Giampaolo Azzoni Istituzioni politiche e felicità comune. 1. Aristotele

Giampaolo Azzoni
Istituzioni politiche e felicità comune.
Testo ad uso degli studenti tratto da: Giampaolo Azzoni, Dignità umana, dipendenza reciproca, felicità comune.
Relazione al 9° Convegno Nazionale SISDiC – Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile:
“Benessere e regole dei rapporti civili. Lo sviluppo oltre la crisi”, Napoli, 8-9-10 maggio 2014
1. Aristotele, principalmente nell’Etica Nicomachea e nella Politica, per primo ha indagato le
condizioni sociali ed istituzionali della felicità personale che, nella sua impostazione, è
sempre anche felicità comune.
Nella prospettiva aristotelica ‘felicità’ e ‘benessere’ sono sinonimi, in questo senso la
felicità da egli indagata ha il requisito della relativa stabilità: “come una sola rondine non
fa primavera, così un sol giorno né poco tempo non rendono l’uomo neppure beato o
felice”1: “non si è felici per un solo giorno”2.
Va però detto che nell’esperienza personale si incontra anche un tipo di felicità che si
sottrae ad ogni pretesa di stabilità e che, al contempo, ha tali caratteristiche di vividezza
che la fanno apparire una sorta di scheggia di quella felicità perfetta pensata per la
visione dell’essenza di Dio. Mi riferisco a quei tipi di vissuto che si avvicinano a ciò che
alcuni scrittori hanno chiamato “epifanie” o “momenti di essere”3: un improvviso e
imprevisto svelarsi della realtà che, ed è perciò che lo chiamiamo felicità, ci coglie in
totale armonia con essa: “per un attimo, la vita appare tutta quanta come una vita buona
e ben riuscita”4. Un tipo di felicità che è stata definita come istantanea5, episodica o
“felicità dell’attimo compiuto”6 e per la quale sembrano irrilevanti le condizioni politiche
e sociali. Per tale tipo di felicità, vale in maniera particolare la celebre ultima
proposizione del paragrafo 6.43 del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein
secondo cui “Il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice”.
La felicità istantanea ha a che fare con una dimensione estetica, ma non etica, politica o
giuridica, e, come tale, esula dalla prospettiva della dipendenza reciproca degli uomini
attorno a cui si muove il presente contributo. Tale prospettiva è invece contenuta in una
bella metafora della Politica di Aristotele secondo cui “l’essere felici non è un numero
pari”, l’essere pari, infatti, “può appartenere al tutto senza appartenere a nessuna delle
sue parti”7, ad esempio, come commenta Carlo Augusto Viano8, il numero pari 8 può
1
Aristotele, Etica Nicomachea, 1098a (tr. it. p. 109).
2
Aristotele, Etica Eudemia, 1219b (tr. it. p. 29).
3
Mi riferisco rispettivamente per le “epiphanies” a James Joyce e per i “moments of being” a Virginia
Woolf.
4
Jörg Lauster, Gott und das Glück: das Schicksal des guten Lebens in Christentum, 2004 (tr. it. p. 165).
5
Cfr. Jörg Lauster, Gott und das Glück: das Schicksal des guten Lebens in Christentum, 2004 (tr. it. pp. 153177).
6
Martin Seel, Glück, 1994 (tr. it. p. 21).
7
Aristotele, Politica, 1264b (tr. it. p. 157).
8
Aristotele, Politica, 1264b (tr. it. p. 157, n. 24).
1 essere scomposto nella somma dei due numeri dispari 3 e 5 mentre, invece, come scrive
Trevor J. Saunders9, “le parti infelici di uno stato non danno luogo ad un intero felice”.
2. Se nella prospettiva aristotelica la felicità non è un evento (come nel caso della felicità
istantanea) essa non è neppure uno stato, una disposizione personale, una héxis (in latino:
‘habitus’) 10 . Per Aristotele la felicità “specificamente umana” è una attività e,
precisamente, una “attività dell’anima”11, cioè una attività intenzionale, attività che è
solitamente resa con il termine ‘enérgeia’ (in latino: ‘operatio’12).
Nell’analizzare il nesso tra felicità personale e felicità comune, determinante è proprio la
concezione della felicità o come héxis o, seguendo Aristotele, come enérgeia.
La prima concezione (secondo cui la felicità è relativa ad una héxis) può arrivare a
considerare come irrilevante la dimensione contestuale della felicità personale
risolvendola in un’educazione di sé. La seconda concezione (secondo cui la felicità è una
enérgeia) colloca la felicità secondo una intenzionalità che si rivolge al bene conveniente
(“bonum conveniens”) e quindi arriva normalmente all’altro soggetto e, attraverso la
relazione con l’altro, alla più estesa intersoggettività sociale.
La concezione della felicità come attività è il presupposto delle contemporanee teorie di
Amartya Sen e Martha Nussbaum secondo cui il benessere non è connesso ad una
sensazione soggettiva o alla sola titolarità di certe risorse economiche, ma alle capacità di
essere persona pienamente attiva nella società in cui ci si trova ad essere (c.d. “capabilities
approach”). Ecco la ragione per cui Nussbaum rende ‘eudaimonía’ con “living a good life for a
human being” o, seguendo John Cooper, “human flourishing”.13
La felicità in quanto attività intenzionale (‘enérgeia’, ‘operatio’) si ha nella misura in cui
l’oggetto intenzionato è adeguato: per usare le parole di Tommaso d’Aquino, “la vera
natura della felicità si valuta dall’oggetto che specifica l’atto, non dal soggetto”.14
3. La felicità in quanto attività non si identifica certo con il possesso di beni esteriori, ma
li richiede in quanto “è impossibile o è difficile compiere azioni belle se si è privi di
risorse materiali”.15 Sbagliano, pertanto, coloro che ritengono che la felicità risieda nei
beni esterni, ma sbagliano altresì coloro che li ritengono irrilevanti. Come scrive
efficacemente Tommaso d’Aquino, per la felicità, “quale può aversi in questa vita, sono
richiesti i beni esteriori, non in quanto appartenenti all’essenza della felicità, ma come
mezzi a servizio della felicità”16; e nella riuscita metafora di Aristotele, i beni equivalgono
alla cetra per il suonatore di cetra.17
9
Trevor J. Saunders, Commento ai Libri I e II della Politica di Aristotele, 1995 (tr. it. p. 365).
10
Aristotele, Etica Nicomachea, 1176a-b (tr. it. p. 857).
11
Aristotele, Etica Nicomachea, 1102a (tr. it. pp. 135-137).
12
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 3, art. 2.
13
Martha C. Nussbaum, The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, 1986,
2
2001, p. 6 (tr. it. p. 53).
14
“Vera ratio beatitudinis, consideratur ex obiecto, quod dat speciem actui, non autem ex subiecto” (Tommaso
d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 5, art. 3, ad 2).
15
Aristotele, Etica Nicomachea, 1099a (tr. it. p. 119).
16
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 4, art. 7, co. (tr. it. p. 69).
17
Aristotele, Politica, 1332a (tr. it. p. 595).
2 Tra tali beni strumentali alla felicità vi sono senz’altro quelli che sono relativi alla
casualità della nascita o alle vicende fortuite della vita (i “bona fortunae”18), ma la parte più
significativa di essi è connessa propria alla dipendenza reciproca degli uomini e a cui mai
Robinson Crusoe, da naufrago isolato, avrebbe potuto accedere. Vi è un profondo
significato etico nel fatto che la felicità personale abbia bisogno di beni che il singolo
non si può procurare da solo, in quanto così vi sono i presupposti materiali della stessa
intersoggettività; secondo Aristotele, nella parafrasi di Nussbaum, “un essere solitario ed
autosufficiente non potrebbe condividere […] la conoscenza e la comunicazione di certi
valori etici fondamentali”19, così, ad esempio, “la giustizia e la generosità sono specifiche
solo dell’essere umano e sono connesse alla nostra condizione di indigenza”20.
In particolare, è solo grazie alla dipendenza reciproca che gli uomini possono accedere a
tre risorse necessarie per la loro felicità:
(i.) i beni materiali che si rendono disponibili grazie alla divisione del lavoro;
(ii.) i beni della partecipazione civica disponibili grazie alla possibilità di avere un ruolo attivo
nelle istituzioni etiche (tra cui rientrano le “formazioni sociali” di cui all’art. 2 della
Costituzione e gli ambiti in cui si curano i rapporti politici e si articola l’organizzazione
della pólis);
(iii.) i beni di relazione o relazionali (“relational goods” nella terminologia di Nussbaum)
disponibili grazie ai legami amicali e affettivi.
È ormai acquisito che uno degli errori fondamentali della politica economica della
seconda metà del XX secolo sia stato quello di fare dipendere il benessere di una nazione
quasi esclusivamente dalla diffusione del primo tipo di beni. Come, con grande anticipo,
intuì Rosmini, “quanto […] sono lontani dal calcolar bene quei politici i quali la credono
[la felicità pubblica] stare in proporzione coll’abbondanza delle cose esteriori!”.21 Ciò è
stato, almeno in qualche misura, dimostrato empiricamente a partire dal 1974 quando
l’economista Richard A. Easterlin introdusse il suo famoso paradosso (o “Paradosso
della felicità”) secondo cui vi è una correlazione positiva tra crescita della ricchezza (i
beni materiali) e felicità solo fino a un certo punto di tale crescita, dopodiché la
correlazione diventa negativa, proprio perché insieme all’aumento dei beni materiali
diminuiscono quelli civici e relazionali.
Nella prospettiva di Aristotele, gli amici rappresentano dunque “il più grande dei beni
esteriori”.22 Anche nella felicità perfetta, che consiste nella contemplazione, “è meglio se
si avranno dei collaboratori” e non si sarà soli.23 Per Aristotele, requisito dell’amicizia è la
convivenza: “nulla è così proprio degli amici quanto il vivere insieme”24; e il vivere
18
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 2, art. 4, co. (tr. it. p. 33).
19
Martha C. Nussbaum, The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, 1986,
2
2001, p. 341 (tr. it. p. 616).
20
Martha C. Nussbaum, The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, 1986,
2
2001, p. 357 (tr. it. p. 643).
21
Antonio Rosmini, Saggi di scienza politica. Scritti inediti a cura di G.B. Nicola, 1993, n. 51, pp. 20-21.
22
Aristotele, Etica Nicomachea, 1169b (tr. it. p. 807).
23
Aristotele, Etica Nicomachea, 1177a (tr. it. p. 865).
24
Aristotele, Etica Nicomachea, 1157b (tr. it. p. 721).
3 insieme “per opera dell’amicizia” è un elemento necessario della pólis, perciò in essa
“sono sorti parentadi e fratrie e sacrifici e modi per trascorrere la vita in comune”.25
Come Nussbaum parafrasa, in Aristotele, “la vita solitaria non solo sarebbe imperfetta;
ad essa mancherebbe anche qualcosa di fondamentale e difficilmente potremmo
considerarla ancora una vita umana”.26 Già Joachim Ritter scriveva che l’uomo può
realizzare le sue possibilità, essere felice, solo “nel contesto dell’essere comune degli
uomini”.27
È significativo che Tommaso ritenga che anche nella felicità perfetta che si dà con la
visione di Dio la compagnia degli amici giovi al benessere di tale felicità: “ad bene esse
beatitudinis facit societas amicorum”28, cioè in un modo addiritura analogo a quello secondo
cui, nell’analisi tommasiana, il nostro corpo risorto gioverà alla felicità dell’anima.29
4. Se la felicità in quanto attività intenzionale (‘enérgeia’, ‘operatio’) richiede la disponibilità
di beni ottenibili grazie alla dipendenza reciproca degli uomini, la pólis è il luogo in cui
tale disponibilità si dà nel modo più completo e stabile. Pertanto è solo nella pólis che
l’uomo può essere felice e, in questo senso, essa rappresenta la societas perfecta. La famiglia
e il villaggio che pure costituiscono non solo un ambito vitale, ma le articolazioni
necessarie della stessa pólis30, non consentono di provvedere all’individuo le dotazioni
necessarie per assicurarsi la propria felicità; l’autosufficienza in cui consiste la perfectio di
una societas è relativa proprio al fatto che possa da sola (senza rinvio ad altro) fornire alla
persona un insieme rilevante di tali dotazioni:
“la comunità perfetta [koinonía téleios] di più villaggi costituisce la pólis, che ha
raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere
possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una vita buona”31 ed
“è chiaro [...] che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una pólis e
chi non vive in una pólis, per la sua natura e non per caso, o è un essere
inferiore o è più che un uomo”.32
Da qui Aristotele enuncia la tesi geniale, nella sua apparente controintuitività, della
anteriorità logica (anche se, ovviamente, non storica) della pólis rispetto alla famiglia ed
allo stesso individuo, in quanto è solo nella pólis che l’uomo raggiunge la sua pienezza
antropologica: “Nell’ordine naturale la pólis precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti,
il tutto precede necessariamente la parte”. 33
Come ha scritto Ritter, “con la pólis è entrata per la prima volta nella storia una forma di
25
Aristotele, Politica, 1280b (tr. it. p. 269).
26
Martha C. Nussbaum, The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, 1986,
2
2001, p. 351 (tr. it. p. 634).
27
Joachim Ritter, Das bürgerliche Leben: Zur aristotelischen Theorie des Glücks, 1956, 21969, p. 89 (tr. it. p. 79).
28
Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 4, art. 8, co. (tr. it. p. 71).
29
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 4, art. 5, ad 5 (tr. it. p. 66).
30
Cfr. Aristotele, Politica, 1280b (tr. it. p. 269).
31
Aristotele, Politica, 1252b (tr. it. p. 77).
32
Aristotele, Politica, 1253a (tr. it. p. 77).
33
Aristotele, Politica, 1253a (tr. it. p. 79).
4 società il cui soggetto è l’uomo in quanto uomo”, “nella particolarità e nella piccolezza
della sua realtà storica si nasconde un principio universale”.34 Infatti, l’esempio della pólis
ha un valore teoretico e non storiografico. Già all’epoca di Aristotele, segnata dalla figura
di Alessandro, la pólis storica “piccola, autarchica, trasparente e fondata sull’amicizia tra i
cittadini” apparteneva al passato.35
In tale contesto, la felicità comune si riferisce, metonimicamente, soprattutto alle
condizioni istituzionali della felicità personale: tanto più una comunità è felice quanto più
le persone che la compongono possono diventare felici e stabilmente continuare ad
esserlo. Felicità personale e felicità comune costituiscono, dunque, i termini di una
relazione in cui l’uno rinvia all’altro senza esaurirlo: la felicità personale non si risolve in
una universale felicità comune (organicismo) e quest’ultima non è la mera somma di
felicità personali (atomismo). Ritter con efficacia scrive:
“Il movimento in cui il particolare giunge alla sua destinazione è insieme il
movimento in cui si realizza l’universale. Questa duplicità di movimento è al
centro della filosofia aristotelica. L’universale senza il “questo” non ha alcuna
realtà, il “questo” senza l’universale non ha alcun essere”.36
5. Senza il contesto civile e istituzionale della pólis non vi è la possibilità di una felicità
personale che abbia il requisito della relativa stabilità; Aristotele, con bella immagine,
dice che il singolo uomo sarebbe isolato come una pedina sulla scacchiera.37
Dunque, la felicità personale si dà entro un contesto di felicità comune, ma l’idea di una
felicità comune che prescinda da una felicità personale e al contempo la realizzi è solo
un’idea astratta la cui attualizzazione è contraddittoria con tale idea. Cioè, la connessione
tra felicità personale e felicità comune può condurre a un grave errore teoretico che ha
avuto tragiche conseguenze storiche: rimettere la realizzabilità di una felicità personale ad
una previa felicità comune. E ciò non solo nell’ipotesi di risolvere la felicità personale
nella felicità comune considerando la prima mero epifenomeno della seconda in un
quadro ultimamente organicistico e totalitario delle relazioni tra singolo e società
(comunismo), ma anche nell’ipotesi di piena valorizzazione delle specifiche e
differenziali esigenze di felicità del singolo rispetto alle quali la felicità comune è
chiamata ad essere una condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente
(anarchismo). In tali prospettive, i singoli troverebbero la loro felicità nel fatto di
partecipare ad una felicità comune.
Una certa lettura di Platone (si pensi a quella di Karl Popper) potrebbe ascrivere il
modello dello Stato presente nella Repubblica (di cui è emblematico il dialogo tra Socrate e
Adimanto) alla concezione che privilegia la felicità comune rispetto a quella personale.38
E anche, secondo Ritter, Aristotele criticherebbe Platone poiché nella sua opera “la
34
Joachim Ritter, Das bürgerliche Leben: Zur aristotelischen Theorie des Glücks, 1956, 21969, p. 71 (tr. it. p. 63).
35
Robert Spaemann, Glück und Wohlwollen. Versuch über Ethik, 1989 (tr. it. pp. 79-80).
36
Joachim Ritter, Das bürgerliche Leben: Zur aristotelischen Theorie des Glücks, 1956, 21969, p. 93 (tr. it. p. 83).
37
Aristotele, Politica, 1253a (tr. it. p. 77).
38
Anche se per Platone invece che di felicità personale più correttamente si dovrebbe parlare di felicità di
gruppi, di insiemi di cittadini, contrapposta alla felicità dell’intera pólis; cfr. Platone, Repubblica, Libro IV,
419a ss.
5 positività del “questo” si volatilizza nell’universale, così come per i Sofisti la positività
dell’universale si perde nel “questo””. 39
Ma, soprattutto, è molto utopismo sociale che condivide il presupposto eudemonologico
secondo cui le felicità personali non potrebbero darsi prima della realizzazione di una
felicità comune e si daranno senz’altro una volta che questa si sia realizzata. Ogni ricerca
di felicità personale prima del tempo costituirebbe quindi una manifestazione di
ingenuità che andrebbe educata, una piccineria angusta o, peggio, un attentato o un
ostacolo all’edificazione della felicità comune. Anche sotto tale profilo, l’utopismo
sociale rappresenta una versione secolarizzata della promessa di un paradiso e, in
particolare, la felicità personale una versione secolarizzata della felicità perfetta, della
beatitudo: come la beatitudo si darà solo nella visione di Dio, così la felicità personale si
darebbe solo in un contesto di previa felicità comune.
A questo punto è opportuno ricordare una fondamentale e attualissima distinzione
operata da Rosmini: quella tra bene comune e bene pubblico. Mentre il bene comune “è il
bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale, e che sono soggetti di
diritti”40 e, quindi, è l’insieme dei diritti dei singoli cittadini41, “il bene pubblico all’incontro
è il bene del corpo sociale preso nel suo tutto, ovvero preso [...] nella sua
organizzazione”42. Per Rosmini, “il principio del bene pubblico sostituito a quello del
bene comune, è l’utilità sostituita alla giustizia; è la Politica, che, preso nelle sue mani
prepotenti il Diritto, ne fa quel governo che più le piace”.43
E in Rosmini il bene pubblico assume le caratteristiche che in Trasimaco aveva la
giustizia come utile del più forte: “Nella forma democratica, il bene pubblico si suol fare
consistere nel bene della maggioranza; Nella forma aristocratica, per bene pubblico
s’intende il bene delle famiglie nobili che governano lo Stato; Nella forma monarchica
[...] il bene della famiglia che governa lo Stato [...] e poi il bene delle famiglie e de’ corpi
con essa collegati di servigi e d’alleanze”.44
6. Se la pólis rappresenta la condizione della felicità personale, non si ha felicità personale
qualora non vi sia un’organizzazione sociale o essa sia dominata da un tiranno.
Il primo caso è quello dei Ciclopi che, come si legge nell’Odissea (IX, vv. 112-115): “Non
hanno assemblee di consiglio, non leggi, / ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime /
in grotte profonde; fa legge ciascuno / ai figli e alle donne, e l’uno dell’altro non cura”.45
Riguardo al secondo caso, Aristotele esplicitamente menziona le tesi di coloro che
“sostengono che solo una politica di tipo dispotico e tirannico sia in grado di rendere
felici”46 e, in contrapposizione ad essi, riporta il famoso episodio del re Creso narrato da
39
Joachim Ritter, Das bürgerliche Leben: Zur aristotelischen Theorie des Glücks, 1956, 21969, p. 96 (tr. it. p. 85).
40
Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, 1841-1843, §1644.
41
Cfr. Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, 1841-1843, §1661.
42
Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, §1841-1843, §1644.
43
Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, 1841-1843, §1647.
44
Antonio Rosmini, Filosofia del diritto, 1841-1843, §1658. Il passo di Trasimaco qui ripreso è in Platone,
Repubblica, 338e.
45
Omero, Odissea, IX, vv. 112-115 (tr. it. p. 235). I Ciclopi sono citati da Aristotele in Etica Nicomachea,
1180a (tr. it. p. 883) e in Politica, 1252b (tr. it. p. 75). Cfr. Martha C. Nussbaum, The Fragility of Goodness:
Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, 1986, 22001, p. 351 (tr. it. p. 635).
46
Aristotele, Politica, 1324b (tr. it. p. 547).
6 Erodoto nel primo Libro delle Storie.47 Ricordo di seguito, in estrema sintesi, l’episodio
perché in esso si staglia la figura di Tello di Atene che ben può rappresentare l’unione di
felicità personale e di felicità comune.
Creso, re della Lidia, mostra a Solone le sue enormi ricchezze chiedendogli chi fosse
l’uomo più felice del mondo “nella segreta speranza di essere lui stesso indicato come il
più felice degli uomini”.48 Solone gli risponde che riteneva che il più felice al mondo
fosse stato Tello di Atene. È da notare che Solone, pur avendo visitato “gran parte della
terra”, scelga un uomo di Atene, ma soprattutto è da notare che egli fosse un semplice
cittadino (cosa che con stizza sottolineò lo stesso Creso49) e che la felicità di Tello sia
totalmente intessuta con la città di Atene. Tello ebbe figli belli e buoni “in un momento
di splendore per la città”; morì in modo glorioso in battaglia; e “gli Ateniesi lo
seppellirono a spese pubbliche là, nel luogo stesso dov’era caduto, e gli tributarono
grandi onori”.50
Facendo uso di categorie della filosofia e della semiotica contemporanea, si può
affermare che il tiranno è la contraddizione performativa, l’autocontradditorietà
pragmatica, della felicità (in quanto azione): infatti, il tiranno vuole essere felice
attraverso modalità che precludono a lui ed altri la felicità, ma che della felicità possono
avere le sembianze esteriori.
47
Erodoto, Storie, I, 30-32 (tr. it. pp. 33-39). Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1100a (tr. it. p. 123),
1179a (tr. it. p. 875).
48
Erodoto, Storie, I, 30 (tr. it. p. 33).
49
Erodoto, Storie, I, 32 (tr. it. p. 37).
50
Erodoto, Storie, I, 30 (tr. it. p. 35).
7