“As you like it” a Oxford
Una recensione di Paolo Vacca (III B a.s. 2011/12)
Shakespeare vive, la sua poesia scorre come una linfa vitale nelle vene di artisti che dopo secoli,
ancora oggi, rievocano con la loro arte la grandezza del bardo dell’Avon; la sua sensibilità esplode
come un fiume in piena nella potenza della voce, nella vitalità dei movimenti e dei gesti. Una
bellezza che si concretizza in suoni, e colori, si propaga nell’aria come un’onda sonora e raggiunge
direttamente il cuore del pubblico, abbattendo qualsiasi barriera temporale. Shakespeare, in una
mite estate inglese, vive.
Gli attori dello Shakespeare Globe Theatre di Londra sono noti in tutto il mondo per essere i
principali detentori del genio shakespeariano, reso immortale dalla loro travolgente e ardente
passione. Oxford, il prestigioso centro culturale britannico, non poteva non venir coinvolta dalla
magia del teatro. Migliaia di persone hanno preso posto nel sontuoso chiostro della Bodleian
Library, prima biblioteca universitaria della Gran Bretagna, per assistere alla performance della
commedia “As you like it” (“Come vi piaccia” nella traduzione italiana). E tra quella folla di inglesi
d’ogni età, cresciuti sui versi del loro amatissimo poeta nazionale, v’era anche il sottoscritto,
leggermente intimidito dalla solennità del luogo, timidamente aggrappato ad una copia economica
della commedia, acquistata al singolare prezzo di due sterline.
Le campane, alle 19 in punto, annunciano l’inizio della performance; tutto a un tratto, l’allegro
vociare del pubblico si tramuta in un rigoroso e intenso silenzio.
L’elegante umorismo e la vivacità degli attori si palesa di fronte a me fin dal principio, quando per
mezzo di una breve ma divertentissima coreografia veniamo esortati a spegnere i cellulari, o quando
uno degli attori scherza sulla posizione delle toilettes, inserite oltre un’austera porta che recita
“Schola Moralis Philosophiæ”.
Non sto qui a raccontarvi la ricca e intricata trama della commedia – evitiamo di dar ulteriore
nutrimento alla mia poco piacevole prolissità – vi invito tuttavia a leggerla voi stessi,
preferibilmente in lingua originale. Una lingua che Shakespeare sapeva maneggiare con maestria,
oserei dire che quasi giocasse con l’immensa varietà lessicale che l’inglese offre. In un verso, è
capace di raccontare diverse storie, esprimere diversi concetti. Un esempio? Quando Pietraccia
(ingl. Touchstone), il clown che accompagna le protagoniste femminili, dice: “Io mi sento, con te e
le tue capre, come il più capriccioso dei poeti, l’onesto Ovidio, stava in mezzo ai Goti” (“I am here
with thee and thy goats, as the most capricious poet, honest Ovid, was among the Goths”) mette in
atto un finissimo gioco di parole: ora, sorvolando l’errore storico – Ovidio stette tra i Geti, non tra i
Goti – Shakespeare sfrutta l’omofonia della pronuncia elisabettiana tra la parola goats (capre) e
Goths (goti, appunto) enfatizzando lo stato di “soffocamento intellettuale” che il personaggio vive
in quel determinato contesto, fornendo inoltre un forbito insulto nascosto tra le righe. E questo è
niente, la produzione poetica di Shakespeare conta innumerevoli esempi del fine labor limæ che egli
applica alla lingua.
Ma ora, entriamo dentro la performance vera e propria: verso dopo verso, scena dopo scena, gli
attori – artisti nel pieno significato di questo termine – si cimentano oltre che nella recitazione, nella
musica e nel canto, tanto che la scenografia – una spoglia parete in legno prima, il dipinto di una
selva poi – risultano quasi di cornice, i gesti e le parole sono sufficienti a costruire magicamente
uno specifico ambiente. Inoltre, ciò che maggiormente sorprende, soprattutto se si conosce già in
precedenza la storia, è quanto gli attori calzino perfettamente le personalità interpretate: la svampita
ma dolce Celia, l’intraprendente e frizzante Rosalinda, l’ingenuo innamorato Orlando.
Personalmente ritengo che Gunnar Cauthery, Ben Lamb, Jo Herbert, Beth Park… (alcuni membri
del cast) abbiano concretamente dato vita a quei lineamenti, quei caratteri che avevano preso vita
nella mia mente mentre leggevo in anteprima la commedia. La naturalezza dei movimenti, delle
espressioni, rendono il dramma un’opera senza tempo, come dimostra il significativo utilizzo di
costumi appartenenti ad un’epoca più tarda rispetto a quella elisabettiana.
Tuttavia fino a questo momento mi sono limitato a descrivere l’aspetto esteriore di quest’esperienza
diretta con la poetica shakespeariana. Per cogliere il senso di questa commedia tanto criticata in
passato, per carpirne il cuore, basta chiudere gli occhi e concentrarsi sulle singole parole, quali sono
quelle che più spesso risuonano su quel palco? Semplice, “Fool”, “Man”, “Love”. Perché in ogni
opera, dalle commedie, alle tragedie e ai sonetti, vi è l’uomo folle, incarcerato nelle sue passioni e
nell’ineluttabilità del tempo. Eccolo, l’uomo shakespeariano presentato con straordinario realismo,
anche là dove l’edonismo sembra prevalere. L’uomo folle di passione, l’uomo folle che vive una
vita drammatica, un dramma. E a questo punto è inevitabile arrivare al cuore di “As you like it”. Il
monologo di Jacques, personaggio malinconico e costantemente in contemplazione, è stato senza
dubbio il momento più emozionante della rappresentazione, dove il tópos del binomio vita/teatro ha
raggiunto un altissimo livello di poesia. “Il mondo è tutto un palcoscenico sul quale tutti noi, uomini
e donne, siam solo attori, con le nostre uscite e le nostre entrate; ove ciascuno, per il tempo che gli è
stato assegnato, recita molte parti […]”. Segue una realistica (e forse cruda, in certi momenti)
descrizione delle sette età attraverso le quali l’uomo cammina come trascinato da un’invincibile
corrente, fino ad arrivare all’ultimo istante, quando egli giunge ad una meta sconosciuta e
inquietante “sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything” – senza denti, senza occhi (= vista),
senza gusto, senza tutto.
E quasi dimenticavo, un aspetto interessante, che da italiano non potevo non notare, è stato un
palese rimando ad Ariosto e al suo Orlando Furioso (non per niente, il protagonista di questa
commedia si chiama anch’egli Orlando). Oltre a certi episodi chiaramente ariosteschi - vedansi le
poesie rivolte a Rosalinda appese ad ogni singolo albero della foresta di Arden, o il nome di
Rosalinda inciso sulla loro corteccia - l’intera commedia rivive quella ricerca di edonismo, ricerca
di amore totalizzante. Ma dietro a questo luminoso sogno di perfezione, giace un’ombra pronta ad
oscurare la luce, la consapevolezza della volubilità e mortalità delle cose. Shakespeare conosceva
approfonditamente i caratteri umani nella loro molteplicità e il disagio che intercorre nei momenti
essenziali della vita, come l'amore, che completa e divide allo stesso tempo.