Una città aperta e innovativa di Salvatore Carrubba Assessore alla Cultura e ai Musei del Comune di Milano Per rafforzare il proprio ruolo, Milano ha bisogno di un progetto condiviso da tutte le sue componenti e di una classe dirigente che lavori per valorizzarne le eccellenze È interessante incrociare le conclusioni delle ricerche effettuate per la Camera di Commercio di Milano dal Certet e dal Cesdi con quelle dello studio effettuato recentemente per il Comune da Gianpaolo Fabris sul grado di soddisfazione nei confronti della nostra città. Nella ricerca del Cesdi, relativa alle testimonianze di osservatori privilegiati, mi ha colpito un certo grado di pessimismo che fa emergere una visione della città più grigia di quella che emerge dalla ricerca del Certet ed alle percezioni dei cittadini. I nostri testimoni privilegiati, per esempio, denunciano che Milano sia debole dal punto di vista della competitività nel campo della ricerca applicata e dell’innovazione produttiva; leggiamo però nelle conclusioni della ricerca del Certet che proprio questo è uno dei punti di forza della nostra città. All’interno dell’analisi dell’indicatore della capacità innovativa, infatti, Milano dimostra di avere buone prospettive, collocandosi: al sesto posto nel macro indicatore generale; al terzo nell’aggregato brevetti registrati all’anno; al quarto e sesto negli aggregati riferiti al settore della ricerca e sviluppo; al secondo nell’aggregato addetti al settore hi-tech; al quinto per numero di studenti universitari. Sono stato colpito anche da un’altra risposta contenuta nel sondaggio degli osservatori privilegiati, relativa alle esigenze culturali, laddove si indicano come esigenze realtà che il Comune sta realizzando: quelli che ai cosiddetti osservatori privilegiati appaiono obiettivi, sogni da realizzare, sono in realtà cose che si stanno facendo, quasi a dimostrazione di una radicata incapacità di conoscere o di un rifiuto a prendere atto di quello che si fa nella nostra città. Questo curioso paradosso richiama quello che mi pare uno dei principali limiti di Milano: la difficoltà di capirsi, di parlarsi, di fare sistema e di costruire una autentica classe dirigente. Questo è un elemento che emerge con forza dalla ricerca del Cesdi, sul quale condivido la preoccupazione e che fa pensare; è particolarmente preoccupante, infatti, che gli esponenti della classe dirigente di Milano sostengano che a Milano non c’è classe dirigente. Milano è una capitale d’Europa? La domanda mi lascia perplesso nel senso che evoca tempi ormai passati. Il concetto di capitale, infatti, si adatta ad un sistema di Stato forte e di Stato centralista, in cui le capitali in Europa erano capitali di imperi. Oggi viviamo in una logica totalmente diversa e in una realtà che va verso Stati leggeri e assetti federali, verso architetture reticolari e logiche di sussidiarietà nelle quali non ci possono essere capitali, ma gangli, o meglio hub, interconnessioni, grandi centri: la logica della capitale in quanto espressione di uno Stato forte e centralista è ormai superata. Milano è certamente una di queste grandi città europee, lo è da 2000 anni. Oggi deve rafforzare questo ruolo, deve essere consapevole che non ci sono più posizioni acquisite alla luce della globalizzazione che rende continua e tesa la sfida con altre città intermedie, da Lione a Barcellona a Francoforte. Lo scontro dunque si fa più insidioso perché gli avversari non sono solo le grandi capitali ma il reticolo delle città medio-grandi dotate di ambizioni regionali e di vocazioni particolari. Milano, alla luce di questo fenomeno, deve rafforzare il proprio ruolo e difendere la sua capacità di attrazione rispetto alle altre grandi città europee. Aspetti da migliorare La ricerca ci offre spunti interessanti da questo punto di vista. Sul campo della dotazione culturale la nostra città emerge abbastanza male; dalla ricerca, per esempio, risulta che a Milano ci sono pochi musei. Se però si va a scavare nella metodologia risulta che la ricerca considera solo i musei pubblici: questo vuol dire amputare Milano di musei come l’Ambrosiana, il Poldi Pezzoli, il Museo della Scala, il Museo Diocesano, quindi offrire un’immagine assai diversa dalla realtà. Per quanto riguarda le biblioteche, la ricerca prende in considerazione non l’ambito cittadino, ma quello provinciale. Questo significa che le conclusioni vanno lette in una logica d’area provinciale. Emerge allora il primo problema di Milano, rappresentato dall’assetto istituzionale della città: la ricerca dimostra infatti che la logica urbana di una città grande per vocazione e piccola per territorio com’è Milano non può funzionare. Non si tratta di aprire polemiche fra Comune e Provincia, o di spartirsi competenze, ma di aprire il dibattito per giungere a un nuovo assetto istituzionale, che probabilmente non contemplerà più né Comune né Provincia. Il nuovo Titolo V della Costituzione già indica la strada; certo è che l’assetto tradizionale della città di Milano non può permettere di governare i grandi problemi che essa si trova ad affrontare. Il traffico è uno di questi problemi, ma pensiamo anche alle infrastrutture, all’ambiente, all’inquinamento, alla sicurezza. L’assetto istituzionale dunque è un aspetto fondamentale sul quale dobbiamo riflettere e prendere rapidamente delle decisioni. La seconda esigenza che si pone a Milano per restare una grande città europea e per vincere la competizione nella quale è immersa è quella di valorizzare, di trasmettere e di comunicare ciò che si sta facendo. Milano ha una totale incapacità di comunicazione all’estero e di consapevolezza all’interno sull’importanza dei progetti che si stanno attuando. Queste realizzazioni non andranno a vantaggio di una maggioranza, di una Giunta o di un gruppo politico, ma della città e diventeranno perciò risorse importanti per Milano e per l’Italia. Non è un caso che, nella ricerca recentemente presentata dal prof. Fabris, l’immagine della nostra città nel campione degli intervistati nazionali sia molto positiva e in miglioramento; passano infatti dal 70 al 71% coloro che pensano che Milano è una vera e propria capitale europea, aperta alle novità, rivolta al futuro, ricca di eventi, spettacoli e manifestazioni, con molte offerte per i giovani, che essa è molto diversa dalle altre grandi città italiane, che è una città ben amministrata in cui convivono bene persone provenienti da tutto il mondo. Tutti questi aspetti positivi che vengono percepiti dagli altri italiani, noi milanesi non sappiamo comprenderli né valorizzarli. Anche sui caratteri distintivi di Milano, emerge una consapevolezza fra gli italiani di una città molto più internazionale che provinciale, molto più moderna che antiquata, molto più dinamica che statica, molto più efficiente che inefficiente e sicuramente di una città che è la meglio amministrata in Italia. Questa ricerca dimostra come paradossalmente Milano sia più italiana che milanese, come ci sia un attaccamento alla città maggiore da parte dei connazionali che non dai concittadini. Ma anche i milanesi, oggi più che in passato, giudicano la loro città aperta alle novità, rivolta al futuro, una vera e propria capitale europea che offre molte possibilità per i giovani (con un miglioramento rispetto all’analisi precedente del 9%). Viene dunque percepito un miglioramento, un cambiamento in meglio nella città e un aumento della soddisfazione per la città. Si tratta di un dato importante da giudicare senza trionfalismi ma da valorizzare. Si possono fare numerosi esempi sull’incapacità di Milano di valorizzare ciò che realizza. Pensiamo alla Scala, sia per quello che riguarda gli Arcimboldi sia per quello che riguarda il nuovo progetto per il restauro della sede storica. Per gli Arcimboldi abbiamo realizzato in 27 mesi un nuovo Teatro lirico dotato di risorse tecnologiche all’avanguardia, di indubbio valore architettonico, di ottima acustica, a un prezzo risultato il più basso per poltrona di tutte le recenti realizzazioni analoghe in Europa. Questo è un risultato che qualunque altra città avrebbe trasmesso a tutto il mondo come un segnale di capacità di realizzazione e di progettualità che non ha molti paragoni in Europa. Milano non è stata capace di trasmettere questo fatto, ha quasi cercato di ridurre l’apertura degli Arcimboldi a quella di un teatro di periferia, non ha nascosto in certi ambienti la delusione per un buon risultato raggiunto. Il nuovo restauro della sede del Piermarini permetterà di avere un grande teatro lirico, ai livelli di competitività con i grandi teatri lirici internazionali, con un segno architettonico significativo che arricchirà anche il centro di Milano: un grande architetto internazionale come Mario Botta torna a lavorare a Milano dopo molti anni per una committenza pubblica. Anche in questo Milano dimostra dunque una capacità di innovazione e di risposta alle esigenze delle grandi eccellenze culturali, che non ha avuto molti riscontri negli altri anni. Ricordo che l’intervento dell’architetto Botta va ad aggiungersi a tanti altri interventi di grandi architetti, perché a Milano stanno lavorando – chiamati dal Comune – David Chipperfield, Italo Rota, Alvaro Siza. Un progetto per la città Terza questione è l’incapacità di costruire un senso di appartenenza e di identificazione intorno a un progetto condiviso. Questa è la debolezza vera della nostra città, è la mancanza di quello che Salvatore Veca ha recentemente chiamato il “totem di riferimento” e che viene sottolineato nella ricerca che il prof. Fabris ha condotto per il Comune di Milano. Nella ricerca emergono infatti molte percezioni positive e un netto miglioramento della situazione, ma viene sottolineata l’esigenza di costruire o di trasmettere o di comunicare una spinta ideale e una visione prospettica. A Milano sembrano non esserci grandi slanci, prospettive o strategie, sembra prevalere una logica di azione micro-tattica. Si sottolinea l’esigenza, ormai richiamata sempre più di frequente, di costruire un progetto per la nostra città che sia compreso e condiviso e sul quale si ritrovi tutta la città. Questo progetto a Milano, storicamente, non l’ha mai fatto la politica; l’ha fatto tutta la città. Tutte le grandi trasformazioni che hanno avuto luogo a Milano sono state frutto di una maturazione lenta e profonda nella città. Questa è ed è stata sempre la forza di Milano. La politica deve sì continuare a svolgere, come in passato, la funzione di cabina di regia, della sede in cui si discutono e si propongono le linee di sviluppo; ma dobbiamo ricordare che non è mai stata e non sarà mai la politica a indicare da sola una direzione a Milano. Questa direzione nasce da Milano, ed è in questo senso che individuo una debolezza della classe dirigente. Questa città ha sicuramente tante classi dirigenti a livello imprenditoriale, accademico, professionale e politico. Non è certo un caso che il Presidente del Consiglio sia milanese. Ci sono dunque tante eccellenze in questa città, ma manca la capacità di questi spezzoni di classi dirigenti di farsi classe dirigente complessiva e collettiva. Voglio proporre un esempio della discrasia tra ciò che si realizza e la mancanza di un modello in cui si colloca ciò che si realizza, ossia la grande trasformazione urbanistica in corso: Milano sta ristrutturando Bicocca, Bovisa, l’ex area OM, il Portello e tante altre aree rimaste abbandonate per anni. Si tratta di uno tra i maggiori processi di trasformazione urbanistica in corso in Europa: ebbene, questo processo di trasformazione lo lasciamo avvenire per semplici atti amministrativi e politici, o ci poniamo il problema di che cosa possa rappresentare nella trasformazione complessiva della nostra città e nella stessa definizione del suo ruolo e delle sue vocazioni? Propongo un altro esempio, il cablaggio: è certo motivo di fierezza che Milano sia la città meglio cablata d’Europa, e che a questo risultato si sia giunti con una collaborazione pubblico/privato. Ma adesso come utilizzeremo questa grande risorsa? Quali sono i servizi che, attraverso il cablaggio, potremo garantire per migliorare la qualità della vita dei cittadini e aumentare l’attrattività della nostra città? Ecco come di nuovo si pone l’esigenza di una riflessione collettiva. Terzo esempio, la Fiera col nuovo Polo: Milano avrà la più grande Fiera del mondo. Che cosa significherà questo? E cosa faremo del polo vecchio? Quest’ultima decisione offrirà l’opportunità di trasformare la nostra città e di dotarla di quelle grandi infrastrutture e di quelle grandi risorse che ancora oggi le mancano per difendere e rafforzare la sua competitività e la sua attrattività. Su questi punti non si può chiedere che siano esclusivamente i soggetti privati o istituzionali interessati da un lato, o la politica dall’altro a farsene carico. Deve essere tutta la città a esprimere una classe dirigente che comprenda, affronti e risolva questi problemi, lavorando per rafforzare l’eccellenza della nostra città. Anzi, le eccellenze, che non sono soltanto quelle tradizionali, ma sono, per esempio, quelle che si stanno manifestando in campi nuovi di grande significato come la comunicazione, le nuove tecnologie, l’ information technology. Tutti ambiti nei quali Milano non fa che confermare il proprio tradizionale ruolo e il proprio consolidato primato, affermatosi storicamente nei campi dell’educazione, dell’editoria, dell’informazione, della creatività, che non è solo moda, o solo design, ma è l’area sulla quale Milano può e deve investire per rafforzare il suo ruolo di grande città europea. Io non penso che l’attrattività di una città si difenda o si rafforzi soltanto misurandola in chilometri di metropolitana. Tutte le trasformazioni positive che stanno avendo luogo nelle grandi città del mondo hanno avuto luogo nella direzione, come ha detto uno studioso americano, di aumentare il tasso “di gioia” che una città può assicurare. Questo vuol dire credere in una città, condividere dei progetti, sapere quali sono i punti di forza sui quali si può costruire il nostro presente. Questi punti di forza per Milano sono essenzialmente due: l’essere stata sempre e dover rimanere una città aperta; l’essere stata sempre e il dover rimanere una città innovativa. Queste sono le vere caratteristiche uniche, peculiari della nostra città, sicuramente a livello nazionale. Due doti e due risorse che vanno messe al servizio della sfida della globalizzazione. Per questo serve un’idea di città condivisa. Per questo serve una riflessione vera sulla capacità della nos tra classe dirigente di dare vita a questo processo: una classe dirigente che non può limitarsi ai politici. Per questo occorre una seria politica di marketing urbano, che non siamo ancora stati in grado di fare: a Milano abbiamo costruito in 27 mesi un Teatro lirico, ma non siamo stati ancora capaci di realizzare l’Agenzia per il marketing, cioè uno strumento del quale si sono dotate tutte le città per comunicare e trasmettere quello che si sta facendo. Bisogna insomma difendere e ritornare alla tradizione borghese nella nostra città, dove il termine “borghese” va inteso non in senso classista ma di identificazione in valori di sobrietà, di collaborazione, di fattività, di attaccamento alla comunità. Tutti quei valori che costituivano un’autentica cultura collettiva. Questa capacità passava anche da strumenti di partecipazione alla formazione delle scelte pubbliche che oggi non ci sono più (pensiamo ai circoli). Occorre fare di tutto per riaffermarla, perché Milano possa di nuovo contare su una rete per favorire la partecipazione a scelte collettive che, al di là delle scelte di schieramento politiche, riguardano tutti e condizionano il futuro di tutti.