appare
rilevante anche per l’attività dell’ISVAP dal momento che, espressamente, viene fatto riferimento all’attività di
vigilanza sulle assicurazioni. Della novità si segnala un primo riscontro giurisprudenziale nella sentenza in data 15
gennaio 2001, con la quale il Giudice del lavoro di Napoli, in accoglimento della tesi dell’ISVAP, dichiara il
proprio difetto di giurisdizione a favore del G.A., secondo quanto stabilito dal cennato art. 33 d.lgs. 80/98, in
relazione all’impugnazione, da parte di un agente di assicurazione, di un provvedimento di radiazione dall’Albo
conseguente all’accertamento di responsabilità disciplinari. Di rilievo, in tale sentenza, è la precisazione secondo
cui “l’irrogazione di un provvedimento disciplinare…costituisce atto sintomatico dell’espletamento del potere di
vigilanza e quindi rientra nella materia soggetta alla cognizione della giurisdizione amministrativa…”.
E’ appena il caso di ricordare che dall’art. 33 d.lgs. 80/98 il Servizio Legale dell’Istituto aveva dedotto
l’abrogazione in parte qua delle norme in materia di Albi e Ruoli professionali, emanate precedentemente e
contemplanti l’attribuzione al G.O. della competenza a sindacare la legittimità dei provvedimenti disciplinari a
carico di agenti, broker e periti.
Anche l’aspetto strettamente procedurale risulta interessato da cambiamenti di non poco momento: i mezzi
probatori del giudizio civile, infatti, divengono applicabili anche al processo amministrativo, con la sola esclusione
dell’interrogatorio formale e del giuramento, per la evidente indisponibilità delle posizioni di pertinenza della P.A..
Fortemente innovativa risulta anche la previsione relativa al risarcimento del danno: l’art. 35, comma 1,
prevede che il G.A. possa disporre il risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli artt. 33 e 34. Questa ultima
limitazione sembrava escludere analoghe prerogative nelle altre ipotesi di giurisdizione esclusiva, per le quali il
cittadino sarebbe stato costretto al defatigante doppio giudizio, il primo dinanzi al G.A. per vedere riconosciuto il
proprio diritto pregiudicato dall’atto amministrativo, il secondo dinanzi al G.O. per ottenere il risarcimento del
danno conseguente all’illegittimo comportamento della P.A..
Sul punto, la dottrina maggioritaria proponeva una lettura correttiva della norma, in modo da estendere a tutte
le ipotesi di giurisdizione esclusiva il potere del Giudice Amministrativo alla cognizione in materia di diritti
patrimoniali consequenziali. La questione ha trovato soluzione nella legge n. 205/2000.
Per vero l’art 33 d.lgs. n. 80/98 è stato colpito, con sentenza n. 292 del 17 luglio 2000, da una pronuncia di
annullamento della Corte Costituzionale per eccesso di delega, determinato dal fatto di aver ampliato la
giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di servizi pubblici, anziché essersi limitato ad “estendere in tale materia
la giurisdizione amministrativa…alle controversie concernenti i diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese
quelle relative al risarcimento del danno”. Il vuoto legislativo creatosi a seguito di tale pronuncia, tuttavia, è stato
tempestivamente colmato dalla già ricordata riformulazione della norma ad opera della legge 205/2000.
3.
La legge n. 205/2000
Lo spettro dei casi di giurisdizione esclusiva si amplia fino a diventare cifra connotatrice della riforma del
processo amministrativo con la legge 205/2000. Gli artt. 6 e 7 di tale legge individuano nuovi casi nei quali le
controversie sono attribuite alla cognizione del solo giudice amministrativo.
L’art. 33 d.lgs. 80/98 viene riprodotto (sub art. 7) in maniera pressoché integrale, con l’unica modifica
riguardante la limitazione della giurisdizione esclusiva, per quel che riguarda i settori del credito e del mercato
mobiliare, alla sola attività di vigilanza, in modo da rendere la previsione speculare a quella relativa al settore
assicurativo.
Al riguardo si osserva che la norma, così com’è formulata, sembra precisare l’orientamento del legislatore in
ordine al dibattuto problema della natura di pubblico servizio di talune attività.
Essa, infatti, nell’attribuire genericamente tutte le controversie in materia di pubblici servizi alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, specifica - riguardo al credito, alle assicurazioni e al mercato mobiliare - che
la riserva di giurisdizione concerne esclusivamente la vigilanza su tali attività.
Una precisazione di tal fatta sembra avere il significato di puntualizzare che la natura di servizio pubblico, in
riferimento alle attività afferenti al credito, alle assicurazioni ed al mercato mobiliare, è riconosciuta non già a tali
attività tout court, che restano attratte nella sfera del diritto d’impresa, bensì al solo svolgimento delle funzioni di
vigilanza nei relativi ambiti, che sono di carattere incontestabilmente pubblicistico.
Il secondo comma dell’art. 33 d.lgs. n. 80/98, infine, specifica, con un’elencazione da ritenersi peraltro non
tassativa, alcune delle possibili controversie rientranti nella giurisdizione del Giudice Amministrativo in materia di
pubblici servizi.
Anche sotto il profilo delle disposizioni processuali applicabili, la legge n. 205/2000 presenta aspetti di
notevole importanza.
In particolare, l’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80/98, come modificato dall’art. 7 della legge in oggetto, pone fine
alle discussioni concernenti la possibilità o meno, per il giudice amministrativo, di estendere la previsione relativa
alla condanna della P.A. al risarcimento del danno ingiusto, a tutte le ipotesi di giurisdizione esclusiva e non alle
sole materie devolute alla sua cognizione ex. artt. 33 e 34 D.lgs. 80/98. L’art 35, comma 1, nella formulazione
attualmente vigente, così recita: “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione
esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”. La
modifica introdotta dalla legge 205/2000, dunque, ha soppresso l’inciso “…nelle materie devolute…ai sensi degli
artt. 33 e 34…”, facendo così venire meno quella che, ictu oculi, appariva come un’ingiustificata disparità di
trattamento.
In simili fattispecie, dunque, il G.A. potrà accordare il risarcimento del danno ingiusto anche se derivante
dalla lesione di un interesse legittimo e non soltanto di un diritto soggettivo, conformemente alla ratio sottesa alla
sussistenza stessa della giurisdizione esclusiva ed all’evoluzione giurisprudenziale, in tal senso avviata con la già
ricordata sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione.
Ulteriori disposizioni processuali in ambito di giurisdizione esclusiva sono state introdotte dagli artt. 6 ed 8,
relativamente alle controversie su diritti.
In particolare, l’art. 6 ammette la possibilità che tutte le controversie concernenti diritti vengano risolte
mediante arbitrato rituale, con conseguente applicabilità degli artt. 806 e seguenti del codice di procedura civile.
L’articolo in esame, conformemente agli indirizzi della giurisprudenza costituzionale, prevede solo come
facoltà il ricorso all’arbitrato rituale. Ciò comporta che esso non possa essere considerato né alternativo alla tutela
giurisdizionale, né tantomeno obbligatorio. Qualche perplessità, tuttavia, rimane in ordine all’applicabilità
dell’arbitrato rituale nei casi in cui si assume che la lesione del diritto soggettivo sia stata provocata dall’utilizzo di
pubblici poteri. Infatti, l’art. 806 c.p.c. esclude dall’istituto in esame le questioni che non possono formare oggetto
di transazione, vale a dire quelle relativamente alle quali le parti non hanno la disponibilità delle rispettive posizioni
giuridiche; tale, appunto, sembra essere l’esercizio dei pubblici poteri da parte della P.A.
Da ultimo, sempre con riferimento alla possibilità di ricorrere all’arbitrato rituale di diritto, il legislatore ha
previsto tale eventualità esclusivamente per le controversie concernenti diritti soggettivi, con ciò reintroducendo,
all’interno della giurisdizione esclusiva, la tradizionale distinzione tra diritti ed altre posizioni giuridiche
soggettive.
L’art 8, L. 205/2000, infine, estende l’applicabilità del procedimento d’ingiunzione disciplinato dal codice di
procedura civile alle controversie che abbiano ad oggetto diritti soggettivi di natura patrimoniale. Competente
ad emanare l’ingiunzione è il Presidente del tribunale o un magistrato da lui delegato. L’opposizione, in deroga a
quanto previsto dal c.p.c., si propone con ricorso.
Al riguardo, si osserva che per diritti soggettivi di natura patrimoniale non pare sia possibile intendere i soli
diritti al pagamento di somme di denaro, dovendosi viceversa ritenere ricompresi nella previsione di legge tutti quei
diritti il cui oggetto presenti contenuti patrimoniali e restando in ogni caso attribuito al Giudice il compito di
valutare, di volta in volta, la sussistenza di tale profilo.
I procedimenti speciali
L’art. 4, con l’aggiunta dell’art. 23-bis alla legge n. 1034/1971, introduce ulteriori novità attraverso la
previsione della “corsia preferenziale” dei cosiddetti riti speciali.
Il primo comma dell’art. 23-bis, L. 1034/71 delimita il proprio ambito di applicazione, individuando – con
un’elencazione da ritenersi tassativa, trattandosi di disposizione che deroga alle ordinarie regole del processo
amministrativo – i giudizi in relazione ai quali sono operative le norme del rito speciale.
Ai fini del presente lavoro assume importanza la lettera d) la quale contempla i ricorsi avverso “i
provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti”, rendendo applicabile il procedimento in
oggetto anche ai provvedimenti adottati dall’ISVAP, posto che l’Istituto deve ritenersi appartenente a tale categoria
di enti, come meglio si dirà in seguito.
Il secondo comma dell’art 23-bis dispone che “I termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo
quelli per la proposizione del ricorso”, ponendo in luce, in tal modo, la ratio della norma, che è volta ad assicurare
una rapida decisione del giudice nei settori interessati.
L’esclusione dal dimezzamento del termine relativo alla presentazione del ricorso che, dunque, rimane di 60
giorni, rende verosimile l’assunto che il legislatore abbia voluto sottrarre alla ristrettezza dei tempi la
predisposizione degli atti di impugnativa di provvedimenti concernenti settori particolarmente complessi e delicati.
Altra peculiarità, in relazione alle controversie di cui al rito speciale in oggetto, attiene al deposito del
dispositivo e della sentenza. Infatti, il comma 6 dell’art. 23-bis, l. TAR, prevede che il dispositivo delle sentenze
relative al rito speciale di cui al comma 1 venga depositato in cancelleria entro sette giorni dalla data dell’udienza,
ponendo in tal modo la premessa per un appello immediato, finalizzato anche alla sospensione dell’esecuzione
della sentenza con riserva dei motivi, che andranno proposti entro trenta giorni dall’anzidetta pubblicazione del
dispositivo.
Tale previsione sembra potersi interpretare nel senso che la parte possa ottenere una tutela cautelare
anticipata, avente ad oggetto esclusivamente il pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza. Utilizzando un
siffatto rimedio, sarebbe dunque possibile ottenere un provvedimento i cui effetti si protraggono fino alla
successiva Camera di Consiglio nella quale il Giudice, valutati i motivi che nel frattempo saranno stati presentati,
potrebbe pronunciarsi effettivamente anche sul merito del gravame.
Per tale via, invero, troverebbe ingresso nel giudizio di secondo grado una previsione analoga a quella
introdotta ex art. 3 l. 205/2000, vale a dire la cosiddetta supersospensiva che, per l’appunto, produce i suoi effetti
fino alla prima Camera di Consiglio utile.
Riguardo alla questione dei termini, però è da sottolineare la presenza, nel testo legislativo, di talune
incongruenze che destano perplessità e non sembrano di facile comprensione.
Il comma 7 dell’art. 23-bis, infatti, prevede che il termine per proporre appello avverso le sentenze del TAR
nei giudizi di cui al comma 1, sia di 30 giorni dalla notificazione ovvero di 120 giorni dalla pubblicazione della
sentenza di primo grado; si dimezza, dunque, in tale ipotesi, il termine per la proposizione del ricorso. E’ di tutta
evidenza la disparità di trattamento tra due situazioni analoghe: in entrambi i casi – ex art. 23-bis, comma 2 e
comma 7, l. 1034/71 - si tratta della proposizione di un ricorso, l’ambito è il medesimo, eppure in un caso il termine
è stato ridotto e nell’altro ciò non è avvenuto. In tal senso, l’unica possibile spiegazione potrebbe riguardare la
circostanza che l’appello presuppone una pratica già istruita.
Inoltre, relativamente alla proposizione dell’appello è disposto che il termine di 120 giorni decorra dalla
pubblicazione della sentenza, ma di tale adempimento non è prevista la comunicazione, che è invece prevista con
riferimento all’altro termine, anch’esso di 120 giorni, fissato per l’integrazione dei motivi dell’appello prodotto
avverso il solo dispositivo della sentenza. Lo stesso comma 7, infatti così dispone : “La parte può, al fine di
ottenere la sospensione dell’esecuzione della sentenza, proporre appello nel termine di 30 giorni dalla
pubblicazione del dispositivo, con riserva dei motivi, da proporre entro 30 giorni dalla notificazione ed entro 120
giorni dalla comunicazione della pubblicazione della sentenza”.
Ancora in relazione ai termini, nulla è detto in ordine a quello per la proposizione del ricorso incidentale il
quale, già proponibile in via ordinaria nel termine breve di 30 giorni, in assenza di espresse previsioni idonee ad
escluderlo dal dimidiamento dei termini di cui all’art. 23-bis, sarebbe proponibile nel termine di appena 15 giorni.
Da questo punto di vista, nell’impossibilità di comprendere la ragione per la quale l’esenzione dalla riduzione del
termine dovrebbe valere per la proposizione del ricorso principale e non per quella del ricorso incidentale,
sembrerebbe ragionevole, in una prospettiva costituzionalmente orientata, includere anche quest’ultimo
nell’eccezione alla regola del dimezzamento.
Quanto all’ambito applicativo del rito abbreviato in appello, il comma 8 dell’art. 23-bis, l. 1034/71, ne
prevede l’applicabilità solo in presenza di un’istanza di sospensione della sentenza impugnata. Tale previsione è
giustificata da quella ex art. 10, l. 205/2000 che introducendo un nuovo comma nell’art. 33 legge T.A.R., consente
l’estensione del giudizio di ottemperanza anche alle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato: le esigenze
acceleratorie che sono alla base del rito abbreviato, dunque, vengono meno in caso di sentenza eseguita o
eseguibile per mezzo del giudizio d’ottemperanza.
Altra disposizione di rilievo, nell’ottica dell’accelerazione del processo e quindi di una più rapida tutela nei
settori indicati, è quella contenuta nel comma 3 dell’art. 23-bis. In esso si prevede che “Salva l’applicazione
dell’art 26, quarto comma il tribunale amministrativo regionale, chiamato a pronunciarsi su una domanda
cautelare, accertata la completezza del contraddittorio, ovvero disposta l’ integrazione dello stesso…, se ritiene ad
un primo esame che il ricorso evidenzi l’illegittimità dell’atto impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave
ed irreparabile, fissa con ordinanza la data di discussione nel merito alla prima udienza successiva al termine di
trenta giorni dalla data di deposito dell’ordinanza…”.
Tale disposizione riguarda in tutta evidenza l’ipotesi di accoglimento della domanda cautelare da parte del
giudice amministrativo di primo grado. Infatti, si prevede espressamente che il giudice, ad un primo esame, debba
ritenere l’illegittimità dell’atto impugnato e la ricorrenza di un pregiudizio grave ed irreparabile nel darvi
esecuzione.
Ricorrendo i presupposti ai quali si è fatto cenno, dunque, l’udienza per la discussione del merito viene
fissata al primo giorno utile successivo al termine di trenta giorni dal deposito della relativa ordinanza. Ciò,
evidentemente, allo scopo di evitare che la concessione della misura cautelare produca l’effetto di paralizzare
l’azione amministrativa, tenuto conto dei tempi che normalmente occorrono per giungere all’udienza di discussione
del merito.
La norma, peraltro, fa salvo il quarto comma dell’art 26 TAR, come modificato dal comma 1 della L.
205/2000, per cui, in caso di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, manifesta inammissibilità e
improcedibilità dello stesso, il G.A. decide con sentenza “breve”, vale a dire con una sentenza succintamente
motivata (se ne parlerà in appresso).
In caso di rigetto dell’istanza cautelare da parte del TAR, invece, come previsto dal medesimo comma 3, se
l’ordinanza del giudice di primo grado viene riformata dal Consiglio di Stato in accoglimento della domanda
cautelare, la pronuncia di appello viene trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la fissazione
dell’udienza di merito. In tal caso, il termine di trenta giorni inizia a decorrere dalla data in cui la segreteria del
TAR – che ne dà avviso alle parti – riceve l’ordinanza.
Nel giudizio cautelare di cui all’articolo in esame, le parti possono depositare documenti entro il termine di
15 giorni dal deposito o dal ricevimento delle ordinanze di cui si è detto e possono depositare memorie nei
successivi dieci giorni.
Con le ordinanze di cui al comma 3, ove sussista l’ulteriore elemento dell’estrema gravità ed urgenza e siano
specificati i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso,
i giudici amministrativi di primo o di secondo grado possono altresì disporre “opportune misure cautelari”, come
contemplato nel comma 5.
E’ da notare che il legislatore, contrariamente alle normali ipotesi di richiesta di sospensiva, richiede
espressamente che il ricorso evidenzi “l’illegittimità dell’atto impugnato”, con conseguente, inevitabile aggravio
nella stesura della motivazione, che dovrà senz’altro essere più articolata in relazione a tale profilo.
Altro aspetto d’interesse riguarda la differenza tra le ordinanze di cui, rispettivamente, ai commi 3 e 5 che
sembrerebbe consistere, secondo parte della dottrina, nel fatto che con le prime si dispone esclusivamente la
sospensione del provvedimento impugnato, mentre con le seconde si possono disporre le misure che il giudice
ritenga più opportune in relazione al caso concreto.
E’ da segnalare, tuttavia, in merito al contenuto delle ordinanze di cui al comma 3, una difformità di opinioni
dottrinarie.
Secondo la prevalente dottrina, infatti, con tali ordinanze non si concederebbe la sospensione del
provvedimento impugnato, avendo le stesse l’unica funzione di anticipare la trattazione del merito del ricorso alla
prima udienza utile. In presenza dei presupposti di cui si è detto, dunque, non vi sarebbe concessione del rimedio
cautelare, ma solo un’ accelerazione del processo.
Anche i presupposti di adozione dei due provvedimenti sarebbero in parte differenti, dal momento che il
riferimento all’elemento dell’estrema gravità ed urgenza, rispetto al tradizionale presupposto del pregiudizio grave
ed irreparabile è contenuto nel solo comma 5; inoltre, il requisito dell’estrema gravità ed urgenza sarebbe idoneo
anche a legittimare l’istanza cautelare di cui all’art. 3, comma 1, L. 205/2000, ai fini della cosiddetta
“supersospensiva”.
Le misure cautelari, nell’ambito individuato dall’art. 23-bis, non costituirebbero, in conclusione,
un’eventualità ordinaria, bensì un rimedio da accordare solo nell’ipotesi della sussistenza dell’ulteriore requisito
dell’estrema gravità ed urgenza, così come previsto dal comma 5.
Resta comunque poco chiara la differenza tra il concetto di “pregiudizio grave ed irreparabile” e quello di
“estrema gravità ed urgenza”, così come mal si comprende la ragione per la quale, in presenza di un pregiudizio
grave ed irreparabile, il Giudice debba limitarsi a fissare l’udienza del merito, sia pure a 30 giorni, senza poter
sospendere il provvedimento impugnato.
Fondamentalmente, dunque, in presenza del duplice requisito “del pregiudizio grave ed irreparabile” e
“dell’illegittimità dell’atto impugnato”, il G.A. potrebbe soltanto fissare l’udienza ravvicinata del merito, mentre
per ottenere la concessione delle opportune misure cautelari occorrerebbe l’ulteriore requisito dell’estrema gravità
ed urgenza, laddove normalmente, per la sospensione del provvedimento impugnato, è sufficiente la prospettazione
del pregiudizio grave ed irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato o dal comportamento inerte
dell’amministrazione.
In ipotesi di tal fatta, si pone l’ulteriore interrogativo del comportamento che la P.A. debba tenere nelle more
dell’udienza fissata per la trattazione del merito. E’ evidente che non essendo stato il provvedimento sospeso, la
P.A. potrebbe portarlo ad esecuzione; tuttavia, ciò avverrebbe in presenza di un’ordinanza che ne dichiara
l’illegittimità e della possibilità di arrecare un pregiudizio grave ed irreparabile. Eseguendo il provvedimento,
pertanto, l’Amministrazione corre il rischio di essere condannata al risarcimento del danno. Per questa ragione,
appare opportuno che la stessa si astenga dal portarlo ad esecuzione.
In conclusione, pur essendo apprezzabile il tentativo di accelerare il processo amministrativo in settori di
particolare interesse, non ci si può esimere dall’evidenziare contraddizioni che parrebbero rendere necessaria una
rettifica della disciplina appena esposta, anche e soprattutto per scongiurare il pericolo di una menomazione del
diritto di difesa in quelle materie che il legislatore ha mostrato di ritenere particolarmente delicate.
Un ultimo rilievo concerne l’opportunità delle misure acceleratorie introdotte, con riferimento al problema
dei tempi processuali delle controversie non comprese tra quelle sottoposte al rito speciale di cui al comma 1, art
23-bis, l. 1034/71. I riti speciali, infatti, assorbendo in via preliminare l’attività del G.A., rischiano di aggravare
l’arretrato relativo alle controversie soggette al rito ordinario, allungando intollerabilmente per esse i tempi di
giustizia.
Nelle pagine che seguono si esamineranno in modo più approfondito alcuni dei temi più rilevanti toccati dalla
riforma.
Le decisioni in forma semplificata
Nell’ottica già sottolineata di un’accelerazione dei tempi del processo amministrativo, l’art. 9, l. 205/2000
introduce, attraverso la modifica del comma 4, art. 26, l. 1034/71 e l’aggiunta di nuovi commi al medesimo
articolo, la possibilità per il G.A. di pronunciare, nei casi specificati, decisioni in forma semplificata.
In particolare, il comma 4 dell’art. 26, l. 1034/71 prevede che il T.A.R. ed il Consiglio di Stato, nel caso in
cui ravvisino la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso, possano
decidere con sentenza succintamente motivata. Tale motivazione, si specifica, può anche consistere in un sintetico
riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero ad un precedente conforme. E’ di tutta evidenza
che l’accelerazione introdotta da tale innovazione, e la conseguente, inevitabile, compressione del diritto di difesa,
debbano in qualche modo trovare un contrappeso che, nel caso di specie, è dato dalla necessità che il motivo che
consente di ricorrervi sia “manifesto”. Siffatto requisito, per citare alcuni possibili esempi, risulterebbe senza
dubbio integrato nel caso di un’impugnazione presentata oltre il termine di decadenza, ovvero nel caso di mancanza
di giurisdizione in capo al G.A. adito.
Qualora, poi, si volesse ricorrere ad un precedente giurisprudenziale conforme, dal momento che non sono
previste ulteriori garanzie – come, ad esempio, la necessità di un orientamento giurisprudenziale costante – sembra
fondamentale che, in capo al Giudice, sussista la convinzione circa la superfluità di ogni attività istruttoria e che,
nella stesura della motivazione, non si ricorra a mere formule di stile. In caso contrario, infatti, vi sarebbe il fondato
rischio di frustrare il diritto di difesa del ricorrente, eludendo la valutazione delle argomentazioni proposte e, in
special modo, di quelle eventualmente difformi dal precedente stesso.
La cosiddetta “sentenza breve”, si precisa, può essere assunta, purchè risulti verificata la completezza del
contraddittorio, sia nella Camera di Consiglio fissata per esaminare l’istanza cautelare, sia in quella fissata d’ufficio
a seguito dell’istruttoria disposta ex art. 44, comma 2, T.U. 1054/1924.
In relazione alle suddette ipotesi, è possibile rilevare alcuni aspetti problematici. Quanto al primo caso, è
evidente che l’oggetto dell’esame da parte del G.A. muta completamente. Infatti, la valutazione relativa
all’accertamento dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, sulla base della convinzione del
Collegio inerente alla possibile definizione immediata del giudizio, si trasforma, per l’appunto, in un esame
definitivo sul merito del ricorso. Al riguardo, però, si osserva che l’esercizio di tale potestà da parte del G.A. è
assolutamente discrezionale ed insindacabile e, per siffatta ragione, le parti ed i loro difensori, dopo essersi
soffermati, verosimilmente, in prevalenza sui requisiti relativi all’istanza cautelare, potrebbero trovarsi di fronte ad
una decisione definitiva con evidente lesione del diritto di difesa circa gli altri aspetti del giudizio. E’ verosimile,
dunque, che le parti, in casi del genere, richiedano un breve differimento della discussione che non sarebbe
ragionevole negare, salvo l’assoluta certezza di ogni necessità di rinvio.
Nel corso della Camera di Consiglio, poi, quegli aspetti che inizialmente sembravano così certi da indurre il
Giudice a pronunciare una sentenza in forma semplificata, potrebbero assumere una diversa fisionomia, così da
rendere opportuno il rinvio della decisione sul merito.
Nella diversa ipotesi in cui il Collegio disponga l’esame istruttorio ai sensi dell’art. 44, comma 2, T.U. sul
Consiglio di Stato, approvato con regio decreto n. 1054 del 1924, potrebbe porsi un ulteriore questione. Infatti,
l’articolo citato riconosce al T.A.R. ed al Consiglio di Stato la possibilità di disporre qualunque mezzo istruttorio,
nei modi determinati dal regolamento di procedura, nei soli giudizi di merito previsti dallo stesso T.U.
In proposito, si osserva che la limitazione ai soli giudizi di merito appare assolutamente irragionevole in un
contesto in cui si è voluta attribuire, in via del tutto generica, la potestà di pronunciare sentenze “brevi”,
senz’alcuna distinzione fondata sulla sede processuale in cui l’esame è stato introdotto. Come spesso accade, allora,
il principio di ragionevolezza può essere d’aiuto nella risoluzione del problema: la lettura sistematica dei diversi
commi del novellato art 26, l. T.A.R., come poc’anzi accennato, non consente una distinzione tra giudizi di
legittimità e giudizi di merito. L’eventuale istruttoria, infatti, sarebbe indirizzata, in tutti i casi, al medesimo scopo:
rendere possibile la pronuncia in forma abbreviata in seguito all’accertamento dei requisiti richiesti, per cui sarebbe
irragionevole consentire mezzi probatori differenti per un’istruttoria volta a realizzare un identico scopo.
Quanto alla giurisdizione esclusiva, la possibilità di avvalersi dei mezzi istruttori previsti dal codice civile, ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento - è per essa prevista, in via generale, dall’art. 35, d.lgs.
80/98, come novellato ex art. 7, comma 3, l. 205/2000.
Un’ultima precisazione attiene all’assimilazione che la legge in esame dispone tra le sentenze in forma
abbreviata e le normali sentenze di merito: ad entrambi i tipi di sentenza, si applicano i medesimi mezzi
d’impugnazione.
Infine, l’ultimo comma del novellato art. 26, legge T.A.R. dispone, come ulteriore strumento acceleratorio
che “La rinuncia al ricorso, la cessazione della materia del contendere, l’estinzione del giudizio e la perenzione
sono pronunciate, con decreto, dal presidente della sezione competente o da un magistrato da lui delegato”.
In modo innovativo, dunque, si affidano una serie di questioni, peraltro non particolarmente rilevanti, alla
competenza di un giudice unico.
Spetterà poi alla segreteria, dare comunicazione della pronuncia del decreto alle parti costituite che, nel
successivo termine di sessanta giorni dalla comunicazione stessa, potranno proporre opposizione al collegio. La
pronuncia del collegio, che dovrà intervenire entro trenta giorni dal deposito dell’opposizione, assumerà, tanto nel
caso di accoglimento, quanto in quello di rigetto, la forma dell’ordinanza che sarà poi normalmente appellabile, con
l’unica peculiarità della riduzione di tutti i termini processuali alla metà.
La tutela cautelare
1.
La tutela cautelare nel processo amministrativo prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000
Prima dell’approvazione della legge di riforma del processo amministrativo la normativa in tema di misure
cautelari era piuttosto scarna, esaurendosi, in concreto, nelle disposizioni generali di cui agli artt. 21 legge n. 1034
del 1971, cd. legge T.a.r., e 39 T.U C.d.S., e in una serie di norme speciali in settori quali, ad esempio, quelli delle
espropriazioni e degli appalti pubblici.
Posta la regola fondamentale secondo cui la proposizione del ricorso giurisdizionale non sospende
l’esecuzione del provvedimento impugnato, l’unica misura cautelare espressamente prevista dal legislatore era la
cd. sospensiva. In presenza del duplice presupposto del periculum in mora, inteso quale grave ed irreparabile danno
derivante al ricorrente dall’attesa della decisione nel merito, e del fumus boni iuris, cioè della non manifesta
infondatezza del ricorso, il giudice concedeva la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, cioè
inibiva il verificarsi degli effetti lesivi della posizione giuridica soggettiva del ricorrente. La tutela cautelare,
quindi, impedendo il prodursi di quegli effetti irreversibili scaturenti dall’esecuzione del provvedimento
amministrativo, svolgeva una funzione essenzialmente conservativa della situazione di fatto esistente al momento
dell’adozione del provvedimento stesso.
Il sistema cautelare così delineato - se era in grado di soddisfare gli interessi del ricorrente nell’ipotesi di
impugnazione di un provvedimento positivo, cioè che incideva nella sfera giuridica del destinatario, modificandola
– non sembrava utilmente invocabile nel caso in cui oggetto di ricorso fosse un provvedimento tacito od espresso di
rifiuto (cd. provvedimento negativo). Infatti, la sospensione dell’efficacia del provvedimento negativo, così come
l’eventuale annullamento dello stesso nel merito, non era comunque idoneo a soddisfare l’interesse pretensivo del
ricorrente ad ottenere un provvedimento a lui favorevole. In sostanza la sua pretesa, necessitando di un ulteriore
intervento della P.A, rimaneva del tutto insoddisfatta anche nel caso di sospensione dell’esecuzione ovvero di
annullamento del provvedimento. Conseguentemente, la giurisprudenza escludeva la sospendibilità del
provvedimento negativo giustificando tale impostazione alla luce del principio fondamentale della separatezza dei
poteri: il giudice amministrativo, organo espressione della funzione giurisdizionale, non può sostituirsi alla P.A.
nella cura dell’interesse pubblico. Ad avviso della giurisprudenza, poi, costituiva ulteriore ostacolo il fatto che la
misura cautelare, imponendo un facere alla P.A., avrebbe prodotto in capo al ricorrente effetti più ampi di quelli
conseguibili con la decisione nel merito consistenti nell’annullamento dell’atto amministrativo impugnato.
La posizione di totale chiusura della giurisprudenza veniva superata, successivamente, affermando che
l’esclusione o la limitazione della tutela cautelare nei confronti dei provvedimenti negativi si poneva in contrasto
con il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.), con quello della inviolabilità della difesa in ogni stato e
grado del procedimento (art. 24, comma 2, Cost.) ed, infine, con il principio dettato dall’art. 113, comma 2, Cost.,
in base al quale “la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o
per determinate categorie di atti”.
In concreto, tale apertura si manifestava nell’adozione dei seguenti provvedimenti: ammissione con riserva a
concorsi, esami e gare contrattuali; ordine all’amministrazione di riesaminare la situazione alla luce dei motivi di
ricorso; ordine all’amministrazione di rilascio del provvedimento negato – nelle ipotesi in cui si tratti di atto dovuto
o vincolato - ed, infine, ordine di proseguire l’attività, in caso di inerzia procedimentale. Occorre, però, precisare
che soltanto nelle ipotesi di ammissione con riserva si era raggiunta una posizione quasi unanime della
giurisprudenza in quanto, non occorrendo alcun ulteriore intervento della P.A., si potevano escludere con certezza
eventuali interferenze fra potere giurisdizionale ed amministrativo. Negli altri casi, invece, la sospensione
dell’efficacia del provvedimento impugnato, determinando la reviviscenza giudiziale del dovere
dell’amministrazione di provvedere, comportava per il giudice l’adozione di ordinanze propulsive – che sollecitano
la P.A a provvedere nuovamente in attesa della definizione – e di ordinanze decisorie – con le quali il giudice
sostituisce la propria decisione all’atto fino alla decisione del merito.
2.
La tutela cautelare nella legge di riforma del processo amministrativo
La legge n. 205 del 2000 interviene, quindi, introducendo numerose disposizioni che rivoluzionano il sistema
originario della tutela cautelare. Alcune disposizioni della legge recepiscono orientamenti giurisprudenziali già
consolidati precisandone, pealtro, la portata e l’ambito di applicazione, altre si pongono in contrasto con
orientamenti giurisprudenziali già noti ed, infine, altre ancora costituiscono soluzioni originali di diretta
elaborazione legislativa.
Il principio fondamentale della riforma in materia cautelare è quello della effettività della tutela
giurisdizionale, che si concretizza nell’individuazione di rimedi giuridici idonei a soddisfare gli interessi del
ricorrente già in via interinale.
A tale principio si affianca quello della provvisorietà e strumentalità della tutela cautelare. Occorre, cioè,
evitare che l’ordinanza cautelare sostituisca la decisione nel merito del ricorso, esaurendo la tutela giurisdizionale a
favore del ricorrente e rendendo inutile la successiva fase del merito. Depone in tal senso il puntuale contenuto
dell’art. 3 legge 205 del 2000 laddove si fa riferimento “al tempo necessario a giungere ad una decisione di
merito”, nonché all’idoneità “ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso” ed analoghe
previsioni in cui si evince che sede più appropriata per la decisione della controversia è e rimane quella del merito.
La portata innovativa della legge si coglie già nel dato strettamente letterale, laddove l’art. 3, superando la
formulazione originaria della legge T.a.r., non si riferisce esclusivamente alla misura della sospensiva ma prevede
genericamente il potere del giudice di adottare le “misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma,
che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione”. Nella
prospettiva del legislatore, quindi, la sospensiva non è più ritenuta l’unica ed esclusiva misura cautelare idonea a
soddisfare gli interessi del ricorrente. Alla luce della genericità della norma attributiva del potere il g.a. potrà
adottare, oltre alla ben nota sospensiva, le ordinanze propulsive e decisorie la cui legittimità in passato era stata
messa in dubbio dalla giurisprudenza più conservatrice.
La genericità della formulazione della disposizione normativa induce, inoltre, a ritenere che l’interesse del
legislatore si sia soffermato principalmente sull’individuazione dello scopo delle misure applicabili dal giudice e,
quindi, sull’idoneità delle stesse ad assicurare provvisoriamente l’esito del ricorso. Anzi, il legislatore sembra
propendere per l’esclusione di una formale tipizzazione dei provvedimenti emanabili, privilegiando nella scelta del
giudice la valutazione delle circostanze di fatto e di diritto in concreto esistenti. Sarà, pertanto, esclusivamente la
valutazione discrezionale del giudice a stabilire la misura più idonea in relazione alla fattispecie ed al pregiudizio
lamentato dal ricorrente. Il potere cautelare del g.a., comunque, troverà un limite implicito nel rispetto dei principi
fondamentali della separatezza dei poteri e del divieto di far conseguire in sede cautelare effetti o vantaggi che il
ricorrente non potrebbe ottenere neanche in sede di esecuzione della sentenza.
Si consideri, tra l’altro, che la legge di riforma non prevede soltanto l’obbligo di motivazione della ordinanza
cautelare, ma richiede espressamente l’indicazione del pregiudizio allegato dal ricorrente nonché dei profili
attinenti ad un ragionevole esito del ricorso. In sostanza, attraverso una motivazione puntuale e precisa sarà
possibile conoscere l’iter logico seguito dal giudice nella valutazione dei presupposti previsti dalla legge e nella
scelta della misura più idonea per la tutela degli interessi del ricorrente. Pertanto, in sede di impugnazione del
provvedimento cautelare il Consiglio di Stato potrà accogliere l’appello non soltanto in assenza di motivazione ma
anche nell’ipotesi di incompletezza od insufficienza della stessa.
La giurisprudenza, in passato, aveva già avvertito l’esigenza di individuare ed applicare misure cautelari
ulteriori rispetto alla prevista sospensiva. In particolare, la giurisprudenza meno conservatrice aveva elaborato
nuove forme di tutela cautelare in tutte quelle fattispecie, quali ad esempio le impugnazioni dei provvedimenti taciti
od espressi di rigetto, in cui la sospensione dell’esecuzione del provvedimento non era in grado di preservare gli
interessi del ricorrente. Si era così addivenuti, come abbiamo già visto, all’emanazione di provvedimenti di
ammissione con riserva ed agli ordini di riesame delle istanze sulla base dei motivi del ricorso.
Analoghe esigenze avevano portato alcuni giudici amministrativi a contestare l’art. 21 legge T.a.r. sul piano
della legittimità costituzionale, laddove non prevedeva in sede di giurisdizione esclusiva del g.a. di adottare i
provvedimenti cautelari d’urgenza di cui all’art. 700 c.p.c.. La Corte Costituzionale, investita della questione, nella
nota sentenza n. 190 del 1985 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21 legge T.a.r. nella parte in cui,
limitando l’intervento d’urgenza del g.a. all’emissione del provvedimento di sospensione, non permette nelle
controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, di emanare
quei provvedimenti d’urgenza che appaiono più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione nel
merito. Sulla base di tale decisione sono stati, poi, emessi ordini di pagamento di provvisionali a favore del
ricorrente o di corresponsione di assegni alimentari.
Nonostante la pronuncia della Corte Costituzionale fosse limitata alle ipotesi di controversie patrimoniali in
materia di pubblico impiego, ci fu un tentativo da parte di alcuni g.a., tra i quali il T.a.r. Lombardia, di estendere
l’applicabilità del rimedio d’urgenza ex art. 700 c.p.c. anche ad altre fattispecie. Tale tentativo venne subito
vanificato dal Consiglio di Stato che bocciò i decreti emessi in primo grado ritenendoli viziati da “assoluta nullità”.
Un’altra rilevante innovazione della legge di riforma è quella di precisare, recependo un orientamento già
sostenuto dalla giurisprudenza, che il pregiudizio grave ed irreparabile può derivare non solo dall’esecuzione
dell’atto impugnato ma anche dal comportamento inerte della P.A.. In particolare, erano stati già emessi
provvedimenti di sospensione del silenzio procedimentale, configurabile quando la P.a. ha tenuto un
comportamento inerte in presenza di un obbligo inderogabile di provvedere, sospensione che consiste
nell’obbligare l’amministrazione a determinare la propria volontà (vedi sul punto: T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, n.
405 del 1989).
Per quanto concerne, invece, l’individuazione dei presupposti di fatto e di diritto essenziali per la concessione
della misura cautelare la legge n. 205 del 2000 non sembra aver introdotto novità di rilievo. Infatti, il presupposto
del “pregiudizio grave ed irreparabile” richiesto espressamente dall’art. 3 della legge di riforma è assimilabile
concettualmente a quello originariamente previsto dalla legge T.a.r. dei “danni gravi ed irreparabili” e a quello
delle “gravi ragioni” contemplato dal T.U. C.d.S.. Si tratta pur sempre di impedire, con l’adozione della misura
cautelare, il prodursi di quegli effetti, derivanti dall’esecuzione dell’atto, che in ragione della loro irreversibilità non
potrebbero essere eliminati anche in caso di eventuale successivo accoglimento del ricorso nel merito. Per tale
ragione la legge attribuisce al g.a. il potere di adottare le misure più idonee “ad assicurare interinalmente gli effetti
della decisione sul ricorso”.
Inoltre, la legge di riforma - prevedendo l’obbligo di indicare nella motivazione dell’ordinanza cautelare i
“profili che, ad un sommario esame, inducono a una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” - codifica
espressamente il requisito del fumus boni iuris. In realtà, tale requisito era già, pur in assenza di espliciti riferimenti
normativi, tradizionalmente ritenuto da dottrina e giurisprudenza presupposto implicito essenziale per l’emissione
della misura cautelare, essendo del tutto illogico ammettere una tutela interinale in presenza di manifesta
infondatezza del ricorso. Occorre, però precisare, che nella nuova ottica della legge 205 del 2000 il fumus boni iuris
non sembra più interpretabile, come avveniva originariamente, alla stregua di una non manifesta infondatezza del
ricorso, quanto piuttosto quale ragionevole probabilità di esito favorevole del ricorso stesso. La legge, infatti,
riferendosi alla ragionevole probabilità di esito del ricorso, attribuisce alla misura cautelare una funzione
prevalentemente anticipatoria, ma comunque mai sostitutiva, della decisione di merito. Una funzione meramente
conservativa dello status quo ante potrà ancora riconoscersi - come già avveniva in passato - ai provvedimenti di
sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato che, comunque, il g.a. potrà adottare in presenza dei presupposti di
legge.
3.
La cauzione nel processo cautelare
La legge n. 205 del 2000, ispirandosi al codice di procedura civile (art. 669-undecies) ha introdotto il potere
del g.a. di disporre la prestazione di una cauzione, anche in forma di fideiussione, cui subordinare la concessione
ovvero il diniego della misura cautelare, laddove dall’esecuzione del provvedimento cautelare possano derivare
effetti irreversibili. Anche in tal caso non si tratta di una novità assoluta nella materia amministrativa in quanto il
legislatore aveva già introdotto l’istituto della cauzione nelle leggi n. 166 del 1975 e n. 546 del 1977, disciplinanti
gli interventi straordinari di emergenza per l’attività edilizia.
La norma si limita ad individuare quale presupposto indefettibile per l’applicazione della cauzione il
prodursi di effetti irreversibili dall’esecuzione dell’istanza cautelare. E’ evidente che il carattere dell’irreversibilità
sarà caratteristica ravvisabile, per lo più, in relazione agli effetti materiali, determinando questi ultimi vere e
proprie modificazioni della realtà fenomenica non suscettibili di successiva riparazione o eliminazione. Gli effetti
giuridici, al contrario, determinando modificazioni astratte, presentano soltanto eccezionalmente il carattere della
irreversibilità.
La disposizione, inoltre, precisando che la cauzione può essere prestata anche mediante fideiussione, non
pone al g.a. alcun limite in ordine alla tipologia di provvedimenti che possono essere adottati. Spetterà, pertanto, al
g.a. stabilire il tipo di cauzione - disponendo quella ritenuta più idonea nella fattispecie concreta -, nonché i tempi,
l’ammontare ed ogni altra modalità concreta di prestazione della stessa. In ogni caso, in assenza di una disciplina
specifica della cauzione, si suggerisce di far ricorso in via interpretativa alla disciplina processual-civilistica in
quanto compatibile con le caratteristiche peculiari del processo amministrativo.
Per quanto concerne, invece, il rapporto fra l’ordinanza cautelare ed il provvedimento che dispone la
cauzione, si ritiene che questo debba essere configurato in termini di accessorietà, con la conseguenza che la
mancata prestazione della cauzione dovrà comportare la caducazione dell’ordinanza cautelare a cui si riferisce.
Inoltre, si ritiene che l’efficacia della cauzione non potrà andare oltre il deposito delle sentenza di decisione nel
merito, la quale dovrà, altresì, stabilire se la garanzia deve essere attivata dall’interessato o se si può procedere allo
svincolo della cauzione.
L’accessorietà, comunque, non esclude che il giudice dovrà procedere ad una duplice valutazione circa la
sussistenza dei presupposti per applicazione della misura cautelare e della cauzione, trattandosi, come è noto, di
provvedimenti con finalità del tutto diverse. La cauzione, infatti, assolve alla specifica funzione di garantire il
risarcimento del danno a favore della parte contro cui l’ordinanza cautelare è stata pronunciata, mentre la misura
cautelare tutela gli interessi del ricorrente in attesa della decisione sul merito. Pertanto, stante l’autonomia dei due
provvedimenti, il giudice amministrativo potrà concedere la sola misura cautelare senza disporre a carico della
parte alcuna cauzione. Tale impostazione risulta confermata dalla lettura della prima ordinanza di sospensione
disposta dal T.a.r. Sicilia (ordinanza 14 settembre 2000 n. 1592) con obbligo di prestazione di cauzione nella forma
della polizza fideiussoria bancaria o assicurativa. La motivazione dell’ordinanza, infatti, precisa che sussistono il
pregiudizio grave ed irreparabile e gli elementi di fondatezza per l’emissione della sospensiva e, in un capo
distinto, che dall’esecuzione dell’ordinanza cautelare discendono quegli effetti irreversibili che legittimano
l’imposizione della prestazione della cauzione.
La disposizione in materia di cauzione si chiude con il divieto di applicazione della stessa nell’ipotesi in cui
l’istanza cautelare attenga ad interessi essenziali della persona quali il diritto alla salute, ovvero ad altri beni di
primario rilievo costituzionale. I diritti fondamentali della persona, tutelati anche a livello costituzionale, non
possono subire alcuna limitazione neanche nella fase cautelare di un procedimento.
4.
Il potere di disporre “misure cautelari provvisorie”: la cd. “supersospensiva”
La legge di riforma attribuisce al Presidente del Tribunale o della sezione competente a decidere sul ricorso il
potere di emettere una misura cautelare provvisoria nei casi di “estrema gravità ed urgenza”. La misura cautelare
provvisoria può essere adottata anche dal Consiglio di Stato in sede di appello contro un’ordinanza cautelare o di
domanda di sospensione della sentenza appellata.
Il legislatore, pertanto, ha recepito l’orientamento di alcuni T.a.r., in particolare il T.a.r. Lombardia ed il
T.a.r. Emilia Romagna, che avevano optato per l’ammissibilità del rimedio. Il Consiglio di Stato, però, aveva
disatteso tale orientamento dichiarando affetti da nullità assoluta i decreti di sospensione assunti dal solo
Presidente, anziché dal Collegio, perché emessi in assenza di norme di legge, da un soggetto non investito di potere
giurisdizionale, con indebita sottrazione all’amministrazione del diritto di difesa.
Il presupposto fondamentale per l’adozione del decreto presidenziale è quello della estrema gravità ed
urgenza, tale da non consentire neanche l’attesa dello svolgimento della Camera di Consiglio. Tale norma, posta in
relazione con la disciplina generale della tutela cautelare, induce a ritenere che per la concessione della misura
provvisoria la situazione lamentata dovrà presentare un quid pluris rispetto al pregiudizio grave ed irreparabile
necessario per ottenere l’applicazione di una misura cautelare ordinaria. Si tratterà, in particolare di valutare se il
tempo necessario per la fissazione della Camera di Consiglio possa compromettere in modo irreparabile la
posizione giuridica del ricorrente.
La misura cautelare provvisoria potrà essere richiesta sia congiuntamente alla domanda di misura cautelare,
sia con istanza separata da notificarsi alle controparti. Da ciò si evince che il provvedimento cautelare provvisorio,
pur potendo essere adottato anche in assenza di contraddittorio, non potrà mai essere emesso a totale insaputa delle
controparti, come prevede invece l’art. 669 sexies, comma secondo, del c.p.c..
Considerato, poi, che la legge fa riferimento all’istanza notificata separatamente o alla richiesta di decreto
inserita nel ricorso, si può escludere, presupponendosi in entrambe la l’instaurazione di un giudizio, che le misura
cautelari presidenziali possano essere classificate come forme di tutela ante causam.
Il decreto presidenziale deve essere depositato in cancelleria e comunicato alle parti interessate e conserverà
la sua efficacia sino al momento in cui il collegio deciderà sull’istanza cautelare. Il decreto presidenziale, inoltre,
sarà inappellabile in quanto oggetto di impugnazione sarà l’ordinanza collegiale che lo conferma o lo riforma.
5.
Il rito abbreviato
Un ulteriore intervento della legge n. 205 del 2000 è stato quello di generalizzare l’applicazione di un istituto,
quello della decisione immediata nel merito delle controversie, finora previsto soltanto nelle cause in materia di
aggiudicazione di gare di appalto di opere pubbliche dall’art. 19 D.l. 67/1997, convertito in legge 135/1997.
Secondo la nuova disciplina, infatti, il giudice può decidere la causa nel merito già nella Camera di Consiglio
fissata per la trattazione della domanda cautelare. La decisione immediata nel merito può aver luogo, però, soltanto
ove “ne ricorrano i presupposti”. Tali presupposti non sono specificati nella norma in esame ma, stante l’espresso
richiamo all’art. 26 legge T.a.r. (come modificato dalla legge n. 205 del 2000), sarà a questa disposizione che dovrà
farsi riferimento per la loro individuazione. Pertanto, la decisione immediata sarà applicabile soltanto nei casi in cui
ricorrano “la manifesta fondatezza, ovvero la manifesta irricevibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso”.
La disposizione trova il suo fondamento nelle esigenze di celerità del giudizio che impongono di soddisfare
gli interessi del ricorrente nel più breve tempo possibile e compatibilmente con il rispetto del diritto di difesa. Per
tale ragione la norma ammette la possibilità di una decisione immediata soltanto previo accertamento della
completezza del contraddittorio (notificazione del ricorso alle parti residenti e controinteressati) e dell’istruttoria.
Laddove si ravvisi la non integrità del contraddittorio, il giudice dovrà disporne la reintegrazione con contestuale
fissazione di un’udienza pubblica per la trattazione del ricorso ed eventuale adozione di misure interinali
necessarie. In questa ipotesi, infatti, deve escludersi la possibilità di una decisione immediata in quanto la norma
nulla dispone in tale senso e, in secondo luogo, perché il rinvio dell’udienza ha già compromesso le esigenze di
accelerazione del ricorso e non vi sarà, quindi, più alcuna ragione logica per ammettere una decisione con rito
abbreviato.
Se la mancanza di integrità del contraddittorio, invece, non consente la successiva integrazione ed è tale da
comportare l’irricevibilità manifesta del ricorso, il giudice potrà certamente decidere la controversia in forma
abbreviata.
La norma, inoltre, prevede espressamente che debbano essere sentite le parti costituite. Se ne desume che le
parti, pur in assenza del riconoscimento di uno specifico potere di opposizione alla decisione immediata, potranno
comunque manifestare le ragioni per le quali sarebbe opportuno procedere nelle forme ordinarie. Tali
considerazioni dovranno, poi, essere oggetto di esame da parte del Collegio, unico organo competente a valutare
l’opportunità di una decisione con rito abbreviato.
6.
Le spese
La legge di riforma si occupa anche del problema della liquidazione delle spese nella fase cautelare,
disponendo che il giudice “può provvedere in via provvisoria sulle spese del procedimento cautelare”. Trattasi,
pertanto, di una facoltà che il Collegio potrà esercitare secondo il suo prudente apprezzamento. La pronuncia sarà
ovviamente provvisoria e può essere modificata con la decisione di merito. La provvisorietà discende da una
duplice ragione: da un lato è difficile quantificare le spese in questa fase del giudizio, dall’altro l’esito del giudizio
di merito può essere contrario a rispetto alle determinazioni assunte in sede cautelare.
La pronuncia sulle spese può aver luogo soltanto “con l’ordinanza che rigetta la domanda cautelare o
l’appello contro un’ordinanza cautelare”. Se ne desume che la finalità perseguita dal legislatore con la disposizione
in esame è prevalentemente di natura deflativa, mirando alla riduzione delle istanze pretestuose e ingiustificate.
La medesima disciplina trova applicazione anche nel giudizio d’appello.
La norma, poi, prevede la possibilità di condanna alle spese anche nei casi di dichiarazione di inammissibilità
o irricevibilità . Sul punto, si precisa che l’inammissibilità e l’irricevibilità devono comunque porsi in relazione
all’ordinanza cautelare ovvero all’appello.
7.
La priorità di trattazione del ricorso nel merito
Il quinto capoverso dell’art. 3 della legge n. 205 del 2000, dispone espressamente la priorità della fissazione
del merito dei ricorsi con sospensiva accolta. Trattasi di disposizione a carattere organizzativo estremamente
opportuna se si tiene conto delle finalità peculiari della tutela cautelare, ma destinata a scontrarsi con la realtà dei
Tribunali amministrativi regionali, oberati da un numero rilevante di cause e con organico sottodimensionato.
La disposizione in esame dovrebbe, poi, rientrare nel generale rinvio operato dall’ultimo comma dell’art. 21
legge T.a.r., come modificato dall’art. 3 legge n. 205/2000, che prevede l’applicazione delle disposizioni in materia
cautelare dettate per il giudizio di primo grado anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato. Ne consegue, che la
priorità di fissazione dell’udienza verrebbe ad operare anche nei giudizi di fronte al giudice dell’appello, ivi
comprese le ipotesi in cui la tutela negata in primo grado venga concessa dal Consiglio di Stato.
8.
La questione dell’appellabilità e dell’esecuzione delle ordinanze cautelari
Un’ultima notazione meritano le questioni dell’impugnazione e dell’esecuzione dell’ordinanza cautelare.
In passato, in assenza di espresse disposizioni normative, la giurisprudenza sanciva il principio
dell’appellabilità delle ordinanze cautelari, trattandosi di atti aventi natura giurisdizionale ai quali necessariamente,
per motivi di omogeneità ed armonia, doveva applicarsi il principio del doppio grado di giurisdizione di cui all’art.
125 Cost..
Anche in tema di esecuzione delle ordinanze cautelari, dopo una prima fase di totale chiusura, la
giurisprudenza ammetteva la possibilità di applicare in via analogica il giudizio di ottemperanza (vedi C.d.S., sez.
V, 25/05/1997, n. 327). Secondo tale impostazione, l’interesse del ricorrente poteva dirsi tutelato in via interinale
soltanto laddove fosse garantita all’interessato la possibilità di portare ad esecuzione il provvedimento cautelare
anche contro la volontà della stessa P.a.. Nell’ipotesi, peraltro assai frequente, in cui la P.a. teneva un
comportamento omissivo od elusivo del contenuto precettivo del provvedimento interinale doveva, quindi,
riconoscersi al ricorrente il potere di agire in sede di ottemperanza.
Con la legge di riforma il legislatore ha accolto entrambi gli orientamenti giurisprudenziali, prevedendo
espressamente sia l’appellabilità delle ordinanze cautelari, sia l’eseguibilità delle stesse attraverso il giudizio di
ottemperanza.
In particolare, la legge dispone che l’appello avverso le ordinanze cautelari possaessere proposto entro il
termine ordinario di 60 gg. dalla notificazione dell’ordinanza ovvero entro il termine, del tutto nuovo, di 120 gg.
che decorrono dalla comunicazione da parte della Segreteria del Tribunale dell’avvenuto deposito dell’ordinanza
stessa. In precedenza, invece, nel caso di mancata notificazione dell’ordinanza il termine per proporre appello era
quello ordinario previsto per le sentenze di un anno dal deposito. Il legislatore, probabilmente, ha ritenuto più
opportuno fissare un termine più breve, perché la situazione sostanziale sottostante non sia tenuta troppo tempo in
uno stato di incertezza.
Per quanto concerne l’esecuzione, la legge in esame dispone che, nel caso di inottemperanza totale o parziale,
l’interessato possa rivolgersi al tribunale che ha emesso il provvedimento cautelare per ottenere “le opportune
disposizioni attuative”. Il contenuto della domanda potrà essere indeterminato e spetterà al giudice adottare (anche
attraverso un Commissario ad acta) tutti gli atti ed i comportamenti che garantiscono la realizzazione effettiva della
tutela cautelare. E’ evidente che nel caso in cui tratti di un provvedimento di tipo sospensivo si detteranno misure
finalizzate ad impedire che il provvedimento impugnato sia portato ad esecuzione. Nel caso, invece, di tutela
cautelare nei confronti di un provvedimento negativo l’esecuzione potrà risolversi anche nell’adozione del
provvedimento in luogo della P.a. competente, limitatamente alle ipotesi in cui, però, l’atto sia dovuto in presenza
dei requisiti di legge.
9.
La sospensione nel ricorso straordinario al Capo dello Stato
Accogliendo una prassi giudiziaria del tutto sporadica, la legge di riforma prevede espressamente la
possibilità di adottare il provvedimento di sospensione nell’ambito del ricorso straordinario al Capo dello Stato. Il
presupposto di adozione della misura cautelare è il medesimo previsto in sede giurisdizionale e consiste
nell’allegazione di “danni gravi e irreparabili drrivanti dall’esecuzione dell’atto”.
Tale disposizione, a differenza di quanto previsto per il processo amministrativo, si limita ad indicare
unicamente la sospensione del provvedimento impugnato. Sembrerebbe, quindi, che il legislatore, richiamando
espressamente solo la sospensiva, abbia voluto ammettere in sede di ricorso straordinario soltanto l’applicabilità di
tale misura.
Questa interpretazione sembra, però, confliggere con le caratteristiche proprie del procedimento di ricorso
straordinario al Capo dello Stato in cui oggetto di tutela possono essere posizioni sia di diritto soggettivo( e fra esse
anche posizioni patrimoniali), sia di interesse legittimo. Ed è proprio in rapporto alle posizioni di diritto soggettivo
che lo strumento della sospensiva si profilerebbe inidoneo alla piena tutela degli interessi del ricorrente.
In ogni caso, considerato che la norma in esame ha natura derogatoria ed eccezionale sembra doversi
propendere per una interpretazione rigorosa con conseguente applicabilità della sola misura della sospensiva.
La sospensione è disposta con atto motivato del Ministero competente, su conforme parere del Consiglio di
Stato.
LE AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI E L’ISVAP
Premessa
L’art. 23-bis, l. 1034/71, introdotto dall’art. 4, l. 205/2000, prevede, come si è detto in precedenza,
l’applicazione di un rito speciale alle controversie di competenza del G.A. che riguardino le materie specificate
dall’articolo medesimo. In particolare, la lett. d) del comma 1, l. 1034/71, stabilisce che siano trattati con tali riti i
giudizi aventi ad oggetto i provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti.
La disposizione in oggetto, di fondamentale importanza anche per il fatto di costituire il primo riferimento
normativo espresso alle autorità amministrative indipendenti come categoria a sé – inizialmente enucleata dalla
dottrina -, pone delicati problemi interpretativi proprio con riferimento all’individuazione delle predette autorità.
La norma, infatti, nulla dice in ordine alla definizione delle autorità amministrative indipendenti, per cui è
compito dell’interprete riconoscerne di volta in volta i caratteri, al fine di stabilire l’applicazione o meno del rito
speciale introdotto dalla l. 205/2000.
Il problema, come già accennato nel paragrafo precedente, riguarda anche l’ISVAP, per la possibilità che i
provvedimenti relativi siano inseriti nell’ambito di tale categoria di atti.
Preliminarmente, dunque, allo scopo di affrontare al meglio la questione relativa all’Istituto, occorre
precisare gli elementi che secondo l’elaborazione dottrinaria contraddistinguono le autorità amministrative
indipendenti, in relazione al ruolo ed alle funzioni che le stesse sono chiamate a svolgere all’interno
dell’ordinamento.
1)
Funzioni e caratteri delle autorità amministrative indipendenti
Le autorità amministrative indipendenti sono enti pubblici deputati a svolgere una funzione tutoria in
relazione ad interessi ritenuti di particolare importanza, in quanto dotati di rilievo costituzionale – obiettività
dell’informazione e diritto di manifestazione del pensiero, libertà di concorrenza, contemperamento fra diritto di
sciopero ed altri diritti della persona riconosciuti costituzionalmente, tutela del mercato finanziario… -.
Il concetto stesso di funzione tutoria implica lo svolgimento di un’attività in posizione di assoluta neutralità
ed equidistanza rispetto ai diversi interessi, pubblici e privati, che di volta in volta entrano in gioco. Diverso,
malgrado la distinzione sia molto sottile, è il concetto di imparzialità cui la P.A. deve attenersi nello svolgimento
dell’attività di cura dell’interesse pubblico che la norma attributiva del potere le ha assegnato.
Infatti, la P.A. non è in posizione di equidistanza rispetto agli interessi coinvolti, essendo chiamata a
massimizzare la cura dell’interesse pubblico ad essa attribuito. Il concetto d’imparzialità, pertanto, si sostanzia
nell’attenta ponderazione degli interessi in contrasto con l’interesse pubblico primario, evitando ogni tipo di
discriminazione o di favoritismo. Naturalmente la funzione tutoria di cui sono accreditate le Autorità indipendenti
va intesa in senso lato, dovendosi sussumere nella categoria non soltanto le Autorità investite di compiti di garanzia
e, in tale ambito, di soluzione di conflitti intersoggettivi, ma anche quelle investite di compiti di regolazione di
determinati settori di attività economica, in vista di un ordinato svolgimento di esse nell’interesse dell’utenza e del
mercato. In tal senso si sono orientati, del resto, i lavori della poi interrotta Bicamerale per la riforma della
Costituzione.
Escluso, peraltro, che l’indipendenza possa intendersi come attributiva di poteri insindacabili, appare corretto
che essa si consideri in termini di accentuata autonomia.
Chiariti, in tal modo, il significato e la portata della funzione tutoria, è agevole comprendere la ragione
dell’indipendenza delle autorità amministrative: infatti, al fine di garantire l’effettiva tutela di settori tanto delicati,
era necessario sottrarre i soggetti chiamati a tale funzione da ogni ingerenza del potere politico, esecutivo ed
economico.
Passando su un piano più concreto, è essenziale analizzare brevemente le forme di autonomia che
caratterizzano le autorità amministrative indipendenti, tenendo peraltro presente che, essendo le stesse non già un
istituto, bensì un fenomeno giuridico, non è possibile indicare caratteristiche comuni a tutte e sempre
contemporaneamente presenti.
a)
L’autonomia
Le leggi istitutive delle autorità amministrative indipendenti, prevedono molteplici forme di autonomia, in
misura più o meno variabile; quelle che seguono sono le più ricorrenti.
L’autonomia organizzatoria consiste nella facoltà di darsi autonomamente le regole relative al
funzionamento degli organi ed è comune pressoché a tutte le autorità amministrative indipendenti.
L’autonomia funzionale consiste nella possibilità di esercitare poteri provvedimentali senza il
condizionamento di direttive politiche.
L’autonomia finanziaria, invece, è data dalla possibilità di disporre di entrate proprie e, al contrario della
forma di autonomia poc’anzi specificata, costituisce una eccezione nel panorama delle autorità in oggetto. A parte
l’ISVAP, che si autofinanzia attraverso un contributo annuale obbligatorio a carico delle imprese di assicurazione,
la Banca d’Italia che ha una propria autonomia di bilancio e la CONSOB che si finanzia in parte con contributi
dello Stato e in parte con contributi a carico dei soggetti vigilati, le altre autorità amministrative indipendenti,
invero, vengono sovvenzionate attraverso trasferimenti di fondi del bilancio statale.
L’autonomia contabile, infine, consiste nella possibilità di determinare le regole relative alla gestione del
proprio bilancio, anche in deroga alle norme sulla contabilità statale.
b)
Le garanzie
Una volta affermato che la caratteristica fondamentale delle autorità amministrative indipendenti è data dalle
varie forme di autonomia nei confronti di ogni forma di potere e di ogni altro condizionamento, è opportuno
precisare che tale autonomia è assicurata da tutta una serie di garanzie, prima fra tutte quella relativa ai criteri di
nomina dei titolari degli organi. Infatti, com’e’ ovvio, l’effettiva autonomia di tali autorità e’ una naturale
derivazione dell’indipendenza dei suoi vertici. E’ fondamentale, dunque, che le leggi istitutive prevedano criteri di
nomina dei titolari degli organi di vertice che ne garantiscano l’indipendenza, in particolare limitando la
discrezionalità del Governo in relazione a tali nomine. In tal senso, è per lo più richiesto che si tratti di persone
particolarmente qualificate, e note per la loro specchiata moralità ed indipendenza; talvolta, la nomina è addirittura
sottratta all’Esecutivo, per essere attribuita ad organi costituzionali quali i Presidenti delle Camere. Quanto ai
requisiti soggettivi, inoltre, dato l’elevato tecnicismo attinente ai settori interessati, è talvolta richiesta
un’approfondita conoscenza o una specifica esperienza nelle materie tecniche ed amministrative relative ai settori
economici di cui le singole Autorità hanno cura.
Infine, l’indipendenza è garantita anche dalla durata, dalla limitata revocabilità e dalla limitata
rinnovabilità della carica. Il principio fondamentale è costituito dal fatto di consentire agli organi di vertice di
restare in carica per un tempo sufficiente ad esercitare stabilmente la funzione, ma non tanto lungo da eludere la
necessaria esigenza di alternanza.
Nei confronti del Governo, non esiste alcun collegamento funzionale, essendo le autorità amministrative
indipendenti sottratte tanto al potere di direttiva, quanto a quello di controllo, in ragione dell’assenza di un vincolo
gerarchico. L’unico, e peraltro limitato, potere di controllo consiste nel potere di revocare il mandato agli organi di
vertice per gravi e ripetute violazioni di legge e per impossibilità di funzionamento.
Nei confronti del Parlamento, invece, quasi tutte le autorità amministrative indipendenti sono tenute ad un
obbligo d’informazione che si realizza attraverso la presentazione di una relazione annuale sulla propria attività.
c)
I poteri
Sono tre le principali categorie di poteri che le leggi istitutive conferiscono alle autorità amministrative
indipendenti per lo svolgimento dell’ attività di tutela dei settori di competenza.
In primo luogo, i poteri ispettivi e d’indagine che si fondano sulla possibilità di richiedere notizie ed
informazioni, nonché l’esame di atti e documenti in relazione alle attività controllate.
In secondo luogo i poteri sanzionatori, sollecitatori e di proposta.
Infine, i poteri decisori, cosiddetti paragiurisdizionali, consistenti nella possibilità di decidere le
controversie rientranti nella competenza di ciascuna Autorità.
L’ISVAP
Le considerazioni precedenti consentono di affrontare il punctum pruriens relativo alla natura giuridica
dell’ISVAP.
La discussione non è meramente accademica, dal momento che risvolti pratici di non poco conto conseguono
al riconoscimento o meno dell’ISVAP come autorità amministrativa indipendente, così come è stato evidenziato in
relazione all’applicabilità del rito speciale introdotto con la legge n. 205/2000. Sul punto, resistono incertezze
dottrinarie determinate da un approccio superficiale al problema.
Infatti, i dubbi che ancora si esprimono sull’effettiva indipendenza dell’ISVAP da ogni potere e, in special
modo, da quello governativo, si fondano su una visione tuttora ancorata all’immagine che dell’Istituto emergeva
dalla legge istitutiva – la l. 576/82 -, senza considerare le modifiche col tempo apportate alla normativa originaria,
che hanno trasformato l’ISVAP nella vera authority del settore assicurativo.
Invero, analizzando la questione da un’angolazione storico-evolutiva, appare evidente la progressione
normativa nel senso indicato.
L’ISVAP, difatti, nella disciplina iniziale prevista dalla l. n. 576/82, era ancora strettamente legato al
Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato che esercitava nei suoi confronti e, più in generale, nei
confronti del mercato assicurativo, poteri di indirizzo, di direttiva e di controllo.
Successivamente però, soprattutto con il d.P.R.385/94 e con il d.lgs. 373/98 è stata introdotta un’ampia
deregolamentazione che ha comportato il trasferimento all’ISVAP di quasi tutte le attribuzioni precedentemente
affidate al Ministero dell’Industria.
In particolare l’art. 4, comma 4, d.lgs. 373/98, infatti, modificando l’art. 2, comma 1, d.P.R. 385/94,
stabilisce, tra l’altro che “…Tutte le attività di controllo e vigilanza in materia di assicurazioni private ed interesse
collettivo…in precedenza esercitate dal Ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, sono trasferite
all’ISVAP, che le esercita in piena autonomia giuridica, patrimoniale, contabile, organizzativa e gestionale e nel
rispetto esclusivo del proprio ordinamento, come definito dalla legge 12 agosto 1982, n. 576 e successive
modificazioni ed integrazioni.” Tale articolo, chiarissimo nella sua formulazione, dovrebbe essere più che esaustivo
in relazione alla questione in premessa.
Alla luce di quanto appena esposto, è possibile verificare la sussistenza, in capo all’ISVAP, dei requisiti
caratterizzanti le Autorità indipendenti e di cui si è detto nel precedente paragrafo.
In particolare, è pacifico che l’Istituto goda di autonomia organizzatoria, nel senso che le norme relative alla
propria organizzazione e quelle statutarie sono deliberate dal Consiglio; è parimenti certo che esso ha autonomia
contabile, come risulta dall’art. 14, comma 1, lett. a), secondo cui la disciplina relativa alla gestione delle spese può
essere disposta anche in deroga alle disposizioni sulla contabilità generale dello Stato.
Quanto all’autonomia finanziaria, si ribadisce che l’ISVAP è fra le pochissime autorità che si autofinanziano,
attraverso il contributo obbligatorio a carico delle imprese di assicurazione.
Riguardo ai criteri di nomina degli organi di vertice ed alle connesse garanzie di autonomia, si osserva che il
Presidente è nominato con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro
dell’Industria e dura in carica 5 anni.
E’ altresì previsto che lo stesso sia persona d’indiscussa moralità ed indipendenza, nonché dotata di
approfondita conoscenza delle materie tecniche ed amministrative relative all’attività assicurativa. Il Presidente
dell’ISVAP, inoltre, nel periodo di durata della sua carica, non può svolgere alcun’ altra attività; egli può essere
riconfermato una volta sola; per la sua rimozione o sospensione dall’incarico sono richieste le medesime forme e
garanzie relative alla nomina.
Quanto alle funzioni ed ai poteri di spettanza dell’Istituto, ad esso competono poteri prescrittivi, accertativi e
repressivi di autonoma applicazione ed ampia discrezionalità nei confronti di tutti gli operatori del mercato
assicurativo (imprese, gruppi assicurativi, strutture di outsourcing, agenti, broker, periti), residuando in capo
all’Autorità ministeriale il solo potere di dare forma con propri decreti alle proposte di commissariamento,
liquidazione coatta e irrogazione di sanzioni pecuniarie.
In conclusione, dalle considerazioni appena svolte, tenuto conto del raffronto con i requisiti che la dottrina
tradizionalmente riconosce alle autorità indipendenti e della progressiva assunzione dei compiti precedentemente
attribuiti al Ministero dell’Industria, emerge con nettezza che l’ISVAP va annoverato tra le autorità della specie.
Il riconoscimento in capo all’Isvap dei tratti peculiari di un’Authority, com’è ovvio, risolve in senso positivo
la questione relativa all’applicabilità del rito abbreviato previsto dall’art. 23-bis, l. 1034/71 alle controversie aventi
ad oggetto i provvedimenti adottati dall’Istituto.
Il ricorso avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione
1.
La disciplina dell’impugnazione del silenzio-inadempimento prima della approvazione della legge n. 205 del
2000
In via preliminare è opportuno specificare che per silenzio-inadempimento (o silenzio-rifiuto) deve intendersi
l’inerzia della P.a. nel decidere su un’istanza del privato, in presenza di un obbligo giuridico di provvedere sancito
dalla legge, da un regolamento o da un altro provvedimento amministrativo. Rimangono fuori dalla nozione di
silenzio-rifiuto le ipotesi di silenzio cd. significativo ravvisabile in quelle ipotesi in cui è la legge ad attribuire
all’inerzia della P.a., attraverso una vera e propria finzione giuridica, il valore di provvedimento di accoglimento
(cd. silenzio-assenso) ovvero di diniego (cd. silenzio-rigetto) dell’istanza del privato.
Considerato che in presenza di un comportamento inerte della P.a. non risulta emanato alcun provvedimento
suscettibile di impugnazione, il problema fondamentale affrontato dalla dottrina e dalla giurisprudenza era quello di
ricostruire un sistema di tutela degli interessi del privati lesi dal comportamento inadempiente della P.a..
La prima soluzione adottata dalla giurisprudenza consisteva nell’applicare in via analogica le disposizioni previste
in materia di silenzio-rigetto sul ricorso gerarchico (art. 5 T.U. legge com. e prov. del 1934). Pertanto, decorsi 120
gg. dalla presentazione del ricorso l’interessato doveva notificare alla P.a. un atto formale di diffida necessario per
la messa in mora; decorsi altri 60 gg. dalla diffida, il ricorso si intendeva respinto a tutti gli effetti. Utilizzando
questo meccanismo, il privato poteva ricorrere in giudizio avverso il silenzio-rifiuto soltanto dopo il decorso del
termine di 60 gg. dalla diffida.
Successivamente, l’art. 6 del d.P.R. del 1971 n. 1199, dopo aver formalmente abrogato la disposizione in esame,
introduceva un nuovo iter procedimentale per la formazione del silenzio-rigetto in tema di ricorso gerarchico, con
la conseguente riproposizione del problema della disciplina applicabile alla formazione del silenzio-rifiuto. Il
dibattito dottrinario e giurisprudenziale instauratosi sulla questione si concludeva definitivamente con la pronuncia
dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978, che ha ritenuto applicabile in questa materia l’art. 25 del Testo Unico degli
impiegati civili dello Stato. Perciò, il silenzio-inadempimento si riteneva formato quando, trascorsi 60 gg. dal
deposito dell’istanza sulla quale la P.a. era tenuta a provvedere, e notificato successivamente ad essa un atto di
messa in mora, l’amministrazione non avesse provveduto nel termine di 30 gg..
Per quanto concerne, invece, la problematica inerente all’individuazione dell’oggetto del giudizio nel caso di
impugnazione del silenzio-inadempimento, la giurisprudenza e la dottrina concordavano nel ritenere che il giudice
dovesse accertare l’esistenza o meno in capo alla P.a. dell’obbligo di provvedere e l’inosservanza ingiustificata di
tale obbligo. Il giudizio sul silenzio-rifiuto aveva, quindi, i caratteri tipici di un giudizio non impugnatorio destinato
a concludersi con una sentenza di mero accertamento che dichiarava l’obbligo della P.a. di provvedere, ovvero lo
dichiarava inesistente. Nell’ipotesi di atti vincolati, però, la giurisprudenza riconosceva in capo al g.a un potere più
ampio che, andando al di là del mero accertamento dell’illegittimità del silenzio-rifiuto, poteva concretizzarsi nella
pronuncia sulla fondatezza o meno della domanda del ricorrente. Questo nuovo orientamento giurisprudenziale,
introdotto con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 1978, recepiva la posizione della
dottrina secondo la quale nel giudizio sul silenzio rifiuto il giudice era chiamato a giudicare, non la legittimità
dell’inerzia, ma il rapporto intercorso fra P.a. e privato.
Con l’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo, si riproponeva il problema dell’individuazione
del meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto. Infatti, la legge n. 241 del 1990, nel perseguimento del primario
obiettivo dell’efficienza dell’azione amministrativa, introduceva una disposizione che sanciva l’obbligo di
concludere il procedimento con provvedimento esplicito entro il termine fissato dall’amministrazione procedente,
ovvero entro il termine di 30 gg.. Alla luce del nuovo dettato normativo, poteva legittimamente affermarsi che non
era più necessario per la formazione del silenzio-rifiuto il complesso meccanismo sopra meglio descritto, essendo
sufficiente il decorso del termine fissato per la configurazione dell’inerzia della P.a.. Infatti, il decorso del termine
fissato qualificava il comportamento della P.a. come rifiuto di provvedere e legittimava ex se l’interessato, senza
dover previamente diffidare l’amministrazione, a proporre ricorso giurisdizionale per l’accertamento
dell’illegittimità dell’inerzia della P.a.. Questa opzione ermeneutica sollecitata dalla dottrina venne, però, contestata
dalla stessa amministrazione con la pubblicazione da parte del Ministro della Funzione pubblica di una circolare (la
n. 60397/7/493 dell’8 gennaio 1991) in cui si specificava che l’art. 2 non incideva sull’applicabilità del
procedimento di cui all’art. 25 T.U. del 1957 n. 3 in quanto “non dispone nel senso della qualificazione dell’inerzia
imputabile all’amministrazione”. A conferma di tale assunto veniva, poi, citata la prassi giurisprudenziale di
ritenere necessaria la previa diffida anche nei casi in cui le leggi speciali stabilissero un termine per provvedere.
In ogni caso, si ritiene che la soluzione interpretativa innovatrice prospettata avrebbe dovuto trovare senz’altro
accoglimento in ragione della sua spiccata conformità ed omogeneità rispetto ai principi fondamentali di
speditezza, di trasparenza e di democrazia procedimentale a cui la legge stessa si ispirava.
2.
Il ricorso avverso il silenzio-rifiuto introdotto dall’art. 2 della legge n. 205 del 2000
L’art. 2 della legge n. 205 del 2000 introduce un procedimento accelerato per la decisione dei ricorsi avverso il
silenzio della Pubblica Amministrazione. Tale procedimento si caratterizza per la decisione in camera di consiglio,
con sentenza succintamente motivata, emessa entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso. La
decisione è appellabile entro il termine abbreviato di 30 gg. dalla notificazione, o in mancanza entro 90 gg. dalla
comunicazione della pubblicazione della sentenza. Le disposizioni dettate per il giudizio di primo grado trovano
applicazione, in virtù di rinvio esplicito operato dalla legge, anche nel caso di giudizio d’appello.
Prima di procedere all’esame della nuova disposizione normativa, si ritiene opportuno formulare alcune
precisazioni sulla sua collocazione nell’ambito del sistema delineato dalla legge T.a.r.. In particolare, nonostante la
collocazione del nuovo articolo immediatamente dopo quello concernente la tutela cautelare, si deve escludere che
il legislatore abbia voluto inquadrare il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione nell’ambito del sistema
della tutela interinale. Ciò appare evidente se solo si consideri che il giudizio non si conclude con una mera
ordinanza, ma con una vera e propria sentenza succintamente motivata. Come è noto, infatti, la sentenza è un
provvedimento a cui deve normalmente riconoscersi il carattere della definitività. Inoltre, si consideri che la legge
disciplina espressamente l’ipotesi in cui sia necessario, ai fini della decisione della controversia, l’espletamento
dell’attività istruttoria, prevedendo che - nel rispetto delle esigenze di celerità - la decisione debba essere emessa
entro 30 gg. dalla data fissata per gli adempimenti istruttori. Da quanto affermato, si desume che l’attività del
giudice non è mai limitata ad una valutazione sommaria, ma che si tratta di vera e propria attività di accertamento
della legittimità o meno del comportamento inerte della P.a..
Tale assunto sarebbe, altresì, confermato dal potere espressamente riconosciuto all’interessato di chiedere
l’emanazione di misure cautelari idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso anche in
presenza di comportamento inerte dell’amministrazione. Ciò posto, rimane all’interprete soltanto un legittimo
dubbio circa l’utilità dell’emissione di una misura cautelare, potendo il privato ottenere direttamente, con la
procedura accelerata sopra descritta, una sentenza definitiva.
Sempre in via preliminare, si rileva che il legislatore non ha preso posizione sull’annosa questione del meccanismo
di formazione del silenzio-rifiuto, permanendo il dubbio se esso si formi con il mero decorrere del termine
assegnato alla P.a. per concludere il procedimento ex art. 2, legge 241 del 1990, ovvero se sia ancora necessaria la
previa diffida e messa in mora.
Occorre, poi, affrontare l’ulteriore problema dell’individuazione dell’oggetto del giudizio sul ricorso avverso il
silenzio della P.a., al fine di stabilire se si tratti o meno di giudizio impugnatorio. In assenza di riferimenti
normativi espressi, si ritiene che il legislatore non abbia accolto il nuovo orientamento della giurisprudenza
secondo cui il giudizio avrebbe ad oggetto il rapporto intercorso tra la P.a. ed il privato.
Al contrario, la norma sembra deporre nel senso che il giudizio sia finalizzato soltanto a dichiarare in astratto
l’obbligo di provvedere della P.a., senza che possa aversi alcuna valutazione della fondatezza della pretesa del
privato. Il giudice, infatti, un volta accertata l’inadempienza della P.a. accoglierà il ricorso e ordinerà alla stessa di
provvedere entro un termine non superiore a 30 gg.. Soltanto nell’evenienza in cui l’amministrazione sia
ulteriormente inadempiente il giudice nominerà, su istanza del privato, un commissario ad acta che provvederà in
luogo della stessa.
Ne consegue, che l’interesse del privato potrà essere frustrato in quanto, pur in presenza di una fondata pretesa,
dovrà comunque attendere l’emanazione su ordine del giudice del provvedimento da parte della P.a. inadempiente.
Tra l’altro, la P.a. nell’esercizio del suo potere discrezionale potrà anche rigettare l’istanza del privato,
costringendolo, ad instaurare un altro giudizio di impugnazione del provvedimento emanato. Si consideri, inoltre,
che il giudizio, non avendo ad oggetto il merito della pretesa, non determina l’esaurimento del potere della P.a di
provvedere la quale, intervenendo in corso di causa, potrà determinare l’improcedibilità del ricorso per cessazione
della materia del contendere. In tal modo, potrebbe addirittura risultare vanificata la stessa ratio della procedura
speciale che è quella di fornire adeguati ed tempestivi strumenti di tutela all’interessato.
Tanto premesso, dovrebbe ammettersi il potere del giudice, in presenza di precisi riferimenti normativi (come nel
caso dell’attività vincolata), di fissare criteri e modalità attraverso le quali l’amministrazione debba provvedere. In
tal senso si era già più volte pronunciata la dottrina, ma – come è noto – la resistenza della giurisprudenza ha
sempre impedito l’affermarsi del nuovo orientamento. Tale chiusura della giurisprudenza, probabilmente, permarrà
anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, non avendo la legge di riforma introdotto alcuna
disposizione innovatrice sulle questioni controverse.
La risarcibilità degli interessi legittimi
1.
La risarcibilità degli interessi legittimi prima della pronuncia della Corte di Cassazione (sent. n. 500/99)
L’orientamento tradizionale della giurisprudenza escludeva la risarcibilità del danno nel caso di lesione di interessi
legittimi. Tale impostazione trovava il suo fondamento in un duplice presupposto.
In primo luogo, costituiva ostacolo alla risarcibilità dell’interesse legittimo la sua rappresentazione in termini
meramente processuali, quale potere di agire in giudizio per garantire il legittimo esercizio dei poteri da parte della
Pubblica Amministrazione. In sostanza si garantiva al privato, nella cui sfera giuridica incideva l’esercizio del
potere, la facoltà di invocare il giudice amministrativo al fine di accertare la legittimità dell’azione amministrativa.
Per tale ragione l’interesse legittimo veniva originariamente qualificato come interesse occasionalmente protetto,
cioè come interesse tutelato nella sola eventualità in cui coincidesse con l’interesse pubblico perseguito dalla P.A.
nell’esercizio del potere discrezionale. Conseguentemente, l’annullamento del provvedimento amministrativo per
illegittimità veniva a realizzare in via primaria l’interesse pubblico e soltanto indirettamente l’interesse del
ricorrente.
In questa prospettiva, mancando gli stessi presupposti per la configurazione di un danno al privato, si escludeva
automaticamente la possibilità di concepire la risarcibilità dell’interesse legittimo. La posizione di vantaggio
riconosciuta al ricorrente risultava, infatti, pienamente tutelata dall’eliminazione (annullamento) del provvedimento
amministrativo illegittimo.
Soltanto successivamente, soprattutto grazie all’influenza della dottrina, incominciò a profilarsi un nuovo modo di
intendere l’interesse legittimo, visto non più come mero potere processuale, ma come vera e propria posizione
giuridica sostanziale. L’interesse legittimo, al pari del diritto soggettivo, si ricollegava ad un interesse materiale del
titolare ad un bene della vita: ciò che cambiava rispetto al diritto soggettivo era soltanto il modo o la misura con cui
l’interesse sostanziale veniva tutelato. Pertanto, l’interesse legittimo poteva intendersi come posizione di vantaggio
riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo; tale potere
consentiva al soggetto di influire sul corretto esercizio del potere amministrativo, in modo da rendere possibile la
realizzazione dell’interesse al bene. Si perveniva in tal modo alla bipartizione tradizionale tra interessi oppositivi,
caratterizzati dall’istanza di conservazione della propria sfera giuridica personale e patrimoniale, ed interessi
pretensivi, consistenti in istanze di ampliamento della propria sfera giuridica.
Una prima apertura della giurisprudenza verso la risarcibilità dell’interesse legittimo si configurava proprio in
relazione ai cd. interessi oppositivi. Partendo dalla considerazione che il provvedimento amministrativo veniva ad
incidere su una posizione giuridica di diritto soggettivo affievolendola ad interesse legittimo si arrivava ad
ammettere il risarcimento del danno subito dal soggetto in conseguenza dell’illegittima compressione della sua
sfera giuridica. Con l’annullamento del provvedimento illegittimo si verificava, infatti, una riespansione della
posizione di diritto soggettivo originaria in relazione alla quale non sussistevano ostacoli per il risarcimento del
danno. Con questo espediente, pertanto, la giurisprudenza ammetteva il risarcimento dei danni subiti
dall’interessato, danni prodotti comunque in relazione ad una posizione giuridica qualificabile in termini di diritto
soggettivo, senza venir meno al principio generale della irrisarcibilità degli interessi legittimi.
Analoghe considerazioni sono state fatte valere nell’ipotesi della riespansione di un diritto soggettivo non
originario ma scaturente da un provvedimento amministrativo, qualora fosse stato annullato il successivo
provvedimento caducatorio dell’atto fonte della posizione di vantaggio. Infatti, anche in tale ipotesi, il privato che
aveva conseguito una posizione di vantaggio in forza del provvedimento amministrativo, risultava titolare di un
interesse legittimo oppositivo alla illegittima rimozione della detta situazione, potendo agire sia per ottenere
l’eliminazione dell’atto sia per ottenere la reintegrazione dell’eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto.
Il principio dell’irrisarcibilità veniva, al contrario, confermato in relazione ai cd. interessi pretensivi, sussistendo in
tali casi soltanto un interesse legittimo del privato all’espansione della propria sfera giuridica. Tale posizione non
risultava mutata neanche nell’eventualità dell’annullamento del provvedimento illegittimo di diniego, poiché
l’eliminazione dell’atto riproduceva soltanto la situazione preesistente, rimettendo alla valutazione discrezionale
della P.A. il potere di disporre in senso favorevole o sfavorevole della sfera giuridica del privato.
Nessun limite alla risarcibilità, invece, veniva ravvisato in relazione ai comportamenti materiali della P.A.,
indiscussa fonte di responsabilità aquiliana in quanto non costituiva esercizio della discrezionalità amministrativa.
Il secondo ostacolo alla risarcibilità dell’interesse legittimo veniva individuato dalla giurisprudenza nel dettato
dello stesso art. 2043 c.c.. Nella lettura tradizionale della norma il concetto di “danno ingiusto” veniva identificato
esclusivamente nella lesione di un diritto soggettivo, potendo l’ingiustizia del danno intendersi nella duplice
accezione di danno prodotto contra ius e non iure; contra ius, nel senso che il fatto doveva ledere una situazione
soggettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento giuridico; non iure, nel senso che il fatto non doveva essere
giustificato nell’ordinamento giuridico.
La validità dell’interpretazione tradizionale - pur essendo affermata in via di principio – veniva, poi, disattesa nella
prassi in conseguenza della diffusione di pronunce della Corte di Cassazione in cui si ammetteva il risarcimento nel
caso di lesione di posizioni giuridiche soggettive che non avevano la consistenza del diritto soggettivo. Infatti, dopo
una fase iniziale caratterizzata da una prima estensione della risarcibilità del danno aquiliano dai diritti assoluti a
quelli relativi, si era pervenuti all’ammissibilità della tutela anche in fattispecie quali la lesione dell’integrità
patrimoniale o della libertà di determinazione negoziale, fino a giungere al risarcimento del danno per perdita di
chance, intesa come possibilità effettiva e concreta di conseguire un utile risultato.
Si profilava, quindi, un nuovo modo di intendere la portata dell’art. 2043 del c.c. che estendeva la responsabilità
aquiliana a tutte le ipotesi di lesione di una posizione giuridica di vantaggio di cui il soggetto fosse titolare, anche
se tale posizione non era qualificabile in termini di diritto soggettivo.
2.
La risarcibilità degli interessi legittimi dopo la sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione
Il principio dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo veniva definitivamente scardinato per effetto della nota
pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 500 del 1999. La Suprema Corte, accogliendo l’orientamento della
dottrina prevalente, ammetteva la configurabilità della responsabilità aquiliana ex art. 2043 del c.c. anche nel caso
di lesione di una posizione giuridica soggettiva qualificabile come interesse legittimo.
L’evoluzione si fondava primariamente su una nuova lettura dell’art. 2043 del c.c., non più norma secondaria
destinata esclusivamente a sanzionare comportamenti già vietati dall’ordinamento giuridico, ma norma primaria (la
dottrina parlava di clausola generale primaria) che imponeva il risarcimento nel caso di lesione di ogni interesse
giuridicamente rilevante. L’ampliamento della portata della norma veniva attuato attraverso l’interpretazione
espansiva della locuzione “danno ingiusto”. In questa nuova ricostruzione l’ingiustizia veniva a ravvisarsi ogni
volta che veniva inferto un danno ad un soggetto in assenza di causa di giustificazione, cioè non iure, senza che
fosse necessaria la sussistenza dell’ulteriore requisito della violazione di un’altra norma giuridica (cd. danno contra
ius). Spettava, pertanto, al giudice verificare ed individuare le fattispecie in cui poteva considerarsi leso un
interesse giuridicamente rilevante. Occorreva, cioè, procedere alla valutazione degli interessi contrapposti per
accertare se la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato fosse effettivamente conforme ai principi di
legalità e di buona amministrazione, poiché soltanto in questa eventualità l’azione della P.A. poteva dirsi legittima
e quindi non generatrice di danni nella sfera giuridica dell’interessato.
La Cassazione, inoltre, ad ulteriore sostegno del nuovo orientamento citava due importanti interventi legislativi: la
legge n. 142 del 1990 ed il d.lgs. n. 80 del 1998.
Nella legge n. 142 del 1990, sotto la spinta dell’ordinamento comunitario, era stata prevista l’esperibilità
dell’azione di risarcimento di fronte al giudice ordinario per quei soggetti che avessero subito una lesione a causa di
atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori e di forniture. Tale norma
riconosceva per la prima volta la risarcibilità di una posizione giuridica che nel nostro ordinamento interno era
qualificata quale interesse legittimo. Si trattava, come precisato dalla Corte di Cassazione, di normativa a carattere
eccezionale non suscettibile di applicazione a fattispecie diverse da quelle espressamente contemplate e, comunque,
non in grado di porre in discussione il principio costantemente affermato della irrisarcibilità degli interessi
legittimi. Era comunque evidente che la disposizione in esame scioglieva definitivamente il dubbio sulla possibilità
di concepire in concreto la risarcibilità dell’interesse legittimo.
A conclusioni analoghe si giungeva nell’analisi del contenuto del d.lgs. n. 80 del 1998 ed in particolare degli artt.
33 e 34. Le disposizioni in esame devolvevano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le
controversie in materia di pubblici servizi, nonché quelle aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti ed i
comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia (art. 34) e attribuivano al giudice
amministrativo, nelle stesse materie, il potere di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il
risarcimento del danno ingiusto (art. 35, comma 1). In tal modo il giudice amministrativo godeva nelle materie
specificate di una giurisdizione esclusiva, estesa alla cognizione degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi, e
piena in quanto comprensiva della reintegrazione delle conseguenze patrimoniali dannose dell’atto. Appariva,
quindi, evidente la volontà del legislatore di porre, anche in osservanza del dettato costituzionale (vedi art. 24 e
113), in posizione di pari dignità interessi legittimi e diritti soggettivi equiparando gli strumenti di tutela. Si
perveniva così a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale attribuendo al G.a. il potere di disporre il
risarcimento del danno nel caso di lesione di una posizione giuridica soggettiva, sia essa di interesse legittimo o di
diritto soggettivo, senza necessità del successivo ricorso ad un diverso giudice ( il G.o.).
L’art. 35, comma 1, con il suo richiamo espresso al concetto di “danno ingiusto” accoglieva integralmente la nuova
qualificazione dell’art. 2043 come clausola generale primaria che riconosce la responsabilità aquiliana in ogni caso
di lesione di posizioni giuridiche di vantaggio.
La Cassazione, infine, precisava che il risarcimento del danno poteva essere riconosciuto soltanto laddove fosse
dimostrata la lesione dell’interesse al bene della vita di cui era titolare il privato, non essendo sufficiente la
circostanza dell’accertamento dell’illegittimità del provvedimento amministrativo. Nel caso di interessi oppositivi il
danno ingiusto doveva ravvisarsi nella lesione dell’interesse alla conservazione del bene o della situazione di
vantaggio illegittimamente compressa dal potere amministrativo. Nel caso, invece, di interessi pretensivi occorreva
stabilire se il provvedimento illegittimo di diniego avesse effettivamente leso un oggettivo affidamento del privato
circa la conclusione positiva del procedimento.
Al fine del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, dovevano, poi, ricorrere tutti i requisiti previsti
dalla norma ex art. 2043 del c.c.:
a) il comportamento doloso o colposo della P.a.. Non si trattava semplicemente di constatare l’illegittimità
dell’operato della P.a. ma di accertare la sussistenza del dolo e della colpa, non solo nei confronti del
funzionario che aveva agito ma di tutta la P.a. intesa come apparato. La colpa, cioè, non poteva considerarsi in
re ipsa, cioè scaturente dal fatto stesso che la P.a. avesse portato ad esecuzione un provvedimento illegittimo,
ma si considerava sussistente soltanto laddove l’azione amministrativa si fosse concretizzata nella violazione di
principi di correttezza, imparzialità e buona amministrazione.
b) l’evento dannoso.
c) l’ingiustizia del danno, intesa come lesione di un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo o
dell’interesse legittimo, o altro interesse giuridicamente rilevante.
d) il nesso di causalità tra la condotta (positiva od omissiva) della P.a. e l’evento dannoso.
3.
La risarcibilità degli interessi legittimi nella legge di riforma del processo amministrativo, legge n. 205 del
2000
L’art. 7 della legge n. 205 del 2000 ha introdotto una rilevante modifica all’art. 35, comma 1, d.lgs. n. 80 del 1998,
stabilendo che “il Tribunale Amministrativo Regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte
le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e
agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.
Il primo dato che colpisce l’attenzione dell’interprete è quello dell’ampiezza previsionale della disposizione in
esame che riconosce il potere del G.a. di disporre il risarcimento del danno non soltanto nelle materie devolute alla
sua giurisdizione esclusiva, ma anche in quelle attribuite alla giurisdizione generale di legittimità. E’ evidente che
si tratta della prima disposizione legislativa che sancisce, recependo il nuovo orientamento della Cassazione, il
principio generale della risarcibilità degli interessi legittimi.
Passando all’esame della norma in oggetto si può evidenziare l’assenza della qualificazione del danno come “danno
ingiusto”. Si tratta, probabilmente, di una mera dimenticanza del legislatore, non potendosi escludere, in
applicazione dei principi generali, che il danno debba essere ingiusto, cioè lesivo di posizioni giuridiche tutelate
dall’ordinamento.
La norma dispone espressamente che il g.a. è competente per le questioni inerenti al risarcimento del danno e degli
altri diritti patrimoniali consequenziali. Anche in questo caso, il legislatore ha ritenuto opportuno specificare che il
risarcimento non concerne soltanto i danni direttamente cagionati all’interessato dall’adozione del provvedimento o
dal comportamento illegittimo tenuto dalla P.a.. Oltre a tale danno, che è qualificabile secondo i canoni tradizionali
in termini di danno emergente, l’interessato potrà, infatti, pretendere anche il risarcimento dei danni consequenziali.
Alla categoria dei cd. danni consequenziali potranno ascriversi i pregiudizi ulteriori subiti dall’interessato, quali
l’impossibilità di utilizzare proficuamente il provvedimento negato od, ancora, la perdita di occasioni di
investimento e quant’altro sia riconducibile al mancato guadagno (cd. lucro cessante).
Per quanto concerne, invece, le problematiche di carattere meramente applicativo, si ritiene opportuno precisare
quali siano le regole che il G.a. dovrà seguire nell’istruzione probatoria, nonché nella determinazione e liquidazione
del danno. Non si può, infatti, ignorare che il G.a., fino ad ora chiamato soltanto a valutare la legittimità o meno dei
provvedimenti amministrativi, non possiede gli strumenti processuali idonei alla valutazione della sussistenza o
meno del diritto risarcimento del danno. Per tale ragione si ritengono applicabili le disposizioni, in verità dettate in
materia di reintegrazione del danno nella giurisdizione esclusiva, di cui ai successivi commi 2 e 3 dell’articolo in
esame. Il g.a. potrà, quindi, disporre l’assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonché
della consulenza tecnica d’ufficio, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Troverà,
inoltre, applicazione la disposizione che riconosce al g.a. il potere di fissare i criteri in base ai quali
l’amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell’avente titolo il
pagamento di una somma entro un congruo termine.
Un’ultima notazione, infine, è necessaria per chiarire i rapporti tra azione di annullamento ed azione di risarcimento
(e/o reintegrazione in forma specifica). In assenza di disposizioni che si riferiscono espressamente a tale aspetto si
ritiene che debbano trovare applicazione i principi generali.
Premesso che si tratta di due azioni indipendenti, l’una volta ad ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo e
l’altra la condanna alla reintegrazione patrimoniale , si ritiene che le domande possano essere proposte
disgiuntamente. In tale ipotesi, appare evidente che il ricorrente dovrà rispettare, nel giudizio di impugnazione del
provvedimento amministrativo, il termine decadenziale previsto dalla legge per l’impugnazione del provvedimento,
mentre si applicherà il termine di prescrizione del diritto nel caso di richiesta di risarcimento dei danni. Questa
regola, però, dovrebbe essere limitata alle richieste di risarcimento aventi ad oggetto i cd. diritti patrimoniali
consequenziali, mentre nel caso di danni scaturenti direttamente dall’illegittimità l’istanza dovrebbe essere proposta
entro il termine decadenziale previsto per l’impugnazione del provvedimento amministrativo. Infatti, i danni cd.
consequenziali non hanno nei confronti del provvedimento impugnato quel legame così stringente che è, al
contrario, ravvisabile nei danni che discendono direttamente dall’illegittimità del provvedimento.
Alla luce della nuova normativa, invece, non si ritiene più accettabile la tesi prospettata dalla Cassazione nella
citata sentenza n. 500 del 1999, laddove si ammetteva la possibilità di avvalersi del sistema della disapplicazione.
In sostanza, il g.o., investito della domanda di risarcimento, poteva conoscere di un provvedimento amministrativo
in via incidentale, con la conseguenza che, riconosciutane l’illegittimità, lo disapplicava, considerandolo tamquam
non esset. Tale impostazione, valida in un sistema caratterizzato dal doppio binario della giurisdizione (g.o.
competente per la condanna al risarcimento del danno e g.a. competente per l’annullamento del provvedimento
illegittimo), non è in alcun modo giustificabile alla luce della legge di riforma che concentra in capo al g.a. la
cognizione delle controversie tanto sulla illegittimità, quanto sulla reintegrazione patrimoniale.
In ogni caso, nel rispetto del principio generale dell’economia processuale dovrà riconoscersi la facoltà di proporre
con il medesimo atto introduttivo entrambe le domande. Il ricorso conterrà una domanda in via principale
finalizzata ad ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo e, in subordine all’accoglimento della precedente, la
richiesta di condanna della P.a. alla reintegrazione del danno subito. Si precisa, però, che nell’eventualità in cui il
g.a., accertata la sussistenza di un vizio nel provvedimento amministrativo, dichiari l’illegittimità ciò non
comporterà necessariamente il riconoscimento di un diritto al risarcimento dei danni subiti. Infatti, l’annullamento
dell’atto è esclusivamente condizione necessaria ma non sufficiente per ammettere la reintegrazione patrimoniale,
spettando al giudice accertare se nel caso in esame si siano verificati o meno pregiudizi nella sfera giuridica del
privato.
LEGGE 6 dicembre 1971, n. 1034 (in Gazz. Uff.,
13 dicembre 1971, n. 314) - Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali
LEGGE 6 dicembre 1971, n. 1034 - Istituzione dei
tribunali amministrativi regionali
TESTO COORDINATO con le modifiche
apportate dalla LEGGE 21 luglio 2000 n. 205
TITOLO I
Istituzione e competenze dei tribunali
amministrativi regionali
Art. 1
Sono istituiti tribunali amministrativi regionali, quali
organi di giustizia amministrativa di primo grado.
Le loro circoscrizioni sono regionali e comprendono
le province facenti parte delle singole regioni. Essi
hanno sede nei capoluoghi di regione.
Nelle regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio,
Abruzzi, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia sono
istituite sezioni staccate, le cui sedi e le cui
circoscrizioni saranno stabilite nelle norme di
attuazione della presente legge previste nell'articolo
52.
Una sezione staccata con ordinamento speciale è pure
istituita nella regione Trentino-Alto Adige. Essa ha
sede a Bolzano e alla sua disciplina si provvede con
altra legge.
Il tribunale amministrativo regionale del Lazio, oltre
una sezione staccata, ha tre sezioni con sede a Roma.
Art. 2
Il tribunale amministrativo regionale decide:
a) sui ricorsi già attribuiti dagli articoli 1 e 4 del testo
unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n.
1058, e successive modificazioni, alla giunta
provinciale amministrativa in sede giurisdizionale;
b) sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere
per violazione di legge contro atti e provvedimenti
emessi:
1) dagli organi periferici dello Stato e degli enti
pubblici a carattere ultraregionale, aventi sede nella
circoscrizione del tribunale amministrativo regionale;
2) dagli enti pubblici non territoriali aventi sede nella
circoscrizione del tribunale amministrativo regionale
e che esclusivamente nei limiti della medesima
esercitano la loro attività;
3) dagli enti pubblici territoriali compresi nella
circoscrizione del tribunale amministrativo regionale.
Art. 3
Sono devoluti alla competenza dei tribunali
amministrativi regionali i ricorsi per incompetenza,
eccesso di potere o violazione di legge contro atti e
provvedimenti emessi dagli organi centrali dello
Stato e degli enti pubblici a carattere ultraregionale.
Per gli atti emessi da organi centrali dello Stato o di
enti pubblici a carattere ultraregionale, la cui
efficacia è limitata territorialmente alla circoscrizione
del tribunale amministrativo regionale, e per quelli
relativi a pubblici dipendenti in servizio, alla data di
emissione dell'atto, presso uffici aventi sede nella
circoscrizione del tribunale amministrativo regionale
la competenza è del tribunale amministrativo
regionale medesimo.
Negli altri casi, la competenza, per gli atti statali, è
del tribunale amministrativo regionale con sede a
Roma; per gli atti degli enti pubblici a carattere
ultraregionale è del tribunale amministrativo
regionale nella cui circoscrizione ha sede l'ente.
Art. 4
Nelle materie indicate negli articoli 2 e 3 la
competenza spetta ai tribunali amministrativi
regionali per i ricorsi aventi ad oggetto diritti ed
interessi di persone fisiche o giuridiche, la cui tutela
non sia attribuita all'autorità giudiziaria ordinaria, o
ad altri organi di giurisdizione.
Art. 5
Sono devoluti alla competenza dei tribunali
amministrativi regionali i ricorsi contro atti e
provvedimenti relativi a rapporti di concessione di
beni pubblici. Si applicano, ai fini dell'individuazione
del tribunale competente, il secondo e il terzo comma
dell'articolo 3.
Resta salva la giurisdizione dell'autorità giudiziaria
ordinaria per le controversie concernenti indennità,
canoni ed altri corrispettivi e quelle dei tribunali delle
acque pubbliche e del tribunale superiore delle acque
pubbliche, nelle materie indicate negli articoli 140144 del testo unico 11 dicembre 1933, n. 1775.
Art. 6
Il tribunale amministrativo regionale è competente a
decidere sui ricorsi concernenti controversie in
materia di operazioni per le elezioni dei consigli
comunali, provinciali e regionali.
Con la decisione dei ricorsi il tribunale
amministrativo regionale esercita i poteri e adotta i
provvedimenti di cui all'articolo 84 del testo unico
approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, modificato dalla
legge 23 dicembre 1966, n. 1147.
Rimangono salve, per le azioni popolari e le
impugnative consentite agli elettori, le norme
dell'articolo 7 della legge 23 dicembre 1966, numero
1147, e dell'articolo 19 della legge 17 febbraio 1968,
n. 108.
Art. 7
Il tribunale amministrativo regionale esercita
giurisdizione di merito nei casi preveduti dall'articolo
27 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, ed in
quelli previsti dall'articolo 1 del testo unico 26
giugno 1924, n. 1058.
Il tribunale amministrativo regionale esercita
giurisdizione esclusiva nei casi previsti dall'articolo
29 del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, e in
quelli previsti dall'articolo 4 del testo unico 26
giugno 1924, n. 1058, e successive modificazioni,
nonché nelle materie di cui all'articolo 5, primo
comma, della presente legge.
Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito
della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le
questioni relative a diritti. Restano riservate
all'autorità giudiziaria ordinaria le questioni
pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei
privati individui, salvo che si tratti della capacità di
Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito
della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le
questioni relative all'eventuale risarcimento del
danno, anche attraverso la reintegrazione in
forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali
consequenziali. Restano riservate all'autorità
stare in giudizio, e la risoluzione dell'incidente di giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali
falso.
concernenti lo stato e la capacità dei privati individui,
salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e
la risoluzione dell'incidente di falso.
Il tribunale amministrativo regionale giudica anche in
merito nei casi previsti dall'articolo 29, numeri 2), 3),
4), 5) e 8) del testo unico 26 giugno 1924, n. 1054.
Art. 8
Il tribunale amministrativo regionale, nelle materie in
cui non ha competenza esclusiva, decide con
efficacia limitata di tutte le questioni pregiudiziali o
incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia
necessaria per pronunciare sulla questione principale.
La risoluzione dell'incidente di falso e le questioni
concernenti lo stato e la capacità dei privati individui
restano di esclusiva competenza dell'autorità
giudiziaria ordinaria, salvo che si tratti della capacità
di stare in giudizio.
TITOLO II
Composizione dei tribunali amministrativi
regionali
Art. 9
Con decreto del Presidente della Repubblica, su
proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri,
sentito il Consiglio di Presidenza dei tribunali
amministrativi regionali, è nominato per ciascun
tribunale amministrativo regionale, all'inizio di ogni
anno, il presidente, da scegliere tra i presidenti di
sezione del Consiglio di Stato o tra i consiglieri di
Stato.
Con lo stesso decreto e con le medesime modalità
sono
nominati
presso
ciascun
tribunale
amministrativo regionale non meno di cinque
magistrati amministrativi regionali appartenenti al
ruolo previsto dall'articolo 12.
Per i tribunali amministrativi regionali formati di più
sezioni, nonché per le sezioni istituite nel tribunale
amministrativo regionale del Lazio deve essere
sempre nominato un presidente di sezione del
Consiglio di Stato.
Art. 10
Il tribunale amministrativo regionale decide con
l'intervento del presidente e di due magistrati
amministrativi regionali.
In mancanza del presidente, il collegio è presieduto
dal magistrato amministrativo più anziano.
Art. 11
I presidenti di sezione del Consiglio di Stato sono
destinati alla presidenza dei tribunali amministrativi
regionali con il loro consenso, ovvero all'atto del
conseguimento della nomina.
I presidenti di sezione del Consiglio di Stato destinati
a presiedere i tribunali amministrativi regionali
cessano, a domanda, da tale destinazione, secondo
l'ordine di anzianità, e riassumono le loro funzioni in
seno al Consiglio di Stato, quando presso il Consiglio
stesso si verificano vacanze nei posti di presidente di
sezione. Per la relativa sostituzione si procede nei
modi previsti dal comma precedente.
I consiglieri di Stato possono essere destinati alla
presidenza dei tribunali amministrativi regionali solo
se abbiano almeno due anni di anzianità e col loro
consenso. Per le sedi che rimangono scoperte la
destinazione potrà avvenire d'ufficio, seguendo il
criterio della minore anzianità di qualifica, tra i
consiglieri che abbiano almeno due anni di anzianità.
I consiglieri di Stato, a domanda, possono riassumere
le loro funzioni presso il Consiglio di Stato non prima
di tre anni dalla loro destinazione. Possono
continuare nella destinazione alla presidenza di un
tribunale amministrativo regionale anche se siano
nominati presidenti di sezione del Consiglio di Stato.
Art. 12
Per l'assolvimento delle funzioni previste dalla
presente legge:
a) i posti di presidente di sezione di cui alla tabella A
allegata alla legge 21 dicembre 1950, n. 1018, sono
aumentati di dieci unità;
b) i posti di consigliere di Stato della tabella
medesima sono parimenti aumentati di quattordici
unità;
c) è istituito il ruolo dei magistrati amministrativi
regionali, secondo la tabella allegata alla presente
legge.
Art. 13
I magistrati amministrativi regionali si distinguono in
consiglieri, primi referendari e referendari.
Per quanto non diversamente disposto dalla presente
legge, ad essi sono estese le norme sullo stato
giuridico e sul trattamento economico del personale
di corrispondente qualifica della magistratura del
Consiglio di Stato, nelle qualifiche corrispondenti di
consigliere, primo referendario e referendario.
Per i magistrati amministrativi regionali il
trasferimento ad altra sede può essere disposto, nelle
forme indicate dall'articolo 9 e su parere del
Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi
regionali per una delle seguenti ragioni:
a) su domanda;
b) in seguito ad avanzamento;
c) in seguito all'insorgere di una situazione di
incompatibilità prevista dalla legge;
d) per variazione nel numero dei magistrati da
assegnare ai vari tribunali.
I magistrati amministrativi regionali non possono
essere in alcun caso chiamati ad esercitare funzioni o
ad espletare compiti diversi da quelli istituzionali.
Ad essi si estendono le altre cause di incompatibilità
e le cause di ineleggibilità previste per i magistrati
ordinari.
Art. 14
Le nomine a referendario sono conferite a seguito di
concorso per titoli ed esami, al quale possono
partecipare, purché non abbiano superato il
quarantacinquesimo anno di età:
1) i magistrati dell'ordine giudiziario, che abbiano
conseguito la nomina ad aggiunto giudiziario, ed i
magistrati amministrativi e della giustizia militare di
qualifica equiparata;
2) gli avvocati dello Stato e i procuratori dello Stato
con qualifica non inferiore a sostituti procuratori
dello Stato;
3) i dipendenti dello Stato muniti della laurea in
giurisprudenza, con qualifica non inferiore a direttore
di sezione e equiparata, con almeno cinque anni di
effettivo servizio di ruolo nella carriera direttiva;
4) gli assistenti universitari di ruolo alle cattedre di
materie giuridiche, con almeno 5 anni di servizio;
5) i dipendenti delle regioni, degli enti pubblici a
carattere nazionale e degli enti locali, muniti della
laurea in giurisprudenza, che siano stati assunti
attraverso concorsi pubblici ed abbiano almeno
cinque anni di servizio effettivo di ruolo nella
carriera direttiva;
6) gli avvocati iscritti all'albo da quattro anni;
7) i consiglieri regionali, provinciali e comunali,
muniti della laurea in giurisprudenza, che abbiano
esercitato tali funzioni per almeno cinque anni;
8) gli ex componenti elettivi delle giunte provinciali
amministrative, muniti di laurea in giurisprudenza,
che abbiano esercitato le funzioni per almeno cinque
anni.
La commissione esaminatrice è nominata con decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri ed è
composta da due consiglieri di Stato e da tre docenti
universitari.
Art. 15
Le nomine a primo referendario sono conferite ai
referendari con almeno sei anni di effettivo servizio,
per due terzi mediante scrutinio per merito,
comparativo e per un terzo secondo il turno di
anzianità, previo giudizio di idoneità.
Le nomine vengono disposte con decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Allo scrutinio per merito comparativo e al giudizio di
idoneità provvede il Consiglio di Presidenza dei
tribunali amministrativi regionali.
Art. 16
I consiglieri amministrativi regionali sono nominati
con decreto del Presidente della Repubblica, su
proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri,
previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e su
parere del Consiglio di Presidenza dei tribunali
amministrativi regionali.
I posti che si rendono vacanti nel ruolo dei consiglieri
amministrativi regionali sono conferiti ai primi
referendari regionali, che abbiano prestato almeno sei
anni di effettivo servizio nella qualifica.
Art. 17
A decorrere dal 1° gennaio del quarto anno
successivo alla data di entrata in vigore della presente
legge, un quarto dei posti che si rendano vacanti nel
ruolo dei consiglieri di Stato è riservato ai consiglieri
amministrativi regionali con almeno quattro anni di
effettivo servizio nella qualifica.
Il trasferimento di ruolo è disposto con decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri, su parere del
Consiglio di Presidenza dei tribunali amministrativi
regionali.
Il magistrato trasferito conserva l'anzianità di carriera
e di qualifica acquisita nel ruolo dei magistrati
amministrativi regionali, ed è collocato nel nuovo
ruolo nel posto che gli spetta, secondo l'anzianità
nell'ultima qualifica già ricoperta.
Art. 18
Presso ogni tribunale amministrativo regionale è
costituito un ufficio di segreteria, diretto da un
segretario generale. I segretari generali sono nominati
con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,
su designazione del Presidente del Consiglio di Stato:
a) tra i funzionari della carriera direttiva del
personale di segreteria del Consiglio di Stato, con
qualifica non inferiore a direttore di segreteria;
b) tra i funzionari della carriera direttiva
dell'amministrazione civile dell'interno, con qualifica
non inferiore a direttore di sezione.
Agli uffici di segreteria sono addetti impiegati della
carriera direttiva, di concetto, esecutiva ed ausiliaria
dell'amministrazione civile dell'interno, nonché delle
amministrazioni regionali, provinciali e comunali
delle rispettive circoscrizioni, il cui numero e le cui
qualifiche saranno stabilite, entro due mesi
dall'entrata in vigore della presente legge, con decreto
del Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con
i Ministri per l'interno e per il tesoro. Nei limiti
dell'organico determinato nelle forme sopra indicate,
agli uffici di segreteria può essere assegnato, col suo
consenso, anche personale di ruolo di segreteria del
Consiglio di Stato.
I segretari generali e gli impiegati addetti agli uffici
di segreteria sono collocati fuori del ruolo organico,
cui appartengono, per tutta la durata dell'ufficio,
senza che siano lasciati scoperti nella qualifica
iniziale dei ruoli organici i posti di cui all'articolo 58,
comma secondo, del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.
Gli impiegati delle amministrazioni regionali,
provinciali e comunali sono destinati al tribunale
amministrativo regionale in posizione di comando,
con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri,
d'intesa con le amministrazioni interessate.
Entro cinque anni dall'entrata in vigore della presente
legge sarà istituito con legge un ruolo organico del
personale di segreteria dei tribunali amministrativi
regionali.
TITOLO III
Norme di procedura
Art. 19
Nei giudizi davanti ai tribunali amministrativi
regionali, fino a quando non verrà emanata apposita
legge sulla procedura, si osservano le norme di
procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato, in quanto non contrastanti con la
presente legge.
Per i giudizi davanti ai tribunali amministrativi
regionali è obbligatorio il patrocinio di avvocato o di
procuratore legale. Si applicano le disposizioni
generali in materia di gratuito patrocinio.
Ai fini fiscali si applicano nei giudizi avanti ai
tribunali amministrativi regionali le disposizioni già
in vigore per i giudizi dinanzi alla giunta provinciale
amministrativa.
Per i giudizi in materia di operazioni elettorali,
previsti dall'articolo 6, rimangono ferme le norme
procedurali contenute nella legge 23 dicembre 1966,
n. 1147. Per essi non è necessario il ministero di
procuratore o di avvocato. Gli atti relativi sono redatti
in carta libera e sono esenti dalla tassa di registro e
dalle spese di cancelleria.
Art. 20
Nei casi in cui contro gli atti o provvedimenti emessi
da organi periferici dello Stato o di enti pubblici a
carattere ultraregionale sia presentato ricorso in via
gerarchica, il ricorso al tribunale amministrativo
regionale è proponibile contro la decisione sul ricorso
gerarchico ed in mancanza, contro il provvedimento
impugnato, se, nel termine di novanta giorni, la
pubblica amministrazione non abbia comunicato e
notificato la decisione all'interessato.
Se siano interessate più persone il ricorso al tribunale
amministrativo regionale proposto da un interessato
esclude il ricorso gerarchico di tutti gli atti. Gli
interessati, che abbiano già proposto o propongano
ricorso gerarchico, devono essere informati a cura
dell'amministrazione dell'avvenuta presentazione del
ricorso al tribunale amministrativo regionale. Entro
30 giorni da tale comunicazione essi, se il loro
ricorso gerarchico era stato presentato in termine,
possono ricorrere al tribunale amministrativo
regionale.
Quando sia stato promosso ricorso al tribunale
amministrativo regionale è escluso il ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica.
Art. 21
Il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che
ha
emesso
l'atto
impugnato
quanto
ai
controinteressati ai quali l'atto direttamente si
riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine
di giorni sessanta da quello in cui l'interessato ne
abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta
piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia
richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia
scaduto il termine della pubblicazione nell'albo, salvo
l'obbligo di integrare le notifiche con le ulteriori
notifiche agli altri controinteressati, che siano
ordinate dal tribunale amministrativo regionale.
Il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che
ha
emesso
l'atto
impugnato
quanto
ai
controinteressati ai quali l'atto direttamente si
riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine
di giorni sessanta da quello in cui l'interessato ne
abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta
piena conoscenza, o, per gli atti di cui non sia
richiesta la notifica individuale, dal giorno in cui sia
scaduto il termine della pubblicazione se questa sia
prevista da disposizioni di legge o di regolamento,
salvo l'obbligo di integrare le notifiche con le
ulteriori notifiche agli altri controinteressati, che
siano ordinate dal tribunale amministrativo regionale.
Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del
ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del
ricorso stesso, sono impugnati mediante
proposizione di motivi aggiunti. In pendenza di un
ricorso l'impugnativa di cui dall'articolo 25,
comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241, può
essere proposta con istanza presentata al
Presidente e depositata presso la segreteria della
sezione cui è assegnato il ricorso, previa notifica
all'amministrazione ed ai controinteressati, e
viene decisa con ordinanza istruttoria adottata in
camera di consiglio.
Il ricorso, con la prova delle avvenute notifiche, deve
essere depositato nella cancelleria del tribunale
amministrativo regionale, entro trenta giorni
dall'ultima notifica. Nel termine stesso deve essere
depositata anche copia del provvedimento
impugnato, o quanto meno deve fornire prova del
rifiuto dell'amministrazione di rilasciare copia del
provvedimento medesimo.
Il ricorso, con la prova delle avvenute notifiche, e
con copia del provvedimento impugnato, ove in
possesso del ricorrente, deve essere depositato nella
segreteria del tribunale amministrativo regionale,
entro trenta giorni dall'ultima notifica. Nel termine
stesso deve essere depositata copia del
provvedimento impugnato, ove non depositata con il
ricorso ovvero ove notificato o comunicato al
ricorrente e dei documenti di cui il ricorrente
intenda avvalersi in giudizio.
La mancata produzione della copia del
provvedimento impugnato non implica decadenza.
L'amministrazione all'atto di costituirsi in giudizio,
deve produrre il provvedimento impugnato nonché,
anche in copie autentiche, gli atti e i documenti in
base ai quali l'atto è stato emanato.
L'amministrazione, entro sessanta giorni dalla
scadenza del termine di deposito del ricorso, deve
produrre l'eventuale provvedimento impugnato
nonché gli atti e i documenti in base ai quali l'atto è
stato emanato, quelli in esso citati, e quelli che
l'amministrazione ritiene utili al giudizio.
Dell'avvenuta produzione del provvedimento
impugnato, nonché degli atti e dei documenti in
base ai quali l'atto è stato emanato, deve darsi
comunicazione alle parti costituite.
Ove
l'amministrazione
non
provveda Ove
l'amministrazione
non
provveda
all'adempimento, il Presidente ordina l'esibizione all'adempimento, il presidente, ovvero un
degli atti e dei documenti nel tempo e nei modi magistrato da lui delegato, ordina, anche su
opportuni.
istanza di parte, l'esibizione degli atti e dei
documenti nel termine e nei modi opportuni.
Analogo provvedimento il Presidente ha il potere di
adottare nei confronti di soggetti diversi
dall'amministrazione intimata per atti e documenti di
cui ritenga necessaria l'esibizione in giudizio. In ogni
caso, qualora l'esibizione importi una spesa, essa
deve essere anticipata dalla parte che ha proposto
istanza per l'acquisizione dei documenti.
Se il ricorrente, allegando danni gravi e irreparabili
derivanti dall'esecuzione dell'atto, ne chiede la
sospensione, sull'istanza il tribunale amministrativo
regionale pronuncia con ordinanza motivata emessa
in camera di consiglio. I difensori delle parti debbono
essere sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano
richiesta (1).
Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave e
irreparabile derivante dall'esecuzione dell'atto
impugnato, ovvero dal comportamento inerte
dell'amministrazione, durante il tempo necessario
a giungere ad una decisione sul ricorso, chiede
l'emanazione di misure cautelari, compresa
l'ingiunzione a pagare una somma, che appaiono,
secondo le circostanze, più idonee ad assicurare
(1) La Corte cost., con sent. 25 giugno 1985, n. 190,
interinalmente gli effetti della decisione sul
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente
ricorso, il tribunale amministrativo regionale si
comma, nella parte in cui, limitando l'intervento
pronuncia sull'istanza con ordinanza emessa in
d'urgenza
del
giudice
amministrativo
alla
sospensione dell'esecutività dell'atto impugnato, non
consente al giudice stesso di adottare nelle
controversie patrimoniali in materia di pubblico
impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i
provvedimenti d'urgenza che appaiano secondo le
circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente
gli effetti della decisione sul merito, le quante volte il
ricorrente abbia fondato motivo di temere che durante
il tempo necessario alla prolazione della pronuncia di
merito il suo diritto sia minacciato da un pregiudizio
imminente e irreparabile.
pronuncia sull'istanza con ordinanza emessa in
camera di consiglio. Nel caso in cui dall'esecuzione
del provvedimento cautelare derivino effetti
irreversibili il giudice amministrativo può altresì
disporre la prestazione di una cauzione, anche
mediante fideiussione, cui subordinare la
concessione o il diniego della misura cautelare. La
concessione o il diniego della misura cautelare non
può essere subordinata a cauzione quando la
richiesta cautelare attenga ad interessi essenziali
della persona quali il diritto alla salute, alla
integrità dell'ambiente, ovvero ad altri beni di
primario rilievo costituzionale. L'ordinanza
cautelare motiva in ordine alla valutazione del
pregiudizio allegato, ed indica i profili che, ad un
sommario esame, inducono a una ragionevole
previsione sull'esito del ricorso. I difensori delle
parti sono sentiti in camera di consiglio, ove ne
facciano richiesta.
Prima della trattazione della domanda cautelare,
in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non
consentire neppure la dilazione fino alla data della
camera di consiglio, il ricorrente può,
contestualmente alla domanda cautelare o con
separata istanza notificata alle controparti,
chiedere
al
presidente
del
tribunale
amministrativo regionale, o della sezione cui il
ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari
provvisorie. Il presidente provvede con decreto
motivato, anche in assenza di contraddittorio. Il
decreto è efficace sino alla pronuncia del collegio,
cui l'istanza cautelare è sottoposta nella prima
camera di consiglio utile. Le predette disposizioni
si applicano anche dinanzi al Consiglio di Stato, in
caso di appello contro un'ordinanza cautelare e in
caso di domanda di sospensione della sentenza
appellata.
In sede di decisione della domanda cautelare, il
tribunale amministrativo regionale, accertata la
completezza del contraddittorio e dell'istruttoria
ed ove ne ricorrano i presupposti, sentite sul punto
le parti costituite, può definire il giudizio nel
merito a norma dell'articolo 26. Ove necessario, il
tribunale amministrativo regionale dispone
l'integrazione del contraddittorio e fissa
contestualmente la data della successiva
trattazione del ricorso a norma del comma
undicesimo; adotta, ove ne sia il caso, le misure
cautelari interinali.
Con l'ordinanza che rigetta la domanda cautelare
o l'appello contro un'ordinanza cautelare ovvero li
dichiara inammissibili o irricevibili, il giudice può
provvedere in via provvisoria sulle spese del
procedimento cautelare.
L'ordinanza
del
tribunale
amministrativo
regionale di accoglimento della richiesta cautelare
comporta priorità nella fissazione della data di
trattazione del ricorso nel merito.
La domanda di revoca o modificazione delle
misure cautelari concesse e la riproposizione della
domanda cautelare respinta sono ammissibili solo
se motivate con riferimento a fatti sopravvenuti.
Nel caso in cui l'amministrazione non abbia
prestato ottemperanza alle misure cautelari
concesse, o vi abbia adempiuto solo parzialmente,
la parte interessata può, con istanza motivata e
notificata alle altre parti, chiedere al tribunale
amministrativo
regionale
le
opportune
disposizioni attuative. Il tribunale amministrativo
regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di
ottemperanza al giudicato, di cui all'articolo 27,
primo comma, numero 4), del testo unico delle
leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio
decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e successive
modificazioni,
e
dispone
l'esecuzione
dell'ordinanza cautelare indicandone le modalità
e, ove occorra, il soggetto che deve provvedere.
Le disposizioni dei precedenti commi si applicano
anche nei giudizi avanti al Consiglio di Stato
Art. 21bis
I ricorsi avverso il silenzio dell'amministrazione
sono decisi in camera di consiglio, con sentenza
succintamente motivata, entro trenta giorni dalla
scadenza del termine per il deposito del ricorso,
uditi i difensori delle parti che ne facciano
richiesta. Nel caso che il collegio abbia disposto
un'istruttoria, il ricorso è deciso in camera di
consiglio entro trenta giorni dalla data fissata per
gli adempimenti istruttori. La decisione è
appellabile entro trenta giorni dalla notificazione
o, in mancanza, entro novanta giorni dalla
comunicazione della pubblicazione. Nel giudizio
d'appello si seguono le stesse regole.
In caso di totale o parziale accoglimento del
ricorso di primo grado, il giudice amministrativo
ordina all'amministrazione di provvedere di
norma entro un termine non superiore a trenta
giorni.
Qualora
l'amministrazione
resti
inadempiente oltre il detto termine, il giudice
amministrativo, su richiesta di parte, nomina un
commissario che provveda in luogo della stessa.
All'atto
dell'insediamento
il
commissario,
preliminarmente
all'emanazione
del
provvedimento da adottare in via sostitutiva,
accerta
se
anteriormente
alla
data
dell'insediamento medesimo l'amministrazione
abbia provveduto, ancorché in data successiva al
termine assegnato dal giudice amministrativo con
la decisione prevista dal comma 2.
Art. 22
Nel termine di venti giorni successivi a quelli stabiliti
per il deposito del ricorso, l'organo che ha emesso
l'atto impugnato e le altre parti interessate possono
presentare memorie, fare istanze e produrre
documenti. Può essere anche proposto ricorso
incidentale secondo le norme degli articoli 37 del
testo unico approvato con regio decreto 26 giugno
1924, n. 1054, e 44 del regolamento di procedura
avanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato, approvato con regio decreto 17 agosto 1907, n.
642.
Chi ha interesse nella contestazione può intervenire
con l'osservanza delle norme di cui agli articoli 37 e
seguenti del regolamento di procedura avanti alle
sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, in
quanto non contrastanti con la presente legge. La
domanda di intervento è notificata alle parti nel
rispettivo domicilio di elezione ed all'organo che ha
emanato l'atto impugnato e deve essere depositata in
segreteria entro venti giorni dalla data della
notificazione.
Entro i successivi venti giorni le parti interessate e
l'amministrazione possono presentare memorie,
istanze e documenti.
Art. 23
La discussione del ricorso deve essere richiesta dal
ricorrente ovvero dall'amministrazione o da altra
parte costituita con apposita istanza da presentarsi
entro il termine massimo di due anni dal deposito del
ricorso.
Il Presidente, sempre che sia decorso il termine di cui
al primo comma dell'articolo 22, fissa con decreto
l'udienza per la discussione del ricorso.
Il decreto di fissazione è notificato, a cura dell'ufficio
di segreteria, almeno quaranta giorni prima
dell'udienza fissata, sia al ricorrente che alle parti che
si siano costituite in giudizio.
Le parti possono produrre documenti fino a venti
giorni liberi anteriori al giorno fissato per l'udienza e
presentare memorie fino a dieci giorni.
Il Presidente dispone, ove occorra, gli incombenti
istruttori.
L'istanza di fissazione d'udienza deve essere
rinnovata dalle parti o dall'amministrazione dopo
l'esecuzione dell'istruttoria.
Se entro il termine per la fissazione dell'udienza
l'amministrazione annulla o riforma l'atto impugnato
in modo conforme alla istanza del ricorrente, il
tribunale amministrativo regionale dà atto della
cessata materia del contendere e provvede sulle
spese.
I documenti e gli atti prodotti davanti al tribunale
amministrativo regionale non possono essere
ritirati dalle parti prima che il giudizio sia definito
con sentenza passata in giudicato e, nel caso di
appello, sono trasmessi senza indugio al giudice di
secondo grado unitamente al fascicolo d'ufficio.
Mediante ordinanza può altresì essere disposta dal
presidente della sezione, anche su istanza di parte,
l'acquisizione dei documenti e degli atti e mezzi
istruttori già acquisiti dal giudice di primo grado.
Nel caso di appello con richiesta di sospensione
della sentenza impugnata ovvero di impugnazione
del provvedimento cautelare la parte ha diritto al
rilascio di copia conforme dei documenti e degli
atti prodotti senza oneri ad eccezione del costo
materiale di riproduzione.
Il presidente della sezione può, tuttavia,
autorizzare la sostituzione degli eventuali
documenti e atti esibiti in originale con copia
conforme degli stessi, predisposta a cura della
segreteria su istanza motivata dalla parte
interessata.
Entro trenta giorni dalla data dell'iscrizione a
ruolo del procedimento di appello avverso la
sentenza la segreteria comunica al giudice di
primo grado l'avvenuta interposizione di appello e
richiede la trasmissione del fascicolo di primo
grado.
Art. 23 bis
Le disposizioni di cui al presente articolo si
applicano nei giudizi davanti agli organi di
giustizia amministrativa aventi ad oggetto:
a) i provvedimenti relativi a procedure di
affidamento di incarichi di progettazione e di
attività tecnico-amministrative ad esse connesse;
b) i provvedimenti relativi alle procedure di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di
opere pubbliche o di pubblica utilità, ivi compresi
i bandi di gara e gli atti di esclusione dei
concorrenti, nonché quelli relativi alle procedure
di occupazione e di espropriazione delle aree
destinate alle predette opere;
c) i provvedimenti relativi alle procedure di
aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di
servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di
gara e gli atti di esclusione dei concorrenti;
d) i provvedimenti adottati
amministrative indipendenti;
dalle
autorità
e) i provvedimenti relativi alle procedure di
privatizzazione o di dismissione di imprese o beni
pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione,
modificazione o soppressione di società, aziende e
istituzioni ai sensi dell'articolo 22 della legge 8
giugno 1990, n. 142;
f) i provvedimenti di nomina, adottati previa
delibera del Consiglio dei ministri ai sensi della
legge 23 agosto 1988, n. 400;
g) i provvedimenti di scioglimento degli enti locali
e quelli connessi concernenti la formazione e il
funzionamento degli organi.
I termini per l'esame dell'istanza cautelare e quelli
per il giudizio di merito sono ridotti alla metà,
salvo quelli per la proposizione del ricorso.
Salva l'applicazione dell'articolo 26, quarto
comma, il tribunale amministrativo regionale
chiamato a pronunciarsi sulla domanda cautelare,
accertata la completezza del contraddittorio
ovvero disposta l'integrazione dello stesso ai sensi
dell'articolo 21, se ritiene ad un primo esame che
il ricorso evidenzi l'illegittimità dell'atto
impugnato e la sussistenza di un pregiudizio grave
e irreparabile, fissa con ordinanza la data di
discussione nel merito alla prima udienza
successiva al termine di trenta giorni dalla data di
deposito dell'ordinanza. In caso di rigetto
dell'istanza cautelare da parte del tribunale
amministrativo regionale, ove il Consiglio di Stato
riformi l'ordinanza di primo grado, la pronunzia
di appello è trasmessa al tribunale amministrativo
regionale per la fissazione dell'udienza di merito.
In tale ipotesi, il termine di trenta giorni decorre
dalla data di ricevimento dell'ordinanza da parte
della segreteria del tribunale amministrativo
regionale che ne dà avviso alle parti.
Nel giudizio di cui al comma 3 le parti possono
depositare documenti entro il termine di quindici
giorni dal deposito o dal ricevimento delle
ordinanze di cui al medesimo comma e possono
depositare memorie entro i successivi dieci giorni.
Con le ordinanze di cui al comma 3, in caso di
estrema gravità ed urgenza, il tribunale
amministrativo regionale o il Consiglio di Stato
possono disporre le opportune misure cautelari,
enunciando i profili che, ad un sommario esame,
inducono a una ragionevole probabilità sul buon
esito del ricorso.
Nei giudizi di cui al comma 1, il dispositivo della
sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data
dell'udienza, mediante deposito in segreteria
Il termine per la proposizione dell'appello avverso
la sentenza del tribunale amministrativo regionale
pronunciata nei giudizi di cui al comma 1 è di
trenta giorni dalla notificazione e di centoventi
giorni dalla pubblicazione della sentenza. La parte
può, al fine di ottenere la sospensione
dell'esecuzione della sentenza, proporre appello
nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione
del dispositivo, con riserva dei motivi, da proporre
entro trenta giorni dalla notificazione ed entro
centoventi giorni dalla comunicazione della
pubblicazione della sentenza.
Le disposizioni del presente articolo si applicano
anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di
domanda di sospensione della sentenza appellata.
Art. 24
La morte o la perdita della capacità di stare in
giudizio di una delle parti private o del suo
rappresentante legale o la cessazione di tale
rappresentanza produce l'interruzione del processo
secondo le norme degli articoli 299 e seguenti del
codice di procedura civile, in quanto applicabili. Se la
parte è costituita a mezzo di un procuratore o
avvocato, il processo è interrotto dal giorno della
morte, radiazione o sospensione del procuratore o
dell'avvocato stesso.
Il processo deve essere riassunto, a cura della parte
più diligente, con apposito atto notificato a tutte le
altre parti, nel termine perentorio di sei mesi dalla
conoscenza legale dell'evento interruttivo, acquisita
mediante
dichiarazione,
notificazione
o
certificazione; altrimenti, si estingue.
Art. 25
I ricorsi si considerano abbandonati se nel corso di
due anni non sia compiuto alcun atto di procedura.
Art. 26
Il tribunale amministrativo regionale, ove ritenga
irricevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con
sentenza; se riconosce che il ricorso è infondato, lo
rigetta con sentenza.
Se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza,
annulla l'atto e rimette l'affare all'autorità competente.
Se accoglie per altri motivi, annulla in tutto o in parte
l'atto impugnato, e quando è investito di giurisdizione
di merito, può anche riformare l'atto o sostituirlo,
salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità
amministrativa.
Il tribunale amministrativo regionale nella materia
relativa a diritti attribuiti alla sua competenza
esclusiva
e
di
merito
può
condannare
l'amministrazione al pagamento delle somme di cui
risulti debitrice.
In ogni caso, la sentenza provvede sulle spese del Nel caso in cui ravvisino la manifesta fondatezza
giudizio. Si applicano a tale riguardo le norme del ovvero la manifesta irricevibilità, inammissibilità,
codice di procedura civile.
improcedibilità o infondatezza del ricorso, il
tribunale amministrativo regionale e il Consiglio
di Stato decidono con sentenza succintamente
motivata. La motivazione della sentenza può
consistere in un sintetico riferimento al punto di
fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del
caso, ad un precedente conforme. In ogni caso, il
giudice provvede anche sulle spese di giudizio,
applicando le norme del codice di procedura
civile.
La decisione in forma semplificata è assunta, nel
rispetto della completezza del contraddittorio,
nella camera di consiglio fissata per l'esame
dell'istanza cautelare ovvero fissata d'ufficio a
seguito dell'esame istruttorio previsto dal secondo
comma dell'articolo 44 del testo unico delle leggi
sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto
26 giugno 1924, n.1054, e successive modificazioni.
Le decisioni in forma semplificata sono soggette
alle medesime forme di impugnazione previste per
le sentenze.
La rinuncia al ricorso, la cessazione della materia
del contendere, l'estinzione del giudizio e la
perenzione sono pronunciate, con decreto, dal
presidente della sezione competente o da un
magistrato da lui delegato. Il decreto è depositato
in segreteria, che ne dà formale comunicazione
alle parti costituite. Nel termine di sessanta giorni
dalla comunicazione ciascuna delle parti costituite
può proporre opposizione al collegio, con atto
notificato a tutte le altre parti e depositato presso
la segreteria del giudice adìto entro dieci giorni
dall'ultima notifica. Nei trenta giorni successivi il
collegio decide sulla opposizione in camera di
consiglio, sentite le parti che ne facciano richiesta,
con ordinanza che, in caso di accoglimento della
opposizione, dispone le reiscrizione del ricorso nel
ruolo ordinario. Nel caso di rigetto, le spese sono
poste a carico dell'opponente e vengono liquidate
dal collegio nella stessa ordinanza, esclusa la
possibilità di compensazione anche parziale.
L'ordinanza è depositata in segreteria, che ne dà
comunicazione alle parti costituite. Avverso
l'ordinanza che decide sulla opposizione può
essere proposto ricorso in appello. Il giudizio di
appello procede secondo le regole ordinarie,
ridotti alla metà tutti i termini processuali.
Art. 27
Si segue il procedimento in camera di consiglio:
1) per i giudizi per i quali si debba soltanto dare atto
della rinuncia al ricorso o dichiarare la perenzione;
2) per i ricorsi per i quali le parti concordemente
chiedono che sia dichiarata la cessazione della
materia del contendere;
3) per i ricorsi contro le decisioni del prefetto sulle
controversie in materia di spedalità, previste
dall'articolo 3 della legge 26 aprile 1954, n. 251,
concernente modifica agli articoli 10, 34, 36 del regio
decreto 30 dicembre 1923, n. 2841, e all'articolo 6 del
testo unico approvato con regio decreto 14 settembre
1931, n. 1776;
4) per i ricorsi proposti ai sensi dell'articolo 27, n. 4,
del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno
1924, n. 1054.
Nei casi di cui ai numeri precedenti se una delle parti
ne faccia richiesta il presidente ordina che il ricorso si
tratti in udienza pubblica.
Art. 28
Contro le sentenze dei tribunali amministrativi è
ammesso ricorso per revocazione, nei casi, nei modi
e nei termini previsti dagli articoli n. 395 e 396 del
codice di procedura civile.
Contro le sentenze medesime è ammesso, altresì,
ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale,
da proporre nel termine di giorni sessanta dalla
ricevuta notificazione, osservato il disposto
dell'articolo 330 del codice di procedura civile.
Contro le ordinanze dei tribunali amministrativi
regionali di cui all'articolo 21, commi settimo e
seguenti, è ammesso ricorso in appello, da
proporre nel termine di sessanta giorni dalla
notificazione dell'ordinanza, ovvero di centoventi
giorni dalla comunicazione del deposito
dell'ordinanza stessa nella segreteria. (L'art. 3,
commi 3 e 4, del provvedimento di riforma della
giustizia amministrativa prevede che "Per
l'impugnazione delle ordinanze già emanate alla data
di entrata in vigore della presente legge il termine di
centoventi giorni decorre da quest'ultima data,
sempre che ciò non comporti riapertura o
prolungamento del termine previsto dalla normativa
anteriore. 4. Nell'ambito del ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica può essere concessa, a
richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni
gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione
dell'atto, la sospensione dell'atto medesimo. La
sospensione è disposta con atto motivato del
ministero competente ai sensi dell'articolo 8 del
decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre
1971, n. 1199, su conforme parere del Consiglio di
Stato")
Nei casi nei quali i tribunali hanno competenza di
merito o esclusiva, anche il Consiglio di Stato, nel
decidere in secondo grado, ha competenza di merito o
esclusiva.
In ogni caso, il Consiglio di Stato in sede di appello
esercita gli stessi poteri giurisdizionali di cognizione
e di decisione del giudice di primo grado (1).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 17 maggio
1995, n. 177, ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale del presente articolo, nella parte in cui
non prevede l'opposizione di terzo ordinaria fra i
mezzi di impugnazione delle sentenze del tribunale
amministrativo regionale divenute giudicato.
Art. 29
Al giudizio di appello si applicano le norme che
regolano il processo innanzi al Consiglio di Stato.
I ricorsi avverso le sentenze in materie di operazioni
elettorali sono proposti entro il termine di venti giorni
dalla notifica della sentenza, per coloro nei cui
confronti è obbligatoria la notifica; per gli altri
cittadini elettori nel termine di venti giorni decorrenti
dall'ultimo giorno della pubblicazione della sentenza
medesima nell'albo pretorio del comune. Per questi
ricorsi i termini procedurali previsti dalle norme
richiamate nel primo comma sono ridotti alla metà.
Sul ricorso il presidente fissa in via di urgenza
l'udienza di discussione ed al conseguente giudizio si
applicano le norme procedurali di cui al primo
comma del presente articolo, con tutti i termini ridotti
alla metà.
Nel giudizio di appello si osservano le norme
dell'articolo 24 sull'interruzione del processo e sulla
sua riassunzione.
Art. 30
Il difetto di giurisdizione deve essere rilevato anche
d'ufficio.
Avverso le sentenze dei tribunali amministrativi
regionali, che affermano o negano la giurisdizione
del giudice amministrativo è ammesso il ricorso al
Consiglio di Stato previsto dall'articolo 28.
Nei giudizi innanzi ai tribunali amministrativi è
ammessa domanda di regolamento preventivo di
giurisdizione a norma dell'articolo 41 del codice di
procedura civile. La proposizione di tale istanza non
preclude l'esame della domanda di sospensione del
provvedimento impugnato.
Art. 31
Il resistente o qualsiasi interveniente nel giudizio
innanzi al tribunale amministrativo regionale possono
eccepire l'incompetenza per territorio del tribunale
adito indicando quello competente e chiedendo che la
relativa questione sia preventivamente decisa dal
Consiglio di Stato.
L'incompetenza per territorio non è rilevabile
d'ufficio.
L'istanza deve essere proposta, a pena di decadenza,
entro venti giorni dalla data di costituzione in
giudizio. Può essere proposta successivamente
quando l'incompetenza territoriale del tribunale
amministrativo regionale risulti da atti depositati in
giudizio, dei quali la parte che propone l'istanza non
avesse prima conoscenza; in tal caso l'istanza va
proposta entro venti giorni dal deposito degli atti.
L'istanza non è più ammessa quando il ricorso sia
passato in decisione.
L'istanza di regolamento di competenza si propone
con ricorso notificato a tutte le parti in causa, che non
vi abbiano aderito.
Se tutte le parti siano d'accordo sulla remissione del
ricorso ad altro tribunale amministrativo regionale, il
presidente cura, su loro istanza, la trasmissione
d'ufficio degli atti del ricorso a tale tribunale
regionale e ne dà notizia alle parti, che debbono
costituirsi davanti allo stesso entro venti giorni dalla
comunicazione.
Negli altri casi, i processi, relativamente ai quali è
chiesto il regolamento di competenza, sono sospesi e
gli atti devono immediatamente essere trasmessi
d'ufficio a cura della segreteria del tribunale, al
Consiglio di Stato.
Negli altri casi il presidente fissa immediatamente
la camera di consiglio per la sommaria delibazione
del regolamento di competenza proposto. Qualora
il collegio, sentiti i difensori delle parti, rilevi, con
decisione semplificata, la manifesta infondatezza
del regolamento di competenza, respinge l'istanza
e provvede sulle spese di giudizio; in caso
contrario
dispone
che
gli
atti
siano
immediatamente trasmessi al Consiglio di Stato.
Le parti alle quali è notificato il ricorso per
regolamento di competenza possono, nei venti giorni
successivi, depositare nella segreteria del Consiglio
di Stato memorie e documenti.
Sull'istanza il Consiglio di Stato provvede in camera
di consiglio, sentiti i difensori delle parti, che ne
abbiano fatto richiesta, nella prima udienza
successiva alla scadenza del termine di cui al
precedente comma.
La decisione del Consiglio di Stato sulla competenza
è vincolante per i tribunali amministrativi regionali.
L'incompetenza per territorio non costituisce motivo
di impugnazione della decisione emessa dal tribunale
amministrativo regionale.
Quando l'istanza per il regolamento di competenza
venga respinta, il Consiglio di Stato condanna alle
spese colui che ha presentato l'istanza.
Quando l'istanza di regolamento di competenza sia
accolta, il ricorrente può riproporre l'istanza al
tribunale territorialmente competente entro trenta
giorni dalla notifica della decisione di accoglimento.
Art. 32
Nei ricorsi da devolversi alle sezioni staccate previste
dall'articolo 1, il deposito del ricorso con le modalità
indicate nell'articolo 21 e le operazioni successive
vengono effettuate presso gli uffici della sezione
staccata.
Le parti, che reputino che il ricorso debba essere
deciso dal tribunale amministrativo regionale sedente
nel capoluogo, debbono eccepirlo all'atto della
costituzione e comunque non oltre quarantacinque
giorni dalla notifica del ricorso. Il presidente del
tribunale amministrativo regionale provvede sulla
eccezione con ordinanza motivata non impugnabile,
udite le parti che ne facciano richiesta.
La decisione del ricorso da parte del tribunale
amministrativo regionale sedente nel capoluogo
anziché dalla sezione staccata, o viceversa, non
costituisce vizio di incompetenza della decisione.
Il disposto del secondo comma si applica anche nel
caso in cui vengano proposti al tribunale regionale
amministrativo sedente nel capoluogo ricorsi che si
reputano abbiano ad essere decisi dalla sezione
staccata.
Art. 33
Le sentenze dei tribunali amministrativi regionali
sono esecutive.
Il ricorso in appello al Consiglio di Stato non
sospende l'esecuzione della sentenza impugnata.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, su istanza di parte,
qualora dall'esecuzione della sentenza possa derivare
un danno grave e irreparabile, può disporre, con
ordinanza motivata emessa in camera di consiglio,
che la esecuzione sia sospesa.
Sull'istanza di sospensione il Consiglio di Stato
provvede nella sua prima udienza successiva al
deposito del ricorso. I difensori delle parti devono
essere sentiti in camera di consiglio, ove ne facciano
richiesta.
Per l'esecuzione delle sentenze non sospese dal
Consiglio di Stato il tribunale amministrativo
regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di
ottemperanza al giudicato di cui all'articolo 27,
primo comma, numero 4), del testo unico delle
leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio
decreto 26 giugno 1924, n.1054, e successive
modificazioni.
Art. 34
Nel giudizio di appello, se il Consiglio di Stato
riconosce il difetto di giurisdizione o di competenza
del tribunale amministrativo regionale o la nullità del
ricorso introduttivo del giudizio di prima istanza, o la
esistenza di cause impeditive o estintive del giudizio,
annulla la decisione impugnata senza rinvio.
In caso di errore scusabile il Consiglio di Stato può
rimettere in termini il ricorrente per proporre
l'impugnativa al giudice competente, che deve essere
indicato nella sentenza del Consiglio di Stato, o per
rinnovare la notificazione del ricorso.
Art. 35
Se il Consiglio di Stato accoglie il ricorso per difetto
di procedura o per vizio di forma della decisione di
primo grado, annulla la sentenza impugnata e rinvia
la controversia al tribunale amministrativo regionale.
Il rinvio ha luogo anche quando il Consiglio di Stato
accoglie il ricorso contro la sentenza con la quale il
tribunale amministrativo regionale abbia dichiarato la
propria incompetenza.
In ogni altro caso, il Consiglio di Stato decide sulla
controversia.
La riassunzione del giudizio davanti al tribunale
amministrativo regionale deve essere effettuata entro
sessanta giorni dalla notificazione della decisione del
Consiglio di Stato o, in difetto di notificazione, entro
un anno dalla pubblicazione della decisione stessa.
In ogni caso di rinvio, il giudizio prosegue innanzi
al tribunale amministrativo regionale, con
fissazione d'ufficio dell'udienza pubblica, da
tenere entro trenta giorni dalla comunicazione
della sentenza con la quale si dispone il rinvio. Le
parti possono depositare atti, documenti e
memorie sino a tre giorni prima dell'udienza.
Art. 36
Contro le decisioni pronunziate dal Consiglio di Stato
in secondo grado sono ammessi il ricorso per
revocazione, nei casi e nei termini previsti
dall'articolo 396 del codice di procedura civile, e il
ricorso in cassazione per motivi inerenti alla
giurisdizione (1).
(1) La Corte cost., con sent. 17 maggio 1995, n. 177,
ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente
articolo, nella parte in cui non prevede l'opposizione
di terzo ordinaria fra i mezzi di impugnazione delle
sentenze del Consiglio di Stato.
Art. 37
I ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo
dell'autorità amministrativa di conformarsi, in quanto
riguarda il caso deciso, al giudicato dell'autorità
giudiziaria ordinaria, che abbia riconosciuto la
lesione di un diritto civile o politico, sono di
competenza dei tribunali amministrativi regionali
quando l'autorità amministrativa chiamata a
conformarsi sia un ente che eserciti la sua attività
esclusivamente nei limiti della circoscrizione del
tribunale amministrativo regionale.
Resta ferma, negli altri casi, la competenza del
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.
Quando i ricorsi siano diretti ad ottenere lo
adempimento
dell'obbligo
dell'autorità
amministrativa di conformarsi al giudicato degli
organi di giustizia amministrativa, la competenza è
del Consiglio di Stato o del tribunale amministrativo
regionale territorialmente competente secondo
l'organo che ha emesso la decisione, della cui
esecuzione si tratta.
La competenza è peraltro del tribunale
amministrativo regionale anche quando si tratti di
decisione di tribunale amministrativo regionale
confermata dal Consiglio di Stato in sede di appello.
TITOLO IV
Disposizioni generali e transitorie
Art. 38
L'attribuzione ai tribunali amministrativi regionali
della competenza prevista dall'articolo 2, lettera b),
numeri 1 e 2, nonché dagli articoli 3 e 5 della
presente legge, ha effetto dopo tre mesi dalla data di
insediamento dei tribunali amministrativi regionali
che sarà fissata a sensi del primo comma dell'articolo
43.
Per i giudizi promossi in tali materie anteriormente a
tale data, rimane ferma l'attribuzione di competenza
prevista dalle norme attualmente in vigore.
Art. 39
Fino a quando non sarà diversamente disciplinata la
materia, nulla è innovato per quanto concerne
l'attuale competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria
in materia di controversie dei dipendenti da enti
pubblici economici.
Art. 40
Fino a quando non si procederà alla revisione
dell'attuale sistema di giustizia amministrativa nella
regione siciliana, la competenza del tribunale
amministrativo regionale istituito nella regione
siciliana è limitata alle materie indicate nell'articolo
2, lettera a), e nell'articolo 6 della presente legge.
L'appello contro le sentenze di tale tribunale è portato
al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
siciliana. Nulla è innovato nelle disposizioni che
attualmente disciplinano detto Consiglio.
Art. 41
Il tribunale amministrativo regionale con sede in
Aosta è competente nelle materie indicate nella
presente legge, nonché in quelle attribuite alla
competenza
della
giunta
giurisdizionale
amministrativa della Valle d'Aosta ai sensi
dell'articolo 2, numeri 1) e 2), del decreto legislativo
del Capo provvisorio dello Stato 15 novembre 1946,
n. 367, e successive modificazioni.
Art. 42
Tutti i ricorsi pendenti presso qualsiasi autorità
giurisdizionale alla data di entrata in vigore della
presente legge sono trasmessi d'ufficio alla segreteria
del tribunale amministrativo regionale del capoluogo
di regione entro 60 giorni dalla data di insediamento
del tribunale.
I ricorsi proposti dopo l'entrata in vigore della
presente legge e prima dell'entrata in funzione dei
tribunali amministrativi regionali, saranno, nei
termini previsti, depositati nel capoluogo di regione
presso la cancelleria del tribunale la quale sarà tenuta
a riceverli e a trasmetterli alla segreteria del tribunale
amministrativo regionale non appena questa entrerà
in funzione.
Gli ulteriori termini cominceranno a decorrere dalla
data di entrata in funzione dei tribunali
amministrativi regionali.
Le segreterie dei tribunali amministrativi regionali
danno notizia della ricezione degli atti alle parti
costituite.
Le parti che vi abbiano interesse dovranno, entro il
termine perentorio di 60 giorni dalla ricezione
dell'avviso della segreteria, richiedere al presidente
del tribunale amministrativo regionale che venga
fissata l'udienza di trattazione.
Art. 43
L'insediamento dei tribunali amministrativi regionali
avrà luogo entro sei mesi dall'entrata in vigore della
presente legge, in data che verrà fissata con decreto
del Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Per non oltre sei mesi da tale data, i consiglieri, i
primi referendari e i referendari potranno essere
assegnati contemporaneamente a due finitimi
tribunali amministrativi regionali.
Il primo concorso a referendario previsto dall'articolo
14 dovrà essere bandito entro sei mesi dall'entrata in
vigore della presente legge.
Art. 44
All'atto della entrata in vigore della presente legge
sono indetti tre concorsi per soli titoli a 18 posti di
consiglieri, 27 posti di primi referendari e 15 di
referendari per i tribunali amministrativi regionali.
A tali concorsi possono partecipare:
a) per consiglieri: i professori ordinari di materie
giuridiche nelle università, i professori incaricati
nelle stesse con almeno otto anni di insegnamento e
che appartengano all'ordine giudiziario ordinario ed
amministrativo; i magistrati amministrativi e quelli
dell'ordine giudiziario, con qualifica non inferiore a
consigliere d'appello o equiparata; gli avvocati dello
Stato con dodici anni di servizio; gli appartenenti alle
carriere amministrative direttive dello Stato, forniti di
laurea in giurisprudenza, con qualifica non inferiore
ad ispettore generale od equiparata;
b) per primi referendari i giudici di tribunale od
equiparati, nonché i funzionari dello Stato con
qualifica non inferiore a direttore di divisione od
equiparati, forniti di laurea in giurisprudenza;
c) per referendari: i giudici aggiunti di tribunale od
equiparati, nonché i direttori di sezione od equiparati,
forniti di laurea in giurisprudenza.
I posti messi a concorso sono riservati per non più di
un terzo, rispettivamente in ciascuna delle tre
qualifiche, ai professori ordinari ed incaricati nelle
università, ai magistrati con qualifica non inferiore a
consigliere d'appello ed agli avvocati dello Stato - per
consigliere - ai giudici di tribunale od equiparati - per
primo referendario - ai giudici aggiunti di tribunale
od equiparati - per referendario.
I posti residui e, comunque, non meno di due terzi di
quelli messi a concorso sono riservati alle altre
categorie di cui al secondo comma, con la espressa
riserva di un terzo in favore dei funzionari direttivi
che abbiano fatto parte delle giunte provinciali
amministrative.
I tre concorsi verranno giudicati da una commissione
nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri e composta da due consiglieri di Stato e da
tre docenti universitari.
Art. 45
Entro un mese dall'entrata in vigore della presente
legge saranno indetti, con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, tre concorsi per titoli ai
seguenti posti di magistrato amministrativo regionale:
n. 18 posti di consigliere;
n. 27 posti di primo referendario;
n. 15 posti di referendario.
I tre concorsi saranno giudicati da una commissione
nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri e composta da due consiglieri di Stato e da
tre docenti universitari.
Il giudizio sui titoli sarà integrato da un colloquio, cui
verranno ammessi i concorrenti i cui titoli saranno
stati meglio valutati, in numero non superiore al
doppio dei posti messi a concorso.
La commissione espleterà i suoi lavori entro tre mesi.
Art. 46
Ai concorsi a posti di consigliere, previsti
nell'articolo precedente, sono ammessi a partecipare:
a) i professori di ruolo di materie giuridiche nelle
università con almeno tre anni di insegnamento;
b) i magistrati dell'ordine giudiziario, i magistrati
amministrativi e della giustizia militare, gli avvocati
dello Stato, con almeno sette anni di anzianità;
c) gli appartenenti alle carriere direttive
amministrative dello Stato con qualifica non inferiore
a ispettore generale o equiparata;
d) i professori incaricati di materie giuridiche nelle
università e i professori di ruolo di materie giuridiche
negli istituti tecnici con almeno quindici anni di
insegnamento.
È prescritto il possesso di laurea in giurisprudenza.
Art. 47
Ai concorsi a posti di primo referendario previsti
nell'articolo 45 sono ammessi a partecipare:
a) i professori di ruolo di materie giuridiche nelle
università;
b) i magistrati dell'ordine giudiziario, i magistrati
amministrativi e della giustizia militare, gli avvocati
dello Stato, con almeno quattro anni di anzianità;
c) gli appartenenti alle carriere direttive
amministrative dello Stato con qualifica non inferiore
a direttore di divisione o equiparata;
d) gli impiegati della carriera direttiva di segreteria
del Consiglio di Stato con qualifica non inferiore a
direttore di segreteria;
e) i professori incaricati e aggregati e gli assistenti di
ruolo di materie giuridiche nelle università e i
professori di ruolo di materie giuridiche negli istituti
tecnici con almeno otto anni di insegnamento;
f) gli avvocati con almeno sei anni di iscrizione
nell'albo professionale.
È prescritto il possesso di laurea in giurisprudenza.
Art. 48
Ai concorsi a posti di referendario, previsti
dall'articolo 45, sono ammessi coloro che siano in
possesso di uno dei requisiti indicati ai numeri 1), 2),
3), 4) e 5) dell'articolo 11 della presente legge.
Art. 49
Ai fini dell'esercizio delle attribuzioni ad esso
conferite dalla presente legge, il Consiglio di
Presidenza dei tribunali amministrativi regionali è
composto dal Presidente del Consiglio di Stato, dai
due presidenti di sezione del Consiglio di Stato più
anziani, da due presidenti di tribunali amministrativi
regionali e da quattro magistrati amministrativi
regionali sorteggiati ogni due anni e non confermabili
immediatamente.
Il Consiglio di Presidenza è costituito con decreto del
Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei Ministri.
Art. 50
I posti di consigliere di Stato disponibili alla data di
entrata in vigore della presente legge, o che si
renderanno successivamente vacanti, sono riservati
nel numero necessario per le nomine da conferire ai
primi referendari e referendari in servizio alla data
medesima, al compimento del periodo stabilito
dall'articolo 4 della legge 21 dicembre 1950, n. 1018.
I posti lasciati scoperti sono considerati posti di
risulta ai fini delle nomine a referendario.
I primi referendari e referendari indicati nel primo
comma, quando conseguiranno la nomina a
consiglieri di Stato, precederanno nel ruolo del
Consiglio di Stato medesimo i consiglieri che vi
saranno trasferiti ai sensi dell'articolo 17 della
presente legge.
I posti lasciati liberi dal personale di magistratura del
Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi
regionali, collocati a riposo in applicazione
dell'articolo 3 della legge 24 maggio 1970, n. 336,
non sono portati in diminuzione nella qualifica
iniziale del rispettivo ruolo di appartenenza.
Art. 51
I funzionari della carriera direttiva amministrativa
dell'amministrazione civile dell'interno, già presidenti
o membri delle sezioni dei tribunali amministrativi
per il contenzioso elettorale di cui alla legge 23
dicembre 1966, n. 1147, sono collocati, a decorrere
dall'entrata in vigore della presente legge, nella
posizione di soprannumero, nel ruolo di
appartenenza.
Per il riassorbimento dei funzionari in soprannumero
si osserva il disposto di cui all'articolo 5 della legge
19 ottobre 1959, n. 928.
Art. 52
Con regolamenti da emanarsi entro tre mesi dalla
entrata in vigore della Presente legge, saranno
stabilite le norme di attuazione e le modalità di
svolgimento dei concorsi previsti dall'articolo 14.
Art. 53
Le spese per il funzionamento dei tribunali
amministrativi regionali, comprese quelle relative al
personale di segreteria appartenente ai ruoli delle
amministrazioni regionali, provinciali e comunali,
nonché quelle per i locali, il loro arredamento e la
loro manutenzione sono a carico dello Stato e sono
sostenute dai commissari del Governo della regione o
dalle autorità governative corrispondenti nelle regioni
Sicilia, Sardegna e Valle d'Aosta.
Ai presidenti di sezione e ai consiglieri di Stato
destinati a presiedere tribunali amministrativi
regionali diversi da quello di Roma, nonché ai
segretari generali dei tribunali medesimi, spetta, per i
primi sei mesi, l'indennità di missione intera.
Le spese di funzionamento dei tribunali
amministrativi regionali gravano su un apposito
capitolo dello stato di previsione della spesa del
Ministero del tesoro.
Art. 54
All'onere derivante dall'applicazione della presente
legge, valutato in lire 1.600 milioni per l'anno
finanziario 1972, si provvede mediante riduzione
degli stanziamenti iscritti al capitolo 3523 dello stato
di previsione della spesa del Ministero del tesoro.
Il Ministro per il tesoro è autorizzato ad apportare,
con propri decreti, le occorrenti variazioni di
bilancio.