Rischio sistemico - Minerva Bancaria

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RIVISTA BANCARIA
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MINERVA BANCARIA
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA «FRANCESCO PARRILLO»
Luglio-Agosto 2013
Tariffa Regime Libero:-Poste Italiane S.p.a.-Spedizione in abbonamento Postale-70%-DCB Roma
4
RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
COMITATO SCIENTIFICO (Editorial board)
PRESIDENTE (Editor):
GIORGIO DI GIORGIO, Università LUISS - Guido Carli, Roma
MEMBRI DEL COMITATO (Associate Editors):
ADALBERTO ALBERICI, Università di Milano
LUCA FIORITO, Università di Palermo
PIETRO ALESSANDRINI, Università Politecnica delle Marche
FABIO FORTUNA, Università N. Cusano
PAOLO ANGELINI, Banca d’Italia
MICHELE FRATIANNI, Indiana University
PIERFRANCESCO ASSO, Università di Palermo
EUGENIO GAIOTTI, Banca d’Italia
CONCETTA BRESCIA MORRA, Università del Sannio
GUR HUBERMANN, Columbia University
FRANCESCO CANNATA, Banca d’Italia
DONATO MASCIANDARO, Università Bocconi, Milano
ALESSANDRO CARRETTA, Università di Roma, Tor Vergata
FABRIZIO MATTESINI, Università di Roma, Tor Vergata
NICOLA CETORELLI, Federal Reserve Bank of New York
PINA MURÈ, Università di Roma, Sapienza
FABIANO COLOMBINI, Università di Pisa
FABIO PANETTA, Banca d’Italia
MARIO COMANA, Università LUISS – Guido Carli Roma
ALBERTO FRANCO POZZOLO, Università del Molise
RITA D’ECCLESIA, Università di Roma, Sapienza
ZENO ROTONDI, Unicredit Group
GIAMPAOLO DELL’ARICCIA, International Monetary Fund
ANDREA SIRONI, Università Bocconi, Milano
GIANNI DE NICOLÒ, International Monetary Fund
MARIO STELLA RICHTER, Università di Roma, Tor Vergata
CARMINE DI NOIA, Assonime
MARTI SUBRAHMANYAM, New York University
LUCA ENRIQUES, Università LUISS - Guido Carli, Roma
ALBERTO ZAZZARO, Università Politecnica delle Marche
GIOVANNI FERRI, LUMSA
COMITATO ACCETTAZIONE SAGGI E CONTRIBUTI:
GIORGIO DI GIORGIO (editor in chief) - ALBERTO POZZOLO (co-editor)
MARIO STELLA RICHTER (co-editor) - DOMENICO CURCIO (assistant editor)
ISTITUTO DI CULTURA BANCARIA
«FRANCESCO PARRILLO»
PRESIDENTE
CLAUDIO CHIACCHIERINI
CONSIGLIO
CARLO BELLINI, TANCREDI BIANCHI, MARIO CATALDO,
GIAN GIACOMO FAVERIO, ANTONIO FAZIO, GIUSEPPE GUARINO,
ANTONIO MARZANO, PINA MURÈ, FULVIO MILANO, GIOVANNI PARRILLO,
CARLO SALVATORI, MARIO SARCINELLI, FRANCO VARETTO
Segretario
LUIGI BELLINI
In copertina: "Un banchiere e sua moglie" (1514) di Quentin Metsys (Lovanio, 1466 - Anversa, 1530), Museo del Louvre - Parigi.
RIVISTA BANCARIA
MINERVA BANCARIA
ANNO LXIX (NUOVA SERIE)
LUGLIO-AGOSTO 2013 N. 4
SOMMARIO
G. DI GIORGIO
Editoriale
Serve un’agenzia di rating europea?
»
3
S. CHOI
N. KOBEISSI
Saggi
Privatization and Performance:
does the Institutional Development matter?
»
7
S. DELL’ATTI
G. MAZZARELLI
Composizione del board ed efficienza
delle banche: un’analisi internazionale
»
23
F. PANETTA
Interventi
Il credito e il finanziamento delle imprese
»
63
Rubriche
Ridurre il debito pubblico in Italia: due strade a confronto
(G. M. Pignataro)
»
73
Vincoli finanziari alle imprese non finanziarie nei paesi OCSE
(G. Cinquegrana - P. De Rita)
»
91
Cresce il numero di pagamenti elettronici in Italia
(Osservatorio Carte di Credito)
» 103
Bankpedia:
1. Risk Adjusted Return on Risk Adjusted
Capital (RARORAC) (M. Michetti),
2. Rischio sistemico (C. Capasso)
» 107
Recensioni
M. Sarcinelli, P. Ciocca, L. Infantino, P. Savona,
Paolo Baffi. Scienziato e maestro, (G.N. De Vito)
» 125
D. Curcio, Funzione e costo del debito nelle operazioni di project finance:
analisi teorica ed evidenze empiriche, (M. Comana);
» 128
Presidente del Comitato Scientifico: Giorgio Di Giorgio
Direttore Responsabile: Giovanni Parrillo
Comitato di Redazione: Eloisa Campioni, Mario Cataldo, Giovanni Nicola De Vito, Vincenzo Formisano, Stefano Marzioni,
Biancamaria Raganelli, Giovanni Scanagatta, Giuseppe Zito
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Amministrazione: presso P&B Gestioni Srl, Via G. Severano 28 - 00161 – Roma tel. +39 06 45437321- fax +39 06 45437325
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ISSN: 1594-7556
La Rivista è accreditata AIDEA e SIE
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BANKPEDIA
IL DIZIONARIO ENCICLOPEDICO ON-LINE
DI BANCA, BORSA E FINANZA (*)
VOCI PUBBLICATE
1. Risk-Adjusted Return On Risk-Adjusted Capital (RARORAC),
di Melania Michetti
2. Rischio sistemico, di Carmela Capasso
***
1. Risk-Adjusted Return On Risk-Adjusted Capital (RARORAC)
(M. Michetti)
Il RARORAC (Risk-adjusted Return
on Risk-adjusted Capital) è un indicatore che misura l’efficienza nella
creazione di valore in funzione del rischio. Appartiene alla categoria delle
cosiddette Risk-adjusted Performance
Metrics (RAPMs) - o misure corrette
per il rischio - insieme ad altre altrettanto importanti come, ad esempio, il
Return on Risk Adjusted Capital (RORAC) ed il Risk-Adjusted Return on
Capital (RAROC).
Gli approcci RAPM, partendo dalle
tradizionali metodologie di valu-
tazione del rendimento di una business unit o di un portafoglio, mirano
a migliorarne l’affidabilità introducendo elementi associati al rischio.
La terminologia normalmente usata
per la definizione di tali framework è
molto ampia e spesso confonde i più
(Saita, 2007). Di frequente questo
risultato è da attribuire all’utilizzo di
differenti nomi per uno stesso indicatore, o alla definizione e implementazione in forme diverse dello
stesso indicatore.
In genere, il RORAC (Matten, 2000)
* Vengono pubblicate sulla Rivista Bancaria - Minerva Bancaria alcune voci del progetto Bankpedia, il
Dizionario Enciclopedico on-line di Banca, Borsa e Finanza sponsorizzato dall’Associazione Nazionale
per l’Enciclopedia della Banca e della Borsa (ASSONEBB) di Roma. www.bankpedia.org
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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BANKPEDIA
ed il RAROC sono misure del profilo di rischio “a metà” in quanto correggono per il rischio rispettivamente il rendimento o il capitale economico (Wolfgang e Von Wendland,
2009). Il primo indicatore è comunemente usato per valutare progetti o
investimenti che comportano un elevato rischio in termini di capitale
impiegato. Il secondo indicatore
misura la profittabilità comparando i
rendimenti finanziari corretti per il
rischio all’interno di una rosa di
alternative di investimento.
Il RARORAC combina il RAROC e
il RORAC per proporre una misura
che consideri la dimensione del rischio sia nella valutazione dei rendimenti di una linea di business o di
progetti di investimento (tipicamente il numeratore del RARORAC) che nella valutazione del capitale economico allocato (tipicamente
il denominatore del RARORAC).
In un contesto di risk management il
RARORAC supporta il processo di
allocazione del capitale tra le diverse
linee di business – o alternative di
investimento, mirando, per ognuna di
esse, ad identificare il livello ottimale
di capitale proprio e a massimizzare il
rendimento in funzione dei rischi
generati. Allo stesso modo, in un contesto di misure di performance, permette la valutazione della qualità di
ciascun progetto (ovvero la comparazione di decisioni di investimento
mutuamente esclusive) o della performance di ciascuna linea di business,
relativamente alla contribuzione al
108
rischio totale e al target di performance
da raggiungere. Per tale ragione, il
rapporto del RARORAC è molto
utile in quanto offre uno strumento
unificato per mettere in relazione
qualsivoglia transazione con un’altra,
uniformandole.
La formula normalmente utilizzata per
il RARORAC è la seguente:
Al numeratore:
· (rp – rf) è l’extra-rendimento dato
dalla differenza tra il rendimento
del portafoglio e il rendimento
dell’attività priva di rischio;
· p è il rischio sistematico;
· rm è il rendimento di mercato;
· I0 é il progetto di investimento
iniziale al tempo t = 0, ovvero il
capitale a rischio impiegato.
Si noti inoltre, che rp= CF/I0-1,
dove CF è il cash flow atteso al tempo
t = 1 del progetto specifico.
Per quanto riguarda invece il denominatore, il capitale economico o il capitale a rischio allocato, questo è generalmente calcolato utilizzando il
concetto di VaR (Value at Risk)
(Jorion, 2007). Il VaR rappresenta
un’altra misura rilevante nell’ambito
della valutazione di progetti di investimento. La sua popolarità si deve
soprattutto al Comitato di Basilea
per la vigilanza bancaria che richiese
alle istituzioni di credito di applicare
aggiustamenti delle misure di performance considerando il profilo di
RUBRICHE
BANKPEDIA
rischio sottostante l’ammontare di
capitale1 allocato per l’attività in questione.
Specificamente, il VaR è rappresentato dalla perdita massima attesa
(Expected Tail Loss, o ETL) per la
linea di business o il portafoglio.
Nell’ambito bancario, per esempio,
essendo la perdita inattesa avente
luogo in situazioni estreme o particolari condizioni di mercato, il VaR
rappresenta il “cuscinetto”, al di
sopra della perdita media, necessario
perché l’istituzione creditizia rimanga solvibile in caso di perdite
estreme. Questa misura assoluta di
rischio è calcolata relativamente a i)
un definito orizzonte temporale: ii)
uno specifico intervallo di confidenza
coerente con il target di credit-rating
bancario che assicuri la sopravvivenza
dell’attività di impresa; iii) e una funzione di distribuzione di probabilità
per le perdite, generalmente ottenuta
attraverso l’utilizzo del metodo
Monte-Carlo.
Per costruzione, il RARORAC
aumenta al crescere della creazione di
valore e decresce in funzione dell’incremento del rischio assunto. La
dimensione di rischio considerata
include considerazioni su rischio di
mercato, rischio di credito, e rischio
operativo, il tutto attraverso l’utilizzo di un unico indicatore. Quindi, il
RARORAC premia le imprese che
operano secondo il criterio della prudenza e differenziazione del rischio,
e penalizza quelle che mostrano una
bassa qualità degli assets dovuta all’u-
so dell’effetto leva sui rendimenti di
attività ad alto rischio, o a situazioni
di selezione avversa.
Le misure contabili tradizionali come
il Return on Investment (ROI) e il
Return on Equity (ROE), che calcolano la profittabilità aziendale e
valutano opzioni di investimento
concorrenti, presentano l’inconveniente di trascurare il rischio totale
connesso con il progetto, le attività
sottostanti, o l’attività di impresa.
Tuttavia, l’omissione di considerazioni sui rischi d’impresa quale quello sociale, politico, reputazionale,
ambientale, o altri rischi “intangibili”, si traduce in erronee valutazioni e decisioni.
Questa mancanza delle misure di
performance tradizionali ha richiesto
l’implementazione di indicatori
alternativi, anche alla luce della
recente crisi finanziaria, in cui molte
banche ed intermediari finanziari
non bancari hanno sottostimato la
valutazione dei rischi assunti, specialmente nell’ambito di prodotti o
progetti strutturati complessi.
In questi termini, le misure RAPMs
rappresentano un passo avanti nel
superare i suddetti limiti. Sebbene
molte organizzazioni hanno risposto
lentamente a questa esigenza di adattamento, accomodando i loro sistemi
di misurazione del rischio ed incorporando le nuove tecniche, il
RARORAC è oggi ampiamente utilizzato, specialmente per la valutazione di portafogli e operazioni
molto complesse. Esso incorpora i
1 Per un approfondimento sulle tematiche affrontate all’interno del Comitato di Basilea, si veda:
http://www.bis.org/bcbs/index.htm
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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BANKPEDIA
benefici della diversificazione del rischio di portafoglio, e può dunque
definirsi un approccio consistente
con la Teoria del Portafoglio di
Markowitz (1952, 1959). Al pari di
altre misure di tipo RAPM, l’attenzione verso il RARORAC è divenuta
quindi via via crescente nell’ambito
del corporate finance e nel contesto
delle decisioni di investimento.
Per un lato, la sua rilevanza si deve
principalmente al Comitato di
Basilea per la vigilanza bancaria,
ovvero alle relative linee guida circa
la misurazione ed adeguamento del
capitale. D’altro canto, il RARORAC deve la sua popolarità ai creditori che richiedono sempre più un
processo di risk-management adeguato che assicuri un finanziamento del
debito ad un giusto costo.
Altri framework di tipo RAPM che
meritano di essere citati sono i
seguenti:
i)L’Indice di Sharpe (Sharpe, 1966,
1975, 1994);
ii)L’Indice di Treynor (Treynor,
1965);
iii)L’Alpha di Jensen (Jensen, 1967).
Il primo indicatore è interpretabile
come il premio dovuto per l’assunzione di una unità di rischio nel suo
complesso
Mette in relazione di proporzionalità
l’extra-rendimento ed il rischio
totale, rappresentato quest’ultimo
dalla volatilità di portafoglio, p, che
esprime sia il rischio sistematico che
quello non sistematico. Per tale
aspetto, rispetto alle misure che
110
seguono, il rapporto o Indice di
Sharpe presenta il vantaggio di consentire la comparazione tra portafogli non diversificati ovvero che
presentano anche il rischio non sistematico. D’altro canto, a causa del
fatto che i portafogli sono generalmente ben diversificati, tale vantaggio risulta non essere estremamente
rilevante. Inoltre, la deviazione standard viene ritenuta spesso come una
non buona misura del rischio
(Rachev, 2007), in quanto essa considera non solo i movimenti al ribasso (perdite) ma anche i movimenti al
rialzo (guadagni).
L’ Indice di Treynor sostituisce p
con il fattore , uguale al rapporto
2
M,P/ M (dove M,P è la covarianza tra il rendimento di mercato e il
rendimento del portafoglio, men2
tre M è la varianza del rendimento di
mercato). Questa misura è soggetta alla
critica secondo cui solamente il rischio
sistematico viene preso in considerazione. Questo si traduce nell’impossibilità, almeno teorica, di confrontare
portafogli tra di loro diversi, non diversificati.
La formula dell’Indice di Treynor è la
seguente:
La stessa critica può essere mossa
all’Alpha di Jensen sebbene, contrariamente alle prime due misure di
rischio che sono “relative”, l’Alpha è
un indicatore di performance “assoluto”. Quest’ultimo assume che i profitti siano generati da una situazione di
squilibrio di mercato e si esprime
attraverso la seguente formula:
RUBRICHE
BANKPEDIA
= (rp - rf) - p (rm - rf)
In cui (rp- rf) può essere visto come
l’extra - rendimento realizzato
mentre (rm- rf) come quello teorico
(ovvero basato su un modello) o atteso.
In sintesi, mentre l’Indice di Sharpe e
quello di Treynor standardizzano
l’extra-rendimento attraverso l’uso
di una qualche misura del rischio,
l’Alpha di Jensen considera anche
l’andamento di mercato valutando
l’extra-rendimento al di sopra o al di
sotto la “security market line” del
Capital Asset Pricing Model o
CAPM (Sharpe, 1964).
In tal senso, quest’ultimo indicatore
si avvicina maggiormente al RARORAC.
Nel complesso, queste tre misure
spesso generano come output dei
numeri “adimensionali” che rendono
complesso il controllo e la gestione
del rischio totale. Inoltre, il Treynor
e l’Alpha di Jensen sono stati sviluppati sulla stessa market line del
CAPM e per tale ragione sono
soggetti alle stesse problematiche a
cui è soggetto il CAPM (Rachev et
al., 2007).
Comparando misure RAPM con simili
indicatori di performance, come il Net
Present Value (NPV), basato quest’ultimo sul metodo del Discounted Cash
Flows (DCF), si può notare come
nonostante il NPV consideri il rischio
sistematico di un progetto o decisione
di investimento, gli indicatori basati sul
RAPM, come il RARORAC, includono la valutazione di entrambe le
tipologie di rischio: sistematico e non
sistematico.
Tuttavia, la letteratura di riferimento
esprime perplessità in merito al fatto
che mentre il calcolo del NPV assicura la massimizzazione del valore dell’azionista, l’indicatore RARORAC
non fornisce altrettante garanzie in
merito. Esso, infatti, massimizza
l’extra-rendimento condizionatamente ad un certo limite di rischio
totale. Attraverso il metodo Monte
Carlo Lampenius (2012) analizza se
il criterio di selezione tra opportunità di investimento alternative è
coerente tra i metodi basati sul
RAPM e quello del NPV. Egli conclude che i risultati derivanti dai due
approcci sono spesso inconsistenti,
producendo differenti ranking dei
progetti concorrenti.
In altri termini, il metodo NPV non
può sostituire quello basato sul
RAPM. Lampenius (2012) aggiunge
che la definizione del denominatore
del RARORAC (VaR) produce differenze significative in termini di
massimizzazione di valore degli
shareholders. In particolare, la letteratura esistente distingue tra due metodi di calcolo del VaR, definito alternativamente come la massima perdita
attesa relativa al valore atteso di una
posizione di rischio, o relativa al capitale inizialmente impiegato (I0). La
prima formulazione offre sistematicamente prestazioni migliori rispetto
alla seconda. Ne risulta, che il calcolo
del RARORAC basato sull’uso della
prima definizione di VaR sarebbe da
preferire ogni qualvolta l’obiettivo è
quello della massimizzazione del valore degli azionisti.
Inoltre, è necessario menzionare che
per istituzioni finanziarie e creditizie
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
111
BANKPEDIA
il RARORAC è un indicatore ampiamente utilizzato, data la sua abilità di
ridurre il costo del debito traducendolo in un maggior valore per gli
azionisti. Allo stesso modo, sostituendo alle misure tradizionali di
calcolo di profitti e perdite tale indicatore, esso consente di premiare
managers orientati verso la minimizzazione del rischio; essa è identificabile con un comportamento manageriale di tipo precauzionale, certamente più coerente con un decisionmaking di lungo periodo che non con
una visione di breve termine che
favorisca l’assunzione di alti rischi
per la gene-razione di “facili” profitti.
2. Rischio sistemico (C. Capasso)
Il rischio sistemico è il rischio che
l’insolvenza o il fallimento di uno o
più intermediari determini generalizzati fenomeni d’insolvenza o fallimenti a catena di altri intermediari.
Una definizione unica e condivisa di
rischio sistematico non esiste in letteratura. Questo perché tale tipologia di rischio racchiude non una sola
causa scatenante, ma diversi fattori
che possono contribuire a determinare una crisi sistemica. Dunque,
in relazione all’aspetto del rischio
che si vuole analizzare, esistono, in
letteratura, più definizioni di rischio
sistemico.
Nell’ambito della finanza aziendale,
ad esempio, esso è definito come il
rischio che dipende da fattori che
influiscono sull’andamento generale
del mercato e che non può essere
eliminato o ridotto tramite una diver-
112
sificazione del portafoglio; contrapponendo questo concetto alla
definizione di rischio specifico, ossia
diversificabile in un portafoglio con
una grande quantità di azioni. [Si
rimanda alla voce Rischio per approfondimenti sul tema e alla voce
Capital Asset Pricing Model
(CAPM) per capire come misurare il
rischio sistemico tramite il coefficiente ].
La Bank of International Settlements
(BIS) ha definito il rischio sistemico
come “il rischio che il fallimento di
un partecipante nell’adempiere ai suoi
obblighi contrattuali possa a sua volta
causare il fallimento di altri partecipanti”. Altri lo definiscono come “il
rischio che il default di un partecipante al mercato abbia ripercussioni
negli altri partecipanti a causa della
natura collegata che presentano i
mercati”. Altri ancora come il rischio
che l’insolvenza o il fallimento di uno
o più intermediari determini generalizzati fenomeni di ritiro dei depositi,
provocando insolvenze o fallimenti a
catena di altri intermediari. Ognuna
di queste definizioni prende in considerazione problematiche differenti
seppur facenti parte della stessa
tipologia di rischio. Il punto comune
di queste asserzioni è che esiste un
evento scatenante che causa una serie
di conseguenze negative a livello economico. Quindi si può dire che il rischio sistemico è determinato da uno
shock iniziale, il quale riesce a propagarsi facilmente e velocemente nei
mercati determinando una situazione
di instabilità complessiva per effetto
del contagio. Reinhart e Rogoff
(2009), ad esempio, hanno riscontraRUBRICHE
BANKPEDIA
to nella caduta del valore degli immobili residenziali o commerciali la
causa principiale degli ampi fallimenti di mercato delle istituzioni
finanziarie. Allen e Gale (2000) e
Freixas, Parigi e Rochet (2000) hanno
invece analizzato il rischio di contagio e hanno trovato nel fallimento di
un’istituzione finanziaria la causa del
default di altre istituzioni attraverso
un effetto domino.
È solo di recente che il rischio sistemico è stato riscoperto come interessante
oggetto di studio, visti i risultati delle
recenti crisi, viste le sempre più frequenti situazioni di difficoltà in cui
versano i mercati finanziari (si pensi
alle recenti crisi di liquidità e all’attuale
scenario economico, decisamente negativo, che si sta delineando in Europa)
e data la facilità con cui una situazione
di stress accusata da un’istituzione o
comunque da un ristretto numero di
istituzioni abbia effetti anche sugli altri
soggetti del network. Si può ricordare
la frase di Schwarcz (2008): “I governi
e le organizzazioni internazionali si
preoccupano sempre di più del rischio
sistemico, sotto il quale il sistema
finanziario mondiale può collassare
come una fila di pedine del domino”.
Dunque, per definizione, il rischio sistemico coinvolge il sistema finanziario
attraverso rapporti principalmente di
tipo commerciale con i quali illiquidità,
insolvenza e perdite si possono velocemente propagare durante periodi di
difficoltà finanziarie. L’intensità dei
rapporti tra le varie figure che operano
nei mercati è talmente elevata che uno
shock, generato da una qualsivoglia
tipologia di evento negativo che
colpisce uno solo o pochi intermediari,
si propaga molto velocemente tra le
varie istituzioni e genera quella
“reazione a catena” che provoca il conseguente fallimento di un certo
numero di altri soggetti presenti nel
mercato (il cosiddetto “effetto domino”: effetti negativi di uno shock si
possono ripercuotere anche su altri
mercati, facendo si che il fenomeno
assuma una dimensione globale).
Le cause che portano a eventi sistemici risiedono principalmente nell’influenza che i vari soggetti del network
hanno gli uni con gli altri; non bisogna
cadere nell’errore di credere che la
propagazione a livello sistemico di
situazioni di crisi sia solo frutto di difficoltà causate da istituzioni di grandi
dimensioni: l’importanza sistemica dei
vari soggetti dipende non dalla loro
dimensione, ma dal grado di correlazione con gli altri. Allo stesso modo,
non basta che un evento negativo sia
di grosse dimensioni per potersi
definire sistemico. Infatti il meccanismo di propagazione può realizzarsi
non solo attraverso l’esposizione
diretta all’evento negativo causato
dallo shock, ma anche in maniera indiretta, e in tali casi la trasmissione dello
shock può includere l’interazione tra
variabili finanziarie e reali e la crisi si
può estendere alla dimensione macroeconomica. Sotto questo aspetto possiamo definire il rischio sistemico come
“qualunque insieme di circostanze che
minacciano la stabilità del sistema
finanziario, o la fiducia del pubblico
nello stesso, ” (Billio et all 2011).
Come fa uno shock a diventare sistemico? Uno dei mezzi attraverso cui
si trasmette uno shock, propagandosi
a livello sistemico, è la fiducia riposta
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
113
BANKPEDIA
negli intermediari e nei mercati da
parte del pubblico. Quando c’è assenza di tale fiducia significa che l’incertezza ha raggiunto un livello troppo elevato, e questo non può far altro
che causare instabilità nei mercati,
accrescere la loro volatilità e favorire
il propagarsi della situazione di crisi
anche ai mercati non direttamente
coinvolti nel problema d’origine.
Altro motivo di propagazione del rischio a livello sistemico è l’elevato
livello di asimmetria informativa presente nei mercati, favorita tra l’altro
dall’ingresso di strumenti finanziari
maggiormente complicati (si veda
voce Asimmetria dell’Informazione).
Un ulteriore meccanismo che conduce a situazioni di crisi, portandole
ad assumere dimensioni sistemiche, è
l’effetto leva (dall’inglese “leverage”),
che misura il livello di indebitamento
di un soggetto, rapportando gli asset
al capitale proprio:
Leva = Capitale Proprio / Asset (1)
Questo indice misura di quante
volte il capitale investito è superiore
al capitale disponibile (o mezzi propri). Fino a quando l’effetto leva non
assume valori elevati non c’è nulla da
temere, quando invece esso è notevole si può incorrere in gravi situazioni di inadempienza, se non si
detengono le opportune riserve. In
certe situazioni sembra una cosa
giusta aumentare il livello di leva
perché, in caso di andamento positivo dell’attività, i guadagni vengono
amplificati; non bisogna però
dimenticare il rovescio della
medaglia, ossia che anche le perdite,
114
in caso di andamento negativo,
saranno amplificate dall’effetto leva.
Si noti che questa tecnica di finanziamento tramite debito è stata uno dei
principali meccanismi di trasmissione della crisi, creando una pericolosa situazione di eccessivo indebitamento in cui si sono trovate
numerose aziende, ma soprattutto
gli intermediari finanziari che hanno
posto in essere questo tipo di operazioni, indebolendo il sistema
finanziario e sviluppando un effetto
moltiplicatore sul mercato e sulle
altre imprese.
Principalmente le crisi finanziarie
sono determinate da eventi che
riguardano la liquidità, le perdite, la
leva finanziaria e la connettività tra i
soggetti. Privilegiando la definizione
di rischio sistemico quale rischio che
l’insolvenza o il fallimento di uno o
più intermediari determini generalizzati fenomeni di insolvenza o fallimenti a catena di altri intermediari,
si può identificare nella causa scatenante di tale crisi sistemica l’indebitamento ed esaminare le conseguenze della correlazione tra istituzioni, in particolare tra banche e
stati. Questo approccio è giustificato tenendo a mente che nella vasta
gamma di crisi succedutasi storicamente è possibile individuare un
tratto comune: l’eccessiva accumulazione di debiti – da parte dello
stato, delle banche, delle imprese o
dei consumatori – comporta spesso
rischi sistemici maggiori di quanto
possa apparire durante una fase di
boom. L’accumulazione di una gran
mole di debiti comporta rischi perché
rende l’economia vulnerabile alle crisi
RUBRICHE
BANKPEDIA
di fiducia, specialmente quando l’indebitamento è a breve termine e deve
essere costantemente rifinanziato. Le
fasi di boom alimentate dall’indebitamento determinano troppo spesso
false certezze sulla bontà delle
politiche di un governo, sulla capacità di un istituto finanziario di fare
ingenti profitti o sul tenore di vita di
un paese. Ci dovrebbe, peraltro,
essere un equilibrio tra i rischi e le
opportunità dell’indebitamento.
Rapporto tra rischio sistemico e sistema bancario
Dato che solitamente, quando si parla
di propagazione del rischio, si fa riferimento in particolare al settore bancario, in quanto importante canale nella
diffusione degli shock all’intera economia, passiamo ad analizzare il rapporto
tra il rischio sistemico e le banche, cercando di capire come dalla situazione di
difficoltà di una singola banca si passi
alla crisi generalizzata del settore. In
questo contesto, l’aspetto sistemico del
rischio va studiato analizzando non
solo l’attività bancaria in senso lato, ma
anche e soprattutto l’attività interbancaria. Vi sono, infatti, due canali di
propagazione degli shock: il canale dell’esposizione diretta e quello informativo. Il canale dell’esposizione diretta fa
riferimento a effetti domino che possono verificarsi per via dei fitti collegamenti presenti nel mercato interbancario; il canale dell’informazione invece
si riferisce alle asimmetrie informative
o agli errori di interpretazione dei segnali da parte dei partecipanti al mercato e dei risparmiatori, che causano ciò
che viene definito corsa agli sportelli
(in inglese bank run). Il modello più
famoso è quello proposto da Diamond
e Dybvig (1983) secondo il quale le
banche trattengono a riserva solo una
frazione dei depositi raccolti, e a seconda che i clienti siano pazienti o impazienti, detengono la liquidità necessaria
a soddisfare solo un determinato quantitativo di richieste di rimborso. Se non
succede nulla d’imprevisto, la situazione economica è normale e non sussistono problemi. La banca sa che una
parte dei clienti ritirerà l’ammontare
depositato e una parte invece lo manterrà in forma di deposito presso la
banca stessa. In questo modo la banca è
solvente, perché fino al momento in cui
anche i depositanti definiti “pazienti”
vorranno ritirare quanto gli spetta la
banca avrà raccolto nuova liquidità da
altri soggetti. I problemi sorgono quando i clienti subiscono uno shock di liquidità e quindi hanno la necessità di
ritirare i propri depositi pur essendo
della categoria di clienti che avrebbero
preferito mantenerli investiti presso la
banca: le aspettative della banca circa il
numero di soggetti pazienti e di soggetti impazienti vengono meno e si trova
in una situazione di difficoltà causata
dall’assenza di risorse liquide necessarie
a soddisfare l’intera domanda di rimborso da parte dei clienti. I depositanti
non appena ravvisano un segnale di
crisi o comunque di difficoltà corrono
allo sportello per ritirare i propri
depositi. Per il cosiddetto effetto herding (gregge), chi vede la gente che fa la
fila allo sportello per ritirare viene
“contagiato” e replica il comportamento, accodandosi e generando quindi la
base del fallimento della singola banca.
Quest’ultima potrebbe anche essere
solida, ossia in grado di ripagare tutti se
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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i tempi fossero allungati, ma è illiquida,
ossia non in grado di soddisfarli tutti
immediatamente dato che si sono presentati in massa a ritirare i propri
depositi. Questo fenomeno della corsa
agli sportelli può sfociare in una situazione di panico (ossia in una corsa agli
sportelli su scala più estesa) molto velocemente grazie alle innumerevoli interconnessioni e alle fitte relazioni oggi
presenti nel mercato interbancario. Il
panico vede la situazione appena illustrata riproporsi in più istituti bancari,
inizialmente forse per gli stessi motivi
della corsa agli sportelli.
La causa principale del passaggio ad una
situazione di crisi a livello sistemico è
l’elevata correlazione che sussiste tra le
banche. Esse sono molto attive nel
mercato interbancario e di conseguenza gli shock si possono propagare
molto facilmente da un istituto bancario ad un altro. Un altro fenomeno che
favorisce il propagarsi dello shock è
l’errata interpretazione da parte dei
depositanti di una banca del fallimento
di un altro istituto di credito. Una corsa
agli sportelli di un’altra banca può
essere vista dai depositanti come una
minaccia circa il rimborso del prestito
interbancario che potrebbe sussistere
tra la loro banca, sana e senza problemi,
e quella oggetto d’illiquidità. Di conseguenza danno inizio alla corsa agli
sportelli anche della loro banca, portandola al fallimento. Un altro motivo di
propagazione a livello sistemico delle
crisi bancarie è che le banche investono
in progetti parzialmente illiquidi e
devono affrontare al tempo stesso le
richieste di rimborso dei depositi da
parte dei depositanti nei momenti di
incertezza. Fintanto che l’eccedenza
116
dei prelievi rispetto ai flussi di cassa
generati dagli investimenti a medio e
lungo termine è soddisfatta attraverso il
ricorso all’interbancario allora la banca
è solvente e continua ad operare; ma se
non dispone di fondi a sufficienza, fallisce, e il panico si diffonde nell’intero
sistema, perché la carenza di liquidità di
un singolo soggetto viene etichettata
come una carenza di liquidità di tutto il
settore bancario.
Se si guarda ai fatti della crisi finanziaria
globale del 2008, si nota che a fine 2007
le banche di investimento presentavano
un livello di leva in media pari a 30.4,
valore assai elevato, superiore sia a quello delle banche commerciali statunitensi, sia a quello delle maggiori banche
europee. Ricordiamo che sfruttare la
leva vuol dire prendere in prestito dei
capitali confidando nella propria capacità di investirli ottenendo un rendimento maggiore del tasso di interesse
richiesto dal prestatore. Dato che le
banche di investimento non finanziano
la loro attività tramite depositi, si
riteneva che queste non minassero la
stabilità finanziaria a livello di sistema e
quindi erano sottoposte ad una regolamentazione meno stringente rispetto a
quella delle banche commerciali, che ha
fatto sì che il rapporto di leva potesse
raggiungere valori sempre più alti fino
allo scoppio della crisi. Gli elevati livelli di leva raggiunti sono spiegabili dal
fatto che una politica spesso seguita
dagli intermediari finanziari è stata
quella di modificare il proprio indebitamento in modo da mantenere una leva
costante, ovvero aumentare il debito
nelle fasi di espansione del mercato e
ridurlo nelle fasi di depressione, rendendo la propria domanda di titoli
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finanziari direttamente proporzionale
ai prezzi dei titoli stessi. Allo scoppio
della crisi è continuata a valere la stessa
relazione, ma nella direzione peggiore:
con lo svalutarsi dei titoli legati ai mutui
di cattiva qualità, le banche si sono viste
obbligate dal loro obiettivo di leva
costante a dover vendere titoli
finanziari. Ma un’eccessiva offerta di
assets ha fatto sì che il loro prezzo
diminuisse notevolmente, innescando
una reazione a catena tale per cui più il
titolo si svalutava, più occorreva eliminarlo dal proprio capitale, causando
un’ulteriore svalutazione, e così via. E’
da aggiungere poi che, grazie a principi
per la compilazione dei bilanci quali il
mark to market, gli intermediari
finanziari erano del tutto liberi nella
scelta dei titoli da vendere per riuscire a
rispettare l’obiettivo di leva costante;
data la sempre minore liquidità dei
mercati, questa autonomia di scelta ha
comportato che le banche preferissero
ricorrere a titoli facilmente liquidabili,
dunque di buona qualità. La conseguenza è stata che, anche quelle istituzioni finanziare che non erano in
possesso di titoli di cattiva qualità,
hanno accusato notevoli svalutazioni
per quegli assets presenti nel loro attivo
ma venduti a prezzi eccessivamente
bassi da altre istituzioni, che cercavano
di liquidare titoli per mantenere il loro
rapporto di leva costante. In conclusione, una politica che miri a mantenere
il livello di leva costante provoca effetti
destabilizzanti sul mercato, poiché
contravviene al principio base stabilizzatore che suggerisce di comprare i
titoli quando i prezzi si abbassano, e
non quando il mercato è in fase di
espansione.
Rapporto tra rischio sistemico e Stato
La crisi statale diventa sistemica per effetto del contagio. L’andamento dei Credit
Default Swap (CDS), visti come indicatori del rischio del paese di riferimento, (o
equivalentemente, si può considerare
l’andamento dei premi per il rischio) dei
paesi dell’area euro registrato a partire
dalla crisi finanziaria del 2008 ha riflesso
sia componenti legate a fattori fondamentali – quali la situazione macroeconomica e di finanza pubblica – sia componenti guidate da fenomeni di contagio.
Come emerge da un’analisi dei differenziali di rendimento dei titoli di Stato
decennali dei paesi dell’area euro rispetto
al Bund tedesco, nel corso del 2012 il
contributo del contagio allo spread è
risultato sostanzialmente comparabile a
quello dei fondamentali per i paesi periferici, mentre ha ridotto il rendimento
richiesto dagli investitori per i paesi
ritenuti più sicuri. In particolare, il contagio spiega il 46% e il 60% dello spread,
rispettivamente, per Spagna e Portogallo,
mentre per la Francia lo spread implicito
nei fondamentali risulta superiore a quello osservato di circa 70 punti base. Nel
caso dell’Italia, i risultati delle stime mettono in evidenza che i fondamentali
hanno contribuito a ridurre lo spread nel
biennio 2007-2008. A partire dal 2009 il
peggioramento del quadro economico si
è riflesso nell’innalzamento del premio al
rischio e con l’acuirsi della crisi del debito
sovrano l’Italia ha sperimentato un crescente effetto contagio, stimabile per il
2012 in circa 200 punti base, pari a più del
50% dello spread. Indicatori basati sulla
correlazione fra gli spread dei titoli di
Stato europei mostrano che all’inizio del
2012 i fenomeni di contagio che avevano
caratterizzato i periodi più intensi della
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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crisi del debito sovrano si erano progressivamente attenuati, per poi ritornare a
risalire a partire da luglio. Nella seconda
metà dell’anno, tuttavia, l’intensità delle
connessioni fra mercati secondari dei
titoli di Stato non spiegata dai legami economico-finanziari tra paesi (indicatore
che misura l’intensità del contagio) ha
registrato una ripresa, portandosi, a fine
settembre, a valori superiori a quelli registrati a giugno 2011 (ossia prima del
riacuirsi della crisi del debito sovrano). La
crescita del contagio si è riflessa anche in
un aumento della volatilità degli spread
dei titoli di Stato, che rimane su valori
molto elevati rispetto alla media del periodo antecedente al 2011. Attualmente,
indicatori basati sulla correlazione fra
rendimenti azionari mostrano un’attenuazione dei fenomeni di contagio che
avevano caratterizzato i periodi più intensi della crisi del debito sovrano. Infatti, a
partire da novembre 2011 l’intensità delle
connessioni tra mercati azionari non
spiegata dai legami economico-finanziari
tra paesi era cresciuta costantemente, pur
rimanendo significativamente inferiore ai
livelli raggiunti in corrispondenza della
crisi Lehman. La diminuzione del contagio, riconducibile alle già ricordate iniziative delle istituzioni europee tese a scongiurare il rischio di disintegrazione dell’area euro, si è riflessa anche in una
diminuzione della volatilità storica dei
rendimenti azionari, che nel corso dell’anno si è riportata su livelli inferiori a
quelli registrati nel luglio 2011. (Consob,
Risk outlook, dicembre 2012).
[Per i fatti dettagliati della crisi si rimanda alla voce Crisi Subprime - I fatti]. In
questo contesto, ci interessa sottolineare
che il peggiorarsi della situazione nel settembre 2008, col fallimento della banca
118
d’investimento Lehman Brothers, evento simbolo della crisi finanziaria essendo
Lehman la controparte per circa cinque
trilioni di dollari di contratti CDS, ha
provocato il congelamento del mercato
di tali prodotti, segnando dunque il passaggio da crisi localizzata nei bilanci di
alcuni intermediari finanziari a crisi sistemica. Per comprendere il profondo
cambiamento innescato dal crollo di
Lehman Brothers, basta osservare l’andamento dei CDS riportati nel grafico 1.
Da settembre 2008 si registra un notevole aumento sia dei CDS spread statali
che bancari (in particolare delle quattro
maggiori banche italiane, ma la situazione è estendibile anche ad altri dati),
indicando forti preoccupazioni del mercato relativamente alla possibilità di
default degli stati sovrani (e delle rispettive banche).
Il contagio dalle crisi bancarie allo Stato
Nel settembre 2008, a seguito del fallimento di Lehman Brothers, i governi
delle principali economie avanzate si
sono mossi per fornire supporto alle
banche e alle istituzioni finanziarie, con
lo scopo di contribuire a ricreare un normale funzionamento dell’attività di intermediazione finanziaria, e, in particolare,
assicurare l’accesso al finanziamento per
le banche e ridurne la leva. La combinazione di strumenti messa in campo dai
governi è stata impressionante sia in termini di spesa (l’ammontare degli aiuti è
stato equivalente al 6% del PIL delle
economie avanzate) sia in termini di
strumenti impiegati: aumenti di capitale,
acquisto di asset di dubbia qualità,
iniezioni di liquidità, garanzie su emissioni obbligazionarie. L’intervento dei
governi è stato di cruciale importanza
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Grafico 1.
durante la recente crisi. Per le banche era
diventato veramente difficile continuare
a finanziare le proprie attività tramite i
canali tradizionali, quali i mercati dell’equity e del debito, ed alcuni procedimenti che avrebbero potuto aiutare a migliorare la situazione, come ad esempio
fusioni e acquisizioni nel settore bancario, non hanno avuto luogo con gli stessi ritmi degli anni precedenti. Con il mercato interbancario praticamente chiuso,
le banche che vi facevano principalmente
affidamento per reperire fondi si sono
ritrovate senza mezzi per finanziare i
loro portafogli sempre più illiquidi. I
provvedimenti adottati dai vari governi,
non soltanto europei, hanno consistito
in un primo momento di azioni mirate,
dirette a singole istituzioni in difficoltà,
ma successivamente hanno preso la
forma di veri e propri programmi indiriz-
zati all’intero sistema finanziario. Le misure introdotte sono state di tre diverse
tipologie ed hanno contribuito senza
dubbio a portare stabilità nei mercati
bancari:
1. Iniezioni di capitale. I governi
hanno rafforzato il capitale di tipo
Tier 1 e/o Tier 2 delle banche iniettando risorse nella forma di azioni
privilegiate, warrants, debito subordinato, obbligazioni ibride, ecc.
2. Garanzie sul debito. I governi
hanno fornito garanzie esplicite
contro il default sul debito bancario e altre passività, per aiutare le
banche a continuare ad avere accesso ai finanziamenti a medio termine a costi ragionevoli, alla luce
dell’aumento degli spread sul credito e dell’estinzione di fonti alternative di finanziamento.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
119
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3. Acquisti o garanzie di titoli di cattiva qualità. Il governo si è assunto
parte o tutto il rischio di portafogli
in forte perdita o di titoli illiquidi,
riducendo l’esposizione della banca
a grosse perdite e migliorandone la
liquidità.
Le misure di soccorso attuate dai diversi
stati hanno sicuramente contribuito a
stabilizzare il sistema finanziario e ad
evitare gli scenari peggiori, riducendo il
rischio di default delle banche più
importanti. Allo stesso tempo, però, gli
interventi statali non sono stati sufficienti ad invertire il ciclo innescato dalla
crisi, poiché la maggior parte delle
banche ha continuato a dipendere dai
fondi governativi. Inoltre, è come se vi
fosse stato un trasferimento del rischio,
dalle banche allo stato. È nota la considerazione formulata in proposito dall’ex
presidente di Citibank (1964-84) Walter
Wriston “gli stati non falliscono”. In un
certo senso è vero. I paesi non restano
senza un soldo allo stesso modo di una
piccola impresa o di una società di capitali. Il default di un paese è spesso il
risultato di un complesso calcolo di costi
benefici che implica considerazioni di
ordine politico e sociale. Non solo di
carattere economico finanziario. La
maggior parte dei casi di default si verifica molto prima che una nazione
esaurisca letteralmente le risorse. Un
paese può rinegoziare il debito, come fece
la maggioranza dei paesi in via di sviluppo
durante la crisi degli anni ‘80. E’ opinione
corrente che un paese non debba sacrificare le proprie risorse più preziose per
rimborsare i debiti. Questa caratteristica
del rimborso dei debiti (i creditori dipendono non solo dalla capacità del debitore
di rimborsare il debito ma anche dalla sua
120
volontà di farlo) comporta che la bancarotta sovrana sia cosa diversa dal fallimento di un’impresa. In quest’ultimo caso i
creditori possono pignorare una parte
dei redditi futuri o impossessarsi dei
beni del debitore. Nell’altro caso far
valere le procedure esecutive è ben difficile. È solo dal settembre 2008, comunque, che il mercato del debito sovrano
ha cominciato ad attirare notevole
attenzione. Prima della crisi, il rischio di
default sul debito sovrano per i paesi
industrializzati era visto come un evento con probabilità molto bassa. L’assenza di default tra i paesi sviluppati aveva
anzi confermato l’ipotesi largamente
sostenuta che i titoli di stato fornissero
un buon indicatore del tasso privo di
rischio di lungo periodo. Tanti sono i
documenti scritti proprio sulla drammatica esperienza della crisi dei mercati
emergenti nel 1997-1998 come quello di
Pan e Singleton (2008) o quello di
Longstaff et al. (2008) che non
riguardano certo le regioni dell’euro
area. Il crollo di Lehman Brothers ha
portato ad una nuova valutazione del rischio di default sovrano dei paesi industrializzati. Di conseguenza, sia per la
negoziazione, nonché per ragioni di
copertura, l’attività di mercato sui CDS
sovrani dell’area euro è cresciuta fortemente.
Si nota quindi una forte correlazione tra
crisi bancaria e crisi sovrana. Un’elevata
incidenza delle crisi bancarie globali è
sempre stata associata, storicamente, a
un’alta incidenza di default
del debito
2
sovrano sul debito estero .
Il grafico 2 evidenzia la percentuale
dei paesi in crisi bancaria confrontandola con la percentuale dei paesi in
default o ristrutturazione del debito
RUBRICHE
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estero. I default del debito sovrano
incominciarono ad aumentare all’inizio
della prima guerra mondiale (lo stesso
vale per le crisi bancarie) e continuarono a crescere durante la grande
depressione e la seconda guerra mondiale. I decenni successivi furono relativamente tranquilli finché le crisi del
debito non colpirono i mercati emergenti negli anni ottanta e novanta.
Aggiungiamo che anche nei paesi
sviluppati c’è stata la stessa evidenza a
partire dal 2008. Abbiamo visto che la
turbolenza bancaria può provocare un
aumento delle crisi del debito sovrano.
Ciò avviene essenzialmente per due
motivi:
· Perché storicamente le crisi bancarie sono “contagiose” in quanto gli
investitori tendono ad assumere
meno rischi, generalizzano le
vicende di un paese anche agli altri
e riducono la loro esposizione
complessiva a seguito della diminuzione della loro ricchezza.
· Perché una crisi bancaria in un
paese può provocare una perdita di
fiducia in paesi vicini o simili, in
quanto i creditori si aspettano che
vi siano problemi analoghi.
Questo, combinato a quanto abbiamo
detto prima sugli aiuti statali, rende l’idea
del contagio avvenuto storicamente.
Per corroborare ulteriormente l’analisi
suddetta, è utile analizzare il paper di
Stefan Gerlach, Alexander Schulz e
Guntram B. Wolff: “Banking and sovereign risk in the euro area” (2010).
I tre autori si propongono di studiare le
determinanti degli spread sui bond
Grafico 2.
2 Il default sul debito sovrano estero si verifica quando un governo è insolvente sui suoi debiti nei confronti di stranieri.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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sovrani europei a partire dall’introduzione dell’euro. Il risultato a cui giungono è che la componente principale
che guida gli spread è un fattore comune
di rischio aggregato del mercato (il rischio sistemico). È proprio questo fattore che, interagendo con la dimensione
e la struttura del sistema bancario
nazionale, aumenta il rischio di spread.
Infatti, quando il rischio aggregato
aumenta, gli stati con un settore bancario più grande (aggiungiamo anche quelli piccoli ma con molte relazioni con altri
istituti) e dai più bassi equity ratios presentano uno spread maggiore, suggerendo che i mercati finanziari percepiscono
il rischio sovrano collegato al settore
bancario in termini di un più probabile
intervento del primo in caso di crisi del
secondo. Ciò comporterebbe un
aumento del debito sovrano e quindi del
suo rischio. Molta attenzione è stata
data al recente aumento degli spread sui
bond sovrani nell’area euro.
A sorprendere, dando un’occhiata al
grafico 3, è che dall’introduzione dell’euro nel gennaio del 1999 all’agosto del
2008, lo spread sul bond a dieci anni
rispetto al Bund tedesco si è mantenuto
costante, in media intorno ai 15 bps. Da
quel momento in poi, però, quello stesso
spread è cresciuto enormemente, in particolare quello sui bond dei governi irlandese e greco. Si noti come la stessa situazione vale prendendo in considerazione i
CDS al posto dello spread bond-bund,
come abbiamo visto nel grafico 1.
Partendo dalla recente crisi finanziaria
iniziata nel 2007, i tre autori hanno intuito che il settore statale e quello bancario
sono diventati estremamente interconnessi. In particolare, dopo il collasso di
Lehman Brothers nel settembre 2008,
122
molti governi nell’area euro adottarono
pacchetti di salvataggio per il settore
bancario di misure mai viste prima.
Queste garanzie, implicite ed esplicite,
alle banche hanno fatto aumentare, di
ritorno, il rischio statale, in termini di
un grosso onere fiscale ai danni dello
stato. Questo non poté che aumentare il
rischio di default dello stato stesso. Per
avere un’idea delle proporzioni dell’intervento statale, basti pensare che, ad
esempio, le garanzie offerte dal governo
irlandese sul debito bancario coprivano
più del 200% del GDP.
Per tutti questi motivi, una potenziale
crisi bancaria è associata, di frequente,
ad un aumento nella percezione del rischio default sovrano e questo fa irrimediabilmente aumentare gli spread.
Naturalmente, a detta degli autori,
l’impatto che il settore bancario ha
sugli spread sovrani dipende dallo stato
dell’economia, inclusa la volontà degli
investitori di detenere titoli rischiosi.
Un grosso settore bancario può essere
una fonte di un potenziale rischio
finanziario per il governo in situazioni
di instabilità finanziaria, ma, in tempi
economici stabili, un grosso settore
bancario può essere una fonte di
guadagno per il governo e guidare ad
una crescita economica. Rilevante è il
termine di interazione (termine di rischio aggregato) che permette di valutare l’impatto della dimensione del
settore bancario al variare del rischio di
mercato. L’idea è che il rischio aggregato determina la probabilità delle banche
di chiedere un aiuto pubblico e ciò
influenza la posizione fiscale dello
stato. Alla luce della recente recessione
e del largo ampliarsi dello spread a
seguito della crisi finanziaria, sembra
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Grafico 3.
poi ovvio che l’instabilità nel settore
bancario possa avere implicazioni sull’abilità del governo di servire il suo
debito pubblico.
In tempi normali i mercati finanziari
non domandano un premio per i governi con un settore bancario più
amplio, anzi, gli spread diminuiscono.
Comunque, se e quando la percezione
del rischio aggregato aumenta, gli
spread aumentano di più laddove è presente un settore bancario più grande (o
piccolo, ma con un fitto network).
Questa differenza è economicamente
significativa: alla luce della recente crisi
finanziaria, più dell’1% degli spread
può essere spiegato da questo fattore.
Inoltre, l’effetto del settore bancario
sugli spread sovrani è collegato al grado
di vulnerabilità della banca. Stati in cui
il settore bancario ha un basso rapporto di equity devono pagare un premio
per il rischio maggiore non appena il
rischio aggregato aumenta.
RIVISTA BANCARIA - MINERVA BANCARIA N. 4/2013
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