Gioele Dix QUANDO TUTTO QUESTO SARÀ FINITO Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali 1 La radio accesa a tutto volume All’inizio di settembre del 1938 io ero un bambino di dieci anni che si preparava a entrare in prima media. Ero elettrizzato, perché mi piaceva la scuola, ma anche preoccupato, perché tutti dicevano che le medie erano difficili. Le medie al Carducci di Milano, poi. «Non ce la farai mai, Vittorio, vedrai che ti cacceranno via.» Questo me lo diceva il mio amico Lele Pardo del terzo piano. Parlava così soltanto per invidia, perché l’avevano mandato a scuola un anno dopo di me e quindi gli toccava andare ancora alle elementari in piazzale Bacone. Ma una sera mio padre tornò a casa scuro in volto, scagliò sul tavolo il “Corriere della Sera” che aveva in mano e si rifugiò in camera da letto a parlare fitto fitto con mia madre. Malgrado le voci fossero attutite dalla porta chiusa, capii che stavano litigando, i loro toni erano concitati e le urla appena compresse per cercare di non allarmarmi. Una discussione accesa fra la tiepida simpatizzante socialista e il fin troppo caldo simpatizzante della destra estrema. Sì, perché questa è la verità: mio padre era fascista, e non certo per convenienza o per conformismo. Va detto a suo merito, ammesso che fosse un merito, che ci credeva veramente. Era addirittura un fascista della prima ora, un cosiddetto 11 “antemarcia”, ossia faceva parte di quella ristretta cerchia di fedeli ed entusiasti sostenitori di Mussolini che lo seguivano sin da prima della marcia su Roma. Gli piacevano le sue idee, il suo linguaggio, e non ne faceva mistero. Forse avrebbe avuto qualcosa da ridire sui metodi degli squadristi, più che altro perché in fondo era un uomo buono e pacifico, eppure prevaleva in lui l’ammirazione per il duce. Ne era rimasto affascinato ai tempi in cui era un giovane ufficiale dell’esercito italiano in trasferta a Parigi e non aveva più cambiato idea. Ne condivideva gli ideali e i valori: la Patria, l’Onore, l’Ordine. Chissà come doveva sentirsi quella sera dopo aver avuto conferma dal giornale che il suo amatissimo Capo del Governo aveva permesso che il Parlamento approvasse una legge, con tanto di controfirma del Re in persona, che declassava gli italiani di razza ebraica, e dunque anche lui, uno dei suoi fedelissimi, a cittadini di serie B. Mio padre non era il solo a sentirsi caduto in trappola ed è certo che in quella calda serata di inizio settembre in molte case di Milano, Roma, Trieste, Livorno, Napoli si stesse consumando lo stesso nostro dramma: un marito, ebreo fascista tradito dal suo Capo, che tenta l’ultima disperata autodifesa, e una moglie che gli inveisce contro e non gli perdona la complicità con l’orrore. Io facevo la spola fra il corridoio e la culla piazzata in salotto, dove il mio fratellino appena nato dormiva indifferente a tanto trambusto. Finalmente uscirono dalla stanza e mia madre si mise nervosamente ad apparecchiare la tavola per la cena. Anche mio padre le diede una mano con posate e bicchieri, fatto assolutamente eccezionale. Forse cercava di stemperare la tensione, provando a farsi perdonare per quella insana passione politica diventata ormai irragionevole. Cenammo in silenzio, poi mio padre mi diede l’annuncio. «Credo che non ti iscriveremo al Carducci.» «Perché?» «Perché non possiamo.» 12 «E perché?» Non ebbi alcuna risposta, né da lui, né tantomeno da mia madre. Quell’impotente sordità divenne un’abitudine. Ogni volta che facevo domande ai miei genitori su ciò che stava accadendo, loro semplicemente non rispondevano. Oggi li capisco: non sapevano come spiegare. E così andò a finire che, dopo parecchi tentativi a vuoto, io non chiesi più nulla. Fra noi si creò una sorta di patto del silenzio che – a pensarci bene – è rimasto immutato codice di famiglia per molti anni, anche dopo la fine della guerra. Constatazione dei fatti, ma mai una parola sulle ragioni. Inutile dire che per me, in quel momento, la conseguenza più grave delle leggi razziali fu di dover rinunciare alla scuola media Carducci, dando una soddisfazione inattesa al mio amico Lele Pardo del terzo piano. Ero certo che mi avrebbe irriso, invece il suo comportamento fu particolarmente affettuoso. Forse i suoi genitori gli avevano spiegato qualcosa, beato lui. Sta di fatto che non fece mai cenno alla mia mancata iscrizione. Il giorno seguente mio padre decise di restituire la tessera di iscrizione al partito fascista. Il suo rigore e il suo senso del dovere gli imposero di recarsi subito alla sede più vicina e mostrare con orgoglio quanto gli stesse a cuore il rispetto delle regole, a maggior ragione in un caso come quello, in cui gli si ritorcevano contro. Ma l’atto concreto di restituzione non avvenne, perché mio padre tornò a casa con la sua tessera ancora in mano. Evidentemente nessuno al partito aveva accettato le sue “dimissioni”. Né io, che ero troppo piccolo, né mia madre, che avversava le sue scelte ideologiche, né mio zio Enrico, il fratello al quale era pur legatissimo, abbiamo mai saputo che cosa accadde fra lui e i suoi camerati in quell’occasione. Per mio padre fu una ferita troppo lacerante e non trovò necessario fornirci spiegazioni. Aprì il cassetto della scrivania e cacciò la tessera sul fondo. Lì è rimasta per quarantacinque anni, fino al giorno della sua morte. 13 L’entrata in vigore delle leggi razziali cambiò radicalmente la vita degli ebrei italiani. Tutti i dipendenti statali, impiegati, dirigenti, docenti, militari furono sollevati dai loro incarichi e cacciati senza alcuna indennità, e anche l’esercizio di molti altri mestieri e professioni fu ostacolato: permessi revocati, licenze ritirate. Ognuno ebbe i suoi guai, sia chi gestiva un’attività commerciale, sia chi esercitava la libera professione. Qualcuno fu costretto a lasciarsi declassare o a lavorare clandestinamente. E poi seguirono molti altri divieti, ingiusti, insensati, ridicoli: divieto di possedere una radio, di assumere domestici ariani, di pilotare aerei, di iscriversi a club sportivi, di produrre vini e olio d’oliva, di operare come guide turistiche, di allevare piccioni viaggiatori. Io allora avevo poco più di dieci anni. La mia autonomia di giudizio e la mia libertà di azione erano inesistenti. Non posso dire come mi sarei comportato se fossi stato adulto. Ho ricordi frammentari, oltre che falsati dai giudizi che vi ho sovrapposto in seguito. Tuttavia non riesco a spiegarmi perché la maggior parte degli ebrei non si sia resa conto della gravità di quello che stava succedendo. Forse perché non è da tutti possedere la lucidità necessaria per leggere la realtà mentre la si sta vivendo. Da ciò deriva la mia ammirazione per quei pochi che capirono e agirono in tempo. Nella nostra famiglia ci fu uno zio professore universitario che già nel 1935 considerò pessima l’aria che tirava e decise di andarsene con tutta la famiglia in America. Così, non solo si salvò dalle tragiche conseguenze finali, ma evitò anche un sacco di umiliazioni intermedie, a cominciare da quella toccata a molti docenti suoi colleghi, ossia farsi scippare della cattedra, perdere qualsiasi diritto di retribuzione, di anzianità, di pensione ed essere costretti a sopravvivere dando ripetizioni clandestine a qualche studente asino delle medie inferiori. Certo, va detto che lo zio Enzo era molto facoltoso, mentre la maggior parte di noi, alla faccia dei luoghi comuni sugli ebrei pieni di soldi, non poteva permettersi di affrontare cambiamenti tanto costosi. E poi 14 trasferirsi era troppo complicato anche sul piano affettivo, si sarebbero dovuti abbandonare i genitori anziani, le persone care, gli amici di una vita, il nostro amato paese. Per emigrare, o sei molto ricco o sei molto povero, perché non devi avere nulla da perdere. Un’altra per così dire fregatura fu per tanti quella di essere italiani prima ancora che ebrei, e dunque convinti che nulla sarebbe stato preso veramente sul serio. Perché si sa come siamo fatti in Italia, le leggi le rispettiamo sì e no, un modo di accomodare e accomodarsi lo si trova comunque e persino una dittatura da noi può essere bonaria, o perlomeno può sembrare che lo sia. Ricordo di aver sentito con le mie orecchie molti correligionari teorizzare, più o meno sussurrando: “Tanto poi a Mussolini gli passa”, “È soltanto una bolla di sapone”, “Gli italiani non ci staranno perché non sono razzisti”. Questo corrispondeva effettivamente al sentimento popolare diffuso, ma nel frattempo l’apparato burocratico dello Stato si impegnava a produrre norme, regolamenti, adempimenti, certificati, divieti che man mano ci isolavano. E che quelle leggi fossero pericolosamente razziste lo si capì al momento dell’invasione tedesca. I numerosi censimenti di ebrei, con relativa compilazione di elenchi dettagliati contenenti nomi cognomi e indirizzi, divennero strumenti preziosi al servizio della feroce determinazione dei nazisti quando decisero di venire a prelevarci casa per casa e accompagnarci in treno verso i loro forni crematori. Cominciai a prendere confidenza con parole inusuali. Ebreo, ebraico, ebraismo, israelita, israelitico, rabbino, sinagoga, comunità. Le sentivo pronunciare in casa con insolita frequenza e ben presto divennero familiari. Capii che mi riguardavano, che erano parte sempre più preponderante di me, di noi, e che tutti avremmo dovuto farci i conti. Quasi contemporaneamente cominciai a fare caso anche all’uso che altri, estranei a me e alla mia famiglia, facevano di alcune di quelle stesse parole, ebreo, sinagoga, rabbino, ma con tono del tutto diverso, una questione di sfumature, un 15 che di maligno nell’intenzione che le trasformava in vocaboli offensivi. Ma la più temibile, quasi tossica, era per me una parola del tutto nuova: giudeo. Mi faceva trasalire e mi procurava improvvise palpitazioni, oppure misteriosi vuoti allo stomaco. Quei sintomi di ipersensibilità lessicale, così lontani nel tempo, possono sembrare di poca importanza, perché si dice che nella vita contano solo i fatti. E invece anche le parole contano, contano eccome, e nessuno può capirlo meglio di un bambino che sta imparando a esprimersi, quale io ero allora. Fu proprio l’assunzione di un nuovo vocabolario, sia da parte nostra che del mondo circostante, a ridefinire la nostra identità, a costringerci a fare i conti con quello che eravamo. Qualche anno dopo, durante il mio esilio in Svizzera, un anziano signore ebreo di Basilea, che proveniva dalla Polonia e ne aveva viste di tutti i colori, mi disse una frase che mi è rimasta impressa: “Anche se ti dimenticassi di essere ebreo, ci sarà sempre qualcuno pronto a ricordartelo”. Nel giro di poche settimane la comunità ebraica di Milano riuscì a mettere in piedi una scuola in grado di accogliere tutti gli alunni cacciati da elementari, medie, ginnasi e licei pubblici. Fu un miracolo di generosità e di efficienza, quasi tutte le classi furono coperte, con qualche necessario adattamento. Anche gli insegnanti erano tutti ebrei, a loro volta espulsi, prevalentemente dalle università. Io mi ritrovai in una strana prima media in cui le espressioni le imparavi da un docente che insegnava algebra alla facoltà di matematica pura e scienze le studiavi con un professore di astrofisica. Un lusso. O uno spreco, a seconda dei punti di vista. Dato che la scuola era dall’altra parte della città rispetto alla zona di piazzale Loreto in cui abitavamo, presi confidenza con il tram. Ci passavo sopra più di un’ora e mezza al giorno fra andata e ritorno. Finii per apprezzare i vantaggi di quel tempo apparentemente sprecato, in cui invece potevo finire i compiti e ripassare prima delle interrogazioni. Anche se il vero spasso era osservare le persone: 16 come si vestivano, come si comportavano, di che cosa parlavano. Seduto su quelle panche cominciai a coltivare la mia già fertile immaginazione, attribuendo a parecchi dei personaggi abituali che vedevo salire e scendere tutte le mattine complicate vicissitudini, amori non corrisposti, fallimenti finanziari. E intanto, dietro ai vetri, guardavo scorrere Milano, la grande città che ancora non conoscevo. Forse non l’avrei mai sentita così mia se non fossi stato costretto da ragazzino a quella lunga, quotidiana peregrinazione. Insomma, a dispetto della grave situazione che stava maturando, io ero sereno, mi piaceva andare tutti i giorni in quella scuola improvvisata, un po’ fuori dagli schemi, in cui per fare alcune materie ti mischiavi con altre classi, in cui i professori parlavano spesso complicato, ma non erano severi. Oggi una scuola così verrebbe considerata d’eccellenza, addirittura esclusiva. Definizione adattissima anche nel nostro caso, dato che eravamo stati esclusi da tutte le altre. Ciò che io non potevo capire, essendo un bambino, era il senso di quell’estromissione, di cui la cacciata dall’istruzione pubblica era soltanto uno degli effetti più eclatanti. E neppure potevo sapere quanti danni avrebbe provocato, non tanto nei giovani, rapidi per natura a adattarsi, quanto negli adulti, per i quali la reclusione in quella sorta di ghetto immateriale provocò progressivamente sconforto, senso di inutilità e depressione, anche grave. Nulla di cui allora potessi rendermi conto. Ma scavando nella memoria riemerge un frammento inquietante. Una sera, dopo che per me era già scoccata l’ora della buonanotte imposta dalle severe regole di mia madre, mentre ancora mi rigiravo nel letto in attesa del sonno, udii i miei genitori bisbigliare fra loro e commisi l’inconfessabile peccato di alzarmi, percorrere a piedi scalzi il corridoio e appoggiare l’orecchio alla porta della loro stanza. Rimasi a origliare trattenendo il respiro, ma al primo scricchiolio sospetto del pavimento scappai e andai a cacciarmi sotto le coperte. Non avevo capito bene di che parlassero, ma mi rimase impressa una parola più volte ripetuta, di cui non co17 noscevo il significato: suicidato. Il giorno dopo in casa non si parlava d’altro che della morte improvvisa di Alfredo, il cugino prediletto di mia madre. Io non l’avevo mai conosciuto perché viveva a Roma, però sapevo che era violinista di professione e che tutti in famiglia andavano fieri del suo talento artistico. Arrivarono diverse telefonate e mia madre pianse ogni volta, ma soltanto dopo aver messo giù la cornetta, per pudore. Dopo poche settimane la sua foto incorniciata comparve sul comò in camera da letto e il suo volto sorridente mi diventò familiare. I miei genitori non mi avevano dato alcuna spiegazione sulla sua morte, convinti, come al solito, che per proteggermi fosse necessario nascondermi la verità, e io naturalmente non avevo chiesto nulla. Ma c’era quella misteriosa parola che mi rigirava in testa, come la traccia inquietante lasciata dal passaggio di un lontano temporale. Soltanto alla fine della guerra venni a sapere la verità: Alfredo si era tolto la vita la sera stessa in cui gli era stato comunicato che per motivi razziali era stato espulso dall’orchestra sinfonica dell’EIAR, della quale faceva parte, con orgoglio, da più di dieci anni. Si sa che, di fronte alle avversità, c’è chi è capace di reagire e chi al contrario si avvilisce, chi il dolore sa farselo scivolare addosso e chi purtroppo soccombe, non è un mistero e nemmeno una colpa. Quel giovane musicista non fu in grado di reggere l’urto, il suo equilibrio si spezzò e decise di farla finita. Ma per fortuna non tutti gli ebrei persero il lavoro, c’è chi riuscì a conservarlo, seppur in maniera indiretta. Per esempio mio padre, che era direttore di un importante setificio della provincia di Como. Era un mago della seta, appassionato e competente, perché aveva cominciato a lavorare in quel campo dal gradino più basso, come garzone di bottega, all’età di undici anni. Ebbene, il proprietario dell’azienda non prese nemmeno in considerazione l’ipotesi di privarsi della sua preziosa collaborazione soltanto perché era considerato indegno di comandare maestranze ariane. Perciò lo licenziò, finse di assumere un nuovo di18 rettore e continuò a far dirigere lo stabilimento a mio padre, pagandolo fino all’ultima lira. In nero. Ricordo nitidamente una visita che facemmo alla fabbrica qualche mese dopo il suo finto licenziamento. Io arrivai con mia madre che teneva Stefano in braccio, eravamo vestiti di tutto punto e trovammo il personale schierato ad accoglierci. Già, perché non solo il sciur Maurizio era benvoluto, ma soprattutto nessuno si era sognato di mettere in dubbio la legittimità del suo ruolo, né tanto meno di denunciare l’anomalia di un direttore fuorilegge perché giudeo. Mio padre era raggiante quel giorno e mi condusse per i reparti illustrandomi il funzionamento dei macchinari e spiegandomi le lavorazioni con dovizia di particolari e di dettagli tecnici. Mi parlava con tono serio, trattandomi da adulto, e io davo continuamente segno di comprendere e apprezzare, assentendo con la testa, nel timore di fargli fare brutta figura. A quell’età probabilmente sognavo di seguire le sue orme e forse lo avrei fatto se gli eventi successivi non ci avessero costretto a cambiare i nostri programmi, sia a breve che a lungo termine. Alla fine della guerra la condizione professionale di mio padre era radicalmente cambiata e io, anche per le decisive pressioni di mia madre, scelsi di continuare a studiare e di iscrivermi all’università. Niente seta, niente telai, niente mercanti. Ho continuato a osservare quel mondo soltanto attraverso i suoi occhi, ma qualcosa ho ereditato: il culto laico per le cravatte. Ciò che oggi viene indegnamente definito come un accessorio, per lui era l’elemento essenziale dell’abbigliamento di un uomo. “Hai visto quello lì? Non portava neanche la cravatta” era l’immancabile commento quando voleva indicarmi una persona di poco conto. E sono convinto che non avesse mai digerito l’idea del suo beneamato duce di imporre la camicia nera come divisa. Passi il colore poco elegante, passi pure il primo bottone chiuso, ma portarla senza cravatta era un vero insulto al buon gusto. Fascista sì, ma distinto. In ogni caso, il clima di serenità che si respirava quel giorno durante la visita in fabbrica non aveva nulla a che 19 fare con le idee di segregazione propagandate dai razzisti dell’ultima ora. Quelle leggi Mussolini alla fine le aveva fatte sue, tradendo la fiducia anche di molti ebrei che gli erano devoti, come mio padre, ma è difficile che non sapesse che la gran parte degli italiani non le condivideva. Non soltanto fra la gente comune, ma persino fra coloro che avrebbero dovuto farle applicare. Mi torna alla mente un altro piccolo, illuminante episodio. In un tardo pomeriggio di fine aprile – o forse sarà stato maggio, quello di cui sono certo è che era finito il buio dell’inverno e la mia stanza era inondata di luce – suonò il campanello di casa. Io adoravo come tutti i bambini precipitarmi ad aprire la porta, ma il nostro corridoio era troppo lungo e – maledizione – fui preceduto dalla nostra governante. Mia madre esigeva che la chiamassi così, anche se per me era Ornella, una ragazzona alta e gentile che abitava con noi e si occupava di tante cose: fare le pulizie, lavare, stirare, cucinare, ma soprattutto giocare con me a dama o a rubamazzetto, anche se sempre più di rado purtroppo, per colpa del gran daffare che le procurava il mio fratellino nato da poco. Insomma, raggiunsi l’anticamera quando ormai era troppo tardi: Ornella mi aveva battuto sul tempo e aveva già spalancato la porta d’ingresso. «Buonasera, chiedo scusa per il disturbo, c’è la signora?» «Se vuole accomodarsi, gliela chiamo subito.» Vidi entrare un carabiniere di una certa età, grassottello, occhiali, baffetti neri sottili che sembravano disegnati a china e un grande riporto che notai perché la corrente creatasi con la finestra spalancata del salotto glielo scompigliò leggermente. Dalla radio accesa in cucina proveniva una musica di operetta, che incanalandosi lungo il corridoio giungeva come riverberata, conferendo alla scena un che di allegramente grottesco. L’uomo mi guardò con aria benevola. «E tu chi sei, come ti chiami?» 20 «Mi chiamo Vittorio.» E intanto mi domandavo: che ci sarà venuto a fare un carabiniere qui da noi? Non potevo sapere che il suo compito era quello di controllare che il comportamento della famiglia di razza ebraica abitante nell’appartamento di viale Abruzzi 72, scala A, secondo piano, porta a sinistra dell’ascensore, fosse conforme alla legge. Vediamo un po’: domestica ariana e possesso di radio. Alla faccia della conformità. Complimenti a tutta la famiglia, deve aver pensato il militare. «Buonasera, maresciallo, come sta?» La voce stentorea di mia madre lo fece sobbalzare. «Molto bene quando la vedo signora!» e le sorrise, tentando di essere seduttivo. Lei gli offrì un caffè, lui rifiutò ma lei insistette. Tutta la sua maestria e la sua teatralità furono messe in campo per stordire di chiacchiere il sottufficiale fino al momento dei saluti. «Ci venga ancora a trovare, magari al sabato quando c’è anche mio marito.» «No, ci mancherebbe, non vi darò altro disturbo.» Quando era oltre la porta, già sul pianerottolo, il maresciallo si voltò e, rivolto a mia madre, le disse a bassa voce: «Mi saluti sua... nipote... Perché è sua nipote, vero?... Intendo quella ragazza alta che è venuta ad aprirmi...». «Sì, certo, gliela saluto senz’altro» rispose mia madre con prontezza. Dopo una pausa, il sottufficiale aggiunse: «E io dirò ai vostri vicini di non tenere la radio accesa a tutto volume, d’accordo?». Senza attendere risposta, scese rapidamente le scale e si dileguò. L’Italia fascista non era pronta a diventare razzista e antisemita. Non ancora. 21