www.ildirittoamministrativo.it OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI DIRITTO DELLA NAVIGAZIONE AGGIORNATO AL 31 MARZO 2011 A cura di Luca SALAMONE Presentazione In linea con lo spirito della rivista www.ildirittoamministrativo.it, questo nuovo osservatorio giurisprudenziale in materia di diritto della navigazione nasce con l’intento di creare all’interno della rivista un’area di ricerca volta a mettere a fuoco le decisioni giurisprudenziali che nella suddetta materia – tipicamente “trasversale” (essendo la stessa riconducibile a tematiche attinenti la navigazione marittima, aerea e stradale, nonché afferenti a diverse branche, sia pubblicistiche che privatistiche, del diritto, quali: il diritto costituzionale, il diritto internazionale, il diritto europeo, il diritto civile, il diritto amministrativo e il diritto penale) – presentano un particolare interesse per operatori giuridici e studiosi della materia nonché, più in generale, per quanti intendono affrontare i concorsi per accedere alle cariche pubbliche. In conclusione, nel ringraziare il Consigliere Michele Corradino per la fiducia accordatami, non mi resta che augurare una buona lettura. Corte di Cassazione, Sez. Unite civili – Sentenza 16 febbraio 2011 n. 3813. (Sulla nozione costituzionalmente orientata di bene demaniale - Principio enunciato a proposito delle c.d. Valli da pesca della laguna di Venezia). Nell‟importante sentenza in rassegna le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano un principio di portata dirompente in materia di beni demaniali ed, in particolare, di beni catalogabili come appartenenti al demanio marittimo. Nella fattispecie, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a seguito dell‟ordinanza di remissione, sono chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: “dica e stabilisca la Corte se sia compatibile con lo statuto costituzionale italiano ed europeo della proprietà, che la Valle che pur rivestisse i caratteri della demanialità necessaria (dato non solo non ammesso ma fermamente contestato), resti necessariamente demaniale fino a classificazione formale, anche nel persistente (per oltre mezzo secolo) disinteresse (mancata declaratoria di demanialità e mancata tutela della stessa) dello Stato ed anche a fronte di molteplici atti autorizzativi d'interventi assolutamente incompatibili con la demanialità; dica correlativamente se alla luce dell'evoluzione complessiva e sistematica dell'ordinamento le disposizioni denunciate (art. 829 c.n. e 23 del CdN) possano considerarsi ancora vigenti”. Come noto, in base al vigente quadro normativo la disciplina dei beni pubblici risiede ancora, almeno nelle sue linee fondamentali, nel Codice Civile (artt. 822-831 il quale, com‟è noto, divide i beni pubblici, ossia i beni “appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici”, in tre categorie: beni demaniali, beni patrimoniali indispensabili e beni patrimoniali disponibili). In particolare, i beni demaniali, elencati nell‟art. 822 c.c., secondo un criterio di tassatività, hanno come caratteristica comune il fatto di essere beni immobili o universalità di mobili e di appartenere necessariamente ad enti territoriali, ossia lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni (art. 824 c.c.). Questi beni sono tali o per loro intrinseca natura (cd. demanio necessario, ossia il demanio marittimo, idrico e militare, art. 822, comma 1). Inoltre, la disciplina del demanio marittimo si completa con la normativa di cui agli artt. 28-35 c. nav. In particolare, l‟art. 28 c.n., stabilisce che fanno parte del demanio marittimo “a. il lido, la spiaggia, i porti, le rade; b. le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare; c. i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo”. Con la sentenza in rassegna, le SS.UU. della suprema Corte rilevano che oggi non è più possibile limitarsi, in tema di individuazione dei beni pubblici o demaniali, all‟esame della sola normativa codicistica del „42 (ed in particolare agli artt. 28 del Codice della navigazione e 822 del Codice Civile), “risultando indispensabile integrare la stessa con le varie fonti dell'ordinamento e specificamente con le (successive) norme costituzionali. La Costituzione, com'è noto, non contiene un'espressa definizione dei beni pubblici, né una loro classificazione, ma si limita a stabilire alcuni richiami che sono, comunque, assai importanti per la definizione del sistema positivo”. Le SS.UU. ritengono, infatti, che dall‟applicazione diretta (“drittwirkung”) degli artt. 2, 9 e 42 Costituzione “si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell'ambito dello Stato sociale, anche nell'ambito del paesaggio, con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della proprietà dello Stato ma anche riguardo a, quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività” e che – per tale loro destinazione, appunto, alla realizzazione dello Stato sociale – i beni aventi per natura determinate intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, devono ritenersi “comuni”, prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l‟aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività. Ad avviso del giudice di legittimità, perciò, il solo aspetto della “demanialità”, in una nuova lettura costituzionalmente orientata, non appare più esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo ovvero, indipendentemente dal titolo di proprietà pubblico o privato, risultano comunque funzionali ad interessi generali della stessa collettività. Ed invero, risultando la collettività costituita da persone fisiche, “l’aspetto dominicale della tipologia del bene in questione cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità”. Nella sentenza in rassegna viene ribadito un ulteriore principio (quest‟ultimo per il vero consolidato), ossia la non imprescindibilità dell‟avvio del procedimento amministrativo di delimitazione del demanio marittimo (ex art. 32 c.n.) al fine di individuare le aree da ricondurre nell‟alveo dei beni demaniali. Ad avviso delle SS.UU. infatti non vi è motivo di discostarsi dal consolidato giudizio giurisprudenziale, in base al quale “il procedimento di delimitazione non è costitutivo della demanialità di un bene ma ha una mera funzione di accertamento dei relativi confini; si è affermato infatti (tra le altre, Cass. n. 10817/2009) che il procedimento di delimitazione del demanio marittimo, previsto dall'art. 32 cod. nav., tendendo a rendere evidente la demarcazione fra tale demanio e le proprietà private finitime, si presenta quale proiezione specifica della normale azione di regolamento dei confini di cui all'art. 950 c.c., e si conclude con un atto di delimitazione, il quale ha una funzione di mero accertamento, in sede amministrativa, dei confini del demanio marittimo rispetto alle proprietà dei privati, senza l'esercizio di in potere discrezionale della P.a.”. In conclusione, alla luce dei suesposti principi il giudice di legittimità conclude affermando che le valli da pesca rientrano in uno di quei casi in cui “i principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico, inteso in senso non solo di oggetto di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali”. All‟uopo il giudice di legittimità evidenzia che in senso contrario non possono rilevare neanche “eventuali atti privatistici di trasferimento di detti beni risultando nulli per impossibilità giuridica dell'oggetto degli atti stessi, come pure eventuali comportamenti concludenti posti in essere dalla pubblica amministrazione mediante suoi funzionari in quanto illeciti perché ovviamente contra legem”. T.A.R. PUGLIA, Bari, Sez. II – Sentenza 5 gennaio 2011, n. 10 (In materia di divieto d’edificazione nella fascia costiera e norme per la sanatoria di abusi edilizi in zone soggette a vincoli) in base alla normativa regionale vigente, la fascia costiera della regione Puglia è sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta, per tale ragione la stessa non tollera alcuna sanatoria per le opere ivi realizzate abusivamente. È pertanto sanzionata con la misura della demolizione la messa in posa di opere entro i trecento metri dal confine del demanio marittimo. Con la pronuncia che in rassegna il giudice amministrativo pugliese è chiamato ad analizzare la natura del vincolo posto sulla fascia costiera della regione Puglia dall‟art. 51, comma 1, lett. f), legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 in tema di tutela ed uso del territorio. La disposizione, alla lett. f), prevede infatti il divieto di realizzare qualsiasi opera di edificazione entro la fascia dei 300 metri dal confine del demanio marittimo, o dal ciglio più elevato sul mare. Tale norma è da considerarsi speciale rispetto a quella, di portata generale, prevista dall‟art. 55 c. nav. (“Nuove opere in prossimità del demanio marittimo”), a mente della quale “La esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione del capo del compartimento”. Nella pronuncia in rassega il Tribunale amministravo in epigrafe afferma che, come evidenziato da Cons. Stato, Sez. V, 15 novembre 1999, n. 1914 “Nella Regione Puglia, l’art. 51, lett. f) l. reg. 31 maggio 1980 n. 56, vieta ogni opera d’edificazione entro la fascia di trecento metri dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare, fino all’entrata in vigore dei piani paesistico - territoriali, per cui è legittimo il diniego di condono edilizio per un’opera ricadente all’interno della fascia di rispetto posta da detta norma, la quale, ben lungi dal costituire una mera misura di salvaguardia, pone invece un vincolo specifico a tutela di interessi paesaggistici e ambientali (cui fa riferimento l’art. 33 l. 28 febbraio 1985 n. 47 per escludere la sanatoria di opere edilizie abusive), ossia un vincolo d’inedificabilità assoluta, ancorché a termine.”. Inoltre, ad avviso del Collegio, nella Regione Puglia, il divieto d‟edificazione nella fascia costiera, stabilito dall‟art. 51, lett. f) legge regionale 31 maggio 1980 n. 56, non è nemmeno assimilabile all‟ipotesi ex art. 32 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (recante norme per la sanatoria di abusi edilizi in zone soggette a vincoli), costituendo una vicenda d‟inedificabilità assoluta e come tale “rientrante nella fattispecie di cui al successivo art. 33, relativa alle opere non suscettibili di condono”. Alla luce di quanto sopra, il Tribunale amministrativo regionale ritiene che il manufatto abusivo realizzato all‟interno di tale fascia di rispetto, non sanabile, a nulla valendo, in senso contrario, la previsione di piani finalizzati al recupero degli insediamenti abusivi, in quanto, “ai sensi dell’art. 5 l. reg. n. 56 del 1980, non è possibile formare varianti per le opere non sanabili a termine dell’art. 33 l. n. 47 del 1985”. Difatti, “per pacifica giurisprudenza amministrativa in siffatta ipotesi (i.e. area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta) può essere legittimamente negata la sanatoria persino dopo la scadenza del termine previsto per la formazione del silenzio assenso (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 giugno 1990, n. 595; Cons. Stato, Sez. V, 9 dicembre 1996, n. 1493; T.A.R. Calabria Catanzaro, Sez. II, 13 aprile 2007, n. 307; T.A.R. Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 21 novembre 2007, n. 3247; T.A.R. Puglia Bari, Sez. II, 17 marzo 2010, n. 972)”. Cass. civ. Sez. III – Sentenza 28 febbraio 2011, n. 4900 (In tema di spedizione e locazione di containers e contratto collegato). Nella caso oggetto della sentenza in rassegna, il giudice di primo grado rigettava la domanda proposta dalla I.M. s.p.a., vettore, su richiesta dello spedizioniere I. s.r.l., volta ad ottenere da parte di questa società il pagamento di euro 19.285, 18 a titolo di controstallie, maturate dai suoi containers, con cui era stato trasportato grano, perchè la merce non era stata ritirata dalla S.T.S. SARL. Su gravame della I.M. s.p.a. la Corte di appello di Genova ha confermato, con diversa motivazione, la decisione di primo grado. Ricorre contro di essa la I.M. s.p.a. La questione principale del presente ricorso concerne “se il rapporto di messa a disposizione dei containers intercorso tra spedizioniere e vettore debba qualificarsi come autonomo contratto di locazione mobiliare”, con la possibilità di ritenere provato, a questo solo fine, il conferimento di un mandato con rappresentanza da parte del mittente. In particolare, “una volta ritenuto distinto il contratto di trasporto da quello di locazione dei containers”, la ricorrente chiede se questa locazione vada considerata “come operazione accessoria al contratto di trasporto”, che lo spedizioniere conclude in nome proprio e per conto del mandante, per cui lo spedizioniere in tale veste si obbligherebbe anche nei confronti del terzo e, quindi, sarebbe obbligato in proprio al pagamento del corrispettivo relativo all‟utilizzo dei containers, ivi inclusi i compensi per ritardata restituzione. Nella sentenza in rassegna il giudice di legittimità ritiene che la risposta al quesito di cui al primo motivo debba essere data avendo presente la nozione di spedizioniere quale indicata nell‟art. 1737 c.c., che, come è noto, prevede tra l‟altro l‟obbligo di eseguire le “operazioni accessorie” relative al contratto di trasporto che deve concludere in nome e per conto del mittente. Sulla formula “operazioni accessorie” la dottrina si mostra divisa, tuttavia ad avviso del giudice di legittimità la norma codicistica va collegata e letta anche alla luce della L. n. 1442 del 1942, art. 1 (“Istituzione di elenchi autorizzati degli spedizionieri”), nel quale vengono indicate come attività di spedizione “la stipulazione del contratto di trasporto con il vettore, il compimento della spedizione e delle operazioni accessorie”. Ad avviso della suprema Corte “stando, quindi, al piano normativo il compimento di operazioni accessorie è previsto come unico oggetto di un contratto di spedizione, con la logica deduzione, però, che di accessorietà in tutte e due le definizioni (codicistica e legislativa) non si parla in senso tecnico-giuridico, presente in altri rapporti giuridici, che comportano un collegamento, oltre che pratico e funzionale, anche giuridico fra elementi posti in relazione di principale e subordinato”. Ne consegue che, pur ribadendosi che la stipulazione del contratto di trasporto è la operazione principale dello spedizioniere, la nozione di accessorietà nell‟ambito del rapporto di spedizione non è quella di accessorietà ad una operazione principale ravvisata nel contratto di trasporto. Secondo la suprema Corte, quindi, “l’elemento giuridico accessorio (cosa o rapporto obbligatorio, come nella specie la “locazione mobiliare”), in riferimento al contratto di trasporto è per definizione eventuale, mentre le operazioni dette nella legge accessorie, sempre per la legge stessa vengono ritenute essenziali e, quindi, irrinunciabili in un rapporto di spedizione tanto se taluna di esse costituisce il solo oggetto di un contratto (art. 1374 c.c.) quanto se il contratto ha per oggetto in primo luogo il compimento di un contratto di trasporto”. In altri termini, il lemma “accessorietà” se, in taluni casi, “può indicare la subordinazione di elementi ad uno o ad altri, principali (accessorietà giuridica)”, in altre fattispecie “può anche indicare la mera accessione al trasporto di una molteplicità di operazioni tutte collegate, che possono essere poste in essere da una pluralità di soggetti, di cui principali sono, se del caso, vettore e spedizioniere e che possono tradursi in più contratti autonomi fra loro e relativi a prestazioni diverse, anche se tutti aventi ad oggetto prestazioni funzionali alla spedizione della stessa merce”. Quanto sopra ad avviso della Corte di Cassazione “non significa affatto, come opina qualche autorevole autore, che in mancanza di una dichiarazione di volontà contrattuale, dalla legge possa presumersi la volontà dei contraenti il contratto di spedizione di sottoporre al regime dello stesso tutte le operazioni accessorie, ma, a parere del Collegio, che debba ritenersi che è lo stesso legislatore, in relazione alla particolare natura del contratto, a lasciare alla autonomia delle parti di determinare ciò che è giuridicamente accessorio e ciò che è praticamente accessorio, ma non giuridicamente tale. Infatti, deve riconoscersi che la ratio della disciplina è quella di connettere certe operazioni a un trasporto di cose, operazioni che, in virtù della scelta autonoma delle parti, possono essere praticamente collegate senza dare luogo ad un negozio unico, là dove la causa negotii è solo quella di concludere un contratto di trasporto, ovvero la consegna della merce da un luogo ad un altro, da un soggetto ad un altro”. Ciò detto, ad avviso del giudice di legittimità è evidente che “le modalità di trasporto, rientrando nella autonomia contrattuale, possono essere variamente definite e ridefinite dallo spedizioniere e trovare l’accordo del vettore o proposte dal vettore e trovare l'accordo dello spedizioniere”, ciò con l‟effetto che “se per il trasporto viene concordata, perché risultante operazione accessoria, una locazione di beni mobili ove allocare e tenere in consegna e in custodia gli stessi, in quanto ritenuta fruttuosa per il buon esito della consegna, questa locazione è una operazione accessoria in senso lato e non già in senso stretto, come esattamente ha rilevato la sentenza impugnata”. Nella sentenza impugnata, i giudici dell‟appello erano giunti a questa conclusione, ritenendo che si trattasse di “accessorietà giuridica” e, comunque, “di contratti collegati in luogo di un unico contratto”. Di converso, ad avviso del giudice di legittimità tale conclusione non è corretta, infatti, nella fattispecie “non si rinviene una accessorietà giuridica, in quanto la locazione dei containers non era funzionalmente necessaria ed imprescindibile”, e pertanto “viene a cadere anche il discorso sul c.d. contratto collegato, in quanto il collegamento, che pure si rinviene, è un collegamento pratico, fattuale, non imprescindibile per l’attuazione del contratto di trasporto che lo spedizioniere ebbe a concludere”. Cionondimeno, ad avviso della Suprema Corte la sentenza impugnata sfugge in ogni caso ad ogni censura, dovendosi sottolineare che, per giurisprudenza costante, “tra le prestazioni accessorie dello spedizioniere sono comprese sì la custodia della merce, oltre altri adempimenti, ma di certo non le modalità dei rischi dell’esecuzione”, perché egli si obbliga solo a concludere con altri, in nome proprio e per conto del mittente (nella specie ciò è incontroverso), il contratto di trasporto. Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-01-2011) 23-02-2011, n. 6872 (In tema di rapporti tra diritto comunitario e diritto interno e di disapplicazione della norma interna in evidente contrasto con la norma comunitaria, nonché di delega e posizione di garanzia). Nella pronuncia in rassegna la Corte di Cassazione penale è chiamata a pronunciarsi sul reato – accertato da ufficiali di p.g. della Capitaneria di Porto nel corso di un‟ispezione presso il mercato ittico – di cui alla L. 963 del 1965, art. 15, lett. c) e art. 24, comma 1 contestato a T.R. perché, in qualità di fornitore di B., cedeva a quest‟ultimo due esemplari di tonno rosso (thunnus thinnus) del peso inferiore ai 10 Kg e di lunghezza inferiore agli 80 cm, in violazione del regolamento C.E. n. 51/2006 allegato 3^, parte D. 20. Il difensore dell‟imputato T.R. propone ricorso per Cassazione, denunciando con il primo motivo la inosservanza e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 1639 del 1968, art. 91 e del regolamento CEE n. 51/2006. Sostiene la difesa che la L. n. 963 del 1965, art. 15 è norma penale in bianco che non definisce la nozione di novellarne, rinviando alla normativa nazionale e comunitaria. Ad avviso della stessa, il ragionamento del Tribunale, che ha ritenuto non applicabile il margine di tolleranza del 10% previsto dal D.P.R. n. 1639 del 1968, art. 91, non coglie nel segno. Inoltre, per quanto riguarda la commerciabilità del prodotto non c‟è dubbio che prevalga il regolamento comunitario. Per la sanzione penale, invece, l‟U.E. si limita a prescrivere i limiti minimi del pescato, lasciando libero il legislatore nazionale di valutare le sanzioni opportune (ed il legislatore italiano ha previsto il margine di tolleranza del 10%). Ed invero, dal combinato disposto delle suddette norme, ad avviso della difesa, quando il pescato del novellarne si mantiene nell‟ambito del 10%, pur non essendo commerciabile, non è soggetto a sanzione penale. Con il ulteriore motivo di censura la difesa denuncia la violazione di legge in relazione agli artt. 187 e 530 c.p.p. e 27 Cost., nonché il vizio di motivazione in relazione all‟elemento soggettivo del reato. La difesa deduce inoltre la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Difatti, stante le dimensioni dell‟azienda, il ricorrente non poteva controllare personalmente peso e dimensioni del pescato; a tal fine egli aveva pertanto delegato ai cinque autisti siffatto controllo (e la partita di tonno rosso destinata al mercato di Savona era stata, infatti, visionata da un autista). Ciò premesso, ad avviso della difesa, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale, per essere esonerati dalla responsabilità penale in caso di delega non è necessaria una delega formale, potendo questa essere anche orale. Ad avviso del supremo giudice di legittimità le censure della difesa non colgono nel segno. Difatti, a norma della L. n. 963 del 1965, art. 15, comma 1, lett. c) “è fatto divieto... di pescare, detenere, trasportare e commerciare il novellame di qualunque specie vivente marina oppure le specie di cui sia vietata la cattura in qualunque stadio di crescita, senza la preventiva autorizzazione del Ministero della Marina mercantile”. Secondo l‟orientamento più recente della Corte di Cassazione in materia, che nella fattispecie viene ribadito, le disposizioni “interne” che prevedono un margine di tolleranza del 10% sono in contrasto con la normativa comunitaria. Tale normativa comunitaria non prevede, infatti, alcuna deroga al divieto di pesca e di commercializzazione del novellarne. Il giudice di legittimità evidenzia che “quanto ai rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, è pacifico che il primo sia fonte produttiva di norme immediatamente efficaci e vincolanti all’interno degli Stati aderenti”. Ed invero, la Corte costituzionale, con la sentenza 5 giugno 1984 n. 170, ha affermato che, “nelle materie riservate alla normazione della Comunità europea, il giudice ordinario deve applicare direttamente la norma, la quale prevale sulla legge nazionale incompatibile, anteriore o successiva; ciò in quanto l’ordinamento dello Stato e quello della Comunità europea sono due sistemi reciprocamente autonomi e, al tempo stesso, coordinati secondo le previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma oggetto, proprio in forza dell'art. 11 Cost., di una specifica, piena e continua garanzia”. La Corte di Cassazione soggiunge che il medesimo giudice delle leggi, con sentenza del 19 aprile 1985 n. 113, dopo aver ribadito che, “allorquando una fattispecie cada sotto il disposto della disciplina prodotta dagli organi della comunità immediatamente applicabile nel territorio dello Stato, la regola comunitaria deve ricevere, da parte del giudice statale, necessaria ed immediata applicazione, pure in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello Stato, non importa se anteriore o successiva, ha precisato che tale principio deve essere rispettato non soltanto ove si tratti di disciplina prodotta dagli organi della Comunità mediante regolamento, ma anche di statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di Giustizia”. Ciò premesso, precisa la Corte che “non si è mai dubitato dell’efficacia immediata, in bonam partem, del diritto comunitario, con la conseguente disapplicazione, totale o parziale delle norme penali interne eventualmente incompatibili (Cass. sez. 3^, 1.7.1999, Valentini)”, pur dovendosi quest‟ultima fattispecie astratta distinguersi dalla diversa “problematica dell’influenza in malam partem che deve misurarsi con il principio di legalità, con la teoria delle fonti e con la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 5 c.p., allorché il significato di una norma penale dipende dalla sua integrazione con altre norme, ed in proposito deve distinguersi il caso in cui l’eterointegrazione incide soltanto sulla definizione del fatto, dai casi nei quali incida sullo stesso precetto”. Ciò premesso, la suprema Corte precisa che, nella fattispecie, “la sanzione prevista dalla L. n. 963 del 1965, art. 24 si correla alla violazione del divieto di commercio del novellame posto dal predente art. 15, lett. c) che non ha carattere generico e non ha bisogno, per concretizzarsi e divenire attuale, di essere necessariamente integrato dal contenuto di atti normativi secondari. Soltanto una specificazione tecnica di dettaglio è demandata, al riguardo, al Regolamento sulla disciplina della pesca marittima n. 1639 del 1968 come modificato dai successivi decreti ministeriali, ma tali decreti non possono porsi in contrasto con il regolamento CE n. 1624/94 che ad evidenza non introduce nuove fattispecie incriminatrici rispetto a quelle già previste dalla legge penale italiana. Ove il conflitto di manifesti in forma di incompatibilità evidente (come nella vicenda in esame) il giudice è tenuto, pertanto, a non applicare la disposizione contrastante con quella di fonte comunitaria (cfr. Cass. pen. sez. 3^, n. 39345 del 3.7.2007, Baldini; conf. n. 5750 del 2007 Rv 236251; n. 13751 del 2007 Rv. 236117 e più di recente Cass. sez. 3^ n. 17847 del 19.3.2009 - Puglisi)”. Per quanto sopra, ad avviso del giudice di legittimità, “va quindi disapplicata la normativa che consente una tolleranza di novellarne del dieci per cento, perché in contrasto con la disciplina comunitaria”. Quanto all‟ulteriore aspetto di interesse affrontato dalla sentenza in esame – quello relativo all‟eventuale effetto esimente conseguente alla delega di funzioni – la suprema Corte ha correttamente ritenuto che non vi fosse prova di una delega. A tal fine, il giudice di legittimità, rifacendosi ai precedenti giurisprudenziali, ha ribadito che “gli obblighi gravanti su un soggetto che svolga attività imprenditoriale possono essere delegati, con conseguente sostituzione e subentro del delegato nella posizione di garanzia, ma il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (cfr. Cass. Sez. 4^, 25.8.200 n. 9343 -Archetti; conf. Cass. pen. sez. 4^, 1.4.2004, Rossetto)”. La suprema Corte evidenzia che in materia penale “la delega quindi è in linea generale ed astratta consentita”, tuttavia per essere rilevante ai fini dell‟esonero da responsabilità del delegante, deve, come ribadito da questa Corte (in particolare in tema di normativa antinfortunistica, cfr. sez. 3^, n. 26122 del 12.4.2005 - Capone), avere i “seguenti requisiti: a) essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; b) il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; d) unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo”. Non essendo stata provata l‟esistenza di una delega scritta, i suddetti requisiti, nel caso di specie, non possono considerarsi ricorrenti ai fini dell‟esonero da responsabilità. Infine, nella sentenza in rassegna, di particolare rilievo è l‟uso della clausola generale della buonafede effettuato dal giudice penale. Quest‟ultimo, in relazione all‟elemento soggettivo dei reati contravvenzionali, ha affermato che “per escludere la responsabilità nelle contravvenzioni è necessario, infatti, che l’imputato provi di aver fatto quanto era possibile per osservare la legge e che quindi nessun rimprovero può essergli mosso neppure per negligenza o imprudenza”. Difatti, in ambito penale, “la buona fede acquista giuridica rilevanza solo se si risolva, a causa di un elemento estraneo all’agente, in uno stato soggettivo che sia tale da escludere anche la colpa … Sicché la buona fede può esentare da responsabilità penale soltanto se il soggetto abbia violato la legge per cause indipendenti dalla sua volontà: la violazione della norma deve apparire, cioè, determinata da errore inevitabile che si identifica con il caso fortuito o la forza maggiore”. Ciò premesso il supremo giudice di legittimità ha evidenziato che, in presenza di un reato, completo in tutti i suoi elementi costitutivi, incombe sempre all‟imputato l‟onere di provare che l‟evento si sia verificato per un avvenimento imprevedibile, ovvero estraneo alla sua volontà e che non può in alcun modo essere fatto risalire alla sua attività psichica. In sostanza, deve trattarsi, quindi, di un fatto non prevedibile e non evitabile, pur con l‟impiego di ogni diligenza, difatti “come ricordato dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 322/2007 il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. è rispettato quando si attribuisca valenza scusante all'ignoranza o all’errore che presenti carattere di inevitabilità: giacché deve essere mosso all’agente almeno il rimprovero di non aver evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o difettosa conoscenza del dato rilevante”. Ad avviso della suprema Corte, quindi, nella sentenza impugnata si è fatto buon governo dei suddetti principi, avendo il giudice di primo grado evidenziato che l‟imputato avrebbe potuto fornire una delega, demandando formalmente il controllo della lunghezza e del peso di ogni singolo esemplare trasportato, dotando il delegato di poteri decisionali e di autonomia organizzativa sulle modalità di controllo, oppure avrebbe potuto strutturare diversamente la propria azienda introducendo, ad esempio, sistemi di controllo idonei ad evitare l‟incauto acquisto, il trasporto e la commercializzazione di prodotti ittici fuori misura.