Presentazione - Il Diritto Amministrativo

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www.ildirittoamministrativo.it
OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI
DIRITTO DELLA NAVIGAZIONE
AGGIORNATO AL 31 MARZO 2011
A cura di
Luca SALAMONE
Presentazione
In linea con lo spirito della rivista www.ildirittoamministrativo.it, questo nuovo osservatorio
giurisprudenziale in materia di diritto della navigazione nasce con l’intento di creare all’interno
della rivista un’area di ricerca volta a mettere a fuoco le decisioni giurisprudenziali che nella
suddetta materia – tipicamente “trasversale” (essendo la stessa riconducibile a tematiche attinenti
la navigazione marittima, aerea e stradale, nonché afferenti a diverse branche, sia pubblicistiche
che privatistiche, del diritto, quali: il diritto costituzionale, il diritto internazionale, il diritto
europeo, il diritto civile, il diritto amministrativo e il diritto penale) – presentano un particolare
interesse per operatori giuridici e studiosi della materia nonché, più in generale, per quanti
intendono affrontare i concorsi per accedere alle cariche pubbliche.
In conclusione, nel ringraziare il Consigliere Michele Corradino per la fiducia accordatami, non mi
resta che augurare una buona lettura.
Corte di Cassazione, Sez. Unite civili – Sentenza 16 febbraio 2011 n. 3813.
(Sulla nozione costituzionalmente orientata di bene demaniale - Principio
enunciato a proposito delle c.d. Valli da pesca della laguna di Venezia).
Nell‟importante sentenza in rassegna le Sezioni Unite della Corte di Cassazione
affermano un principio di portata dirompente in materia di beni demaniali ed, in
particolare, di beni catalogabili come appartenenti al demanio marittimo.
Nella fattispecie, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a seguito dell‟ordinanza
di remissione, sono chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: “dica e
stabilisca la Corte se sia compatibile con lo statuto costituzionale italiano ed europeo della
proprietà, che la Valle che pur rivestisse i caratteri della demanialità necessaria (dato non solo non
ammesso ma fermamente contestato), resti necessariamente demaniale fino a classificazione formale,
anche nel persistente (per oltre mezzo secolo) disinteresse (mancata declaratoria di demanialità e
mancata tutela della stessa) dello Stato ed anche a fronte di molteplici atti autorizzativi
d'interventi assolutamente incompatibili con la demanialità; dica correlativamente se alla luce
dell'evoluzione complessiva e sistematica dell'ordinamento le disposizioni denunciate (art. 829 c.n.
e 23 del CdN) possano considerarsi ancora vigenti”.
Come noto, in base al vigente quadro normativo la disciplina dei beni pubblici
risiede ancora, almeno nelle sue linee fondamentali, nel Codice Civile (artt. 822-831
il quale, com‟è noto, divide i beni pubblici, ossia i beni “appartenenti allo Stato, agli enti
pubblici e agli enti ecclesiastici”, in tre categorie: beni demaniali, beni patrimoniali
indispensabili e beni patrimoniali disponibili).
In particolare, i beni demaniali, elencati nell‟art. 822 c.c., secondo un criterio di
tassatività, hanno come caratteristica comune il fatto di essere beni immobili o
universalità di mobili e di appartenere necessariamente ad enti territoriali, ossia lo
Stato, le Regioni, le Province e i Comuni (art. 824 c.c.). Questi beni sono tali o per
loro intrinseca natura (cd. demanio necessario, ossia il demanio marittimo, idrico e
militare, art. 822, comma 1). Inoltre, la disciplina del demanio marittimo si
completa con la normativa di cui agli artt. 28-35 c. nav. In particolare, l‟art. 28 c.n.,
stabilisce che fanno parte del demanio marittimo “a. il lido, la spiaggia, i porti, le rade;
b. le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno
durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare; c. i canali utilizzabili ad uso
pubblico marittimo”.
Con la sentenza in rassegna, le SS.UU. della suprema Corte rilevano che oggi non è
più possibile limitarsi, in tema di individuazione dei beni pubblici o demaniali,
all‟esame della sola normativa codicistica del „42 (ed in particolare agli artt. 28 del
Codice della navigazione e 822 del Codice Civile), “risultando indispensabile integrare la
stessa con le varie fonti dell'ordinamento e specificamente con le (successive) norme costituzionali.
La Costituzione, com'è noto, non contiene un'espressa definizione dei beni pubblici, né una loro
classificazione, ma si limita a stabilire alcuni richiami che sono, comunque, assai importanti per la
definizione del sistema positivo”.
Le SS.UU. ritengono, infatti, che dall‟applicazione diretta (“drittwirkung”) degli artt.
2, 9 e 42 Costituzione “si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo
corretto svolgimento nell'ambito dello Stato sociale, anche nell'ambito del paesaggio, con specifico
riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa-codicistica, il demanio e il
patrimonio oggetto della proprietà dello Stato ma anche riguardo a, quei beni che,
indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca
natura o finalizzazione risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema
normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività” e che
– per tale loro destinazione, appunto, alla realizzazione dello Stato sociale – i beni
aventi per natura determinate intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di
tipo ambientale e paesaggistico, devono ritenersi “comuni”, prescindendo dal titolo
di proprietà, risultando così recessivo l‟aspetto demaniale a fronte di quello della
funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività.
Ad avviso del giudice di legittimità, perciò, il solo aspetto della “demanialità”, in una
nuova lettura costituzionalmente orientata, non appare più esaustivo per
individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un
godimento collettivo ovvero, indipendentemente dal titolo di proprietà pubblico o
privato, risultano comunque funzionali ad interessi generali della stessa collettività.
Ed invero, risultando la collettività costituita da persone fisiche, “l’aspetto dominicale
della tipologia del bene in questione cede il passo alla realizzazione di interessi fondamentali
indispensabili per il compiuto svolgimento dell’umana personalità”.
Nella sentenza in rassegna viene ribadito un ulteriore principio (quest‟ultimo per il
vero consolidato), ossia la non imprescindibilità dell‟avvio del procedimento
amministrativo di delimitazione del demanio marittimo (ex art. 32 c.n.) al fine di
individuare le aree da ricondurre nell‟alveo dei beni demaniali.
Ad avviso delle SS.UU. infatti non vi è motivo di discostarsi dal consolidato
giudizio giurisprudenziale, in base al quale “il procedimento di delimitazione non è
costitutivo della demanialità di un bene ma ha una mera funzione di accertamento dei relativi
confini; si è affermato infatti (tra le altre, Cass. n. 10817/2009) che il procedimento di
delimitazione del demanio marittimo, previsto dall'art. 32 cod. nav., tendendo a rendere evidente
la demarcazione fra tale demanio e le proprietà private finitime, si presenta quale proiezione
specifica della normale azione di regolamento dei confini di cui all'art. 950 c.c., e si conclude con
un atto di delimitazione, il quale ha una funzione di mero accertamento, in sede amministrativa,
dei confini del demanio marittimo rispetto alle proprietà dei privati, senza l'esercizio di in potere
discrezionale della P.a.”.
In conclusione, alla luce dei suesposti principi il giudice di legittimità conclude
affermando che le valli da pesca rientrano in uno di quei casi in cui “i principi
combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della
proprietà trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico, inteso in
senso non solo di oggetto di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla
realizzazione di valori costituzionali”. All‟uopo il giudice di legittimità evidenzia che in
senso contrario non possono rilevare neanche “eventuali atti privatistici di trasferimento
di detti beni risultando nulli per impossibilità giuridica dell'oggetto degli atti stessi, come pure
eventuali comportamenti concludenti posti in essere dalla pubblica amministrazione mediante suoi
funzionari in quanto illeciti perché ovviamente contra legem”.
T.A.R. PUGLIA, Bari, Sez. II – Sentenza 5 gennaio 2011, n. 10 (In materia di
divieto d’edificazione nella fascia costiera e norme per la sanatoria di abusi
edilizi in zone soggette a vincoli)
in base alla normativa regionale vigente, la fascia costiera della regione Puglia è
sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta, per tale ragione la stessa non tollera
alcuna sanatoria per le opere ivi realizzate abusivamente. È pertanto sanzionata con
la misura della demolizione la messa in posa di opere entro i trecento metri dal
confine del demanio marittimo.
Con la pronuncia che in rassegna il giudice amministrativo pugliese è chiamato ad
analizzare la natura del vincolo posto sulla fascia costiera della regione Puglia
dall‟art. 51, comma 1, lett. f), legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 in tema di tutela
ed uso del territorio. La disposizione, alla lett. f), prevede infatti il divieto di
realizzare qualsiasi opera di edificazione entro la fascia dei 300 metri dal confine del
demanio marittimo, o dal ciglio più elevato sul mare.
Tale norma è da considerarsi speciale rispetto a quella, di portata generale, prevista
dall‟art. 55 c. nav. (“Nuove opere in prossimità del demanio marittimo”), a mente della
quale “La esecuzione di nuove opere entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal
ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta all'autorizzazione del capo del compartimento”.
Nella pronuncia in rassega il Tribunale amministravo in epigrafe afferma che, come
evidenziato da Cons. Stato, Sez. V, 15 novembre 1999, n. 1914 “Nella Regione Puglia,
l’art. 51, lett. f) l. reg. 31 maggio 1980 n. 56, vieta ogni opera d’edificazione entro la fascia di
trecento metri dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare, fino all’entrata
in vigore dei piani paesistico - territoriali, per cui è legittimo il diniego di condono edilizio per
un’opera ricadente all’interno della fascia di rispetto posta da detta norma, la quale, ben lungi dal
costituire una mera misura di salvaguardia, pone invece un vincolo specifico a tutela di interessi
paesaggistici e ambientali (cui fa riferimento l’art. 33 l. 28 febbraio 1985 n. 47 per escludere la
sanatoria di opere edilizie abusive), ossia un vincolo d’inedificabilità assoluta, ancorché a
termine.”.
Inoltre, ad avviso del Collegio, nella Regione Puglia, il divieto d‟edificazione nella
fascia costiera, stabilito dall‟art. 51, lett. f) legge regionale 31 maggio 1980 n. 56,
non è nemmeno assimilabile all‟ipotesi ex art. 32 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (recante
norme per la sanatoria di abusi edilizi in zone soggette a vincoli), costituendo una
vicenda d‟inedificabilità assoluta e come tale “rientrante nella fattispecie di cui al successivo
art. 33, relativa alle opere non suscettibili di condono”.
Alla luce di quanto sopra, il Tribunale amministrativo regionale ritiene che il
manufatto abusivo realizzato all‟interno di tale fascia di rispetto, non sanabile, a
nulla valendo, in senso contrario, la previsione di piani finalizzati al recupero degli
insediamenti abusivi, in quanto, “ai sensi dell’art. 5 l. reg. n. 56 del 1980, non è possibile
formare varianti per le opere non sanabili a termine dell’art. 33 l. n. 47 del 1985”. Difatti, “per
pacifica giurisprudenza amministrativa in siffatta ipotesi (i.e. area sottoposta a vincolo di
inedificabilità assoluta) può essere legittimamente negata la sanatoria persino dopo la scadenza del
termine previsto per la formazione del silenzio assenso (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 20 giugno 1990,
n. 595; Cons. Stato, Sez. V, 9 dicembre 1996, n. 1493; T.A.R. Calabria Catanzaro, Sez. II,
13 aprile 2007, n. 307; T.A.R. Emilia Romagna Bologna, Sez. II, 21 novembre 2007, n.
3247; T.A.R. Puglia Bari, Sez. II, 17 marzo 2010, n. 972)”.
Cass. civ. Sez. III – Sentenza 28 febbraio 2011, n. 4900 (In tema di spedizione
e locazione di containers e contratto collegato).
Nella caso oggetto della sentenza in rassegna, il giudice di primo grado rigettava la
domanda proposta dalla I.M. s.p.a., vettore, su richiesta dello spedizioniere I. s.r.l.,
volta ad ottenere da parte di questa società il pagamento di euro 19.285, 18 a titolo di
controstallie, maturate dai suoi containers, con cui era stato trasportato grano, perchè
la merce non era stata ritirata dalla S.T.S. SARL. Su gravame della I.M. s.p.a. la Corte
di appello di Genova ha confermato, con diversa motivazione, la decisione di primo
grado.
Ricorre contro di essa la I.M. s.p.a.
La questione principale del presente ricorso concerne “se il rapporto di messa a
disposizione dei containers intercorso tra spedizioniere e vettore debba qualificarsi come autonomo
contratto di locazione mobiliare”, con la possibilità di ritenere provato, a questo solo fine, il
conferimento di un mandato con rappresentanza da parte del mittente.
In particolare, “una volta ritenuto distinto il contratto di trasporto da quello di locazione dei
containers”, la ricorrente chiede se questa locazione vada considerata “come operazione
accessoria al contratto di trasporto”, che lo spedizioniere conclude in nome proprio e per
conto del mandante, per cui lo spedizioniere in tale veste si obbligherebbe anche
nei confronti del terzo e, quindi, sarebbe obbligato in proprio al pagamento del
corrispettivo relativo all‟utilizzo dei containers, ivi inclusi i compensi per ritardata
restituzione.
Nella sentenza in rassegna il giudice di legittimità ritiene che la risposta al quesito di
cui al primo motivo debba essere data avendo presente la nozione di spedizioniere
quale indicata nell‟art. 1737 c.c., che, come è noto, prevede tra l‟altro l‟obbligo di
eseguire le “operazioni accessorie” relative al contratto di trasporto che deve
concludere in nome e per conto del mittente.
Sulla formula “operazioni accessorie” la dottrina si mostra divisa, tuttavia ad avviso del
giudice di legittimità la norma codicistica va collegata e letta anche alla luce della L.
n. 1442 del 1942, art. 1 (“Istituzione di elenchi autorizzati degli spedizionieri”), nel quale
vengono indicate come attività di spedizione “la stipulazione del contratto di trasporto con
il vettore, il compimento della spedizione e delle operazioni accessorie”.
Ad avviso della suprema Corte “stando, quindi, al piano normativo il compimento di
operazioni accessorie è previsto come unico oggetto di un contratto di spedizione, con la logica
deduzione, però, che di accessorietà in tutte e due le definizioni (codicistica e legislativa) non si
parla in senso tecnico-giuridico, presente in altri rapporti giuridici, che comportano un collegamento,
oltre che pratico e funzionale, anche giuridico fra elementi posti in relazione di principale e
subordinato”.
Ne consegue che, pur ribadendosi che la stipulazione del contratto di trasporto è la
operazione principale dello spedizioniere, la nozione di accessorietà nell‟ambito del
rapporto di spedizione non è quella di accessorietà ad una operazione principale
ravvisata nel contratto di trasporto.
Secondo la suprema Corte, quindi, “l’elemento giuridico accessorio (cosa o rapporto
obbligatorio, come nella specie la “locazione mobiliare”), in riferimento al contratto di trasporto è
per definizione eventuale, mentre le operazioni dette nella legge accessorie, sempre per la legge stessa
vengono ritenute essenziali e, quindi, irrinunciabili in un rapporto di spedizione tanto se taluna di
esse costituisce il solo oggetto di un contratto (art. 1374 c.c.) quanto se il contratto ha per oggetto in
primo luogo il compimento di un contratto di trasporto”.
In altri termini, il lemma “accessorietà” se, in taluni casi, “può indicare la subordinazione di
elementi ad uno o ad altri, principali (accessorietà giuridica)”, in altre fattispecie “può anche
indicare la mera accessione al trasporto di una molteplicità di operazioni tutte collegate, che
possono essere poste in essere da una pluralità di soggetti, di cui principali sono, se del caso, vettore
e spedizioniere e che possono tradursi in più contratti autonomi fra loro e relativi a prestazioni
diverse, anche se tutti aventi ad oggetto prestazioni funzionali alla spedizione della stessa merce”.
Quanto sopra ad avviso della Corte di Cassazione “non significa affatto, come opina
qualche autorevole autore, che in mancanza di una dichiarazione di volontà contrattuale, dalla
legge possa presumersi la volontà dei contraenti il contratto di spedizione di sottoporre al regime
dello stesso tutte le operazioni accessorie, ma, a parere del Collegio, che debba ritenersi che è lo
stesso legislatore, in relazione alla particolare natura del contratto, a lasciare alla autonomia delle
parti di determinare ciò che è giuridicamente accessorio e ciò che è praticamente accessorio, ma non
giuridicamente tale.
Infatti, deve riconoscersi che la ratio della disciplina è quella di connettere certe operazioni a un
trasporto di cose, operazioni che, in virtù della scelta autonoma delle parti, possono essere
praticamente collegate senza dare luogo ad un negozio unico, là dove la causa negotii è solo
quella di concludere un contratto di trasporto, ovvero la consegna della merce da un luogo ad un
altro, da un soggetto ad un altro”.
Ciò detto, ad avviso del giudice di legittimità è evidente che “le modalità di trasporto,
rientrando nella autonomia contrattuale, possono essere variamente definite e ridefinite dallo
spedizioniere e trovare l’accordo del vettore o proposte dal vettore e trovare l'accordo dello
spedizioniere”, ciò con l‟effetto che “se per il trasporto viene concordata, perché risultante
operazione accessoria, una locazione di beni mobili ove allocare e tenere in consegna e in custodia
gli stessi, in quanto ritenuta fruttuosa per il buon esito della consegna, questa locazione è una
operazione accessoria in senso lato e non già in senso stretto, come esattamente ha rilevato la
sentenza impugnata”.
Nella sentenza impugnata, i giudici dell‟appello erano giunti a questa conclusione,
ritenendo che si trattasse di “accessorietà giuridica” e, comunque, “di contratti collegati in
luogo di un unico contratto”.
Di converso, ad avviso del giudice di legittimità tale conclusione non è corretta,
infatti, nella fattispecie “non si rinviene una accessorietà giuridica, in quanto la locazione dei
containers non era funzionalmente necessaria ed imprescindibile”, e pertanto “viene a cadere
anche il discorso sul c.d. contratto collegato, in quanto il collegamento, che pure si rinviene, è un
collegamento pratico, fattuale, non imprescindibile per l’attuazione del contratto di trasporto che lo
spedizioniere ebbe a concludere”.
Cionondimeno, ad avviso della Suprema Corte la sentenza impugnata sfugge in
ogni caso ad ogni censura, dovendosi sottolineare che, per giurisprudenza costante,
“tra le prestazioni accessorie dello spedizioniere sono comprese sì la custodia della merce, oltre altri
adempimenti, ma di certo non le modalità dei rischi dell’esecuzione”, perché egli si obbliga
solo a concludere con altri, in nome proprio e per conto del mittente (nella specie
ciò è incontroverso), il contratto di trasporto.
Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-01-2011) 23-02-2011, n. 6872 (In tema di
rapporti tra diritto comunitario e diritto interno e di disapplicazione della
norma interna in evidente contrasto con la norma comunitaria, nonché di
delega e posizione di garanzia).
Nella pronuncia in rassegna la Corte di Cassazione penale è chiamata a pronunciarsi
sul reato – accertato da ufficiali di p.g. della Capitaneria di Porto nel corso di
un‟ispezione presso il mercato ittico – di cui alla L. 963 del 1965, art. 15, lett. c) e
art. 24, comma 1 contestato a T.R. perché, in qualità di fornitore di B., cedeva a
quest‟ultimo due esemplari di tonno rosso (thunnus thinnus) del peso inferiore ai 10
Kg e di lunghezza inferiore agli 80 cm, in violazione del regolamento C.E. n.
51/2006 allegato 3^, parte D. 20.
Il difensore dell‟imputato T.R. propone ricorso per Cassazione, denunciando con il
primo motivo la inosservanza e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 1639 del
1968, art. 91 e del regolamento CEE n. 51/2006.
Sostiene la difesa che la L. n. 963 del 1965, art. 15 è norma penale in bianco che
non definisce la nozione di novellarne, rinviando alla normativa nazionale e
comunitaria. Ad avviso della stessa, il ragionamento del Tribunale, che ha ritenuto
non applicabile il margine di tolleranza del 10% previsto dal D.P.R. n. 1639 del
1968, art. 91, non coglie nel segno. Inoltre, per quanto riguarda la commerciabilità
del prodotto non c‟è dubbio che prevalga il regolamento comunitario. Per la
sanzione penale, invece, l‟U.E. si limita a prescrivere i limiti minimi del pescato,
lasciando libero il legislatore nazionale di valutare le sanzioni opportune (ed il
legislatore italiano ha previsto il margine di tolleranza del 10%).
Ed invero, dal combinato disposto delle suddette norme, ad avviso della difesa,
quando il pescato del novellarne si mantiene nell‟ambito del 10%, pur non essendo
commerciabile, non è soggetto a sanzione penale.
Con il ulteriore motivo di censura la difesa denuncia la violazione di legge in
relazione agli artt. 187 e 530 c.p.p. e 27 Cost., nonché il vizio di motivazione in
relazione all‟elemento soggettivo del reato.
La difesa deduce inoltre la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della
motivazione. Difatti, stante le dimensioni dell‟azienda, il ricorrente non poteva
controllare personalmente peso e dimensioni del pescato; a tal fine egli aveva
pertanto delegato ai cinque autisti siffatto controllo (e la partita di tonno rosso
destinata al mercato di Savona era stata, infatti, visionata da un autista). Ciò
premesso, ad avviso della difesa, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale,
per essere esonerati dalla responsabilità penale in caso di delega non è necessaria
una delega formale, potendo questa essere anche orale.
Ad avviso del supremo giudice di legittimità le censure della difesa non colgono nel
segno.
Difatti, a norma della L. n. 963 del 1965, art. 15, comma 1, lett. c) “è fatto divieto... di
pescare, detenere, trasportare e commerciare il novellame di qualunque specie vivente marina oppure
le specie di cui sia vietata la cattura in qualunque stadio di crescita, senza la preventiva
autorizzazione del Ministero della Marina mercantile”.
Secondo l‟orientamento più recente della Corte di Cassazione in materia, che nella
fattispecie viene ribadito, le disposizioni “interne” che prevedono un margine di
tolleranza del 10% sono in contrasto con la normativa comunitaria. Tale normativa
comunitaria non prevede, infatti, alcuna deroga al divieto di pesca e di
commercializzazione del novellarne.
Il giudice di legittimità evidenzia che “quanto ai rapporti tra diritto comunitario e diritto
interno, è pacifico che il primo sia fonte produttiva di norme immediatamente efficaci e vincolanti
all’interno degli Stati aderenti”. Ed invero, la Corte costituzionale, con la sentenza 5
giugno 1984 n. 170, ha affermato che, “nelle materie riservate alla normazione della
Comunità europea, il giudice ordinario deve applicare direttamente la norma, la quale prevale sulla
legge nazionale incompatibile, anteriore o successiva; ciò in quanto l’ordinamento dello Stato e
quello della Comunità europea sono due sistemi reciprocamente autonomi e, al tempo stesso,
coordinati secondo le previsioni del Trattato di Roma, la cui osservanza forma oggetto, proprio in
forza dell'art. 11 Cost., di una specifica, piena e continua garanzia”.
La Corte di Cassazione soggiunge che il medesimo giudice delle leggi, con sentenza
del 19 aprile 1985 n. 113, dopo aver ribadito che, “allorquando una fattispecie cada sotto
il disposto della disciplina prodotta dagli organi della comunità immediatamente applicabile nel
territorio dello Stato, la regola comunitaria deve ricevere, da parte del giudice statale, necessaria ed
immediata applicazione, pure in presenza di incompatibili statuizioni della legge ordinaria dello
Stato, non importa se anteriore o successiva, ha precisato che tale principio deve essere rispettato
non soltanto ove si tratti di disciplina prodotta dagli organi della Comunità mediante regolamento,
ma anche di statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di Giustizia”.
Ciò premesso, precisa la Corte che “non si è mai dubitato dell’efficacia immediata, in
bonam partem, del diritto comunitario, con la conseguente disapplicazione, totale o parziale delle
norme penali interne eventualmente incompatibili (Cass. sez. 3^, 1.7.1999, Valentini)”, pur
dovendosi quest‟ultima fattispecie astratta distinguersi dalla diversa “problematica
dell’influenza in malam partem che deve misurarsi con il principio di legalità, con la teoria delle
fonti e con la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 5 c.p., allorché il significato di una
norma penale dipende dalla sua integrazione con altre norme, ed in proposito deve distinguersi il
caso in cui l’eterointegrazione incide soltanto sulla definizione del fatto, dai casi nei quali incida
sullo stesso precetto”.
Ciò premesso, la suprema Corte precisa che, nella fattispecie, “la sanzione prevista
dalla L. n. 963 del 1965, art. 24 si correla alla violazione del divieto di commercio del novellame
posto dal predente art. 15, lett. c) che non ha carattere generico e non ha bisogno, per concretizzarsi
e divenire attuale, di essere necessariamente integrato dal contenuto di atti normativi secondari.
Soltanto una specificazione tecnica di dettaglio è demandata, al riguardo, al Regolamento sulla
disciplina della pesca marittima n. 1639 del 1968 come modificato dai successivi decreti
ministeriali, ma tali decreti non possono porsi in contrasto con il regolamento CE n. 1624/94 che
ad evidenza non introduce nuove fattispecie incriminatrici rispetto a quelle già previste dalla legge
penale italiana. Ove il conflitto di manifesti in forma di incompatibilità evidente (come nella
vicenda in esame) il giudice è tenuto, pertanto, a non applicare la disposizione contrastante con
quella di fonte comunitaria (cfr. Cass. pen. sez. 3^, n. 39345 del 3.7.2007, Baldini; conf. n.
5750 del 2007 Rv 236251; n. 13751 del 2007 Rv. 236117 e più di recente Cass. sez. 3^ n.
17847 del 19.3.2009 - Puglisi)”.
Per quanto sopra, ad avviso del giudice di legittimità, “va quindi disapplicata la
normativa che consente una tolleranza di novellarne del dieci per cento, perché in contrasto con la
disciplina comunitaria”.
Quanto all‟ulteriore aspetto di interesse affrontato dalla sentenza in esame – quello
relativo all‟eventuale effetto esimente conseguente alla delega di funzioni – la
suprema Corte ha correttamente ritenuto che non vi fosse prova di una delega.
A tal fine, il giudice di legittimità, rifacendosi ai precedenti giurisprudenziali, ha
ribadito che “gli obblighi gravanti su un soggetto che svolga attività imprenditoriale possono
essere delegati, con conseguente sostituzione e subentro del delegato nella posizione di garanzia, ma
il relativo atto di delega deve essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona
tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di
intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro
di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge
prescrive (cfr. Cass. Sez. 4^, 25.8.200 n. 9343 -Archetti; conf. Cass. pen. sez. 4^, 1.4.2004,
Rossetto)”.
La suprema Corte evidenzia che in materia penale “la delega quindi è in linea generale ed
astratta consentita”, tuttavia per essere rilevante ai fini dell‟esonero da responsabilità
del delegante, deve, come ribadito da questa Corte (in particolare in tema di
normativa antinfortunistica, cfr. sez. 3^, n. 26122 del 12.4.2005 - Capone), avere i
“seguenti requisiti:
a) essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di
tipo discrezionale;
b) il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo
svolgimento del compito affidatogli;
c) il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative
dell’impresa;
d) unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa;
e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo”.
Non essendo stata provata l‟esistenza di una delega scritta, i suddetti requisiti, nel
caso di specie, non possono considerarsi ricorrenti ai fini dell‟esonero da
responsabilità.
Infine, nella sentenza in rassegna, di particolare rilievo è l‟uso della clausola generale
della buonafede effettuato dal giudice penale.
Quest‟ultimo, in relazione all‟elemento soggettivo dei reati contravvenzionali, ha
affermato che “per escludere la responsabilità nelle contravvenzioni è necessario, infatti, che
l’imputato provi di aver fatto quanto era possibile per osservare la legge e che quindi nessun
rimprovero può essergli mosso neppure per negligenza o imprudenza”. Difatti, in ambito
penale, “la buona fede acquista giuridica rilevanza solo se si risolva, a causa di un elemento
estraneo all’agente, in uno stato soggettivo che sia tale da escludere anche la colpa … Sicché la
buona fede può esentare da responsabilità penale soltanto se il soggetto abbia violato la legge per
cause indipendenti dalla sua volontà: la violazione della norma deve apparire, cioè, determinata da
errore inevitabile che si identifica con il caso fortuito o la forza maggiore”.
Ciò premesso il supremo giudice di legittimità ha evidenziato che, in presenza di un
reato, completo in tutti i suoi elementi costitutivi, incombe sempre all‟imputato
l‟onere di provare che l‟evento si sia verificato per un avvenimento imprevedibile,
ovvero estraneo alla sua volontà e che non può in alcun modo essere fatto risalire
alla sua attività psichica. In sostanza, deve trattarsi, quindi, di un fatto non
prevedibile e non evitabile, pur con l‟impiego di ogni diligenza, difatti “come ricordato
dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 322/2007 il principio di colpevolezza di cui
all'art. 27 Cost. è rispettato quando si attribuisca valenza scusante all'ignoranza o all’errore che
presenti carattere di inevitabilità: giacché deve essere mosso all’agente almeno il rimprovero di non
aver evitato, pur potendolo, di trovarsi nella situazione soggettiva di manchevole o difettosa
conoscenza del dato rilevante”.
Ad avviso della suprema Corte, quindi, nella sentenza impugnata si è fatto buon
governo dei suddetti principi, avendo il giudice di primo grado evidenziato che
l‟imputato avrebbe potuto fornire una delega, demandando formalmente il
controllo della lunghezza e del peso di ogni singolo esemplare trasportato, dotando
il delegato di poteri decisionali e di autonomia organizzativa sulle modalità di
controllo, oppure avrebbe potuto strutturare diversamente la propria azienda
introducendo, ad esempio, sistemi di controllo idonei ad evitare l‟incauto acquisto,
il trasporto e la commercializzazione di prodotti ittici fuori misura.
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